Sangue e monnezza

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SANGUE E MONNEZZA Storia di ordinario degrado a Sud della speranza

Pier Paolo Palermo


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Capitolo I: Ma scetanneme ‘a ‘stu suonno… 1 Se Claudio D’Avella avesse avuto il minimo interesse per il mondo circostante sarebbe corso ad affacciarsi alla finestra, nella plumbea mattina di novembre in cui lo ha sorpreso questa storia. L’odore che aveva fatto irruzione in casa, quando sua madre aveva aperto il balcone della cucina come ogni mattina per far passare un po’ d’aria, era talmente acre e al contempo putrido da esigere una spiegazione. Ma il fato aveva coniugato la vita di Claudio D’Avella nella forma passiva, lo aveva riempito di calci in bocca, lo aveva fatto come la sfravecatura; pertanto il giovane (se è lecito chiamare giovane un uomo di trentaquattro anni) se ne restò sotto le coperte a bestemmiare e a fare del suo meglio per ignorare le esclamazioni della madre: “Uh, mamma mia! Che hanno combinato! Uggesù, ggesù, ggesù!” Se Claudio fosse stato disposto a compiere lo sforzo di mettersi in piedi e percorrere i quattro, cinque passi che separavano il letto dalla finestra avrebbe avuto modo di constatare che effettivamente stava succedendo qualcosa di preoccupante nella piccola discarica abusiva che aveva praticamente sotto casa. Ma Claudio, per una serie di ragioni che sarebbe tedioso spiegare (e che del resto sono ben note a centinaia di migliaia di sciagurati come lui), prendeva il mondo esterno a piccole dosi. Il suo habitat era composto da un triangolo avente per vertici il letto, il PC e la cucina. Ora, se proprio dalla cucina non fosse provenuto quel tanfo insopportabile, nel giro di una mezz’ora Claudio sarebbe andato a farsi un caffè, visto che ormai di riprendere sonno non se ne parlava. Ma l’olezzo sul quale la madre non smetteva più di riversare invocazioni a santi e madonne era effettivamente ingestibile, e così Claudio accese direttamente il computer, riproponendosi di preparare l’imprescindibile bevanda calda una volta che la madre fosse scesa per la spesa, e che i mefitici effluvi si fossero diradati. Purtroppo per lui, la genitrice continuava imperterrita a starnazzare come se avesse avuto Brenno sul pianerottolo, di modo che Claudio fu costretto ad alzarsi dalla sedia e dirigersi verso la cucina in anticipo rispetto ai piani. “Oi ma’, che te vene?” “Guarda che hanno fatto, quegli ANIMALI!” Claudio si avvicinò alle lastre della finestra chiusa. Qualcuno aveva appiccato il fuoco alla monnezza assortita ammontonata dall’altra parte della strada. Carte, cartone, plastica, copertoni, stracci vecchi e chissà che altro bruciavano insieme, producendo un fumo denso e nerissimo. Fin qui, tutto regolare. Claudio si stupì un po’ solo dell’orario: in genere la monnezza si bruciava di sera, e adesso erano le otto meno venti di mattina, secondo l’orologio sulla parete. Alla faccia del cazzo, era proprio presto, adesso era chiaro perché si sentiva così una merda. Erano anni che non si alzava prima delle dieci. Non avendo motivo di interrompere una routine consolidata dai lustri, fece per tornare a letto, quando un suono che non aveva mai sentito in vita sua gli richiamò


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l’attenzione. Era un suono che non riusciva ad attribuire a questa o a quella categoria, che so: rumore di macchinario industriale, rombo di motore, suono di sirena o antifurto. Dovette aguzzare la vista per capire da dove proveniva: su un frigorifero mezzo scassato, in mezzo a vari focolai, c’era un cane. Le fiamme erano ancora abbastanza lontane, ma evidentemente l’animale non riusciva a trovare il coraggio di scendere dal frigo e scappare. Claudio si precipitò giù per le scale in pigiama e pantofole. 2 “Uh povera bbestia!” “Gesù, comme c’è gghiuto a ffernì là mmiezo chillu cane?” Come ci era andato a finire? Il cane rovistava fra i rifiuti quando una paranza di giovinastri del paese, di ritorno da una serata a Napoli a base di cocaina e risse, aveva tirato fuori gli accendini e reso quel nobile servigio alla comunità. In qualche modo l’immondizia si doveva smaltire, o no? La signora Capuozzo, che abitava al piano di sopra a Claudio, li aveva pure visti. E li conosceva pure bene. Solo che, a differenza dei guagliunastri, la signora Capuozzo non si era accorta del cane, per cui mai le sarebbe passato per l’anticamera del cervello di farselo passare per il cazzo. Claudio abitava al secondo piano, e arrivò giù in una manciata di secondi. Un brav’uomo sui cinquantacinque anni che abitava nel palazzo a fianco era sceso con un secchio d’acqua. Claudio se la versò addosso e si avventurò fra il fuoco e la fetenzia, non prima però di avere bestemmiato a denti stretti per lo shock del contatto con l’acqua fredda. Si tolse quasi subito le pantofole, che gli ostacolavano i movimenti e gli rendevano l’equilibrio instabile sul terreno reso irregolare dall’ordine caotico in cui erano ammassati rifiuti di ogni tipo. Raggiunse l’animale senza riportare particolari danni, a parte qualche bruciatura di minore entità ai piedi. Il bastardino, terrorizzato com’era, gli saltò letteralmente in braccio. Fortunatamente era di taglia medio-piccola, e Claudio non ebbe difficoltà a caricarselo su una spalla. Nel frattempo il cinquantacinquenne, uno che aveva fatto il saponaro tutta la vita, fino a quando un bel giorno non era uscita una legge che prevedeva l’arresto per chi raccoglieva ferro vecchio in un paese in cui si condonano case costruite abusivamente all’interno di riserve naturali, aveva riempito di nuovo il secchio e aveva usato l’acqua per aprire la strada a Claudio. Quando finalmente arrivarono i pompieri il cane era in salvo, il saponaro si era portato il secchio e si era chiuso in casa come gli pareva che gli intimasse di fare lo stato italiano, e Claudio tremava dal freddo nella coperta in cui la madre lo aveva avvolto, senza smettere di esclamare “uggesù” (la madre, s’intende) neanche per prendere fiato. I pompieri impiegarono esattamente tre minuti e quarantadue secondi per spegnere le fiamme, appiccate con totale pressappochismo da quattro balordi il cui unico scopo era commettere una crudeltà gratuita contro un animale indifeso che a loro non aveva fatto assolutamente niente. Eppure, in un paese dove non succedeva mai niente – in barba alla vulgata che voleva quelle terre sotto il perfido tallone di spietati e violenti clan camorristici continuamente in guerra fra loro – quella sorta di piccolo e grottesco Campo de’ Fiori fu invaso da una quantità di gente mai vista in paese.


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…so many/I had not thought death had undone so many pensò Claudio, laureato in Lingue e Letterature Straniere, che parlava in italiano, bestemmiava in napoletano, e cercava la salvezza in inglese. 3 “Uggesù, ggesù, ggesù!” continuava a mitragliare la signora D’Avella, come un crucco sul Carso. “Saliamocene mamma, mi voglio fare un bagno caldo.” Sé sé… Saliamocene. Una parola, con tutte le madri di famiglia che si accalcavano intorno all’eroe di Casalise. Avrà anche ragione chi sostiene che l’umanità, parlando in generale, fa schifo; ma nonostante questo, o forse proprio per questo, è sensibile ad atti di generosità disinteressata come quello compiuto da Claudio quella mattina. E fu così che il ragazzo ebbe più difficoltà a farsi strada fra il suo attempato fan club in ciabatte e grembiule che non a salvare il cane dall’incendio. Era appena emerso da quel capannello di casalinghe e curiosi, quando gli sbucò davanti una bella ragazza in tailleur che brandiva un block notes e una penna. Sorridendogli affabile, gli disse: “Gazzettino di Casalise, ti posso fare qualche domanda?” Mannaggia a Bubbà. Sono disoccupato, non faccio un cazzo dalla mattina alla sera, vegeto fra casa mia e il bar. Non vedo una femmina da mano a Francischiello, nemmeno ci penso più alle femmine. Adesso me ne trovo davanti una bella, spigliata, e con il tailleur. Senza il minimo preavviso. E sono in pigiama, completamente fradicio, puzzo di verdura marcia e plastica bruciata. Ah, e di pisciazza di cane. Tutti questi pensieri attraversarono il cervello di Claudio nel giro di mezzo secondo scarso. Abbastanza, comunque, perché la madre lo tocoliasse esclamando “E forza Claudio, rispondi alla signorina!” La signora D’Avella veniva da un’altra generazione, che aveva vissuto la vita su un altro piano di consapevolezza, diciamo pure su un altro pianeta, rispetto a quella di suo figlio. Appena diplomatasi al magistrale, la signora aveva fatto il concorso per le elementari, e l’aveva vinto. Era l’epoca in cui il lavoro te lo chiavavano in faccia, senza dover fare specialistiche, master e corsi di formazione. Certo, l’etica del dovere piccolo borghese di Immacolata Maglione in D’Avella le diceva che lei era riuscita nella vita grazie alla sua diligenza, alla sua disciplina e alle sue capacità. Mai e poi mai avrebbe ammesso quello che Claudio aveva ormai perfettamente capito, dopo le umiliazioni di svariati colloqui di lavoro tra il demenziale e la violenza psicologica, ovvero che il lavoro non si cerca, ma va a cercare chi dice lui. Questa, per la signora Imma, era un’occasione di rivalsa con il vicinato. La moglie del ragioniere Spavone si vantava una mattina sì e l’altra pure, in salumeria, di aver piazzato il figlio in uno studio legale di Aversa. Naturalmente ometteva di menzionare che in cambio l’avvocato Marra l’aveva infilato in tutti gli orifizi possibili a lei, che aveva cinquantadue anni ma era ancora abbastanza appetibile, specie per un uomo che di anni ne


