GLI ANNI DEL DUCATO DI FERRARA
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LA GUERRA LAMPO DI GIULIO CESARE
IL REGNO DI PEPI II ISOLA DI PASQUA
- ESCE IL 21/06/2019 - POSTE ITALIANE S.P.A SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE D.L. 353/2003 (CONV. IN L. 27/02/2004 N° 46) 1 COMMA 1 - LO/MI. GERMANIA 12 € - SVIZZERA C. TICINO 10,20 CHF - SVIZZERA 10,50 CHF - BELGIO 9,50 €
IL TRACOLLO DI UNA CIVILTÀ
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LE CITTÀ DI FANGO SUMERE VENI, VIDI, VICI
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PERIODICITÀ MENSILE
LUCREZIA BORGIA
N. 125 • LUGLIO 2019 • 4,95 €
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LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA
IL SAPERE PERDUTO
Comune di Gubbio
V^ EDIZIONE
DONNE L’ALTRO VOLTO DELLA STORIA
GUBBIO 25/29 settembre 2019 Associazione culturale Festival del Medioevo www.festivaldelmedioevo.it info@festivaldelmedioevo.it
Sostenitori
GRUPPO AZIONE LOCALE ALTA UMBRIA
EDITORIALE
NELLA CITTÀ STATUNITENSE di Cody, nel Wyoming, si trova
il Buffalo Bill Center of the West. Lì, in una delle teche, i visitatori possono contemplare ciò che resta del famoso fucile Springfield calibro 50 utilizzato da William F. “Buffalo Bill” Cody, l’avventuriero, esploratore e imprenditore circense che da il nome al recinto in cui si trova il fucile e alla città stessa, di cui fu il fondatore. L’arma che Cody iniziò a imbracciare intorno al 1867 per uccidere bufali ha un nome: Lucretia Borgia. A quanto sembra decise di battezzarla così perchè gli sembrava splendida e letale come l’omonimo personaggio, che a quel tempo era protagonista di romanzi, della tragedia di Victor Hugo e di un’opera di Donizetti basata sul testo dello scrittore francese, che raggiunse un successo spettacolare sia in Europa sia negli Stati Uniti. Probabilmente la Lucrezia storica non era né la depravata incestuosa né la perfida avvelenatrice che nel XIX secolo divenne protagonista di libri, palcoscenici e dipinti come quelli che le dedicarono Dante Gabriel Rossetti o Alfred Elmore. La leggenda nera di Lucrezia Borgia proviene dal suo stesso tempo: coloro che infangarono il suo nome lo fecero con il proposito di screditare la famiglia di papa Alessandro VI, del quale era figlia. Ed ebbero successo: il mondo li credette per oltre quattrocento anni e ancora oggi molte persone vedono Lucrezia come l’esempio perfetto di donna corrotta e traditrice. Oggi, con l’avvento dell’era social, rovinare la reputazione di una persona è infinitamente più facile, rapido e distruttivo che cinque secoli fa. È bene tenerlo presente prima di cliccare su «mi piace» o di ritwittare un’informazione.
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8 GRANDI INVENZIONI
26 VITA QUOTIDIANA
Intorno al 1635 l’inglese Kenelm Digby creò un tipo di bottiglia più resistente e facile da trasportare.
A loro le famiglie dell’Urbe affidavano la cura dei bambini.
La bottiglia di vetro
10 PERSONAGGI STRAORDINARI Cristina Trivulzio
Giornalista, patriota e viaggiatrice dedicò la sua vita alla lotta per un’Italia libera e unita.
16 ANIMALI NELLA STORIA Il gorilla
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Nel 1861 un viaggiatore americano divenne famoso per aver fatto conoscere i gorilla al mondo.
Le nutrici a Roma
30 MAPPA DEL TEMPO
L’Africa sconosciuta Nel XVIII secolo il continente era ancora un mistero per gli europei.
122 GRANDI ENIGMI
Lo strano caso Lafarge Grazie a un esame scientifico Marie Lafarge venne giudicata colpevole dell’omicidio del marito.
128 MOSTRE
18 EVENTO STORICO
Suicidi letterari La pubblicazione del libro I dolori del giovane Werher innescò un’ondata di suicidi fra i giovani.
24 OPERA D’ARTE I vasi Yang
I famosi pezzi cinesi del XIV secolo sono custoditi al British Museum. 4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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88 LA SCOMPARSA DELLA CULTURA RAPA NUI L’ISOLA DI PASQUA era un ecosistema perfetto, isolato dal resto del mondo da chilometri e chilometri di oceano. Fino a oggi il tracollo dell’isola si era attribuito all’eccessivo sfruttamento delle sue risorse da parte della popolazione autoctona, i rapa nui. Ma secondo alcune recenti teorie i diversi cambi climatici e lo sbarco sull’Isola di Pasqua degli europei contribuirono alla distruzione del mondo rapa nui. DI VALENTÍ RULL DEI MOAI, LE GRANDI SCULTURE CHE DOMINANO L’ISOLA DI PASQUA NEI PRESSI DEL LAGO RARAKU, DOVE FURONO SCOLPITI.
32 Pepi II, l’ultimo faraone della VI dinastia Durante gli oltre sessant’anni del regno di Pepi II il ferreo controllo del faraone sul popolo egizio si deteriorò a favore dei governanti provinciali. Le fonti tramandano che alla sua morte il Paese piombò nel caos. DI ANTONIO PÉREZ LARGACHA
46 I sumeri e l’architettura di fango La nascita e lo sviluppo delle prime città sumere avvenuti cinquemila anni fa sono strettamente connessi al fango, molto abbondante nelle pianure alluvionali della Bassa Mesopotamia grazie allo scorrere del Tigri e dell’Eufrate. DI FELIP MASÓ
62 Il sapere perduto dell’antichità La Biblioteca di Alessandria non era un semplice deposito di papiri, ma un centro di attività culturale intorno a cui gravitavano eruditi e studiosi provenienti da tutti gli angoli del mondo. DI JUAN PABLO SÁNCHEZ
106 L’altro volto di Lucrezia Borgia La figlia di papa Alessandro VI è ricordata come una donna malvagia e opportunista. I suoi contemporanei la descrivono come una persona intelligente e dai modi gentili. Fu duchessa di Ferrara dal 1505 e amministrò la città con saggezza e benevolenza. DI MARIA PAOLA ZANOBONI
78 Zela, il grande trionfo di Cesare Il 2 agosto del 47 a.C. Giulio Cesare affrontò il re del Ponto Farnace II, colpevole di essersi impossessato della Cappadocia e della Galazia in assenza dei legittimi sovrani. Grazie a un’azione militare perfetta il generale romano mise a segno una delle sue vittorie più famose e per celebrarla coniò la frase «Veni, vidi, vici». DI ANDREA FREDIANI
CESARE INDOSSA LA CORONA D’ALLORO. STATUA DI NICOLAS COSTOU. XVII SECOLO. MUSEO DEL LOUVRE.
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LUCREZIA BORGIA NEI PANNI DI FLORA. BARTOLOMEO VENETO, 1505. STAEDELSCHES KUNSTINSTITUT, FRANCOFORTE, GERMANIA. BPK / SCALA, FIRENZE
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Pubblicazione periodica mensile - Anno XI - n. 125
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6 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
Rassegna Internazionale Cinema Archeologico
GRANDI INVENZIONI
Nasce la bottiglia di vetro moderna Tra il 1630 e il 1635 un inglese patito di alchimia, Kenelm Digby, sviluppò il modello canonico della bottiglia di vetro per il trasporto di liquori e di bevande alcoliche
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BRIDGEMAN / ACI
onosciute nell’antichità ma praticamente dimenticate nel Medioevo, le bottiglie di vetro tornarono in voga a partire dal Rinascimento. I loro vantaggi erano evidenti. Rispetto al legno, alla ceramica o al cuoio, il vetro garantiva una migliore conservazione dei liquidi e, in particolare, evitava che il vino s’inacidisse. Presentava però un grande inconveniente: la fragilità dei contenitori. Fino agli inizi del XVII secolo, infatti, per produrre le bottiglie i produttori di vino avevano utilizzato un tipo di vetro di pessima qualità, che fondeva a basse temperature. Per cercare di risolvere tale problema vennero quindi
elaborati dei contenitori dalle forme in teoria più resistenti. Come risultato si ebbero bottiglie dalle sagome bizzarre – a fiaschetta, ottagonali, piatte o sferiche – che non solo continuavano a rompersi con grande facilità, ma rendevano ancora più difficile l’imballaggio e il trasporto. In genere le bottiglie erano stoccate in posizione verticale e disposte in scomparti rivestiti da paglia secca, che doveva ammortizzare gli urti. La mancanza di un processo standardizzato, però, rendeva più complesso il calcolo delle merci e favoriva persino il furto. Tra il 1630 e il 1635 l’aristocratico inglese Kenelm Digby (1603-1665) decise di porre rimedio a tali complicazioni creando un nuovo modello di bottiglia. Digby possedeva qualche conoscenza di chimica grazie al suo interesse per l’alchimia, alla quale era stato iniziato dal pittore Antoon van Dyck. Poté così intuire che la fragilità delle bottiglie era dovuta alla loro composizione e non alla forma. COMMENSALI CHE MESCONO IL VINO DA UNA BOTTIGLIA. DETTAGLIO Assieme al veDI LE SENS DU GOÛT (IL SENSO DEL GUSTO) DI PHILIPPE MERCIER. 1745 CA. traio e poi scrittore
8 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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STOVIGLIA DI CERAMICA TEDESCA DEL TIPO BARTMANNKRUG O “BELLARMINA”. XVI SECOLO.
James Howell, Digby aprì un laboratorio di vetro nelle vicinanze di Londra. Qui i due misero a punto un evoluto prototipo di forni, il quale raggiungeva elevate temperature sia grazie ai condotti di ventilazione che alimentavano il fuoco sia grazie all’uso del carbone come combustibile. L’aumento della temperatura di fusione permise di fabbricare un vetro molto più forte e resistente. Inoltre, poiché la miscela era ricca di ferro, il vetro di Digby e Howell assumeva una tonalità verdastra, quasi nera, a causa del fumo causato dalla combustione del carbone.
La bottiglia cipolla Le bottiglie risultanti, dal collo lungo e affusolato e il disegno semplice, di bulbo o cipolla – da lì il nome dark onion bottle, “bottiglia cipolla scura” –, ottennero un successo quasi immediato e rivoluzionarono il mercato dell’imballaggio dei liquori. Innanzitutto, la forma più o meno cilindrica permetteva di stoccare le bottiglie in modo orizzontale e non verticale, come si era invece fatto sino ad allora, e di collocarle in maniera ordinata nelle casse, che venivano poi chiuse in tutta sicurezza con i chiavistelli. Non solo: poco a poco i produttori di vino si resero conto che, se impiegavano le bottiglie cilindriche, i vini miglioravano di qualità
BOTTIGLIA
di vino inglese degli anni trenta del XVIII secolo. Museum of Fine Arts, Houston.
SIR KENELM DIGBY. RITRATTO DI ANTOON VAN DYCK. COLLEZIONE PRIVATA. BRIDGEMAN / ACI
LA BOTTIGLIA, IL SEGRETO DEL VINO
MUSEUM OF FINE ARTS, HOUSTON / BRIDGEMAN / ACI
1630-1635 Con l’aiuto di James Howell, Kenelm Digby crea un nuovo tipo di bottiglia di vetro più resistente dei precedenti.
1662 Il parlamento inglese riconosce a Digby il brevetto per la fabbricazione delle bottiglie di vetro con il suo metodo.
1674 George Ravenscroft ottiene il brevetto per l’elaborazione di un nuovo tipo di vetro di piombo, o vetro Flint.
1750 circa Durante la seconda metà del XVIII secolo le bottiglie assumono la forma allungata di oggi.
pretendenti al trono di Scozia e Inghilterra. Gli altri produttori di vino londinesi approfittarono della sua assenza per appropriarsi del progetto. Nel 1662, durante la Restaurazione, Digby riuscì finalmente a ottenere il brevetto dal parlamento inglese, ma non poté trarne grandi benefici, perché morì tre anni dopo. Alla fine del XVII secolo il suo modello di bottiglia s’impiegava ormai in più del 90 per cento dei laboratori di vetro inglesi e in buona parte di quelli francesi e avrebbe dominato il mercato per più di un secolo. —Eduardo Juárez Valero
BOTTIGLIA DI VINO IN UN COLLEGE DELLA OXFORD UNIVERSITY. 1764. BRIDGEMAN / ACI
durante il viaggio, e quindi iniziarono a considerare l’imbottigliamento come parte del processo di finitura del vino. Notarono pure che il colore nero dovuto alla combustione del carbone e il verdastro della miscela ricca di ferro proteggevano il vino dall’effetto degradante della luce. Lo scoppio della Rivoluzione inglese (1640-1660) impedì a Digby di raccogliere i frutti della sua invenzione. Dopo aver ucciso un nobile in un duello in Francia, al ritorno a Londra fu arrestato per ordine del parlamento, nel 1642. Liberato un anno dopo, andò in esilio in Francia e si schierò a favore della dinastia degli Stuart,
PERSONAGGI STRAORDINARI
La principessa che con il suo coraggio costruì l’Italia Cristina Trivulzio di Belgioioso lottò durante tutta la sua vita per un’Italia unita e soffrì l’esilio pur di liberare lo stivale dal giogo della corona austriaca
Vita di una patriota italiana 1808 Cristina Trivulzio nasce a Milano da Vittoria dei Marchesi Gherardini e Gerolamo Trivulzio.
1824 Sposa Emilio Barbiano di Belgioioso. Qualche anno dopo, scoperta l’infedeltà del marito, si separa.
1834 Fallisce la spedizione in Savoia. Cristina è in esilio a Parigi, senza soldi né amici.
1848 Le Cinque giornate di Milano vedono in prima linea la principessa Belgioioso.
1849 Cade la repubblica romana. Cristina fugge in esilio in Asia Minore con la figlia Maria.
1861 Viene proclamata l’Italia unita. Dieci anni dopo Cristina Trivulzio muore a Locate.
P
atriota, giornalista, viaggiatrice, scrittrice e donna. Cristina Trivulzio di Belgioioso, battezzata come Maria Cristina Beatrice Teresa Barbara Leopolda Clotilde Melchiora Camilla Giulia Margherita Laura Trivulzio, nacque a Milano il 28 giugno 1808. Figlia di Vittoria dei Marchesi Gherardini e di Gerolamo Trivulzio, discendente di una delle famiglie più in vista dell’aristocrazia milanese, Cristina rimase orfana di padre a soli quattro anni. Sua madre si risposò l’anno dopo con Alessandro Visconti, in seguito arrestato con l’accusa di aver partecipato ai moti carbonari del 1821 per liberare l’Italia dal giogo della corona austriaca. Quando Visconti fece ritorno a casa, Cristina, che nutriva per il patrigno un profondo affetto, si trovò davanti una persona segnata dalla prigionia. Tre anni dopo, Cristina rifiutò il matrimonio combinato con un cugino scegliendo invece di sposare il principe Emilio Barbiano di Belgioioso, noto libertino, che
venne attratto dalla dote della donna, una delle più cospicue dell’epoca: 400mila lire austriache. La ormai principessa di Belgioioso era bella, ricca, aristocratica e, nonostante la sua posizione privilegiata, non realizzò nessuna delle aspettative che la società dell’epoca aveva su di lei. Qualche tempo dopo il suo matrimonio, scoprì l’infedeltà del marito, che peraltro non faceva del suo meglio per nascondere il suo comportamento libertino, e rifiutò di accettarla. Non potendo divorziare formalmente, si separò alla fine del 1828, generando incredulità in tutta la società milanese. «Credetti dovere al mio decoro e al mio titolo di moglie di non acconsentire formalmente alla continuazione delle sue relazioni con la Ruga», scrive Cristina a Ernesta Bisi, dapprima sua insegnante di disegno e in seguito sua migliore amica. Ma la scelta di non sottostare a un matrimonio infelice condannò la principessa a essere perseguitata dai pettegolezzi ovunque andasse; il suo comportamento poco ortodosso – e sicuramente non adatto a una donna del suo rango – attirò l’attenzione della polizia austriaca, che s’insospettì ancora di più quando le sue frequentazioni di salotti liberali si fecero palesi. La tran-
Cristina accettò l’esilio piuttosto che ritornare sotto il controllo austriaco, ma si ritrovò sola INCISIONE. SAMMLUNG ARCHIV FÜR KUNST UND GESCHICHTE, BERLINO. AKG / ALBUM
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CRISTINA E LA POTENZA DELLE PAROLE GRAZIE ALL’ATTIVITÀ giornali-
DEA / ALBUM
stica, sua principale occupazione dal 1845 al 1848, Cristina contribuì a mantenere vivo il dibattito sulla questione italiana. In quegli anni si trovava a Parigi e scriveva per La Gazzetta Italiana, fondata nella capitale francese ma censurata in patria. Quando il giornale rischiò la chiusura fu lei stessa a prenderne il timone, salvo poi abbandonare l’esperienza per dedicarsi invece alla stesura di una rivista, L’Ausonio (il primo numero uscì nel marzo del 1846). Nel 1860, un anno prima della costituzione di un’Italia unita, fondò a Milano il giornale in francese L’Italie.
quillità di Cristina era inoltre disturbata tensia di Beauharnais, la madre di Luigi dai primi sintomi dell’epilessia, che la Napoleone, che sarebbe poi diventato costringevano a letto per lunghi periodi. Napoleone III. Sostenne vari tentativi di rivolta contro gli austriaci, entrò Una donna indipendente in contatto con Giuseppe Mazzini e Proprio a causa del suo stato di salute continuò a viaggiare, prima in Svizzera, decise di partire per Genova, dove vis- poi in Provenza e finalmente a Parigi. I suoi continui spostamenti acuirono se un periodo particolarmente felice, lontano dai pettegolezzi della società i sospetti della polizia austriaca, che milanese. Sentendosi meglio, e con pose i beni milanesi della principessa un interesse per la situazione politica sotto sequestro, vincolandoli al suo dell’Italia sempre più vivido, per un ritorno in patria. Invece di cedere al paio d’anni viaggiò per tutta la penisola. ricatto, Cristina si aggrappò ancora di Entrò in contatto con vari esponenti più alla causa italiana. Accettò l’esilio della carboneria romana, fra cui Or- piuttosto che ritornare sotto il control-
RITRATTO DI CRISTINA. OLIO DI FRANCESCO HAYEZ, 1832 CIRCA. COLLEZIONE PRIVATA.
lo austriaco, ma era sola, senza soldi e senza conoscenze. Non potendo contare su null’altro che le sue mani, per la prima volta dovette ingegnarsi per provvedere da sola al suo sostentamento. Tessendo, vendendo pizzi e coccarde e impartendo lezioni di disegno e pittura, a poco a poco, riuscì a rimettere in sesto le sue finanze quel tanto che bastava per trasferirsi in un appartamento più grande, in rue d’Anjou. Il suo salotto divenne uno dei più conosciuti di Parigi: la principessa lo trasformò in un porto sicuro per i patrioti italiani che visitavano la città o STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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PERSONAGGI STRAORDINARI
IL LATO ARTISTICO
DEA / ALBUM
La tempera opera di Cristina rappresenta l’interno della casa familiare. 1840-1850 circa, collezione privata.
che cercavano aiuto. Benché lontana, sostenne in tutti i modi la causa italiana, finanziando con 30mila lire il tentativo d’invasione della Savoia del 1834, portato avanti da Mazzini e fallito miseramente. Ricevette persone potenti, scrisse innumerevoli articoli sulla situazione italiana per il giornale Constitutionnel, dove pubblicò anche delle caricature di tutti i parlamentari, firmati da La Princesse ruinée. Quando nessuno volle più pubblicare i suoi testi perché ritenuti pericolosi, divenne ella
stessa l’editrice di un giornale politico. Nonostante l’interesse degli innumerevoli intellettuali dell’epoca che frequentavano il suo salotto, Cristina ebbe un’unica storia d’amore durante i quasi dieci anni di esilio parigino. Fu con lo storico schivo e riservato François Mignet, probabilmente il vero padre della sua unica figlia, Maria, nata il 23 dicembre del 1838. Cristina cercò di tenere la gravidanza segreta, e solo qualche tempo dopo la nascita
ALLE DONNE FELICI DEL FUTURO NEL 1866, la principessa pubblicò il saggio Della presente condi-
zione delle donne e del loro avvenire sul primo numero della Nuova Antologia. Nel testo incitava le donne «felici ed onorate dei tempi avvenire» a ricordare quelle che in passato spianarono la strada all’acquisizione dei diritti fondamentali. BUSTO DI UNA PRINCIPESSA. XIX SECOLO, LISZT-HAUS, WEIMAR. 12 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
della bambina questa venne riconosciuta come sua figlia legittima dall’ancora marito della principessa, Emilio, che in quegli anni si trovava a Parigi. Con l’amnistia del nuovo imperatore Ferdinando I d’Austria, che condonò tutti i reati politici nelle province italiane dipendenti dall’Austria, Cristina poté recuperare i suoi beni e nel 1840 tornò finalmente a Locate. Nel silenzio delle campagne lombarde cercò di condurre una vita tranquilla, allontanandosi da salotti e impegni mondani e dedicando molti sforzi a migliorare la condizione della popolazione contadina, ispirandosi alle teorie del socialismo di Fourier e di Saint-Simon. Questo non la distolse dal suo impegno politico. Studiò, M BU DE
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PERSONAGGI STRAORDINARI
QUANDO fece finalmente ritor-
no a Locate, dopo dieci anni di esilio, Cristina constatò che nel suo tanto amato paese la povertà era una piaga estesa. Si prodigò quindi in ogni modo per migliorare le condizioni delle zone circostanti. Creò un asilo e una scuola elementare, caldeggiò la chiusura delle osterie dopo le nove di sera per rendere la città più sicura ed ebbe un occhio di riguardo per le donne. In questo senso fondò scuole professionali maschili e femminili e aprì finanche le porte del suo palazzo per offrire riparo alle madri e doti per le spose. Inoltre cercò di convincere i politici delle zone limitrofe a fare altrettanto. Tuttavia le sue proposte rimasero inascoltate.
scrisse saggi e continuò la sua attività giornalistica senza sosta. Benché in fondo fosse una repubblicana, capì che l’unico modo per ottenere l’unità d’Italia passava per una monarchia, e sostenne dunque Carlo Alberto di Savoia. Nel 1847 riprese a viaggiare, allacciando rapporti con i maggiori esponenti del Risorgimento: incontrò Cavour, Cesare Balbo, Nicolò Tommaseo, Giuseppe Montanelli e lo stesso Carlo Alberto. Scoppiati i moti del 1848, sbarcò a Napoli, raccolse un battaglione di volontari e si recò a Milano, dove entrò in città accompagnata da circa 200 partenopei che vennero scherzosamente denominati“l’esercito Belgioioso”. La città venne temporaneamente liberata, ma appena quattro mesi dopo, il 6 agosto 1848, gli austriaci ne ripresero il controllo, costringendo la principessa e un gran numero di milanesi all’esilio. Nonostante la sconfitta, non si perse d’animo, determinata a lottare 14 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IN LOTTA CONTRO L’INVASORE. LA LITOGRAFIA, DI UN AUTORE ANONIMO, RITRAE CRISTINA NELLA SUA VESTE PATRIOTICA. COLLEZIONE PRIVATA.
FINE ART / ALBUM
L’IMPEGNO SOCIALE
per un’Italia unita. Appena un anno dopo si recò a Roma per difendere la neonata repubblica romana e le venne assegnata l’organizzazione degli ospedali. Cristina svolse questo compito con dedizione e mano ferma grazie all’aiuto di volontarie: molte donne, esponenti della borghesia ma anche prostitute che lei stessa aveva convocato, accorsero per assistere i feriti.
Un nuovo esilio Purtroppo però la repubblica cadde dopo qualche mese, il 4 luglio del 1849, e lei fu costretta alla fuga salpando su una nave diretta a Malta. Iniziò così un viaggio che finì in Asia Minore, nella sperduta e desolata valle di Ciaq Maq Oglù, vicino all’odierna Ankara, in Turchia. Qui, accompagnata solamente dalla figlia Maria e da pochi altri italiani, fondò un’azienda agricola e dette riparo a tutti gli espatriati che poté aiutare. Di nuovo lontana, tornò a scrivere, raccontando
le sue peripezie in Oriente. Cinque anni dopo fece finalmente ritorno in Francia e, in seguito a un condono da parte della corona austriaca, poté ristabilirsi nella casa di famiglia, a Locate. Nel 1861 si costituì finalmente l’Italia unita e la principessa si ritirò dalla scena politica. Passò i suoi ultimi anni tra Locate e il lago di Como insieme alla figlia, sposata con Ludovico Trotti Bentivoglio. Morì nel luglio del 1871, a 63 anni. Nessuna autorità politica della neonata nazione accorse a porgere l’ultimo saluto alla principessa, che venne sepolta con una cerimonia semplice a Locate di Triulzi, dove riposa tuttora. —Annalisa Palumbo Per saperne di più
SAGGI
Il 1848 a Milano e a Venezia Cristina Trivulzio di Belgioioso. Feltrinelli, Milano, 2011. La prima donna d’Italia M. Fugazza, K.Rörig (A cura di). Franco Angeli, Milano, 2010.
ANIMALI NELLA STORIA
Nel 1861 un esploratore statunitense di origini francesi, Paul Du Chaillu, fece conoscere al mondo i gorilla in cui si era imbattuto durante le sue spedizioni nel continente africano
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a pubblicazione di On the Origin of Species di Charles Darwin, avvenuta nel 1859, accrebbe l’interesse degli scienziati e dell’opinione pubblica per le scimmie, considerate possibili progenitrici dell’uomo nella linea evolutiva. I progressi nell’esplorazione dell’Africa fornirono nuove informazioni al riguardo e permisero di scoprire alcune specie che sembravano avvalorare la teoria darwiniana. Una di queste era il gorilla, che oggi sappiamo essere uno dei nostri parenti più prossimi. Nel 1847 un missionario statunitense, T. S. Savage, offrì la prima descrizione dell’animale a partire da
uno scheletro rinvenuto nell’attuale Gabon. Il ritrovamento fu alla base di articoli scientifici che definirono una nuova specie di primati, chiamati gorilla in omaggio al termine che un esploratore dell’antichità, Annone il Navigatore, aveva usato per riferirsi alle genti «selvatiche e pelose» avvistate sulle coste dell’Africa. Nel 1861 venne poi pubblicato Explorations and adventures in Equatorial Africa, scritto da uno sconosciuto esploratore nordamericano di origini francesi, Paul B. Du Chaillu, che vi narrava le avventure nell’interno gabonese e dichiarava di aver scoperto ottanta nuove specie di animali. La suggestiva
A BOSTON, DAVANTI A UN PUBBLICO ATTENTO, DU CHAILLU PRESIEDE UNA DELLE SUE CONFERENZE SUI GORILLA. INCISIONE. 1869. GRANGER / AURIMAGES
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Il gorilla, una scoperta mirabolante GR
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PAUL DU CHAILLU. FOTOGRAFIA DELL’ESPLORATORE STATUNITENSE DI ORIGINE FRANCESE.
descrizione del primo incontro con un gorilla e il racconto di come ne aveva cacciato alcuni esemplari attirò l’attenzione dei lettori e la crescente popolarità gli permise di partecipare a numerose conferenze in cui illustrava le peripezie africane e mostrava gorilla impagliati. Du Chaillu diede al pubblico occidentale quanto questi si aspettava dall’esplorazione dell’Africa: intrighi, drammi ed esotismo, riscuotendo un enorme successo.
