Storica National Geographic - marzo 2021

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LA CONQUISTA DELLA TERRA SANTA

COME SI COSTRUIVANO

LA TOMBA DEL GUERRIERO DI PILO

VERCINGETORIGE

LA TRAGEDIA GALLICA

L’IMPERO AZTECO

- esce il 20/02/2021 - poste italiane s.p.a spedizione in abbonamento postale d.l. 353/2003 (conv. in l. 27/02/2004 n° 46) 1 comma 1 - lo/mi. germania 12 € - svizzera c. ticino 10,20 chf - svizzera 10,50 chf - belgio 9,50 €

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PIRAMIDI

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10145

periodicità mensile

LA PRIMA CROCIATA

N. 145 • MARZO 2021 • 4,95 E

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LA VERA STORIA DELLA PRINCIPESSA POCAHONTAS


La più antica Commedia miniata PALATINO 313 Dante Poggiali Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze

Tiratura limitata

E’ decorato da 37 miniature di ispirazione giottesca e da preziose iniziali istoriate, realizzate nella bottega di Pacino di Buonaguida nel XIV secolo. Contiene gran parte del Commento AUTOGRAFO di “Jacopo”, figlio di Dante. Quasi ogni chiosa è segnata dalla sigla: “Ja”, Jacopo Alighieri. Noto come “Dante Poggiali” dal nome dell’editore e bibliofilo Gaetano Poggiali che lo acquistò per utilizzarlo nella sua edizione della Commedia del 1807.

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LA CONQUISTA DI GERUSALEMME GOFFREDO DI BUGLIONE RINGRAZIA DIO DAVANTI A PIETRO L’EREMITA. ÉMILE SIGNOL, 1847. REGGIA DI VERSAILLES.

28 Come furono costruite le piramidi Operai specializzati e una programmazione minuziosa permisero di erigere questi giganti di pietra. DI JOSÉ MIGUEL PARRA

46 Il guerriero di Pilo Nel 2015 venne scoperta a Pilo, nella Grecia sud-occidentale, la tomba intatta di un guerriero miceneo. DI ÁNGEL CARLOS AGUAYO PÉREZ

58 La ribellione di Vercingetorige Nel 52 a.C. il capo arverno guidò la rivolta dei galli contro l’occupazione romana dei loro territori. DI ANDREA FREDIANI

74 La prima crociata Nel 1099 un esercito di cavalieri marciò verso la Terra Santa con il proposito di conquistare Gerusalemme. DI JUAN CARLOS LOSADA

90 L’impero azteco Tra il XIV e il XV secolo gli aztechi costruirono un imponente impero, in seguito distrutto dagli spagnoli. DI JOSÉ LUIS DE ROJAS

106 La vera storia di Pocahontas La principessa indiana powhatan ebbe un ruolo chiave nelle relazioni tra i nativi e i coloni inglesi giunti in Virginia nel 1607. DI LAUREN BECK

6 ATTUALITÀ 12 PERSONAGGI STRAORDINARI Carême, lo chef imperiale Cucinò per Napoleone e Tayllerand elaborando piatti raffinati.

16 GRANDI INVENZIONI La forchetta Già usata dai bizantini, fu introdotta in Europa intorno all’anno mille.

18 EVENTO STORICO La rivolta māori Nel 1860 i nativi insorsero per proteggere le loro terre.

24 VITA QUOTIDIANA La moda delle maschere Tra il XVI e XVII secolo le nobildonne coprivano il volto per proteggerlo dal sole.

120 GRANDI SCOPERTE Tito Bustillo Rinvenute delle pitture rupestri nelle Asturie.

124 FOTO DEL MESE 126 LIBRI E MOSTRE

VERCINGETORIGE. MEDAGLIA DEL GABINETTO NUMISMATICO E MEDAGLIERE, MILANO. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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Licenciataria de NATIONAL GEOGRAPHIC SOCIETY, NATIONAL GEOGRAPHIC TELEVISION

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LA VERA STORIA DELLA PRINCIPESSA POCAHONTAS

Pubblicazione periodica mensile - Anno XIII - n. 145

PIRAMIDI

LA TOMBA DEL GUERRIERO DI PILO VERCINGETORIGE LA TRAGEDIA GALLICA

L’IMPERO AZTECO

LA PRIMA CROCIATA

LA CONQUISTA DELLA TERRA SANTA

SAN LUIGI DAVANTI ALLE MURA DI GERUSALEMME. VETRATA DELLA CATTEDRALE DI NOTRE DAME DI SENLIS. FOTO: BRIDGEMAN / ACI

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COME SI COSTRUIVANO

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4 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


IN ED ICO LA

Gli speciali di Storica National Geographic in edicola questo mese

Dossier

Speciale Storica Mitologia

Dal Circo Massimo alla Domus Aurea, dall’Anfiteatro Flavio alle Terme di Traiano, dal Pantheon al Vallo di Adriano, per non parlare delle strade consolari utilizzate tuttora e degli acquedotti considerati ancora oggi un modello di ingegneria idraulica. Le grandi costruzioni romane testimoniano la potenza dell’antico Impero romano in Italia e nel mondo e sono considerate ancora oggi dei capolavori architettonici assoluti. Riscopri tutta la loro bellezza nel prossimo Dossier di Storica National Geographic. In edicola dal 26 febbraio. Prezzo ¤ 9,95

Ulisse, sovrano di Itaca e figlio di Laerte e di Anticlea, l’eroe greco per antonomasia, incarna il simbolo dell’uomo che riesce a superare le prove della vita con la forza dell’ingegno. L’ira degli dei lo costringe a peregrinare per tutti i mari conosciuti e ad affrontare un viaggio lungo dieci anni. Sarà costretto a combattere contro i mostri più feroci: i ciconi, i lotofagi, il ciclope Polifemo, la maga Circe, le sirene, Scilla e Cariddi, Calipso, i feaci e tanti altri. Il suo ritorno in patria lo consacra come un vero simbolo dell’umanità. In edicola dal 5 febbraio. Prezzo ¤ 9,95

GRANDI COSTRUZIONI ROMANE

I LEGGENDARI VIAGGI DI ULISSE


AT T UA L I T À

RICOSTRUZIONE artistica

MATTHEW VERDOLIVO / UC DAVIS/ IET ACADEMIC TECHNOLOGY SERVICES

della donna scoperta a Wilamaya Patjxa mente caccia animali con un atlatl, o propulsore.

IL SUDAMERICA DURANTE IL NEOLITICO

In Perù sono state rinvenute le spoglie di una giovane di circa novemila anni fa

S

ulle Ande peruviane gli archeologi della University of California di Davis hanno fatto una scoperta che può cambiare il nostro modo di considerare i ruoli legati al genere nel periodo del Neolitico. È stata infatti rinvenuta la sepoltura di una donna che sembrava essere una cacciatrice. I risultati di tale studio sono stati pubblicati su Science Advances. La tumulazione si trova nel sito di Wilamaya Patjxa. Il corpo appartiene a una donna di età compresa tra i diciasset-

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te e i diciannove anni, e se ne è potuto determinare il sesso grazie all’analisi delle proteine dentali. Accanto al cadavere è stato trovato un kit di strumenti per la caccia grossa. La scoperta ha spinto gli studiosi a chiedersi se la donna facesse parte di un gruppo più ampio di cacciatrici o se costituisse un caso isolato. La conclusione è la seguente: nei tempi antichi la partecipazione femminile alla caccia era tra il trenta e il cinquanta per cento circa, e solo più tardi la percentuale scese in modo notevole.

di Wilamaya Patjxa possedeva un corredo funerario composto da punte di lancia in pietra, un coltello, lame per estrarre gli organi interni dagli animali cacciati e utensili per raschiare o conciare le pelli. Nelle immagini mostrate sotto queste righe si può vedere la sepoltura con gli strumenti per la caccia così com’erano stati disposti vicino al corpo. Secondo gli studiosi, gli oggetti che accompagnano le persone nella morte tendono a essere gli stessi che utilizzavano in vita.

RANDY HAAS/UC DAVIS

La tomba di una cacciatrice

LA GIOVANE SEPOLTA nel sito peruviano


JOHNY ISLA-MINISTERIO DE CULTURA

A SINISTRA il geoglifo con l’immagine JOHNY ISLA-MINISTERO DELLA CULTURA

del felino, apparso durante i lavori di manutenzione. In una fotografia scattata dal drone (sopra queste righe) si possono notare gli effetti dell’erosione, che aveva coperto le linee con pietrisco e ghiaia.

CIVILTÀ PREINCAICHE

A Nazca, in Perù, i lavori di manutenzione di un belvedere hanno portato alla luce un nuovo e curioso geoglifo

N

el gennaio 2020, durante i lavori di manutenzione del sito che è ormai patrimonio UNESCO dal 1994, il team di archeologi peruviani guidato da Johny Isla ha scoperto nel Mirador Natural di Nazca, sulla costa meridionale del Paese, un nuovo e sorprendente geoglifo. Uno dei tecnici si è accorto per caso che lungo il pendio s’intravedevano alcune linee, e che non sembrava fossero di origine naturale. Dopo essersi accertati che si trattava ef-

fettivamente di una figura poco definita, gli archeologi hanno deciso di fotografarla avvalendosi dell’aiuto di droni. Gli studiosi hanno quindi analizzato le immagini, scoprendo che rappresentava un felino lungo circa trentasette metri.

Un gatto delle Ande L’animale in questione è un gatto delle Ande, una specie di cui oggi non rimangono molti esemplari. Le genti della civiltà paracas, che abitavano nella zona tra l’800 a.C. e il 200 d.C.

circa, lo consideravano una divinità che esercitava il proprio dominio sulla terra. Rappresentazioni di felini compaiono su ceramiche, tessili e incisioni rupestri. L’uso di moderne tecnologie permette oggigiorno di rinvenire nuove figure nella pampa di Nazca e di Palpa. Per esempio, l’anno scorso lo stesso Johny Isla e il collega Markus Reindel hanno rinvenuto più di cinquanta geoglifi, tra i quali quello di un’orca. Nel seguente link si può vederne il video:

verificata con l’ausilio dei droni, gli archeologi hanno iniziato a pulire la figura rinvenuta presso il Mirador Natural di Nazca. Ma la pandemia da coronavirus ha costretto a fermare i lavori, ripresi non molte settimane fa. Sotto, studiosi sulla collina del ritrovamento.

JOHNY ISLA-MINISTERO DELLA CULTURA

Scoperta a Nazca la sagoma di un felino

DOPO LA SCOPERTA,

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AT T UA L I T À

IL BANCONE del termopolio rinvenuto a Pompei, con i grandi contenitori in terracotta a incasso (dolia) in cui si conservavano le bevande e i cibi caldi prima di servirli ai clienti.


POMPEI

I segreti del termopolio sepolto dal Vesuvio nel locale si vendevano vino sbiancato con le fave, lumache, carne di maiale, di capra e di anatra, e anche pesce. Sulla parete dietro al bancone sono rappresentati con sorprendente realismo alcuni degli animali lì macellati e venduti (germani reali e un gallo) oltre a un

cane al guinzaglio. Dall’altra parte del bancone sono apparsi i resti di uno scheletro umano danneggiati da un’antica trincea scavata dagli esploratori del XVIII secolo. Forse appartenevano a qualcuno che durante la fuga tentò di mangiare o bere qualcosa (infatti accanto ai

resti c’era il coperchio di uno degli orci della taverna), oppure al custode stesso del locale. A quest’ultimo potrebbe essere diretto il graffito beffardo rinvenuto sulla cornice dell’affresco del cane, che recita: Nicia cineade cacator (Nicia cagatore invertito).

FOTO: LUIGI SPINA

N

el 2019 gli archeologi hanno scoperto nella regio V di Pompei i resti di un termopolio, una specie di bottega alimentare in cui si servivano bevande e cibi caldi. Dallo scavo del sito sono emerse nuove sorprese. Si è scoperto che


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PERSONAGGI STRAORDINARI

Carême, la grandeur della cucina francese Grazie ai suoi piatti ricercati ma al contempo a base di prodotti locali, Antonin Carême s’impose in Europa con la sua gastronomia così come Napoleone fece con i suoi eserciti

Il re degli chef, lo chef dei re 1784 Marie-Antoine Carême nasce a Parigi. Viene abbandonato dal padre e trova lavoro in una rosticceria.

1802 Carême termina la sua formazione di chef sotto la guida del famoso Bailly e apre una sua pasticceria.

1803 Il ministro Talleyrand gli affida l’organizzazione dei banchetti diplomatici. Tra i due nasce una proficua collaborazione.

1815 Con il Congresso di Vienna viene consacrato definitivamente nel mondo della cucina.

1833 Anni dopo il pensionamento, muore a causa di una malattia polmonare.

L

a Rivoluzione francese non solo segnò la fine dell’assolutismo, ma cambiò radicalmente anche molti ambiti della vita quotidiana. Per esempio le consuetudini alimentari, che in opposizione agli sfarzi della precedente cucina aristocratica si fecero più semplici. Non solo: con la caduta in disgrazia degli antichi e nobili padroni, i cuochi dovettero reinventarsi e lo fecero con prontezza diventando restorateurs, ovvero ristoratori, e aprendo nuovi locali. È in questo contesto che s’impose la figura di Carême.

Un’infanzia difficile Marie-Antoine Carême, detto Antonin, nacque a Parigi l’8 giugno 1784 da Marie Jeanne Pascal e Jean Gilbert Carême. Non si conosce il loro mestiere, poiché molti documenti sono andati distrutti in seguito alla Guerra franco-prussiana del 1870-71. Quel che è certo è che la loro era una famiglia molto numerosa: pare infatti che la coppia avesse generato fra i quindici e i venticinque figli. Antonin visse in

Apprendista talentuoso Il bambino vagò per le strade della capitale finché trovò un lavoro e un tetto accogliente presso un rosticciere, dove prestò servizio fino ai quindici anni, cominciando la gavetta come sguattero. Nel 1798 proseguì il suo apprendistato entrando a servizio da Sylvain Bailly, rinomato pasticciere il cui locale si trovava nella zona del Palais-Royal. All’epoca la pasticceria era considerata il gradino più alto della scala gerarchica della ristorazione e i maître pâtissier godevano di una grande reputazione. Negli anni trascorsi al servizio di Bailly il giovane Antonin apprese le basi di quella che era anche chiamata “l’arte bianca”, e via via s’impadronì di tecniche sempre più complesse come quelle della decorazione, della torta a strati o della riproduzione di edifici dell’antichità classica in zucchero e marzapane (alcuni dei quali superavano il metro

Talleyrand gli affidò l’organizzazione dei banchetti diplomatici dell’impero francese COPERTINA DI L’ARTE DELLA CUCINA FRANCESE, DI ANTONIN CARÊME. BRIDGEMAN / ACI

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famiglia fino a un’età compresa fra i nove e i dodici anni. Dopodiché, secondo la leggenda, il padre lo portò a pranzo in una trattoria e, saldato il conto, si congedò dal figlio con queste terribili parole: «Questi sono gli ultimi soldi che posso spendere per te». Non si rividero mai più.


UNA TORTA NUZIALE PER L’IMPERATORE sue doti e alla complicità di Talleyrand, Carême diventò uno chef molto ricercato dal jet set internazionale. Anche Napoleone Bonaparte, che pare non amasse la buona tavola né gli eventi mondani, si rivolse a lui per progettare il menù del proprio matrimonio e realizzare la torta nuziale. Per Paolina, sorella dell’imperatore, creò dei wafer. Gli è anche attribuita la paternità dei tournedos alla Rossini, dei medaglioni di filetto avvolti nel foie gras e serviti con scaglie di tartufo nero, creati in onore del compositore con il quale condivideva la passione per i funghi. GRAZIE ALLE

MARIE-ANTOINE CARÊME FU LO CHEF DELLE PRINCIPALI CASE REALI EUROPEE. INCISIONE DI CHARLES DE STEUBEN. XIX SECOLO. FINE ART / ALBUM

d’altezza). In particolare quest’ultima tecnica, nota come delle pièces montées, lo portò a interessarsi sempre più all’architettura, tanto da considerare la pasticceria la sua branca principale. Bailly in qualche modo favorì l’inclinazione dell’apprendista permettendogli di ricavarsi del tempo libero per andare a studiare le antiche rovine sui libri di storia dell’architettura conservati presso la Bibliothèque Nationale. Fu così che Carême si appassionò alle opere dei grandi maestri del passato come Palladio o il Vignola. Forse spinto dal nuovo clima di ottimismo portato

da Napoleone Bonaparte, acclamato console a vita per plebiscito nel 1802, l’anno seguente Carême, che all’epoca non aveva neanche vent’anni, aprì la sua prima pasticceria. Fu Boucher, lo chef del ministro degli esteri Charles-Maurice Talleyrand-Périgord, a scoprirne le doti e a volerlo con sé. E fu lo stesso politico a proporgli d’impiegarsi come collaboratore esterno nei catering diplomatici, appoggiandosi alla rinomata pasticceria Gendron. Il sodalizio fra Carême e Talleyrand durò ben dodici anni, e nonostante le differenze di rango fra i due si creò se non

un’amicizia per lo meno un rapporto di stima e simpatia. Il ministro era più anziano di quasi trent’anni e anche lui aveva subìto un torto da bambino: dato che era affetto dalla sindrome di Marfan e dalla conseguente malformazione del piede, la famiglia lo aveva privato del diritto di primogenitura e quindi del titolo e di parte dei beni. Egli aveva reagito con vitalità, e risalendo la scala sociale era riuscito a diventare uno dei protagonisti della diplomazia di quegli anni. Quando Napoleone, che pare non amasse la tavola, nel 1804 gli affidò il compito di occuparsi dei banchetti STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PERSONAGGI STRAORDINARI

MAESTRO DI GIOVANI PASTICCIERI QUANDO MARIE-ANTOINE

Carême aprì la sua pasticceria a Parigi in rue de la Paix, non aveva nemmeno vent’anni. All’epoca la cosiddetta “arte bianca” rappresentava il più alto gradino della cucina. Egli era un uomo modesto ma consapevole del proprio talento, tanto da dichiarare: «Quando per poter dimenticare gli invidiosi vado a spasso per le vie di Parigi, constato con gioia la crescita e il miglioramento dei negozi di pasticciere. Nulla di tutto ciò esisteva prima dei miei lavori e dei miei libri». Non sappiamo a quali invidiosi si riferisse, ma sicuramente ebbe moltissimi ammiratori.

diplomatici, egli scelse Carême. Ma non gli diede carta bianca: anzi, gli chiese di preparare ogni giorno un menù stagionale e con i soli prodotti del territorio senza mai ripetersi. Una sfida insolita per un’epoca in cui le tavole altolocate offrivano piatti esclusivi e costosi. Dal canto

AKG / ALBUM

UN UOMO GUARDA LE CREAZIONI NELLA VETRINA DELLA PASTICCERIA DI CARÊME.

suo Talleyrand, durante gli anni della loro collaborazione, aveva richiesto allo chef di combinare nei suoi piatti raffinatezza, sobrietà e al contempo capacità di sorprendere. Da queste grandi sfide poste allo chef nacque la haute cuisine (l’alta cucina) che Carême avrebbe raccolto in una pubblicazione in cinque volumi uscita nel 1833 dal titolo L’Art de la Cuisine Française.

IL CAPPELLO ALTO A CARÊME viene attribuita l’invenzione della divisa da cuoco e del toque blanche, il capello alto indossato ancora oggi dai grandi chef. Già in passato i cuochi usavano dei copricapi, tuttavia egli ebbe l’idea d’inserirvi un pezzo di cartone per tenerli alzati in modo da permettere una maggiore aerazione del capo e, di conseguenza, limitare il sudore. DIVISA DEL CUOCO MODERNO SECONDO CARÊME. BRIDGEMAN / ACI

La nuova cucina presentava innumerevoli vantaggi rispetto al passato. Le erbe fresche valorizzavano i piatti dai pochi ingredienti, le porzioni erano equilibrate ed esteticamente appaganti e le salse non coprivano i sapori, ma li esaltavano. E proprio sulle salse lo chef operò una piccola rivoluzione: le suddivise infatti in quattro preparazioni base: la besciamella, la vellutata, la spagnola (o salsa bruna) e la salsa al pomodoro. Tutte le variazioni sul tema partivano da qui. Inoltre, introdusse il servizio a tavola “alla russa”, che prevede l’ingresso in sala del carrello con la pietanza intera, che viene poi porzionata e servita in tavola.

Gastronomia e impero Carême ridefinì quindi i canoni dell’alta cucina affidando ai prodotti francesi il ruolo di protagonisti indiscussi sulle tavole diplomatiche; a questi si affiancavano quelli provenienti dalle


L’architetto delle torte CARÊME si fece conoscere per le sue torte di zucchero e marzapane, alte a volte più di un metro,

BRIDGEMAN / ACI

che riproducevano edifici dell’antichità classica. Per realizzarle s’ispirava ai libri di storia dell’architettura che consultava presso la Bibliothèque Nationale di Parigi.

Eremo di Sion. Pasta bianca di mandorle e cioccolato per tetti e cornici.

colonie. Un significato politico che non poteva essere più chiaro: la grandeur napoleonica cominciava a tavola, perfettamente in linea col pensiero di Talleyrand che, d’altronde, si premurò di far conoscere lo chef al bel mondo. Anche il parco Napoleone approvava, sostenendo che gli ospiti andassero trattati al meglio «in nome della Francia». Paradossalmente, la consacrazione definitiva di Carême avvenne dopo la sconfitta dell’imperatore, in occasione del Congresso di Vienna, quando Luigi XVIII chiese a Talleyrand di negoziare in sua vece al tavolo delle trattative. Anche in quella situazione la grandezza (almeno gastronomica) della Francia venne riconosciuta.

Doppia cascata all’italiana a 32 colonne. L’acqua viene ricreata con fili di zucchero argentato.

del principe reggente, il futuro re Giorgio IV. Questi era malato di gotta e lo chef creò per lui una cucina leggera, digeribile ma gustosa. In ogni caso, in Inghilterra non si trovò bene, e dopo qualche tempo accettò un incarico a San Pietroburgo nelle cucine dello zar Alessandro I. Anche lì la permanenza fu breve. Tornato in Francia ormai famosissimo, ricevette numerose richieste d’ingaggio dai grandi d’Europa, ma egli scelse il ricchissimo barone James Mayer de Rothschild, banchiere e imprenditore del settore ferroviario che, a quell’epoca, si stava affermando con grande successo. Il loro sodalizio cominciò nel 1823 e fu un legame solido, come quello che in precedenza lo aveva legato a Talleyrand, e si concluse Una fine precoce nel 1829, quando lo chef si ritirò a vita Con la fine dell’epoca napoleonica ini- privata per dedicarsi alla stesura dei ziò per Carême una nuova fase. Lasciò il suoi amati libri. suo Paese e partì alla volta di Brighton, Forse, nella sua scelta influì oltre alla in Inghilterra, dove si mise a servizio passione per la cultura anche la salute.

Grande fontana del Parnaso. Con il nome di quattro uomini illustri ai lati.

Lavorando in cucina, aveva infatti contratto una malattia polmonare legata alla prolungata inalazione dei fumi di carbone. A quell’epoca le cucine andavano appunto a carbon fossile, altamente inquinante. Carême morì il 12 gennaio del 1833, a soli quarantotto anni. Balzac scrisse di lui: «Morì bruciato dal fuoco diretto dei fornelli e dal suo genio». MARTINA TOMMASI STORICA

Per saperne di più

SAGGI

L’arte della cucina francese nel XIX secolo Marie-Antoine Carême. Mattioli 1885, Fidenza, 2019. Storia del direttorio Michel Poniatowski. Bompiani, Milano, 1984. Cibo. Una storia globale dalle origini al futuro Jacques Attali. Ponte alle Grazie, Milano, 2020. Charles Maurices de Talleyrand. Tra la nuova Europa e il Ducato di Benevento Nicola Grimaldi. Paguro, Mercato S. Severino (Salerno), 2017.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI INVENZIONI

La forchetta arriva in Europa occidentale 1000

ALAMY / ACI

Usata abitualmente presso la corte bizantina, la forchetta fu introdotta in Europa intorno all’anno mille attraverso Venezia e altre città italiane

I

n un trattato scritto a metà dell’XI secolo san Pier Damiani offre una stupita testimonianza delle abitudini alimentari di una principessa bizantina, sposa del figlio del doge di Venezia. L’orribile fine della nobildonna, morta di cancrena, conferma a san Pier Damiani l’opinione che la forchetta sia uno strumento di diabolica perversione. «Non toccava le pietanze con le mani ma si faceva tagliare il cibo in piccolissimi pezzi dagli eunuchi. Poi li assaggiava appena portandoli alla bocca con forchette d’oro a due rebbi». Si tratta della prima testimonianza dell’uso in Occidente di questo utensile. Nell’ambiente

bizantino l’accessorio è già presente almeno dal 400 d.C. In quell’epoca l’imbeccatoio romano, un pugnale appuntito, si trasforma prima in uno spillone e poi in una forchetta per

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infilzare il cibo. La posata arriva in Europa grazie alle strette relazioni tra Bisanzio e Venezia.

Perfetta per la pasta IL RE ROTARI MANGIA CON UNA FORCHETTA. MINIATURA DI RABANO MAURO. XI SECOLO. BRIDGEMAN / ACI

Le prime attestazioni iconografiche della forchetta compaiono in una miniatura dell’XI secolo contenuta nel manoscritto De Universo di Rabano Mauro, che rappresenta re Rotari a tavola mentre impugna l’utensile. Dal XII secolo è giunta fino ai nostri giorni un’altra miniatura, quella dell’Ultima cena, contenuta in un codice dell’Hortus deliciarum della badessa Herrad (o Herrada) di Hohenbourg. In pieno Medioevo l’uso della forchetta si diffonde in Italia con il consumo della pasta, perché strumento utile per infilzare quel cibo bollente e scivoloso. Intorno al 1392, nel suo Trecentonovelle, Franco Sacchetti racconta di due amici intenti


INCISIONE TRATTA DA L’OPERA DI BARTOLOMEO SCAPPI. NELLA PARTE INFERIORE, UN FORCHETTONE DA CUCINA. XVI SECOLO.