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aveva settantadue e bello non era mai stato. Insomma, per farla breve, la signora Imma moriva dalla voglia di poter mostrare al paese che suo figlio non era un fallito. “Prego, signorina, mi dica” si forzò a dire Claudio, ma senza riuscire a ricambiare il sorriso. Seguirono una serie di domande volte a delineare il profilo del giovane coraggioso che aveva osato gettarsi nelle fiamme per salvare la vita di un cane, e pure abbastanza malmesso e pidocchioso. Claudio cercava di rispondere come meglio poteva, ma l’imbarazzo e la vergogna crescevano ogni volta che la matita della ragazza si posava sulla carta per riportare le risposte insulse, a metà fra la verità e il socialmente accettabile, che lui forniva. A un certo punto si rese conto di avvampare, nonostante fosse ancora tutto inzuppato d’acqua. Era uscito praticamente indenne dalla discarica in fiamme, e adesso si sentiva bruciare le guance. “Mi scusi, signorina, ma adesso vorrei darmi una sciacquata e bermi un tè caldo” Lei gli aveva dato del tu. Ma il tailleur, l’aspetto indubbiamente gradevole della ragazza, e lo shock dell’ordalia a cui si era sottoposto facevano sentire Claudio come un sub rimasto senza ossigeno a cinquanta metri di profondità. Inutile provare a darsi un sussiego: il panico è l’unica risposta ragionevole quando la piovra ti afferra una caviglia. “Figurati, tanto ho materiale più che sufficiente per scrivere l’articolo. Grazie, e complimenti!” Non era passata al lei. I complimenti, il tu, e il sorriso smagliante che gli offrì distrussero quella parvenza di autocontrollo che gli rimaneva. Sentì un calore improvviso attraversargli il corpo, e si rese conto che gli stava venendo duro. Fortunatamente aveva addosso il pigiama, la vestaglia e la coperta. Senza dire niente si voltò e si diresse verso il portone, con la madre appesa al braccio, un sorriso ebete stampato sulla faccia. Appena prima di entrare sentì la voce della giornalista che lo inseguiva: “Io comunque sono Linda!” Claudio si voltò. Lei era lì, con il suo tailleur blu, il block notes fra le mani e l’espressione di una che aveva assistito all’unico momento della sua vita adulta in cui avesse trasceso una mediocrità che gli era insopportabile. Lui alzò goffamente una mano in cenno di saluto, ma senza sorridere. Proprio non ce la faceva, a sorridere. 4 Erano passati alcuni giorni dall’eroico episodio, giorni che Claudio aveva provato a vivere come sempre. Per quanto lo riguardava, non aveva fatto niente di straordinario. Prima di lanciarsi al salvataggio del cane, che poi era una cagnetta, simpaticamente soprannominata Fiammetta dal Gazzettino di Casalise, aveva valutato i rischi, e aveva rapidamente studiato un percorso che gli sembrava praticabile. L’ipotesi di lasciar bruciare viva la bestiola gli era parsa molto più spaventosa e terribile che non il riportare qualche trascurabile ustione alla pianta dei piedi. Ma quando una comunità produce solo piattume, ignoranza e provincialismo basta poco per emergere.


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Un po’ ci marciava, Claudio. Appena arrivava al bar gli amici, ma anche quelli che lo conoscevano appena, facevano a gara per offrirgli da bere. “Birretta Claudiè?” “Claudio, ti posso offrire un amaro?” “Un brindisi a Claudio!” Non riusciva più a infilare una mano in tasca che subito gli mettevano nell’altra un bicchiere. E siccome a Claudio bere piaceva, non si faceva pregare. Certo, un po’ lo infastidiva dover raccontare continuamente la stessa storia, anche perché non aveva mai avuto il gusto dell’improvvisare sceneggiature cinematografiche. Altri paesani, al suo posto, avrebbero trasformato un evento appena più che ordinario ne L’inferno di cristallo. Che cosa era successo? Era andato a prendere un cane da sopra a un frigorifero scassato, in una discarica abusiva che, bruciando, puzzava molto di più del solito. E il cane gli aveva pure pisciato addosso. Claudio non capiva perché la gente osannasse lui e trovasse tutto sommato normale il fatto che a Casalise ci fossero svariate piccole discariche come quella, che resistevano da anni nella totale strafottenza dei cittadini e delle autorità, e che qualcuno ogni tanto desse fuoco alle suddette discariche. Senza parlare del fatto che forse chi aveva appiccato l’incendio, in quel caso particolare, si era accorto della presenza del cane, e il fuoco l’aveva appiccato apposta. Il che avrebbe spiegato perché il rogo era stato acceso a quell’ora insolita. Ma niente, nessuno parlava di questo. Eroe qua, eroe là. Bravo Claudio, tu fai l’eroe, che noi continuiamo a fare gli uomini di merda che siamo. Tutto sommato però erano i suoi amici, o perlomeno le persone che frequentava più spesso, e soprattutto pagavano da bere. Un pomeriggio sul tardi, mentre sorseggiava un Lagavulin gentilmente offerto dal figlio di un commercialista con precedenti per falso in bilancio e peculato, gli squillò il cellulare. Era la madre, la signora Immacolata. “Claudio, dove stai?” squittì la donna, il cui tono di voce sembrava sempre troppo alto al figlio. “Al bar, mamma.” “E fai presto, vieni a casa! Ha chiamato zio Gigi, ha detto che ti ha trovato un lavoro!” Non era la prima volta che un parente si interessava per trovargli un impiego, e ogni volta era stato un fiasco clamoroso e, soprattutto, una grandissima rottura di coglioni. Ma, come si poteva facilmente evincere dal flicorno che aveva preso il posto della già normalmente squillante voce della madre, il rifiuto non era un’opzione. Claudio disse che arrivava subito, si scolò il resto del whisky e uscì dal bar senza salutare nessuno, a parte un cenno della mano non dissimile da quello che aveva rivolto qualche giorno prima a Linda. 5 Non era ancora riuscito a chiudersi la porta d’ingresso alle spalle, quando la signora Imma gli tese la sua imboscata da vietcong della pressione parentale.


