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GIO PONTI Un maestro poco amato
di Luigi Prestinenza Puglisi
Illustrazioni di Roberto Malfatti
Gio Ponti non è stato amato dalla critica a lui contemporanea. Manfredo Tafuri lo ignorò. Se espresse un giudizio su di lui, lo fece per ricordare che il grattacielo Pirelli sembrava ritagliato da una forma di formaggio.
Neanche Bruno Zevi ci andò leggero. Ponti non era nella sue corde e paragonò il grattacielo a un mobile ingrandito.
Nessuno dei due critici si accorse che il milanese aveva realizzato uno dei pochi lavori che in Italia avesse l’ardire di contrastare la ‘ritirata dal moderno’ denunciata dal critico inglese Reyner Banham.
Ponti non era nuovo a mosse spiazzanti. Aveva disegnato, per la città universitaria di Roma, la Scuola di Matematica, composta da parti distinte che articolano una volumetria scevra dalla retorica degli edifici piacentiniani. Negli stessi anni, con l’edificio della Montecatini a Milano, mostrò quale era la strada da perseguire se si voleva realizzare un edificio ad uffici al passo con i tempi. Quasi a rivendicare – a chi voleva affibbiargli l’etichetta di decoratore di vasi e porcellane con disegni che vellicavano le ambizioni della buona borghesia – la capacità di stare sempre sul pezzo.
Se appena provate a pensare a uno stile che lo caratterizzi, subito vi verranno in mente almeno dieci lavori che vanno in direzioni diverse. Curioso, eclettico e sempre al lavoro, Ponti era l’unico che poteva correre con intelligenza dietro a tutte le novità, cosciente cha la creatività non vuole né limiti né confini. Da qui il suo talento di impareggiabile direttore di riviste. In particolare della sua creatura, Domus, che fondò nel 1928 e diresse sino al 1941 per riprenderla nel 1948 e tenerla sino al 1979, anno della morte.
Amanti come siamo diventati del minimalismo facciamo fatica a stare dietro alla bulimica complessità e ricchezza degli interni di Gio Ponti. Dove tutto, dal vaso al soffitto, può essere disegnato e integrato da sequenze di rivestimenti relazionati con mobili dalle forme più diversificate. Qualcuno ha parlato di trasparenza e leggerezza. Basta pensare alle celeberrime sedie Leggera e Superleggera per capire che Ponti non aveva un amore particolare per la gravità e la monumentalità. Eppure, se osservate le gambe delle sedie, vi accorgete che da designer si muove in un mondo radicalmente diverso da quello miesiano o lecorbusieriano o anche, per citare uno che con il legno realizzava prodigi, di Alvar Aalto. Tanto che non esitava, queste sedie, a colorarle anche con tinte diverse in modo da renderle sorprendenti.
L’occhio per Gio Ponti deve poter girare incessantemente, scoprire in ogni angolo nuove qualità, godere di inaspettati effetti. Se guardate le piante degli appartamenti da lui disegnati, sono concepite in ogni punto per lasciar traguardare lo sguardo verso le prospettive più ampie possibili, verso aperture o squarci inaspettati. Che inquadrano qualcosa di ben determinato, quindi non asettiche trasparenze.
Dicevamo del suo disprezzo per la finestra in lunghezza: se si lascia troppa libertà, di libertà non se ne costruisce alcuna. La scena invece deve sempre essere accuratamente preparata, costruita. Se la parete vetrata (lui la chiama la ‘quarta parete’, pensando alle altre tre fatte da muri) apre in qualche modo al cielo, lo fa per arricchire l’interno, non per dematerializzarlo. In questo senso le architetture devono essere introspettive. Diventare case che ci tutelino dalla natura e non schermi che ce la proiettino in continuazione.
Ponti cerca così di dare un senso al concetto di mediterraneità, uno dei più sfuggenti e scivolosi dell’architettura italiana. La casa è un interno. Un interno colorato, decorato, luminoso. Un luogo dove regna una allegra severità. È un ossimoro che ricorre spesso nelle interviste a coloro che hanno collaborato con l’architetto milanese. I quali ricordano la dolcezza del carattere, la generosità (meriterebbe un maggior approfondimento il racconto di quanto fece per Edoardo Persico e per Ernesto Nathan Rogers), la voglia di vivere, produrre e lavorare e, nello stesso tempo, l’intransigenza, la pignoleria, la competenza tecnica, la severità con la quale giudicava gli errori, a partire dai propri.
Ponti piaceva poco all’accademia nonostante avesse una cattedra al Politecnico. Perché capovolgeva la regola: non è l’università che elabora la teoria che poi i professionisti mettono in pratica, ma sono questi ultimi che elaborano oggetti e progetti che l’accademia dovrà cercare di capire e, se possibile, di sistematizzare. Sapendo, oltretutto, che le teorie sono come i giornali, invecchiano il giorno dopo. Amate l’architettura – che è il titolo di uno dei suoi più celebrati libri – vuol dire sapere stare all’interno di un movimento continuo in cui è meglio correre il rischio di fare un errore che stare fermi.