FORCHETTA ITALIANA A DUE REBBI. XV SECOLO. METROPOLITAN MUSEUM, NEW YORK.

a trangugiare «con forchette maccheroni boglientissimi». Alla fine del XV secolo le forchette vengono utilizzate abitualmente dalle famiglie nobili di Firenze: nella loro collezione i Medici ne vantano ben cinquantasei.

L’arretratezza del nord A eccezione dell’Italia, il resto d’Europa invece ne ignorava pressoché l’uso. In cucina si usava una specie di forchettone per tenere ferma la carne mentre la si tagliava con il trinciante; i vari bocconi venivano poi mangiati con le mani. Le forchette propriamente dette erano usate soprattutto per alcuni tipi di frutta o per i dolci. Nel 1518 il mercante viaggiatore francese Jacques le Saige partecipa a un banchetto del doge di Venezia e constata con stupore: «Questi signori quando vogliono mangiare prendono il cibo con la forchetta d’argento». Verso il 1533 Caterina de’Medici, moglie del re di Francia Enrico II, cerca d’introdurre la forchetta a corte, ma senza successo. Solo nel 1684 Luigi XIV riesce a pro-

muoverne l’uso. Nel 1609, descrivendo con dovizia le abitudini alimentari dei turchi, il signore di Villamont osserva: «Non usano assolutamente delle forchette come fanno i lombardi e i veneziani». Riconosce implicitamente che si trattava ancora di un’usanza prettamente italiana. In quello stesso periodo lo scrittore Thomas Coryat scopre la forchetta in Italia: «Ho osservato in tutte le città e i villaggi italiani da me visitati una consuetudine che non ho ritrovato in alcun altro Paese attraversato nel corso dei miei viaggi. A tavola gli italiani usano sempre una specie di piccolo utensile per tenere ferma la carne». Coryat si appassiona all’usanza e la porta in Inghilterra. Nel corso del XVII secolo la forchetta viene sdoganata in tutta Europa, ma subisce qualche leggera modifica. Spetta nel settecento al ciambellano di Ferdinando IV di Borbone, Gennaro Spadaccini, la diffusione della versione con quattro rebbi corti, adatti sia ad arrotolare gli spaghetti sia a infilzare la carne. CORRADO OCCHIPINTI CONFALONIERI STORICO

PER NON MANGIARE CON LE DITA 400 La forchetta è già in uso a Bisanzio, come testimonia un reperto del Metropolitan Museum di New York.

1004 La principessa bizantina Maria Argyropoulaina usa una forchetta alle sue nozze con il figlio del doge di Venezia.

1307 Un inventario mostra che Edoardo I d’Inghilterra possedeva sette forchette, oltre a centinaia di cucchiai e coltelli.

1423 Nella sua opera Arte cisoria l’umanista spagnolo Enrique di Villena testimonia l’uso delle forchette nella penisola iberica.

1610 circa I viaggiatori provenienti dalla Francia e dall’Inghilterra notano sorpresi la consuetudine italiana di mangiare con la forchetta. FORCHETTA A TRE REBBI DEL XVII SECOLO. PALAIS DE BEAUX ARTES, LILLA.

STÉPHANE MARECHALLE / RMN-GRAND PALAIS


EVENTO STORICO

I māori contro gli inglesi in Nuova Zelanda Negli anni sessanta del XIX secolo gli indigeni della Nuova Zelanda si ribellarono contro i coloni britannici, che li privavano delle terre e degli antichi mezzi di sussistenza

N

ella storia delle migrazioni umane le ultime grandi isole a essere popolate furono quelle della Nuova Zelanda. I māori vi giunsero nella seconda metà del XIII secolo dalla Polinesia orientale e occuparono l’intero arcipelago dividendosi in tribù e sottotribù. Oltre a cacciare fino all’estinzione il moa, un uccello simile allo struzzo, introdussero coltivazioni, maiali e cani quali fonti di cibo. Si adattarono inoltre al clima rigido delle isole ricorrendo

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a pelli per coprirsi e sfruttando le acque termali. Dopo le spedizioni dell’olandese Abel Tasman nel 1642 e dell’inglese James Cook nel 1769, dalla fine del XVIII secolo gli europei, e soprattutto i britannici, iniziarono a insediarsi in Nuova Zelanda. Si trattava di balenieri, cacciatori di foche e mercanti, dai quali i māori compravano tessuti, chiodi e altri utensili in metallo, in particolare armi da fuoco destinate a regolare vecchie faide tribali. Arrivati poco dopo, i missionari si scandalizzarono per la confusione che

regnava negli insediamenti europei, dove facevano da padroni l’alcolismo, la prostituzione e le truffe ai danni dei māori pur di ottenere terre a poco prezzo. I missionari chiesero al governo britannico d’intervenire così da imporre l’ordine. Dopo alcune reticenze, le autorità di Londra conclusero che la soluzione migliore era annettere le isole all’impero britannico, sia per proteggere i māori sia per controllare i propri sudditi e, ovviamente, anche per tutelare i propri interessi commerciali rispetto alle altre potenze straniere.


AKG / ALBUM

EVENTO STORICO

Nuova Zelanda

El Imperio británico en el siglo XIX L’impero britannico nel XIX secolo

DA UN’ISOLA ALL’ALTRA ASSALTO BRITANNICO a una fortificazione māori durante gli anni sessanta del XIX secolo in Nuova Zelanda. Acquerello di Orlando Norie.

L’ARCIPELAGO DELLA NUOVA ZELANDA iniziò a essere conosciuto con tale nome, che ricorda la provincia olandese della Zelanda, dopo il viaggio di Abel Tasman nel 1642. Fu annesso alla sfera d’influenza britannica in seguito al viaggio di James Cook nel 1769. Dopo che nel 1788 venne fondato il Nuovo Galles del Sud, nel sud-est dell’Australia, i coloni cominciarono a partire da Sidney verso le isole dei māori.

ERICH LESSING / ALBUM

questi ultimi credeva che la corona britannica avrebbe governato solo sui coloni e che i māori avrebbero continuato a gestire i propri affari, esercitando un pieno controllo su comunità, terre e risorse. Ma le cose cambiarono velocemente dopo che, nel giugno 1840, Hobson Sudditi della regina ebbe proclamato la sovranità britanIl trattato di Waitangi, considerato nica sulla Nuova Zelanda. L’affluenza il testo fondativo della Nuova Ze- di coloni fu talmente grande che non landa, venne redatto da Hobson, c’era più terra a sufficienza per tutti. dal suo segretario e da Busby, e poi Sotto la pressione di compagnie come firmato da quarantatré capi māori il la New Zealand Company, create per 6 febbraio 1840. Nei mesi seguenti implementare la colonizzazione, il altri cinquecento capi sottoscrisse- governo britannico iniziò a comprare a ro il documento. La maggioranza di un prezzo basso le terre dei māori per rivenderle ai coloni a uno maggiorato. I successivi governatori dell’arcipelago Nel 1840 i capi māori promulgarono inoltre leggi speciali per favorire i coloni a discapito dei riconobbero la sovranità nativi. Il trattato del 1840 aveva prodella corona britannica messo ai locali gli stessi diritti dei sudditi britannici, ma quando nel 1852 venne creato il primo parlamento della TA¬MATI WA¬KA NENE. CAPO MA¬ORI ALLEATO DEI BRITANNICI.

Nel 1833 sbarcò in una delle isole il primo residente britannico. Stabilitosi a Waitangi, James Busby strinse alleanza con i capi locali e spianò la via all’annessione. Nel 1839 fu il turno del capitano William Hobson, giunto per ottenere “il consenso libero e informato” dei māori. In tal modo la Nuova Zelanda sarebbe potuta divenire una colonia britannica. Si decise di firmare un trattato tra il Regno Unito e i capi tribali dell’arcipelago. Nel documento i māori accettavano la

regina Vittoria come sovrana e, in cambio, questa gli riconosceva la proprietà delle terre, s’impegnava a comprargliele a prezzi equi per poi rivenderle ai coloni e concedeva ai māori tutti i diritti e i privilegi dei sudditi britannici.

ALBUM STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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¬ori firmano DIVERSI CAPI ma il trattato di Waitangi alla presenza delle autorità britanniche. Illustrazione del XIX secolo.

UNA VOLTA REDATTA la versione

inglese del trattato di Waitangi tra la corona britannica e i capi locali (1840), si decise di tra¬ori. Se durre il testo in lingua ma ne occupò il reverendo Henry Williams, un missionario che da anni si era stabilito nel Paese e che conosceva diversi indigeni. Ma in alcuni punti il trattato non era uguale per i britannici e per i ma¬ori. Per esempio, mentre la versione inglese affermava che la popolazione autoctona aveva trasmesso alla corona la sovranità delle isole, nell’altra si parlava soltanto di ka¬wan-

atanga, governo. Non solo: nel ¬ori leggevano proprio testo i ma pure che la corona prometteva di proteggere la tino rangatiratanga, l’esercizio dell’autorità dei leader su terre e genti. In molti pensarono che il trattato gli consentisse quindi di mantenere l’autonomia e gli avrebbe assicurato diverse garanzie nel rapporto con i coloni. Forse per ¬ori, No¬pera questo un capo ma Panakareao, interpretò che «l’ombra della terra era per la regina Vittoria, ma la sostanza ¬ori». Ben presto rimaneva ai ma sarebbe stato disilluso.

TRATTATO DI WAITANGI. FRAMMENTO DEL DOCUMENTO ORIGINALE FIRMATO NEL 1840.

FOTO: BRIDGEMAN / ACI

L’ombra della terra per la regina Vittoria


EVENTO STORICO

BATTAGLIA DI SAINT JOHN

ALEXANDER TURNBULL LIBRARY, WELLINGTON, NEW ZEALAND

Il 19 luglio 1847 i britannici ¬ori a forzarono l’assedio ma Whanganui, nell’Isola del Nord. Pittura di George Hyde Page.

Nuova Zelanda, i māori non poterono votare perché il suffragio dipendeva dal possesso individuale di terre. Quelle māori, invece, appartenevano all’intera comunità.

Nazionalismo māori Costretti a vendere i propri fondi, i locali si sentirono traditi. La terra era il mezzo di sussistenza delle tribù, ma anche la base di tradizioni e cultura. Disfarsene equivaleva a rinunciare sia al passato sia al futuro. Sorse perciò il movimento Kı̄ngitanga, costituito da vari capi che non avevano firmato l’accordo e che decisero di nominare re uno di loro, Pōtatau Te Wherowhero. Questi doveva agire come contrappeso locale alla regina Vittoria ed evitare così la vendita delle terre māori. Tuttavia il sovrano non venne mai riconosciuto dai britannici, e nel 1858 in Nuova Zelanda vivevano ormai più coloni che māori.

La guerra era inevitabile. Tra il 1844 e il 1845, nella cosiddetta Guerra dell’asta, il capo māori Hōne Heke, primo firmatario del trattato, abbatté tre volte di seguito l’asta della bandiera britannica a Kororāreka e finì per saccheggiare la città. Il governatore George Grey soffocò la ribellione e questo segnò l’inizio di un periodo di pace che durò circa tredici anni.

A partire dal 1860 la tensione crebbe sempre di più. Nei dintorni del vulcano Taranaki, sulla costa occidentale dell’Isola del Nord, i māori diedero il via alla guerriglia. Combattevano protetti dalla natura selvaggia e ostile, che conoscevano molto bene. Il coraggio, l’astuzia e l’abilità nella lotta

ATTENTI AL PERICOLO ¬ori si organizzava attorno a villaggi LA VITA dei ma fortificati chiamati pa¬ che, posti sulle alture, consentivano di sorvegliare l’accesso ai luoghi strategici. Appena suonava il pahu (o gong) per lanciare ¬ divenivano dei rifugi. l’allarme, i pa PAHU. MUSEUM OF NEW ZEALAND TE PAPA TONGAREWA, WELLINGTON. BRIDGEMAN / ACI


SEGUACI hauhau reclusi in una nave britannica nel porto di Wellington, prima del trasferimento in carcere. 1866.

UNA DELLE CONSEGUENZE delle guerre ma¬ori fu la nascita di vari movimenti profetici che cercavano di rafforzare l’identità locale con uno stile di vita e un’organizzazione politica diversi. Il primo fu Hauhau, creato da Te Ua ¬ne nel 1862. Si basava sul Haume principio pai ma¬rire, bontà e pace, e con tale nome venne spesso indicata questa pratica religiosa. Te Ua s’ispirava a una lettura personale della Bibbia e a un cristianesimo «purificato dall’errore dei missionari». Secondo lui, al pari degli israeliti i ma¬ori dovevano lottare per riprendersi la propria Cananea, ovvero la Nuova Zelanda. I suoi seguaci erano noti

come hauhau per via del grido «Hau! Hau!» con cui invocavano Te Hau, il soffio di Dio. Contrariamente ai propositi iniziali di Te Ua, gli hauhau divennero aggressivi e iniziarono a sferrare attacchi contro i coloni e i soldati britannici. Nell’aprile 1864 tesero un’imboscata a un reggimento, decapitarono sette soldati e ne esibirono le teste. L’anno seguente gli hauhau più radicali e fanatici attaccarono la missione di Opotiki e impiccarono e poi decapitarono il missionario tedesco Carl Völkner. I britannici perseguitarono il movimento e incarcerarono sia Te Ua (che morì nel 1866) sia gran parte dei suoi seguaci.

FOTO: BRIDGEMAN / ACI

I feroci guerrieri hauhau

REWI MANIAPOTO GUIDÒ LA RESISTENZA MA¬ORI DURANTE L’ASSEDIO DI O¬RA¬KAU NEL 1863. FOTO SCATTATA VERSO IL 1879.


EVENTO STORICO

¬RERE. Resti del forte TE PO

ALAMY / ACI

¬ori dove si svolse ma l’ultima grande battaglia della guerra. Gli inglesi l’espugnarono nel 1869.

li resero nemici temibili dell’esercito imperiale britannico e delle milizie coloniali. Lo storico militare John William Fortescue scrisse che, per i britannici, «i māori sono stati i più straordinari rivali con cui si siano mai scontrati». Venivano ammirati perché clementi nei confronti dei feriti e per il carattere“sportivo”con cui affrontavano la guerra: in più di un’occasione i māori chiesero munizioni o acqua agli avversari pur di continuare la guerriglia o mandarono cibo ai britannici.

che avrebbero continuato a lottare per sempre («Ka whawhai tonu mātou, Ake! Ake! Ake!»). Il generale offrì allora di far uscire donne e bambini, ma questi ribatterono che avrebbero combattuto a fianco degli uomini. Al tramonto i māori sferrarono un attacco a sorpresa che permise a molti di loro, tra i quali lo stesso Rewi Maniapoto, di fuggire. I britannici si vendicarono confiscando più di un milione di ettari alle tribù ribelli. Alcuni di questi terreni appartenevano anche a tribù che si Fiera resistenza erano mantenute neutrali, ma passaUno dei momenti culminanti della rono comunque nelle mani dei coloni. guerra si verificò nel 1863 durante Nel 1865 una nuova legge permise ai l’assedio di Ōrākau, una fortificazione māori di vendere direttamente i lotti māori nella quale si rifugiarono circa ai coloni senza passare per la corona, trecento tra uomini, donne e bambini a differenza di quanto stabilito nel agli ordini di Rewi Maniapoto. Quan- trattato precedente. do il generale Duncan Cameron, a Ormai disperati perché capivano di capo di più di 1.400 soldati britannici, non poter più conservare il suolo dei gli propose la resa, i māori risposero propri avi, i nativi si demoralizzarono

fortemente. Il romanziere Anthony Trollope, che si recò in Nuova Zelanda nel 1872, alla fine della guerra, scrisse che non c’era speranza per il loro futuro. Alla fine del XIX secolo i māori rappresentavano soltanto il cinque per cento della popolazione, e le loro terre si erano ridotte al diciassette per cento della superficie totale del Paese. Malgrado ciò, durante il XX secolo hanno continuato a lottare per l’autodeterminazione e per riprendersi la propria terra. Ancora oggi chiedono al governo della Nuova Zelanda di rispettare il trattato di Waitangi. JORDI CANAL-SOLER GIORNALISTA

Per saperne di più

SAGGI

I figli di Maui Alberto Corteggiani. Bulzoni, Roma, 2002. TESTI

Viaggio in Urewera Katherine Mansfield. Adelphi, Milano, 2015.

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V I TA Q U OT I D I A N A

Quando le maschere erano segno di classe Nel XVI e nel XVII secolo le donne ricche viaggiavano coperte per proteggere la pelle da sole e intemperie classe nobile, mentre quella abbronzata veniva associata ai lavori fisici e, quindi, a status sociali più umili. Inoltre il volto pallido corrispondeva all’ideale di bellezza femminile, e per questo le donne cercavano di esporsi al sole il meno possibile. Quando non potevano evitare l’aria aperta, per esempio durante uno spostamento a piedi o a cavallo, ricorrevano spesso alla maschera.

Fori per guardare

Quest’accessorio tipico delle passeggiate s’impose tra le donne nobili tanto che numerosi artisti lo riprodussero nelle opere d’arte. In un album di moda realizzato dall’incisore fiammingo Abraham de Bruyn, Habitus variarum orbis gentium (I costumi dei vari popoli dell’orbe, 1581), compare una donna che cavalca all’amazzone e nasconde il viso dietro una maschera. le dame nobili». Anche l’inglese PhiL’immagine riporta la seguente dida- lip Stubbes, in The Anatomie of Abuses scalia: «Così cavalcano o passeggiano (L’anatomia degli abusi, 1583), spiega: «Quando le donne escono di casa, mettono una maschera di velluto con cui celano l’intero volto. Due fori gli permettono di guardare. Se le incontrasse un uomo che non conosceva NEL 2010 venne rinvenuta a Daventry, nell’Inprima il loro aspetto, penserebbe di ghilterra centrale, una maschera del XVI secolo essersi imbattuto in un mostro o in che era rimasta nascosta in una nicchia della un demonio, perché non vedrà alcun parete. È alta 19,5 cm e larga 17, l’esterno è volto, tranne due fori davanti agli di velluto nero, la fodera di seta bianca, e nel occhi con sopra delle lenti». mezzo ha uno strato di carta pressata, cucito Un altro autore inglese, Randle ad altri strati con del filo di cotone nero. Holme, alla fine del XVII secolo pubblicò un’opera in cui descriveva due

MASCHERA INGLESE

PORTABLE ANTIQUITIES SCHEME / NORTHAMPTONSHIRE COUNTY COUNCIL

ORONOZ / ALBUM

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ochi oggetti sono variegati e disparati quanto le maschere. Possono coprire l’intero volto, gli occhi oppure la sola bocca. A volte il loro uso fa parte di un rito religioso o festivo, altre garantisce l’anonimato, o altre ancora consente di tutelare la salute. È questo il caso delle mascherine chirurgiche inventate da Berger e Mikulicz Radecki nel 1897 e divenute di uso comune allo scoppio della cosiddetta pandemia di spagnola del 1918-1919. Nel XVI e nel XVII secolo le maschere avevano tutt’altro scopo. Venivano indossate in occasioni speciali, come il Carnevale, o da gruppi particolari, quali gli attori. Alcuni, però, le portavano con finalità diverse: le donne più abbienti volevano proteggersi la pelle e ammantarsi di un’aura di mistero. Sin dall’antichità le maschere avevano aiutato a schermare la cute dai raggi solari. La pelle chiara era sinonimo dell’appartenenza a una


V I TA Q U OT I D I A N A DONNE con maschere durante un pellegrinaggio al santuario di Laeken, vicino a Bruxelles, nel 1601. Quadro anonimo. Monasterio de las Descalzas Reales, Madrid.

tipi di maschera. Una è la mask all’inglese: «Si tratta di un oggetto che, in altri tempi, erano solite usare le nobili per proteggere il volto durante i viaggi, evitando così di bruciarsi; copriva solo le sopracciglia, gli occhi e il naso, e le dame vedevano la strada tramite fori all’altezza degli occhi. Il resto del volto era schermato da un tessuto. Poteva avere forma quadrata, o terminare in alto in un semicerchio. In genere era di velluto nero». Il secondo tipo di accessorio di cui parla Holme si chiama visard: «Copre l’intero volto e ha fori solo per gli occhi, un astuccio per il naso

Le tapadas, una alternativa spagnola IN SPAGNA sembra che la moda delle maschere femminili

non prese piede. Le donne della penisola iberica preferivano proteggersi la pelle con un fazzoletto o un velo leggero, simile allo yashmak turco, che occultava il volto dagli occhi alla gola. Dal Medioevo si usavano le tocas, o veli, per ripararsi dagli agenti atmosferici. La tipologia più frequente era la toca de rebozo (letteralmente, velo per coprirsi), usata in ambito domestico e in pubblico. Avvolgeva la testa e il collo ed era dotata di un lembo che poteva

essere sollevato sulla bocca e sul naso. Nelle città divenne abituale la figura della tapada (la celata/coperta). Più spesso la tapada poteva nascondere un solo occhio o un solo lato del volto. In genere tale mise era associata a una donna adultera o a una prostituta.

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V I TA Q U OT I D I A N A

SEGNO DI DISTINZIONE

MATHIEU RABEAU / RMN-GRAND PALAIS

ALLA CORTE francese

di Luigi XIII alcune dame tenevano la maschera per distinguersi dalle altre. A quanto narra un memorialista, Maria de’ Medici, la madre del re, aveva una personalità talmente orgogliosa che, quando era in visita a Bruxelles, malgrado la fastosa accoglienza «non si degnava di togliersi la maschera se non all’ingresso in chiesa».

BNF / RMN-GRAND PALAIS

DAMA CHE SI È TOLTA LA MASCHERA PER SCOPRIRE «LA VIRTÙ CHE BRILLA NEI SUOI OCCHI». INCISIONE DEL XVII SECOLO.

LOUP FRANCESE DEL XVII SECOLO. MUSÉE NATIONAL DE LA RENAISSANCE, ÉCOUEN.

e una fessura in corrispondenza della bocca per parlare. Questa maschera s’indossa e si toglie in un istante, e si regge con i denti tramite un bottoncino rotondo». In Francia maschere simili si chiamavano loup, lupo. Nel suo dizionario della lingua francese, risalente alla fine del XVII secolo, Antoine Furetière spiega così l’origine del nome:

«All’inizio facevano paura ai bambini». Anche se oggi si crede che la loup fosse la mascherina dei balli in costume, Furetière narra che nel XVII secolo si estendeva dalla fronte al mento e si reggeva in bocca con un bottone. Afferma ancora: «Mentre prima si usavano maschere quadrate, adesso s’indossa la loup. Quelle da campagna sono molto grandi, quelle di città molto piccole». Le maschere in satin nero erano molto frequenti nelle grandi città europee, e lo provano numerose pitture e incisioni dell’epoca. Indipendentemente dalla tipologia, divennero un

BRIDGEMAN / ACI

Il velluto nero delle maschere metteva in risalto il candore del collo femminile MISE INVERNALE DI UNA DAMA INGLESE. OLIO DI W . HOLLAR. XVII SECOLO. 26 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

accessorio frivolo che ogni donna “di classe” possedeva nel proprio guardaroba. Si credeva che il colore nero del velluto facesse risaltare il candore del collo e del décolleté. Ma questo accessorio apparentemente frivolo era molto utile anche alle donne che volevano nascondere un viso bruciato dall’uso di creme o unguenti aggressivi, o la pelle rovinata dai segni di una malattia. Per esempio, un memorialista francese racconta che la moglie di un giudice di Parigi chiamato Lescalopier celava dietro una maschera le cicatrici lasciate dalla tubercolosi cutanea. E indossarle aveva anche un ulteriore vantaggio: assicuravano l’anonimato. Infine erano un complemento indispensabile per i balli in costume, che diventarono di moda in parecchie città. Negli anni sessanta del XVII secolo, a Londra, la mise invernale di una dama elegante doveva comprendere


Al casinò ci si va con la maschera UNO DEI LUOGHI presso i quali i veneziani del XVIII secolo adoravano recarsi

MAURO MAGLIANI / RMN-GRAND PALAIS

in maschera era la sala da gioco, o ridotto. In quest’olio di Pietro Longhi quasi tutti gli uomini (e una donna) indossano la bauta, un travestimento che includeva la tipica maschera bianca. Le dame si celano dietro una moretta ovale.

guanti, sciarpa, manicotto in pelle e una maschera per proteggere la cute. Nelle sue memorie, il politico e scrittore Samuel Pepys fa riferimento all’uso di simili complementi da parte delle donne. Racconta infatti di aver incontrato al Royal Theater lord Fauconberg e la moglie, Mary Cromwell. Aggiunge poi su quest’ultima: «Ha un bel sembiante, come sempre. È vestita molto bene. Tuttavia, quando il teatro ha iniziato a riempirsi ha indossato una visard e l’ha tenuta per l’intera opera». In un’altra occasione Pepys riferisce di aver accompagnato la consorte Isabel in una bottega di Covent Garden per comprarne una. Ciononostante le maschere potevano pure fornire un’impressione ingannevole. Pepys narra a proposito di una certa lady Hayter: «Da principio con la maschera pareva un’anziana, mentre dopo mi è sembrata una dama mora molto graziosa e modesta».

C’è da dire che questi accessori erano particolarmente frequenti nelle case da gioco, che a volte erano anche luoghi di prostituzione. Per tale motivo nel 1704 la regina inglese Anna Stuart proibì le maschere ovali a volto intero.