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“Allora, Claudio, lo zio Gigi ti ha trovato una sistemazione! Sei contento? Eh? Sei contento?” Claudio, un po’ brillo per il whisky e per tutto quello che si era bevuto prima, cercava di appendere il giaccone all’attaccapanni mentre la madre gli zompettava attorno come un chihuahua fatto a extasy. Il fatto è che la donna non si limitava a chiedere in continuazione “Sei contento? Sei contento? Sei contento?” come se fossero state le uniche parole della lingua italiana che avesse mai appreso, ma per sollecitare la sua risposta non smetteva di tirarlo per il braccio, rendendogli l’altrimenti elementare operazione di assicurare il soprabito al gancio dell’attaccapanni alquanto problematica. “Sì, mamma. Fammi togliere un attimo il giaccone e le scarpe, e ne parliamo.” A Claudio furono concessi ventidue secondi per mettersi in libertà, allo scadere dei quali la signora Imma tornò alla carica come un cavalleggero inglese alla battaglia di Balaclava. “Hai capito Claudietto? Lo zio Gigi ti prende a lavorare con lui!” Sdranghete. Era quello che Claudio aveva temuto. Lo zio Gigi, al secolo Luigi Maglione, era un personaggio oltremodo ambiguo, avvolto da un alone di mistero e da una certa puzza di malaffare. Quando anni prima i genitori di Claudio erano usciti a pesci fetenti il padre aveva tirato fuori certe storie piuttosto sordide su zio Gigi e le aveva vigliaccamente usate come argine al severo e incessante battage del biasimo della moglie, che lo accusava – non senza ragione – del fallimento del loro matrimonio. Alla fine lui era andato a vivere per conto suo, ma non avevano divorziato. La signora Imma non avrebbe mai e poi mai sopportato il marchio d’infamia che quella scelta comportava. Antonio D’Avella si era trasferito a Maddaloni, dove lavorava presso una concessionaria d’auto, e la moglie continuava a giustificare l’assenza del marito dal paese con una serie interminabile di viaggi di lavoro, qualificata dopo alcuni mesi come sospetta dai concittadini, e ormai universalmente riconosciuta per quello che era: una favola a cui si fingeva di credere per pietà, in qualche raro caso, o più spesso per semplice mancanza di motivi di rancore o rivalità nei confronti della madre di Claudio. Immacolata Maglione era una donna così insignificante da non suscitare invidie, o tantomeno sensi di inferiorità. Ma dicevamo di certe ombre nel passato di zio Gigi che Antonio D’Avella, padre di Claudio, aveva pensato bene di rivangare nel momento del bisogno. Se Claudio non fosse stato che un ragazzino, all’epoca, avrebbe capito che a proiettare quelle ombre erano una congerie di reati che per entità e frequenza, se fossero stati resi noti alle forze dell’ordine, sarebbero valsi a zio Gigi qualche anno di carcere, oltre naturalmente all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. L’esserne a conoscenza aveva fatto risparmiare ad Antonio un assegno di mantenimento che la sua coscienza (o meglio, il mariuolo in corpo che lui amava chiamare “coscienza”) lo avrebbe altrimenti costretto a sborsare puntuale ogni mese. Ma, visto che Gigi guadagnava così bene, ci pensasse lui alla sorella. Claudio non lo sapeva, ma lo zio aveva contribuito in modo non irrilevante alla sua istruzione. Mentre Antonio continuava a sputtanarsi lo stipendio con biondissime e scosciatissime ragazze dell’Est (cosa che aveva comprensibilmente creato qualche dissapore con la moglie), il fratello della madre teneva su una sorta di perverso e personalissimo sistema previdenziale, in cui la costante


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preoccupazione per il benessere e la sicurezza della sorella e del nipote facevano da contraltare al più completo disprezzo per il benessere e la sicurezza della società nel suo complesso. Tutto questo Claudio non lo sospettava neanche. Però non era uno stupido, per cui zio Gigi gli puzzava. “E di che si tratterebbe, mamma?” “Non lo so, parlane con lui. Oh, Claudio, mo’ non è che ti metti a fare il difficile? Qualunque cosa, tu dici di sì, hai capito?” Aveva capito, aveva capito. Il purgatorio era finito; adesso cominciava l’inferno. 6 La dannazione di Claudio era stata decretata circa mezz’ora prima, con una telefonata. “Pronto, Imma, so’ Gigi. Tutto a posto?” La signora Immacolata non riceveva spesso telefonate da suo fratello. Al di fuori di feste e ricorrenze, di solito lui si faceva sentire quando gli serviva qualcosa, o quando aveva qualche raccomandazione da farle. “Che c’è, Gigi? Che mi devi dire?” “Imma, grandi notizie!” Un attimo di incertezza. “Senti, ma mica Claudio con questo fatto del gesto eroico ha trovato lavoro?” La signora Imma ebbe l’impressione che il fratello la stesse prendendo in giro. Si sbagliava. Luigi Maglione non era uno che perdeva tempo a sfottere la gente, tanto meno quella sulla cui discrezione contava. Il fatto era che la disoccupazione di Claudio, se per la madre era motivo di enorme imbarazzo e profonda sofferenza, per lo zio era un’opportunità. “No Gigi, ma che lavoro? Con questi chiari di luna…” “Bene, perché allo studio abbiamo preso un progetto grosso e ci serve un collaboratore proprio con il profilo di Claudietto nostro!” Ovvero, una persona capace, incensurata e con il bisogno di lavorare. “Un progetto?” La signora Imma era rimasta senza parole, immobile, con mille pensieri che le attraversavano il cervello in mille direzioni diverse. Ormai neanche lei credeva che il figlio si sarebbe mai occupato, e la telefonata l’aveva colta impreparata. “All’inizio sarà a tempo determinato, ma se questo progetto va bene lo potremmo anche assumere.” Il posto fisso. Non ci poteva credere, la signora Imma. Tante volte aveva chiesto a suo fratello se aveva qualcosa per Claudio, ma le era stato sempre risposto che “non era cosa”, che il lavoro che


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passava per lo studio di Gigi non era adatto al ragazzo. La signora, sapendo di avere un filibustiere per fratello, non insisteva. Stavolta però era stato lui ad avanzare la proposta. “Gigi, ma è una cosa adatta a mio figlio? Tu lo sai, lui è un bravo ragazzo, studioso, ha fatto l’università… non è che non vuole lavorare, solo che…” “Imma, non ti preoccupare. Affidati al mio giudizio. Se ti ho chiamato significa che si tratta di un lavoro che Claudio può tranquillamente svolgere.” Da quando avevano detto a Luigi Maglione che era a rischio intercettazione, stava molto attento al telefono. Non solo, metteva pure la lingua nel pulito, e cercava di eliminare la forte inflessione napoletana che ne caratterizzava l’eloquio. La sorella sapeva quanto fossero giustificate le reticenze telefoniche del manigoldo che le era capitato per consanguineo, e adottava la sua stessa cautela. La locuzione “un lavoro che Claudio può tranquillamente svolgere” voleva evidentemente dire “un lavoro che non comporta violazioni del codice penale”. “All’inizio prenderà circa ottocento euro al mese, per tre mesi. Poi si vedrà.” Alla signora Imma non passò nemmeno per l’anticamera del cervello di chiedere ulteriori informazioni, se non: “Quando inizia?” “Lunedì alle nove all’ufficio del Centro Direzionale. Mi raccomando la puntualità.” E difatti, il lunedì successivo, alle nove in punto, Claudio D’Avella si presentò nella sede della Maglione Consulting, Centro Direzionale, Isola G5, Napoli.


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Capitolo II: I morti 1 A Claudio sembrava di ricordare che fosse stato Baudelaire a descrivere il mondo come “una foresta di simboli”. Quando vide che l’ufficio si trovava giusto di fronte al carcere di Poggioreale, pensò che qualche volta la foresta, da folta e intricata, si trasforma in uno scoraggiante giardinetto con tanto di vecchi che bestemmiano e merde di cane. Prese l’ascensore per salire al nono piano, e bussò al campanello. Gli aprì una ragazza sui venticinque anni che non sarebbe stato del tutto errato definire bella, per quanto quello che veniva prepotentemente fuori dalla mise, dal trucco e dall’acconciatura non fosse tanto la bellezza, quanto la disponibilità a scambiare quella per il potere. A Claudio sembrava che si trattasse di uno scambio penosamente svantaggioso per questa nuova razza di Supervixen piccolo borghesi, dai piccoli orizzonti e dalle piccole ambizioni, agnelli lascivi e ammiccanti che correvano a sacrificarsi sull’altare del più miope egoismo e dell’avvilente rinuncia all’individualità che lo generava. Ma in quanti, nella sua disgraziata epoca, erano in grado di apprezzare il valore dell’essere individui liberi e consapevoli? In quanti sarebbero riusciti anche soltanto a decifrare queste ultime tre o quattro righe? Claudio inghiottì la punta di tristezza che gli era salita in bocca e si presentò a quella vestale del sempiterno e sacro fuoco del mercantilismo sessuale. “Claudio D’Avella, sono qui per vedere il signor Maglione.” La scollatissima segretaria lo guardò come se avesse bestemmiato in Piazza S. Pietro durante l’Angelus. “Il dottor Maglione ti sta aspettando, entra.” Dottor Maglione. Zio Gigi sì e no teneva le scuole medie. Comunque, ignorante e buono, sapeva campare. Si alzò e andò incontro al nipote, con un sorriso da pranzo di Natale. “Ué Claudioooo!” Baci e abbracci. “Allora, se ti accomodi nella mia stanza, ti spiego un po’ che devi fare. Poi ti faccio pure conoscere Armando, il mio socio.” Vanessa, la Supervixen in jeans attillati e top a V su seno rifatto, cominciò a pensare di essere partita col piede sbagliato nei confronti di quel tizio al quale non avrebbe dato in mano due lire. Ne ebbe la conferma quando il dottor Maglione la mandò a fare due caffè senza prima presentarla come “la sua collaboratrice”.