Scienziato o ciarlatano? Du Chaillu non disse mai di aver scoperto il primate, ma dichiarò di essere stato il primo bianco a cacciarne uno e il primo a studiare l’animale nel suo habitat selvaggio. Ben presto, però, la comunità scientifica intraprese un’intensa campagna diffamatoria contro di lui, sia perché ambiva a presentarsi quale studioso sia a causa di certe esagerazioni nel ritrarre il gorilla, il suo ambiente naturale e il suo carattere. Tutta l’opera di Du Chaillu conteneva elementi ambigui e nebulosi, ma fu soprattutto la parte sui gorilla a essere posta sotto attacco. Si dubitò che fosse stato proprio lui a cacciare gli animali e lo si accusò di aver copiato dai resoconti dei missionari che avevano basato i propri testi sul folklore locale e sui racconti di caccia africani. Del resto Du Chaillu aveva studiato in una scuola missionaria del Gabon
DU CHAILLU INCONTRA IL GORILLA DU CHAILLU descrisse così il
suo primo incontro con un gorilla: «Fu uno spettacolo che, credo, non dimenticherò mai. Misurava all’incirca sei piedi di altezza (1,80 m), con un corpo immenso, un grande busto e grandi braccia muscolose, occhi grigi e profondi dallo sguardo feroce, e un’espressione infernale sul volto [...] Non ci temeva. Rimase lì e si batté il petto con i pugni giganteschi [...] Era il suo modo di sfidarci mentre emetteva un ruggito dietro l’altro».
BRIDGEMAN / ACI
MNHN / RMN-GRAND PALAIS
COMPARAZIONE TRA CRANI IN EXPLORATIONS. DU CHAILLU, 1861.
ALCUNI GORILLA appesi agli alberi
nell’incisione che illustra il testo di Du Chaillu.
sotto l’ala di John Wilson, lo stesso che in precedenza aveva consegnato a Savage il primo scheletro di gorilla. Le sue origini aggravarono la situazione: era il figlio illegittimo di un mercante francese e di una donna nera o mulatta dell’isola di Réunion, sulla costa africana dell’oceano Indiano. Questa componente razziale acuì l’avversione del mondo scientifico verso di lui. Nonostante gli studiosi continuassero ad accusarlo di aver impreziosito le sue storie, Du Chaillu poté ancora godere del favore popolare e l’immaginario collettivo lo associò in modo indelebile alla scoperta del gorilla. In Explorations aveva affermato che
il gorilla era «metà uomo, metà bestia», proprio nel momento in cui le teorie evoluzioniste sconvolgevano il mondo, e dal 1861 i crani di gorilla da lui portati in Occidente furono i protagonisti degli accesi dibattiti vittoriani sull’evoluzione umana. Due anni dopo, l’esploratore, che gli scienziati avevano sminuito accusandolo di essere solo un cacciatore di gorilla, intraprese una seconda spedizione. Nelle memorie del suo viaggio, A Journey to Ashango Land, Du Chaillu descriveva la scoperta di alcuni esseri umani dalla taglia ridotta: i pigmei. La domanda sorse allora spontanea: aveva forse trovato il tassello mancante?
In realtà è possibile che Du Chaillu non avesse cacciato in prima persona quei gorilla che avrebbe poi esibito in Occidente. Di sicuro esagerò i fatti trasformando il gorilla in una creatura infernale, feroce e spietata. Non solo: l’ipotesi sul carattere ostile del primate non trovò riscontro negli studi successivi. Tuttavia, primatologi ed esploratori continuarono a menzionare Du Chaillu riesaminando il racconto, correggendolo o smentendolo. Al di là di tutto, la sua figura rimase associata per sempre a quello che lui stesso definì «il re dei boschi africani». —Enric García Moral STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA MORTE di Werther ricostruita
dal pittore francese FrançoisCharles Baude in questa lastra autocroma nel 1911.
ROGER VIOLLET / AURIMAGES
Werther e l’emulazione del suicidio per amore La pubblicazione del romanzo di Goethe I dolori del giovane Werther, avvenuta nel 1774, fu seguita da un’ondata di suicidi di ragazzi e ragazze che s’ispiravano allo sfortunato eroe
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etzlar, 30 ottobre 1772. Poiché sa che non potrà mai coronare il proprio sogno d’amore, un giovane invaghito di una donna già sposata si suicida accanto alla scrivania. È Karl Wilhelm Jerusalem, segretario della legazione di Brunswick. La sua morte commuove le alte classi sociali e, in particolare, un suo conoscente: Johann Wolfgang von Goethe, pure lui giovane (ha 23 anni) e innamorato di una donna già promessa a un altro. La donna in
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questione è Charlotte Buff, anche se il mondo intero la conoscerà grazie al nome con cui Goethe l’avrebbe immortalata nella sua opera: Lotte. Nel 1774, un anno e mezzo dopo la morte di Jerusalem, il narratore pubblicò infatti Die Leiden des jungen Werthers (I dolori del giovane Werther), un romanzo epistolare nel quale il protagonista, Werther, scrive delle lettere all’amico Wilhelm raccontandogli il suo amore per Lotte, una giovane molto simile alla Charlotte Buff irraggiungibile per Goethe. Anche Werther, dal canto
suo, presenta diverse somiglianze con Jerusalem e, come lui, pone fine alla propria vita con un colpo di pistola.
Una tragica storia Nel romanzo Werther è un giovane dalle aspirazioni poetiche che si trasferisce in campagna per riposare nella natura. Qui conosce una ragazza, Lotte, bella e modesta, che accudisce i fratellini dopo la morte della madre. Subito Werther s’innamora perdutamente di lei, pur sapendo che è promessa a un altro uomo, Albert. Werther trascorre
EVENTO STORICO
L’AMATA DI GOETHE LA STORIA di Werther è una tra-
diversi mesi in compagnia di entrambi finché, disperato, decide di andarsene. Tuttavia, incapace di dimenticarla, tornerà poche settimane dopo, trovando Albert e Lotte sposati da poco. Preoccupata per il proprio matrimonio, Lotte gli chiede di non farle più visita e, dopo un ultimo incontro in cui i due non riescono a nascondere il profondo turbamento, Werther prende la decisione fatale. Con il pretesto di dover affrontare un viaggio, chiede ad Albert di dargli due pistole. Lotte legge il messaggio e gliele manda, e Werther si spara in testa con una di queste. La mattina seguente lo ritrovano moribondo vicino a una lettera d’addio per l’amata. Cosciente del fatto che la Chiesa nega ai suicidi la sepoltura nel camposanto, chiede di essere interrato lì vicino, sotto due tigli e con indosso il suo completo. Il romanzo di Goethe ebbe immediatamente un incredibile successo. In Germania l’editore Weygand dovette
CASA NATALE DI CHARLOTTE BUFF A WETZLAR, NEL DISTRETTO DI GIESSEN.
ristamparlo tre volte nel 1775, e il libro venne subito tradotto in francese (1775), in inglese (1779) e poi in italiano (1782), svedese, serbo, russo e spagnolo. L’opera ispirò una vera e propria moda. I giovani indossavano completi simili a quello di Werther che corrispondeva, in verità, a quanto portava Jerusalem il giorno della sua morte: giacca blu, panciotto giallo e stivali alti; le donne si profumavano con l’Eau de Werther e nelle case comparvero cianfrusaglie o figure di porcellana con i ritratti dei due giovani innamorati, Werther e Lotte. Ma l’effetto più dirompente del romanzo si notò nella serie di suicidi registrati in quegli anni sia in Germa-
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sposizione dell’innamoramento di Goethe per Charlotte Buff. Il poeta conobbe la sua amata il 9 giugno 1772 a un ballo celebrato vicino Wetzlar. A quei tempi la ragazza aveva 19 anni e dalla morte della madre, avvenuta l’anno precedente, si prendeva cura del padre e dei dieci fratellini. Era promessa a Johann Christian Kestner, consigliere della legazione di Hannover, che avrebbe sposato l’anno dopo. Di carattere sereno e prudente, Charlotte seppe tenere a bada i ferventi spiriti del pretendente finché questi decise che era giunto il momento di andarsene. La differenza con il romanzo è che Goethe non pensò mai al suicidio.
nia sia in altri Paesi europei, e apparentemente ispirati all’eroe goethiano. In realtà, già prima della comparsa di Werther il suicidio per amore era diventato un argomento d’attualità. Nel 1770 la stampa diede grande eco al suicidio di due amanti nelle vicinanze di Lione: un mastro armaiolo affetto da una malattia incurabile si era tolto la vita assieme all’amata all’interno di una cappella incatenandosi a lei e puntando la pistola all’altezza dei rispettivi cuori. La vicenda venne descritta ampliamente, non per criticarla,
Il grande successo del romanzo obbligò gli editori a ristamparlo tre volte in un solo anno GOETHE. BUSTO IN GESSO. STAATLICHE KUNSTSAMMLUNGEN DRESDEN, DRESDA.
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EVENTO STORICO
LA MORTE DI CHATTERTON,
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di Henry Wallis. 1856. Yale Center for British Art, New Haven.
ma per evidenziare la passione degli amanti. Quello stesso anno, un altro suicida divenne un idolo romantico: il poeta inglese Thomas Chatterton che, ridotto in condizioni di estrema povertà, si avvelenò nella sua mansarda a soli 17 anni. La società preromantica dell’epoca scorgeva in quei personaggi, reali o fittizi, un’inclinazione molto
LETTORE CELEBRE TRA GLI ESTIMATORI di Werther figurava anche Napoleone Bonaparte, che lo lesse per la prima volta a 18 anni e lo portò con sé nella campagna d’Egitto (1798-1799). PRIMA EDIZIONE DI WERTHER. AKG / ALBUM
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particolare per l’amore, e così i contemporanei convertivano i giovani che morivano nella disperazione più totale in eroi del sentimento, nei quali vedevano realizzati gli aneliti di amore, passione e grandezza. Werther colse tale sensibilità al momento giusto e in maniera esemplare e per questo divenne rapidamente un libro di culto
per chi aspirava a un amore impossibile. La sua fu un’influenza non solo letteraria: in modo più o meno diretto incoraggiò vari suicidi per amore.
Ondata di suicidi Negli anni immediatamente successivi alla pubblicazione dell’opera ne vennero documentati diversi casi. Il primo di cui si abbia testimonianza è narrato dallo scrittore Cristoph Friedrich Nicolai in una lettera datata 17 gennaio 1775: «Una persona molto giudiziosa, ma un po’isterica, si è avvelenata dopo aver letto I dolori del giovane Werther e, prima di morire, ha confessato, senza alcun cenno di pentimento, che era stato il
VENTAGLIO del 1776 che rappresenta una scena di I dolori del giovane Werther, di Goethe. Collezione privata.
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libro a motivarla. Certi dettagli intimi, qui non divulgabili per rispetto della famiglia, rendono la storia ancor più commovente». Si riferiva a una giovane inglese che si era suicidata nel suo letto e che teneva sotto il cuscino il libro di Goethe. Un altro noto scrittore, Georg Christoph Lichtenberg, segnalava un nuovo caso in una lettera di quattro mesi dopo, il 1º maggio: «A quanto pare, un giovane signore, von Lütichow, si è sparato sopra il libro». In una lettera del 21 marzo 1777 Lucie Auguste Jensen raccontava un altro suicidio occorso a Kiel: «Nella nostra accademia sono accadute diverse disgrazie: domenica scorsa un giovane di nome Karstens si è sparato [...] L’hanno trovato morto nella sua stanza. Assieme ad altri libri del genere teneva aperto vicino a sé quello di Werther; per non sbagliarsi aveva caricato la pistola con quattro
proiettili, aveva lasciato delle lettere in cui spiegava la somiglianza della sua storia con quella di Werther, giacché doveva essere innamorato di una donna maritata, e per essere uguale a lui l’ha voluto imitare nella morte e in ogni particolare: ha per esempio chiesto di essere sepolto vestito di tutto punto e sotto due alberi verdi». Sono molte le fonti che documentano il suicidio di Christel von Lassberg, occorso il 16 gennaio 1778. Karl August Böttiger annotò che «si è affogata con I dolori del giovane Werther in tasca, perché il suo amato, un livone, l’aveva lasciata». Un altro scrittore, Friedrich Wilhelm Riemer, avrebbe fornito maggiori dettagli: «Sul fiume Ilm, sotto la diga, vicino al ponte del castello, venne rinvenuto il corpo di una certa signorina von Lassberg. Era affogata la notte prima, s’ignora se per caso o per propria volontà, sebbene si
dicesse che nelle tasche aveva I dolori del giovane Werther per dare la colpa a Goethe, anche se in modo indiretto». L’evento era accaduto vicino alla casa di Goethe, che per tre volte lo ricordò nei diari e sottolineò l’enorme somiglianza tra la lettrice e il protagonista.
Un libro “pericoloso” Il capitano Gottlieb Georg Ernst von Arenswald, che aveva perso la sua fortuna a causa di una frode, era un fervente lettore di testi esoterici che lo allontanavano dalla religione, e di libri“pericolosi”, come Werther e altri drammi i cui protagonisti si toglievano la vita. Non nuovo a tali temi, quindi, il 29 settembre 1781 «prese la decisione, si congedò dagli amici in varie lettere, fece una passeggiata con altra gente, finì di scrivere le lettere nel pomeriggio, le sigillò e, subito dopo, prese la pistola e si tolse la vita». STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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HANS SZYSZKA / AGE FOTOSTOCK
EVENTO STORICO
CASA DI GOETHE sul
Frauenplan di Weimar, dove il poeta visse dal 1782 fino alla morte.
In Authentische Briefe des Hauptmanns von Arenswald (Lettere autentiche del capitano von Arenswald), pubblicate nel 1782, si descriveva un suicidio identico a quello di Werther: anche Arenswald passò la sua ultima sera davanti allo scrittorio, vergando le ultime epistole, poi ordinò le carte e sistemò varie questioni; anche lui fu trovato
dal servitore la mattina seguente, con indosso l’uniforme, e la pistola ai piedi. Nella lettera d’addio usava le stesse parole di Werther: «Sono cariche! [...] Il mio destino si compia». Il curatore delle lettere menzionava un altro caso simile a quello di Arenswald, senza indicare ulteriori dettagli sull’identità della persona, il momento o il luogo:
LA CENSURA nella città di Leipzig venne promulgato un bando che proibiva la pubblicazione di Werther, perché il libro era considerato «un’istigazione al suicidio» che poteva «impressionare le persone deboli e le donne». IL 30 GENNAIO 1775
PROIBIZIONE DIFFUSA DAL COMUNE DI LEIPZIG. AKG / ALBUM
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«Un ragazzo [...] di buona famiglia e ottima educazione si tolse la vita perché la sua amata si era sposata con un altro. Lo trovarono in una pozza di sangue, e I dolori del giovane Werther era aperto sul tavolo». Simili episodi si verificarono pure fuori dalla Germania. Nel 1784, per esempio, il The Gentleman’s Magazine riferiva del suicidio di una certa Miss Glover a Londra: «Sotto il suo cuscino trovarono I dolori del giovane Werther, circostanza che dev’essere resa nota al fine di sradicare la maligna influenza di quest’opera pericolosa». L’ultima nota rivela la crescente preoccupazione sor-
Una difesa del diritto al suicidio NEL XVIII SECOLO il suicidio era visto come un at-
SCENA DI UN SUICIDIO. INCISIONE DEL XVIII SECOLO.
Secondo il filosofo scozzese (sotto, in un ritratto del 1766), la condanna del suicidio è una «superstizione» che impedisce agli uomini di sfuggire «al giogo del
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dolore e della pena che ci mantengono incatenati a un’esistenza odiosa». Sosteneva infatti che, se era vero che solo Dio poteva disporre della vita, «era criminale agire tanto per la sua conservazione quanto per la sua distruzione». Lo scozzese concludeva che «sia la prudenza sia il coraggio ci costringono a disfarci il prima possibile dell’esistenza quando questa diviene un peso».
ta tra le autorità in seguito agli effetti nocivi che poteva comportare la lettura di questo romanzo o di altri pubblicati poco dopo e con una trama simile, come l’anonimo Las penas de la joven Fanni o The Power of Sympathy, dello statunitense William Hill Brown, il cui protagonista, Harrington, si spara, o Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo, considerato il primo romanzo epistolare della storia italiana. Sebbene Foscolo dichiarasse di non aver letto l’opera di Goethe e sebbene i testi mostrino alcune differenze, come il fatto che in Ultime lettere sia di fondamentale importanza lo sfondo politico assente in Werther, le somiglianze tra i due volumi non mancano. Anche Foscolo s’ispirò al suicidio per amore di uno studente universitario, Girolamo Ortis, e pure Jacopo Ortis, il protagonista del romanzo, era un giovane intellettuale innamoratosi
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tentato contro Dio, la società e lo stesso individuo. In Sul Suicidio, David Hume (1711-1776) difese il diritto a porre fine alla propria vita se non meritava di essere vissuta.
perdutamente di una donna, Teresa, già promessa a un altro, Odoardo. Poiché Teresa era costretta a sposare Odoardo per ragioni economiche, pure Ortis si tolse la vita piantandosi un pugnale nel cuore, con una scelta ancor più romantica del suo grande sodale in amore, Werther.
cline all’erotismo, e fu subito inserito nell’Indice dei libri proibiti. Goethe non avrebbe mai immaginato che la sua opera avrebbe avuto tali disastrose conseguenze. Nel 1787 pubblicò una seconda versione del romanzo e v’introdusse alcuni passaggi in cui imputava a una depressione la scelta di Werther. Aggiunse fiLa censura in azione nanche un’avvertenza per tutti coloro Visto l’aumento di casi di suicidio, che condividevano le sofferenze del alcuni stati tedeschi decisero d’inter- protagonista: «Sii uomo e non seguivenire. L’anno seguente la pubblica- re il mio esempio». Di certo non imzione di Werther, l’autorità censoria maginava che, con la sua esaltazione di Leipzig, nel principato di Sassonia, dei sentimenti, Werther aveva dato il ne proibì la vendita, pena una multa via all’intenso movimento del Romandi dieci talleri, e i 28 librai della città ticismo tedesco. sottoscrissero il divieto. —Isabel Hernández Nel 1776 l’opera cadde sotto la LIBRI censura austriaca e danese. In Spagna Per I dolori del saperne giovane Werther le autorità ecclesiastiche cattoliche di più Johann Wolfgang Goethe. considerarono il romanzo come una Feltrinelli, Milano, 2014. «licenziosa elegia dell’adulterio» inSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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O P E R A D ’A R T E
ARTE CINESE
( X I I I - X I V s e c o l o)
I vasi cinesi della dinastia Yuan Queste due splendide porcellane, decorate con simboli di felicità, forza e purezza furono acquistate da un collezionista privato, sir Percival David, che le donò al British Museum cival David, composta da circa 1.700 pezzi custoditi in una sala appositamente allestita e inaugurata nel 2009 in occasione dei 250 anni del museo.
Uno stile unico al mondo Con l’invasione mongola, la produzione di ceramica si trasferì nella Cina meridionale, a Jingdezhen, un luogo dotato di eccellenti cave e buone comunicazioni fluviali. In questa zona nacque la porcellana “dura”, un particolare tipo di ceramica contenente caolino e feldspato che l’Europa avrebbe imparato a produrre solo all’inizio del XVIII secolo. Tra gli anni venti e trenta del XIV secolo i mongoli iniziarono a importare dalla città persiana di Kashan un nuovo pigmento, l’ossido di cobalto, che iniziarono ad applicare sulle ceramiche con l’aiuto di un pennello. La pasta di caolino di cui era composta assorbiva subito il colore, senza sbavature. La decorazione veniva poi ricoperta con uno smalto feldspatico e cotta ad alta temperatura (1.350° C) per produrre la famosa porcellana bianca e blu. —Cinta Krahe Noblett
A PARTIRE DAL XIII secolo, in epoca Yuan, il mercato della porcellana era controllato dai musulmani residenti nei principali porti cinesi, e quasi tutta la produzione veniva esportata nel Vicino Oriente. Per questo motivo i canoni estetici cinesi si adattarono ai variopinti gusti islamici, ma l’iconografia rimase quella cinese ispirata a precedenti modelli di epoca Song (960-1279). 24 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
IAN DAGNALL / ALAMY / ACI
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l 13 maggio 1351 Zhang Wenjin, originario di Shuncheng (nella provincia cinese di Jiangxi), depose su un piccolo altare dedicato alla memoria del generale Hu Jingyi un paio di vasi bianchi e blu e un incensiere in segno di offerta. Quasi seicento anni più tardi, negli anni trenta del novecento, i vasi sarebbero stati acquistati dal banchiere aristocratico di origine ebraica Percival David presso due collezionisti diversi, diventando le porcellane cinesi più famose al mondo. L’incensiere, invece, scomparve. Grazie all’iscrizione delicatamente dipinta sui colli dei vasi, il finanziere britannico riuscì a risalire non solo al nome e all’origine del committente, ma anche all’anno esatto di produzione, il 1351, quando la Cina era governata dalla dinastia Yuan, di origine mongola. Gli specialisti sono riusciti a identificare e datare la porcellana, distinguendola da quella bianca e blu di epoca Ming grazie alla decorazione, che presenta tutti i classici motivi del periodo Yuan. Oggi i vasi sono orgogliosamente esposti al British Museum di Londra, all’ingresso della collezione di ceramiche cinesi di Per-
ORLO
L’orlo è illustrato con figure di crisantemi, simbolo dell’autunno, di longevità e di gaiezza. Sotto compaiono delle foglie di banano con bordi seghettati.
ANSE E COLLO
Le anse sono a forma di testa di elefante, che rappresenta la forza e la felicità. Sul collo è visibile una coppia di fenici con le ali spiegate su uno sfondo di nuvole. Per i cinesi, questo animale simboleggia la bellezza, la pace e l’ordine.
PANCIA
La parte superiore della pancia è illustrata con fiori di loto, emblema di purezza sia per il taoismo sia per il buddismo. Nella parte centrale sono dipinti dei draghi con quattro artigli, simbolo di buon auspicio, del punto cardinale est, dell’acqua e della primavera. Sotto si vedono dei flutti marini con le creste lobate.
PIEDE
È decorato con una striscia di peonie, fiori che indicano la bellezza femminile e la ricchezza. Sotto, sono visibili dei petali di loto rovesciati contenenti una serie di simboli buddisti e taoisti di buon auspicio, come la perla, il corno del rinoceronte e i fiori di loto.
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V I TA Q U OT I D I A N A
Balie: la cura degli infanti nell’antica Roma La pratica in uso fra le donne dell’aristocrazia romana di affidare l’allattamento dei figli a schiave e liberte fu duramente criticata dagli autori dell’epoca
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ell’antica Roma con il termine nutrix s’indicava una donna che si prendeva cura dello svezzamento e dell’educazione di bambini non suoi. L’uso delle nutrici iniziò a diffondersi alla fine del periodo repubblicano, in particolare tra le matrone delle famiglie aristocratiche. Questa pratica divenne poi sempre più comune nel corso dell’epoca imperiale. Il ricorso a balie poteva essere dovuto a particolari situazioni di necessità, come il decesso della madre durante il parto, che era una delle principali cause di mortalità femminile dell’antica Roma. Tra le classi aristocratiche si riteneva inoltre che fosse meglio utilizzare le nutrici per evitare di affezionarsi troppo ai figli: anche la mortalità infantile, infatti, era piuttosto elevata. In età imperiale era diffusa pure l’idea che se una donna nutriva al seno i suoi figli ci avrebbe messo molto più
tempo a riprendersi dal parto. L’allattamento era mal visto, soprattutto perché ritardava la possibilità di restare di nuovo incinte e contribuire così alla crescita della discendenza familiare. Ma non solo. Aulo Gellio riporta l’opinione della madre di una partoriente che, preoccupata per le condizioni della figlia, decide di affidare «il bambino alle balie per non aggiungere ai dolori del parto l’arduo e pesante lavoro di dover anche allattare al seno».
D’altro canto non bisogna dimenticare che l’usanza di affidare alle nutrici l’allattamento della prole fu oggetto di aspre critiche. Gli autori moralisti la ritenevano una pratica innaturale. Lo stesso Gellio, ad esempio, scriveva: «Chi può dimenticare o ignorare il fatto che le donne che abbandonano i propri figli e li trascurano e li fanno nutrire da altre donne recidono, o quantomeno allentano e indeboliscono, quel vincolo e quel legame d’amore con cui la natura unisce genitori e figli?». Obblighi materni Lo storico Tacito considerava l’abVa sottolineato che per i romani il bandono dell’allattamento una prova concetto di maternità non si limitava della corruzione dei costumi della sua alla generazione dei figli, ma era stret- epoca, in contrasto con la virtù dei tamente connesso all’educazione: la tempi antichi: «In passato il figlio di priorità dei compiti genitoriali veniva un romano nato da una donna onesta assegnata alla loro formazione morale non veniva allevato nella stanza di una e intellettuale. Si riteneva quindi che, balia prezzolata, bensì in grembo e al dedicando troppo tempo ad allattare seno della madre, il cui vanto magal seno, le donne potessero trascurare giore era custodire la casa ed essere al l’istruzione degli altri figli. servizio dei figli. […] Ed ella regolava, con la sua aura di pudore, non solo gli studi e le occupazioni dei ragazzi, ma anche i momenti di pausa e i giochi». Per questo Tacito elogiava le donne dei popoli barbari: «Ogni madre alleva il SECONDO IL MEDICO SORANO, «la balia figlio al seno e non lo lascia nelle mani non dev’essere né troppo giovane né di schiave o nutrici». troppo vecchia, deve avere tra i 20 e i Al di là di queste critiche, una volta 40 anni, deve aver già partorito due o che si decideva di ricorrere alla batre figli ed essere sana […] Dev’esselia c’era il problema di selezionare la re moderata, sensibile, pacifica […] e candidata giusta. Di solito le famiglie greca di nascita». nobili affidavano lo svezzamento dei NUTRICI. RILIEVO. MUSEO DELLA CIVILTÀ ROMANA. neonati alle proprie schiave. Era possibile anche ricorrere ai servizi di donne
DAGLI ORTI / AURIMAGES
DEA / SCALA, FIRENZE
REQUISITI SEVERI
V I TA Q U OT I D I A N A UNA DONNA ALLATTA
un neonato in un affresco pompeiano. Molto probabilmente si tratta della nutrice del bambino. Museo archeologico nazionale, Napoli.
V I TA Q U OT I D I A N A
IL LATTE DELLA DEA ERA
LA DEA ERA stacca dal seno il piccolo Eracle e dal latte fuoriuscito nasce la Via Lattea. Rubens. 1636-1637. Museo del Prado, Madrid.
ERA, REGINA DEGLI DEI, nutriva un odio profondo per Eracle, figlio di Zeus e Alcmena, e voleva sbarazzarsene. Secondo una versione del mito, il dio Hermes, mentre Era dormiva, avvicinò Eracle al suo seno. Quando la dea si svegliò, reagì staccando con forza il bambino da sé causando uno spruzzo di latte da cui nacque la Via Lattea.
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BULLA. I BAMBINI ROMANI INDOSSAVANO QUESTO MEDAGLIONE CON AMULETI PROTETTIVI. MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE, NAPOLI. BU
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libere che venivano pagate per il loro lavoro. Molte erano liberte, ovvero schiave affrancate; la professione di balia era la più frequente tra le donne che uscivano dalla schiavitù, come testimoniano varie epigrafi. Le liberte, oltre a ricevere una retribuzione, mantenevano dei legami di dipendenza con la famiglia presso cui prestavano servizio. Alcuni papiri scoperti in Egitto rivelano le condizioni di assunzione delle nutrici. Normalmente queste lavoravano per periodi compresi tra i sei mesi e i tre anni e
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dovevano allattare il bambino a casa dei genitori. Sembra che s’impegnassero a nutrire il piccolo con il proprio latte, e non con latte animale o pappe, come facevano invece alcune in modo fraudolento.