Nella città lagunare esisteva pure una variante riservata alle donne, la cosidetta moretta, molto simile alla maschera da viaggio popolare in Francia e in Inghilterra nel XVI e nel XVII secolo. Consisteva in un ovale di velluto che si reggeva con un bottoncino interno. Veniva completata La bauta veneziana da un cappello a tesa larga e da una Se c’è una città in cui la maschera rap- veletta. Le veneziane indossavano presenta un elemento fondamentale anche maschere di seta nera decorate per la vita dei suoi abitanti, ebbene, con perle o piume e legate tramite questa è Venezia. Durante il Carneva- nastrini, oppure una variante più le e in altri periodi dell’anno, soprat- semplice che, adornata di trine, si tutto nei mesi da ottobre a dicembre, reggeva con un’asticella ed era colgli uomini in possesso dello status di locata all’altezza degli occhi. Ogni cittadini potevano indossare la bau- tipologia era ben accetta nella città ta, composta da tabarro (mantello), delle maschere. ARIANNA GIORGI tricorno e la bauta vera e propria, UNIVERSITÀ DI MURCIA cioè una maschera a forma di becco con zigomi in evidenza e fori per gli SAGGI Per occhi. La particolare conformazione senso della moda saperne Il Roland Barthes. Einaudi, del capo d’abbigliamento consentiva di più Torino, 2006. di alterare il tono della voce. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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PIRAMIDI IN COSTRUZIONE

LA PIRAMIDE DI MEIDUM

Conosciuta anche come “falsa piramide”, aveva inizialmente le facce lisce, ma dopo un crollo assunse un aspetto simile a una torre. Fu iniziata da Huni, l’ultimo re della III dinastia, e terminata da Snefru, primo faraone della IV dinastia e padre di Cheope, l’artefice della grande piramide. KENNETH GARRETT

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Per un millennio i faraoni egizi furono sepolti sotto enormi edifici in pietra di forma piramidale. La costruzione di queste tombe era un’impresa architettonica ed economica che richiedeva un’attenta pianificazione

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ista da Menfi, l’antica la costruzione di queste strutture riSQUADRA E FILO A PIOMBO capitale d’Egitto, la ri- PROVENIENTI DALLA chiedeva meno tempo di quanto ci si va occidentale del Nilo TOMBA DI SENNEDJEM potrebbe aspettare. In quel caso furoA DEIR EL-MEDINA. doveva avere un aspetno sufficienti undici anni per erigeXIX DINASTIA. to incredibile: da Abu re un monumento di pietra di quasi Rawash a Dahshur il panorama era tutto un 105 metri di altezza per 220 di base. Un bel risusseguirsi di piramidi. sultato. La grande piramide di Cheope invece L’altezza straordinaria di queste peculia- richiese quasi il triplo del tempo. Secondo un ri strutture con le facce laterali a forma di papiro trovato a Wadi al-Jarf, fu completata triangolo serviva a ricordare a tutti il potere nell’arco di ventisei o ventisette anni. dei faraoni sepolti al loro interno. La costruUn altro elemento importante da tenere in zione di opere così monumentali richiedeva conto al momento di pianificare la costruzioun grande sforzo a livello di organizzazione, ne di un complesso funerario era quello delle pianificazione e amministrazione. cave da cui estrarre i blocchi (per le piramidi e Dati l’importanza e il costo, l’edificazione per gli edifici annessi), che dovevano trovarsi di una piramide non poteva essere improv- sempre a poche centinaia di metri dal cantiere. visata, ma richiedeva un’attenta program- Solo alcune pietre particolari come il granito mazione. Il faraone e i suoi consiglieri ne venivano da lontano. La quantità e le dimendecidevano le caratteristiche; gli architetti sioni dei blocchi di cui è formata una piramide reali progettavano il monumento in base alle sono tali che da secoli gli studiosi si chiedono indicazioni ricevute e quindi sottoponevano quale fosse il metodo usato per elevarli fino le piante e i modelli della costruzione all’ap- all’altezza necessaria. Dalle macchine «di corti provazione del sovrano. legni» descritte dallo storico greco Erodoto in poi, le teorie avanzate sono numerose, anche Il riposo eterno del faraone se gli specialisti concordano che l’ipotesi più Il progetto iniziava con la scelta dell’ubicazio- plausibile sia quella delle rampe. ne della tomba del monarca. L’importante era Durante la costruzione di una piramide si che fosse situata sempre sulla riva occiden- svolgevano diverse cerimonie, sia al momento tale del Nilo, perché là si trovava il regno dei di tracciare al suolo le piante degli edifici sia morti. Ma si prendevano in considerazione per celebrare l’arrivo del pyramidion, la piccola anche altri fattori, come la visibilità dell’edi- cuspide piramidale che costituiva la sommificio dal tempio del dio solare Ra a Eliopoli o tà della tomba. Per ultimo si consacravano i templi annessi, e a quel punto il complesso la posizione di una piramide più antica. Sembra improbabile che la costruzione di funerario iniziava la sua attività, in attesa di uno di questi enormi monumenti potesse ricevere il corpo mummificato del faraone che coinvolgere centomila lavoratori, come sug- ne aveva ordinato la costruzione. geriscono invece alcune fonti dell’antichiJOSÉ MIGUEL PARRA EGITTOLOGO tà. Una forza lavoro molto più limitata, ma più qualificata, poteva svolgere il compito in SAGGI Per modo più rapido ed efficiente. In realtà, se Storia delle piramidi saperne Franco Cimmino. Rusconi, sono corretti i calcoli effettuati a partire da Santarcangelo di Romagna (RN), 1998. di più alcuni conci della piramide rossa di Snefru,


LA GRANDE GALLERIA

All’interno della grande piramide eretta da Cheope sulla piana di Giza si apre questo corridoio di 48 m di lunghezza e 8,5 di altezza, che conduce alla camera dov’è situato il sarcofago in granito del faraone.

C R O N O LO G I A

IL PAESE DELLE PIRAMIDI 2592-2566 a.C. L’architetto Imhotep costruisce una piramide a gradoni per Djoser a Saqqara.

2543-2510 a.C. Snefru ordina l’edificazione di varie piramidi a Dahshur, tra cui quella romboidale e quella rossa.

2509-2483 a.C. Cheope commissiona all’architetto Hemiunu la costruzione della sua piramide a Giza.

2472-2448 a.C. Chefren fa erigere la sua piramide, la seconda più grande d’Egitto, accanto a quella del padre Cheope.

2447-2442 a.C. Micerino, figlio di Chefren, fa lo stesso, ma la sua piramide è di dimensioni molto inferiori.

2435-2306 a.C. Vari faraoni della V dinastia erigono le loro piramidi nella zona di Abusir.

1939-1760 a.C. Le piramidi dei faraoni della XII dinastia vengono costruite con materiali più scadenti.


LBUM

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DEA / A

DI SEG NA R E U NA P IRA MID E

PIANTE  E MODELLI

P Tavoletta di scisto su cui fu incisa la pianta del tempio di Eliopoli. Museo egizio, Torino. 32 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

rima d’intraprendere la costruzione di edifici di notevole importanza, gli architetti egizi disegnavano piante e modelli, proprio come avviene oggi. Quello era infatti l’unico modo per farsi un’idea concreta dell’aspetto finale dell’opera. Anche se purtroppo non si sono conservate piante delle piramidi né dei templi annessi dell’Antico regno, sono giunti fino ai nostri giorni un paio di esempi di modelli dell’epoca. Il primo è costituito dai cosiddetti “corridoi di prova”, situati a una novantina di metri dalla faccia orientale

della grande piramide: si tratta di alcuni passaggi scavati nella roccia che hanno la stessa larghezza e altezza di quelli della piramide, ma sono molto più corti. Servivano a verificare in anticipo se il modo in cui era stato progettato il punto di contatto tra il corridoio d’ingresso e il cunicolo inclinato che conduce alla grande galleria fosse funzionale. Il secondo modello conservatosi è un blocco di pietra calcarea di circa 70 x 30 cm su cui sono scolpiti i corridoi e le camere della piramide di Hawara, costruita per Amenemhat III (nei pressi di


Imhotep, architetto della piramide a gradoni di Saqqara, venerato nel Periodo tardo.

IL FARAONE E L’ARCHITETTO

DEA / ALBUM

Questa xilografia fatta a partire da un disegno di Heinrich Leutemann raffigura un faraone intento a osservare la pianta della piramide presentatagli dall’architetto. XIX secolo.

MODELLI FUNERARI

Modello di tomba in pietra calcarea trovato nel tempio a valle di Amenhemat III. XII dinastia.

KENNETH GARRETT

questa piramide si trova la tomba di Neferuptah, sposa favorita del sovrano). Anche se la disposizione corrisponde a quella del risultato finale, sul modello il rapporto tra la lunghezza dei corridoi fu ridotto per adattarli al blocco di pietra. Un paio di cunei di legno rappresentano i monoliti utilizzati nella piramide per impedire il passaggio alla camera sepolcrale. Questo modello è stato trovato nel tempio funerario della piramide di Amenemhat III a Dahshur. Le decisioni prese al momento di disegnare le piante venivano poi trasferite all’edificio reale tramite linee di controllo per verificarne l’orientamento e l’orizzontalità e commenti del progettista, come si può vedere nella piramide di Pepi I, “firmata” dall’architetto Inti.

L’architetto più famoso dell’antico Egitto è Imhotep, che i suoi conterranei consideravano il vero e proprio inventore dell’architettura in pietra. Questo non sorprende, se si pensa che fu il progettista sia della prima piramide mai costruita, quella a gradoni di Saqqara per il faraone Djoser, sia della seconda, quella destinata al faraone Sekhemkhet, successore di Djoser. La fama di Imhotep era tale che durante il Periodo tardo fu venerato come una divinità guaritrice, assimilata dai greci con Asclepio e dai romani con Esculapio.

AKG / ALBUM

ALAMY / ACI

GLI ARCHITETTI

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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2

LA DEA CHE MISURA

Tolomeo III Evergete esegue il rito del “tendere la corda” con la dea della scrittura Seshat, che ha una stella a sette punte sul capo. Tempio di Horus a Edfu.

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M I SU R E ESATTE

LA POSIZIONE  IDEALE

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a posizione delle piramidi non era casuale, ma rispondeva a una serie di requisiti. Il primo era inderogabile: trattandosi di tombe, dovevano essere costruite sulla riva occidentale del Nilo, dove quotidianamente si spegneva il dio Sole e dove gli egizi situavano la duat (aldilà). Inoltre, durante la IV dinastia le piramidi venivano edificate in punti da cui era possibile mantenere un contatto visivo con il gran tempio di Eliopoli, in cui si adorava il dio solare Ra. Un fatto non sorprendente, se si considera che

le piramidi a facce lisce rappresentavano dei raggi di sole pietrificati, il veicolo utilizzato dal faraone defunto per accedere al firmamento. Se si osservano le piramidi di Giza, si può notare come i rispettivi angoli sud-est si uniscono a formare una linea immaginaria che punta esattamente verso il santuario di Eliopoli. Lo stesso avviene con la linea formata dagli angoli nord-ovest delle tre piramidi di Abusir. Se le caratteristiche del terreno o l’assenza di luoghi sacri impedivano di trovare dei siti adatti a questo allineamento, si cercava di stabilire


Complessi funerari di Sahura, Niuserra, Neferirkara, Neferefra e, sullo sfondo, i templi solari di Userkaf e Niuserra ad Abusir.

LE CERIMONIE ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTIQUE. © ÉDITIONS ERRANCE

AGE FOTOSTOCK

Nell’antico Egitto la costruzione di un tempio richiedeva una decina di cerimonie diverse, che si possono vedere incise sulle pareti del tempio di Horus a Edfu. La prima era quella del “tendere la corda”, cioè di tracciare la pianta dell’edificio sul terreno. Anche nel caso delle piramidi c’erano dei riti simili per tracciarne la pianta al suolo e allineare le facce dell’edificio con i punti cardinali. Sotto, disegno che ricostruisce l’orientamento stellare delle grandi piramidi di Giza. L’immagine mostra la costellazione dell’Orsa maggiore.

ILLUSTRAZIONE: SANTI PÉREZ

un collegamento visivo con una piramide più antica. Nel caso di Saqqara Nord, per esempio, l’angolo nord-ovest della piramide di Teti, l’angolo sud-est della piramide di Userkaf, l’angolo sud-est della piramide di Djoser, il centro della piramide di Unis e l’angolo nord-ovest di quella di Sekhemkhet sono disposti su un’unica linea retta. Inoltre, durante la IV dinastia c’era probabilmente l’abitudine (o forse l’obbligo) per il nuovo re di non costruire la sua piramide nella stessa necropoli del predecessore. Non fanno eccezione nemmeno le piramidi di Giza: il faraone Djedefra (successore di Cheope) costruì la sua piramide nella necropoli di Abu Rawash e Baka (successore di Chefren) eresse la sua a Zawyet el-Aryan. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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3 NEI P R ESSI DEL L A P IRA MI D E

I BLOCCHI DI PIETRA,   DALLA CAVA AL CANTIERE

L’ Gruppi di lavoratori trascinano i blocchi di pietra su dei traini simili a slitte per poi caricarli sulle imbarcazioni e portarli al cantiere.

Egitto aveva una caratteristica importante che facilitava la costruzione di grandi edifici: l’intero Paese era praticamente un’enorme cava di pietra calcarea. Ciò rendeva più semplice l’estrazione e il trasporto dei conci necessari alla realizzazione dell’opera. Pertanto le cave erano sempre situate a non più di qualche centinaio di metri dal cantiere della piramide. A Giza, per esempio, la zona in cui veniva estratto il materiale era 600 metri a sud della piramide di Cheope, proprio di fronte a quella di Chefren. Il volume di pietra estratto corrisponde a quello che si calcola sia stato utilizzato per tutte le piramidi della piana. La pietra calcarea è relativamente “morbida” e poteva quindi essere lavorata senza troppi problemi con gli strumenti disponibili all’epoca: mazze di legno e punteruoli di rame. Per estrarre i blocchi i

cavatori tracciavano al suolo dei “viali” che successivamente scavavano fino al punto necessario per conferire ai conci le dimensioni desiderate. Invece per altri elementi costruttivi – come le pareti delle camere funerarie, il sarcofago in cui riposava il faraone, i pavimenti dei templi e le statue decorative – si utilizzavano pietre dure come il granito, il basalto o la diorite. Le cave di questi materiali però si trovavano a centinaia di chilometri di distanza, per cui era necessario trasportare i blocchi via nave. Per la parte finale del tragitto, fino ai piedi della piramide, si spianavano delle specie di rampe dalla superficie omogenea che permettevano di trascinare i conci su dei traini di legno simili a slitte. La trazione era fornita dalla forza muscolare dei lavoratori del faraone, coadiuvati in alcuni casi da animali da tiro come i buoi.


UNA SQUADRA DI OPERAI

estrae degli enormi blocchi di pietra nella cava di Giza. Con questo materiale furono costruite le grandi piramidi della IV dinastia. ACQUERELLO DI JEAN-CLAUDE GOLVIN. MUSÉE DÉPARTEMENTAL ARLES ANTICO. © ÉDITIONS ERRANCE

Durante l’Antico regno la diorite veniva estratta dalla “cava di Chefren”, in Bassa Nubia. Il basalto, una pietra nera che rappresentava il suolo impregnato dall’acqua delle inondazioni, proveniva da un giacimento situato nell’oasi del Fayyum, mentre il granito era prelevato nelle miniere in prossimità della prima cateratta del Nilo, ad Assuan.

Cave di arenaria di Gebel Silsila, 65 km a nord di Assuan.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ASF / ALBUM

BRIDGEMAN / ACI

EGITTO, UN PAESE RICCO DI PIETRA

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4 BRIDGEMAN / ACI

Operai intenti a fabbricare mattoni di fango. Dipinto della tomba del visir Rekhmira a Gurna. XVIII dinastia. I L SO L L EVA M EN TO D E I BLO CC H I

IL LAVORO DEGLI OPERAI

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olti studiosi ritengono che il sistema utilizzato per sollevare i blocchi delle piramidi costituisca il grande mistero dell’antichità egizia. Gli strumenti usati sono noti: traini, leve, corde e rampe. Ma s’ignora come venisse effettuata nei dettagli l’operazione. L’unica certezza fornita dalle prove archeologiche è che le rampe utilizzate per sollevare i blocchi non erano perpendicolari alla base delle piramidi, ma disposte attorno a esse in forma

Questa illustrazione ricostruisce uno dei sistemi probabilmente utilizzati per costruire le piramidi.

Capisquadra Collaboravano con gli architetti dirigendo le operazioni quotidiane.

SOL 90 / ALBUM

38 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

avvolgente. A Meidum, Abusir e Giza sono stati trovati resti di rampe di questo tipo, due muri di pietra paralleli riempiti di calcinacci, o nel caso di Lisht una rampa in mattoni rinforzata con traversine di legno. Inoltre a Deir el-Bahari sono stati rinvenuti resti di animali da tiro, in particolare buoi, mentre i papiri del Diario di Merer, scritti dal sovrintendente responsabile di una squadra di 40 operai, descrivono come venivano trasportate da Tura

Rampe. Forse venivano utilizzate per trasportare in alto i blocchi di pietra.


STRUMENTI PER LA COSTRUZIONE

a Giza le pietre che costituiscono il rivestimento esterno della grande piramide. Proprio nella cava di Giza è stato trovato un concio abbandonato sui rulli con cui avrebbe dovuto essere trasportato. Si ritiene inoltre che, nel tentativo di ridurre al minimo gli sforzi, gli anIl disegno ricostruisce in modo non del tutto accurato come gli operai spostavano i blocchi di pietra. In realtà i conci erano collocati su una specie di slitta che veniva trainata lungo una rampa. Se questa era di terra battuta o fango, si versava dell’acqua davanti ai pattini della slitta per ridurre l’attrito. In caso di tratti più brevi, i blocchi venivano fatti scorrere su dei rulli di legno.

DAGLI ORTI / AURIMAGES

Gli strumenti utilizzati dagli operai egizi per costruire le piramidi erano semplici ma estremamente efficaci. Il filo a piombo serviva a controllare la verticalità e la perpendicolarità dei piani, mentre la squadra e i triangoli rettangoli permettevano di verificare che gli angoli rimanessero costanti con il progredire dell’altezza. A differenza di quelle dell’Antico regno, che erano in pietra, le piramidi del Medio regno erano di mattoni prodotti con stampi di dimensioni uniformi.

tichi egizi approfittassero di eventuali rocce preesistenti inglobandole nel progetto della piramide. Così avvenne per esempio nel caso delle tre piramidi di Giza e della piramide di Djedefra ad Abu Rawash: ognuna di esse fu costruita attorno a una sporgenza rocciosa dell’altopiano, come si può vedere chiaramente anche nell’angolo sud-ovest della piramide di Chefren, le cui prime file di blocchi sono scolpite nella roccia. Nella piramide di Djedefra, la massa rocciosa rappresenta il 44 per cento del volume totale dell’edificio: un dato utile a dare un’idea del risparmio in termini di materiali e di tempi di esecuzione. Conclusione dei lavori. L’esterno delle piramidi era rifinito con pietra calcarea bianca.

UTENSILI

Questi strumenti da costruzione sono stati trovati nella tomba dell’architetto Kha e di sua moglie Merit a Deir el-Medina (XVIII dinastia). Museo egizio, Torino.

Le principali materie prime utilizzate erano granito e pietra calcarea.

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40 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


PIRAMIDI DI SAQQARA

In questa veduta aerea si può apprezzare in primo piano il complesso funerario di Djoser, presieduto dall’imponente piramide a gradoni. Accanto a esso, la piramide di Userkaf, fondatore della V dinastia. KENNETH GARRETT

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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5

Pyramidion della piramide rossa di Snefru a Dahshur. È attualmente esposto accanto alla tomba del sovrano.

U NA PICCOL A P I R A M I DE

L’ULTIMA  PIETRA:   IL PYRAMIDION

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un lavoratore che versa dell’acqua davanti alla slitta. Uno dei due officianti è il sacerdote uab (“puro”) Merynefu, che regge con una mano un fazzoletto piegato e con l’altra solleva uno scacciamosche. Il pyramidion non è visibile sul rilievo, ma il testo dice chiaramente che era rivestito di elettro, una lega di oro e argento: «Le due squadre delle rispettive navi trasportano il pyramidion d’oro bianco della piramide [chiamata] “L’anima di Sahura brilla”». Il pyramidion della piramide di Sahura non è stato ritrovato, ma probabilmente tutti i pyramidion della V e della VI dinastia erano rivestiti di metalli preziosi e luccicanti, come quello che sormontava la tomba della regina Udjebten, moglie di Pepi II, della VI dinastia. È invece probabile che i pyramidion della III e della IV dinastia fossero di pietra. È il caso di quello della piramide rossa di Snefru a Dahshur, composto da cinque blocchi, il quinto dei quali è di forma piramidale. Sembra infine che i pyramidion della XII dinastia fossero di basalto e recassero un’iscrizione con il nome del faraone, come si può vedere nella piramide di Amenemhat III a Dahshur.

Pyramidion che sormontava la piramide di Amenemhat III, faraone della XII dinastia, scoperta nel 1900. Museo egizio, Il Cairo. DEA / ALBUM

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SYLVESTER ADAMS / GETTY IMAGES

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l pyramidion era il piccolo blocco finale che costituiva il vertice del monumento. Era ovviamene di forma piramidale e aveva un particolare significato simbolico. Ecco perché il suo collocamento era celebrato con una cerimonia speciale a cui assisteva lo stesso faraone. Su un rilievo ritrovato nel viale di accesso che conduce alla piramide di Sahura, della V dinastia, appare un cantore di nome Semerka davanti a diciotto operai disposti su due file. Ogni fila tira una delle corde legate a una slitta su cui è collocato il pyramidion. Due sacerdoti con le spalle rivolte verso gli operai osservano il blocco intagliato mentre eseguono il rituale previsto. Sono accompagnati da altri quattro cantori che battono le mani e da

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G RID


UN RIVESTIMENTO MILLENARIO Sebbene da lontano non si noti, la piramide di Chefren non conserva il suo pyramidion, ma solo la parte superiore del rivestimento in pietra calcarea, sprovvista proprio dell’ultimo blocco. La piramide si conservò intatta fino al Medioevo quando, in seguito a un terremoto, gli abitanti del Cairo iniziarono a utilizzare i monumenti di Giza come fonti di materiali da costruzione.

IMAGEN DE RAYOS X DEL TORSO DE ÖTZI. SE HA MARCADO CON UN CÍRCULO EL LUGAR DONDE ESTABA ALOJADA LA FLECHA. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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6

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LA PIANA SACRA

Sopra, ricostruzione dei complessi funerari dei faraoni Cheope, Chefren e Micerino sull’altopiano di Giza.

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I L CO M P L ESSO FUN E RA RI O

TEMPLI  E VIE

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a piramide non era che il principale dei vari monumenti che costituivano il complesso funerario di un faraone. Le piramidi della III dinastia, quando prevaleva il culto stellare, erano situate dentro un recinto rettangolare al cui interno si distribuivano gli edifici e le cappelle di pietra che permettevano al re di celebrare eternamente la festa Sed, il giubileo reale da cui traeva le forze necessarie per continuare a regnare sul Paese del Nilo. Durante la IV dinastia la disposizione da nord a sud scompare e viene sostituita da

tre edifici differenti distribuiti da est a ovest, a imitazione del percorso del sole nel firmamento. Il primo era il tempio a valle (o basso), un pontile che era raggiunto dalle piene del Nilo e dove probabilmente veniva accolta la nave che trasportava la mummia del faraone. Da qui partiva il viale di accesso, un passaggio coperto sul cui soffitto si aprivano dei lucernari e che conduceva fino al tempio alto, posto accanto alla piramide. La funzione di quest’ultimo edificio era ospitare il culto del sovrano defunto, incluso il rituale di presentazione delle offerte.


La piramide di Sahura, ad Abusir, vista dalla via processionale che conduceva a essa e che raggiungeva i 235 m di lunghezza.

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ALAMY / ACI ILLUSTRAZIONE: 4D NEWS

Complesso funerario di Cheope 1  Grande sfinge 2  Complesso funerario di Chefren 3  Complesso funerario di Micerino 4

Tempio a valle di Chefren, a Giza. Situato vicino alla grande sfinge, l’edificio è caratterizzato da spessi pilastri di granito rosa.

PRISMA / ALBUM

Gli elementi che caratterizzavano il tempio alto furono fissati all’epoca della V dinastia: al principio era situato un atrio d’ingresso seguito da un cortile porticato, entrambi fiancheggiati da magazzini; poi si apriva un corridoio trasversale che conduceva a una stanza con cinque nicchie da cui si accedeva a uno spazio con una colonna al centro. Di lì si passava a una sala con una falsa porta, circondata da altri magazzini. Il culto si svolgeva nel cortile e nelle cinque cappelle. All’interno di ognuna di esse era c’era una statua del faraone (rappresentato come Osiride, in qualità di re dell’Alto e del Basso Egitto). Due volte al giorno le statue venivano trasportate fuori dalle rispettive cappelle, ripulite, vestite e nutrite con le offerte a loro destinate. STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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J. VANDERPOOL / DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI

L’AGATA DEL COMBATTIMENTO

Rinvenuta tra i numerosi gioielli del corredo funerario del Guerriero del Grifone, il pezzo evoca un feroce scontro tra due combattenti e aderisce a un’estetica tipicamente minoica. Misura solo 3,6 cm di lunghezza. 46 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


UN INCREDIBILE CORREDO MICENEO

LA TOMBA DEL GUERRIERO DEL GRIFONE Nel 2015 vicino al palazzo di Nestore, a Pilo, nel sud-ovest della Grecia, gli archeologi hanno scoperto una tomba a tholos intatta con le spoglie di un antico guerriero dell’Età del bronzo

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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SPIAGGIA DI VOIDOKILIA

Si apre a settentrione della baia di Navarino, nella penisola del Peloponneso. Nove chilometri più a nord si trovano il palazzo di Nestore e la tomba del Guerriero del Grifone.