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“Allora, Claudio, come dicevo a tua madre lo studio ha messo le mani su un progetto molto importante. Sono soldi della comunità europea. Mo’, tu sai che i progetti comunitari vanno presentati sempre in doppia lingua, ed è qua che entri in gioco tu. Tu sei laureato in inglese, è vero?” “Sì” si limitò a rispondere laconicamente Claudio, più interessato alle sue future mansioni che non a parlare del proprio percorso formativo. “A parte le traduzioni, ci saranno altri aspetti da curare. Ti interfaccerai” su questo termine zio Gigi si soffermò con una certa enfasi “con il professore Santamaria, un docente universitario molto preparato che collabora con noi.” Ecco qua. Si cominciava a entrare nel nebuloso. Che voleva dire interfacciarsi? Sicuramente avrebbe significato essere a completa disposizione di questo Santamaria, cosa che peraltro Claudio aveva già messo in conto. Era la natura del progetto, e il particolare approccio che la Maglione Consulting avrebbe avuto al progetto stesso, che lo preoccupava. Arrivarono i caffè, e con il suo Claudio ricevette in omaggio anche un sorriso a trentadue denti dalla versione aggiornata e corretta della segretaria che lo aveva portato. La ragazza indugiò un attimo in più, giusto il tempo di indurre il dottor Maglione a dire “Grazie, Vanessa” e, in tal modo, a congedarla e contemporaneamente presentarla a Claudio. Poi, disciplinata come un soldatino, fece dietro-front e sculettò fino alla porta. Nel chiuderla, ebbe cura di chinarsi abbastanza da mettere in bella mostra il seno in cui aveva investito sette mensilità. Zio Gigi non fece niente per nascondere il suo apprezzamento da uomo cresciuto per strada. Quando la porta si fu chiusa si rivolse al nipote, che stava girando il suo caffè, e lo verbalizzò con le seguenti parole: “Bella ragazza, eh?” Claudio era un bravo ragazzo, studioso, aveva fatto l’università, e non aveva passato l’adolescenza fra la sala da biliardo e la ricevitoria. Ma non era uno stupido, e capì che in quel posto doveva stare molto, ma molto attento. 2 Improvvisamente, la porta si aprì alle spalle di Claudio. Senza prendersi il disturbo di bussare e attendere una risposta, Armando aveva fatto il suo ingresso, con un caffè in mano e un sorriso apparentemente cordiale stampato in faccia. “Claudio, questo è il mio socio Armando.” “Armando Cecere, piacere” fece quello, tendendo la mano a Claudio. Il neo-assunto (o prossimo tale) la strinse, ma notò che il socio di zio Gigi non ricambiava la stretta. Non gli aveva dato la mano; gli aveva brevemente concesso in usufrutto un’appendice del suo corpo. “E allora, Claudio, Gigi ti ha spiegato quello che devi fare?”


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Prima che l’interpellato potesse rispondere, il dottor Maglione assicurò che quell’aspetto era stato già affrontato. “Piuttosto, hai portato il contratto Arma’?” Armando, un uomo sui cinquanta, robusto, parzialmente calvo e dotato di un paio di mani che, a dispetto della assoluta mancanza di vigore nel saluto, sembravano perfettamente adattate alla fatica, e probabilmente da quella forgiate, tirò fuori dalla tasca un foglio tutto stropicciato. “Ecco qua, è tutto pronto, si deve solo firmare.” “E aspetta un attimo, Arma’, gli vuoi dare il tempo di leggerlo?” A Claudio bastarono pochi secondi per farlo. Si trattava di un documento così sintetico, in cui si delineava il rapporto di lavoro in modo così vago, che difficilmente avrebbe potuto tutelarlo da un qualsivoglia abuso. Del resto, mettersi a fare lo schifiltoso era fuori discussione: tornare a casa disoccupato avrebbe voluto dire affrontare l’ira funesta della signora Imma. Claudio poteva al limite gettarsi tra le fiamme, ma non era assolutamente preparato ad affrontare una quotidiana guerra psicologica con l’ancien régime. Dunque, firmò. Zio Gigi e Armando guardarono il pezzo di carta come se fosse stata la capitolazione della Germania nazista. A Claudio, invece, venne in mente un vecchio, vecchissimo titolo di giornale: JAPS GIVE UP. Comunque fosse, era una resa senza condizioni. 3 “Vieni, Claudio, ti faccio vedere la tua postazione di lavoro.” Di tanto in tanto, l’intonazione della voce di zio Gigi tradiva una certa mancanza di familiarità con la terminologia dell’ambiente professionale in cui operava. Era come se fosse nuovo del campo, come se lavorasse da poco nel fumoso e sfuggevole mondo del consulting, e quelle parole le avesse imparate da poco. E, difatti, era proprio così. Zio Gigi nella vita aveva fatto un po’ di tutto, non disdegnando di avventurarsi nel periglioso pelago dell’illegalità. Quando uno aveva intelligenza, scaltrezza e pelo sullo stomaco, era un peccato accontentarsi di sopravvivere dignitosamente. Aniello Maglione, il padre di Luigi e Immacolata, aveva fatto l’agricoltore. Aveva un appezzamento di terra piccolo piccolo, ma era terra sua. Era riuscito a mandare la figlia a scuola fino a diciotto anni, risparmiando come solo i contadini riescono a fare. E lei l’aveva ripagato prendendosi il diploma magistrale e diventando maestra elementare. Gigi, invece, di voglia di studiare non ne aveva neanche un po’. E poi, chi lo diceva che la strada non insegna niente? Dei pezzi di carta, il dottor Maglione non sapeva che farsene. In una società storicamente destinata ad arrangiarsi, è il diritto del più furbo e del più forte a farti dottore. E questo, guarda un po’, glielo aveva insegnato proprio la strada. Omm’e sfaccimma cum laude.


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La postazione di lavoro di Claudio era una scrivania dell’Ikea con sopra un portatile. La sedia era una di quelle puttanate ergonomiche sicuramente disegnate da individui antisociali e sadici. Claudio ci si accomodò – si fa per dire – in attesa che zio Gigi gli desse istruzioni. “Allora, Claudio, io adesso scappo perché devo andare a fare un servizio insieme a Armando. Mo’ viene Vanessa e ti fa vedere che devi fare”. Ecco di chi era l’altra scrivania, sistemata nell’angolo opposto della stanza. Claudio avrebbe diviso il suo ambiente di lavoro con la vestale zizzacchiona, mentre zio Gigi e Armando avrebbero avuto il naturale privilegio padronale di una stanza tutta per loro. Claudio immaginò zio Gigi con un libro di Virginia Woolf in mano, cercò di figurarsi la sua reazione all’incontro con la sorella di Shakespeare, e questo strano pensiero gli strappò un sorriso. Sarebbe stato l’ultimo della sua giornata. Vanessa entrò, portandosi dietro una scia di chissà quale profumo da zoccola in carriera, e modulando l’andatura in modo tale che le due armi improprie che si era fatta installare al posto del seno ballonzolassero come budini di gelatina. Claudio rifletté sul fatto che in italiano non esiste una traduzione veramente buona del verbo inglese wobble. La ragazza gli sorrise e si accostò alla sua postazione di lavoro. Poggiò una mano sullo schienale dello strumento di tortura che gli veniva spacciato per sedia, e si chinò verso il laptop. Ovviamente, si premurò di assumere una postura che ponesse le sette mensilità che erano diventate le sue ghiandole mammarie a non più di 5 o 6 centimetri dalla guancia destra di Claudio. “Allora, se apri questa cartella ci trovi tutti i progetti che stiamo seguendo” disse Vanessa, interrompendo brevemente la masticazione di un chewing gum che, rendendo il suo alito gradevole, completava l’opera svolta dal vestiario, dalla messa in piega e dalla chirurgia cosmetica. Claudio obbedì, e si rese immediatamente conto dai nomi dei file che si trattava di progetti finanziati da fondi europei, POR e PON. Come aveva previsto, zio Gigi non si avvicinava nemmeno a qualcosa che potesse prevedere l’utilizzo di capitali privati. “Vedi quel PDF col nome lungo? Aprilo.” E giù a masticare. “Questo è il PON che tuo zio vorrebbe farti seguire. C’è da organizzare dei corsi di inglese pomeridiani nelle scuole superiori della Campania. Tu sei laureato in lingue, vero?” A Claudio sembrò che nella voce di Vanessa ci fosse una punta di sufficienza. Forse per lei una laurea che non fosse in Economia, Giurisprudenza o qualcosa così era una laurea di serie B. Comunque rispose. “Sì, inglese e spagnolo”. “Bene, allora dovresti trovare altri tre o quattro docenti, e naturalmente quando puoi qualche lezione te la fai anche tu”.