Una dura selezione La selezione delle balie era una questione particolarmente delicata perché i romani credevano che il latte della donna esercitasse un’influenza diretta sullo sviluppo del bambino. È per questo che molti testi, soprattutto di natura medica, insistono non solo sulle caratteristiche fisiche, l’o-
Si riteneva che l’allattamento al seno riducesse il tempo dedicato all’educazione degli altri figli BUSTO INFANTILE DI MARMO. I SECOLO. MUSÉE LAPIDAIRE D’ART PAIEN, ARLES.
rigine e la buona condotta morale della nutrice, ma anche sulla qualità del suo latte: si raccomandava di esaminarlo per verificare che colore, sapore, odore, consistenza e densità fossero adeguati e non presentassero pericoli per il piccolo. Spesso si sottolineava anche l’importanza di non affidare i figli alle cure di donne di basso rango, soprattutto straniere. Sotto questo punto di vista Tacito criticava severamente la negligenza dei suoi contemporanei: «Oggi invece i neonati vengono messi in mano a una qualche ancella greca, cui si aggiungono uno o due schiavi spesso spregevoli e inadatti. Sono le sciocche chiacchiere di costoro che impregnano gli animi di quei virgulti ancora teneri e in formazione; e non c’è nessuno che si preoccupi di come parlare e comportarsi di fronte a questi futuri capifamiglia». Di solito la balia si occupava del bambino e della
L’infanzia di un bambino nell’antica Roma QUESTO SARCOFAGO del II secolo d.C., conservato presso il Museo del Louvre, accoglie i resti di
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Marco Cornelio Stazio, morto in tenera età. Su uno dei lati sono raffigurati quattro momenti della vita del piccolo. Nei primi due è un neonato, negli altri due un bambino che gioca e studia.
Nutrice Una donna (non sappiamo se la madre o la balia) allatta il neonato.
Padre Appoggiato a un pilastro un uomo, forse il padre, osserva la scena precedente.
sua educazione per tutta l’infanzia, diventando così per lui una figura di riferimento e costruendo un rapporto affettivo che sarebbe proseguito anche durante la sua vita adulta. Pertanto, sebbene alcune nutrici vedessero terminare le loro responsabilità con la fine dell’allattamento, molte altre (specialmente le schiave) restavano al servizio di coloro che avevano svezzato. Per esempio, quando una ragazza si sposava e si trasferiva nella casa coniugale, di solito portava con sé la propria balia, che passava così a costituire un elemento di unione con la famiglia di origine.
Vincoli indissolubili Tutti questi legami affettivi emergono chiaramente nelle iscrizioni funerarie. Molti adulti dedicavano costosi epitaffi alle donne che li avevano allattati ed educati, in segno di amore e ringraziamento per i servizi ricevuti.
Tutore Un uomo, il padre o uno schiavo pedagogo, tiene il bambino in braccio.
Gioco Cresciuto, il piccolo gioca guidando una biga trainata da una capra.
Allo stesso modo, alcune balie acquistavano lapidi in ricordo di bambini morti durante lo svezzamento. In entrambi i casi gli epitaffi testimoniano l’amore reciproco e le intense relazioni che si creavano tra la nutrice e il bimbo oggetto delle sue cure. Spesso questo legame si estendeva anche ai cosiddetti fratelli di latte, cioè coloro che senza essere consanguinei erano stati allattati dalla stessa donna. Il vincolo straordinario che si creava tra loro è perfettamente documentato in questo sentito epitaffio: «Alla memoria della balia Maria Marcellina e del fratello di latte Cedio Ruffino, entrambi degni di lode, dedica questo monumento Gaio Tadio Sabino, soldato della II coorte pretoria». La letteratura ci rivela che molte persone si prendevano cura delle loro vecchie nutrici e continuavano a mantenerle per tutta la vita, dimostrando così che era da loro che avevano rice-
Maestro Un grammaticus (o forse il padre) insegna al bambino testi di autori classici.
vuto conforto e assistenza durante tutta l’infanzia e nella maggior parte dei casi anche durante l’età adulta. Questo stretto rapporto creava dei legami affettivi a volte più profondi di quelli che s’instauravano con le madri, come testimoniano queste parole di Aulo Gellio: «Infatti, non appena un figlio viene affidato a un’altra donna e allontanato dagli occhi della madre, a poco a poco il vigore del calore materno s’indebolisce […] La disposizione d’animo e i sentimenti del fanciullo stesso si volgono verso la donna che lo nutre e, come avviene per i bambini abbandonati, egli non prova alcun sentimento né rimpianto verso la madre che lo ha partorito». —Lucía Avial-Chicharro Per saperne di più
SAGGI
Donne di Roma M. Ponzani, M. Griner. Rizzoli, Milano, 2017.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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MAPPA DEL TEMPO
1780
La mappa dell’Africa di Rigobert Bonne Notevole per la sua precisione topografica, questa carta dimostra quanto poco gli europei conoscessero l’Africa interna
N
africani ed europei, contrassegnati sulla mappa da asterischi. L’unica area Fiumi leggendari interna con qualche inCiò malgrado, anche in questo ca- formazione è la striscia so non mancano le rappresentazioni del Sahel, nota grazie alle erronee derivanti da tradizioni pre- cronache dei viaggiatori cedenti. Tolomeo, ad esempio, aveva arabi e alla sua centralità descritto un fiume dell’Africa occi- nel commercio transahadentale che scorreva verso l’entroterra. riano degli imperi del Mali, di Quest’idea era stata ripresa e modifi- Kanem-Bornú e Songhai. Tali cata dai geografi arabi, che confusero i entità territoriali promossero lo corsi del Senegal e del Niger e ne fecero sviluppo di grandi città come Djenné, un’unica entità fluviale che proce- Timbuctù e Gao (chiamate Guinou, deva in direzione est per poi gettarsi Tombut e Gago sulla mappa). Furono nel Nilo. Neppure Bonne distingue sempre i cronisti e i commercianti il Senegal dal Niger e rappresenta un arabi a designare l’Africa meridionacorso continuo che raggiunge la valle le con il nome di “Cafrerie”, la terra del Nilo. Il vero tragitto del Niger ini- degli infedeli. zierà a conoscersi solo nel 1796, con la spedizione del britannico Mungo Park. Popoli e regni La maggior parte dei toponimi I pochi riferimenti nell’interno dell’Aidentificati da Bonne è situata sulla frica indicano alcune grandi etnie (decosta. Si tratta di centri di scambio tra nominate Yolofs, Mandinga, Hotentots, Galles) e qualche stato. Gli unici regni africani che sembrano essere delimitati con una certa precisione DA DAKAR A CITTÀ DEL CAPO sono quelli che avevano avuto stretti Il merito principale delle carte di Bonne risiede contatti con i portoghesi: Abissinia nell’esatta determinazione della latitudine (Etiopia), Congo e Monomotapa (core longitudine di ciascun punto geografico. rispondente agli attuali Zimbabwe e Eppure il cartografo riconobbe che, nel caso Mozambico). Altri importanti stati della costa dell’Africa occidentale, aveva a disposizione dati certi solo per Dakar e dell’epoca, come Dinkira e Benin (nel il Capo di Buona Speranza; il resto dovette golfo di Guinea), e Angola, sono indidedurlo dalle informazioni dei viaggiatori. cati ma non delimitati.
el XVIII secolo il progresso delle conoscenze geografiche e delle tecniche topografiche portò i cartografi a realizzare rappresentazioni dell’Africa più fedeli e complete di quelle ereditate dalla tradizione antica e medievale. È il caso del francese Rigobert Bonne (1727-1794), autore di questa mappa pubblicata nell’Atlante di tutte le parti conosciute del globo terrestre (1780), un volume che accompagnava una celebre opera dell’epoca: la Storia delle due Indie, dell’abate Raynal. Considerato uno dei cartografi più minuziosi e precisi del suo tempo, Bonne è ricordato anche per aver sviluppato un proprio metodo di proiezione per le carte topografiche. Il suo rigore si riflette nella scelta di non utilizzare nelle sue opere informazioni che non fossero state precedentemente confer-
mate da viaggiatori ed esploratori, anche a costo di lasciare gran parte della mappa in bianco.
MASCHERA DEL BENIN. XVII-XVIII SECOLO. MUSÉE DU QUAI BRANLY - JACQUES CHIRAC / RMN-GRAND PALAIS
—Eric García Moral
QUINTLOX / ALBUM
IL FARAONE BAMBINO
Pepi II salì al trono d’Egitto a soli sei anni, alla morte del fratello Merenra. Questa statuetta di calcite rappresenta il giovane faraone sulle ginocchia della madre Ankhesenpepi II, che assunse temporaneamente la reggenza. Brooklyn Museum. Nella pagina seguente, frammento di un decreto di Pepi II. Musée des beaux-arts, Lione. SINISTRA: BRIDGEMAN / ACI. DESTRA: RENÉ-GABRIEL OJÉDA / RMN-GRAND PALAIS
PEPI II
L A FINE DELL’ANTICO REGNO Nel corso del suo governo durato oltre sessant’anni, uno dei più lunghi della storia d’Egitto, il faraone Pepi II dovette affrontare una serie di problemi interni ed esterni. Alla sua morte il potere statale entrò in una lunga fase di crisi
IL PADRE DEL FARAONE
Pepi I sposò le due figlie del nomarca di Abido, Ankhesenpepi I e Ankhesenpepi II, dalle quali ebbe rispettivamente Merenra I, che regnò per un breve periodo, e Pepi II, che rimase sul trono per oltre 60 anni. Statua di Pepi I inginocchiato. Brooklyn Museum. BRIDGEMAN / ACI
i poveri sono diventati proprietari di ricchezze […] Guardate, l’uomo viene ucciso accanto al fratello, che fugge e lo abbandona per salvare sé stesso». Le Lamentazioni di Ipuwer, un testo di autore ignoto che risale probabilmente alla fine della XII dinastia, descrivono la fase di crisi nota come Primo periodo intermedio con toni quasi apocalittici: un’epoca in cui l’autorità dei faraoni, frutto del volere degli dei al momento della creazione, è venuta meno. Simili opere letterarie hanno contribuito a creare un’immagine negativa non solo del Primo periodo intermedio, ma anche dell’epoca precedente, quella della VI dinastia, e in particolare del suo ultimo grande sovrano, Pepi II. Con questo nome era conosciuto nella tradizione greca Neferkara, divenuto faraone alla morte del fratello Merenra I avvenuta intorno al 2254 a.C., quando Pepi II aveva solo sei anni. L’ascesa al trono in tenera età fece del suo regno uno dei più lunghi della storia dell’antico Egitto: secondo alcune fonti governò per 90 anni, mentre per altri furono 66. Una statua del Brooklyn Museum lo ritrae come un bambino seduto sulle ginocchia
C R O N O LO G I A
LA FINE DI UN’ERA
Buto
DELTA DEL NILO
BASSO EGITTO
Giza Abusir Saqqara
al-Fayyum
MEDIO EGITTO
della madre, mentre in un’altra appare come un giovinetto ignudo che indossa sulla fronte l’ureo, il cobra simbolo della regalità. Queste immagini di Pepi II da bambino, poco frequenti nel mondo faraonico, avevano probabilmente lo scopo di legittimare l’ascesa al trono di un ragazzo.
Il faraone bambino Degli anni della giovinezza di Pepi II è giunta fino a noi una storia singolare raccolta nell’autobiografia che il governatore della città di Assuan, Harkhuf, fece incidere sulla facciata della sua tomba nella necropoli di Qubbet el-Hawa. Harkhuf aveva guidato una spedizione nelle lontane terre di Yam, nell’Africa a sud dell’Egitto. Mentre la comitiva era in procinto di fare rientro alla corte di Menfi, il faraone venne a sapere che Harkhuf aveva con sé un «nano danzante» (probabilmente un pigmeo) e decise di scrivergli una lettera in cui annunciava che lo avrebbe ricompensato con la massima generosità: «Questa è un’ottima notizia. Sai davvero come compiacere il tuo signore. Credo davvero
2305 a.C.
2260 a.C.
2175 a.C.
2125 a.C.
Inizia il regno di Teti, fondatore della VI dinastia. Sposa la figlia del suo predecessore Unis.
Il faraone Merenra I muore. Gli succede il fratello Pepi II, di appena sei anni d’età.
Pepi II muore. Il suo fu uno dei regni più lunghi della storia dell’Egitto faraonico.
La sua morte è seguita da una serie di brevi regni e inizia il Primo periodo intermedio.
VASO DI ALABASTRO CON ISCRIZIONE DEL NOME DI PEPI II. NEUES MUSEUM, BERLINO.
Eliopoli
SINAI
Menfi Meidum
Eracleopoli
Nilo
uomo virtuoso vaga lamentandosi di quanto è successo nel Paese […] Gli stranieri sono diventati ovunque egizi […] Ovunque c’è il male. Non ci sono più gli uomini di ieri […] Il servo prende tutto ciò che trova. Guardate, il Nilo straripa, ma nessuno ara per lui. Tutti esclamano: “Non sappiamo cos’è successo al Paese”. Le donne sono sterili, nessuna concepisce […]
neo
Asyut
Abido
ALTO EGITTO
Dendera Tebe
Ieracompoli
Nekheb
Qubbet el-Hawa Isola Elefantina Assuan Prima cateratta
IL GRANDE REGNO DEL NILO
Qui sopra, mappa dell’Egitto fino alla prima cateratta. Gli ultimi decenni di governo di Pepi II furono contrassegnati da un indebolimento del potere reale in tutto il territorio. CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
ORONOZ / ALBUM
L’
Mar Mediter ra
MASTABA DI MERERUKA
A partire dalla VI dinastia i re egizi iniziarono a dare le figlie in spose ad alti dignitari di corte. Una figlia del faraone Teti I, la principessa Sesheshet II, andò in moglie al visir del padre, Mereruka, che con questo matrimonio s’imparentò con la famiglia reale. Nella foto, statua di Mereruka nella sua tomba di Saqqara. ARALDO DE LUCA
Questo racconto potrebbe far pensare che sotto Pepi II lo stato egizio esercitasse un ampio controllo sui lontani territori prossimi al confine meridionale, ma la realtà era piuttosto diversa. La situazione politica in Nubia (la regione che attualmente comprende il sud dell’Egitto e il nord del Sudan) non era per niente stabile. Durante la precedente dinastia si era insediata nella zona una nuova popolazione proveniente dall’interno dell’Africa, catalogata dagli storici come “gruppo C”, e ciò impediva agli egizi di avere accesso diretto ai prodotti locali, in particolare a pelli, legname e spezie. Pepi II organizzò delle spedizioni militari per cercare di pacificare la zona, ma andò incontro a delle sconfitte. Una fra tutte quella subita dal principe Mehu, morto in battaglia, il cui corpo fu riportato in Egitto dal figlio. L’instabilità delle zone periferiche del regno interessò anche il confine con la Libia e in particolare l’oasi di Dakhla, dove il palazzo dei governatori fu distrutto e saccheggiato dai nomadi del deserto. Episodi analoghi si verificarono nella città di Mendes, sul delta del Nilo. Tutte queste vicende non sono altro che una dimostrazione del notevole indebo-
LA TOMBA DI ANKHESENPEPI II LA MADRE DI PEPI II era figlia del nomarca di Abido, Khui. La sua tomba fa
parte del complesso funerario del marito Pepi I a Saqqara. Si tratta di una piramide con un lato di base di 32 metri, al cui interno sono stati trovati incisi, per la prima volta nella tomba di una regina, i Testi delle piramidi, il che dà un’idea della sua importanza. Il sarcofago di Ankhesenpepi (sopra), su cui sono iscritti il suo nome e i suoi titoli, è stato rinvenuto nel 2001.
limento del potere e dell’autorità del faraone nei confronti delle popolazioni limitrofe. Di fronte a una simile instabilità del Paese potrebbe sorprendere che l’arte faraonica dell’epoca continuasse a trasmettere un’immagine trionfante e onnipotente del sovrano: per esempio, in vari rilievi del complesso funerario di Pepi II a Saqqara è visibile la classica rappresentazione del re che sconfigge i nemici dell’Egitto afferrandoli per i capelli. In realtà le scene in cui il faraone vince i libici sono uguali a quelle che il re Sahura, della precedente dinastia, aveva fatto incidere sulle pareti del suo tempio funerario di Abusir. Il fatto che i protagonisti siano gli stessi dimostra che il proposito delle immagini fosse probabilmente amplificare la figura del faraone piuttosto che descrivere una qualche spedizione vittoriosa condotta da Pepi II.
IL VASO DELLA REGINA
Vaso di alabastro sul cui bordo è inciso il nome della regina Ankhesenpepi II, madre di Pepi II.
QUINTLOX / ALBUM
Un Paese in conflitto
ARALDO DE LUCA
che passi le tue ore di veglia a immaginare i modi per meglio servirmi. Ricompenserò te e la tua famiglia per molte generazioni per quest’ottimo lavoro». E aggiungeva che Harkhuf avrebbe dovuto prendere tutte le misure necessarie affinché la spedizione, e soprattutto il nano, arrivassero a Menfi senza correre pericoli: «Torna subito verso nord, vieni immediatamente a corte. Porta rapidamente qui questo nano […] vivo, prospero e in salute, per le danze del dio, per allietare il cuore […] Quando sarete sulla nave, fallo vigilare da persone esperte, per evitare che cada in acqua. Quando dorme la notte, incarica delle persone esperte di dormire accanto a lui nella sua tenda. Vai a controllarlo dieci volte per notte. La mia maestà vuole vedere questo nano ancor più dei doni provenienti dalla terra delle miniere [il Sinai] e dal Punt».
LA PIRAMIDE DI PEPI II
Il recinto funerario di Pepi II si trova a Saqqara sud, accanto alla mastaba di Shepseskaf, penultimo faraone della IV dinastia. Il complesso comprende la piramide del sovrano e quelle di tre delle sue mogli. PHILIP PLISSON / PÊCHEUR D’IMAGES
KHNUMHOTEP E NIANKHKHNUM, FUNZIONARI DI UN FARAONE DELLA V DINASTIA. RILIEVO DELLA LORO TOMBA COMUNE A SAQQARA.
lo university of chicago oriental institute conserva un papiro del Nuovo regno con il testo di una storia ambientata durante la VI dinastia, sotto il regno di Pepi II. Conosciuto dagli specialisti come Racconto del re Neferkara e del generale Sisene, il testo narra della segreta vita notturna del faraone Neferkara, cioè Pepi II. Una volta il re «uscì di notte, in solitaria passeggiata». Un certo Tjeti, osservando la scena, disse tra sé: «Allora, è vero quello che si racconta! Se ne va in giro di notte». Decise dunque di seguirlo, per vedere cosa succedeva. Il papiro continua raccontando che il re «andò a casa del generale Sisene; tirò un mattone e diede un calcio alla
porta. A quel punto venne calata [una scala?] su cui il faraone si inerpicò. Tjeti restò in attesa finché sua maestà non uscì. Dopo aver fatto ciò che voleva con quell’uomo [Sisene], sua maestà tornò verso il palazzo, mentre Tjeti lo seguiva». Il re «era entrato nella casa del generale Sisene quand’erano trascorse quattro ore della notte; passò quattro ore nella casa del generale Sisene e poi tornò al palazzo reale, quattro ore prima dell’alba». La storia sembra alludere a una relazione omosessuale tra Pepi II e il suo comandante. Forse è un esempio della cattiva reputazione di cui godette l’ultimo faraone della VI dinastia in epoche successive.
DEA / GETTY IMAGES
LE SCORRIBANDE NOTTURNE DEL FARAONE
Gli influenti nomarchi Sebbene la situazione in periferia non fosse del tutto stabile, l’autorità del faraone era in pericolo anche altrove. Internamente Pepi II aveva tentato di acquisire un maggiore controllo sull’amministrazione tramite uno sdoppiamento del titolo di visir (l’uomo di fiducia del faraone), nominandone uno per l’Alto e uno per il Basso Egitto. Ma questi sforzi non impedirono ai nomarchi –ovvero i governatori delle province (nomoi) – di affermare la propria autorità al di sopra di quella del faraone. Queste figure diedero vita a delle autentiche dinastie ereditarie e si costruirono le proprie reti di potere, assumendo prerogative che prima erano di competenza esclusiva del sovrano. Esemplifica bene questa situazione il potente nomarca del distretto di Elefantina (nell’attuale Assuan): Pepinakht condusse delle spedizioni militari nell’Africa interna e fu sepolto nella necropoli di Qubbet elHawa, sull’isola Elefantina. Alla sua morte si sviluppò addirittura un culto in suo onore che si protrasse per secoli, probabilmente un riflesso del fatto che le élite statali cercavano di rafforzare i legami con i personaggi in grado di garantire l’ordine a livello locale. In queste circostanze, la maggior parte delle risorse economiche e umane delle province non veniva più destinata alla capitale egizia ma alle grandi città provinciali, come Elefantina, Copto, Abido o Eracleopoli, che sarebbero diventate importanti centri autonomi durante il Primo periodo intermedio. Come indice della loro crescente indipendenza dal
METROPOLITAN MUSEUM / ALBUM
D’altra parte, il sovrano fu raffigurato anche in forma di sfinge, proprio come i suoi predecessori, e nel suo complesso funerario sono state trovate statue di prigionieri asiatici. A partire dalla V dinastia queste tipologie iconografiche del faraone e dei nemici sconfitti erano diventate comuni in tutte le strutture funerarie reali e non devono essere interpretate come prova di attività militare. Dimostrano piuttosto che ai confini del Paese stavano comparendo delle popolazioni che mettevano in crisi la tenuta dello stato.
UN NOMARCA DI PEPI II IDU II FU GOVERNATORE del nomos di Dendera, nell’Alto Egitto, durante il regno di Pepi II. Come altri nomarchi della VI dinastia, fece costruire nel suo territorio una tomba monumentale per dimostrare il proprio potere. Alla fine del XIX secolo gli archeologi vi trovarono questa statua in pietra calcarea, alta 60 cm (Metropolitan Museum, New York), dove appare seduto, con una parrucca riccia e un gonnellino.
potere centrale, i governatori iniziarono a costruire le proprie tombe nelle necropoli dei loro stessi territori – come Pepinakht a Elefantina – e non più nella capitale statale, Menfi, come invece era stata consuetudine fino all’inizio della sesta dinastia. In questi complessi funerari sono stati ritrovati i testi autobiografici dei nomarchi con la descrizione delle loro attività, che spaziavano dall’approvvigionamento di grano alla realizzazione di opere idrauliche. Ma i rilievi di queste tombe mostrano anche un’altra realtà: i continui conflitti tra i diversi nomoi per il controllo dei territori vicini. I nomarchi dal canto loro ricorrevano sempre più spesso ai mercenari per mantenere il controllo dei propri domini.
LE LAMENTAZIONI DI IPUWER
Frammento del papiro in cui si narrano le calamità sofferte dall’Egitto durante il Primo periodo intermedio. Musée du Louvre. ERICH LESSING / ALBUM
L’ISOLA ELEFANTINA
Qubbet el-Hawa è la necropoli dei nomarchi di Elefantina, situata presso la prima cateratta del Nilo. Grazie agli scavi effettuati dagli archeologi dell’Università di Jaén sono emerse varie tombe che hanno fornito preziose informazioni sulla vita di questi personaggi. JANE SWEENEY / AWL IMAGES
WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
Pepi II edificò il proprio complesso funerario a Saqqara, dov’è raffigurato mentre caccia ippopotami (simbolo della vittoria su Seth, dio del caos) ed esegue rituali durante l’Heb Sed (la festa in cui il faraone rinnovava il suo potere al cospetto di tutti gli dei egizi), o è protagonista delle già citate scene di trionfo militare. In tutte queste rappresentazioni il faraone è sempre accompagnato dalle divinità, che lo osservano adempiere ai doveri propri del sovrano d’Egitto. Anche le scene di offerte funerarie o di sacrifici animali, necessarie per assicurare a Pepi II la vita nell’aldilà, trasmettono un senso di ordine e di mantenimento della maat (la giustizia universale). I faraoni continuavano insomma a presentarsi nel pieno del loro potere, secondo i canoni in vigore fin dai tempi dell’unificazione dell’Egitto, nonostante la realtà fosse ormai profondamente diversa.
LA VENDETTA DI NITOCRIS ERODOTO racconta la storia di Nitocris, ultima regina della VI dinastia e
La fine del potere faraonico Pepi II si spense in età piuttosto avanzata e sebbene molti dei suoi figli fossero già deceduti, non mancarono i pretendenti al trono. La sua morte scatenò una feroce lotta per la successione, una situazione per certi versi analoga a quella che l’Egitto avrebbe vissuto secoli dopo, alla morte di Ramses II. Di quegli anni non si sa molto e le liste reali compilate in epoca successiva riportano versioni differenti su quanto accadde in seguito. Da ciò che si è potuto ricostruire si ritiene che a Pepi II successe inizialmente il figlio Merenra II, che dopo appena un anno di regno cedette il posto a sua sorella e moglie, Nitokerty - o Nitocris secondo alcune fonti. La nuova regina, considerata la prima donna a governare l’Egitto faraonico, seppe lasciare un duraturo ricordo di sé, come dimostra il fatto che nel V secolo a.C. Erodoto la menziona nelle sue Storie attribuendole una terribile vendetta contro i suoi cortigiani. Nitocris è seguita da almeno diciassette re, che compongono la settima e l’ottava dinastia e dei cui regni effimeri si sono conservate solo scarse testimonianze archeologiche. Poi ebbe inizio il Primo periodo intermedio, una fase descritta dalle liste reali egiziane
figlia di Pepi II: «Lei, per vendicarlo [l’omicidio del fratello e marito Merenra II], […] fece costruire una grande sala sotterranea, […] vi invitò a banchetto le persone che sapeva maggiormente implicate nell’omicidio; e mentre queste pranzavano, attraverso una grande conduttura segreta rovesciò su di loro le acque del fiume». Poi si suicidò per sfuggire alle rappresaglie.
come priva di un unico centro di potere e che le fonti letterarie ritraggono con i toni cupi visti nelle Lamentazioni di Ipuwer.Fu certamente un’epoca d’instabilità politica e di declino economico, che trova riflesso in un’arte monumentale di proporzioni più modeste. Ma fu allora che vennero poste le basi politiche, economiche, sociali e religiose da cui sarebbe nato il Medio regno, considerato il periodo classico dell’Egitto faraonico in tutte le sue manifestazioni.
L’ULTIMA REGINA
Secondo lo storico e sacerdote egiziano Manetone, dopo il regno di Nitocris si aggravò la crisi di potere che attraversava il regno d’Egitto. Sopra, un’incisione del 1881 che la raitrae.
ANTONIO PÉREZ LARGACHA UNIVERSITÀ INTERNAZIONALE DI LA RIOJA (UNIR)
Per saperne di più
TESTI
Testi religiosi egizi Sergio Donadoni (a cura di). TEA, Milano, 1988. SAGGI
Storia dell’antico Egitto Nicolas Grimal. Laterza, Roma-Bari, 2007. La civiltà egizia Alan Gardiner. Einaudi, Torino, 2007.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
43
LA TOMBA DI PEPI II E DELLE La piramide di questo faraone della VI dinastia si trova nella necropoli di
MASTABA DI SHEPSESKAF Conosciuta anche come el-Fara’un, fu la tomba del penultimo faraone della IV dinastia. Questo re interruppe l’usanza dei suoi predecessori di farsi seppellire nelle piramidi.
la piramide del faraone pepi ii misura 78,5 m x 52,5 m e ricevette il nome ufficiale di “Neferkara è durevole e vivente”. L’ingresso della piramide si trova sulla facciata nord, e nella camera funeraria sono incisi i Testi delle piramidi, che dovevano facilitare il viaggio del faraone nell’oltretomba. Nel 1881 fu scoperto in questa sala il sarcofago di granito del sovrano, lungo 2,8 m. Il tempio a monte conserva rilievi con scene di caccia e feste in onore delle vittorie del re. Intorno al complesso di Pepi sorgono le piramidi di tre delle sue diverse mogli, copie in scala ridotta di quella del monarca e decorate anch’esse con testi funerari.
MOGLI A SAQQARA
Saqqara ed è circondata dalle piramidi più piccole delle sue tre regine Piramide della regina Udjebten
Piramide della regina Iput II
Piramide della regina Neith
PIRAMIDE DI IBI Questa piccola piramide fu fatta costruire da Kakaure Ibi, faraone dell’VIII dinastia, durante il Primo periodo intermedio.
ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE © JEAN-CLAUDE GOLVIN/ ÉDITIONS ERRANCE
PIRAMIDE DI PEPI II Il faraone fece erigere il suo complesso funerario con le caratteristiche dei precedenti recinti piramidali: un tempio a valle, una strada di collegamento, un tempio a monte e la piramide. Nei dintorni sorgono i più piccoli complessi delle mogli.