48 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


Micene

o

PELOPONNESO

fino al 1966. Grazie a tutti quegli sforzi fu possibile portare alla luce il palazzo meglio conservato dell’Età del bronzo egea. In ambito miceneo il termine “palazzo” indicava una residenza reale che svolgeva le funzioni sia di centro religioso sia di magazzino del raccolto in eccesso prodotto in tutta la regione. Tale modello di costruzione somigliava molto a quelli che fiorirono nella Creta minoica, tra il 2000 e il 1500 a.C. circa, in luoghi come Cnosso, Festo o Mallia. A Pilo venne inoltre rinvenuto un notevole archivio di tavolette amministrative in lineare B, che servivano proprio per contabilizzare i prodotti agricoli.

Cnosso

CRETA

GRADUALMAP

Pilo

L’EGEO DEL BRONZO

La mappa mostra i principali siti micenei e le rotte commerciali più importanti nell’Età del bronzo all’interno dell’area del mar Egeo.

La comparsa del guerriero Gli archeologi che lavorarono agli scavi di Pilo non si limitarono a studiare il palazzo, ma esplorarono pure la zona circostante. E così ispezionarono nuovamente una necropoli a nord-est del palazzo che era già stata analizzata nel 1912. A quei tempi era stata scoperta una tholos, ovvero una tomba a galleria con camera sepolcrale a forma d’alveare. Ma non sarebbero mancate nuove sorprese. Nella primavera del 2015 la

1912

1939

2015

Il Guerriero del Grifone muore intorno a questa data, per ragioni ancora sconosciute.

Viene individuata vicino all’antica Pilo una tomba a galleria e camera sepolcrale (tholos).

Lo studioso statunitense Carl William Blegen scava nel palazzo di Nestore a Pilo.

Nei pressi della tholos scoperta nel 1912 viene rinvenuta la tomba del Guerriero del Grifone.

NESTORE, RE DI PILO, IN UN’ANFORA DEL V SECOLO A.C. MUSÉE DU LOUVRE, PARIGI.

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1500 a.C.

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SHUTTERSTOCK

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TRA PILO E MICENE

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C R O N O LO G I A

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Pilo si trova a sud-ovest della penisola greca del Peloponneso, in cima a una collina chiusa a nord dalla baia di Navarino. Qui un’équipe diretta dal professore Carl William Blegen, dell’Università di Cincinnati, nel 1939 iniziò a scavare le rovine di quello che in seguito si sarebbe chiamato colloquialmente palazzo di Pilo, ovvero la presunta residenza di Nestore, uno dei personaggi dei poemi omerici. Re della «sabbiosa Pilo», il saggio anziano che aveva partecipato alla guerra di Troia fu uno dei pochi fortunati – forse proprio in virtù della prudenza dettata dall’età – che riuscì a tornare a casa dopo dieci anni di cruente battaglie e la conquista della celebre roccaforte dell’Asia Minore. E fu proprio a Pilo che ricevette Telemaco mentre era alla ricerca del padre, Odisseo o Ulisse. Di costui si erano infatti perse le tracce dopo la sua partenza da Troia. Le indagini archeologiche nel mitico sito di Pilo s’interruppero ben presto a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale. Ripresero soltanto nel 1952 e si prolungarono per quindici campagne di scavo consecutive

ASIA MINORE M

I

l 18 maggio 2015, in un oliveto nei pressi del cosiddetto palazzo di Nestore a Pilo, un team di archeologi ha rinvenuto l’angolo esterno di una tomba che pochi giorni dopo si sarebbe rivelata intatta. Le analisi sul suo contenuto, ancora in corso, stanno rivoluzionando le conoscenze scientifiche circa il periodo arcaico nella zona del mar Egeo.


SEPOLTO CON LE ARMI

Collana

Nel disegno si vede buona parte degli oggetti che costituiscono il corredo funerario del Guerriero del Grifone. Sono raggruppati tra di loro e indicati con quattro colori diversi a seconda del materiale.

Spada lunga

Oggetti realizzati in bronzo, che includono una quantità significativa di armi. Tra queste un pugnale e una spada. Oggetti in oro, soprattutto gioielli, che comprendono una collana e numerose perline.

Coppe in argento

Agata del Combattimento

Oggetti in argento. Costituiscono un servizio di recipienti, probabilmente adibiti ai banchetti. Coppe in oro

Elementi della collana e gemme in pietre semipreziose (cornalina, ametista, ambra) disposte sul torace del defunto.

Lame di bronzo

Recipiente in bronzo

Pugnale

RICOSTRUZIONE DELLE SPOGLIE E DEL CORREDO DEL GUERRIERO DEL GRIFONE DI PILO, COSÌ COME SONO STATI SCOPERTI. 50 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC


ILLUSTRAZIONE: D. NENOVA / DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI

L’indagine sul defunto L’interno della tomba era rivestito da lastre di pietra che ne rafforzavano le mura. Dentro era stato collocato un sarcofago di legno con un cadavere e il suo corredo, e sopra vi era stata poggiata un’ulteriore lastra che fungeva da chiusura. Questa si era poi spezzata, forse a causa di un terremoto, collassando sul sarcofago ligneo sottostante e distruggendo parte del suo contenuto. Con il passare del tempo, la pioggia e il vento hanno riempito di terra le cavità e hanno fatto sì che il sepolcro rimanesse del tutto coperto. Per questo motivo i predatori di tombe non l’hanno potuto saccheggiare. La missione degli archeologi si è rivelata complessa, perché per togliere la lastra collassata l’hanno prima dovuta puntellare, introducendosi all’interno della cavità. Ma quanto è stato rinvenuto supera di gran lunga ogni aspettativa, non solo per la ricchezza e la singolarità del corredo funerario, ma anche per la sua datazione. Risale infatti all’Età del bronzo finale, cioè agli albori della civiltà micenea. La tomba è quindi più antica del palazzo di Nestore. Sebbene le analisi non siano ancora concluse, i primi studi hanno stabilito che nella fossa era sepolto un uomo adulto, alto 1,70

PALACE OF NESTOR EXCAVATIONS / DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI

University of Cincinnati ha ripreso gli scavi di Pilo, affidandone stavolta la direzione alla coppia formata dai professori Sharon Stocker e Jack Davis. Questi hanno indirizzato la loro attenzione su alcune terre coltivate che si trovavano nella città bassa, attorno all’acropoli di Pilo. I due coniugi hanno così scavato piccole fosse proprio vicino alla tholos del 1912, nel punto in cui le prospezioni geofisiche avevano rilevato delle anomalie nel terreno sottostante. Nel primo giorno dei lavori sono comparse, a pochissimi centimetri dalla superficie, tre pietre che delimitavano un angolo. Poco dopo sono emersi i lati di una struttura rettangolare di 1,10 metri di larghezza per 2,30 di lunghezza. Si trattava di una tomba a fossa caratteristica del mondo miceneo, simile a quelle presenti nei circoli A e B di Micene.

UN’INTUIZIONE FORTUNATA SHARON STOCKER e Jack Davis, una coppia di professori dell’University of Cincinnati, hanno permesso di ampliare gli orizzonti di studio nella località di Pilo, dov’era già presente il palazzo di Nestore. Poiché ritenevano che vicino alla tholos IV, portata alla luce nel 1912, potesse esistere una necropoli dell’Età del bronzo, hanno esaminato i dintorni e rinvenuto così la tomba del Guerriero del Grifone. GLI ARCHEOLOGI SCAVANO NELLA TOMBA DEL GUERRIERO DEL GRIFONE APPENA SCOPERTA.

metri e che aveva tra i trenta e i trentacinque anni. Era vissuto alla fine del XVI secolo a.C. o agli inizi del secolo successivo. Finora è stato impossibile individuare le cause del suo decesso, anche se all’epoca quella era l’età di un anziano, e perciò potrebbe essersi spento per cause naturali. Il pessimo stato di conservazione delle ossa impedisce al momento di essere più precisi. L’uomo venne seppellito in posizione supina e avvolto in un sudario che, come pure il sarcofago ligneo, si è a mano a mano distrutto per via dell’acidità del terreno. Se ne deduce che a quei tempi, a differenza di quanto si afferma nei poemi omerici, il rituale funerario più usato era l’inumazione e non la cremazione.

CRATERE DEI GUERRIERI

Rinvenuto a Micene, rappresenta un gruppo di guerrieri micenei. Museo archeologico nazionale, Atene.

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Un gruppo di donne sembra danzare in modo spontaneo e vivace attorno a un altare da cui spunta un albero.

ANELLI E COLLANE

Collana d’oro intrecciato, con due perline in agata e una in maiolica con inclusioni di granulati.

Le immagini presenti sui quattro anelli-sigilli della tomba mostrano un’evidente affinità con la cultura minoica dell’isola di Creta. Spicca la rappresentazione di un grande toro, che rimanda proprio alla decorazione dei palazzi di Creta, probabile luogo di provenienza di tale gioiello. La collana è uno dei pezzi più famosi del corredo funerario. Elementi simili sono stati rinvenuti sia a Creta, appunto, sia nell’Argolide, la regione del Peloponneso dove si trovava l’antica Micene.

Una donna sul trono, di grandi dimensioni – è forse una dea –, riceve un’offerta da un’altra donna, di dimensioni inferiori. 52 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Scena di taurocatapsia, o salto del toro, un rituale cretese dal quale potrebbe derivare il mito del famoso Minotauro.


TRA TUTTE LE ARMI deposte accanto al cadavere del guerriero, per dimensioni e foggia spicca una straordinaria spada in bronzo. L’impugnatura d’oro presenta la sofisticata tecnica decorativa del ricamo in rilievo che la rende così speciale. Se ne trovano di simili solo nei corredi scoperti nelle necropoli micenee coeve della regione dell’Argolide, sia a Dendra sia a Micene. LA SPADA COSÌ COM’È È STATA RINVENUTA NELLA TOMBA DEL GUERRIERO DEL GRIFONE, A PILO.

GEMMA DEI TORI

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Il sigillo in cornalina rinvenuto nella tomba rappresenta tre enormi bovini dalle lunghe corna.

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ché di natura organica. Con ogni probabilità, pure le centinaia di perline in ametista, diaspro, cornalina, pasta di vetro e agata, in maggior parte forate, erano cucite a questa cappa o al sudario. Non è finita qui. Nel corredo erano inoltre presenti dei pendenti in oro, due crateri schiacciati e una favolosa collana a treccia di cui erano già stati rinvenuti esemplari simili. Secondo gli archeologi, poteva provenire da un bottino di guerra e fu forse strappata dal collo del legittimo proprietario: vi compaiono le tracce di una rottura e di una successiva riparazione. Dettaglio molto interessante: dalla collana pende una perlina in faience, manifattura tipicamente egizia. Ciò verrebbe a rafforzare l’ipotesi di un’importazione o di un bottino

IVE

Oltre alle armi e agli intagli in avorio, accanto al defunto vennero disposti numerosi gioielli. Tra questi spiccano quattro anelli in oro massiccio su cui furono incise scene rituali che ricordano il repertorio iconografico in uso a Creta. Tra l’altro, solamente a Creta, nella tholos A della necropoli di Archanes, si riscontra un uguale e imponente accumulo di oggetti per un corredo funerario. Non solo: nella tomba del Guerriero del Grifone erano presenti altre cinquanta gemme, decorate anch’esse con motivi minoici. Alcune si trovavano accanto alla spalla sinistra, e facevano forse parte di una sorta di fibula o spilla. Altre erano invece alla destra della cassa toracica e andavano probabilmente a comporre una specie di cappa corta, ormai perduta per-

LA SPADA DI UN GUERRIERO

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DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI / ANELLI: J. VANDERPOOL. COLLANA: JENNIFER STEPHENS

Un corredo di grande ricchezza

SCAVI DEL PALAZZO DI NESTORE / DIPARTIMENTO DI STUDI CLASSICI, UNIVERSITÀ DI CINCINNATI

Quanto al corredo, si sono potute recuperare centinaia di oggetti, alcuni integri e altri in frammenti, che sono in corso di restauro affinché vengano esposti nel museo archeologico di Chora. Con grande sorpresa degli studiosi, e diversamente da quanto avviene di solito, la fossa non conteneva elementi in ceramica. L’uomo sepolto è stato chiamato Guerriero del Grifone a causa di certi oggetti ritrovati vicino alle sue spoglie. Innanzitutto, accanto al corpo erano adagiate numerose armi di bronzo: un pugnale con l’elsa in oro, l’estremità di una mazza a forma di testa di toro –forse, però, poteva appartenere a uno scettro –, i probabili resti di un’armatura molto deteriorata, un elmo in zanna di cinghiale e, soprattutto, una grande spada lunga più di un metro, con l’impugnatura d’avorio rivestita in oro. Il grifone compare invece in almeno due placche in avorio intagliato, una delle quali era posizionata tra le cosce del defunto. Tali scoperte hanno spinto i ricercatori a chiedersi se nell’Età del bronzo esistesse già la credenza simbolica del grifone quale psicopompo, ovvero guida delle anime dei defunti, e quale protettore dei morti, funzioni che gli sarebbero state attribuite più avanti.

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PALAZZO DI CNOSSO

Nell’immagine, l’ingresso nord del palazzo di Cnosso, sull’isola di Creta. Fu ricostruito da sir Arthur Evans e sul muro è stato ricomposto un affresco con un grande toro in procinto di caricare.

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SHUTTERSTOCK

L’agata del Combattimento Ognuno dei pezzi del corredo appartenuto al Guerriero del Grifone ha un valore eccezionale. Tuttavia il più straordinario di tutti è un gioiello che misura soltanto 3,6 centimetri: la cosiddetta agata del Combattimento, che è ormai considerata il più pregiato elemento a intaglio di tutta l’antichità. Sulla superficie di tale pietra dura è rappresentato uno scontro tra due guerrieri, mentre un terzo giace morto ai loro piedi. Le armature ricordano alcuni oggetti e indumenti di epoca micenea rinvenuti nelle rispettive tombe e presenti pure su dipinti in ceramica e affreschi di palazzo. Quasi sicuramente l’artista doveva essere a conoscenza di questi ultimi, forse perché aveva lavorato in una residenza reale. La precisione dei dettagli, che non ha paragoni, rende l’agata un capolavoro dell’arte greca. Per essere così abile, si crede che l’artista dovette usare una lente in cristallo di rocca. Sebbene le ricerche procedano ancora e le ipotesi formulate dagli studiosi potrebbero evolvere in funzione di ogni nuova scoperta, gli archeologi credono che gran parte degli oggetti del corredo sia di origine minoica. Come ben si sa, durante l’ultima fase dell’Età del bronzo, Creta venne occupata da indoeuropei provenienti dalla penisola balcanica e chiamati micenei. Si trattava di un popolo bellicoso che parlava una forma molto arcaica di greco e che iniziò a imporsi verso il 1500 a.C. È questa anche la data approssimativa della morte del Guerriero del Grifone. Forse aveva preso parte alla conquista dell’isola ed era poi rientrato in patria, a Pilo, con il bottino con cui sarebbe stato sepolto, portandosi dietro pure le usanze, nonché le persone, che avrebbero posto le basi della sua cultura e del suo gusto estetico. Tuttavia potrebbe trattarsi di un

ARTHUR STEPHENS / DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI

di guerra. Nella tomba si trovavano coppe d’argento e vasellame in bronzo, come pure diversi pettinini in avorio e uno specchio in bronzo con il manico sempre d’avorio. Più che un tocco di civetteria, lo specchio aveva forse legami con il rituale di sepoltura.

VESTIGIA DI LUSSO ANCESTRALE NEL CORSO DEGLI scavi del 2018 sono state trovate due nuove

incredibili tombe a forma d’alveare, chiamate tholos VI e tholos VII. Entrambe risalgono al XV secolo a.C. e, sebbene le caratteristiche volte siano crollate molti secoli dopo e i corredi siano stati saccheggiati già nell’antichità, gli archeologi vi hanno ritrovato piccoli oggetti in oro.

caso completamente diverso: il Guerriero sarebbe un minoico, un preellenico, che in fuga da Creta devastata per l’eruzione del vulcano di Thera (Santorini), si era stabilito in Messenia dando origine alla stirpe dalla quale sarebbe poi disceso il mitico Nestore. Probabilmente non conosceremo mai la verità, ma quel che è certo è il valore inestimabile di questo favoloso ritrovamento.

TOMBA CON VOLTA

Sopra, vista della tholos VI di Pilo, di 12 m di diametro. Non ha il tetto e venne depredata nell’antichità.

ÁNGEL CARLOS AGUAYO PÉREZ ARCHEOLOGO

Per saperne di più

SAGGI

La morte eroica nell’antica Grecia Jean-Pierre Vernant. Il Melangolo, Genova, 2019. La morte nel mondo greco Maria Serena Mirto. Carocci, Roma, 2007. I micenei Massimo Cultraro. Carocci, Roma, 2017. INTERNET

www.griffinwarrior.org

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IL COMBATTIMENTO DI DUE CAMPIONI L’agata del Combattimento rappresenta il momento esatto in cui un guerriero dalla chioma al vento conficca la spada nel collo del rivale. Questi indossa un elmo che ricorda «il cimiero chiomato» portato dal principe troiano Ettore nell’Iliade, e regge un grande scudo oblungo, simile a quello che, sempre nell’Iliade, apparteneva ad Aiace Telamonio. Sotto i corpi in movimento giace senza vita una terza figura, che dà le spalle allo spettatore. Malgrado le minime dimensioni del gioiello, l’artista ricostruisce in modo incredibilmente preciso la potente muscolatura dei tre guerrieri.


ILLUSTRAZIONE T. ROSS / DEPARTMENT OF CLASSICS, UNIVERSITY OF CINCINNATI

L’agata del Combattimento riprodotta nella stessa scala dell’originale (3,6 cm di lunghezza).


LA RESA DI VERCINGETORIGE

Il quadro evoca il momento in cui il capo arverno raggiunge a cavallo l’accampamento di Cesare. Ben presto getterà le armi ai piedi del romano, in segno di resa. Henri-Paul Motte, 1886. Musée Crozatier, Le Puy-en-Velay. BRIDGEMAN / ACI


VERCINGETORIGE L’ ULTIMO CAPO GALLICO Durante la conquista della Gallia, Giulio Cesare combatté contro uno dei nemici più ardui della propria carriera. Vercingetorige si era eretto a capo dei galli per fronteggiare l’invasione romana, ma dopo la sconfitta ad Alesia venne fatto prigioniero e morì giustiziato sei anni più tardi


Questo dettaglio di un sarcofago rappresenta la lotta efferata tra galli e romani. I secolo d.C. Collezione Gonzaga. Palazzo Ducale, Mantova.

LE ARMI DEI GALLI

THIERRY LE MAGE / RMN-GRAND PALAIS

Spade corte con elsa antropomorfa. Periodo La Tène tardo (secoli II-I a.C.). Musée d’Archéologie nationale, SaintGermain-en-Laye.

I

l valore di un condottiero non si definisce solo con le sue scelte strategiche e tattiche e con le sue capacità di comando, ma anche e soprattutto in base al valore degli avversari affrontati. Scipione l’Africano è considerato dai più il miglior generale romano di tutti i tempi proprio perché sconfisse l’invincibile Annibale, mentre Cesare viene ritenuto generalmente più fortunato che bravo, perché si scontrò tra gli altri con un condottiero troppo giovane e ritenuto inesperto quale Vercingetorige. Ma lo era davvero? Un attento esame della sua breve carriera dimostra esattamente il contrario. Il suo nome rimane indissolubilmente legato alla sconfitta di Alesia dove, stando alle parole di Cesare, riuscì a perdere pur disponendo di forze sette volte superiori a quelle romane. Tuttavia per i francesi e per i sostenitori della “celtomania”, che imperversò a partire dall’epoca romantica, Vercingetorige è l’eroe e il simbolo del nazionalismo gallico, l’uomo capace d’indovinare la giusta strategia contro gli invasori fin dall’inizio e, soprattutto, il vincitore di Gergovia: nei fumetti di Asterix, il vecchio

Matusalemix non fa altro che rimpiangere quella vittoria, l’unica netta e di ampia portata conseguita dai galli in quasi un decennio di lotte contro Cesare.

La nascita di un leader Vercingetorige fa la sua comparsa sul palcoscenico della storia nel settimo libro del De bello gallico. Nei libri precedenti Giulio Cesare narra come, dopo la nomina a governatore della Gallia Cisalpina e Narbonense nel 58 a.C., avesse intrapreso una serie di campagne in cui aveva respinto le invasioni di popoli quali gli elvezi e i germani. Aveva inoltre sottomesso la maggior parte delle tribù galliche. Tuttavia nell’anno 52 a.C. i romani stavano per perdere ogni conquista. In primis a Cenabum, l’attuale Orléans, dove la tribù dei carnuti aveva portato a termine un vero e proprio massacro di mercanti romani che si erano lì stabiliti. Subito dopo era scoppiata una rivolta generale dei galli. «Ivi in maniera simile Vercingetorige, figlio di Celtillo, arverno, uomo, sebbene giovane, di grande potenza […] convocò i suoi clienti

WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

GALLI CONTRO ROMANI


CELTICA

Province e territori

GERMANICA

Alesia Fortezze galliche

BELGA

Alesia CELTICA

Avaricum

Bibracte

Gergovia

Uxellodunum

PROVINCIA

AQUITANIA

GALLIA ANTICA. MAPPA DI CLAUDE-JOSEPH DRIOUX E CHARLES LEROY. 1866.

BRIDGEMAN / ACI

C R O N O LO G I A

LOTTA SINO ALLA FINE

80 a.C. circa

58 a.C.

52 a.C.

46 a.C.

Nasce Vercingetorige, figlio di Celtillo, capo della tribù arverna. Giulio Cesare narra che tale gruppo dominò su tutte le altre tribù della Gallia.

Giulio Cesare viene eletto proconsole, o governatore, della Gallia Cisalpina e della Gallia Narbonense. Vercingetorige vive come ostaggio in un accampamento romano.

Vercingetorige si erige a capo della resistenza gallica contro l’invasione romana. Difende con successo la fortezza di Gergovia, ma viene assediato ad Alesia e deve arrendersi.

Il capo arverno è giustiziato in un carcere di Roma dopo sei anni di prigionia. Era rimasto in attesa che Cesare potesse esibirlo in trionfo in seguito alla sua vittoria sulla Gallia.


ANIMALI SACRI

Per gli antichi popoli celti il cinghiale era un animale sacro. Nell’immagine, statuetta in bronzo che rappresenta un suino. I secolo a.C. Musée JosephDéchelette, Rouen. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

e facilmente li infiammò» scrive il futuro dittatore. Il giovane apparteneva al popolo degli arverni, che occupava un esteso territorio nell’attuale regione francese dell’Arvernia, a cui diede il nome. Nel 60 a.C. questi avevano chiamato in soccorso un capo germanico, Ariovisto, perché li aiutasse contro i loro secolari nemici, gli edui. I romani intervennero invece in aiuto degli alleati edui. Cesare afferma che il padre di Vercingetorige, Celtillo, «aveva ottenuto il principato su tutta la Gallia e, reo di aspirare al trono, era stato ucciso dal suo popolo».

Grande re dei galli Vercingetorige (il cui nome significa “il grande re degli eroi”) ereditò dal padre un notevole ascendente sul suo popolo e la vocazione al comando. Poiché di nobili natali, all’inizio delle campagne di Cesare in Gallia era stato consegnato ai romani in qualità di ostaggio assieme ad altri giovani del suo ceto. Vercingetorige trascorse del tempo negli accampamenti nemici accanto a Cesare, con cui probabilmente stabilì un rapporto di amicizia. Quest’esperienza si rivelò senz’altro utile per conoscere le tattiche militari romane. Il ragazzo comandò persino un’unità ausiliaria dell’esercito romano. Tutto ciò ha spinto qualcuno a ipotizzare che l’arverno fosse in realtà un agente di Cesare, il quale lo avrebbe impiegato per sobillare i galli alla rivolta e avere così un pretesto per un genocidio che chiudesse una volta per tutte il fronte gallico. Cesare narra che a quei tempi a governare gli arverni era suo zio Gobannizione, un filoromano che espulse il nipote dalla capitale Gergovia; Vercingetorige «tuttavia non rinuncia all’iniziativa e arruola nelle campagne i poveri e i disperati» con l’obiet-

Probabilmente Vercingetorige strinse un rapporto d’amicizia con Cesare mentre era ostaggio nell’accampamento romano 62 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ASSEDIO DI AVARICUM

Il disegno evoca la costruzione, da parte dei romani, dell’alto terrapieno e delle torri d’assedio che permisero a Giulio Cesare di assaltare la città fortificata gallica. ADAM HOOK / OSPREY PUBLISHING

tivo di disporre di un’armata con la quale cacciare lo zio e farsi proclamare re, esortando le altre tribù a mantenersi fedeli e a conferirgli il comando supremo. «Ricevuto questo potere», scrive Cesare, «comanda a tutte quelle nazioni d’inviargli ostaggi, ordina che un numero determinato di soldati gli venga rapidamente condotto, stabilisce la quantità di armi che ciascuna nazione dovrà fabbricare ed entro quale data; si occupa in particolare della cavalleria. A uno zelo grandissimo accompagna una grandissima severità nell’esercizio del potere; tiene insieme gli esitanti con la severità delle pene. Infatti fa uccidere col supplizio del fuoco e con ogni altro tormento i colpevoli di gravi delitti, per una colpa più leggera rimanda a


casa il colpevole dopo avergli fatto tagliare le orecchie e cavare un occhio». Era pieno inverno e Cesare, sicuro che le sue legioni non corressero alcun pericolo durante la cattiva stagione, si trovava a Roma. Il suo luogotenente Tito Labieno si trovò a fronteggiare l’improvvisa rivolta e poté solo giocare in difesa; ma il proconsole era celebre anche per la sua rapidità d’azione e comparve a nord delle Alpi in tempo per arginare il tentativo del luogotenente di Vercingetorige, Lucterio, di penetrare nella provincia romana e di conquistare Narbonne. Tuttavia Cesare non esitò ad attraversare le Cevenne con due metri di neve e a irrompere in Arvernia, la base di Vercingetorige, il quale, allora, agiva più a nord.