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“Ho capito”. “E poi c’è il lavoro che dovrai fare con il professore. Di quello io non so niente, devi parlare direttamente con lui”. Finalmente Vanessa si staccò dalla sedia di Claudio, il quale si rese conto di essere rimasto in uno stato di irrigidimento fino a quell’istante. “Questo è tutto?” Vanessa lo guardò come se venisse da un altro pianeta. “Perché, vorresti fare qualche altra cosa?” E subito, senza aspettare una risposta, girò i tacchi, uscì dalla stanza e tirò fuori il cellulare. Claudio pensò alla discarica in fiamme, al lamento straziante del cane, alla puzza di gomma bruciata, e a Linda che lo intervistava mentre sua madre gli stringeva la coperta intorno. E si sentì solo come mai prima d’allora. 4 Quel giorno, al suo ritorno a casa, Claudio fu bersagliato da una gragnuola di domande. La signora Imma voleva sapere tutto della sua nuova occupazione, principalmente per poterlo divulgare in salumeria e dal parrucchiere. A Casalise poter dire che tuo figlio aveva un lavoro era un motivo d’orgoglio non indifferente, specialmente se questo lavoro lo svolgeva nel Centro Direzionale di Napoli, in un palazzo di dodici piani, e non nell’ambiente rustico e provinciale che generava un simile tipo di competitività. Claudio, vittima di una mescolanza di sensazioni fra cui non figurava assolutamente l’orgoglio, addusse la scusa di un plausibile mal di testa (uno che non faceva alcuno sforzo da mesi poteva anche magari risentire di una giornata di lavoro) e andò a chiudersi in camera. Accese il PC per controllare la posta e Facebook, mentre la madre preparava la cena. Zio Gigi, che era rimasto in giro con Armando per tutta la giornata, gli aveva mandato un’e-mail:

Caro Claudio, scusa se ti ho lasciato solo tutto il giorno. Io e Armando abbiamo avuto da fare, e purtroppo non ci siamo riusciti a liberare. Vedi che domani verrà in ufficio il prof. Santamaria. Mi raccomando, gli ho parlato molto bene di te, fammi fare una bella figura. Il professore curerà per noi un progetto molto importante, e tu lo dovrai affiancare. Contiamo su di te, Claudietto!

Addirittura un’e-mail per raccomandargli diligenza. A Claudio questo professore stava già antipatico. Da come se ne parlava, gli pareva quasi naturale andare al lavoro, l’indomani, con il


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libretto universitario in tasca. Se il professor Santamaria avesse calcolato la media degli esami di Claudio sarebbe rimasto impressionato; del resto, una media del 29,5 aveva fruttato al nostro laureato otto anni di disoccupazione intervallata da brevi periodi di lavoro a nero o a cottimo. “Meritocrazia”, lo sanno più o meno tutti quelli a cui si dovrebbe applicare il termine, non è che una parola d’ordine per trasmettere all’elettorato rudimentali appelli all’identificazione. Fin quando ci saranno raccomandati mediocri e servili a fare i pipponi sulla meritocrazia, di meritocrazia non si vedrà neanche l’ombra. Bah, controlliamo Facebook. Le solite cose. Politica ridotta a categorie demenziali, donne seminude, video musicali, di cui un paio decenti e uno veramente bello: “Complete Control” dei Clash. Mentre condivideva “Folsom Prison Blues” di Johnny Cash, un brano che gli sembrava catturare perfettamente lo spirito della sua giornata, lesse un messaggio privato di uno studente universitario che gli chiedeva lezioni di inglese. Claudio rispose che purtroppo in quel momento gli risultava impossibile trovare del tempo da dedicargli, e chiuse il social network. Si alzò dalla comoda sedia che aveva nella sua stanza, percorse il corridoio fino alla cucina, e si mise a tavola. La signora Immacolata aveva fatto pasta e fagioli. Mentre riposava nella pentola, Claudio si versò un bicchiere di vino. Sorseggiandolo, si accorse che la madre lo guardava e sorrideva. A Claudio sarebbe piaciuto che qualcuno gli spiegasse come e quando il mondo, per secoli declinato al plurale, era stato trasformato in un’infinità di percezioni individuali, arbitrarie e incomunicabili. Questo gli avrebbe permesso di capire perché tutti continuavano a sorridergli, mentre lui proprio non ci riusciva. 5 Provò a vestirsi un po’ meglio, la mattina del grande incontro. Non arrivò a mettersi in giacca e cravatta, una misura eccezionale che riservava a battesimi, comunioni e funerali, ma scelse con una certa cura i capi più decenti che aveva. Non che ci fosse molto da scegliere. L’uomo che uscì di casa per recarsi al suo appuntamento con il futuro della Maglione Consulting era vestito in modo appena passabile; vale a dire, meglio del solito. Salì sulla Seicento blu che divideva con la madre e mise in moto. Cominciava a fare freddo, e dovette girare la chiave tre o quattro volte prima che il motore si avviasse. Poi mise in prima e partì. La strada che Claudio doveva percorrere per arrivare a Napoli era veramente quello che si dice una chiavica. Per tre quarti male asfaltata, piena di buche, stretta. Di sera, quando tornava dal Centro Direzionale, si dovevano usare gli abbaglianti, perché era quasi del tutto priva di illuminazione. Questo però presentava anche un lato positivo: non si vedeva la monnezza sparsa, per lunghi tratti, ai margini della carreggiata; monnezza che adesso, alle otto e un quarto di mattina, era invece perfettamente visibile. Ci sono oltre venti chilometri fra Casalise e Napoli: oltre venti chilometri di strade per lo più accidentate, che si aprono a fatica un varco in questa terra di nessuno che non è città ma neanche campagna, popolata da gente che non è cattiva ma neanche buona. Gente che sopravvive ma non vive, capace di indignarsi con tutta la ragione di questo


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mondo per un sopruso e poi, nell’arco della stessa mattinata, di buttare una tazza del cesso non più desiderata da un camioncino, e lasciarla al bordo della strada. Ai benpensanti che fingeranno di scandalizzarsi di tale sciatteria, o ai sinceri filantropi che, vivendo in quartieri benestanti e dalle finestre integre, si meravigliano e si addolorano per l’infame destino dello sciagurato sanitario, vorremmo far notare un dettaglio di importanza non trascurabile: la percezione del degrado è necessariamente subordinata all’esistenza su un dato territorio di una popolazione dotata del concetto di cittadinanza. Il servo della gleba non può avere che senso di appartenenza, proprio perché effettivamente appartiene alla terra. E la terra, a chi appartiene? Al feudatario, al vescovo, al politico, al criminale. A chiunque possa garantire, in questo o quel momento storico, sostentamento e protezione a coloro che la terra ha partorito, in modo non dissimile dalle piante. E come adesso quelle sono cariche dei veleni che questa terra accoglie per decreto di chi la sostenta e protegge, così lo sono le persone. E allora, capirete, il cesso scassato è simpatico folklore. Il vero schifo sta nell’acqua di cui è pieno il sottosuolo, e che contamina i broccoli, le pesche, le pere, le mele. Un’acqua così, credetemi, non l’ha vista nemmeno la tazza abbandonata come un povero bastardino sulla strada provinciale, che vi ha fatti gridare allo scandalo. E allora lasciamo stare i gabinetti randagi e i servi della gleba con il treruote al posto del ciuccio, e torniamo alla nostra storia. Mentre facevamo sociologia spicciola, Claudio è quasi arrivato al lavoro… Trovò un posto sul Corso Malta, parcheggiò e si incamminò verso l’ufficio. Duecento metri circa, trecento al massimo, percorsi in uno stato d’animo di totale strafottenza. Non era un esame, l’università era finita. Il professore gli avrebbe teso la mano, come la si tende a un collega, e lui l’avrebbe stretta senza soggezione o reticenze. L’accademico avrebbe illustrato il progetto, Claudio gli avrebbe fatto tutte le domande del caso, e avrebbe ricevuto tutti i relativi chiarimenti. Fu con questa illusione in testa che entrò nell’ascensore e pigiò il numero 9. Arrivato al piano, aprì la porta con la copia delle chiavi che gli aveva dato Vanessa e avanzò a passo sicuro verso la sua stanza. La vestale e un uomo alto, slanciato, dai capelli corti brizzolati, erano curvi sulla scrivania di lei. Claudio bussò alla porta aperta, restando sull’uscio. Quando i due si voltarono, lo sventurato nipote di Zio Gigi constatò immediatamente due dati di fatto: primo, Vanessa portava un top oscenamente scollato, eppure riusciva in qualche modo a non dare l’idea di una professionista del sesso mercenario, pur suggerendo la perfetta consapevolezza del valore di scambio che un corpo femminile può acquisire, laddove esista la disponibilità ad investire gioventù e bellezza e capitalizzarle sotto forma di beni mobili ed immobili; la seconda cosa che Claudio notò fu la faccia del professor Santamaria. Era quella di un uomo di una sessantina d’anni, lunga, affilata, spigolosa. Due occhietti neri e infossati gli davano l’aria di un procione, e gli angoli della bocca, larga e dalle labbra sottili, erano quasi impercettibilmente rivolti verso l’alto. Nella faccia del professore dialogavano in perfetta armonia intelligenza e cinismo. Naturalmente portava giacca e cravatta, e un giaccone che doveva costare da solo più di tutto il guardaroba di Claudio. La mano che gli tese era magra, nodosa, con le dita lunghe e ossute. Una mano che non ispirava fiducia. Claudio la strinse con meno fermezza di quella che avrebbe voluto metterci, e se la sentì stringere con meno fermezza di quella che si aspettava.