ARCHITETTUR A SUMER A
LE CITTÀ DI FANGO Le prime città apparvero in Mesopotamia circa cinquemila anni fa. La loro nascita e il loro successivo sviluppo sono intimamente legati a un umile materiale impiegato per costruirle: l’argilla
UNA MONTAGNA DI ARGILLA
Ziqqurat di Uruk (l’attuale Warka, in Iraq). Costruite con strati successivi di adobe e canne, le ziqqurat erano gli unici punti elevati della grande pianura mesopotamica. ESSAM AL-SUDANI / GETTY IMAGES
C R O N O LO G I A
L’argilla, un dono degli dei 10000-9000 a.C.
All’inizio del Neolitico il fango viene utilizzato per intonacare pareti e soffitti e per fabbricare mattoni crudi modellati a mano.
7500-5500 a.C.
Nell’area che va dal medio Eufrate a Damasco compaiono i primi stampi: due tavolette parallele con cui si pressava l’argilla.
5500-3700 a.C.
Durante la cultura di Ubaid appaiono gli stampi a quattro lati, che permettono di fabbricare mattoni più piccoli e regolari.
VISTA AEREA DEL CENTRO DI URUK, IN IRAQ. SORTA INTORNO AL 3750 A.C., È UNA DELLE PRIME CITTÀ DELLA STORIA.
3700-2900 a.C.
Periodi di Uruk e Gemdet Nasr: si diffonde l’uso di mattoni cotti, che contribuisce allo sviluppo delle prime città.
2340-539 a.C.
Durante l’impero accadico e neobabilonese si affermano i mattoni quadrangolari, che non superano mai i 50 cm di lato.
II millenio a.C.
All’epoca della dinastia cassita di Babilonia compaiono i primi mattoni decorati con figure in rilievo.
I millenio a.C.
Nella prima metà di questo periodo si sviluppano i mattoni a rilievo smaltati come quelli della porta di Ishtar a Babilonia. CHRISTIAN LARRIEU / RMN-GRAND PALAIS
48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
STATUETTA DI FONDAZIONE
Nelle fondamenta delle costruzioni venivano collocati oggetti come questo. La figura in rame è intenta a piantare un chiodo e ha in testa la caratteristica tiara con corna degli dei. 2120 a.C. circa. Louvre, Parigi.
L
a creazione dell’umanità, il sorgere delle prime città e persino l’invenzione della scrittura hanno come protagonista l’argilla. Ecco perché quest’umile materiale ha assunto un simbolismo centrale, ispirato dalla stessa esperienza umana. Secondo alcuni miti l’uomo era stato plasmato con l’argilla e tale sarebbe tornato dopo la morte, come ricorda una frase della Bibbia: «Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e polvere tornerai». I sumeri, dal canto loro, credevano che fosse il potere delle parole orali o scritte a istituire la realtà, e che senza di queste il mondo avrebbe cessato di esistere. Le parole scritte erano incise su tavolette di argilla, dunque era sempre questo materiale a concedere o negare l’esistenza. In questo senso la terra, usata come principale elemento costruttivo tanto in umili dimore quanto in sontuosi palazzi e gigantesche ziqqurat, non era solo qualcosa di puramente concreto e tangibile: partecipava al
Zona ingrandita M
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Golfo Pe rs i c o BASSORA
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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
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Possibile litorale attorno al 2000 a.C.
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IL PAESE DELLE CITTÀ
Il paese di Sumer era situato nella Bassa Mesopotamia, una grande pianura alluvionale lunga circa 650 km e larga tra i 150 e i 200 km, che era costituita esclusivamente dai finissimi limi argillosi depositati dai fiumi Tigri ed Eufrate e considerati di grande valore agricolo. Questo mare di fango terminava in un’ampia area di pantani e canneti affacciata sul golfo Persico. A determinare lo stile architettonico e le dimensioni dei monumenti di questa regione furono i materiali a disposizione degli abitanti. La tecnologia
SFRUTTARE LE RISORSE
Questo frammento di un rilievo in pietra calcarea mostra una stalla fatta di canne risalente a cinquemila anni fa, nella zona di Uruk. Accanto alla stalla si vedono diversi bovini. Musée du Louvre, Parigi.
LBUM
La comparsa dei mattoni crudi
costruttiva si basava infatti su un impasto di terra, paglia e sabbia essiccato al sole, il cosiddetto adobe, una parola che attraverso l’arabo e il copto parrebbe risalire all’egiziano antico djebat. Alla base di questo materiale c’è l’argilla limosa, che allo stato naturale non ha la solidità e la densità sufficienti per essere utilizzabile. È quindi necessario mescolarla con degli agglutinanti che le conferiscono consistenza e contrastano le tensioni interne e le crepature provocate dalla fase di essiccamento. La soluzione più comune è impastarla con sabbia o paglia, come ricorda un passo biblico dell’Esodo in cui il faraone punisce gli ebrei, prigionieri in Egitto, obbligandoli a fornire essi stessi la paglia per i mattoni che devono fabbricare. Era una punizione estremamente severa: si stima infatti che occorressero 60
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dono della vita che era in grado d’infondere. Gli edifici erano come organismi viventi creati grazie all’argilla, che morivano quando l’abbandono riportava la terra al suo stato naturale. L’architettura poteva essere considerata integralmente organica nella sua accezione più ampia: la pietra rappresentava l’immortalità ed era riservata a edifici come le tombe o i santuari, mentre il fango evocava la caducità e il trascorrere del tempo.
fiumi”, designa la regione tra il Tigri e l’Eufrate. Nella parte meridionale di questo territorio, la cosiddetta Bassa Mesopotamia, si trova il paese di Sumer. Qui, nel quarto millennio a.C. si formarono le prime comunità urbane, come Ur o Uruk. Furono costruite grazie al materiale più disponibile nella zona: il fango.
E . LESS
GEORG GERSTER / AGE FOTOSTOCK
IL TERMINE MESOPOTAMIA, che in greco significa “terra tra i
LA CASA DELLA DIVINITÀ
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Rilievo di un sigillo cilindrico proveniente da Susa (Iran), su cui compare l’immagine di un tempio alto, un edificio rialzato, ornato con delle specie di corna. 3300 a.C. Louvre.
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chili di paglia per fabbricare un centinaio di mattoni. I testi antichi menzionano anche altri elementi utilizzati nella preparazione dell’adobe, come l’olio di cedro, il miele o un certo tipo di burro chiarificato, che probabilmente conferiva maggiore consistenza al composto, ma le analisi moderne non hanno confermato la presenza di queste sostanze. Inoltre all’impasto veniva aggiunta dell’acqua, che ne aumentava la plasticità e permetteva di modellarlo. Ecco perché i luoghi di produzione dell’adobe erano in prossimità di fiumi e canali. I mattoni così formati venivano in seguito lasciati asciugare al sole per alcuni giorni, fino a raggiungere la consistenza adeguata. L’uso costruttivo di argilla cruda è documentato fin dall’inizio del Neolitico, circa 11mila anni fa. La terra poteva essere compattata tramite la tecnica del pisé e poi usata per rafforzare tetti e pareti; in altri casi veniva modellata a mano per fabbricare mattoni. Questi ultimi apparvero
in tutta la Mezzaluna fertile – dalla costa siro-palestinese fino alla catena montuosa del Tauro (in Turchia) e dello Zagros (in Iran) – e avevano inizialmente forma allungata o rotonda. In alcuni casi nella parte superiore venivano praticati dei fori a cui era possibile collegare un graticcio, che veniva poi ricoperto di terra pressata e serviva per dare forma alle pareti. Più tardi, all’incirca ottomila anni fa, comparvero in Mesopotamia i primi stampi per mattoni. Erano costituiti da due tavolette parallele di legno, lunghe tra i 50 e i 90 centimetri e di forma rettangolare, tra le quali veniva posto l’adobe. Circa seimila anni fa s’iniziarono a usare gli stampi a quattro facce, che permettevano di costruire mattoni più regolari e corti (tra i 30 e i 40 centimetri di lunghezza). Cinquemila anni fa lo sviluppo dell’edilizia portò con sé due importanti novità, in concomitanza con la nascita delle prime città, come Uruk. Innanzitutto apparve un nuovo tipo
NIK WHEELER / GETTY IMAGES
ZIQQURAT DI DUR KURIGALZU, L’ODIERNA ’AQAR QUF, IN IRAQ, COSTRUITA NEL XIV SECOLO A.C.
DIVINITÀ AL LAVORO Enki era il dio sumero della creazione e dell’artigianato, che avrebbe insegnato agli uomini a costruire città e templi. Nell’immagine, la statua di Enki arriva a Eridu. Illustrazione di Balage Balogh.
di mattone quadrato, il cosiddetto riemchen, le cui dimensioni ridotte e maggiormente standardizzate (tra i 16 e i 30 centimetri di lunghezza) permettevano una fabbricazione e una posa più rapide. Il riemchen presentava anche un altro vantaggio: conferiva una grande uniformità geometrica agli edifici, favorendo così la comparsa di un’urbanistica regolare.
«Sali sulle mura…» La seconda novità fu la diffusione del mattone cotto, le cui caratteristiche d’impermeabilità e solidità risolvevano il principale problema dell’architettura basata sull’argilla, ovvero il fatto che fosse costantemente minacciata dall’azione della pioggia, dell’acqua presente nel terreno mesopotamico e del vento. Ma questa nuova tecnologia aveva un costo quasi proibitivo: per cuocere un metro cubo di mattoni servivano cinque metri cubi di legna, una risorsa di cui la Bassa Mesopotamia non era particolarmente ricca. I mattoni cotti erano pertanto riservati all’esterno
BALAGE BALOGH / SCALA, FIRENZE
LA CITTÀ DEL DIO ENKI
CON LA CRESCITA delle città, aumentarono anche i doveri degli dei, soprattutto negli ambiti connessi all’architettura: le costruzioni erano sotto l’egida di Enki, patrono delle arti; Kulla era invece il dio dei mattoni e Mushdama il dio delle fondamenta. Depositari del sapere edilizio, erano anche oggetto di offerte, preghiere e riti fondativi affinché proteggessero gli edifici.
di palazzi, templi e mura difensive, come testimonia l’Epopea di Gilgamesh. Di ritorno dalla sua vana ricerca dell’immortalità, il famoso eroe si reca a contemplare le mura della sua città e dice al barcaiolo che lo accompagna: «Sali, o Urshanabi, sulle mura di Uruk! Percorrile! Osservane le fondamenta, esaminane la struttura: non sono forse fatte di mattoni cotti?». In qualche caso il nuovo mattone veniva utilizzato anche nell’edilizia domestica, soprattutto per quelle parti della casa più esposte all’acqua e all’umidità, come le condutture, la parte inferiore delle pareti e i pavimenti. In generale però si preferiva ricorrere a sistemi più economici, come ricoprire i mattoni crudi con calce o con uno spesso strato di terra pressata.
Le fonti antiche menzionano l’uso di olio di cedro, miele e burro chiarificato per fabbricare i mattoni, ma le analisi non ne hanno confermato la presenza STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GUDEA, IL RE ARCHITETTO Una delle funzioni più importanti dei sovrani mesopotamici era quella di onorare gli dei tramite la costruzione e il restauro dei loro templi. Per questo motivo sono frequenti le rappresentazioni di re che trasportano cesti con materiali edili, un fatto che rispondeva alla realtà. Tra i vari sovrani si segnala Gudea, che intorno al 2141 a.C. salì al trono di Lagash. La più importante delle sue numerose costruzioni fu Eninnu, un tempio della città di Girsu dedicato a Ningirsu. La cerimonia che precedette l’inizio dei lavori viene descritta in un testo straordinario riportato su due reperti in terracotta noti come Cilindri di Gudea. La scultura conosciuta come statua B di Gudea mostra invece la pianta dell’Eninnu e ne racconta la costruzione in 366 caselle di testo.
C. CHAVAN / RMN-GRAND PALAIS
E. LESSING / ALBUM
GUDEA TRASPORTA IL CESTO DEL COSTRUTTORE. QUESTE FIGURE, DETTE CHIODI DI FONDAZIONE, VENIVANO POSTE NELLE FONDAMENTA DEGLI EDIFICI. 2120 A.C. CIRCA. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
STATUA B DI GUDEA DETTA ANCHE “L’ARCHITETTO”, PERCHÉ IL RE HA SULLE GINOCCHIA LA PIANTA DEL TEMPIO ENINNU. 2120 A.C CIRCA, LOUVRE, PARIGI.
DELLA MESOPOTAMIA
LA POSA DEL PRIMO MATTONE «Nello stampo del mattone [Gudea] versò acqua propizia, mentre gli strumenti sim e ala suonavano per il governatore; questi estrasse la terra necessaria al mattone da un pozzo, vi aggiunse miele, burro e olio prezioso, ambra grigia ed essenze di diversi alberi, e lavorò l’impasto. [Poi] Gudea sollevò il cesto sacro, lo avvicinò allo stampo; pose l’argilla nello stampo […] fabbricando il primo mattone per il tempio». In occasione della cerimonia per la posa del primo mattone «la gente della sua città e del Paese di Lagash trascorse la giornata in grande gioia.
Questi [con Gudea] percosse lo stampo, estrasse il mattone per farlo asciugare, rivolse uno sguardo attento al pozzo e al fango del suo du-uru; ne unse lo strato superiore con ambra grigia ed essenze di cipresso». Il testo prosegue con il racconto dell’operato di Gudea: «Dal telaio dello stampo il mattone fu tolto; [simile] alla sacra corona di An; sollevò il mattone e lo mostrò al popolo». Finalmente «depose il mattone, entrò nel tempio e cominciò a disegnarne la pianta, [come un autentico] Nisaba, che conosce il significato dei numeri […] Simile a un giovane che si costruisce casa […] dimostrò una preoccupazione costante per il tempio». L’INNO DEDICATO AL TEMPIO È RIPORTATO SU DUE CILINDRI. IL TESTO QUI SOPRA PROVIENE DAL CILINDRO A. 2120 A.C. CIRCA. LOUVRE, PARIGI.
FRANCK RAUX / RMN-GRAND PALAIS
P. FUZEAU / RMN-GRAND PALAIS
LA PORTA DI ISHTAR
Con i suoi circa 18 metri di altezza, quest’antica porta della città di Babilonia è uno dei più notevoli esempi di uso del mattone smaltato. VI secolo a.C., Pergamonmuseum, Berlino.
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PIANTA DI UNA CASA RITROVATA A LAGASH (IRAQ). 2400 A.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
IL LESSICO SUMERO DELL’EDILIZIA
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A partire dall’impero accadico – il primo della storia, risalente a oltre quattromila anni fa – fino alla nascita dell’impero persiano, nel VI secolo a.C., i mattoni adottarono una forma quadrangolare. C’erano due varietà principali, entrambe di 9 centimetri di spessore: quella quadrata, di circa 33 centimetri di lato, e quella rettangolare, di 25 centimetri di lunghezza e 16 di larghezza. Il fatto che in tutta la Mesopotamia si usassero per lo più gli stessi modelli ha permesso agli archeologi di calcolare il tempo e la quantità di mattoni necessari a costruire le varie tipologie di edifici, dalle case più modeste alle colossali ziqqurat che dominavano le città.
ERICH LESSING / ALBUM
Un’architettura sostenibile Le tecniche costruttive variavano in funzione dell’opera da realizzare. Nel caso di semplici abitazioni non era necessario gettare le fondamenta: si collocava la prima fila di mattoni direttamente a terra. Nel caso di edifici importanti, invece, bisognava innanzitutto scavare il terreno. Poi si costruiva una
base di mattoni crudi che arrivava fino al livello del suolo. Quindi si disponevano sopra di essa delle file di mattoni cotti per isolare la parte superiore del muro dall’acqua del sottosuolo. A quel punto si utilizzavano di nuovo i mattoni crudi, che potevano a loro volta essere rivestiti con dei mattoni cotti per proteggere l’edificio dalle intemperie. Nel caso di costruzioni molto elevate, come per esempio la ziqqurat di Babilonia, le file di mattoni potevano finanche essere intervallate di tanto in tanto con uno strato di canne e fango di circa dieci centimetri di spessore. Ciò permetteva di compattare la parete e ridurre il peso e la pressione delle file superiori. Le costruzioni più comuni delle città mesopotamiche erano le case, generalmente di forma rettangolare e quasi sempre in mattoni crudi. Dato il clima della regione erano progettate per fungere da regolatori termici: avevano poche finestre di dimensioni ridotte e spesse pareti su cui si aprivano dei
MATERIALI DA COSTRUZIONE
Mattone cotto proveniente da Susa (Iran), 35x34 cm, realizzato intorno al 1900 a.C. Musée du Louvre, Parigi.
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ERICH LESSING / ALBUM
invenzione dell’architettura in mattoni spinse i sumeri a coniare nuovi termini per riferirsi alle città, ai ruoli e agli strumenti che il mondo delle costruzioni richiedeva. Il loro lessico edilizio iniziò ad arricchirsi: apparve per esempio la parola shiddim, che designava lo specialista della costruzione. Il vocabolo deriva dal verbo sumero dim, “costruire”, la cui traduzione in accadico è banû. Lo sviluppo della nuova industria edilizia era tale che la parola sumera per indicare il mattone passò prima a significare “muro” e poi, per estensione, “città”. Nel calendario mesopotamico i sumeri avevano perfino designato un “mese dei mattoni”, che corrispondeva a maggio-giugno, il periodo dell’anno migliore per fabbricarli.
UNA TECNICA BRILLANTE
Alla fine del II millennio a.C., e soprattutto durante il I millennio a.C., assiri, babilonesi e persiani ricorsero a una nuova tecnica per decorare templi e palazzi: il mattone smaltato, sia piano sia in rilievo. Si trattava di disegnare o scolpire il mattone in bassorilievo; quindi ricoprire le figure con pigmenti di diversi colori (blu, arancione, verde, giallo, rosso o bianco), estratti da vari minerali e mescolati con silice fusa; e infine cuocere il mattone in forni che raggiungevano i 900 gradi. Il procedimento permetteva di fissare il colore con risultati spettacolari, come nel caso di questo leone babilonese.
LEONE IN MATTONI SMALTATI DELL’EPOCA DI NABUCODONOSOR II. FRAMMENTO DI UN MURO DEL VIALE DELLE PROCESSIONI DI BABILONIA. VI SECOLO A.C. LOUVRE, PARIGI.
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condotti orizzontali che permettevano di far circolare l’aria. La porta era spesso dipinta di rosso per scacciare i demoni. I pavimenti erano in terra battuta, a volte ricoperta di calce; i tetti piatti o leggermente inclinati erano fatti con travi di palma e strati alternati di paglia e fango.
Le case di Ur Un ottimo esempio delle costruzioni appena descritte sono le abitazioni scoperte a Ur dall’archeologo britannico Leonard Woolley, erette probabilmente intorno al 1800 a.C. Spiega lo stesso Woolley: «Si trattava di case private di cittadini della classe media. La parte inferiore delle pareti era in mattoni cotti, quella superiore in adobe […] Le stanze, che potevano essere anche tredici o quattordici, erano disposte intorno a un cortile centrale lastricato che dava luce e e aria all’edificio». Tali ambienti fungevano proba-
MODELLO DI CASA
Questa ricostruzione in argilla è una tipica abitazione mesopotamica: forma geometrica, tetti piani e finestre per mantenere la casa fresca d’estate e calda d’inverno. 1000 a.C.
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bilmente da magazzini, laboratori, negozi o bagni. Prosegue Woolley: «La porta d’ingresso dava accesso a un vestibolo con un canale di scolo, dove i visitatori potevano lavarsi le mani e i piedi, e che conduceva a sua volta al cortile centrale. Qui c’era una scala in mattoni che andava al piano superiore, e dietro di essa era situata una sorta di bagno con uno scarico in terracotta». La maggior parte delle case aveva dunque un secondo piano, dove si trovavano le camere da letto, la sala da pranzo e gli spazi adibiti all’uso personale, oltre a eventuali santuari familiari. Sebbene nella Ur dell’epoca le tombe di famiglia fossero generalmente situate sotto il pavimento, tale usanza non era diffusa in tutta la Mesopotamia. L’arredamento di queste abitazioni era semplice, costituito di solito da un tavolo e qualche sedia; solo i più benestanti potevano permettersi letti in legno, una risor-
ERICH LESSING / ALBUM
MOSAICI PER LA DEA
Realizzati con dei coni in ceramica dipinta lunghi circa 10 cm, provengono da un tempio di Uruk dedicato a Inanna. IV millennio a.C. Vorderasiatisches Museum, Berlino.
FACCIATA DEL TEMPIO DI INSHUSHINAK A SUSA, CAPITALE DI ELAM. MATTONI A RILIEVO. XII SECOLO A.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.
OLAF TESSMER / BPK / RMN-GRAND PALAIS
COSTRUIRE CON IL BITUME
sa rara e preziosa. Per evitare che l’azione dell’acqua e del vento danneggiasse i mattoni crudi, le mura esterne erano anche dotate di sistemi verticali di drenaggio che andavano dal tetto alla strada ed erano ricoperte di terra battuta, bitume o calce. Dal punto di vista decorativo non c’è molto da dire su quest’edilizia abitativa, al di là dei rivestimenti esterni, delle porte rosse e dei giochi di luci e ombre generati da rientri e sporgenze dei muri. La maggior parte degli elementi ornamentali erano esclusivi di templi e palazzi, che potevano presentare mosaici a coni di argilla o colonne e mattoni smaltati con figure in rilievo.
L’ASFALTO NATURALE (bitume), abbondante nel Vicino Oriente, si usava per impermeabilizzare contenitori (cesti, vasi di terracotta, bagni…), calafatare navi, riparare ceramiche rotte o fissare decorazioni. In Mesopotamia e in Elam veniva utilizzato come malta per la costruzione di grandi edifici pubblici: aiutava a legare i mattoni tra loro e conferiva all’argilla maggior plasticità e resistenza all’acqua.
palazzo di Susa, non ebbe alcun dubbio su chi scegliere per il difficile compito della fabbricazione dei mattoni: «Gli scalpellini che lavorarono la pietra erano ioni e abitanti di Sardi. Gli orefici erano medi ed egizi. Chi lavorava il legno veniva da Sardi e dall’Egitto. Quelli che preparavano i mattoni cotti erano babilonesi. Quelli che decoravano le mura, medi ed egizi. Il re Dario dice: “A Susa fu progettata un’opera grandiosa. E quest’opera ora è terminata”». Oggi, a migliaia di anni di distanza, molte case dell’attuale Iraq seguono ancora gli stessi modelli abitativi babilonesi e sumeri. FELIP MASÓ ARCHEOLOGO SPECIALISTA DEL VICINO ORIENTE ANTICO
Gli artigiani più abili Per oltre seimila anni dunque il fango fu il principale materiale da costruzione della Mesopotamia. Le abilità delle popolazioni locali nella lavorazione dell’argilla assunsero toni quasi leggendari. Quando il re persiano Dario I fece venire specialisti da ogni angolo dell’impero per costruire il suo sontuoso
Per saperne di più
TESTI
Testi sumerici e accadici R. Castellino (a cura di). UTET, Torino, 1977. SAGGI
I sumeri G. Pettinato. Bompiani, Milano, 2005. Il mattone e la sua storia. 8000 anni di architettura J.W.P. Campbell, W. Pryce. Bolis, Azzano San Paolo, 2003.
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ALL’INTERNO DI UNA CASA SUMERA Il miglior esempio di case sumere proviene dalla città di Ur, dov’è stato portato alla luce un quartiere di epoca paleobabilonese (2000 a.C.). Le dimore erano ampie e unite tra loro da pareti comunicanti. Le varie stanze si distribuivano su due piani, attorno a un cortile centrale. Il lato della casa che dava sulla strada non aveva finestre, o ne aveva di molto piccole, per evitare l’entrata del calore e della polvere.
Pareti esterne Erano lisce, di colore biancastro e non avevano finestre. Gli ambienti interni erano quasi privi di luce naturale. Isolamento I mattoni crudi permettevano di conservare il calore di notte e allo stesso tempo mantenere fresca la casa durante le giornate più calde.
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Ingresso Dalla porta principale si accedeva a una piccola anticamera che conduceva al resto della casa.
Le prime case sumere Erano costruite con fasci di canne e giunchi secchi. Vi abitavano forse più famiglie contemporaneamente. Nelle zone paludose dell’Iraq meridionale ci sono ancora costruzioni di questo tipo, dette mudhif.
1 di giorno.
Le case non seguivano uno schema determinato; in alcuni casi potevano avere tetti calpestabili per sfruttare al massimo la luce del giorno.
2 planimetria. Molte abitazioni sumere erano dotate di uno spazio aperto centrale che provvedeva alla doppia funzione d’illuminare e ventilare le stanze.
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3
3 gallerie. I locali superiori,
di solito adibiti a stanze, comunicavano attraverso una galleria in genere costruita utilizzando robusti fasci di canne o legname di scarsa qualità.
4 semplicità. Quasi tutti i mobili erano di vimini. I tavoli di solito erano bassi perché normalmente ci si sedeva per terra. Per dormire invece si usavano tappetini posti direttamente sul pavimento.
5 pasti familiari.
La cucina poteva trovarsi in una stanza separata, ma spesso era integrata nel cortile. Su una delle pareti era generalmente posto un forno in mattoni di argilla per cuocere il pane.
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6 ricostruire.
Dato che il terreno era argilloso non si gettavano fondamenta. Se un edificio non era più sicuro veniva demolito e se ne erigeva un altro al suo posto. È a questa pratica che si deve la presenza di numerose collinette di fango dette tell.
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Materiale principale Nella regione la pietra scarseggiava e la legna era di qualità scadente. Ecco perché i sumeri utilizzavano mattoni di argilla. Ma questi si deterioravano rapidamente sotto l’azione del vento e della pioggia.
L’urbanesimo L’innovazione più importante e duratura della civiltà sumera fu l’urbanesimo. Le prime città apparvero in Bassa Mesopotamia alla fine del II millennio a.C. e si diffusero in tutto l’Oriente.
UNA CITTÀ IN CUI IMPARARE
La poeta Saffo con lo stilo e le tavolette di cera usate per scrivere. Affresco pompeiano del I secolo d.C. Nella pagina seguente, vista di Alessandria da uno dei suoi porti. Lucerna del I secolo d.C. SINISTRA: SCALA, FIRENZE. DESTRA: ALBUM
LA VITA DEI SAGGI
LA BIBLIOTECA DI ALESSANDRIA Quando Alessandro Magno morì nel 323 a.C. il suo generale Tolomeo prese il controllo dell’Egitto e, nella città che portava il nome del defunto conquistatore, fondò due tra le istituzioni culturali più celebri del mondo antico: il Museo e la Biblioteca
I
re della dinastia tolemaica governarono l’Egitto per tre secoli, dal 323 al 30 a.C. Il primo fu Tolomeo, generale di Alessandro Magno, e l’ultima la famosa regina Cleopatra. Stabilirono la capitale del regno ad Alessandria e riuscirono a popolarla di soldati, marinai, burocrati, intellettuali e uomini d’affari dell’intero mondo allora conosciuto, che in quella città moderna e dinamica intravidero nuove opportunità. «Non le manca nessun tesoro», dice di Alessandria una vecchia ruffiana da commedia, «ginnasi, spettacoli, filosofi, denaro, ragazzi, il recinto sacro degli dei, il re, uomo generosissimo, e, in più, il Museo!». Di certo furono in molti ad ammirare le gigantesche proporzioni del Faro e di altri edifici di Alessandria, mentre passeggiavano per l’ampia via Canopica o per i suoi mercati di stoffe e spezie. Pochissimi, invece, misero piede nel Museo (o “luogo sacro alle muse”), perché la famosa istituzione si trovava all’interno del palazzo reale che occupava un intero quartiere, il Bruchion, ad accesso limitato. Tutti però sapevano che nel Museo si trovava una grande biblioteca, in cui erano conservati migliaia di rotoli di papiro, e che ci viveva una comunità di saggi. Ma com’era la vita dietro a quelle alte mura che cadevano a picco sul mar Mediterraneo?