CONQUISTA E MASSACRO NEL MARZO DEL 52 A.C. Giulio Cesare assediò la città gallica di Avaricum. Ubicata tra due fiumi e tra gli acquitrini, e con un’unica via d’accesso, non poteva essere circondata tramite una fortificazione. I galli frustrarono inoltre ogni tentativo romano di avvicinarsi alle mura. Eppure, malgrado il freddo e le piogge torrenziali, in soli 25 giorni i legionari costruirono un terrapieno alto quanto le mura, nonché diverse torri mobili. Durante un temporale i soldati che lavoravano alla fortificazione finsero di rilassarsi, spingendo in questo modo gli assediati a imitarli. Nel frattempo le torri mobili si riempirono di altri militi, che si diressero verso le mura per dare inizio all’attacco. I legionari raggiunsero i baluardi con facilità e i galli subirono un terribile massacro.



DOVE CESARE SCONFISSE I GALLI

Vista aerea del MuséoParc di Alesia, dove nel 52 a.C. si svolse la battaglia definitiva tra le legioni di Giulio Cesare e l’esercito di Vercingetorige. Mont Auxois, Francia. MANUEL COHEN / AURIMAGES


IL VOLTO DI VERCINGETORIGE

Il rovescio di una moneta gallica conserva la presunta effigie del capo arverno che si ribellò contro Cesare. Gabinetto numismatico e medagliere, Milano. BRIDGEMAN / ACI

Il capo gallico fu così costretto a cambiare piani e a soccorrere il suo popolo. Il proconsole si sottrasse allo scontro e andò a radunare tutte le forze a sua disposizione tra gli alleati lingoni, a Sens. Allora Vercingetorige cambiò obiettivo puntando su Gorgobina, nel territorio dei boi, alleati degli edui e quindi ben disposti verso Roma. Il futuro dittatore reagì con una marcia grazie alla quale conquistò in rapida successione tre fortezze galliche fino a raggiungere Avaricum (attuale Bourges), la migliore roccaforte dei biturigi. Vercingetorige accorse in aiuto di questi ultimi. Consapevole che le città galliche non erano in grado di resistere alle capacità ossidionali dei romani, ordinò di abbandonare la roccaforte e di fare terra bruciata per togliere ai legionari ogni forma di sostentamento. «Se queste deliberazioni fossero sembrate pesanti e crudeli, molto più pesante si doveva ritenere il fatto che i figli e le mogli fossero trascinati in schiavitù e che essi stessi fossero messi a morte» affermò in un discorso. I biturigi gli prestarono ascolto e bruciarono venti villaggi, ma decisero di mantenere Avaricum perché erano convinti di poter resistere. Restarono quindi asserragliati nella capitale. Al capo arverno non rimase pertanto che accamparsi a ventiquattro chilometri di distanza minacciando l’esercito romano, che si predispose all’assedio. La determinazione dei romani ebbe la meglio sulle difese dei biturigi e la città finì per cadere entro un mese; solo ottocento dei 40mila abitanti riuscirono a scampare alla strage comminata dai romani per vendicare quella di Orléans. I superstiti raggiunsero Vercingetorige pentiti di non avergli dato ascolto, «e così, mentre di solito gli insuc-

Per cogliere di sorpresa Vercingetorige Cesare valicò la catena montuosa delle Cevenne, ricoperta da due metri di neve 66 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

MANUEL COHEN / AURIMAGES

cessi indeboliscono l’autorità di un capo, il suo prestigio, al contrario, aumentava di giorno in giorno grazie alla sconfitta subita», osserva Cesare col suo abituale acume.

Il trionfo a Gergovia Dopo che l’esercito romano si fu abbondantemente rifocillato ad Avaricum, il proconsole si rimise in marcia alla volta dell’Arvernia e Vercingetorige fece altrettanto, ma tenendosi al di fuori della sua portata. Le due armate finirono per marciare parallele sulle due rive dell’Allier finché Cesare, con un espediente, non riuscì a passare il fiume e a porsi alle spalle dei galli. Questi ultimi furono quindi costretti a fuggire in avanti, raggiungendo Gergovia, dove il capo gallico


MURO DI GERGOVIA

Nella foto, parte sud-est delle mura della cittadella gallica di Gergovia, dove ebbe luogo l’unica sconfitta romana contro i galli guidati da Vercingetorige.

si trincerò approfittando della sua posizione favorevole: la roccaforte, infatti, sorgeva a trecento metri di altezza su un altopiano rettangolare di 1.500 metri di lunghezza e cinquecento di larghezza, con tre fianchi ripidi e uno, più morbido, unito mediante una sella da due alture più basse appena di fronte. Vercingetorige fece accampare le sue truppe intorno alla città, lungo il pendio e sulle creste, distribuendo a intervalli regolari i contingenti delle varie tribù, la cui vista, dice Cesare, «offriva uno spettacolo pauroso». Aggiunge il proconsole che «ogni giorno all’alba comandava che si riunissero presso di lui i capi delle nazioni, che aveva scelto perché deliberassero con lui, quando apparisse opportuno sia comunicare alcunché,

UN CAPO DALLE DOTI ORATORIE VERCINGETORIGE non era solo un guerriero, ma anche un abi-

le oratore. Cesare riporta il discorso con cui il capo arverno spiegò ai biturigi la necessità di applicare la strategia della terra bruciata contro i romani. Come ebbe a dire, «per la salvezza collettiva era necessario rinunciare ai beni privati: bisognava incendiare villaggi e case per tutto quel tratto in cui sembrava probabile che i romani potessero avventurarsi a far rifornimento di foraggio». I biturigi distrussero buona parte del proprio territorio, ma in una nuova riunione supplicarono di non obbligarli a bruciare la capitale, Avaricum. Gli altri galli acconsentirono, a dispetto di quanto pensava Vercingetorige, che alla fine fu costretto ad arrendersi «alle loro preghiere e alla commozione della folla».


VERCINGETORIGE GETTA LE ARMI AI PIEDI DI GIULIO CESARE, IL VINCITORE DI ALESIA. OLIO DI LIONEL-NOËL ROYER. 1899. MUSÉE CROZATIER, LE PUY-EN-VELAY.


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LA RESA DAVANTI AL VINCITORE LA SCENA DELLA RESA di Vercingetorige,

BRIDGEMAN / ACI

più volte evocata in pittura, compare in almeno tre fonti storiche. La più concisa è quella del De bello gallico dello stesso Giulio Cesare, che si limita a riferire come, mentre lui è seduto, «viene consegnato Vercingetorige, vengono gettate le armi». Dal canto suo, Plutarco immagina una scena più drammatica, raccontando che Vercingetorige, «che aveva diretto tutta la guerra, indossò le sue armi migliori, bardò il cavallo e uscì di gran carriera dal campo; compì un giro attorno a Cesare seduto e poi, sceso da cavallo, gettò le armi, si sedette ai piedi di Cesare e rimase immobile finché fu dato da custodire per il trionfo». Cassio Dione scrive che Vercingetorige confidava nel perdono e «gli comparve all’improvviso davanti, mentre quello era seduto sul suo scranno, tanto che alcuni ne rimasero impressionati; era, tra l’altro, imponente e si stagliava nello splendore delle sue armi».Floro, invece, racconta che quando giunse all’accampamento, Vercingetorige si prostrò davanti a Cesare e porgendogli il cavallo e i suoi armamenti disse: «Prendi. Hai sconfitto un uomo forte, o [Cesare] uomo fortissimo». DENARIO D’ARGENTO FATTO CONIARE DA GIULIO CESARE, SUL CUI ROVESCIO COMPARE UN TROFEO COMPOSTO DA ARMI GALLICHE.


UN GALLICO PRIGIONIERO

Dopo la conquista l’oppidum di Glanum divenne un villaggio romano, e qui venne eretto un arco trionfale decorato, tra gli altri elementi, con questa scultura di un gallico in catene. Musée des Alpilles, Saint-Rémy de Provence. DEA / SCALA, FIRENZE

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Alesia, la sfida finale Malgrado ciò, Cesare si riprese ben presto dalla sconfitta di Gergovia e poco dopo forzò Vercingetorige a trovare riparo in Borgogna, nel territorio dei mandubi. Qui si ergeva una roccaforte apparentemente inespugnabile: Alesia. Si era giunti così all’ultimo atto della sfida tra Cesare e Vercingetorige. Le otto legioni agli ordini del proconsole costruirono un sistema fortificato intorno all’altura su cui sorgeva la città: in tutto sorsero otto campi fortificati e ventitré minori, un vallo rivolto verso la città, di 16,5 chilometri di circonferenza e un altro verso la pianura circostante, di ventuno chilometri. Nel territorio adiacente erano inoltre disposte cinque successive linee di sbarramento, con rami appuntiti fissati a terra, pali piantati in buche nascoste, pioli muniti di uncini in ferro. Dopo varie scaramucce un esercito di soccorso di 250mila galli, condotto da Vercassivellauno, cugino di Vercingetorige, piombò addosso alla cinta esterna, mentre il re arverno mandò contemporaneamente all’attacco i suoi dalla città; i romani si ritrovano pertanto assediati a loro volta. Ma nel corso di una notte di accaniti combattimenti, anche grazie al mancato coordinamento tra i due fronti di attacco, Cesare

riuscì a respingere gli assalitori dall’esterno. La sconfitta dello sterminato esercito di soccorso indusse Vercingetorige alla resa. Memorabile la scena, immortalata in tanti dipinti, raffigurante il capo arverno che fa un giro al galoppo intorno al condottiero, che lo fissa assiso sulla sua sedia curule (sedile pieghevole ornato d’avorio, simbolo del potere giudiziario), quindi scende da cavallo e si toglie l’armatura, gettandola ai piedi del vincitore per poi sedersi accanto a lui, per terra. Il suo esempio avrebbe dato ai galli la forza di resistere altri due anni, fino alla resa della città di Uxelludunum, l’ultimo nucleo d’irriducibili cui Cesare, dopo averla conquistata, fece mozzare le mani per spegnere ogni ulteriore velleità di resistenza. Vercingetorige avrebbe passato gli anni successivi in prigionia, nel Carcere Mamertino a Roma, senza più far parlare di sé. Verso di lui, Cesare non adottò la proverbiale clementia Caesaris, mostrandosi piuttosto ingeneroso: in fin dei conti, il capo gallico era stato un nemico leale e valoroso, permettendogli di scrivere alcune delle pagine più belle della sua carriera di condottiero, nonché di cronista. Attese solo di esibirlo nel proprio trionfo, che si tenne sei anni dopo Alesia, prima di farlo strangolare. Anche se la sua parabola è stata piuttosto breve, Vercingetorige rimane uno dei più brillanti e tenaci nemici dei romani. Forse non creò ai capitolini le grane di cui furono capaci personaggi come Annibale, Viriato, Spartaco o Mitridate VI Eupatore, ma la sua epopea lo rende comunque degno di occupare un posto di primo piano al pari di Giugurta, Budicca, Filippo V di Macedonia, Cleopatra, Arminio, Alarico o Attila. ANDREA FREDIANI STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Vercingetorige Giuseppe Zecchini. Laterza, Roma-Bari, 2002. Storia della Francia Marc Ferro. Bompiani, Milano, 2013. FUMETTI

Vercingetorige Eric Adam, Didier Convard. Mondadori, Milano, 2017. Asterix e la figlia di Vercingetorige Jean-Yves Ferri, Didier Conrad. Panini, Modena, 2019.

BRIDGEMAN / ACI

sia prendere delle decisioni; e quasi non lasciava passare giorno senza saggiare con un combattimento di cavalleria, nel quale inseriva gli arcieri, il coraggio e il valore di ognuno dei suoi». Cesare si predispose all’assedio, ma quando tentò l’assalto alle mura gli andò male e dovette ritirarsi dopo aver perso settecento uomini, tra i quali ben quarantasei centurioni. La vittoria rafforzò ulteriormente il prestigio di Vercingetorige, la cui leadership fu confermata in un’assemblea generale gallica a Bibracte, e sottrasse perfino gli edui alla causa romana.


L’EROE DELLE GALLIE

In modo leggermente idealizzato l’olio rappresenta Vercingetorige mentre arringa i galli ad Alesia. François-Émile Ehrmann. XIX secolo. Musée d’Art RogerQuiliot, Clermont-Ferrand.


ino al XIX secolo la figura di Vercingetorige non venne tenuta in particolare considerazione. L’arverno era ricordato in maniera superficiale come uno dei capi vinti dal grande generale romano Cesare durante le campagne di conquista delle Gallie. Divenne popolare in Francia solo nel XIX secolo e, soprattutto, nel Secondo impero (1852-1870). Napoleone III in persona promosse delle ricerche archeologiche sul passato gallico, e a tale scopo fondò nel 1858 la Commission de topographie des Gaules, che avrebbe realizzato scavi nei tre principali siti delle guerre galliche: Bibracte, Gergovia e Alesia. In quest’ultimo luogo Napoleone III fece erigere una grande statua di Vercingetorige, opera di Aimé Millet. Venne collocata su un piedistallo alto sette metri disegnato dall’architetto Viollet-le-Duc. Tuttavia l’imperatore francese non era un convinto ammiratore del capo gallico. O almeno non lo riteneva all’altezza di Giulio Cesare, il suo idolo, su cui scrisse una storia in due volumi pubblicata nel 1865. Agli occhi di Napoleone III, la lotta di Vercingetorige era stata sì eroica, ma la sconfitta si era dimostrata necessaria perché Roma portasse la civiltà in Gallia. Come riferiva nel libro, «nell’onorare la memoria di Vercingetorige non dobbiamo lamentarne la sconfitta. Ammiriamo l’ardente e sincero amore di questo capo gallo per l’indipendenza della sua nazione, ma non dimentichiamo che dobbiamo la nostra civiltà al trionfo degli eserciti romani».

MEMORIA DI UN EROE SCONFITTO


NAPOLEONE III BONAPARTE, IMPERATORE DELLA FRANCIA. OLIO DI ALEXANDRE CABANEL. COMPIÈGNE.

VERCINGETORIGE. STATUA DI AIMÉ MILLET ESPOSTA NEL 1865 NEL PALAIS DE L’INDUSTRIE DI PARIGI PRIMA CHE VENISSE SPOSTATA NEL PRESUNTO SITO DI ALESIA.

MÉDIATHÈQUE DU PATRIMOINE / RMN-GRAND PALAIS AKG / ALBUM


GUERRA SANTA IN MEDIO ORIENTE

LA PRESA DI  GERUSALEMME Delle otto crociate contro l’islam, la prima fu l’unica a conquistare Gerusalemme al termine di una violenta spedizione durata tre anni

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LA CONQUISTA DI GERUSALEMME

In questa tela il pittore francese Émile Signol ricostruisce la presa della città da parte dei crociati: Goffredo di Buglione ringrazia Dio davanti a Pietro l’Eremita. 1847. Reggia di Versailles. WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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LA META DEI CROCIATI

Questa mappa di Gerusalemme risalente al 1170 mostra la città ai tempi delle crociate. Università ebraica di Gerusalemme. DIO LO VUOLE!

N

el 1095, durante il concilio che si svolse nella città francese di Clermont, papa Urbano II chiamò alla guerra santa contro i musulmani che minacciavano d’impossessarsi dell’ormai esausto impero bizantino. Lo scopo di tale guerra non era solo aiutare Costantinopoli, ma soprattutto conquistare i “luoghi santi” dove Gesù aveva vissuto e predicato, e che allora erano sotto il controllo del califfato fatimide d’Egitto. La più importante di queste località simboliche era Gerusalemme, teatro della passione e della morte di Cristo. Una moltitudine di nobili, avventurieri ed ecclesiastici desiderosi di ricompense materiali e spirituali

rispose all’appello del pontefice. Cominciava la Prima crociata. All’inizio del 1097 le truppe cristiane raggiunsero la capitale dell’impero bizantino, dove ricevettero approvvigionamenti. Di lì passarono in Asia Minore e proseguirono la loro marcia conquistando Nicea, Antiochia e altre località della zona, e infliggendo varie sconfitte ai turchi selgiuchidi che controllavano la regione. Le città che non si arrendevano venivano rase al suolo, e i loro abitanti sterminati come punizione per aver osato opporsi. Alla guida di questa spedizione intrapresa in nome di Dio c’erano Goffredo di Buglione, duca della Bassa Lorena; Boemondo I d’Altavilla, che capitanava i normanni dell’Italia meridionale;

Estate 1096 UNA CROCIATA DI TRE ANNI

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UNA CONFUSA MASSA

di cavalieri e gente di umili origini guidata dalla nobiltà marcia verso Costantinopoli, con l’intenzione di prendere i luoghi santi.

BRIDGEMAN / ACI

SCALA, FIRENZE

Papa Urbano II presiede il concilio di Clermont dove il 27 novembre 1095 invoca lo sterminio della «vile razza» turca.

Primavera 1097

7 giugno 1099

I CROCIATI avanzano verso

AL TERMINE di una marcia

sud sconfiggendo i turchi, ma le avversità del percorso, i combattimenti e le rivalità tra i principi causano ingenti perdite di vite umane.

estenuante, i crociati arrivano a Gerusalemme. Sei giorni più tardi il loro primo assalto viene respinto e l’impresa sembra destinata al fallimento.


15 luglio 1099 GRAZIE AI RIFORNIMENTI

ricevuti via mare e alla costruzione di due torri d’assedio, i crociati entrano a Gerusalemme e compiono un massacro.

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I LUOGHI SANTI

La cupola della Roccia e la moschea al-Aqsa si trovano sulla spianata delle Moschee, che gli ebrei chiamano il monte del Tempio. Qui infatti sorgeva il secondo tempio di Gerusalemme. EDGAR BULLON / ALAMY / ACI

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GERUSALEMME PRIMA  DELLA CROCIATA rima dell’arrivo dei crociati, Gerusalemme non era stata certo un’oasi di pace. Alla fine del X secolo la città (che i musulmani chiamano al-Quds, “la santa”) era in mano ai califfi fatimidi d’Egitto, di confessione sciita. Nel 996 salì al trono del califfato al-Hakim, un personaggio spesso in preda ad attacchi di rabbia, crudeltà e fanatismo. Nel 1009 questi ordinò la distruzione dei santuari cristiani a Gerusalemme, compresa la chiesa del Santo Sepolcro. Anche la sinagoga della città santa sarebbe stata profana-

ta. In seguito il califfo si dichiarò un’incarnazione di Dio e prese provvedimenti contro i musulmani che non lo riconoscevano come tale. Dopo la sua morte, avvenuta nel 1021, Gerusalemme attraversò un breve periodo di pace, a cui seguirono le rivolte dei beduini e un forte terremoto che nel 1033 distrusse la moschea al-Aqsa. L’imperatore Costantino IX elargì dei fondi per la ricostruzione della chiesa del Santo Sepolcro e raggiunse un accordo con il governatore fatimide, che stava riparando le mura della città: Costantino avrebbe


pagato una parte dei lavori a condizione che solo i cristiani vivessero nella zona corrispondente e potessero formare una propria comunità. I cristiani armeni acquisirono una chiesa sul monte Sion e si riunirono anch’essi in un loro quartiere. Nel 1071 i turchi selgiuchidi, di fede sunnita, sottrassero la Terra Santa al dominio egiziano e nel 1073 occuparono Gerusalemme. Mantennero un’attitudine conciliante: non saccheggiarono la città e misero delle guardie a protezione dei templi delle differenti confessioni. Ma quando nel 1077 i sostenitori dei fatimidi si ribellarono, i turchi misero da parte ogni compassione e sterminarono tremila abitanti. I fatimidi riconquistarono Gerusalemme nell’agosto del 1098, dopo un assedio durato sei mesi. Solo dieci mesi più tardi i crociati comparvero davanti alle mura della città.

CORTIGIANO FATIMIDE

I fatimidi d’Egitto contesero ai turchi selgiuchidi il dominio di Gerusalemme. Figura di rame prodotta in Egitto. X-XII secolo. WERNER FORMAN / GTRES

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UN CAMMINO COSPARSO  DI ATROCITÀ

e il conte Raimondo IV di Tolosa, capo delle truppe della Provenza. La marcia dei crociati fu estenuante, ai limiti della tortura, a causa della mancanza di viveri e di acqua, e del calore insopportabile che le armature dei soldati aumentavano a dismisura. Per dare un’idea delle difficoltà del tragitto, va ricordato che dei 60mila crociati (circa settemila cavalieri e il resto fanti) partiti da Costantinopoli solo 15mila arrivarono a Gerusalemme due anni e mezzo più tardi. Le diserzioni, le morti in combattimento, la fame (non mancarono gli episodi di cannibalismo), la sete e le malattie indebolirono sempre più le truppe cristiane, che per di più erano testimoni delle rivalità tra i loro principi. La perseveranza dei crociati può essere spiegata solo dall’aura leggendaria che il cristianesimo aveva costruito attorno a Gerusalemme: partecipare alla conquista della “città santa” era considerata la più grande impresa materiale e spirituale a

Il nome significa “la più lontana”. Secondo la tradizione, Maometto orientò la preghiera verso di essa, prima di volgerla verso La Mecca per ordine divino.

cui un cristiano potesse aspirare. Le sofferenze e gli ostacoli incontrati lungo il percorso erano delle occasioni per mettere alla prova la propria fede e la propria forza spirituale, delle difficoltà che potevano essere superate grazie all’aiuto di Dio. La durezza delle esperienze vissute contribuì probabilmente a inoculare nei crociati un fanatismo religioso cieco.

L’avanzata cristiana La marcia dei crociati verso Gerusalemme non può essere spiegata senza tenere conto della crisi che stava attraversando in quel periodo il sultanato fatimide, il cui centro di potere era Il Cairo. I guerrieri cristiani si muovevano in un territorio oggetto delle mire espansionistiche dei selgiuchidi. Per difendersi da questi ultimi, i fatimidi chiesero spesso aiuto ai crociati, offrendosi di ricompensare ogni eventuale collaborazione con favori e ricchezze. Ma ormai quei pellegrini bellicosi e fanatici non erano più disposti ad alcun compromesso. Così proseguirono la loro offensiva lungo la costa, verso sud, attraverso gli odierni Libano e Israele, dove ricevettero un certo sostegno

CALICE DELL’XI SECOLO. A GERUSALEMME C’ERANO CRISTIANI ROMANI, ORTODOSSI, SIRIANI E ARMENI.

BRIDGEMAN / ACI

PIERRE WITT / GTRES

IL MASSACRO DI ANTIOCHIA. LITOGRAFIA DI GUSTAVE DORÉ PER LA STORIA DELLE CROCIATE, DI J.-F. MICHAUD, 1877.

LA MOSCHEA AL-AQSA

BRIDGEMAN / ACI

LA STRAGE DI GERUSALEMME fu preceduta da un’altra meno conosciuta: quella della popolazione di Antiochia. I crociati entrarono nella città siriana la notte tra il 2 e il 3 giugno 1098 grazie a un traditore. Una volta dentro, la loro furia non si fermò neppure di fronte ai bambini e alle donne, indipendentemente dal loro credo religioso: massacrarono sia i musulmani sia i cristiani, dato che come molti occidentali non erano in grado di distinguere gli uni dagli altri. Nell’inverno dello stesso anno, durante l’assedio di Maarat, tra i crociati tormentati dalla fame si verificarono alcuni episodi di cannibalismo: «l nostri uomini cucinavano pagani adulti in pentola, infilzavano bambini sugli spiedi e li mangiavano arrostiti», racconta lo storico francese Raoul de Caen, che prese parte alla Prima crociata.


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I CROCIATI ASSETATI

In quest’olio del 1836 Francesco Hayez raffigura uno dei patimenti dei crociati giunti a Gerusalemme: la sete. Palazzo reale, Torino. LA TORRE DI DAVIDE

DEA / ALBUM

dai governanti locali e i rifornimenti delle navi cristiane. A quel punto le truppe crociate girarono verso l’interno, entrarono a Betlemme accolte dalle acclamazioni della popolazione cristiana e arrivarono alle porte della città santa. Era il 7 giugno del 1099. Molti soldati non riuscirono a contenere le loro emozioni e scoppiarono in lacrime.

WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

L’assedio Le mura di Gerusalemme erano solide e circondate da ampi fossati che in alcuni tratti raggiungevano i diciassette metri di larghezza e i quattro di profondità. I difensori avevano avvelenato gran parte dei pozzi esterni, portato via il bestiame, distrutto le coltivazioni e abbattuto gli alberi circostanti. Se non volevano morire di fame e di sete i crociati avrebbero dovuto conquistare la città rapidamente. Per quanto ben riforniti di CROCE DI CAVALIERE DELLA PRIMA CROCIATA. MUSÉE NATIONAL DU MOYEN AGE, PARIGI.

armi e provviste, i musulmani, probabilmente tra i tremila e i quattromila, sebbene non si conoscano le cifre esatte (le fonti musulmane parlano di un migliaio di soldati, quelle cristiane di oltre 30mila), non erano in numero sufficiente per coprire delle mura così lunghe. Consapevole della superiorità militare dei crociati, il governatore di Gerusalemme Iftikhar al-Dawla fece espellere dalla città quasi tutti i cristiani per evitare che si sollevassero a sostegno degli aggressori. Quando vennero a sapere che i musulmani rifiutavano di arrendersi, le truppe crociate si suddivisero in due schieramenti principali, uno a nord e uno a sud della città santa, e si prepararono all’assalto. La penuria di scorte idriche e alimentari spingeva il fronte cristiano ad anticipare i tempi. Un primo attacco lanciato il 13 giugno venne respinto abbastanza clamorosamente dai difensori. L’impresa sembrava condannata al fallimento, ma quattro giorni dopo la drammatica situazione volse improvvisamente a loro favore: nel vicino porto di Giaffa arrivarono alcune navi italiane cariche di viveri e guidate dal condottiero genovese Guglielmo Embriaco. Gli assedianti capirono che l’unico modo di conquistare Gerusalemme era ricorrere

JELLE VANDERWOLF / ALAMY / ACI

La cittadella dove si rifugiò il governatore fatimide di Gerusalemme dopo l’ingesso vittorioso dei crociati si trovava nel quartiere armeno della città.