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“Santamaria” disse telegrafico il cattedratico. “Claudio D’Avella, piacere”. “Allora, Claudio, Gigi ti ha spiegato di cosa ci dovremo occupare?” “Beh, non è che è sceso proprio nei dettagli …” Sarà il caso di far notare al lettore, a questo punto, per quale motivo i buoni propositi di Claudio non erano altro che pie illusioni. Come è facilmente verificabile da uno studio anche superficiale e approssimativo di una qualsiasi religione rivelata, esiste un modo in cui i sistemi chiusi respingono le minacce provenienti dall’esterno: l’imposizione di regole astruse e contraddittorie a chi voglia penetrarli. Non era assolutamente previsto che Gigi spiegasse a Claudio in che cosa consisteva il progetto che doveva seguire con il professor Santamaria: se lo avesse fatto, il nipote sarebbe entrato in agitazione, e c’era addirittura il rischio che rinunciasse al lavoro e se ne tornasse a bere Peroni al bar di Casalise, o a perdere le giornate su Facebook. Sì, perché, detto fra noi, questo progetto era losco, ma losco assai. Dunque Claudio non doveva sapere cosa avrebbe dovuto fare insieme al professore, e quest’ultimo ne era perfettamente cosciente. Era appunto quello il motivo per cui glielo chiedeva. E il nipote del filibustiere, colto alla sprovvista e messo in difficoltà da quella semplice domanda, si trovava automaticamente in una posizione di inferiorità. Notò comunque che il distinto accademico chiamava suo zio per nome, e si chiese se si trattasse di familiarità o di senso di superiorità. Probabilmente, concluse, entrambe le cose. “Non c’è problema, lo vedrai praticamente volta per volta”. Su questo Claudio non aveva avuto il minimo dubbio. È così che si lavora in Campania. Se qualcuno prova a impostare un qualsiasi compito professionale in modo organico e razionale, lo mandano al confino in Valle d’Aosta. “Bene, professore, se per lei va bene possiamo anche cominciare subito”. “Ah, mi fa piacere di avere a mia disposizione un ragazzo così entusiasta e dedito al lavoro”. E il “ragazzo” disse addio alle assurde velleità di relazionarsi con Santamaria da pari a pari. “Allora, comincia a segnarti sulla rubrica del client di posta elettronica questi indirizzi di nostri collaboratori. Ti ho aperto un account sulla nostra piattaforma, configuratelo su Outlook. Quando hai finito me lo dici e ti dico cosa devi fare. Io nel frattempo mi prendo un caffè, ché stamattina non ho fatto colazione”. Mentre la vestale si offriva prontamente di portare il caffè al professore, Claudio inserì una dozzina di indirizzi e-mail sulla rubrica del programma di posta elettronica, copiandoli dal foglio che gli aveva dato il docente. Santamaria, appoggiato alla scrivania di Vanessa, scrutava documenti vari con l’espressione assolutamente neutra del consumato giocatore di poker. Quando il caffè del professore fece il suo ingresso nella stanza, arrivò accompagnato da un profumo di espresso misto a profumo di donna (zoccola). Colei che lo portava sorrideva raggiante,


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con la completa arrendevolezza di fronte al potere di cui solo i peggiori sicofanti sono capaci. Claudio pensò che l’avrebbero preso per pazzo se avesse provato a sostenere, in una conversazione da bar come tante, che le zizze di Vanessa si offrivano al professor Santamaria come due trofei, due premi alla carriera di un grande interprete della sodomia sociale, eppure era proprio quella la sensazione che ebbe. E pensò che se non ci fosse stato lui nella stanza Santamaria avrebbe messo Vanessa nella posizione che più gli aggradava, e se la sarebbe ingallata senza muovere un solo muscolo della faccia. Neanche nel momento dell’orgasmo il suo volto avrebbe tradito la minima emozione; tanto che, se una telecamera l’avesse ripreso a mezzo busto, sarebbe stato impossibile stabilire se stesse praticando il coito o giocando a flipper. Santamaria prese il caffè, mentre Claudio scaricava la posta. Quattro messaggi nuovi, da parte di altrettanti collaboratori del professore, qualsiasi cosa si intendesse per “collaboratori”. Gettato il bicchierino di carta nel cestino che aveva al lato della scrivania, il docente si rivolse a Claudio, guardandolo un attimo in silenzio prima di esordire così: “E adesso mettiamoci a lavorare”. 6 Claudio era alla Maglione Consulting da quasi tre settimane, e non aveva ancora capito in cosa consistesse il famoso progetto curato dal professor Santamaria. Traduceva documenti, rispondeva a e-mail, monitorava siti Web, faceva telefonate, eppure ne sapeva ancora quanto il primo giorno. I PON erano partiti, e questo aveva dato a Claudio una scusa per chiamare due vecchi colleghi d’università, mandati ai quattro angoli della Regione Campania a far finta di insegnare. Un pomeriggio l’aveva fatto anche lui: una trasferta ad Ariano Irpino, a metà fra la scampagnata e il viaggio di esplorazione. Passare Baiano su quella Seicento mezza scassata, quando il tempo era cattivo, era come passare il Capo di Buona Speranza. Ma se ad attendere Sir Walter Raleigh, al ritorno dalle sue imprese, c’era l’ammirazione della corte di Elisabetta I, ad aspettare Claudio c’era Vanessa la vestale, con i suoi chewing gum, la sua inanità, e il suo investimento quarta misura, coppa C. Ormai era dicembre, aveva cominciato a fare freddo. A beneficio di tutti coloro che cercano di immaginare Napoli senza mai averci abitato, sarà forse il caso di fare una precisazione: Napoli non è quello che voi pensate, qualsiasi idea ve ne siate formati. Se non ci siete nati e vissuti, è improbabile che riusciate a coglierne l’essenza. Certo, i vicoli con i panni stesi li avete visti, li hanno visti tutti; sapete del clima mite, sapete dell’espansività della gente. Se pensaste che è una città solare sareste giustificati, lo credono anche tante persone che ci sono nate. E invece Napoli è una città immersa in una notte perenne, su cui non fa giorno nemmeno quando il sole la percuote come una clava, a luglio e agosto. È una città votata alla morte, l’unica condizione che consenta la stasi assoluta a cui ambisce. Una volta a maggio sbocciavano gli amori che ispiravano i Salvatore Di Giacomo e i Vincenzo Russo, quando la primavera portava il profumo delle rose, e non quello della monnezza, che col caldo si sente di più. Dicembre è un pietoso sudario di freddo per lo più secco, relativamente rigido, che ricopre i morti (con i vari gradi di consapevolezza della propria morte) che si aggirano per questi paraggi, rendendoli insensibili come si conviene a ciò che non ha vita.