La vita nel Museo Sia Tolomeo I, fondatore del Museo, sia il figlio Tolomeo II erano animati dalla stessa sete di dominio che aveva spinto Alessandro Magno a esplorare i confini del glob o t e r re s t re . Tuttavia, invece di man-
dare delle truppe, questi sovrani scelsero piuttosto d’inviare agenti commerciali con le borse piene d’oro per comprare libri, e si spinsero persino a confiscare nel porto di Alessandria quelli che non erano riusciti a comprare ma che volevano assolutamente includere nella collezione della Biblioteca del Museo. Invitarono pure filosofi, letterati e scienziati provenienti dal mondo greco affinché entrassero a far parte della comunità del Museo, nel palazzo reale dove, liberi dalle preoccupazioni materiali – non dovevano nemmeno pagare le tasse –, potevano «venerare le muse» a beneficio dei loro generosi mecenati. I pochi che avevano messo piede nel Museo sapevano che conteneva diverse strutture: sale conferenze, laboratori, parchi, portici, esedre... Oltre alla famosissima Biblioteca e alla sala da pranzo, dove i residenti mangiavano e celebravano banchetti. Tuttavia, nel Museo la vita non scorreva affatto tranquilla. Una satira dell’epoca raccontava che «in Egitto, quello dalle molte razze», crescevano «alcuni scribacchini di libri che discutono senza sosta nell’uccelliera del Museo». Un personaggio quale Zenodoto di Efeso, primo direttore della Biblioteca del Museo, poteva dare l’impressione di svolazzare tra scaffali e rotoli di papiro per ordinare questi ultimi in ordine alfabetico
I Tolomei inviarono agenti in giro per il mondo alla continua ricerca di testi BP K/
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ALESSANDRO MAGNO CON IL DIADEMA REALE E LE CORNA, ATTRIBUTI DEL DIO AMMONE. FIR
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GLORIA, DECLINO E FINE
SARCOFAGO DELLE MUSE
La Biblioteca era una dépendance del Museo, il “luogo sacro alle muse”, ovvero le divinità che ispiravano le arti e le scienze. Sotto, tre di loro: Erato, Urania e Melpomene. II secolo d.C.
320-280 a.C. Vengono fondati il Museo e la Biblioteca. Il Serapeo, sede di un’altra biblioteca, è fondato tra il 246 e il 221 a.C.
DEA / ALBUM
124 a.C. Tolomeo VIII punisce Alessandria, a lui avversa, ed espelle molti saggi. Inizia il declino della Biblioteca.
47 a.C. Secondo Plutarco, durante la guerra di Cesare e Cleopatra contro Tolomeo XIII la Biblioteca va a fuoco.
391 d.C. Teofilo, patriarca cristiano di Alessandria, promuove la distruzione del Serapeo e della Biblioteca che l’ospita.
642 d.C. Sotto il califfo ‘Amr ibn al - ’Asi i conquistatori musulmani dell’Egitto distruggono e disperdono gli archivi.
BRITISH MUSEM / SCALA, FIRENZE
TOLOMEO I SOTERE, GENERALE DI ALESSANDRO E FONDATORE DELLA DINASTIA TOLEMAICA O LAGIDE.
ANFITEATRO ROMANO DI KOM EL-DIKKA. SI CREDE CHE LA PICCOLA ARENA FACESSE PARTE DELL’AREA ACCADEMICA DI ALESSANDRIA.
ARALDO DE LUCA
– fu proprio lui a inventare tale tipo di catalogazione –, mentre decine di collaboratori, calamo alla mano, redigevano una nuova edizione corretta di Omero. Non mancavano neppure le aspre polemiche, come quella che vide protagonista il poeta Callimaco, il quale inveiva sprezzante contro i colleghi del Museo: «Ora io dico questo ai Telchini: razza spinosa che sa solo rodersi il fegato, certo io ero un poeta di pochi versi». Il suo rancore proviene dalle critiche ricevute perché Apollonio Rodio, per esempio, secondo
direttore della Biblioteca, aveva scritto un lungo poema epico, le Argonautiche, mentre Callimaco componeva solo poesie di brevi versi di circostanza per i re, quando non era alle prese con la tediosa compilazione del catalogo della Biblioteca, le cosiddette Tavole (Pinakes), sotto Tolomeo II.
Al servizio della dinastia I re, proprietari dell’“uccelliera”, non si accontentavano di assistere ai “gorgheggi” e agli “starnazzi” dei loro saggi. I membri del Museo dovevano infatti ricoprire la mansione di consiglieri dei monarchi reggenti e avevano il compito d’istruire i principi della casa reale prima che salissero al trono. Zenodoto, per esempio, fu tutore reale di Tolomeo II e Apollonio Rodio lo fu di Tolomeo III. Tuttavia, i membri del Museo potevano anche entrare sotto l’ala protettrice di altri appartenenti alla nobiltà, come nel caso di Eratostene di Cirene, terzo direttore della Biblioteca, che fu confidente della regina Arsinoe III e le dedicò persino una biografia. Il Museo era sostanzialmente un centro di ricerca, e non un’università che impartiva
OMERO. SCULTURA IN MARMO DI PHILIPPE-LAURENT ROLAND (1746-1816). LOUVRE, PARIGI. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE
IFIGENIA IN TAURIDE
È il titolo della tragedia di Euripide illustrata in quest’idria. I Lagidi cercarono di raccogliere nella Biblioteca le copie migliori dei grandi tragediografi greci: Eschilo, Sofocle ed Euripide. L. RICCIARINI / BRIDGEMAN / ACI
COLLEZIONISTA DI LIBRI
L’INGANNO AGLI ATENIESI Il medico Galeno, che nel II secolo d.C. visse per cinque anni ad Alessandria, ci racconta come Tolomeo III riuscì a ottenere le copie originali, in mano agli ateniesi, delle opere di Eschilo, Sofocle ed Euripide, i grandi drammaturghi greci. Gli ateniesi le avevano prestate al re perché le copiasse dietro il pagamento di una cauzione di quindici talenti in argento, ovvero 390 kg di metallo prezioso.
«Tuttavia – racconta Galeno – dopo averli fatti copiare scrupolosamente sul papiro migliore, conservò quelli ricevuti dagli ateniesi e gli inviò le copie, pregandoli di tenersi i quindici talenti e accettare i nuovi libri al posto dei vecchi».
«E così – conclude Galeno – non poterono farci nulla, perché avevano ricevuto l’argento a condizione che sarebbero stati pagati se lui avesse riprodotto i libri; e così presero i nuovi libri e si tennero l’argento» e l’inganno di Tolomeo III, un bibliofilo compulsivo, ebbe successo.
1 BRUCHION
2 MUSEO E BIBLIOTECA
3 SOMA
Il quartiere reale comprendeva palazzi, templi e splendidi giardini. Fu la residenza dei Tolomei durante i tre secoli del loro regno.
Il Museo e la Biblioteca si trovavano nel Bruchion. Facevano parte del complesso palaziale assieme a un osservatorio astronomico e a un giardino botanico.
Era questo il nome del monumento in cui giaceva il corpo imbalsamato di Alessandro; purtroppo non ne è ancora stata trovata l’ubicazione.
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QUARTIERE REALE
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Alessandria, faro del sapere
Rosetta ALESSANDRIA
r Me diterraneo
Damietta
Buto
Sais
Tani Bubasti
Giza Menfi
Lago Moeris
Eliopoli
ILLUSTRAZIONE: FERNANDO BAPTISTA / NGS
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4 FARO
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Costruito nel III secolo a.C. era una delle sette meraviglie del mondo antico. Misurava 134 metri di altezza ed era visibile a 48 km di distanza.
Il tempio era stato dedicato dai Tolomei al dio greco-egizio Serapide, e vi sorgeva la seconda biblioteca per importanza della città.
CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
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Fino a quando Roma non giunse al suo apogeo, Alessandria, fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., fu la più grande e popolosa città del Mediterraneo. Durante il primo secolo e mezzo della sua esistenza, inoltre, s’impose quale centro culturale grazie al mecenatismo dei Tolomei, i faraoni greci che fondarono il Museo e la sua Biblioteca. Grazie a tali istituzioni e all’uso del greco, lingua del vasto mondo ellenico, Alessandria fu il crogiolo culturale dell’antichità; lì fu tradotta in greco la Bibbia ebraica, particolare dalle conseguenze decisive per il futuro intellettuale e religioso dell’Occidente. E il fatto che Alessandria fosse la capitale dell’Egitto risultò rilevante pure in un altro ambito: la millenaria tradizione egizia della mummificazione consentì di approfondire le conoscenze anatomiche, trasformando la città in una meta ideale degli studenti di medicina.
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TARGA VOTIVA DEDICATA AGLI DEI ISIDE, SERAPIDE E APOLLO DA UN PERSONAGGIO CHIAMATO KOMON, IN ONORE DEI RE TOLOMEO IV E V. METROPOLITAN MUSEUM / ALBUM
La festa delle muse L’evento che più poneva in contatto gli abitanti del Museo con il resto della popolazione di Alessandria era il festival organizzato periodicamente in onore delle muse e del dio Apollo. Comprendeva giochi e concorsi letterari, con premi e omaggi per i vincitori, e a queste competizioni potevano partecipare anche quegli stranieri talentuosi che volevano far conoscere i propri componimenti letterari. La festività era senza dubbio un’occasione di respiro internazionale e i membri del Museo erano invitati a pren-
dervi parte in qualità di giurati. Si racconta che, per una delle edizioni, Tolomeo IV avesse già scelto sei giudici di fiducia, ma gli mancava il settimo. Il sovrano si rivolse allora ai saggi del Museo, i quali gli rivelarono che tra di loro si trovava un giovane di nome Aristofane, che «con entusiasmo e una precisione straordinaria non faceva altro che leggere e rileggere tutti i libri della biblioteca, seguendo un ordine sistematico». Sembra che Apelle, padre di Aristofane, fosse stato un ufficiale di mercenari emigrato con la famiglia dalla piccola località di Bisanzio (la futura Costantinopoli). Tuttavia Aristofane, da genio precoce qual era, non aveva voluto seguire le orme paterne e sin da bambino la sua occupazione preferita era ascoltare i discorsi di Zenodoto. In quanto giovane promettente, era quindi stato discepolo del poeta Callimaco. La scelta di Aristofane in qualità di membro della giuria era perciò pienamente giustificata. Durante la festività i poeti cominciarono a recitare le loro opere a voce alta, e con applausi o fischi il pubblico indicava ai giudici quali fossero di loro gradimento e quali no. Quando venne chiesto il verdetto ai giudici,
MASCHERA TRAGICA IN FAENZA, DI 19 X 19 CM, PROVENIENTE DA EL-FAYYUM. QUINTLOX / ALBUM
UNO SGUARDO ALL’INTERNO
ILLUSTRAZIONE: INKLINK
corsi regolari, anche se a volte vi lavoravano giovani promettenti che oggi chiameremmo ricercatori. Di certo con il tempo i membri del Museo portarono a termine un certo tipo d’insegnamento pubblico, sotto forma di conferenze o di simposi, banchetti ai quali il re poteva scegliere se partecipare o meno.
Ricostruzione di una sala della Biblioteca di Alessandria. Il nome viene dalla parola bibliotheca, che in greco significa “scrigno dei libri”.
COM’ERA LA BIBLIOTECA?
IL MISTERO DELLA BIBLIOTECA Per quanto possa sembrare sorprendente, non abbiamo nessuna descrizione della Biblioteca. La menziona soltanto il geografo greco Strabone, che visse a cavallo dei secoli I a.C. e I d.C. e che qui studiò. Tuttavia, il suo testo descrive il Museo.
«Fa parte dei palazzi reali anche il Museo», afferma Strabone, «che ha una passeggiata, un’esedra e una sala dove gli studiosi suoi membri mangiano in comune». E aggiunge: «È parte dei palazzi reali anche il cosiddetto Soma, che era il recinto all’interno del quale vi erano le tombe dei re e quella di Alessandro». Perché Strabone non ne fa cenno? Secondo l’ellenista Luciano Canfora la Biblioteca non era un edificio o una sala indipendente. Il Museo si sarebbe trovato assieme al Soma, e la Biblioteca costituirebbe la passeggiata menzionata da Strabone (il peripatos, come i greci chiamavano tale colonnato coperto): nelle sue mura vi erano le nicchie che custodivano i libri.
ASSORTO NELLA LETTURA
HNG 65, PAGINA 72 DE SITAS ET ETUR, QUOSSUNT OMNIME PRATURE, TE DOLORESIMOLUT LATIO INIS QUATE AKG / ALBUM
in sei concessero il primo premio al poeta che aveva suscitato una maggiore impressione nel popolo, ma Aristofane obiettò che doveva vincere l’artista meno ammirato. Il re e gli altri giudici s’indignarono, ma, senza perdere la calma, Aristofane gli chiese che lo accompagnassero nella biblioteca del Museo. Poiché conosceva il luogo a memoria, cominciò a estrarre dagli scaffali un gran numero di rotoli di papiro e li mise a confronto con le poesie che aveva udito nella gara. I poeti vincitori a quel punto furono costretti a confessare di aver copiato le loro creazioni. Tolomeo IV, adirato, fece condannare i plagiatori e li scacciò in malo modo. Invece colmò di regali Aristofane e lo nominò direttore della Biblioteca. Grazie all’incarico poté svolgere un notevole lavoro nel campo della critica letteraria e, con le sue edizioni di drammaturghi e di lirici greci, fece sì che la filologia alessan-
Un uomo legge un volume su un rotolo di papiro. Prosa, olio di Lawrence AlmaTadema. 1879. National Museum of Wales, Cardiff.
drina raggiungesse il culmine. Ma un giorno gli inquilini del Museo si meravigliarono per un’insolita notizia: l’erudito e perspicace Aristofane si era fatto sedurre dalla delicata bellezza... di una fioraia di strada! A quanto pare, Aristofane provava un delizioso piacere quando, ogni mattina, mentre era diretto al Museo, incrociava la venditrice e lei gli consegnava una ghirlanda intrecciata con i fiori di stagione più profumati. Ad Alessandria avevano tutti visto il saggio Aristofane accettare timidamente la ghirlanda, senza quasi ringraziare, e lasciare nella mano della fioraia delle monete. Alla venditrice non mancava certo il fascino (e il fiuto per gli affari), però nel Museo alcuni commentarono con malizia che il maestro Aristofane aveva un rivale alla sua altezza: un elefante! A stento riuscirono a trattenere le risa quando vennero a sapere che pure l’animale si era innamorato della fioraia. La vicenda era sotto gli occhi di tutti perché, ogni volta che l’elefante passava per il mercato, le depositava della frutta sul grembo e le teneva compagnia. Non solo: altri aggiunsero pure che, di tanto in tanto, l’elefante le infilava la proboscide dentro la
DONNA CHE REGGE UN FIORE. DETTAGLIO DEL GIARDINO DELLE ESPERIDI IN UN VASO DEL V SECOLO A.C. DEA / ALBUM
IMMERSI NELLE PAROLE
A VOCE ALTA, PER FAVORE Le biblioteche attuali sono caratterizzate dal silenzio, necessario per concentrarsi nella lettura. Ma quest’aspetto, la lettura silenziosa, appunto, è una novità medievale: nell’antichità si leggeva ad alta voce. Per questa ragione le biblioteche del tempo non avevano sale di lettura come quelle attuali. Ad Alessandria era normale ascoltare di continuo le voci degli altri: degli eruditi, che leggevano concentrati, o di chi passeggiava o si sedeva per conversare e scambiare idee nel peripatos, la galleria coperta del Museo di cui faceva menzione Strabone, oppure nell’esedra, uno spazio semicircolare dotato di banchi di pietra.
CONVERSAZIONI FECONDE
In questi eruditi intenti a dialogare è stata intravista la rappresentazione dell’Accademia di Platone, precedente al Liceo di Aristotele e al Museo stesso. Mosaico pompeiano del I secolo d.C. LEEMAGE / GETTY IMAGES
I libri erano molto diversi dagli attuali. Fatti in papiro – il supporto tradizionale della scrittura –, avevano la forma di rotoli, con il testo disposto su colonne. Il lettore lo reggeva con le due mani: appena finiva di leggere una colonna di testo, con una mano srotolava la seguente, mentre con l’altra riarrotolava quella che aveva finito di leggere.
L’ACROPOLI DI PERGAMO. LA BIBLIOTECA SI TROVAVA DIETRO IL GRANDE PORTICO CHE CIRCONDAVA IL TEMPIO DI ATENA, NELLA PARTE SUPERIORE DELL’IMMAGINE. AKG / ALBUM
tunica per esplorare deliziosamente il turgido seno della fioraia, mentre la donna rideva felice e sensuale, divertita dall’audacia del nuovo “pretendente”.
La fuga di Aristofane Qualche tempo dopo il diffondersi di queste dicerie, Aristofane, che aveva trascorso anni a leggere senza sosta tra i volumi, cercò di fuggire e abbandonare per sempre il Museo. Lo fece per ripicca? Avrebbe sentito la mancanza della donna che l’aveva “tradito” con l’elefante e che non aveva più rivisto? Niente di tutto ciò. In verità, fuggiva alla volta di Pergamo perchè voleva spostarsi in una biblioteca rivale a quella di Alessandria, sorta nella città dopo l’ascesa al trono del re Eumene II. Tuttavia il suo piano venne scoperto e Aristofane fu arrestato dalle truppe del re Tolomeo V. Fu così che il venerando erudito finì i suoi giorni nell’“uccelliera delle muse”, amareggiato e solo, circondato dai rotoli di papiro. Aristofane ebbe come successore uno dei suoi discepoli, Aristarco di Samotracia, al quale le fonti antiche attribuiscono 800 volumi di commento critico-letterario. Fu tutore del futuro re Tolomeo VIII, da tutti conosciuto con il soprannome di “Fiscone” 74 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
(“Pancione”), un amante delle lettere che si autoproclamava filologo e che proponeva pedanti correzioni ai versi dell’Odissea. Ben presto però questi si rivelò un pericoloso tiranno che, dopo aver ucciso il nipote Tolomeo VII, impose un regime di terrore. Viene imputata a lui la decadenza culturale di Alessandria perché ne espulse tutti gli intellettuali, tra cui lo stesso Aristarco, e mise a capo del Museo Cida, un lanciere di palazzo. Più avanti, sebbene il Museo continuasse a rimanere aperto – al pari della Biblioteca, che si arricchiva di nuovi volumi – l’istituzione non poté più contare su studiosi di chiara fama e sul suo ambiente d’élite. Le continue lotte tra i membri della famiglia reale, destinate a coinvolgere pure la città di Roma, aggravarono la crisi e Alessandria non ebbe più quel ruolo d’avanguardia che aveva rivestito nei primi tempi, sotto Tolomeo I e Tolomeo II. JUAN PABLO SÁNCHEZ DOTTORE DI RICERCA IN LETTERE CLASSICHE
Per saperne di più
SAGGI
La biblioteca scomparsa Luciano Canfora. Sellerio, Palermo, 2009. La biblioteca di Alessandria Monica Berti, Virgilio Costa. Tored, Tivoli (Roma), 2010.
BIBLIOTECA DI EFESO
Se ne conserva solo la facciata, lunga 21 metri e alta 17 circa. Fu eretta in memoria del nobile Tibero Giulio Celso Polemeano, che venne sepolto in una cripta sotto la stessa biblioteca. MIGUEL CARMINATI / GETTY IMAGES
EDIFICI IMPONENTI
LE ALTRE GRANDI BIBLIOTECHE Il re della dinastia attalide Eumene II (197160 a.C.) dotò la capitale, Pergamo, di una biblioteca che rivaleggiava con quella di Alessandria e che si trovava in un padiglione vicino al maestoso tempio di Atena, sull’acropoli della città. La biblioteca era costituita da tre sale con funzioni di magazzino annesse a un portico dove era possibile consultare i papiri, e un’ampia sala per riunioni e conferenze decorata con busti di filosofi e scrittori, nonché presieduta da una grande copia della statua di Atena scolpita da Fidia per l’interno del Partenone.
Si dice che la biblioteca di Pergamo (l’attale Bergama, in Turchia) giunse a contenere 200mila volumi, imponendosi così come la seconda biblioteca dopo la rivale Alessandria. Altre grandi città del Mediterraneo accolsero importanti biblioteche. Quella di Celso, a Efeso (Turchia), costruita ai tempi dell’impero romano tra il 110 e 135 d.C., accoglieva circa 12mila volumi. Nessuna comunque poteva competere con quelle di Alessandria e Pergamo.
Nel 1510 Raffaello finì di dipingere il famosissimo affresco Scuola di Atene, che decorava una delle pareti della stanza della Segnatura, in Vaticano. Con tale opera il grande artista del Rinascimento rendeva omaggio ai più grandi saggi del mondo classico.
IL RICORDO ETERNO DI UNA CITTÀ zione del Museo e della Biblioteca di Alessandria, Raffaello decise di riconoscere il ruolo fondamentale ricoperto dalla città egizia nella cultura occidentale. Nel dettaglio della pittura qui riprodotto vediamo Euclide (o, secondo alcuni, Archimede) il quale, chino, dimostra un teorema con un compasso in mezzo ai giovani discepoli; il padre della geometria operò proprio ad Alessandria intorno al 300 a.C. circa e visse per qualche tempo nel Museo. Al suo fianco, di spalle allo spettatore, l’astronomo Claudio Tolomeo regge un mappamondo. Nato in Egitto intor-
SI quasi duemila anni dalla fonda-
QUANDO ERANO ORMAI GIÀ TRASCOR-
no al 100 d.C. e vissuto ad Alessandria, fu il fondatore della geografia scientifica: è sua la prima cartina del mondo suddivisa in coordinate per longitudine e latitudine. È autore, inoltre, di un modello di universo geocentrico che rimase in vigore finché venne rimpiazzato da quello eliocentrico, che poneva al centro il sole, teorizzato da Copernico quasi millecinquecento anni dopo, in pieno Rinascimento. Il personaggio che fa capolino sopra queste righe è un altro egizio, Plotino, nato verso il 205 d.C. Studiò filosofia ad Alessandria e fu il principale diffusore del neoplatonismo, una delle fonti del pensiero rinascimentale.
SCALA, FIRENZE
CESARE CONTRO FARNACE «VENI, VIDI, VICI» Nel 47 a.C., Giulio Cesare dovette lasciare l’Egitto per scontrarsi con il re del Ponto, che si era impossessato del territorio di due regni vicini. In un’operazione lampo Cesare vinse Farnace II e consegnò il suo regno a un sovrano alleato, Mitridate di Pergamo
UN GENERALE VITTORIOSO
Nella statua di Nicolas Coustou, Giulio Cesare è ritratto con una corona di alloro sul capo. XVII secolo. Musée du Louvre, Parigi. Nella pagina precedente, sesterzio in bronzo con l’iscrizione Veni, vidi, vici sul rovescio. Sammlung Archiv für Kunst und Geschichte. FOTO: ALBUM
LA CAPITALE DEL PONTO C R O N O LO G I A
L’ambizioso figlio di Mitridate
Nell’immagine compaiono le tombe illuminate dei sovrani pontici scavate nella roccia. Siamo ad Amaseia (l’attuale Amasya, sulla costa turca del mar Nero), antica capitale del regno del Ponto.
49 a.C. Cesare e il suo esercito delle Gallie attraversano il Rubicone diretti a Roma. Scoppia la guerra civile tra Cesare e Pompeo.
48 a.C. Farnace del Ponto conquista la Cappadocia e la Galazia minore approfittando dell’assenza dei sovrani di entrambi i territori.
XII-48 a.C. Mentre Cesare è in Egitto invia Domizio Calvino e le sue truppe a fermare l’avanzata di Farnace, che però lo sconfigge a Nicopoli.
I-47 a.C. L’esercito di Cesare e Cleopatra sgomina quello di Tolomeo XIII nella battaglia del Nilo. Cesare rimane in Egitto per qualche tempo.
III-47 a.C. Cesare parte dall’Egitto e raggiunge la frontiera del Ponto assieme ad alcune legioni. Si spinge fino alle vicinanze della città di Zela.
2-VIII-47 a.C. Ha luogo la battaglia di Zela. In poche ore l’esercito di Cesare sgomina le truppe di Farnace, che fugge.
46 a.C. Dopo l’assassinio di Farnace a opera di un suo governatore, Cesare affida il regno a Mitridate di Pergamo. ALAMY / ACI
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FARNACE II, RE DEL PONTO
Farnace era figlio del sovrano del Ponto Mitridate VI e della moglie, nonché sorella, Laodice. Sotto, incisione che lo ritrae.
L
a guerra lampo non l’hanno inventata i nazisti. Almeno due millenni prima c’è stato un condottiero che si è dimostrato perfino più rapido delle armate corazzate di Guderian. Chi? Neanche a dirlo, Gaio Giulio Cesare, l’uomo di cui un cronista, Cassio Dione, scriveva che «in tutte le occasioni egli si assicurava un grandissimo vantaggio con la rapidità delle sue mosse e marciando quando nessuno se lo aspettava. Se uno volesse sapere perché mai egli superava tanto i generali del suo tempo nell’arte della guerra, non troverebbe, facendo i dovuti paragoni, nessun motivo più forte di questo». Nella carriera militare di Cesare sono davvero tante le occasioni in cui questo assunto può essere dimostrato. Ma nessuna, non fosse altro che per il celebre motto che ne è scaturito, è più emblematica della campagna di Zela, che grazie alla semplicità con cui il dittatore debellò la minaccia del regno pontico è stata consegnata ai posteri come una mera formalità.
IZZET KERIBAR / GETTY IMAGES
Eppure il re sconfitto, Farnace, aveva inflitto severe lezioni ai romani e le sue armate avevano messo in pesante difficoltà l’Urbe per quasi un trentennio, impegnandola in una delle più lunghe guerre che Roma abbia dovuto combattere. Lo stesso Cesare, dopo averle debellate in una battaglia di sole quattro ore, avrebbe deprecato la fortuna del suo rivale Pompeo Magno, «la cui massima gloria militare era venuta da una così imbelle categoria di nemici». La faceva facile, lui. Eppure i pontici erano il popolo più all’avanguardia, all’epoca, in fatto di truppe corazzate: provvisti di falangi e carri falcati, avevano una cultura bellica molto più evoluta dei galli contro cui Cesare aveva combattuto per quasi un decennio ed erano più coesi degli egizi che aveva affrontato poco prima per aiutare la sua amata Cleopatra. Farnace II del Ponto non è il più noto tra gli avversari di Cesare: Vercingetorige e Pompeo Magno si sono con-
SCUDO PONTICO Questo scudo in bronzo apparteneva al re Farnace I, bisnonno di Farnace II. Getty Villa, Malibu.
quistati una gloria ben più imperitura di lui; ma era sufficientemente privo di scrupoli per ritagliarsi un posto importante nella storia, se solo non avesse avuto la sfortuna d’imbattersi subito in uno dei più grandi condottieri mai esistiti.
Un re avido di territori Farnace era uno dei tanti figli di Mitridate, ma era anche il suo preferito. Ciononostante, cospirò contro il padre per soffiargli il trono e, sebbene fosse stato perdonato, riprese a brigare contro il re fino a indurlo al suicidio. A quel punto però il Ponto, che prima delle guerre coi romani era un regno potente quasi quanto quello partico, poco più a est, si era ridotto a un territorio modesto, che l’Urbe, forse un po’improvvidamente, assegnò proprio a lui in qualità di re cliente, costituendo altri potentati satelliti col resto dei possedimenti un tempo sotto la sovranità di Mitridate.
J. PAUL
G E T T Y M U S E UM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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LA BATTAGLIA DI NICOPOLI
ROMA UMILIATA
P
er arginare l’espansionismo di Farnace, il governatore dell’Asia Gneo Domizio Calvino radunò tre legioni (una romana, una pontica e una galata), e marciò contro il ribelle accampato presso Nicopoli, in Bitinia, dove Farnace aveva eretto un doppio vallo davanti alla città. L’esercito pontico si schierò tra i due trinceramenti, con
la cavalleria sulle ali che si estendeva oltre il vallo. Domizio pose la XXXVI legione romana a destra e avanzò simultaneamente al nemico. I suoi veterani costrinsero i cavalieri nemici a ripiegare verso le mura della città, raggiunsero il secondo vallo, valicarono il fossato e attaccarono la fanteria avversaria da tergo. Ma sull’ala opposta la legione pontica del comandante romano venne respinta prima di oltrepassare il fossato. L’altra legione,
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posizionata centralmente, non resse l’urto e la sua debolezza consentì alle truppe di Farnace di fronteggiare la XXXVI legione. I veterani, ormai circondati, si schierarono in cerchio e ripiegarono fino alle pendici delle alture più vicine, ponendosi al riparo dall’attacco nemico, ma lasciando sul terreno 250 morti. Le altre due unità, invece, rimasero alla mercé delle truppe del sovrano ribelle e furono massacrate in un bagno di sangue.