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LA TORRE D’ASSEDIO,  L’ARMA PIÙ POTENTE

LA CONQUISTA DI GERUSALEMME. INCISIONE TRATTA DA HISTOIRE DE FRANCE, DI ÉMILE KELLER. 1858.

alle macchine da guerra. Procedettero quindi a smantellare le navi su cui erano giunte le scorte alimentari e con il legno ricavato costruirono vari strumenti d’assalto: scale, arieti e soprattutto due grandi torri. Per mantenere alto il morale delle truppe cristiane, alcuni dei prelati che accompagnavano la spedizione, come Pietro l’Eremita e Arnolfo di Roeux, si dedicarono a una frenetica attività religiosa. Il sacerdote Pietro Desiderio dichiarò di aver avuto una visione: se le truppe avessero digiunato per tre giorni e poi marciato a piedi nudi intorno alle mura, la città sarebbe caduta in nove giorni. L’8 luglio i crociati realizzarono la processione, che si concluse sul monte degli Ulivi e fu seguita da vari sermoni. Nel frattempo fu completata la costruzione delle macchine d’assedio. Restava da risolvere il difficile problema dei fossati che impedivano di trasportare le torri fin sotto le mura. Notte dopo notte un gruppo di crociati si dedicò

UN’AVANZATA INARRESTABILE

AKG / ALBUM

IL MEZZO IDEALE per avvicinarsi alle mura nemiche proteggendosi dai proiettili scagliati dai difensori era la torre d’assedio o torre mobile. Aveva un’altezza maggiore rispetto alle mura ed era suddivisa in vari piani collegati tra loro da scale. Nella parte anteriore c’erano delle feritoie dove si posizionavano arcieri e balestrieri. L’ultimo piano era dotato di un ponte levatoio che veniva calato sopra la merlatura e permetteva ai soldati di attaccare. Alla base della torre c’era spesso un ariete. Queste macchine da guerra avanzavano grazie a delle ruote o a dei rulli, che venivano azionati da uomini o da buoi situati all’interno della base stessa. Il legno era protetto da piastre metalliche o da pelli non conciate e bagnate, per evitare incendi. Le torri d’assedio furono utilizzate fino al 1645.

La miniatura sulla destra mostra i crociati agli ordini di Goffredo di Buglione intenti ad assaltare le mura della città santa.

a riempirli di terra, pietre, macerie, legno e qualsiasi altro materiale reperibile nelle vicinanze, mentre alcuni compagni li proteggevano da eventuali sortite dei difensori. Dall’alto dei bastioni i musulmani scagliavano di tutto (frecce, liquidi infiammabili, paglia infuocata, sabbia incandescente…) nel tentativo d’interrompere le operazioni. Ma non servì a nulla. La sera del 13 luglio i cristiani erano pronti per l’assalto. All’alba del 14 la guarnigione fatimide osservò con sgomento quegli ignoti mostri di legno, alti diversi piani e montati su ruote, approssimarsi alle mura in modo lento e inesorabile sotto la spinta degli assedianti. L’attacco finale stava per iniziare.

La conquista Le torri si avvicinavano da nord e da sud. Erano state rivestite di pelli intrise di urina (l’acqua era praticamente finita) per evitare che i difensori potessero bruciarle. L’altezza di quelle macchine avrebbe permesso agli attaccanti di saltare direttamente sulle passerelle superiori delle mura. Contemporaneamente i crociati posizionarono delle scale lungo altri tratti della cinta, una manovra diversi-

SOLDATO DI FANTERIA. PEZZO DI UNA SCACCHIERA D’AVORIO DELL’XI SECOLO.

GRANGER / ALBUM


Santo Stefano

LINEA DI ATTACCO 14-15 LUGLIO ROBERTO DI NORMANDIA E ROBERTO DI FIANDRA

GOFFREDO IA D AN A TANCREDI M DR ORFIAN N DI DI O O Porta di GOFFREDO RT ERT E Erode B B ROE RO Porta di TANCREDI Damasco

TORRE D’ASSEDIO

Porta di Giaffa

Santa Maria Maddalena Piscina di Betzaeta

Porta Nuova Cupola della Roccia Via Torre Quadrangolare Dolorosa Basilica del Santo Sepolcro Moschea

Cittadella (Torre di David) a iaff

Valle di Hinnom TORRE D’ASSEDIO

Porta di Sion RAIMONDO DI TOLOSA

Santa Maria del monte Sion

Piscina di Siloe

SOPRA: SCALA, FIRENZE. SOTTO: EOSGIS.COM

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aimondo di Tolosa si accampò a sud di Gerusalemme, mentre gli altri principi (Goffredo di Buglione, Tancredi di Altavilla, Roberto di Normandia e Roberto di Fiandra) si posizionarono a nord. Da est e da ovest sarebbe stato più difficile attaccare a causa dagli avvallamenti e del maggiore spessore delle mura. Il 14 luglio i crociati iniziarono a bombardare la cinta settentrionale con tre manganelle (delle specie di catapulte), costringendo i difensori a ritirarsi e approfittando dell’occasione per incendiare con delle frecce infuocate i sacchi di paglia posti a protezione dei bastioni. Nel frattempo la parte esterna della duplice muraglia cedette sotto i colpi di un enorme ariete. La breccia permise ai crociati d’introdurre la torre e posizionarla sotto le mura più interne. Una pioggia di frecce incendiarie allontanò i difensori dalle merlature, consentendo ai crociati di calare il ponte levatoio. I fratelli Litoldo e Gilberto di Tournai avanzarono lungo la passerella e furono tra i primi a entrare in città. Al-Quds era condannata.

POSIZIONI ORIGINALI GIUGNO-LUGLIO

Monte degli Ulivi

L’ASSALTO  CROCIATO

Monte Sion Monte dell’Offesa

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o sterminio degli abitanti della città santa da parte dei crociati fu pressoché totale e caratterizzato da una violenza inusitata. Raimondo di Aguilers, che aveva partecipato agli eventi, scrisse: «Alcuni pagani furono misericordiosamente decapitati, altri furono trafitti da frecce o gettati dalle torri, altri ancora furono torturati a lungo e infine bruciati in terribili roghi. Nelle case e per le strade si accumulavano mucchi di teste, mani e piedi, e i cavalieri correvano da una parte all’altra calpestando i cadaveri». Per quanto i dati siano stati esagerati o mi-

LA PRESA DI GERUSALEMME, RAPPRESENTATA SULLA PREDELLA DI UNA PALA D’ALTARE. SCUOLA FIAMMINGA. XV SECOLO. MUSEUM VOOR SCHONE KUNSTEN, GENT.

SCALA, FIRENZE

I CROCIATI  SACCHEGGIANO  GERUSALEMME

nimizzati dalla propaganda delle varie parti, secondo le stime più plausibili ci furono quasi 30mila morti, per lo più musulmani, oltre a circa duemila ebrei e ai cristiani di fede ortodossa, siriana o armena che non avevano abbandonato la città. Le fonti cristiane riconoscono l’enormità della carneficina e riportano che i pochi sopravvissuti furono costretti a raccogliere i corpi che imputridivano al suolo e ad ammucchiarli su pire funerarie poste fuori dalla città: «I morti furono bruciati su roghi alti come piramidi e solo Dio sa quanti fossero», si legge in una cronaca dell’epoca intitolata Gesta francorum. Per molti crociati si trattò di una giustificata pulizia etnica e religiosa che annunciava l’avvento di una nuova era. Ma questa esplosione di violenza accrebbe l’odio verso i cristiani tra i musulmani e gli ebrei. I primi avrebbero ripagato le brutalità subite in forme altrettanto crudeli con la guerra santa. La città tornò alla vita solo con l’arrivo dei nuovi coloni dopo la conquista.

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CAPPELLA DI SANT’ELENA

Appartenente alla comunità religiosa armena, è situata al livello inferiore della basilica del Santo Sepolcro. La cappella attuale fu costruita nel XII secolo su un edificio precedente. GOFFREDO DI BUGLIONE

Con la corona del sovrano di Gerusalemme sul capo, il nobile crociato guida l’attacco alla città da una torre. Miniatura del XIV secolo.

WHITE IMAGES / SCALA, FIRENZE

Il massacro La violenta irruzione dei crociati costrinse i difensori a ritirarsi nell’area della cupola della Roccia. Ma quell’orda inferocita in cui si mescolavano cavalieri, pellegrini e cristiani espulsi in precedenza dalla città, si riversò per le strade di Gerusalemme massacrando la popolazione. L’aria era satura del fumo degli incendi e del cupo risuonare delle imprecazioni e delle urla di terrore. Alcuni musulmani tentarono di rifugiarsi nella moschea al-Aqsa, ma nessuno fu risparmiato, nemmeno le donne, i bambini o gli anziani. Secondo alcune testimonianze cristiane, all’interno del santuario il sangue arrivava alle caviglie. Tutto questo avveniva con la 88 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

benedizione dei sacerdoti e dei comandanti crociati. Analogamente, gli ebrei che cercarono riparo nella sinagoga furono arsi vivi tra le grida di esultanza, le preghiere e i canti religiosi dei loro carnefici. Al calare della notte ogni resistenza era cessata, ma per due giorni ancora i crociati imperversarono casa per casa, violentando, saccheggiando e uccidendo. Solo il governatore Iftikhar al-Dawla riuscì a salvarsi, rifugiandosi nella torre di Davide con le sue guardie e trattando la resa in cambio di tutte le sue ricchezze. Alcuni sopravvissero nascondendosi tra la folla, altri furono risparmiati solo per essere ridotti in schiavitù. Al termine della carneficina, i vincitori marciarono in processione verso la chiesa del Santo Sepolcro in segno di ringraziamento. Meno di un secolo più tardi Saladino avrebbe posto fine al sogno di una Gerusalemme cristiana. JUAN CARLOS LOSADA STORICO

Per saperne di più

SAGGI

Benedette guerre. Crociate e jihad Alessandro Barbero. Laterza, Roma-Bari, 2015. L’ invenzione delle crociate Christopher Tyerman. Einaudi, Torino, 2000.

EFESENKO / ALAMY / ACI

va che mirava a tenere lontani i difensori dai veri punti di attacco. All’alba del 15 giugno la torre nord, sotto il controllo di Goffredo di Buglione, fece calare il ponte levatoio sulle merlature nemiche. Un manipolo di uomini si sparpagliò lungo le mura facendo strage di avversari e poi aprì le porte della città per i propri correligionari. La torre sud, di competenza di Raimondo IV di Tolosa, rimase incastrata nel fossato, ma servì a distrarre un’ampia parte della guarnigione musulmana.


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IL CENTRO DELL’IMPERO

Un serpente piumato emerge sulla spianata del tempio Maggiore di Tenochtitlan, il principale luogo di culto della capitale. Il tempio era dedicato a Tlaloc, dio della pioggia, e Huitzilopochtli, dio della guerra e suprema divinità dei mexica. KENNETH GARRETT


CONQU IS TE E A LLE A NZE

L’IMPERO AZTECO Tra il 1325 e il 1521 i mexica, come si definivano essi stessi, o aztechi (dal nome del loro mitologico luogo d’origine, Aztlan), costruirono un poderoso impero attorno alla capitale, Tenochtitlan


HUAXTECHI Oxitipan

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DAGLI ORTI / AURIMAGES

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L’IMPERO AZTECO CARTOGRAFIA: EOSGIS.COM

La nascita di un impero

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TENOCHTITLAN Huexotzinco Telolcapan

ll’inizio della conquista del Messico, quando Hernán Cortés chiedeva agli indigeni dove poteva trovare più oro, questi rispondevano di solito con due parole: «Colhua» e «Moctezuma». Il primo termine si riferiva alla denominazione“ufficiale”dell’impero colhua-mexica, da cui avrebbe preso il nome uno dei primi siti fondati dagli spagnoli nell’attuale Messico: San Juan de Ulúa. La seconda espressione si riferiva a Motecuhzoma Xocoyotzin, l’imperatore che fece entrare gli spagnoli nella capitale imperiale, Tenochtitlan.

La storia dei principali protagonisti dell’impero mexica è un buon esempio di propaganda a lungo termine: la maggior parte della documentazione giunta fino a oggi fu prodotta dagli stessi aztechi, descritti come il popolo predestinato che fu capace di conquistare il potere in Mesoamerica (la vasta regione storica che comprende il Messico e gran parte dell’America centrale) dopo un’inarrestabile espansione. La storia dei mexica iniziò in una terra chiamata Aztlan che gli archeologi non hanno ancora identificato. Di lì, al termine di un lungo pellegrinaggio, gli aztechi arrivarono presso le sponde del lago Texcoco, nella valle del Messico, dove si stabilirono sotto l’autorità del signore della città di Azcapotzalco. Lo

TLACOPAN

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UN’AQUILA SU UN FICO D’INDIA MOSTRA AI MEXICA DOVE FONDARE TENOCHTITLAN SECONDO LA VOLONTÀ DI HUITZILOPOCHTLI. CODICE MENDOZA.

Tula

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L’espansione dei mexica (o aztechi) mirava a controllare le aree produttrici di materie prime e le rotte commerciali, anche se la religione ebbe un ruolo fondamentale nella crescita dei loro domini, in quanto il mantenimento dell’ordine cosmico richiedeva costanti sacrifici umani.

1325

1428

In questo periodo i mexica fondano Tenochtitlan su un’isola del lago Texcoco. La città diventerà la capitale del loro futuro impero.

Le città di Tenochtitlan, Texcoco e Tlacopan sconfiggono Azcapotzalco. Unite nella Triplice alleanza, le tre iniziano la loro espansione territoriale.


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Impero azteco nel 1502 Conquiste di Moctezuma II Triplice alleanza Guarnigioni azteche

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1440

1486

1502

1519

Moctezuma I viene eletto huey tlatoani (letteralmente, oratore), ovvero governante dei mexica. Hanno inizio le “guerre dei fiori” contro Tlaxcala e Huexotzingo.

Ahuitzotl assume la carica di tlatoani. Sarà l’artefice dell’espansione militare di Tenochtitlan; sotto di lui, gli eserciti mexica raggiungeranno il territorio dell’attuale Guatemala.

Dopo la morte di Ahuitzotl, i nobili eleggono nuovo tlatoani Moctezuma II, con il quale l’impero mexica raggiungerà la sua massima estensione.

Sbarca a Veracruz Hernán Cortés, che si allea con i totonachi e altri popoli per sconfiggere gli aztechi. Nel 1520 viene imprigionato Moctezuma II, che muore in cattività.


servirono come mercenari in una lunga serie di guerre, guadagnandosi una temibile reputazione per la ferocia che li contraddistingueva in combattimento. Intorno al 1325 i mexica fondarono la loro città: Tenochtitlan. Pur continuando a prosperare, rimanevano soggetti al dominio di Azcapotzalco, come succedeva ad altre città tra cui Texcoco. Ma all’inizio del XV secolo la morte di Tezozómoc aprì un periodo di conflitti per la successione che si concluse con la fine del dominio di Azcapotzalco e la nascita della Triplice alleanza (1428), un impero formato da Tenochtitlan, Texcoco e Tlacopan. All’inizio Texcoco e Tenochtitlan erano praticamente allo stesso livello gerarchico, mentre Tlacopan era in posizione subordinata. Ma con il tempo il potere di Tenochtitlan aumentò tanto che, quando all’inizio del XVI secolo arrivarono gli spagnoli, il governante mexica Motecuhzoma Xocoyotzin (Moctezuma II) era la figura più importante della federazione. Per questo si parla comunemente d’impero mexica o azteco, ma sarebbe più appropriato riferirsi alla Triplice alleanza.

Il potere dei mexica

I mexica servirono i signori di Azcapotzalco come mercenari, guadagnandosi una reputazione per la loro ferocia in combattimento 94 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

DAGLI ORTI / AURIMAGES

Nei primi anni dell’impero i tre alleati dovettero “convincere” i popoli in precedenza sottomessi all’ormai sconfitta Azcapotzalco che non si erano emancipati, ma avevano semplicemente cambiato padroni. Alcuni accettarono volentieri questa nuova situazione, mentre altri dovettero essere piegati con la forza. Certe città-stato, come Chalco, furono assoggettate solo dopo molti anni. L’impero cominciò a inglobare zone distanti dalla capitale solo in seguito alla grande carestia che colpì la valle del Messico tra il 1450 e il 1454. Ciò indica che la ragione principale dell’espansione fu la necessità di controllare un maggior numero di aree di produzione alimentare. Il ritmo delle conquiste subì un’accelerazione sotto


FONDAZIONE DI TENOCHTITLAN

Il pittore messicano José María Jara raffigura il sacerdote Cuauhtloquetzqui intento a mostrare al capo dei mexica Tenoch i pezzi di fico d’india e i resti di un serpente e di un uccello che indicavano il luogo dove fondare la città. 1889. Museo Nacional de Arte, Città del Messico.


il tlatoani, o sovrano, Axayacatl, il cui potere si estese per tutta la Mesoamerica. Ma non ci furono solo vittorie. La campagna contro l’impero tarasco si concluse con una sconfitta bruciante per l’esercito della Triplice alleanza: dei 24mila soldati che lo componevano tornarono a casa solo in quattromila. Né i mexica furono in grado di conquistare Tlaxcala. Il fallimento fu giustificato sostenendo che era meglio lasciare libera la città nemica per potere avere dei vicini con cui combattere le cosiddette“guerre dei fiori”, battaglie rituali istituite allo scopo di procurarsi prigionieri per i sacrifici umani. Non è sorprendente che Tlaxcala divenne il principale alleato di Hernán Cortés nella sua lotta contro i mexica. Ad Axayacatl successe il fratello Tízoc, che fu forse ucciso per non aver soddisfatto a pieno le esigenze di espansione dell’impero. Per molto tempo l’unico monumento conosciuto che testimonia le conquiste di un imperatore è stata proprio la pietra di Tízoc, un monolite dedicato alla sottomissione di quattordici popolazioni da parte del sovrano. In seguito è stata trovata anche una seconda pietra, quella di Motecuhzoma I o dell’Arcivescovado, di stile simile, su cui sono raffigurate altre vittorie. Probabilmente ogni tlatoani faceva creare un monumento di questo tipo. A Tízoc successe il fratello Ahuitzotl, che raggiunse il confine con l’attuale Guatemala entrando in contatto con le terre dei maya. Alla sua morte salì al potere Motecuhzoma Xocoyotzin, figlio di Axayacatl. Era lui a governare quando Cortés arrivò in Messico.

IL TEMPIO DI TLATELOLCO

Tlatelolco, un’altra città mexica, era separata da Tenochtitlan da un canale d’irrigazione. Fu indipendente fino a quando il tlatoani Axayacatl l’annesse all’impero della Triplice alleanza nel 1473. Questa città era un importante nodo commerciale e il principale mercato mexica.

La fonte principale per lo studio dell’impero colhua-mexica è il Codice Mendoza. Conservato presso la Biblioteca Bodleiana di Oxford, il documento è scritto in glifi aztechi accompagnati da testi in latino e spagnolo. La prima parte presenta le conquiste di ogni sovrano azteco, mentre la seconda elenca i tributi versati a Motecuhzoma da ciascuna provincia assoggettata. Il codice ha spinto molti studiosi a ipotizzare che i mexica controllassero un impero tributario, cioè un gruppo di territori sottomessi con le armi e tenuti al pagamento di un’imposta ai loro signori. Ora si sa invece che questa era solo una parte della realtà, perché 96 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

CAVAN / ALAMY / ACI

L’organizzazione dell’impero



PIRAMIDE DI EHÉCATL

Questo monumento circolare dedicato al dio del vento si trova a Calixtlahuaca, città dei mallatzinca che si sollevò contro il dominio azteco sia ai tempi del tlatoani Tízoc sia all’epoca di Moctezuma II. CAVAN / ALAMY / ACI



LA CRONACA IN PIETRA DI TÍZOC

alcune zone erano state integrate nell’impero non attraverso la conquista militare, bensì tramite alleanze ed eredità. Il Codice Mendoza testimonia l’esistenza di governatori e di altri funzionari conosciuti con il nome nahuatl di calpixqui, tradotto di solito con “maggiordomo”, perché letteralmente significa “colui che si prende cura della casa”. In ogni grande località citata nel testo c’era un calpixqui, ma le città che non versavano tributi in natura avevano anche un governatore. L’impero non era in realtà un sistema territoriale, ma signorile: a essere conquistate non erano tanto le città, quanto i signori locali, che una volta sottomessi entravano a far parte dell’amministrazione dell’impero. Se qualcuno di loro opponeva resistenza veniva sostituito da un parente stretto più accomodante; i candidati non mancavano mai.

IL MUSEO NAZIONALE DI ANTROPOLOGIA

di Città del Messico conserva un imponente blocco circolare di andesite di 94 cm di altezza, 265 cm di diametro e un peso di quasi 9,5 tonnellate. Sulla faccia superiore, visibile qui sotto, è scolpita una rappresentazione del sole, mentre nella parte laterale (a destra) ci sono 15 scene che rappresentano il tlatoani mexica Tízoc, vestito come il dio Tezcatlipoca, intento ad afferrare per i capelli un guerriero su cui appare il glifo di una città. Si tratta infatti di un monumento celebrativo delle conquiste di Tízoc, che guidò l’impero colhua-mexica tra il 1481 e il 1486. Una fascia con simboli stellari delimita la parte superiore delle scene, mentre un’altra fascia con l’immagine del mostro della terra circonda la base del monumento.

Signori e parenti Alla morte di ogni signore si apriva il momento chiave della successione. Ogni candidato cercava di procurarsi dei sostenitori, e alla fine riusciva a imporsi chi ne aveva di più. All’epoca in cui arrivarono gli spagnoli ogni signore locale doveva poter contare sull’appoggio di Motecuhzoma. Il modo più comune di ottenere tale appoggio erano le alleanze matrimoniali. Di fatto le unioni tra le élite locali costituirono la spina dorsale del sistema politico mesoamericano. Matrimoni vantaggiosi consentivano il mantenimento del potere anche nella generazione successiva. Spesso i coniugi erano cugini ed erano sempre imparentati con i governanti del luogo dove si stabilivano, il che ne facilitava l’accettazione, dato che entravano a far parte di un’unica famiglia. Questo sistema faceva sì che un pretendente al trono locale fosse spesso imparentato con il signore di Tenochtitlan. I problemi sorgevano quando diversi candidati erano legati al sovrano ed era lui a dover scegliere. Poco prima

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ILLUSTRAZIONE: UIG / ALBUM. FOTOS: ALAMY / ACI

I matrimoni tra signori di località diverse costituirono la spina dorsale del sistema politico dell’impero mexica

Tochpan

Ahuilizapan

Huexotzinco


UN ALTARE SACRIFICALE?

Sebbene molti considerino la pietra di Tízoc un monumento commemorativo, si è ipotizzato che potesse trattarsi di un temalacatl, ovvero la base su cui venivano legati i prigionieri destinati al sacrificio gladiatorio. Il rito prevedeva che la vittima affrontasse con armi spuntate quattro esperti guerrieri. Secondo un’altra teoria potrebbe essere un cuauhxicalli, o altare sacrificale, dove si offrivano i cuori delle vittime.

Colhuacan

Tenayuca

Xochimilco

Chalco


Morte di Moquihuix Dopo essere stato sconfitto da Axayacatzin, il signore di Tlatelolco si rifugiò nel tempio della sua città e si suicidò gettandosi dalla sommità dell’edificio.

dell’arrivo di Cortés si verificò proprio una situazione simile. Alla morte di Nezahualpilli, signore della seconda città più importante dell’impero, Texcoco, si fecero avanti tre pretendenti le cui madri appartenevano all’aristocrazia di Tenochtitlan. Motecuhzoma si schierò al fianco di uno di questi tre, Cacamatzin, e gli altri due non la presero bene. Ma il sovrano riuscì a mantenerli tranquilli per un certo tempo. Nel 1520, alla morte di Cacamatzin, Motecuhzoma appoggiò Cohuanacochtzin, ma il terzo pretendente, Ixtlilxochitl, non accettò la decisione e decise di schierarsi a fianco di Hernán Cortés, grazie al quale divenne signore di Texcoco. Le cose funzionavano allo stesso modo anche nelle altri parti dell’impero, cosicché il sistema signorile generò ciò che l’antropologo Pedro Carrasco ha definito una «sovrapposizione di poteri»: in una stessa località potevano esserci signori che erano sudditi di Tenochtitlan, altri di Texcoco e altri ancora di Tlacopan.

Axayacatzin Il tlatoani appare avvolto in un tilmàtli (abito) bianco e con un diadema blu sul capo. Sopra di lui è visibile il glifo del suo nome, “colui che indossa la maschera di acqua”.

L’economia dell’impero

JOSÉ LUIS DE ROJAS UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID

Per saperne di più

SAGGI

La civiltà azteca George C. Vaillant. Einaudi, Torino, 1997. Gli aztechi Nigel Davies. Editori Riuniti, Roma, 1999.

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Città conquistata È rappresentata con un tempio bruciato e distrutto alla destra del glifo, che ne indica il nome. Qui la città di Ocoyacac viene simboleggiata da un pino.

FOTO: BODLEIAN LIBRARIES / DAGLI ORTI / AURIMAGES

L’impero non si nutriva solo di tributi. Il commercio era molto sviluppato, e anzi alcune regioni furono conquistate per incoraggiare l’attività mercantile. Fornire agli abitanti di Tenochtitlan – tra i 150mila e i 300mila – le merci necessarie richiedeva una vasta rete commerciale. Prodotti di lusso come l’oro, la resina aromatica del liquidambar, il cacao e le preziose piume di alcuni uccelli come il quetzal arrivavano di solito da terre lontane. Gli alimenti, le materie prime e i tessuti provenivano invece da zone prossime alla città. Le informazioni disponibili sulle varie aree della Triplice alleanza non sono omogenee. Molta della documentazione giunta fino a noi riguarda Tenochtitlan, mentre non si sono conservati i codici tributari di Texcoco e Tlacopan. Da ciò dipende la parzialità della visione attuale dell’impero, spesso erroneamente ridotto ai territori controllati da Tenochtitlan.