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Dicembre è quanto di meno peggio possa capitare a un posto come Napoli; e, fortunatamente, le capita una volta l’anno. Fu proprio in una mattinata dicembrina, fredda e sonnolenta, che Claudio decise di fare una pausa dal lavoro, visto che in ufficio erano rimasti solo lui e Vanessa, e andarsi a prendere un caffè corretto al bar sotto l’ufficio. La vestale era al telefono da un quarto d’ora buono, e non diede mostra di accorgersi del fatto che Claudio si era alzato dalla sua postazione, si era messo il giaccone e se ne era uscito. Entrando nel bar, strofinandosi le mani per riscaldarsele, Claudio vide che zio Gigi, Armando e il professor Santamaria erano seduti a un tavolino, e parlavano a bassa voce. Con il suo ingresso, si zittirono immediatamente, e a Claudio sembrò che Armando si sentisse un po’ a disagio nel vederlo lì, come se lo avesse sorpreso a mettere la mano nelle tasche di qualcuno. Zio Gigi invece non perse un colpo. Scattò in piedi e andò verso il nipote con un sorriso da rappresentante di aspirapolvere stampato in faccia. “Ué Claudio, stai facendo una pausa? Tutto bene in ufficio? Vuoi un caffè?” “Grazie, zio Gigi, corretto”. “Eh, con questo freddo uno schizzo di anice ci sta tutto!” rise gioviale il lestofante. Nel bar c’era poca gente, e di lì a pochi minuti Claudio ebbe consumato il suo caffè, fra le scontate battute e frasi di circostanza di zio Gigi e l’imbarazzo appena percettibile di Armando, che sembrava ancora non perfettamente a suo agio. Santamaria, manco a dirlo, era serafico. Finito il caffè, Claudio non ebbe altra scelta che terminare la propria pausa, e tornarsene in ufficio. Mentre usciva notò che i tre cospiratori si erano rimessi a confabulare a bassa voce, protesi verso il centro del tavolo per riuscire a sentirsi l’un l’altro. Claudio stabilì che da quel momento in poi zio Gigi, Armando e il professore sarebbero stati “la banda degli onesti”, e questo pensiero lo fece sorridere, per la seconda volta da quando era alla Maglione Consulting. In ufficio, Vanessa era ancora al telefono, ma approfittando dell’assenza di Claudio si era spostata sul fisso. Si trattava di un telefono di quelli che si trovano spesso negli uffici, del tipo con il filo che gestisce più numeri interni. Non potendolo portare fuori della stanza, e non volendo o non potendo condurre le proprie conversazioni davanti a Claudio, Vanessa se ne serviva per chiamate private solo quando il collega non c’era. Vedendolo rientrare, mormorò qualcosa nel ricevitore e attaccò. Claudio si chiese se la persona con cui Vanessa stava parlando fosse il suo fidanzato. Se sì, come gestiva il rapporto con una come Vanessa? Quali sentimenti e aspettative intercorrevano fra i due? Quali gelosie, quali timori, da parte di lui? E lei, come tacitava i sospetti, come tranquillizzava quell’infelice? Aveva mai visto, lui, come andava vestita al lavoro? Aveva idea di come la guardasse zio Gigi quando gli portava il caffè? Era per questo, per placare i tumulti emotivi del suo fidanzato, che Vanessa era sempre al telefono? Pensava tutto questo, Claudio, mentre controllava la posta elettronica. Si accorse che Vanessa lo guardava, masticando chewing gum a bocca aperta come sempre, ma con una punta in più di interesse nello sguardo.


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“Claudio, lavori qui da quasi un mese e non so niente di te. Sei fidanzato?” “Nemmeno io so niente di te, Vanessa. Sei fidanzata, tu?” “L’ho chiesto prima io.” Embè, Claudio. Cos’era quel puerile tentativo di svicolare? Pensavi di poterle sfuggire così facilmente? Non lo sai che questa gente campa così? Vive di questo, e poco più. A questo gioco semplicemente non c’è partita. Tu ti fai i fatti tuoi, coltivi pochi, selezionati rapporti; loro no. Loro commerciano in questi prodotti grezzi del cervello rettile: attrazione, invidia, simpatia e antipatia, infatuazioni e odio immotivato. Rispondi, dunque, o non ti lascerà in pace. “No, io no. E tu?” “Io sì. Adesso ero al telefono con lui.” E la vestale tace, continuando a masticare, appoggiata allo schienale della poltrona. Una poltrona veramente ergonomica, veramente comoda, a differenza di quella di Claudio. Lui non sa che dire, ma pare che sia arrivato il suo turno di contribuire alla conversazione. “State insieme da molto?” “Cinque anni e mezzo. Ci siamo lasciati due volte, ma siamo sempre tornati insieme. Io penso che un rapporto non si possa buttare via alla prima difficoltà.” Claudio pensava che Vanessa non avrebbe mai buttato via qualcosa a cui attribuisse un valore monetario o comunque pratico, e che non avrebbe nemmeno preso in considerazione la possibilità di dedicare cinque minuti della sua vita a qualcosa che invece trascendesse i suoi angusti parametri. E l’amore, questo Claudio lo percepiva con chiarezza, era qualcosa che in quei parametri non rientrava, e difficilmente ci sarebbe mai rientrato. Non avendo la minima idea di come formulare una risposta, questa volta lasciò che fosse lei a continuare. “E tu sei single da molto? Hai avuto storie importanti?” La locuzione “storie importanti” aveva sempre infastidito Claudio. La gente collezionava esperienze, questo era tutto. I rapporti umani, che comprendessero la sfera sessuale o meno, non erano che narrazioni riguardanti altre persone. C’erano i racconti brevi, le novelle, i romanzi, le saghe. Il protagonista era un personaggio liberamente ispirato alla persona reale, come Hank Chinasky o Arturo Bandini, solo che in genere era scritto molto peggio. Quello che Vanessa intendeva dire era se esistesse da qualche parte, in un qualche universo parallelo, un mediocre romanzo che avesse come protagonista l’alter ego letterario di Claudio. “Una volta, diversi anni fa.” “E come è finita?” “Lei è andata a vivere in Canada”.


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A questo punto Claudio pensava che Vanessa gi avrebbe chiesto come si chiamava questa ragazza, e se lui aveva mai pensato di seguirla, di condividere quella scelta di vita. Invece la vestale cambiò espressione, ricorrendo a un sorriso sbarazzino e buttando il corpo all’indietro (cosa che non poteva mancare di esporre in modo ancora più vistoso e sconcio il generoso decolleté), ed esclamò: “Bene, così adesso sei di nuovo sul mercato!” Ma quale mercato? Ma questa stesse fatta a vino? Ma rifletti, Claudio, per lei è normale pensarlo. Per lei è così. Abbozza. “Eh, sì” fu il laconico responso del nipote di zio Gigi, accompagnato da un sorrisetto forzato che lo faceva sembrare un idiota. In quel momento Claudio sentì il rumore delle chiavi che giravano nella serratura della porta d’ingresso, e gli arrivarono le voci di zio Gigi e Armando. Qualche secondo dopo, il fratello filibustiere di sua madre era sull’uscio, sorridente e gioviale come sempre. “Allora, Claudio, come procede? Tutto bene?” Che domanda era? Si erano visti dieci minuti prima, sì e no. “Sì, zio Gigi, tutto a posto”. “Bene, bene… senti, Claudietto, c’è una cosa di cui ti vorrei parlare. Puoi venire un attimo di là?” Le scrivanie di Claudio e Vanessa erano disposte in modo tale che, per alzarsi e uscire dalla stanza, il rampollo della Maglione Consulting doveva necessariamente rivolgersi verso la postazione della ragazza. I loro sguardi si incrociarono per un istante, forse neanche un secondo, ma Claudio ebbe la netta impressione di intravedere una certa dose di malevolenza negli occhi della vestale. 7 Tornando a casa, Claudio rifletteva sul succo del discorso fattogli da zio Gigi. In poche parole, gli chiedeva di staccarsi completamente dai PON, e di limitarsi a tradurre l’infinita documentazione che aveva sul desktop nei ritagli di tempo. Anche quel compito, al limite, avrebbero potuto svolgerlo gli stessi amici che aveva mandato a tenere corsi di inglese farlocchi a Mondragone e Guardia Sanframondi. D’ora in poi bisognava seguire il professore, rendersi reperibile e disponibile ventiquattro ore su ventiquattro, cercare di soddisfare ogni sua richiesta. Zio Gigi si rendeva conto di quanto diventasse oneroso il rapporto di lavoro in quei termini; era per questo che aveva fatto stendere al suo consulente del lavoro un nuovo contratto, questa volta della durata di sei mesi, e per un cifra mensile di 1.250 euro netti. Una somma simile era fuori dal mondo, per la generazione di Claudio, nel settore privato e a quelle latitudini. Era già andato bene con i 780 euro netti del precedente contratto. 1.250 erano un’enormità, per un tempo determinato. Ripensò all’interesse improvviso di Vanessa nella sua vita sentimentale, e a al lampo di malizia che aveva colto nel suo sguardo. Perché? Dopo tutto, Claudio non era che l’ultimo arrivato. Contava quanto il due di coppe, là dentro.