Nella successiva guerra civile tra Cesare e Pompeo quasi tutti i sovrani orientali si erano schierati col secondo, che si era procurato vaste clientele in Asia all’epoca delle sue conquiste a est. Solo Farnace si era tenuto fuori dalla contesa, approfittando dell’assenza dei re di Cappadocia e Galazia, Ariobarzane e Deiotaro, accorsi in Macedonia a sostenere Pompeo, per impadronirsi dei loro territori. A fine scontro però i due si erano accordati col vincitore, facendosi garantire da Cesare l’incolumità dei loro regni, che recuperarono grazie alla presenza di tre legioni al comando del legato Domizio Calvino.
Cesare in Egitto Farnace dovette sentirsi tradito da Cesare: abbandonò la Cappadocia ma si tenne l’Armenia Minore di Deiotaro, mentre il dittatore era impegnato a creare un protettorato romano in Egitto a favore di Cleopatra. Cesare di certo ritenne che Domizio Calvino fosse sufficiente per fronteggiare la minaccia di Farnace: piuttosto strano, per un condottiero
Alleati e territori controllati da Roma
R E G N O Mar D E L d’Azov BOSFORO
Territori controllati da Farnace II
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Legionario con l’uniforme caratteristica del I secolo d.C. Museo della civiltà romana, Roma.
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ALAMY / ACI
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C A P PA D O C I A
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che ambiva a emulare Alessandro Magno e che si trovava di fronte alla prospettiva di collezionare una vittoria proprio contro un regno erede di quelli ellenistici di matrice macedone. In ogni caso, Domizio non era Cesare e si fece sconfiggere in battaglia campale a Nicopoli. Da quel momento Farnace, informato delle difficoltà di Cesare in Egitto, dove il dittatore si ritrovò perfino sotto assedio ad Alessandria, si lanciò nella sistematica riconquista dei territori che erano stati del padre; ne approfittò anche per dare libero sfogo all’odio che aveva accumulato nei confronti dei romani, sottoponendo chiunque facesse prigioniero a ogni genere di tortura e perfino all’evirazione. Cesare, inspiegabilmente, non reagì neppure quando uscì vincitore dalla guerra civile tra Cleopatra e il fratello Tolomeo. Eppure, i regni clienti aggrediti erano teoricamente tutelati dalla protezione romana ben più del regno egizio, nominalmente ancora indipendente. Inoltre, lì Roma aveva forti interessi commerciali e
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Percorso di Cesare fino a Zela
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L’odierna Kerc̆, un tempo Panticapeo, si trova in Crimea e venne fondata dai greci nel VI secolo a.C. Appartenne al regno del Bosforo finché cadde nelle mani di Mitridate VI del Ponto.
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CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM
LA CITTÀ DI PANTICAPEO
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la presenza di cittadini (banchieri, armatori, mercanti) era molto numerosa. D’altro canto, l’Egitto era un regno debole e l’Urbe avrebbe potuto conquistarlo in qualsiasi momento, a maggior ragione lasciando prima che i due fratelli si logorassero a vicenda. Se il dittatore non abbandonò subito lo scacchiere egiziano e si mosse molto tempo dopo Nicopoli, fu probabilmente perché teneva alla regina ben oltre le ragioni di prestigio, che gli imponevano di non lasciare incompiuto ciò che aveva iniziato. Era così affezionato a lei che indugiò in sua compagnia abbandonandosi a una lunga crociera sul Nilo, durante la quale concepì il loro sfortunato figlio Cesarione e si riprese dalle fatiche delle guerre civili, che aveva combattuto senza soluzione di continuità in Italia, in Spagna, in Gallia, in Epiro, in Macedonia e nello stesso Egitto. Oltre tre mesi dopo che il suo subalterno era stato sconfitto, nel marzo del 47 a.C., Cesare partì dall’Egitto con la VI legione. Raggiunse la Giudea e di lì si spostò ad Antiochia, poi a Tarso e infine a Eusebeia, ai STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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I TRIONFI DI CESARE
Queste pitture di Andrea Mantegna rappresentano il trionfo celebrato da Giulio Cesare a Roma nel 46 a.C. Sul pannello di sinistra, una processione di musicanti precede il carro trionfale di Cesare, che compare poi nel pannello a destra. Hampton Court Palace, Londra.
IL RE DELLE MARCE FORZATE
LA RAPIDITÀ DI CESARE
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i può dire che solo Napoleone, tra i grandi condottieri, abbia mostrato una rapidità di esecuzione dei piani pari a quella di Giulio Cesare. Svetonio ci dice che spesso il condottiero romano riusciva a raggiungere il proprio obiettivo prima ancora dei messaggeri incaricati di annunciare il suo arrivo: così fece perfino nella sua ultima campagna in Spagna, nel 45 a.C., che culminò con la battaglia di Munda. Cesare era in grado di spostarsi da un capo all’altro di uno scacchiere operativo marciando a tappe forzate giorno e notte: lo fece all’inizio del proconsolato gallico, quando in occasione della migrazione degli elvezi si precipitò a sud delle Alpi, arruolò due nuove legioni, le riunì a quelle d’Oltralpe e aggredì i barbari mentre attraversavano la Saona; e lo
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fece anche alla fine, sei anni dopo, valicando i passi delle Cevenne in pieno inverno, con due metri di neve, per portare la guerra in Arvernia e costringere Vercingetorige sulla difensiva. All’inizio della guerra civile fu capace di coprire in 17 giorni il tragitto da Corfinio a Brindisi, ben 465 chilometri, insieme alle legioni; e sul fronte gallico il suo esercito, spogliatosi di tutti i bagagli,percorse 75 km in 28 ore, con una sola sosta di appena tre ore.
confini col Ponto, dove raccolse le legioni del suo legato, la XXXVI e la XXXVII, oltre alle tre del popolo dei galati che gli portò in dote Deiotaro. A quel punto Farnace si spaventò e si mostrò disposto a trattare; Cesare gli lasciò credere di aver fretta di tornare a Roma e di essere quindi pronto ad ampie concessioni, ma intanto continuò a marciare contro di lui. Si fermò solo a cinque miglia dal campo del sovrano, che si era insediato su una collina collegata mediante un lungo ponte alla città di Zela, l’attuale Zile in Turchia. Nottetempo s’impossessò di un’altura a meno di un miglio dal nemico e si diede a fortificarla.
Una vittoria lampo Era il 2 agosto del 47 a.C. Da soli cinque giorni Cesare aveva dato formalmente avvio alla campagna, irrompendo in territorio nemico. I suoi legionari avevano appena iniziato a erigere il vallum – la barriera costituita da terrapieno, palizzata e fossato che caratterizzava tutti i campi romani provvisori – quando Farnace decise di sorprendere l’avver-
FUNKYSTOCK / GETTY IMAGES
FOTO: BRIDGEMAN / ACI
sario con un attacco improvviso. I romani, che avevano in mano zappe, pale e picconi, videro i temibili carri falcati risalire il pendio e subito dopo la fanteria pontica avanzare in assetto da falange. Fortunatamente per loro, godevano del vantaggio della posizione e la lentezza con cui gli avversari risalivano la collina gli diede il tempo di schierarsi. Cesare stentò a credere che il re si lanciasse in un’impresa tanto scriteriata e per un po’ ritenne che si trattasse solo di un’esibizione di forza. Quando i primi legionari che aveva messo di guardia furono travolti dalle quadrighe si rese conto che si faceva sul serio e diede ordine ai soldati di scagliare i loro micidiali pila, i giavellotti pesanti di metallo e legno, che arrestarono la corsa delle quadrighe e scompaginarono i ranghi nemici. Subito dopo mandò al contrattacco la cavalleria leggera che arrestò definitivamente la lenta avanzata dei pontici, prima dell’attacco letale della VI legione. La mischia durò ben poco: troppa era la differenza di armamento, disciplina e coesione tra le truppe romane e
quelle asiatiche. I pontici si diedero presto alla fuga, lasciando il loro campo alla mercé dei legionari. Vistosi privato dell’esercito, Farnace si svincolò a sua volta, solo per finire trucidato da uno dei suoi governatori sul Bosforo poco tempo dopo. Il suo regno fu affidato a Mitridate di Pergamo, che aveva aiutato Cesare a risolvere la “grana” egizia prima che il dittatore ripartisse per l’Italia. Ma Cesare avrebbe dovuto attendere ancora a lungo prima di celebrare il trionfo, che associò alle altre sue vittorie, precedenti e successive, testimoniandolo con la ben nota iscrizione, «Veni, vidi, vici» (Sono arrivato, ho visto e ho vinto), che faceva mostra di sé su uno dei cartelloni esibiti nel corteo.
LA CITTÀ DI PERGAMO
Dopo la morte di Farnace, Giulio Cesare ricompensò il fedele alleato Mitridate di Pergamo con il regno del Ponto. Sopra, tempio eretto a Pergamo in onore dell’imperatore Traiano.
ANDREA FREDIANI STORICO E SCRITTORE
Per saperne di più
TESTI
Giulio Cesare. Il dittatore democratico Luciano Canfora. Laterza, Roma-Bari, 2006. I grandi condottieri di Roma Antica Andrea Frediani, Newton Compton, Roma, 2016.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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RIBELLIONE CONTRO IL PADRE Mitridate VI fu uno dei nemici più spietati di Roma. Nell’88 a.C. penetrò nella provincia romana dell’Asia e ordinò di uccidere tutti gli abitanti di origine italica. Alla fine venne tradito da Farnace, figlio e successore, e si suicidò.
Nella sua Storia romana, Cassio Dione racconta il tradimento di Farnace nei confronti del padre Mitridate e il suicidio di quest’ultimo. In piena guerra contro Pompeo, i soldati si levarono
a tumulto e alcuni di loro, catturati dei figli del re, li portarono a Pompeo. Mitridate fece arrestare diversi autori di tali delitti e li punì con l’estremo supplizio […] non si fidava di nessuno, di modo che trucidò perfino alcuni dei suoi figli, che gli erano divenuti sospetti. Vedendo queste cose Farnace, figlio anche lui di Mitridate, tramò contro il padre, in parte perché ne aveva timore, in parte perché sperava d’impossessarsi del suo regno […] ma il delitto fu scoperto, giacché in molti cercavano di conoscere ogni suo movimento. […] Tuttavia, essendosi guadagnato gli animi di coloro che il padre
MITRIDATE VI, IL RE CHE VOLEVA ESSERE IMPERATORE
Cresciuto nella raffinata cultura greca, Mitridate VI aspirava a divenire il nuovo Alessandro Magno, e con simili attributi si faceva rappresentare sulle monete. Al pari del macedone, il re del Ponto si propose di fondare un potente impero capace di competere con Roma. Dall’Anatolia estese i suoi domini alla Colchide, l’attuale Georgia, e sulla costa del mar Nero fino alla Crimea; annetté pure la Paflagonia e la Galazia, e si assicurò un’alleanza con l’Armenia grazie al matrimonio della figlia con il re Tigrane. Il figlio Farnace II provò a emulare tali progetti ambiziosi, ma Giulio Cesare li annientò definitivamente. MITRIDATE VI DEL PONTO NELLE VESTI DI ERCOLE, RICOPERTO DALLA PELLE DEL LEONE DI NEMEA. LEWANDOWSKI / RMN-GRAND PALAIS
Egli allora stava presso Panticapeo; mandò fuori
alcuni soldati per opporsi al figlio […] i soldati non avevano maggiore affetto per Mitridate e senza difficoltà furono convertiti alla rivolta da Farnace. Occupata la città, che era d’accordo con lui, questi fece uccidere il padre, che era fuggito nella reggia. Mitridate aveva provato in tutti i modi a privarsi della sua vita; fatte morire con il veleno le sue mogli e gli altri figli, aveva bevuto il resto; ma con il veleno
non riuscì a morire: poiché ogni giorno ricorreva agli antidoti contro i veleni, quel veleno, sebbene mortifero, non si rivelò fatale; si colpì allora con la spada, ma il colpo non fu abbastanza forte […] quegli stessi che aveva mandato contro il figlio irruppero violentemente con spade e lance e ne accelerarono la morte. Farnace mandò a Pompeo il corpo di Mitridate imbalsamato, a prova del fatto; e nelle sue mani consegnò la propria persona, e il regno.
DOPO AVER INVANO TENTATO IL SUICIDIO CON IL VELENO, MITRIDATE VI ORDINA A UN MERCENARIO DI TRAFIGGERLO CON LA SPADA. INCISIONE.
MARY EVANS / ACI
aveva inviato per arrestarlo, con questi marciò contro il suo stesso padre.
AHU TONGARIKI
I moai, le grandi sculture di Pasqua, erano collocati su delle piattaforme cerimoniali chiamate ahu, situate a circa un chilometro dal lago Raraku, dove venivano scolpite. MARKO STAVRIC / GETTY IMAGES
L’ISOLA DI PASQUA I L C O L L A S S O D I U N A C I V I LT À
Secondo alcune teorie fu l’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali a portare al crollo della civiltà dei rapa nui, gli abitanti dell’Isola di Pasqua. Ma andò veramente così?
LB / AGE FOTOSTOCK
ABITANTI DELL’ISOLA
Rappresentazione di un nativo apparsa nell’Encyclopédie des voyages di Jacques Grasset de SaintSauveur, pubblicata nel 1796. L’incisione è opera di J. Laroque. AGE FOTOSTOCK
O
ggi l’Isola di Pasqua è famosa per essere uno dei luoghi abitati più remoti del pianeta e per l’esistenza dei moai, magnifiche sculture antropomorfe erette da una civiltà ancestrale che sarebbe scomparsa in circostanze misteriose. Negli ultimi decenni la storia dell’isola è stata presentata come un modello di collasso ecologico e culturale dovuto all’eccessivo sfruttamento delle risorse naturali da parte dei suoi abitanti, ma le ricerche più recenti hanno messo in discussione questa tesi. I primi europei a raggiungere l’isola furono i membri di una spedizione olandese guidata da Jacob Roggeveen. Vi approdarono la domenica di Pasqua del 1722 e decisero di battezzarla con il nome di questa festività. In realtà il toponimo locale dell’isola è Rapa Nui, un termine che indica anche gli indigeni che la abitano. L’Isola di Pasqua è la vetta di un grande cono vul-
canico sottomarino di circa tremila metri di altezza, nel mezzo dell’oceano Pacifico e dista oltre duemila chilometri dagli arcipelaghi più orientali della Polinesia e oltre tremila chilometri dalle coste del Sudamerica. Le enormi distanze che la separano dai punti abitati più vicini hanno alimentato il dibattito in merito al suo popolamento. L’esploratore norvegese Thor Heyerdahl sosteneva che l’isola fosse stata inizialmente colonizzata da una cultura amerindia successivamente annientata dai polinesiani. Nel 1947, per dimostrare che gli antichi abitanti del Sudamerica l’avevano raggiunta sulle loro rudimentali imbarcazioni e con il solo aiuto del vento e delle correnti marine, Heyerdahl intraprese una spedizione verso l’Isola di Pasqua a bordo di una zattera costruita con materiali e tecnologie precolombiane, la Kon-Tiki. Gli archeologi e gli antropologi tuttavia non diedero molto credito a quest’ipotesi, perché tutte le prove indicavano che i primi colonizzatori erano di origine polinesiana, in accordo con le stesse leggende dei rapa nui. Gli attuali studi del DNA confermano questa teoria, sebbene non possano escludere una componente sudamericana nella popolazione autoctona dell’isola.
Testimoni di una civiltà perduta Uno degli aspetti più misteriosi di Rapa Nui è la presenza su un’isola di poco più di 160 chilometri quadrati di oltre 900 grandi statue di pietra, i moai, che evidentemente rivestivano grande importanza nella cultura locale. Quasi tutti furono ricavati da un’unica cava, la caldera vulcanica del lago Raraku, da cui si poteva estrarre una roccia relativamente morbida molto simile al tufo. La civiltà che costruì i moai era neolitica – non conosceva cioè i metalli – e utilizzava quindi esclusivamente utensili fatti di rocce vulcaniche più dure, principalmente basalto estratto in altri coni vulcanici, in particolare quello del lago Kao. Le popolazioni all’origine della civiltà rapa nui sono inoltre considerate preistoriche in quanto si crede che non conoscessero la scrittura. Tuttavia sull’isola sono state trovate alcune tavolette in legno con un indecifrabile sistema glifico chiamato rongorongo, la cui origine e la cui cronologia restano in-
PHILIPPE MARION / GETTY IMAGES
SECONDO LA TRADIZIONE, LA SPIAGGIA DI ANAKENA È IL LUOGO DOVE SBARCARONO I PRIMI COLONIZZATORI POLINESIANI GUIDATI DAL RE HOTU MATU’A. QUI SORGE L’ALTARE AHU NAU NAU.
I GIGANTI DI PIETRA
Nella lingua rapa nui la parola “moai” significa “scultura di una persona”, in pietra (maea) o legno (kavakava), anche se è spesso usata per designare grandi statue come quelle dell’ahu Tongariki.
I rapa nui, gli abitanti dell’Isola di Pasqua, indicano con il termine rano un cratere vulcanico contenente acqua dolce, come i laghi Raraku e Kao.
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Terevaka 511 m
Isola di Pasqua
Vulcano Puakatike
(Rapa Nui) (CILE)
Rano Raraku
Ahu Tongariki
Puna Pau Hanga Roa AEROPORTO INTERNAZIONALE DI MATAVERI
Vulcano Rano Kao
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Strade attuali Percorsi usati per il trasporto dei moai Ahu (piattaforma cerimoniale) Cava dove venivano scolpiti i moai
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IC
O AMERICA DEL NORD
OCEANO PACIFICO
Isola di Pasqua
0 km
AMERICA DEL SUD CILE
4
IL SISTEMA RONGORONGO
Non si sa se si tratti di una scrittura o una rappresentazione grafica delle nozioni astronomiche dei rapa nui, né se sia antecedente all’arrivo degli europei.
certe. Si sa solamente che segue il sistema bustrofedico: la direzione della scrittura cambia da riga a riga. Ma un aspetto ancor più enigmatico è costituito dalla scomparsa dell’ancestrale civiltà rapa nui, che conobbe una certa fioritura nel periodo che va dalla fase di colonizzazione iniziale dell’isola da parte dei polinesiani fino all’arrivo degli europei. Secondo le ricerche più recenti, il popolamento di Rapa Nui fu il culmine di un processo di espansione nel Pacifico iniziato a Taiwan nel 3000 a.C. e che raggiunse l’Isola di Pasqua tra l’800 e il 1000 d.C.
BRIDGEMAN /
ACI
Dallo splendore alla catastrofe Tutto ciò che sappiamo di quest’antica civiltà è stato ricostruito a partire dalle cronache dei primi visitatori europei (olandesi, spagnoli, inglesi e francesi), dalla tradizione orale tramandata fino ai rapa nui odierni e dai ritrovamenti archeologici. Una volta insediatisi sull’isola, i rapa nui costruirono con relativa rapidità una società moderatamente prospera che raggiunse il suo apice
economico e demografico intorno al 1500. Riguardo alla popolazione massima ospitata dall’isola, le cifre ipotizzate variano notevolmente, anche se la maggior parte oscilla tra i seimila e gli ottomila abitanti (40-50 per chilometro quadrato); le stime più ottimistiche parlano invece di 20mila abitanti (125 per chilometro quadrato). L’attività economica s’incentrava su agricoltura, pesca e risorse costiere quali molluschi, crostacei e uccelli migratori. La struttura sociale si fondava sui clan, i cui capi erano divinizzati una volta morti. Secondo alcune teorie i moai erano delle rappresentazioni dei personaggi importanti della comunità dotati di poteri soprannaturali che garantivano la generosità del mare e della terra. All’inizio del XVI secolo la fiorente società rapa nui visse un cambiamento radicale e relativamente rapido, caratterizzato da un significativo calo demografico e dall’abbandono dell’antica cultura dei moai (ahu moai) in favore della cosiddetta fase huri moai, incentrata sul culto dell’uomo uccello (tangata manu) e sulla sfida per diventare il rappre-
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PATRICIA HEALY, DEBBIE GIBBONS, NG MAPS
La società e il clima sull’Isola di Pasqua Gli studi hanno identificato due fasi di siccità intervallate da un periodo umido in corrispondenza dell’apogeo e della fine della cultura dei moai. Il clima potrebbe avere svolto un ruolo maggiore di quanto si pensasse nel processo di deforestazione ed esaurimento delle risorse dell’isola.
AMBIENTE
500
SICCITÀ
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SICCITÀ
SOCIETÀ
L’intensa siccità causa il prosciugamento del lago Raraku. Lo stesso fenomeno si osserva anche nella palude di Aroi, dove la formazione di torba s’interrompe per 500 anni. L’acqua è scarsamente reperibile sull’Isola di Pasqua.
Il clima caldo e stabile favorisce l’aumento della navigazione a lunga distanza. Ultima ondata di colonizzazioni nel Pacifico orientale. Al termine di questo periodo i marinai polinesiani raggiungono Rapa Nui.
Il lago Raraku torna a riempirsi. Si verifica un processo di deforestazione legato all’aumento dell’attività umana. Diminuisce la presenza di palme, in parte perché vengono bruciate per aumentare la superficie coltivabile.
Fase ahu moai: culto dei moai, con centro presso il lago Raraku. La disponibilità idrica favorisce la crescita demografica e la deforestazione della zona, dove sono state rinvenute le colture più antiche dell’isola, risalenti al 1300-1400.
La siccità provoca cambiamenti nell’habitat delle specie marine e un nuovo prosciugamento del lago Raraku. La popolazione migra dalla costa verso zone interne più elevate e con depositi di acqua dolce: Aroi e Kao.
Fase huri moai: dal culto dei moai al culto dell’uomo uccello, con centro a Orongo, vicino al lago Kao. In questo periodo si verifica il disboscamento totale dell’isola, che si conclude probabilmente intorno al 1600, o forse più tardi.
1722 GLI OCCHI DEI MOAI
In origine le orbite dei moai non erano vuote, ma avevano una pupilla di ossidiana o di scorie vulcaniche rosse circondata da una sclera di corallo bianco, come in questo esemplare restaurato. Erano gli occhi a conferire ai moai poteri soprannaturali.
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Un mondo senza alberi Veduta aerea dell’Isola di Pasqua; in primo piano, il cratere del lago Kao. La deforestazione totale dell’isola è stata considerata la prova di una catastrofe ecologica causata dall’attività umana. I ricercatori tedeschi Andreas Mieth e Hans-Rudolf Bork hanno calcolato che, prima di essere disboscata e ricoperta di prati erbosi, l’isola ospitava 16 milioni di palme, disseminate sul 70% circa della sua superficie. Tutti gli alberi oggi presenti sull’isola sono stati introdotti dopo il contatto con gli europei; alcuni sono stati importati molto recentemente. È il caso degli eucalipti (portati dall’Australia), che sono i più numerosi e formano veri e propri boschi.
LAGO RARAKU. IN QUEST’IMMAGINE IL LAGO È CIRCONDATO DAL VERDE DEL MANTO ERBOSO. SUI PRATI SPUNTANO LE TESTE DEI MOAI SCOLPITI NELLA CAVA DEL LAGO STESSO MA CHE RIMASERO INCOMPIUTI E NON FURONO TRASPORTATI ALTROVE.
STRUMENTI PER UCCIDERE?
Questo disegno del 1896 mostra due manufatti di ossidiana trovati sull’isola. Si dibatte ancora se tali strumenti in pietra chiamati mata’a fossero armi da guerra o servissero ad altri scopi, come la realizzazione dei tatuaggi. BRIDGEMAN / ACI
96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
sentante in terra del creatore supremo Make Make. Alcuni studiosi hanno attribuito queste trasformazioni alle guerre tra clan provocate dall’esaurimento delle risorse naturali. La foresta che copriva l’isola sarebbe scomparsa, in parte bruciata per far spazio a nuovi terreni coltivabili e in parte abbattuta per ricavarne legname con cui costruire case e imbarcazioni, ma soprattutto con cui trasportare i moai dalla cava di Raraku fino alla destinazione prescelta. La combinazione di questi fattori con il sovrasfruttamento delle risorse marine e costiere avrebbe portato al collasso ecologico e alla conseguente disgregazione culturale. Tale processo è stato definito “ecocidio”, un termine che indica una distruzione dell’habitat naturale
di tale portata da minacciare l’esistenza dei suoi stessi abitanti. La precarietà delle nuove condizioni di vita avrebbe portato all’abbandono del culto dei moai, che sarebbero stati rovesciati dai loro altari. Fino a pochi decenni fa l’idea di ecocidio si basava per lo più su ipotesi teoriche formulate a partire dalla tradizione orale rapa nui. Ma negli anni settanta il lavoro del paleoecologo britannico John Flenley, morto nel 2018, fornì delle prove a sostegno di quest’ipotesi. Flenley analizzò il polline contenuto nei sedimenti degli unici tre corsi d’acqua dolce dell’isola adatti al consumo umano – i laghi Raraku e Kao, e una palude chiamata Aroi – e dimostrò che per almeno 34mila anni l’isola era stata ricoperta di palme, che poi erano scomparse improvvisamente per essere sostituite da distese erbose simili a quelle attuali. Dei precedenti palmeti non restava alcuna traccia. Secondo la datazione al carbonio 14 questo importante cambiamento ecologico coincideva all’incirca con l’epoca della colonizzazione polinesiana dell’isola. Ciò sembrava dimostrare la teoria
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I MOAI DEL RARAKU
Non è ancora chiaro come avvenisse il trasporto dei moai per distanze che potevano raggiungere i 18 chilometri. Si è ipotizzato che i rapa nui li spostassero con dei rulli o delle specie di slitte in legno.
GIAPPONE
150°E
CINA
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TAIWAN ISOLE HAWAI (USA)
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STATI FEDERATI DI MICRONESIA
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NUOVA ZELANDA TASMANIA
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500
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SCALA ALL’EQUATORE
150°E
180°
Migrazioni nel Pacifico 3000 a.C. Marinai taiwanesi raggiungono e colonizzano l’arcipelago delle Filippine. 1500 a.C. Navigatori filippini s’insediano sulle isole Bismarck, vicino alla Nuova Guinea. Qui si verifica la separazione dall’originaria cultura di Taiwan e l’inizio della nuova civiltà lapita, da cui germoglieranno tutte le successive culture polinesiane. 1500-950 a.C. Espansione della civiltà lapita, che raggiunge Tonga e Samoa. La propagazione
polinesiana si ferma, per riprendere solo un millennio più tardi. 700-900 d.C. I polinesiani raggiungono gli arcipelaghi delle Isole della Società, Marchesi e Tuamotu. Di qui parte l’ultima, rapida espansione, che si sviluppa in tre direzioni differenti. 800 d.C. Colonizzazione delle Hawaii. 800-1000 d.C. Colonizzazione dell’Isola di Pasqua. 1200 d.C. Colonizzazione della Nuova Zelanda, l’ultima isola del Pacifico a essere popolata.
150°0
90°
AMERICA DEL NORD
OCEANO ATLANTICO
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TROPICO DEL CAPRICORNO
9 00 -12 00 d.
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ISOLA DI PASQUA (Rapa Nui)
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Ci sono varie ipotesi sulla colonizzazione dell’Isola di Pasqua e i contatti tra questa e il continente americano. Nei calchi dentali dei rapa nui del XIV e XV secolo d.C. sono stati trovati resti di patata dolce, pianta originaria dell’America, mentre in un sito cileno risalente al 13001400 sono state rinvenute ossa di pollo provenienti dalla Polinesia. Ciò potrebbe suggerire che i polinesiani fossero arrivati in Sudamerica e da lì avessero raggiunto l’isola.