LE CONQUISTE DEI MEXICA CONSERVATO NELLA Biblioteca Bodleiana di

Oxford, il Codice Mendoza fu commissionato poco dopo la conquista da parte di Antonio de Mendoza, il primo viceré della Nuova Spagna, affinché l’imperatore Carlo V potesse conoscere la storia dei mexica. È l’opera di un tlacuilo (scriba) e utilizza i glifi aztechi. Per consentire al sovrano di comprendere il testo, un sacerdote che conosceva il nahuatl, la lingua degli aztechi, scrisse una spiegazione in spagnolo. La prima parte del codice è un elenco dei tlatoani di Tenochtitlan e delle città da essi sottomesse. Qui vediamo le due pagine che corrispondono al sesto tlatoani, Axayacatzin (1469-1482), dove sono rappresentate tutte le 37 città da lui conquistate.


RAPPORTO DEI TRIBUTI PER I MEXICA

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la seconda parte del Codice Mendoza riporta i tributi che più di 400 città dovettero versare a Motecuhzoma Xocoyotzin, governante di Tenochtitlan tra il 1502 e il 1520. Nelle due pagine del codice qui visibili, i glifi nella colonna di sinistra corrispondono ai nomi delle città e il resto delle immagini rappresentano i beni che queste dovevano offrire in tributo ai tlatoani, e le rispettive quantità; sopra le immagini c’è una trascrizione in spagnolo dei glifi aztechi. SCA

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CHIMALLI O SCUDO. LANDESMUSEUM WÜRTTEMBERG, CASTELLO VECCHIO DI STOCCARDA.

4

1    COPERTE In questa parte del codice sono accuratamente rappresentati i diversi tipi di coperte da consegnare («di questo tessuto», recita l’iscrizione sulle immagini), con colori e motivi specifici.

2    PIUME

DI QUETZAL

Le lunghe e luminose piume della coda di questo uccello, simbolo di abbondanza, fertilità e vita, erano molto apprezzate. Venivano utilizzate per realizzare copricapi cerimoniali, stendardi e tanto altro.

3    LIQUIDAMBAR La resina di questo albero aveva un uso rituale – i mexica infatti la bruciavano durante le loro cerimonie – e un uso terapeutico, in quanto si utilizzava ad esempio per curare la scabbia. E PIETRE PREZIOSE

Oltre alla polvere d’oro e ai gioielli come le collane e i bracciali qui rappresentati, vengono richiesti anche fili di chalchihuitl, pietre preziose o semipreziose come la giada o lo smeraldo, rappresentate in verde.

5    ABITI

E SCUDI

Tra le merci richieste figurano il chimalli, lo scudo di legno ricoperto di pelle e piume, e il tlahuiztli, l’abito da battaglia che veniva indossato sopra un’armatura di cotone, così come i copricapi da guerra con piume.

FOTO: BODLEIAN LIBRARIES / DAGLI ORTI / AURIMAGES

4    ORO

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V E R I TÀ E M I TO D I U N A P R I N C I P E S S A I N D I AN A

POCAHONTAS Figlia del capo degli indiani powhatan, Pocahontas ebbe un ruolo di primo piano nelle relazioni del suo popolo con gli europei che nel 1607 fondarono la colonia di Jamestown, in Virginia

PRINCIPESSA POWHATAN

A destra, Pocahontas in una litografia di William Langdon Kihn. XX secolo. Sopra, il mantello del padre di Pocahontas, Wahunsenacawh (o Powhatan), costituito da quattro pelli d’alce e decorato con conchiglie. BRIDGEMAN / ACI


BRIDGEMAN / ACI STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

107


C R O N O LO G I A

Nativi e inglesi in Virginia 1607

Un centinaio d’inglesi fonda la colonia di Jamestown in una penisola sul fiume James, nella terra degli indiani powhatan.

1610

Scoppia la prima guerra tra inglesi e powhatan, caratterizzata da un susseguirsi d’incursioni europee e agguati indiani.

1613

Gli inglesi catturano Pocahontas, figlia del leader dei powhatan, Wahunsenacawh. La giovane si converte all’anglicanesimo.

1614

Il matrimonio di Pocahontas con il colono inglese John Rolfe pone fine alla Prima guerra anglo-powhatan.

1616

Pocahontas segue il marito in Inghilterra, dove viene ricevuta due volte dal re Giacomo I. Muore l’anno successivo a Gravesend.

1622-1629

Scoppia la Seconda guerra anglo-powhatan. I nativi sono guidati da Opechancanough, zio di Pocahontas.

1646

Al termine della Terza guerra anglo-powhatan si cerca di stabilire un chiaro confine tra gli indiani e i coloni europei.

108 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

C

onosciuta anche come Matoaka, Amonute e Rebecca, la I coloni inglesi donna powhatan ricordata ogfondarono gi come Pocahontas visse poJamestown sulle co più di una ventina d’anni, rive del fiume ma la sua influenza si estese da WerowocoJames, a più di 50 km dall’oceano, moco, nell’attuale Virginia (Stati Uniti), alla per proteggersi da Gran Bretagna, dove è sepolta. Ancora più eventuali attacchi straordinaria è stata la diffusione della sua da parte degli storia, o meglio della sua leggenda, attraspagnoli. verso un’infinità di creazioni letterarie, dipinti e soprattutto film, in particolare la famosa produzione Disney uscita nel 1995. Il paradosso è che, nonostante questa enorme popolarità, la maggior parte della gente probabilmente non sa nulla della vita e delle conquiste di Pocahontas, perché il personaggio reale era molto diverso da quello mostrato ETICHETTA PER UNA SPEDIZIONE DI PRODOTTI DALL’INGHILTERRA ALLA COLONIA DI JAMESTOWN. ROBERT CLARK / NG IMAGE COLLECTION dalle narrazioni contempoMEANDRI DEL FIUME JAMES


HULTON ARCHIVE / GETTY IMAGES

ARRIVANO GLI STRANIERI GEORGE STEINMETZ / GETTY IMAGES

NELL’APRILE DEL 1607 arrivarono nella baia di Chesapeake tre

ranee. Nata intorno al 1595, Pocahontas apparteneva per via paterna ai pamunkey, una tribù della confederazione powhatan, un’alleanza di una trentina di popoli accomunati dall’appartenenza al gruppo linguistico algonchino. Il padre di Pocahontas, Wahunsenacawh (noto anche come Powhatan), era il capo della confederazione. Ecco perché la giovane era considerata una “principessa” dagli europei che avevano raggiunto l’America settentrionale. Il colono inglese John Smith, nella sua Storia generale della Virginia, del New England e delle isole Summer (1624), parla di Pocahontas in termini solitamente riservati alla nobiltà: quando la ragazza visitò l’insediamento di Jamestown per portare scorte alimentari, era accompagnata dal «suo seguito», e durante il soggiorno in Inghilterra veniva chiamata «Lady Rebecca».

navi inglesi inviate dalla Virginia Company. Per due settimane esplorarono la zona fino a che non trovarono una penisola alla foce di un fiume, un luogo paludoso e malsano ma facile da difendere. Battezzarono la colonia Jamestown, in onore di re Giacomo d’Inghilterra. COSTRUZIONE DELLA COLONIA DI JAMESTOWN NEL 1607. ILLUSTRAZIONE.

Ma tale qualifica è ben lungi dal corrispondere alla realtà dell’organizzazione sociale e politica dei popoli amerindi.

Invasori europei La vita di Pocahontas, come quella di tutto il suo popolo, cambiò radicalmente nel 1607, quando un centinaio d’inglesi giunti a bordo di tre navi fondò la colonia di Jamestown presso la foce del fiume James, in Virginia. I coloni europei speravano di trovare metalli preziosi e un passaggio diretto per raggiungere l’oceano Pacifico e l’Oriente, ma entrambi i sogni si dimostrarono vani. I nuovi arrivati dovettero affrontare una sfida molto più prosaica: coltivare la terra per sostenersi durante l’inverno. Una dram-

I coloni di Jamestown sognavano di trovare oro e argento, ma ben presto la loro unica preoccupazione divenne procurarsi del cibo BR

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IL CAPITANO JOHN SMITH

Questo marinaio di umili origini fu un personaggio decisivo nei primi anni della colonia di Jamestown. Qui sotto, ritratto anonimo del XVII secolo.


IL VILLAGGIO DOVE Nel 2003, sul terreno di una fattoria della Virginia, sono stati trovati

Ponte di pali

Bambini che giocano

Yihakan, capanne di canne con due porte, per sei persone

Cucina

Canoa fabbricata con un tronco cavo

ADRIAN NIU / NATIONAL GEOGRAPHIC IMAGE COLLECTION

Pesca con la lancia

Diga per la pesca

Nassa


CREBBE POCAHONTAS i resti di Werowocomoco, la residenza del padre di Pocahontas

Magazzino Tempio Casa del capo

Caccia al cervo

Campi Lavorazione della ceramica

Semina delle zucche Raccolta di acqua e molluschi

Raschiatura del pellame

Raccolta di canne per costruire una capanna

UNA SQUADRA DI LAVORATORI

Due indiani trasportano tributi su una canoa

Werowocomoco, “il luogo del capo”, era situato su un’altura; una piccola parete di roccia alta poco meno di otto metri lo proteggeva dal fiume. Occupava una superficie di 0,4 ettari e aveva circa un centinaio di abitanti, che dormivano nelle caratteristiche capanne chiamate yihakan. Gli uomini si dedicavano alla pesca, alla caccia e alla guerra; le donne coltivavano la terra, si prendevano cura dei bambini e cucinavano. Il villaggio aveva un’area cerimoniale, in cui si trovava la residenza di Powhatan.


SALVATO IN EXTREMIS

L’episodio del capitano John Smith prigioniero degli indiani e scampato alla morte all’ultimo momento grazie a Pocahontas divenne un’immagine simbolo delle origini degli Stati Uniti. Sopra, illustrazione del 1874.

matica carestia, che in pochi mesi costò la vita a più della metà dei coloni, spinse i sopravvissuti a rivolgersi agli indigeni per farsi rifornire di alimenti. I powhatan gli misero a disposizione quanto avevano, dalla cacciagione ai vegetali; in cambio chiedevano soprattutto rame, un metallo che usavano per fabbricare vari strumenti impiegati in attività come la caccia, e per la cui fornitura dipendevano da una tribù vicina con la quale erano in conflitto. L’arrivo di prodotti europei rappresentò per loro una buona occasione per diversificare le proprie reti commerciali e non dipendere economicamente da gruppi rivali. Ecco perché si può affermare che i coloni della Virginia e i powhatan avevano una reciproca convenienza a stabilire relazioni commerciali, seppure con una certa cautela.

Le fonti europee riferirono che Pocahontas distribuiva alimenti ai coloni rimasti senza cibo 112 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Pocahontas entrò in contatto con gli europei in questo contesto. La figlia del grande capo powhatan si abituò ben presto a trattare con i coloni che volevano stabilirsi nel territorio del suo popolo. Le fonti europee raccontano di una Pocahontas attivamente impegnata a distribuire alimenti ai coloni ormai a corto di approvvigionamenti. Ciò contribuì a rafforzare la sua aura di donna generosa e caritatevole, emblema di quei valori che in seguito gli statunitensi avrebbero considerato essenziali al proprio senso d’identità nazionale condivisa.

Ambasciatrice indigena La realtà era molto diversa. Gli inglesi faticavano a comprendere che la gestione degli alimenti fosse una responsabilità femminile presso i nativi, e quindi tendevano ad avanzare le loro richieste sempre agli uomini. Tuttavia nella società powhatan, come in molti altri gruppi, le donne ricoprivano ruoli di primo piano. Si accasavano unicamente con individui in grado di dimostrare il proprio valore;


ALAMY / ACI MARY EVANS / SCALA, FIRENZE

GLI DEI POWHATAN

un uomo incapace di provvedere a sé stesso, per esempio, non sarebbe mai stato accettato da una donna powhatan. Oltre a coltivare i campi, a preparare il cibo, a prendersi cura dei bambini, a produrre strumenti e oggetti per la casa, abbigliamento compreso, le donne si occupavano anche di costruire le case in cui viveva la comunità e navigavano le paludi in canoa. Potevano occupare posizioni di comando ed erano considerate fonti di saggezza e di autorità da diversi punti di vista. È questo fatto a spiegare il ruolo di primo piano giocato da Pocahontas nelle relazioni del suo popolo con gli inglesi, e non certo una qualche innata generosità femminile. I powhatan si aspettavano reciprocità dagli europei, ma questi non rispettavano la loro parte dell’accordo: pur accettando il cibo che gli veniva offerto, si rifiutavano di garantire ai nativi una fornitura stabile di rame. Un’altra fonte di contrasti fu la successiva espansione dell’agricoltura inglese a scapito delle terre e delle risorse indigene. Ciò

QUANDO ARRIVARONO gli inglesi, gli indiani powhatan erano circa 15mila. Vivevano in piccoli villaggi, di solito protetti da una recinzione. Credevano in un dio supremo chiamato Ahone, ma la divinità che più temevano era senza dubbio Okeus, un dio vendicativo che li minacciava con tuoni e tempeste se non veniva placato con i “giusti sacrifici”. CAPANNA DI UN VILLAGGIO POWHATAN RICOSTRUITA NEL SITO STORICO DI JAMESTOWN.

REGALI DI BUONA VOLONTÀ

Per guadagnarsi l’amicizia degli indiani e farsi offrire alimenti, i coloni inglesi gli regalavano utensili di metallo, armi oppure oggetti in vetro come quelli qui sotto. ROBERT CLARK / NG IMAGE COLLECTION

condusse a una spirale di conflitti e impedì per decine di anni agli europei di creare una colonia solida e resiliente. Pocahontas non solo assistette al deterioramento dei rapporti tra la sua tribù e i coloni, ma partecipò anche attivamente alla vita politica dei powhatan. Accompagnò il padre in due pericolose missioni diplomatiche volte a difendere gli interessi del suo popolo e, quando tra il 1610 e il 1614 i powhatan entrarono in guerra contro i nuovi arrivati, imbracciò lei stessa le armi e saccheggiò alcuni insediamenti inglesi. In altre occasioni s’incaricava personalmente di consegnare ai coloni i prodotti che erano previsti dagli accordi. La dimensione storica di Pocahontas, quindi, è ben lontana dall’immagine di eroina romantica che le viene di solito associata. Chiaramente i powhatan apprezzavano la figlia di Wahunsenacawh e si fidavano di lei, come dimostra il fatto che le fu affidato il compito di negoziare il rilascio dei prigionieri e di mantenere i rapporti tra la sua gente e i coloni tramite le distribuzioSTORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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ROBERT CLARK / NG IMAGE COLLECTION

1607

FOGLIA DI TABACCO. IL MARITO DI POCAHONTAS, ROLFE, INIZIÒ A COLTIVARE TABACCO A JAMESTOWN NEL 1612.

NG MAPS

1670

ESPULSI DALLE LORO TERRE lla fine del XVI secolo il padre di Pocahontas unificò sotto la sua egida i popoli powhatan a est della baia di Chesapeake per formare un piccolo regno chiamato Tenakomakah. I suoi 15mila abitanti vivevano in decine di villaggi, dedicandosi alla caccia, alla pesca e all’agricoltura di sussistenza. Nel 1607 un centinaio di coloni inglesi si stabilì su una penisola disabitata. Nonostante la mortalità per fame e infezioni, in soli 15 anni arrivarono dall’Inghilterra altre seimila persone. A questo flusso demografico che non smise di crescere si aggiunse l’espansione delle coltivazioni di tabacco e degli allevamenti, che in pochi decenni espulse le popolazioni indigene dalle loro terre originarie.


STORIA D’AMORE O D’ABUSI?

JOHN ROLFE E POCAHONTAS. OLIO DI JAMES W. GLASS. 1845.

ni di cibo. Probabilmente l’assegnazione di questi incarichi a Pocahontas dipende da un episodio centrale della sua vita – o della sua leggenda. Alla fine del 1607 il capo della colonia, John Smith, fu catturato dai powhatan e, come lui stesso raccontò, venne salvato da Pocahontas proprio quando stava per essere giustiziato dal padre di lei. In realtà questa presunta esecuzione andrebbe probabilmente ricollocata nel contesto del rituale powhatan di accettazione di Smith come fratello e alleato. Più che la sua salvatrice, Pocahontas forse fu semplicemente la sua guida culturale nella cerimonia locale di accoglienza degli stranieri.

Matrimonio o rapimento? Come si è detto in precedenza, Pocahontas assistette e partecipò alla guerra che tra il 1610 e il 1614 vide opporsi il suo popolo e i coloni. In qualità d’intermediaria, s’impegnò nella difesa dei termini dell’accordo commerciale tra le parti. Fu proprio lo svolgimento di questa funzione che nel 1613 portò al famoso episodio del“matrimonio”di Pocahontas con

John Rolfe, uno dei più importanti coloni di Jamestown. Un legame che, nella lettura tradizionale delle origini degli Stati Uniti, simboleggerebbe l’incontro e la fusione tra europei e nativi, ma che dalla prospettiva indigena può avere un’interpretazione differente. Le circostanze che portarono a quest’unione sono legate al conflitto armato tra indiani e inglesi scoppiato nel 1610. Nel 1613 il colono Samuel Argall s’inoltrò lungo il Potomac in cerca di grano a bordo della sua imbarcazione. Durante una sosta presso il villaggio di una tribù alleata scoprì che Pocahontas si trovava da quelle parti. Argall riuscì a farla salire a bordo della sua nave con l’inganno e la portò a Jamestown, con l’intenzione di usarla come ostaggio per costringere i powhatan a liberare sette coloni prigionieri.

GUERRIERO POWHATAN

Gli archi e le frecce dei powhatan non erano necessariamente inferiori ai moschetti dei coloni, più imprecisi e più lenti da caricare. Incisione.

SCALA, FIRENZE

BRIDGEMAN / ACI

Q

uando nel 2014 gli Stati Uniti hanno celebrato il quattrocentesimo anniversario del matrimonio di Pocahontas con Rolfe, alcuni studiosi indigeni hanno respinto l’immagine stereotipata della giovane powhatan che s’innamora del pioniere bianco. Citando William Strachey, l’amministratore coloniale di Jamestown, e la tradizione orale indigena, questi studiosi sostengono che, prima di essere catturata dagli inglesi nel 1613, Pocahontas si era unita con il figlio del capo della nazione potomac e aveva avuto un figlio da lui. Anche se non si può escludere che la donna avesse deciso di lasciare il partner per andare con Rolfe, la loro unione sembra essere l’ennesimo esempio della violenza coloniale e patriarcale ancora oggi attuale.


ALAMY / ACI

I Laydon. Questa coppia fu la prima a sposarsi nella colonia della Virginia.

Thomas Dale, governatore della colonia della Virginia nel 1611, e tra il 1614 e il 1616.

Alexander Whitaker, un sacerdote anglicano arrivato in Virginia nel 1611, battezza Pocahontas.

Pocahontas, vestita di bianco, si prepara a ricevere il battesimo secondo il rito anglicano.


IL BATTESIMO DI POCAHONTAS I Forrest. La moglie fu la prima donna ad arrivare a Jamestown, nel 1608.

el Campidoglio di Washington si può vedere un olio di grandi dimensioni (3,6 x 5,5 m), intitolato Il battesimo di Pocahontas, realizzato nel 1840 dal pittore della Virginia John Gadsby Chapman. In un edificio dall’architettura classica Pocahontas s’inginocchia davanti a un fonte battesimale, vestita di bianco e circondata da legislatori e coloni, oltre che dal fratello e da altri membri della sua famiglia. Nel dipinto la donna è raffigurata con tratti schiariti e un abito candido, che in Occidente è associato alla purezza, alla giovinezza e al ruolo di principessa.

John Rolfe, il colono che Pocahontas sposerà dopo essere stata battezzata.

L’opera di Chapman fa parte di una serie di dipinti conservati nel Campidoglio che illustra il mito fondativo degli Stati Uniti. In tal senso, il battesimo di Pocahontas rappresenta la diffusione del cristianesimo in America settentrionale e quindi la conquista spirituale dei nativi da parte degli europei, e il diritto di questi ultimi sulle terre colonizzate. Inoltre, la scelta di raffigurare una donna per simboleggiare la rinascita di un’America cristiana ricorda l’uso della figura femminile per rappresentare valori oggi apprezzati in Occidente come la giustizia, la libertà o il commercio.

Nantequaus, fratello di Pocahontas, distoglie lo sguardo in segno di rifiuto.

Una sorella di Pocahontas con un bambino piccolo in grembo.

Opachisco, zio di Pocahontas.

Opchanacanough, lo zio di Pocahontas, architetta una rivolta.

IL BATTESIMO DI POCAHONTAS. OLIO DI JOHN GADSBY CHAPMAN. 1840. ROTONDA DEL CAMPIDOGLIO, WASHINGTON.


RICEVIMENTO LONDINESE

ALBUM

Nel 1617 Pocahontas fu ricevuta da Giacomo I alla Banqueting House, una grande sala che è l’unica parte del palazzo di Whitehall ancor oggi esistente.

A Jamestown Pocahontas si convertì al cristianesimo e poco dopo sposò John Rolfe. Non si sa se acconsentì al matrimonio accettando una proposta sincera da parte dell’inglese, o se vi fu costretta in qualche modo. Alcuni studiosi ritengono che fosse stata violentata da Rolfe e forse da altri coloni, e condotta con la forza in Inghilterra, dove sarebbe poi stata esibita in una sorta di crudele spettacolo pubblico, prima di morire prematuramente di malattia o forse di avvelenamento. In assenza di documenti che confermino le nozze l’ipotesi è plausibile, soprattutto se si tiene conto del fatto che nel 1577 l’avventuriero Martin Frobisher aveva obbligato tre inuit a seguirlo in Gran Bretagna contro la loro volontà, e anch’essi erano morti in terra straniera. Vanno in ogni caso considerati i benefici che l’unione formale della figlia di un grande capo indiano con un colono inVESTITO ALLA EUROPEA. RITRATTO DI POCAHONTAS IN ABITI INGLESI, OPERA DI UN ARTISTA ANONIMO. 1616.

glese avrebbe procurato ai powhatan. Se fu volontario, il gesto di Pocahontas potrebbe essere interpretato come l’adempimento del proprio dovere nei confronti del suo popolo. L’amore è un criterio europeo e moderno per il matrimonio, non certo un riferimento per altre epoche, e la componente romantica del mito di Pocahontas è emersa solo negli ultimi due secoli.

Unione vantaggiosa Come la ragazza sapeva bene, le sue nozze avrebbero rafforzato gli obblighi reciproci in termini di relazioni commerciali e di rispetto della sovranità territoriale che i due popoli avevano concordato. Non è un caso, quindi, che quell’unione divenne nota come la “pace di Pocahontas”. Nel 1615 la coppia ebbe un figlio; un anno più tardi si trasferì in Inghilterra. La donna visitò diverse città, partecipando a ricevimenti e rappresentazioni teatrali, e diventando lei stessa uno spettacolo per il pubblico britannico. Durante tutto il 1616 i giornali inglesi


GRANGER / ALBUM

MALINCHE E SACAGAWEA POCAHONTAS NON È l’unica donna indigena la cui storia è stata

ALAMY / ACI

riscritta per assumere tonalità romantiche a beneficio dei colonizzatori europei. Si possono annoverare anche Malinalli (o Malinche), che fu la donna di Hernán Cortés durante la conquista del Messico, e Sacagawea, un’indiana shoshone che accompagnò Lewis e Clark in una spedizione nel nord-ovest degli Stati Uniti (1804-1806).

dedicarono una grande quantità di articoli alla principessa powhatan e alle sue attività, così come disegni e incisioni che ritraevano la sua immagine. È molto indicativo invece il fatto che non si scrisse nulla su Rolfe né su loro figlio Thomas. L’esotismo di Pocahontas, in quanto principessa “indiana” o “selvaggia” sposata con un plebeo, stupiva e scandalizzava coloro con cui interagiva. La Virginia Company, una società inglese che aveva ricevuto da re Giacomo I una concessione per la creazione d’insediamenti in America settentrionale, approfittò della notorietà della donna per sottolineare i progressi compiuti nella “civilizzazione” delle popolazioni indigene. Pocahontas divenne il grande emblema di una conquista culturale ricca di promesse. Analogamente, il suo matrimonio con il colono John Rolfe e il figlio avuto dai due divennero un simbolo del successo dell’attività colonizzatrice inglese. Da parte sua, la nobile powhatan continuò a spendersi a favore del suo popolo. Ritenendo che avessero ancora un certo potere sulla co-

SACAGAWEA INDICA LA ROTTA A LEWIS E CLARK. OLIO DI N. C. WYETH. 1930.

lonia della Virginia, non mancava mai di ricordare agli inglesi i loro obblighi, sebbene questi la considerassero poco più che una rarità. John Smith racconta che, quando la incontrò a un ricevimento a Plymouth, lei gli rinfacciò le promesse non mantenute dai coloni, pregandolo di costringerli a rispettare gli accordi assunti. Anche se non ci sono testimonianze degli incontri con re Giacomo, con cui si vide in due occasioni, probabilmente Pocahontas avanzò le stesse richieste. Il suo matrimonio e quel viaggio erano forse il risultato di un incarico? È possibile che Pocahontas avesse ricevuto dal padre la missione di gestire le relazioni internazionali del suo popolo? LAUREN BECK MOUNT ALLISON UNIVERSITY (CANADA)

Per saperne di più

SAGGI

Al Dio degli inglesi non credere mai. Storia del genocidio degl’Indiani d’America 1492-1972 G. Peroncini, M. Colombo. Oaks, Sesto San Giovanni (MI), 2017. Mondi perduti Aram Mattioli. Mondadori, Milano, 2019.

STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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GRANDI SCOPERTE

Tito Bustillo, il gioiello sotterraneo delle Asturie Circa cinquant’anni fa degli speleologi amatoriali scoprirono una grotta con alcune tra le pitture rupestri più importanti d’Europa Tito Bustillo OV I E D O

SPAG NA

quel giorno d’aprile fu un primo assaggio delle decine e decine di figure rupestri presenti nella grotta e che le conferiscono un’importanza eccezionale. Per tale motivo quarant’anni dopo, nel 2008, l’UNESCO l’ha inserita nella lista del pat r i m o n i o m o n d i a l e dell’umanità.

Vita quotidiana Tito Bustillo è una grotta di grandezza modesta, composta da un corridoio di circa settecento metri. Malgrado ciò, dà l’impres-

sione di essere monumentale per via delle alte volte e degli ampi spazi che fanno da contraltare a passaggi stretti e angusti. Situato all’estremo opposto rispetto all’odierno accesso per i visitatori, quello che un tempo era l’ingresso della spelonca dava su un’immensa sala ma si è chiuso lentamente a causa dell’accumulo di detriti. Venne occupata in un periodo compreso tra 14.500 e 9.500 anni fa circa. I diversi materiali recuperati, ovvero utensili in pietra e osso, tra gli altri, sono un esempio delle abilità tecniche dei gruppi di cacciatori-raccoglitori che frequentarono Tito Bustillo per cinque millenni. Non solo: punte, arpioni, zagaglie, bastoni forati, aghi, ossa di animali, molluschi e resti di focolari fornisco-

PANNELLO PRINCIPALE di

ALBERTO MORANTE / EFE

L’

11 aprile 1968 alcuni giovani speleologi appartenenti al gruppo escursionistico Torreblanca e due loro amici del posto si calarono nella grotta Pozu’l Ramu, nel massiccio di Ardines, a Ribadesella (Asturie, Spagna). Quel giorno le luci che portavano con sé illuminarono le misteriose linee di ciò che è noto oggi come Camarín de las Vulvas (letteralmente, nicchia delle Vulve), nonché alcuni cavalli del Panel Principal (pannello Principale). Poco dopo il ritrovamento, il primo maggio, uno dei ragazzi morì in un incidente di montagna: si chiamava Celestino Fernández Bustillo, Tito Bustillo per gli amici. Questi ultimi decisero di dare il suo nome al luogo. Quanto videro i giovani in

Tito Bustillo. Le dimensioni, i colori vivaci e l’abbondanza di figure conquistano l’attenzione del visitatore.

no informazioni preziose su cosa e come cacciassero, pescassero e cucinassero, e anche sul modo di realizzare le vesti. Oltre a ciò, sono stati rinvenuti vari elementi che

CRONOLOGIA

30mila anni fa circa

14mila anni fa circa

9.500 anni fa circa

1968

RITORNO ALLA VITA

Cacciatori-raccoglitori eseguono a Tito Bustillo le prime opere pittoriche e le prime incisioni.

Fase magdaleniana. Splendore artistico di Tito Bustillo. Realizzazione di figure bicromatiche.

L’ingresso della grotta si riempie di detriti e l’attività paleolitica s’interrompe definitivamente.

Scoperta casuale della grotta e delle sue pitture rupestri da parte di giovani speleologi.

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GRANDI SCOPERTE

DI DUE COLORI

sedimenti della grotta. Le analisi realizzate sono soltanto la punta dell’iceberg, e molto probabilmente nuovi lavori farebbero emergere reperti e vestigia ancora più antichi.

CAVALLO BICROMATICO, IN NERO E VIOLETTO.

Arte rupestre Tito Bustillo è una pietra miliare dell’arte paleolitica, la forma di linguaggio grafico che ebbe inizio almeno 65mila anni fa con l’Homo neanderthalensis. Ma, a quanto si sa, le più di due-

MARCOS GARCÍA DÍEZ

consentono di gettare luce sul loro universo simbolico. Strumenti per la decorazione del corpo, ossa e pietre incise con animali e linee danno notizie su riti e relazioni sociali. E, infine, una sepoltura di circa 9.500 anni fa permette di capire in quale modo vivessero la morte. Tuttavia ogni dettaglio lascia suppore che quanto finora scoperto sia solo una minima parte di un tesoro ancora ben nascosto tra i

TITO BUSTILLO è una delle poche grotte dell’arte paleolitica a presentare figure bicromatiche. I colori nero, rosso e viola, a volte sfumati strofinando così da lasciar intravedere la roccia, si combinano per dare volume agli animali. Un esempio di verosimiglianza e vivacità.

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GRANDI SCOPERTE

FIGURE UMANE LA RAPPRESENTAZIONE uma-

cento figure presenti nel sito sono piuttosto opera dell’homo sapiens, la specie che s’impose sui neanderthal e alla quale apparteniamo. Le sue creazioni sono presenti in quasi tutta l’ampiezza della grotta, su superfici estese e associate al transito, come il pannello Principale, o in spazi più appartati e laterali, come la Galería de los Antropomorfos (galleria

FIGURA UMANA

in rosso rinvenuta nella galleria degli Antropomorfi, nella grotta di Tito Bustillo.

degli Antropomorfi) o la nicchia delle Vulve. A circa 160 metri dall’ingresso originario, su un lato del corridoio principale, il pannello Principale si estende per diversi metri lungo la parete. Dovette rappresentare una certa attrattiva perché per migliaia e migliaia di anni la tradizione orale fece sì che i sapiens vi tornassero a decorarlo, motivo dopo motivo.

MARCOS GARCÍA DÍEZ

na non è così frequente nell’arte paleolitica, e quindi la sua presenza a Tito Bustillo conferisce ancora più importanza al luogo. Le figure presenti nella grotta risalgono a circa 30mila anni fa, ovvero alle prime fasi di realizzazione delle pitture. Verso il fondo dell’antro, in uno spazio nascosto e di difficile accesso, su entrambi i lati di una stalagmite vennero disegnati in rosso due esseri umani. Li ha scoperti intorno al 2000 il professor Rodrigo de Balbín, studioso del sito, che li ha interpretati come un uomo e una donna. Viene da chiedersi come mai le due figure si trovino in un angolo così appartato. Forse si trattava d’arte simbolica a cui solo pochi potevano avere accesso?

Oggi questo pannello è come un’enorme tela di animali e figure sovrapposti, incisi, dipinti e disegnati. Non è ben chiaro quando iniziò a essere decorato, ma non è da scartare l’ipotesi che ciò avvenne in un’epoca tarda, almeno 30mila anni fa. Di certo venne ampliato per millenni, fino a circa 12mila anni fa. Il pannello Principale suscita stupore e sbigotti-

La grotta non era soltanto un posto in cui vivere, bensì uno spazio legato a riti e credenze ARPIONI IN OSSO PROVENIENTI DA TITO BUSTILLO. 122 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

ORONOZ / ALBUM

mento, e nel contemplare le suggestive macchie di colore ci si sente molto piccoli. Secondi dopo si cominciano a individuare le renne, i bisonti, i cervi, un uro, simboli come griglie, chiazze di colore e, soprattutto, cavalli. Assieme ad alcune renne, sono questi ultimi ad attirare lo sguardo dello spettatore per la loro posizione centrale, per i colori vivaci e per le dimensioni (alcuni infatti superano i due metri). Inoltre sono dipinti con una cura tale da mostrare particolari anatomici quale l’addome ingrossato e il pelo.


Percorrendo la galleria si giunge quasi alla fine della grotta dove, dopo una ripida rampa, si trova la cosiddetta nicchia delle Vulve, uno spazio isolato rispetto al percorso principale e, in un certo senso, nascosto. Al suo interno risaltano forme di tipo circolare e ovale che diversi studiosi hanno associato all’apparato genitale femminile. Anche se la loro interpretazione sarà sempre oggetto di dibattito, non va dimenticato che la fertilità ha sempre costituito una fonte di preoccupazione perché da essa, un tempo come oggi, dipende la con-

servazione demografica dei gruppi umani. Eppure come si spiega il pannello Principale? Come mai per millenni si continuò a decorare le pareti della grotta?

La memoria collettiva Qualcosa dovevano pur possedere Tito Bustillo e l’attuale Ribadesella perché i gruppi nomadi facessero ritorno alla grotta, dove forse s’incontravano vari clan. Una possibile spiegazione risiede nella concezione che questi avevano dello spazio. È possibile, infatti, che i nostri antenati concepissero le architet-

ture naturali delle spelonche non soltanto come un luogo in cui vivere, ma anche come un riparo monumentale legato al mondo dei simboli, dei riti e delle credenze. Una grotta era un rifugio, un ritrovo dove incontrarsi e scambiare idee. Con ogni probabilità le immagini al suo interno – quei simboli rappresentati da animali, segni antropomorfi ma non solo – costituivano il più fedele riflesso dei racconti che i gruppi paleolitici plasmavano per sentirsi uniti e spiegarsi fenomeni incomprensibili. Sarebbe così sorto un insieme di cre-

MARCOS GARCÍA DÍEZ

CAVALLO del pannello Principale in nero, realizzato tenendo il carbone vegetale come una mina.

denze che è oggi impossibile decifrare. Generazione dopo generazione, forse in base a una dilatata tradizione orale, le comunità tornarono a Tito Bustillo per trovare risposte alle loro inquietudini, ampliando l’iconografia e riutilizzando le figure. Nello stesso modo con cui oggi i contemporanei vi tornano a cercare una risposta per sé e per i propri avi. MARCOS GARCÍA DIEZ UNIVERSITÀ COMPLUTENSE DI MADRID

Per saperne di più Le cattedrali della preistoria Amir D. Aczel. Raffaello Cortina, Milano, 2010. www.centrotitobustillo.com

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LA FOTO DEL MESE


LA FOTO DEL MESE

LONDRA SCOMPARSA NEL 1926-1927 LO SCRITTORE ARTHUR ST. JOHN ADCOCK pubblicò Wonderful London, un’opera in tre volumi con 1.200 fotografie che ritraggono la città prima della Seconda guerra mondiale. Qui si può vedere la Tower Wharf, il molo sul Tamigi situato accanto alla torre di Londra, uno dei luoghi dove i lavoratori della City (la zona dove si concentravano gli uffici e le banche) amavano andare a mangiare – come fa il personaggio in primo piano, con il suo portavivande ben in vista – e a leggere i giornali all’ora di pranzo nelle giornate di bel tempo. Oggi i cannoni sono scomparsi, i turisti si sono impadroniti della zona e sulla riva opposta i magazzini dove un tempo le navi scaricavano i loro prodotti sono stati sostituiti da edifici in vetro, come quello della City Hall. HERITAGE IMAGES / GETTY IMAGES


L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA

STORIA CONTEMPORANEA

L’emozionante “prima volta” delle donne al voto

A F. Artali, R. Cairoli, M. Cavallini

LE COSTITUENTI Biblion, 2020; 180 pp., 20 ¤

lle elezioni per l’Assemblea costituente, il 2 giugno 1946, su un totale di poco più di 28 milioni di aventi diritto si recarono alle urne in 25 milioni. Di questi 14 milioni erano donne. «Erano un po’emozionate quel giorno: sentivano tutta l’importanza del loro atto e la responsabilità» avrebbe commentato Nilde Iotti, una delle ventuno “madri” della Costituzione italiana. Apporre la croce sulla scheda elettorale era per la dirigente co-

munista un atto dalla forte carica simbolica perché «le donne italiane sono uscite dalla intimità delle case per recarsi a compiere, per la prima volta nella storia del nostro Paese, il loro dovere di cittadine». In molte elettrici, come Elena Giandrini della provincia di Pavia, prevalse un senso di turbamento: «Mi sono fatta persino il vestito nuovo quel giorno, per essere tutta in ordine. L’emozione è stata forte perché avevo paura di sbagliare, tant’è che quan-

do stavo per uscire dalla cabina sono tornata indietro per vedere e controllare se veramente avevo fatto giusto». Federica Artali, Roberta Cairoli e Marina Cavallini dedicano un volume (ideato dalla Federazione italiana associazioni partigiane) alla ricostruzione del complesso percorso per la conquista della cittadinanza politica da parte delle donne italiane: dal movimento emancipazionista d’inizio novecento, passando per le rivendicazioni dei Gruppi di difesa della donna durante la Resistenza al nazifascismo e dal ruolo giocato dalle associazioni femminili (UDI e CIF) in occasione del voto del 1946, fino all’operato delle ventuno donne dell’Assemblea costituente.

EGITTOLOGIA

SCACCHI, UNA PASSIONE DI ANTICA DATA durante lo scavo di un pozzo in località Chiaione a Venafro, in provincia d’Isernia, venne recuperato un set di diciannove pedine da gioco in materiale osseo. Tra il 1993 e il 1994 i pezzi vennero analizzati con il metodo della spettrometria di massa. Il test stabilì che il materiale osseo di cui erano fatte le pedine risaliva con il 68 per cento di probabilità al periodo compreso tra la fine del IX e gli inizi dell’XI secolo. Storici e archeologi coordinati da Antonio Sorbo indagano su «uno dei ritrovamenti quantitativamente più rilevanti a livello europeo di scacchi databili a quel periodo». Dal 2012 i pezzi sono custoditi nel museo di Santa Chiara a Venafro.

NEL 1932,

Franco Cimmino

VITA QUOTIDIANA DEGLI EGIZI Il Saggiatore, 2020; 328 pp., 27 ¤

qui spinti dalla fame e dalla sete; non abbiamo vesti, né grasso, né pesci, né legumi. Scrivete questo al faraone […] SIAMO VENUTI

Antonio Sorbo (a cura di)

GLI SCACCHI DI VENAFRO Volturnia, 2020; 144 pp., 40 ¤

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perché ci venga dato di che vivere». Un papiro custodito nel Museo egizio di Torino reca la cronaca di quello che è considerato il primo sciopero storicamente accertato. A Deir el-Medina, durante il regno di Ramses III, alcune squadre di operai occuparono le mura della necropoli reclamando il pagamento dei salari che gli erano dovuti. Il documento non dice come finì la controversia ma «proprio in quel periodo iniziarono i saccheggi e le profanazioni delle tombe della necropoli tebana». Lo scrive l’egittologo Franco Cimmino che dedica un saggio all’uomo comune egiziano, alla sua vita precaria e al rapporto con l’autorità e con gli dei.


NUMISMATICA

Giuda e le trenta monete del tradimento

T Lucia Travaini

I TRENTA DENARI DI GIUDA Viella, 2020; 352 pp., 30 ¤

anto volete darmi perché io ve lo consegni?», chiese Giuda Iscariota ai sacerdoti. Il prezzo del tradimento di Gesù fu fissato a trenta monete d’argento, somma che l’uomo accettò senza contrattare. A una delle transazioni più celebri della storia, che diede inizio alla sequela di eventi che condussero Cristo alla crocifissione, la numismatica Lucia Travaini dedica un saggio volto a indagarne l’importanza nella storia devozionale.

Secondo la studiosa, dopo il tradimento Giuda restituì i trenta denari ai sacerdoti ma questi, non potendo riacquisirli perché “sporchi di sangue”, li spesero per acquistare un campo. Insieme ai frammenti della croce, ai chiodi, alla lancia, alle spine della corona, quelle monete divennero reliquie della passione di Cristo e, come tali, erano molto richieste. La proliferazione di esemplari dalla dubbia autenticità procedette di pari passo al processo di accentuazio-

STORIA SOCIALE

Il pregiudizio antiebraico nell’Italia preunitaria

N Emanuele D’Antonio

IL SANGUE DI GIUDITTA Carocci, 2020; 160 pp., 18 ¤

el tardo quattrocento, in un’Europa infiammata dal pregiudizio religioso, gli ebrei vennero colpiti dalla cosiddetta “calunnia del sangue”. Si trattava dell’accusa (falsa) secondo cui questi erano soliti uccidere i cristiani, e soprattutto i bambini, per nutrirsi del loro sangue a scopi religiosi. In queste storie c’era spesso un lieto fine: un miracolo salvava le vittime cristiane dai “barbuti aguzzini”. In pieno XIX secolo tali infamie

erano ancora in vita nonostante le comunità ebraiche dell’Italia preunitaria si stessero incamminando sulla strada dell’emancipazione. Nel giugno 1855 nei dintorni di Badia Polesine scomparve la giovane Giuditta Castilliero. Riapparsa otto giorni dopo raccontò di essere stata rapita e sottoposta a salassi «da una congrega di spietati ebrei avidi del suo sangue». Solo un caso fortuito, forse un miracolo, aveva impedito alla cricca di portare a termine

ne dell’immagine negativa di Giuda come figura-simbolo di tutti gli ebrei deicidi. Come tutte le reliquie, “le monete del tradimento” furono acquisite e donate a chiese e monasteri tra il XIV e il XVI secolo: venivano montate all’interno di reliquiari di pregio che ne sottolineavano l’autenticità e i fedeli vi si accostavano nella speranza di beneficiare dei loro proverbiali poteri taumaturgici. Tuttavia, conclude Travaini, «che fossero sostenuti da autentica fede o dalla furbizia di procacciatori di reliquie con la compiacenza di prelati e con la credulità dei fedeli, essi [i denari] facevano parte della “scena” che aiutava i fedeli a rivivere la Passione e ottenere indulgenze».

l’omicidio rituale. «Il caso di Badia trasse origine dalla divulgazione di questa storia macabra e sensazionale nella comunità locale», afferma lo storico Emanuele D’Antonio, secondo cui i badiesi «partecipi di una cultura diffusa imbevuta di pregiudizi di antica matrice teologica, erano al corrente del preteso uso religioso degli ebrei di nutrirsi del sangue dei cristiani in specifiche cerimonie rituali, collocate dai più nell’ambito delle celebrazioni domestiche della Pasqua ebraica». Stavolta però le comunità ebraiche non furono spettatrici inermi come in passato ma reagirono con «pratiche inedite di autodifesa pubblica e di attacco diretto del pregiudizio». STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

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L I B R I E M O S T R E A CURA DI MATTEO DALENA

STORIA ROMANA

Sesso e cura di sé nell’antica Pompei

A Sarah Levin Richardson

IL LUPANARE DI POMPEI Carocci, 2020; 336 pp.; 26,60 ¤

l piano terra del lupanare di Pompei, vale a dire una delle più rinomate case di piacere del mondo romano, fu rinvenuto nella seconda metà dell’Ottocento un ristretto gruppo di oggetti della quotidianità di allora, forse sottovalutato dal punto di vista delle informazioni che avrebbe potuto fornire. Un bacile a forma di conchiglia rotta, un unguentario, un raschiatoio e poi frammenti di bottiglie e bicchieri, una lampada a olio

e alcune monete in bronzo. Secondo l’archeologa Sarah Levin Richardson tali reperti illuminano un microcosmo fatto di transazioni economiche, ma anche di cura del corpo e convivialità. Il raschiatoio – un rasoio di ferro con manico in bronzo – rimanda alla pratica della rimozione dei peli dal viso di prostituti e clienti, giacché all’epoca la depilazione del resto del corpo avveniva con pietre abrasive o pinzette. I frammenti di stoviglie e

STORIA MODERNA

Fuori re e regine da carte e altri giochi

C Luca Daris

EDUCARE ALLA RIVOLUZIONE Mimesis, 2020; 392 pp.; 26 ¤

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i impadroniremo della generazione che nasce» era il motto e insieme l’obiettivo cui ambivano i membri del Comitato di salute pubblica giacobino. Ogni struttura istituzionale doveva essere subordinata a tale scopo. L’indottrinamento delle nuove leve passava per l’aspetto ludico, cui si dedicavano istitutori e istitutrici della Francia rivoluzionaria. Attraverso i giochi di carte, ma anche mediante numerose versioni del gio-

co dell’oca, veniva veicolato il concetto che il mondo era fatto di «avversari che, spesso, come Capeto, Maria Antonietta, Foulon, Carra, Théroigne diventavano nemici giurati e di cui si potevano descrivere le azioni passate e presenti come una catena ininterrotta di nefandezze». A sostenerlo è Luca Daris, esperto di filosofia e simbolica politica, che dedica un saggio all’efficacia di una propaganda che «piegava l’avvenimento storico a una let-

l’incisione di una ricevuta su una parete che elenca vari “acquisti” tra cui cibo, bevande e una donna, mostrano come sesso e libagioni costituissero un binomio inscindibile. Infatti, secondo l’autrice, «il cliente che alza il calice con la prostituta costituiva un tropo talmente comune da rendere degno di nota il caso in cui un uomo scegliesse di non bere con la sua cortigiana favorita». In definitiva, la transazione economica passava in secondo piano rispetto al puro piacere dell’incontro con l’altro. Sarah Levin Richardson offre una minuziosa analisi archeologica, epigrafica, artistica e sociale di un uno dei luoghi oggi più visitati dell’antica Pompei.

tura favorevole alla propria ideologia». Per quanto riguarda i mazzi di carte, il primo passo fu quello di sostituire le immagini di re e regine con richiami al ciclo delle stagioni, con tributi all’operosità dei contadini ed elogi alla vita naturale. Un’altra scelta fu quella «di sostituire i reali con celebri divinità maschili del pantheon greco e romano, così come quello delle regine, sostituite da divinità femminili che da sempre proteggevano la natura e chi ci si dedicava», spiega Daris. Nuovi, cupi e più radicali mazzi di carte videro la luce a partire dall’autunno 1793, quando la Convenzione nazionale abolì una volta per tutte ogni richiamo alla regalità.


FOTO: PARCO ARCHEOLOGICO DI POMPEI

EFEBO PORTALUCERNA. STATUA IN BRONZO DEL I SECOLO D.C. ANTIQUARIUM, POMPEI.

Pompei, la città viva L’Antiquarium di Pompei riapre i battenti con una mostra permanente dedicata alla città dall’età sannitica al 79 d.C.

M

olte sciagure sono accadute nel mondo, ma poche hanno procurato altrettanta gioia alla posterità. Credo sia difficile vedere qualcosa di più interessante». Così nel 1786, circa quarant’anni dopo la scoperta dell’antica Pompei (1748), lo scrittore e poeta tedesco Wolfgang Goethe si riferiva alla tragica eruzione del Vesuvio che nel 79 d.C. avvolse persone e cose sotto lapilli e cenere, determinandone però la perfetta conservazione. Trascorso circa un secolo dalle

sue parole, nel 1873 venne inaugurato l’Antiquarium, un edificio che raccoglieva i reperti di Pompei e ne narrava la storia. Danneggiata dai bombardamenti del 1943 e poi dal terremoto del 1980, la struttura chiuse i battenti fino al 2016, quando riaprì ospitando solo mostre temporanee. Il 25 gennaio scorso è stato inaugurato un Antiquarium rinnovato negli ambienti e dotato di un’esposizione permanente che ripercorre la storia di Pompei dall’età sannitica (IV secolo a.C.) fino all’eruzione del Vesuvio, con parti-

colare risalto al rapporto con Roma. Oltre ai celebri affreschi della casa del Bracciale d’oro, al triclinio della casa del Menandro o agli argenti di Moregine, lo spazio espositivo è stato arricchito con i rinvenimenti più recenti realizzati dal Parco archeologico come il tesoro di amuleti della casa con Giardino (I secolo d.C.) o i calchi in gesso delle vittime dalla villa di Civita Giuliana. MOSTRA PERMANENTE

Dal 25 gennaio 2021 www.pompeiisites.org/sito_ archeologico/antiquarium/

Tra le attività collaterali alla mostra spicca il primo podcast gratuito su Pompei: sei episodi condotti dal giornalista Carlo Annese, con la partecipazione di artisti, scrittori e accademici, restituiscono le atmosfere della quotidianità pompeiana, tra strade, botteghe e taverne traboccanti di vita poco prima della catastrofe. Gli episodi sono disponibili sulle piattaforme Spotify, Spreaker e Apple podcast. PODCAST

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Prossimo numero L’INTIMITÀ DEGLI IMPERATORI ROMANI

CHRISTIE’S IMAGES / SCALA, FIRENZE

LA VITA PRIVATA della dinastia dei Severi, che governò l’impero romano tra il 193 e il 235 d.C.,fu dominata dall’amore per il lusso, dai crimini e dalle passioni. Da Caracalla, che uccise il fratello Geta e proibì alla madre di versare lacrime per il figlio morto, a Eliogabalo, che si mostrava in pubblico «con gli occhi dipinti e le guance imporporate», le vicende degli imperatori romani del III secolo d.C. cambiarono per sempre le sorti di Roma e dell’impero.

Cleopatra, l’ultima regina d’Egitto

SHERLOCK HOLMES E LA MODA DEGLI INVESTIGATORI

Per rimanere al potere Cleopatra dovette lottare contro molti rivali, inclusi i membri della sua stessa famiglia.

VERSO LA FINE DEL XIX secolo le nuove tecniche d’indagine criminale portarono alla nascita di una nuova professione: quella dell’investigatore privato. In questo contesto ebbe un enorme successo la figura di Sherlock Holmes, il personaggio fittizio opera di Arthur Conan Doyle.

Il canale di Serse Le truppe persiane costruirono un immenso canale per attraversare la penisola dell’Athos e dirigersi in Grecia.

La passione di Cristo nella storia Gli ultimi giorni di Gesù di Nazaret dalla sua entrata trionfale a Gerusalemme fino alla crocifissione.

L’abbazia di Mont Saint-Michel

SCALA, FIRENZE

Di fronte alle coste della Bretagna s’innalza un’abbazia considerata una meraviglia dell’architettura gotica.

130 STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC

Le grandi epidemie in America Dal 1492 le malattie contagiose decimarono molte comunità indigene del Nuovo Mondo.


A B B O N AT I A L L A R I V I S TA

S T O R I C A N AT I O N A L G E O G R A P H I C D I G I TA L

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