90°
FONTI: GEOFF IRWIN, UNIVERSITÀ DI AUCKLAND; PATRICK KIRCH, UNIVERSITÀ DELLA CALIFORNIA, BERKELEY; PATRICK NUNN, UNIVERSITÀ DEL PACIFICO DEL SUD; MATTHEW SPRIGGS, UNIVERSITÀ NAZIONALE AUSTRALIANA. ILLUSTRAZIONI DI JOHN BURGOYNE, HIRAM HENRIQUE E LISA R. RITTER, NGM.
ORONGO, VICINO AL LAGO KAO, DIVENNE IL CENTRO CULTURALE DELL’ISOLA DOPO IL PROSCIUGAMENTO DEL LAGO RARAKU DOVUTO ALLA SICCITÀ.
delle foreste aveva avuto luogo in qualche periodo compreso tra i 7.700 e i 520 anni fa. Ma il campione sedimentario non conteneva elementi che permettessero di determinare esattamente in che momento fosse avvenuto il cambiamento all’interno di questo intervallo temporale. Inoltre, Flenley aveva preso in considerazione solo il fattore umano, eppure varie ricerche hanno dimostrato che alterazioni ecologiche di questo tipo possono anche essere causate da cambiamenti climatici.
MJ PHOTOGRAPHY / ALAMY / ACI
LA VISIONE EUROPEA
Donna rapa nui in un’incisione tratta dall’opera The World in Miniature, dell’editore e scrittore britannico Frederic Shoberl, pubblicata nel 1824. ALAMY / ACI
del collasso sociale e ambientale, e quindi dell’ecocidio. L’Isola di Pasqua divenne un modello in scala ridotta di quello che poteva succedere alle limitate risorse naturali presenti sulla Terra se non si fosse posto un freno al loro sfruttamento indiscriminato. Questo ha contribuito al moltiplicarsi delle pubblicazioni scientifiche e popolari a carattere catastrofista, il cui esempio più noto è forse il libro dello studioso statunitense Jared Diamond intitolato Collasso. Come le società scelgono di morire o vivere, pubblicato nel 2005. Con il sostegno dei risultati di Flenley, queste teorie si sono imposte sia sui mezzi di comunicazione scientifici sia su quelli popolari, contribuendo fino a oggi a divulgare l’ipotesi dell’ecocidio. Ma l’interpretazione dei dati di Flenley sul polline presentava alcuni problemi. Se la scomparsa delle foreste e il concomitante cambiamento ecologico erano indiscutibili, la cronologia di questo processo non era altrettanto chiara. Un’analisi dettagliata della datazione al carbonio 14 effettuata da Flenley mostrava che la scomparsa
Nell’ultimo decennio sono stati prelevati ulteriori campioni di sedimenti nei laghi di Raraku e Kao e nella palude di Aroi per colmare parte delle lacune lasciate da Flenley. Le analisi effettuate sul polline e altri indicatori hanno permesso di ricostruire la storia della vegetazione e del clima degli ultimi tremila anni. I nuovi dati hanno confermato che la foresta che copriva tutta l’isola era scomparsa per lasciare spazio a un manto erboso. Tale processo, però, non era stato improvviso e simultaneo come proposto dalla teoria dell’ecocidio. Ogni zona fu disboscata in momenti diversi e con ritmi diversi: se in alcune aree la deforestazione era avvenuta in un solo secolo, in altre aveva richiesto svariate centinaia di anni. Inoltre, gli studi hanno permesso d’individuare alcuni periodi di forte siccità che avevano prosciugato il lago Raraku ma non il Kao, nei cui pressi sorse il villaggio di Orongo, centro del culto dell’uomo uccello. Tutto ciò suggerisce che siano avvenute delle migrazioni interne tra gli antichi rapa nui, provocate sia dalla deforestazione connessa all’attività umana sia dalla scarsità idrica frutto di eventi climatici. Secondo le ultime datazioni, questa situazione sarebbe andata avanti fino all’arrivo degli europei e il disboscamento dell’isola non si sarebbe concluso prima del 1600. A sostegno di quest’ipotesi ci sono anche delle prove archeologiche, come la continuità dell’agricoltura e degli insediamenti umani: non vi è infatti alcun declino delle attività agrarie e dei centri abitati fino al contatto con gli europei. Le ricerche nel frattempo proseguono e si spera che possano fornire una risposta a uno degli aspetti più enigmatici della storia dell’isola.
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Nuove ipotesi
Navigatori del Pacifico Nel tentativo di unificare le diverse spiegazioni sul crollo della cultura ancestrale rapa nui, il linguista Steven Fischer ipotizza che fino al 1500 l’Isola di Pasqua abbia mantenuto delle relazioni con l’isola di Mangareva, presunto luogo d’origine dei suoi coloni e distante quattro settimane di navigazione. L’espansione della cultura dei moai sarebbe stata prodotta proprio dal contatto con la civiltà polinesiana originaria. Ma a partire dal 1500 il degrado ambientale e la cessazione dei viaggi per mare hanno portato all’isolamento dei rapa nui, determinando al contempo il passaggio dal culto dei moai a quello dell’uomo uccello e il disboscamento dell’isola. Secondo Fischer, inoltre, a determinare la scomparsa dei palmeti non fu solo l’attività umana connessa allo sfruttamento del legname e all’agricoltura, ma anche l’introduzione accidentale del ratto polinesiano, che si nutre di semi e virgulti di palma. Sotto, imbarcazione delle isole Chuuk (Micronesia).
Il villaggio di Orongo fu fondato intorno al XV secolo sul lago Kao, che a differenza del Raraku non si era prosciugato. Era costituito da una cinquantina di case ovali in pietra.
1
Motu Kao Kao
La sfida dell’uomo uccello Dopo il 1500 il centro di gravità culturale dell’isola si trasferì a Orongo 1. Qui si celebrava il culto dell’uomo uccello, una competizione tra clan che si teneva a settembre per decidere chi avrebbe governato l’isola. Il campione di ogni clan doveva scendere la scogliera fino al mare e nuotare per due chilometri nelle acque infestate da squali, fino all’isolotto 2 dove nidificava la sterna (manutara) durante la sua migrazione stagionale. Qui doveva prelevare un uovo, riporlo in una fascia avvolta in testa e riportarlo intatto a Orongo. Il capo del clan del vincitore veniva proclamato tangata manu, sacro uomo uccello dell’anno, e assumeva il governo dell’isola. UOMO UCCELLO CON UN UOVO DI MANUTARA IN MANO. BRITISH MUSEUM, LONDRA. BRITISH MUSEUM / SCALA, FIRENZE
Lago Raraku, di 300 m di diametro e 3 m di profondità.
Lago Kao, di 1 km di diametro e 10 m di profondità.
Percorso dei partecipanti alla sfida dell’uomo uccello.
Motu Iti
Motu Nui
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IL NAVIGATORE FRANCESE JEANFRANÇOIS DE LA PÉROUSE ARRIVÒ SULL’ISOLA NELL’APRILE DEL 1785 E STIMÒ CHE CI FOSSERO DUEMILA ABITANTI. L’INCISIONE RICOSTRUISCE LA SUA VISITA.
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Realizzati in legno, erano repliche di piccole dimensioni dei moai in pietra e rappresentavano gli akuaku (spiriti della natura). BRIDGEMAN / ACI
La teoria dell’ecocidio sta perdendo invece di credibilità: gli isolani sfruttarono la foresta fino alla sua totale scomparsa, ma non in modo rapido e compulsivo, come affermano i catastrofisti, bensì gradualmente.
La vera catastrofe Ciò che avvenne in seguito all’arrivo degli europei è ampiamente documentato. I primi incontri tra i nuovi arrivati e la popolazione locale non furono privi di schermaglie e provocarono qualche vittima tra i rapa nui. Ma nulla fu così letale per loro come la schiavitù e l’introduzione di malattie contagiose prima sconosciute, contro le quali non avevano nessuna possibilità di difesa. In realtà gli anni immediatamente successivi al primo sbarco degli europei furono relativamente tranquilli: fino al XVIII secolo le navi si fermavano a Rapa Nui solo per effettuare brevi esplorazioni e rifornirsi di viveri durante i lunghi viaggi transoceanici. Ma a partire dall’ottocento l’isola divenne
un centro di prelievo degli schiavi che venivano mandati a lavorare nelle piantagioni o nell’industria della caccia alle foche del Sud-America. A causa di questi fattori la popolazione autoctona si ridusse progressivamente fino alla sopravvivenza di appena un centinaio di persone, che furono costrette a convertirsi al cattolicesimo, comportando la perdita della loro identità culturale. Fu questo genocidio sistematico, e non il presunto ecocidio, la causa del collasso dell’antica civiltà di Rapa Nui. VALENTÍ RULL DOTTORE IN BIOLOGIA E RICERCATORE DEL CONSIGLIO SUPERIORE DI RICERCA SCIENTIFICA (CSIC). AUTORE DI LA ISLA DE PASCUA. UNA VISIÓN CIENTÍFICA
Per saperne di più
INTERNET
Isola di Pasqua, collasso ecologico o storia fraintesa? https://oggiscienza.it/2017/08/21/ isola-pasqua-deforestazione/ Un nuovo passato per l’Isola di Pasqua? http://www.nationalgeographic.it/popoliculture/storia/2017/10/18/news/un_nuovo_ passato_per_l_isola_di_pasqua_-3715933/ Easter Island Statue Project http://www.eisp.org/4095/
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I MOAI KAVAKAVA
OPERA DI SPECIALISTI
Gli scultori dei moai tramandavano le conoscenze tecniche di generazione in generazione. Costituivano una classe privilegiata dedita esclusivamente al proprio lavoro e al cui sostentamento provvedevano gli agricoltori e i pescatori.
NELLE VESTI DI SANTA CATERINA
In questo affresco del Pinturicchio dal titolo Disputa di Santa Caterina d’Alessandria con i filosofi davanti all’imperatore Massimino, Lucrezia Borgia è ritratta proprio come Santa Caterina, di cui papa Alessandro VI era un fedele devoto. 1492-1494. Appartamento Borgia. Vaticano, Roma. SCALA, FIRENZE
500 anni dalla morte
LUCREZIA BORGIA Preceduta dallo stigma del suo cognome, la figlia di papa Alessandro VI era considerata una donna manipolatrice e arrivista. Ma gli anni trascorsi come duchessa di Ferrara ne tramandano un’immagine molto diversa
SCALA, FIRENZE
EMBLEMA DELLA FAMIGLIA BORGIA INCASTONATO NEL SOFFITTO DELLA SALA DELLE ARTI LIBERALI. APPARTAMENTO BORGIA. VATICANO. XVI SECOLO.
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ra il 2 febbraio 1502: una ragazza bionda, snella, dagli occhi color fiordaliso, i lineamenti aggraziati pervasi da un’espressione di dolcezza e da una volontà straordinaria di vita e di allegria entrava nella città di Ferrara come sposa di Alfonso I d’Este, figlio ed erede del duca Ercole I. La novella sposa indossava un abito di raso morello con frange d’oro abbinato a un mantello in broccato d’oro foderato di ermellino, una cuffia trapuntata d’oro, gemme e perle e una collana di diamanti. Cavalcava uno splendido destriero bianco coperto di scarlatto con finimenti preziosi. Sotto un baldacchino di raso cremisi veniva scortata da sei gentiluomini ferraresi. Al suo seguito decine di muli e due magnifiche mule, bardati dei colori del papa, avanzavano carichi di ogni sorta di oggetti preziosi. L’entrata in città di Lucrezia Borgia fu abbagliante, nonostante la fama che la precedeva. Tutti sapevano che era figlia dell’allora papa Alessandro VI, frutto di una intensa e duratura relazione risalente a quando era ancora il cardinale Rodrigo Borgia. Si sa poco di Vannozza Cattanei, la madre di Lucrezia: era una cortigiana di origini lombarde arrivata a Roma in cerca di un amante che le garantisse una vita di agi. Da Rodrigo Borgia ebbe quattro figli: Cesare, Giovanni, Lucrezia e Goffredo, tutti molto amati dal padre e a cui Rodrigo non fece mai manca-
Una vita travagliata
1480 La figlia del cardinale Rodrigo Borgia, poi papa Alessandro VI, e di Vannozza Cattanei, nasce a Subiaco.
CASTELLO ESTENSE
Niccolò II d’Este, marchese di Ferrara, in seguito a una rivolta commissionò a Bartolino da Novara il disegno dell’edificio difensivo. I lavori iniziarono il 29 settembre 1385, giorno di San Michele, da cui il castello prende il nome.
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1501
1519
Per interessi politici familiari, Lucrezia sposa Giovanni Sforza. Il matrimonio verrà in seguito dichiarato nullo.
Sposa Alfonso d’Aragona, poi ucciso dagli stessi Borgia a causa di un cambio di alleanze politiche.
A Roma contrae matrimonio con Alfonso d’Este, erede del ducato di Ferrara. Avranno 7 figli.
Dopo numerosi aborti e la perdita di alcuni dei suoi figli, Lucrezia muore di parto a soli 39 anni.
DEA / ALBUM
RITRATTO DI ALFONSO I D’ESTE. BATTISTA DOSSI (1530 CIRCA). GALLERIA ESTENSE, MODENA.
LE LETTERE CIFRATE DI ALFONSO I D’ESTE SONO POCHE LE TESTIMONIANZE sulla relazione tra Alfonso I d’Este e la moglie Lucrezia. Eppure si sono conservate delle lettere cifrate pervenute fino a oggi e relative al periodo in cui Alfonso era lontano da casa, in guerra contro Venezia. Lucrezia, rimasta ad amministrare i territori del ducato e a crescere i due figli piccoli della coppia, intrattenne col marito un traffico epistolare in cui si scambiavano notizie sullo stato della guerra, la salute dei piccoli e le condizioni del ducato. La decifrazione dei testi ha fatto emergere il rapporto privato tra i due coniugi, una conversazione tra pari basata sulla fiducia di Alfonso, che aveva affidato a Lucrezia dei compiti che richiedevano saggezza e maturità.
re nulla. Nonostante avesse altri figli, ebbe sempre un occhio di riguardo per Lucrezia, che trascorse la sua infanzia e i primi anni dell’adolescenza negli appartamenti papali. Il padre e il fratello Cesare – noto come il duca Valentino e modello di libertinaggio e strategia politica in Il Principe di Machiavelli – erano sospettati di praticare la simonia e il nepotismo, oltre a essere considerati degli arrivisti politici e manipolatori. A minare la reputazione di Lucrezia contribuirono anche le accuse d’incesto – avrebbe avuto una relazione con il padre e con il fratello – lanciate contro di lei dal suo primo marito Giovanni Sforza, ripudiato dalla moglie per volere papale. Quando il suo secondo marito Alfonso d’Aragona duca di
GABRIELE CROPPI / FOTOTECA 9X12
Bisceglie divenne un alleato scomodo per i Borgia, venne tolto di mezzo per ordine di suo fratello Cesare. Non è dunque strano che nel XIX secolo si fossero diffuse opere come Les Borgia di Alexandre Dumas, tragedia che dipingeva Lucrezia come una consumata avvelenatrice e una donna malvagia. Un giudizio smentito già dai suoi contemporanei: gli ambasciatori del duca Alfonso, inviati a Roma nel 1501 per le trattative del suo terzo matrimonio, si erano meravigliati della sua saggezza e della grande intelligenza. Un delegato del duca Ercole d’Este scriveva di lei: «Sembra che la duchessa sia molto prudente, e più abile a sbrigare gli affari correnti che a divertirsi […] È donna discreta e di buona indole […] La bellezza è già di per
sé soddisfacente, ma la piacevolezza delle maniere e il modo grazioso di porgersi l’aumentano e fanno che nulla di sinistro si debba o si possa sospettare di lei». Solo l’anno dopo, un corrispondente di Isabella d’Este la reputava «donna di gran cervello, astuta», nonché «savia madona».
Una nuova vita a Ferrara I due anni che seguirono l’arrivo di Lucrezia in città furono per lei tra i più allegri e spensierati. La figlia del papa fu protagonista di
SVAGHI ALLA CORTE ESTENSE
Gli Estensi organizzavano feste e giochi per intrattenere la corte. Nella foto, il Giardino di Venere, affresco opera di Francesco del Cossa. 1468-1470. Palazzo Schifanoia. Ferrara.
I suoi contemporanei definirono Lucrezia come una «donna di gran cervello, astuta», nonchè una «savia madona»
Milano Mantova Genova
Parma
Venezia
Modena Ferrara
Lucca Pisa
Firenze Siena
STATO PONTIFICIO
MAR AD RIATICO
Roma
MAR TIRRE NO Gli stati italiani nel XVI secolo
Napoli
un incontrastato rinnovamento culturale: si circondò di poeti, musicisti e letterati, rivaleggiando con sua cognata Isabella d’Este. Fiorivano la composizione di commedie, i poemi cavallereschi, gli scritti encomiastici, le dispute sui temi più alla moda. Lucrezia seppe animare l’antica e prestigiosa corte estense, tradizionalmente legata alla cultura francese, grazie ai suoi modi gentili e all’influsso spagnolo. Benché fosse nata nel Lazio, era stata educata secondo i dettami della Spagna, terra d’origine della sua famiglia, i Borja. A Ferrara introdusse la moda, la musica, le danze – che amava moltissimo – e la lirica iberica, di cui inviava versi al poeta Pietro Bembo perchè questi li traducesse in italiano.
Amicizie letterarie Quello con Bembo, che rimase alla sua corte dal dicembre 1502 all’autunno del 1505, fu un rapporto prettamente letterario, fatto di scambi di sonetti, lettere e doni. Pietro aveva conosciuto Lucrezia nel 1502, poco dopo le sue nozze con il duca Alfonso d’Este, e se n’era invaghito immediatamente. Al momento del loro primo incontro lei indossava una veste di broccato d’oro adorna di gioielli e perle d’inestimabile valore, mentre una cuffia trapuntata di pietre preziose agghindava il suo capo. Ci furono tra loro scambi di versi, intrattenimenti letterari, passeggiate, svaghi di corte e un epistolario,
SINISTRA: NATIONAL GALLERY OF VICTORIA, MELBURNE / ACI. DESTRA: THE SNITE MUSEUM OF ART, UNIVERSITY OF NOTRE DAME
CARTOGRAFIA: EOSGIS. COM
I ritratti di Lucrezia Nonostante la fama della duchessa di Ferrara, i ritratti che le si possono attribuire con certezza sono pochi. Molti artisti suoi contemporanei hanno dato alle dame che posavano per loro le fattezze di Lucrezia Borgia, mescolando i lineamenti delle une e dell’altra.
Dosso Dossi (1474-1542)
Bartolomeo Veneto (XVI secolo)
Giovanni di Niccolò Luteri, noto come Dosso Dossi, è l’autore del ritratto forse più autentico di Lucrezia Borgia. Dipinto nel 1518, un anno prima della morte della duchessa, la ritrae con un aspetto austero e abiti scuri in segno di modestia e virtù; è circondata dal mirto, sinonimo di fedeltà e di fertilità; la spada è simbolo di giustizia. L’iscrizione riporta «La virtù che vi regna è più splendida di questo pur bel corpo».
In quest’opera Lucrezia Borgia si sarebbe fatta ritrarre con le fattezze della beata Beatrice II d’Este (1230 circa-1262 circa). La scelta del personaggio non è casuale: figlia del marchese Azzo VII d’Este e di Giovanna di Puglia, Beatrice vestì l’abito benedettino e si ritirò nel monastero di Sant’Antonio in Polesine. Lucrezia avrebbe voluto così rimarcare la sua fede e l’appartenenza alla casa d’Este.
bi fanno riferimento al cristallo, un altro modo di definire i loro cuori. Benchè girassero voci su una presunta relazione sentimentale tra i due, sembra che il loro rapporto si limitasse però a un amore platonico. A lei Pietro dedicò Gli Asolani (1504), immaginario dialogo sulla natura dell’amore, che definiva «desio di bellezza», intesa come rettitudine dell’anima. Questo trattato sarebbe divenuto poi fondamentale nella legittimazione letteraria della lingua italiana.
Un’abile amministratrice
TATE, LONDON / SCALA, FIRENZE
UNA DONNA SUL SOGLIO PONTIFICIO
Papa Alessandro VI autorizzò la figlia Lucrezia ad amminisitrare i territori della chiesa in sua assenza. F. Cadogan Cowper, 1908-1914. Tate Gallery, Londra.
fitto da parte di Bembo (40 lettere) e limitato a nove circospette missive da parte di lei. Da una di queste poche pagine emerge il carattere di Lucrezia, che scriveva: «Miser Pietro mio. Circha el desiderio tenite intender da me lo incontro del vostro o nostro cristallo che cusi meritamente se po reputar e chiamare non saperia mai che altro posserne dire o trouare: saluo una extrema conformità forsi mai per nisun tempo igualata». La lettera, datata 24 giugno 1503, fu scritta in risposta a una missiva di Bembo. Entram-
Lucrezia Borgia è tuttora l’unica donna della storia ad aver mai ricoperto la carica di governatrice di territori papali
Le fonti del tempo descrivono Lucrezia come una persona d’indole solare e vivace, dal carattere dolce e socievole, animata dalla gioia di vivere. Un cronista ferrarese ricorda una giornata del 1505 in cui Lucrezia, con sua cugina e altre damigelle di corte, portò in giro per la città in carretta gli ambasciatori veneziani tra risate e divertimenti. Questo non le impedì di assumere responsabilità politiche normalmente estranee alle donne del suo tempo. Sebbene fosse giovanissima al momento del suo arrivo a Ferrara si era già dimostrata all’altezza di incarichi di eccezionale importanza. Nelle strategie politiche di Alessandro VI la figlia aveva assunto infatti fin da subito un ruolo fondamentale non soltanto come pedina nello scacchiere delle alleanze matrimoniali, ma anche come consanguinea fedele a cui delegare l’amministrazione di terre della Chiesa. Fu in questa occasione che un pontefice affidò a una donna per la prima e unica volta nella storia la carica di governatrice di alcuni territori papali: nel 1499 Lucrezia ricoprì i governatorati di Spoleto e di Foligno. Ma non si limitò a questo: nel 1501, fatto inaudito, Alessandro VI le affidò l’incarico di reggente dello Stato della Chiesa in sua assenza, con la facoltà di aprire e leggere la corrispondenza indirizzata al papa e di intervenire, consigliandosi con un gruppo ristretto di cardinali, in caso di questioni urgenti. Chiaramente le sue capacità erano tali che il padre si fidava completamente di lei e qualche anno dopo il marito Alfonso fece lo stesso affidandole la reggenza del ducato.
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MAPPA DI FERRARA REALIZZATA DA MATTEO FIANINI. PUBLICATA NEL 1598. DEA / ALBUM
Ma oltre ad assolvere i compiti che lo sposo le assegnava, Lucrezia aveva un dovere indelegabile come futura duchessa di Ferrara: garantire la continuità della dinastia. Purtroppo non fu facile. La sua vita fu segnata da 16 o 17 gravidanze nell’arco dei tre matrimoni. Solo dieci giunsero a termine, ma da una di queste la bimba nacque morta. Dei nove figli sopravvissuti, soltanto cinque vissero oltre l’adolescenza. Tra loro Ercole II, l’erede del ducato, nato nel 1508. Seppure eventualità abbastanza comune all’epoca, Lucrezia visse la morte dei suoi bimbi in fasce come un trauma. In una sua lettera indirizzata al suocero Ercole d’Este, preccupato per la sua salute in occasione della prima delle sfortunate gravidanze,
LA FERRARA DEGLI ESTENSI LA CITTÀ EMILIANA conserva ancora l’impronta degli
Estensi, che la dominarono per tre secoli e mezzo. La cattedrale 1 di San Giorgio si trova a pochi metri dal castello degli Estensi 2, collegato al palazzo Ducale 3 (ora municipale) dalla via Coperta 4. Un po’ più fuori dal centro cittadino sorge il palazzo Schifanoia 5, “schifar la noia”, luogo di rifugio della corte dalle noie della vita quotidiana. Ma ciò che realmente influì sull’urbanismo ferrarese fu l’Addizione Erculea 6, il quartiere settentrionale della città. Prende il nome da Ercole I d’Este, padre di Alfonso, che nel 1492 incaricò all’ingegnere Biagio Rossetti d’incorporarlo al piano cittadino, raddoppiando di fatto l’estensione di Ferrara.
ISABELLA D’ESTE. DUCHESSA DI MANTOVA E COGNATA DI LUCREZIA BORGIA. 1534. TIZIANO VECELLIO. KUNSTHISTORISCHES MUSEUM, VIENNA.
AUSTRIAN ARCHIVES / SCALA, FIRENZE
scriveva: «Ho ricevuta grandissima displicentia dello affanno et molestia che ha presa la Excellentia Vostra della mia nova indisposizione, la quale volentieri l’haveria celata per non li dare melanconia, quando tacendo non fusse mancato del debito mio […] La ringratio sumamente dello amorevole scrivere suo, et della speranza ch’ella mi dà». E così gli annunciava la morte del suo secondo bambino, di appena un mese: «Lo illustrissimo nostro charissimo figliolino essendo sta’ agitato più volte da molti accidenti sopravvenuti, questa mattina su le XIII ore è passato da questa vita. De che siamo in lachryme tanto tribulata et havemone tanto cordoglio quanto Vostra Signoria pote pensare», pregandolo poi di non informare la duchessa malata per non darle preoccupazioni.
Suscitano tenerezza soprattutto gli innumerevoli monili sacri – come una croce raffigurante da un lato la Passione, e dall’altro il Santo Sepolcro – che Lucrezia metteva al collo dei suoi bambini nel tentativo disperato di proteggerli dalla malattia già avanzata o dalla morte imminente. In seguito alle molte gravidanze finite male e ai numerosi lutti che la colpirono la sua religiosità si fece sempre più manifesta. Divenne terziaria francescana – seguiva le regole dell’ordine senza vivere in convento – e volle essere sepolta con quella veste.
BRIDGEMAN / ACI
Fervente religiosa
LA SALA DEL TESORO
La volta della sala piĂš famosa di palazzo Costabili, o palazzo Ludovico il Moro, a Ferrara, fu decorata tra il 1503 e il 1506 da Benvenuto Tisi detto il Garofalo. In questo meraviglioso cortile affrescato gli Estensi ricevevano i loro ospiti.
MARCO ANSALONI
Nel 1509 fondò con i propri mezzi San Bernardino, convento di clarisse osservanti votate alla povertà assoluta, e colmò di attenzioni i monasteri femminili di molte altre città. Strinse rapporti di amicizia con numerose religiose che avevano manifestato segni di santità, distribuì elemosine, donò formaggi e altri generi di prima necessità ai conventi ferraresi e offrì regali ai monaci, cercando di mettere in pratica i principi della fede cristiana in ogni circostanza della sua vita. Assai spesso osservava il digiuno, cosa di cui il marito la rimproverava. Notizie sulla sua religiosità emergono dalla corrispondenza con il fiorentino Tommaso Caiani, che fu il suo confessore tra il 1514 e il 1519. Caiani era un seguace di Savonarola, la cui predicazione aveva avuto grande influsso a Ferrara, tanto che all’inizio del cinquecento si era formato un vero e proprio movimento improntato sulle sue idee. Le invettive contro il papato e la curia romana lanciate nel 1494 a Firenze da Savonarola e la condanna e la tragica fine del frate messo al rogo proprio durante il pontificato di Alessandro VI dovettero impressionare moltissimo Lucrezia. I suoi gioielli, di cui rimangono due inventari stilati tra il 1502 e il 1519, testimoniano una fede intrisa di sofferenza per le prove a cui la vita l’aveva sottoposta: oltre agli aborti e alla morte di tanti figli, Lucrezia aveva sofferto anche l’assassinio del secondo marito Alfonso d’Aragona, l’unico veramente amato. Come ebbe più volte modo di affermare nelle sue lettere, apprezzava soprattutto gli oggetti «belli e insieme di devozione». Nel periodo ferrarese tutto ciò che indossava era ormai di natura sacra, riservando i monili profani alle occasioni di stato. Tra i quindici testi in suo possesso che si sono conservati, il più prezioso era un piccolo libro miniato in oro con episodi della vita della Madonna.
LA DELIZIA DEL VERGINESE
Alfonso I d’Este donò il casale di campagna del Verginese a Laura Eustochia Dianti, la sua amante dopo la morte di Lucrezia. Nella foto in alto, la torre colombaia della proprietà.
Lucrezia portò avanti un’opera di bonifica dei territori del ducato ferrarese utilizzando i proventi della vendita dei propri gioielli
Gli altri suoi volumi e i numerosi arazzi di carattere religioso anziché mitologico – gli episodi biblici rappresentavano la giustizia e la rettitudine contrapposte all’arroganza e all’abuso di potere – testimoniano una cultura varia ed eclettica.
Benessere del ducato Il dolore per la perdita dei figli si unì a quello per la morte del padre Alessandro VI, avvenuta il 18 agosto 1503. Lucrezia però continuò a occuparsi con amore e dedizione del benessere economico del ducato di Ferrara, di cui divenne la duchessa nel 1505. La sua attività di amministratrice s’intensificò negli anni del conflitto contro Venezia e il papato (1509-1513), che costituirono
un punto di svolta determinante: dal 1513, spinta dalle necessità economiche del ducato, iniziò l’ambizioso programma di risanamento delle finanze di Ferrara che avrebbe portato avanti fino alla morte. Lucrezia fu l’artefice di un’instancabile opera di bonifica basata non tanto sull’agricoltura, ma piuttosto sull’allevamento. Per realizzarla non ebbe remore a utilizzare sia i proventi dell’eredità di uno dei suoi figli sia quelli derivanti dalla vendita dei propri gioielli: nel 1516 vendette una catena d’oro per sovvenzionare il rifacimento degli argini di un fiume e poco tempo dopo impiegò una perla e un rubino per avviare un allevamento di bufale, della cui mozzarella era particolarmente golosa.
Morì di parto a soli 39 anni, il 24 giugno 1519. Il marito Alfonso, sconvolto e disperato, dava così la notizia al nipote Federico Gonzaga: «Non posso scriverlo senza lachrime, tanto mi è grave il vedermi privo d’una sì dolce e cara compagna, quanto essa mi era per li boni costumi suoi e per il tenero amore che era fra noi». E il dolore era grande in tutto il ducato. MARIA PAOLA ZANOBONI DOTTORE DI RICERCA IN STORIA MEDIEVALE
Per saperne di più
TESTI
La grande fiamma. Lettere 1502-1517 Pietro Bembo, Lucrezia Borgia. Archinto, Milano, 2002. Lucrezia Borgia Maria Bellonci. Mondadori, Milano, 2019.
GLI AMORI DI LUCREZIA NEL FERRARESE Nel corso dei secoli si è detto di tutto su Lucrezia Borgia: incestuosa, avvelenatrice, circondata da amanti. Ma se è vero che durante il periodo romano Lucrezia ebbe delle avventure, non si hanno prove della sua infedeltà durante gli anni trascorsi nel ferrarese.
1. Pietro Bembo Il poeta s’innamorò a prima vista di Lucrezia quando la conobbe a Ferrara nel 1502. Nelle loro lettere - 40 di lui e appena nove di lei - i due parlano dei loro cuori come “cristallo”, simbolo di una relazione intensa e fragile che si concluse quando Bembo abbandonò definitivamente la città durante l’epidemia di peste del 1505, forse perché Alfonso d’Este era stato informato del loro legame.
2. Francesco II Gonzaga Una fitta corrispondenza sarebbe l’unica prova del presunto affaire tra Lucrezia e il marito della cognata Isabella d’Este, Francesco II Gonzaga. L’adulterio non fu mai smentito da Lucrezia, che forse voleva vendicarsi di Isabella, secondo lei colpevole della fuga di Bembo da Ferrara. Sembra però che il duca Alfonso sospettasse qualcosa: Ercole Strozzi, uomo di fiducia della duchessa e nesso tra i due presunti amanti, fu ucciso con 22 coltellate nel 1508.
CIOCCA DI CAPELLI CHE LUCREZIA BORGIA DONÒ A PIETRO BEMBO. LA TECA È OPERA DELL’ORAFO ALFREDO RAVASCO. 1926-1928. VENERANDA BIBLIOTECA AMBROSIANA. MILANO. MARCO ANSALONI
PIETRO BEMBO. A SINISTRA, RITRATTO DIPINTO DA RAFFAELLO. 1503-1504. SZEPMUEVESZETI MUZEUM. BUDAPEST. SCALA, FIRENZE
RITRATTO DI FRANCESCO II GONZAGA. FERMO GHISONI. XVI SECOLO. PALAZZO DUCALE, MANTOVA. MONDADORI / GETTY IMAGES
GRANDI ENIGMI
CHARLES LAFARGE sul
letto di morte. Incisione dell’epoca che attribuisce alla moglie Marie, sulla destra, la responsabilità dell’avvelenamento.
Il caso Lafarge: la scienza condannò un’innocente?
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arie-Fortunée Capelle nacque nel 1816 da una famiglia benestante e poté studiare in uno dei primi centri d’istruzione femminile di Parigi. Attraverso un’agenzia matrimoniale entrò in contatto con un mastro forgiatore di una piccola località della Francia centrale, un certo Charles Lafarge, che aveva cinque anni più di lei. Lafarge viveva un periodo di difficoltà economiche, come altri impresari del suo settore, e sperava che l’unione con una famiglia parigina di spicco potesse fornirgli dei nuovi contatti per futuri affari.
Al loro primo incontro però, Marie Capelle non ebbe una buona impressione di Lafarge, che descrisse come un uomo con «un viso piuttosto brutto, un aspetto e dei modi da selvaggio». Ciononostante, dietro insistenza della famiglia accettò le nozze, che si svolsero a metà agosto del 1839. Il viaggio di Marie verso la sua nuova dimora fu costellato da liti con il marito, che tentò persino di stuprarla in più di un’occasione. All’arrivo a Beyssac, nel dipartimento della Corrèze, Marie Lafarge si trovò di fronte a un’abitazione fatiscente che non assomigliava per nulla alla villa che Charles le aveva descritto. Il suo
comportamento era inoltre oggetto di diffidenza perché non si adeguava al modello di pudore che si pretendeva dalle donne locali. La famiglia Lafarge non vedeva di buon occhio che la giovane moglie montasse a cavallo o si esibisse al pianoforte e leggesse poesie romantiche davanti ai suoi ospiti. I giorni passavano e la tensione aumentava: Marie iniziò a soffrire di disturbi nervosi, arrivando a immaginarsi un tentativo di fuga con un amante fittizio. Sembra che avesse persino cercato di avvelenarsi. Tuttavia, dopo le prime settimane, riuscì ad adattarsi alla nuova situazione e il suo rapporto con la famiglia Lafarge migliorò.
LEEMAGE / PRISMA ARCHIVO
Nel 1840 Marie Capelle fu giudicata colpevole di avvelenamento in base a delle analisi tossicologiche che in molti contestarono
UNA DONNA COLTA
La donna intraprese una profonda ristrutturazione della casa e cominciò a collaborare con l’impresa del marito, cui presentò i suoi contatti tra dei notabili parigini dai quali poteva ottenere un prestito.
LE TESTIMONIANZE concordano nell’evidenziare la raffi-
L’accusa della famiglia
natezza e la cultura di Marie Lafarge. Ad esempio il naturalista Raspail, che la visitò in prigione nel 1840, rimase stupito dalle sue doti musicali e linguistiche: «Spiega e traduce Goethe a prima vista e improvvisa versi in italiano con la grazia e lo stile di una madrelingua». MARIE LAFARGE IN UN’INCISIONE REALIZZATA DURANTE IL PROCESSO. MUSÉE CARNAVALET / ROGER-VIOLLET / AURIMAGES
A metà dicembre del 1839, nel corso di un viaggio d’affari a Parigi, Charles Lafarge ricevette una torta apparentemente preparata dalla moglie. Ne mangiò una fettina e la notte stessa si
UNA CASA IN ROVINA
Si venne a sapere che nei giorni precedenti la donna aveva acquistato la sostanza in questione in un negozio. Le indagini furono condotte dal giudice istruttore di Tulle, che interrogò i parenti, perquisì la stanza di Marie, ordinò un’autopsia del cadavere del marito e fece analizzare tutte le bottiglie presenti in casa. Gli esperti lavorarono alle analisi per diversi giorni, mentre il giudice istruttore raccoglieva una grande quantità d’informa-
DEA / ALBUM
sentì male. Una volta tornato a casa le sue condizioni peggiorarono: i dolori allo stomaco aumentarono e gli attacchi di vomito si fecero più violenti. Nonostante le cure dei medici, morì il 14 gennaio 1840. Il giorno stesso i parenti del defunto espressero il sospetto che fosse stato avvelenato dalla giovane sposa con dell’arsenico disciolto nella torta e anche nelle medicine e nelle bevande che gli erano state somministrate in seguito.
LE GLANDIER, la villa di Charles Lafarge, era un’ex abbazia certosina confiscata durante la Rivoluzione francese e acquistata dal padre nel 1817. Marie la descrisse così in una lettera alla zia: «È una casa sporca, deserta, spoglia, in cui fa un freddo atroce e non ci sono porte o finestre che chiudano bene».
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI ENIGMI
IL TEST DI MARSH un metodo per rilevare la minima traccia di arsenico in un cadavere. Il campione viene posto in un’ampolla cui si aggiungono zinco e acido solforico 1. Questi reagenti producono idrogeno che combinato con l’arsenico genera il gas arsina. Convogliato attraverso un tubo 2, il gas viene scaldato con un fiamma 3 ed esce all’altra estremità 4,creando un sottile strato di arsenico metallico, le cosiddette macchie arsenicali. Il problema di questo test è la sua elevata sensibilità, perché una minima contaminazione dei contenitori e dei reagenti, o lo stesso arsenico presente allo stato naturale, bastano per dare un risultato positivo.
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JAMES MARSH presentò nel 1836
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APPARECCHIO DI MARSH. INCISIONE A COLORI BASATA SULL’IMMAGINE CHE APPARE NELL’OPERA DI THEODORE G. WORMLEY MICRO-CHEMISTRY OF POISONS, INCLUDING THEIR PHYSIOLOGICAL, PATHOLOGICAL, AND LEGAL RELATIONS. 1867. NATIONAL LIBRARY OF MEDICINE, NEW YORK.
SCIENCE SOURCE / ALBUM
zioni: lettere, testimonianze, fatture e via dicendo. Il 23 gennaio il magistrato ordinò l’arresto di Marie. Il processo iniziò il 3 settembre 1840 a Tulle, in un clima di grande attesa. Fin dalle sette del mattino «una folla compatta aspettò pazientemente l’a-
pertura del santuario della giustizia», racconta la stampa dell’epoca.
Esami tossicologici Il giorno successivo furono presentati il rapporto autoptico e l’esame tossicologico ordinati dal giudice istruttore. Gli esperti – un gruppo di medici e farmacisti locali che aveva seguito personalmente Charles Lafarge – dichia-
rarono di aver riscontrato degli indizi compatibili con un avvelenamento da arsenico: danni anatomici al tratto digestivo e alcuni granuli nello stomaco che potevano essere identificati con il veleno, anche se la consistenza e il colore lasciavano dei margini d’incertezza. Gli esperti riferirono anche che un incidente aveva provocato la rottura di un tubo
Durante il processo furono presentati quattro rapporti tossicologici con conclusioni in contraddizione tra loro CARICATURA DELL’AVVOCATO DIFENSORE DI MARIE LAFARGE, ALPHONSE GABRIEL VICTOR PAILLET. BRIDGEMAN / ACI
al momento di eseguire le analisi chimiche, rendendo così impossibile confermare la presenza della sostanza incriminata. Nonostante questi dubbi, venne emesso un verdetto di colpevolezza nei confronti dell’imputata: Charles Lafarge era morto per avvelenamento da arsenico. L’avvocato difensore di Marie, che aveva esperienza in processi di questo tipo, evidenziò tutti i punti deboli dell’impianto accusatorio, ottenendo il rigetto della prima perizia e l’ordine di una seconda. Per analizzare nuovamente i resti biologici di Charles Lafarge, la corte scelse due farmaci-
AKG / ALBUM
MARIE LAFARGE di fronte al tribunale di Tulle, durante il processo in cui fu condannata all’ergastolo. Incisione del 1842.
sti e un chimico di Limoges. Questa volta si ricorse a un metodo più moderno. I periti sottoposero parte dello stomaco e del vomito del defunto a un test a elevata sensibilità che era stato introdotto da James Marsh quattro anni prima, ma nei resti non trovarono «un solo atomo» di arsenico. Di fronte a risultati così contraddittori il tribunale ordinò una terza prova, che richiese la riesumazione del corpo di Lafarge in quanto i campioni disponibili erano stati consumati nelle analisi precedenti. L’esame, condotto congiuntamente dal primo e dal secondo gruppo
di esperti, diede di nuovo esito negativo. Per Marie, la libertà senza imputazioni sembrava vicina. Ma un medico affermò che durante le prove aveva notato «un leggero odore di aglio», caratteristico dell’arsenico volatilizzato. Sulla base di questi vaghi indizi, il pubblico ministero ottenne l’esecuzione di una quarta perizia, che avrebbe dovuto risultare definitiva e concludente.
Le analisi decisive I nuovi esami furono affidati a una squadra di esperti guidati dallo spagnolo Mateu Orfila i Rot-
ger, un chimico di Minorca che aveva fatto carriera in Francia ed era considerato un’eminenza in materia. I periti arrivarono a Tulle il 13 settembre 1840 e ricorsero nuovamente al test di Marsh per analizzare le poche parti ancora disponibili del corpo di Lafarge. Come nei due casi precedenti, la prova fu condotta davanti alla corte, al pubblico e ai giornalisti che affollavano l’aula. Un silenzio sepolcrale precedette la lettura della relazione di Orfila. La sua conclusione era schiacciante: «Ci sono tracce di arsenico nel corpo […] che non provengono né dai reagen-
ti chimici utilizzati né dalla terra che circondava la bara […] Neppure sono compatibili con quella quantità di arsenico che si trova naturalmente nel corpo umano». Orfila fornì anche una spiegazione plausibile dei risultati negativi delle prove precedenti. Il corso del processo registrò un repentino cambiamento. Quella che dopo due perizie negative sembrava una scontata assoluzione assunse i contorni di una probabile condanna alla pena massima. Con una mossa disperata, gli avvocati di Marie Lafarge contattarono François Vincent Raspail, STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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GRANDI ENIGMI
MATEU ORFILA I ROTGER (1787-1853) si trasferì a Parigi all’età di 20 anni per studiare chimica. Nel 1814, grazie al suo Traité des poisons, divenne un’eminenza della tossicologia. La sua presunzione è al centro di questa caricatura di Daumier, in cui Orfila, di spalle, dichiara al pubblico: «Sono così sicuro dei miei dati che, se lo desiderate, avvelenerò il mio amico, il signor Coquardeau, per poi estrarre arsenico dai suoi occhiali».
uno dei più noti critici di Orfila, che già in altri processi ne aveva messo in discussione i metodi. Ma quando Raspail arrivò a Tulle ormai la sentenza era scritta. Solo le circostanze attenuanti evitarono a Marie Lafarge di essere giustiziata. Alla fine del 1840 la corte suprema di Parigi ratificò la condanna all’ergastolo.
Nei mesi successivi il dibattito tra colpevolisti e innocentisti divise la comunità medica francese per poi estendersi a tutta la società. Mateu Orfila difese le sue conclusioni in diverse lezioni pubbliche dedicate all’avvelenamento da arsenico, tenutesi nell’affollato anfiteatro della facoltà di medicina di Parigi. Nella prima metà del 1841 furono organizzate
delle sessioni monografiche presso l’Académie des Sciences e l’Académie nationale de médecine di Parigi. Le riviste scientifiche, i quotidiani e le pubblicazioni giuridiche dedicarono al processo un’infinità di pagine. In Francia e in Inghilterra furono portate in scena svariate opere teatrali direttamente ispirate agli eventi. La stessa Marie Lafarge pubblicò
Il caso Lafarge ossessionò l’alta società parigina e ispirò Gustave Flaubert nella stesura di Madame Bovary GUSTAVE FLAUBERT, AUTORE DI MADAME BOVARY. LEBRECHT / ALBUM
un’autobiografia che godette di una certa popolarità. La donna apprese dei rudimenti di tossicologia per cercare possibili errori nei metodi peritali e nel 1847 scrisse una commovente lettera a Orfila in cui metteva in dubbio l’attendibilità delle sue conclusioni. Nella missiva lo implorava di riconsiderarle alla luce delle novità emerse negli ultimi anni, in particolare dalle ricerche sull’«arsenico normale» (quello, cioè, presente negli esseri umani sani) condotte dai chimici dell’Académie des Sciences di Parigi, e chiese un nuovo rapporto: «Dopo tre analisi,
SPL / AGE FOTOSTOCK
Un’eminenza della tossicologia
SINTOMI INCERTI
CCI / DAGLI ORTI / AURIMAGES
COME PER ALTRI VELENI, i sintomi dellavvelenamento da arsenico variano notevolmente a seconda della quantità e delle modalità di somministrazione e delle condizioni della vittima. Alcuni di questi sintomi possono essere confusi con quelli di malattie naturali, come il colera, che aveva raggiunto l’Europa all’inizio degli anni trenta dell’ottocento. Non sorprende che i medici di Charles Lafarge inizialmente non sospettassero nulla. Tuttavia, nel corso del processo s’impose la tesi dell’avvelenamento, rafforzata da un immaginario sociale che fin dai tempi remoti associava donne e veleni, indipendentemente dal fatto che le statistiche dimostrassero che questi crimini erano per lo più opera di uomini. EPIDEMIA DI COLERA A PARIGI NEL 1832. OLIO DI A. JOHANNOT. MUSÉE CARNAVALET, PARIGI.
una quasi negativa e le altre due assolutamente negative, ci sono volute tutte le vostre conoscenze per far apparire una quantità infinitesimale di veleno. Con questo, signore, mi sembra di aver detto tutto… Ora spero che Dio mi protegga e vi porti l’illuminazione della sua verità!». Orfila non scrisse mai alcuna rettifica, ma negli anni successivi le richieste di grazia si moltiplicarono. La speranza di ottenere un indulto crebbe nei primi giorni della rivoluzione del 1848, quando i politici repubblicani sollevarono Orfila da tutti i suoi incarichi presso la facoltà di medicina a cau-
sa della sua vicinanza al re. Raspail scrisse nuovi articoli contro la condanna di Marie Lafarge, «uno dei maggiori scandali nella storia dell’uso della chimica nei tribunali».
Caso chiuso? I sostenitori di Marie Lafarge fecero diversi sforzi per ottenere un atto di clemenza dal governo repubblicano, ma senza successo. Fu solo nel giugno del 1852, quando Marie si ammalò di tubercolosi, che il gabinetto di Napoleone III si decise a concederle la grazia. Purtroppo però Marie non poté godere a lungo della ritrovata libertà, perché
morì pochi mesi dopo in un centro termale del sud della Francia, dove si era recata per curarsi. Nonostante le prove presentate durante il processo, molti non accettarono mai la colpevolezza di Marie Lafarge. Ci sono stati diversi tentativi di riaprire il caso, soprattutto negli anni precedenti la Prima guerra mondiale, quando sono emersi nuovi dati relativi all’arsenico normale. Tra i promotori della campagna c’è stato Julien Raspail, che ha raccolto la documentazione del nonno e redatto un lungo testo con i presunti errori della perizia di Orfila.
La questione è aperta ancor oggi ed esiste una società di amici di Marie Lafarge che chiede una revisione completa del processo. I manuali medici, invece, insistono nel presentare questo caso come uno dei momenti fondanti della tossicologia. Sia come sia, un’inquietante incertezza continua a circondare i fatti. —José Ramón Bertomeu Sánchez Per saperne di più FILM
L’affaire Lafarge Pierre Chenal. Francia, 1938. LIBRO
Assassine Cinzia Tani. Mondadori, Milano, 2014.
STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
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M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA ARTE MODERNA
Il rinoceronte “naufrago” di Dürer
C
orazzata, deforme, agli inizi dell’età moderna era una delle rappresentazioni più incisive del gusto esotico. La gigantesca bestia conosciuta come rhinocerus fu un omaggio diplomatico del sultano indiano Muzaffar di Cambay a Manuel I re di Portogallo. Il rinoceronte, imbarcato su una nave, salpò dall’India nel 1513 e raggiunse Lisbona nel maggio del 1515. Pochi mesi dopo però il sovrano portoghese decise che si trattava di un dono degno di ben altro destinatario: il pontefice Leone X. Addobbato con un collare di velluto verde decorato con rose e garofani e sostenuto da una catena dorata, l’animale fu nuovamente imbarcato, questa volta verso Roma. Dopo una sosta a Marsiglia la nave ripartì ma al largo della cit-
ALBRECHT DÜRER, Rinoceronte, xilografia, 215x300.
tà di Genova affondò a causa di una tempesta. Rinvenuta su una spiaggia, la carcassa del rinoceronte fu impagliata e portata al papa. Albrecht Dürer (1471-1528) s’ispirò a una dettagliata descrizione dell’animale e a uno schizzo per realizzare l’incisione Rinoceronte (1515), uno dei lavori più popolari dell’artista tedesco.
Chiara Casarini ha voluto ripercorrere quella vicenda e la fortuna che ebbe nei secoli quell’opera capace di affascinare Raffaello, Salvador Dalì e finanche Li-Jen Shih, tra i massimi artisti contemporanei cinesi. Difatti anche il King Kong Rhino dell’artista asiatico sarà esposto nel belvedere di Palazzo Sturm a Bassano per
tutta la durata della mostra su Dürer. Quello della collezione Remondini, dinastia di stampatori bassanesi, è un autentico tesoro grafico: 123 xilografie e 91 calcografie tra cui le serie dell’Apocalisse, della Grande Passione e Piccola Passione e della Vita di Maria. Fondata da Giovanni Antonio Remondini verso il 1660, la tipografia possedeva nel settecento 18 macchine tipografiche, 24 torchi per la stampa in rame, 4 cartiere e una fonderia di caratteri e grazie a una rete di agenti le sue produzioni iconografiche raggiungevano i quattro angoli del pianeta. ALBRECHT DÜRER La collezione Remondini Palazzo Sturm. Musei Civici, Bassano del Grappa (Vi) Fino al 30 settembre 2019 www.museibassano.it
STORIA DELLA MAIOLICA ITALIANA
Le ceramiche narrano storie
A
PIATTO, IL RAPIMENTO DI ELENA
Nicola da Urbino, Urbino, 1525-1530. Collezione privata. 128 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
l maestro de lavorio a Deruta. Mastro de’ vasi ti do questo avviso, che se vender vuoi presto il tuo lavoro, queste ci pignerai […] Qui sotto te le scrivo ad una ad una». Con questi versi del 1557 il poeta Andreano da Concole di Todi suggerisce a un maestro ceramista di Deruta una efficace strategia di vendita: dipingervi sopra figure femminili. Queste erano spesso
accompagnate da nomi propri e da aggettivi quali “bella”, “diva”, “unica”, “graziosa”. L’ampia varietà di soggetti sacri, profani, mitologici e affettivi che vennero riprodotti sulle cosiddette “ceramiche istoriate” (sull’immacolata superficie delle maioliche venivano rappresentate delle storie a colori) è al centro della mostra curata dallo storico dell’arte Timothy Wilson, che si
propone di narrare attraverso 200 capolavori «l’affascinante storia della maiolica italiana dalla seconda metà del 1400 alla prima metà del 1500». L’ITALIA DEL RINASCIMENTO Lo splendore della maiolica Palazzo Madama, Sala Senato, Piazza Castello, Torino Fino al 14 ottobre 2019 www.palazzomadamatorino.it
IN ED ICO LA
Speciale Storica. Archeologia
grecia classica
Ricostruzioni in 3D di Atene e Olimpia DURANTE IL V SECOLO A.C. Atene fu lo scena-
rio di una straordinaria fioritura culturale. La ricostruzione dell’acropoli, guidata da Pericle con la collaborazione del grande scultore Fidia, conferì alla città che aspirava a diventare la capitale del mondo greco lo splendore e la magnificenza necessarie.
Dal canto suo Olimpia, piccola città santuario al riparo del monte Crono, crebbe fino ad occupare un ruolo di spicco nella storia della Grecia. Divenne infatti la culla dei Giochi Olimpici, ai quali aspiravano a partecipare perfino gli imperatori romani. In edicola dal 27 giugno. Prezzo 9,90¤
Prossimo numero LE GEISHA, DAME DI COMPAGNIA D’ORIENTE NEL XVII SECOLO nacquero
HARRY BRÉJAT / RMN-GRAND PALAIS
le geisha, il cui scopo era quello di fare compagnia ai ricchi giapponesi. Offrivano conversazioni o intrattenimento con balli e canzoni tradizionali a un prezzo spesso proibitivo. Nonostante in Occidente siano equiparate a prostitute di lusso, il termine “geisha” indica piuttosto una «persona versata nelle arti». In origine non era una qualifica riservata solo alle donne ed erano necessari anni di preparazione per acquisirne le competenze.
LA MAFIA: LE ORIGINI DELLA MALAVITA IN ITALIA DURANTE IL XIX SECOLO nel sud Italia prese
piede un’organizzazione criminale giunta fino ai nostri giorni. Nacque dalla necessità di far fronte alle mobilitazioni contadine frequenti nella zona. Banditi, criminali ed ex detenuti, con il pretesto di offrire protezione ai proprietari terrieri, con il passare del tempo si organizzarono in clan gerarchici regolati da un codice d’onore interno. A Napoli nacque la camorra, in Calabria sorse la ‘ndrangheta e in Sicilia il crimine organizzato venne battezzato con un nome che fece fortuna in tutto il mondo: la mafia. BRITISH LIBRARY / AURIMAGES
L’arca dell’alleanza Il popolo d’Israele, durante il viaggio verso la terra di Canaan, ricevette da Jahvè le tavole della legge e le custodì in un santuario mobile, l’arca dell’alleanza.
Le antiche macchine da guerra Gli ingegneri ellenici e romani disegnarono armamenti sofisticati e potenti, studiati per le guerre d’assedio: balestre giganti, catapulte e arieti corazzati.
Essere un cittadino romano La cittadinanza romana permetteva di partecipare alla vita politica dello stato e conferiva privilegi sociali ed economici cui aspiravano tutti gli abitanti dell’impero.
Il viaggio di Marco Polo L’Asia era un continente quasi sconosciuto per gli europei finché, nel XIII secolo, Marco Polo lo percorse nel suo viaggio per giungere alla corte di Kublai Khan.
Al di là delle (prime) Colonne d’Ercole (al Canale di Sicilia) c’era un’Isola… Così la Geografia svela la Storia.
La Sardegna di Atlante. Il Primo Centro del Mondo L’Isola Sacra racconta i suoi Segreti
km 11.359
«Con le Colonne d’Ercole spostate a Gibilterra Eratostene spinse nell’Oceano Atlantico tutte le storie del Mediterraneo Occidentale. Fu allora che l’Isola di Atlante divenne l’Atlantide dei Mille Misteri». Sergio Frau in Le Colonne d’Ercole, un’inchiesta
km 11.350
40°
Così il Paradiso divenne Inferno. «Omero, Esiodo, Pindaro, Eschilo, Socrate, Platone, Aristotele & C.…Non sono il primo a mettere Atlante al Centro del Mondo. Sono il primo a crederci e a misurare sul 40° parallelo Nord. E…». Sergio Frau in Omphalos
I 200 MENHIR DI BIRU ‘E CONCAS A SORGONO (Centro Sardegna)
Platone Timeo, sull’Isola di Atlante: «…Allora infatti quel mare era navigabile, e davanti a quella bocca che, come dite, voi chiamate Colonne d’Ercole, (le prime Colonne, al Canale di Sicilia, ndr) aveva un’isola…»
INFORMAZIONI: Pro Loco 3400680386 - Museo 3203468292
Eschilo
Prometeo Incatenato: «… Mi dà già troppa angoscia ciò che è accaduto a mio fratello Atlante che, nelle plaghe d’Occidente, regge un peso smisurato sulle spalle, il pilastro del cielo e della terra…»
Curatore Sergio Frau
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