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Quello che Claudio non sapeva, e non intuiva, era che invece il suo ruolo nella Maglione Consulting stava per diventare estremamente importante. Se ci fosse stato lui, davanti alla macchinetta dell’espresso, al posto di Vanessa, quando qualche ora prima zio Gigi aveva discusso con Armando della sua “promozione”, avrebbe sentito quello che aveva sentito Vanessa. Se davanti a quella macchinetta del caffè ci fosse stata Imma, l’iperansiosa madre di Claudio, non avrebbe più mandato il figlio a lavorare in quel posto, e avrebbe fatto una telefonata al vetriolo al fratello. Ma davanti alla macchinetta dell’espresso, quella mattina, c’era Vanessa. Era successo prima che la banda degli onesti si ritrovasse al bar sotto l’ufficio, raggiunta dopo poco da Claudio. La porta della stanza di Gigi era chiusa, ma lui e Armando parlavano sempre a voce piuttosto alta, e Vanessa aveva l’orecchio fino. E così, se proprio non aveva afferrato tutto, aveva capito che Claudio stava per diventare indispensabile. Lei, che era lì da quasi due anni, era ancora a tempo determinato (e aveva cominciato a nero) mentre questo raccomandato dopo neanche un mese aveva già un aumento. Si trattava di un chiaro caso di nepotismo, o almeno questa è la parola che sarebbe venuta in mente a Vanessa, se solo l’avesse conosciuta. If you can’t beat them, join them. O meglio, questo è quello che avrebbe pensato Claudio al suo posto. Vanessa, che aveva una conoscenza scolastica dell’inglese, aveva pensato solo che doveva ingraziarsi i favori di Claudio, in modo che almeno il rivale potesse intercedere per lei presso lo zio, e farle avere l’agognato tempo indeterminato. In tal senso la scaltra Vanessa aveva già un piano; un piano che, se ci fosse bisogno di specificarlo, comportava l’uso delle sue arti femminili, e di quelle ghiandole mammarie nelle quali, ricordiamocelo, aveva investito sette mensilità. Claudio, ignaro di tutto ciò, non riusciva a venire a capo della matassa. Erano le otto passate, aveva solo voglia di mangiare qualcosa e mettersi davanti al PC con un bicchiere di vino. Si erano fatte le otto e un quarto quando parcheggiò la Seicento. La cena era quasi pronta. Claudio la attese sorseggiando un mediocre Aglianico, mentre raccontava alla madre della conversazione con zio Gigi. Lei accolse la notizia con un misto di incredula contentezza e malcelato sospetto. Niente salti di gioia, stavolta. Niente sbracciate manifestazioni di entusiasmo. La donna, nonostante la sua comprensione lacunosa e distorta della realtà economica del suo territorio, aveva capito che un rinnovo contrattuale così anticipato rispetto alla scadenza del contratto in corso, e con un aumento così cospicuo, non era una cosa ordinaria, neanche se si teneva conto della bravura e della dedizione al lavoro di Claudio. Immacolata Maglione era preoccupata. Si dissero poco, mangiando. Per una volta fu laconica, questa signora di mezza età, fragile nel corpo e nella psiche. A slip of a lady, pensò Claudio guardandola, e una volta tanto non c’era attrito, non c’era ostilità. Claudio sparecchiò, si riempì il bicchiere e andò in camera sua. Posta elettronica: solo spam. Facebook, una nuova richiesta di amicizia: Vanessa Corcione. La vestale. Una foto “artistica” in biancheria di pizzo, probabilmente ritoccata. Un nuovo messaggio, della stessa Vanessa: “spero non ti dispiaccia se ti ho chiesto l’amicizia”. Seguiva faccina. Claudio accettava sempre le richieste d’amicizia, e non fece eccezione per Vanessa, anche se qualcosa in lei non gli piaceva. Eppure non poté fare a meno di guardare le sue foto: quelle in costume da bagno, quelle in bianco e nero, scattate da un amico fotografo che si immaginava artista, e soprattutto immaginava il coito con Vanessa, più volte al giorno; quelle in cui appariva leggermente alticcia, in un pub finto-irlandese, con una pinta di Guinness davanti.


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Messaggio privato. Da: Vanessa Corcione. E mo’ che vuole questa? “Come va?” Nei momenti di più profonda dissociazione dalla realtà, Claudio aveva spesso allucinazioni cinematografiche o letterarie. In questo momento era il protagonista di Eraserhead, e il suo rapporto con Vanessa un feto deforme che avrebbe voluto schiacciare, spaccare, maciullare senza pietà. E invece rispose. “Bene, tu?” Era iniziato così un Calvario di banalità che durò venti minuti abbondanti. Vanessa lo attaccò da ogni lato con le sue faccine, la sua punteggiatura ipertrofica e la straordinaria capacità di scrivere torrenti di parole senza dire una ceppa. Alla fine Claudio si inventò che doveva uscire, e tagliò la conversazione. Invece restò davanti al monitor a guardare vecchie puntate di Blackadder su Youtube e pensare a Linda, a quei grandi occhi azzurri che lo avevano visto salvare un cane dalla monnezza che bruciava, e che lo avevano guardato senza malizia. E pensò che quella mattina, mentre usciva da una discarica abusiva, coperto dell’urina di un cane, era più pulito di adesso. 8 Il giorno dopo in ufficio Claudio si comportò come se niente fosse, ma era evidente che qualcosa era cambiato fra lui e Vanessa. La vestale si era messo un top che era un oltraggio bello e buono al comune senso del pudore, c’era poco da dire. Per quanto la disprezzasse, l’eroe di Casalise avrebbe dovuto essere di legno per non rimanere almeno un tantinello turbato mentre l’imprenditrice di se stessa con la quale condivideva la stanza gli sbatteva in faccia le sue grazie, gli si strusciava addosso con i più assurdi pretesti, lo istigava insomma a rifarsi su di lei di una vita di pressoché totale impotenza e inerzia. Fu la completa perdita della lucidità così sapientemente indotta da Vanessa a indurlo ad accettare, quando quella gli chiese: “Claudio, ti va di mangiare qualcosa insieme, dopo il lavoro?” Un fenomeno che meravigliava non poco Claudio era il comportamento del suo pene. Ormai da alcuni anni non era più arzillo come una volta; l’adolescenza, ahimè, era lontana. Ma in talune occasioni il soldatino rispondeva ancora con inaspettata verve, dando al suo proprietario l’impressione di essere sottosfruttato. Questa era una di quelle occasioni. Non appena Vanessa ebbe finito di formulare la proposta, il pene di Claudio scattò sull’attenti come un milite modello: eretto, rigido, in attesa di ordini. “Volentieri. Hai già in mente un posto dove andare?” “Hanno aperto un ristorante greco alla Riviera di Chiaia. Dicono che si mangia bene”. Mmmhh. Ristorante greco in genere vuol dire che si spende poco, ma alla Riviera di Chiaia…


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“Se vogliamo mangiare greco, a Via Paladino andiamo sul sicuro …” All’anima del pezzente. La pita takeaway. Ma se Claudio non l’ha capito noi lo sappiamo bene, qual è l’obiettivo di Vanessa. E non è mangiare bene, o passare una bella serata. “Va bene, allora andiamo dove preferisci tu”. Il resto della giornata fu un susseguirsi di sorrisi, sfregamenti fintamente casuali o apertamente cercati, pose provocanti di Vanessa a cui facevano da contraltare le erezioni di Claudio (che arrivò a contarne sette). Era come se quel membro si riproponesse di puntellare il seno della vestale, che pareva in procinto di avere un cedimento strutturale da un momento all’altro, ma che sconfiggeva la gravità in virtù della superiore architettura costata, non dimentichiamolo mai, sette mensilità. Se il nipote di zio Gigi svolse del lavoro, quel giorno, lo fece senza neanche rendersene conto. Il professor Santamaria era fuori Napoli per una conferenza o qualcosa del genere, i PON li aveva dati tutti ai suoi amici, restavano solo le traduzioni. Quei documenti che, sebbene continuasse a lavorarci, non diminuivano mai, o almeno così sembrava. Poco male. Erano un modo per occupare il tempo. Quando il professore non rompeva i coglioni, in effetti Claudio non aveva niente da fare. Le traduzioni erano praticamente un passatempo, anche abbastanza piacevole. Ogni tanto poteva capitare che zio Gigi o Armando chiedessero una delucidazione su qualche termine dell’inglese aziendale che non capivano, o che gli girassero qualche e-mail in quella maledetta lingua che mai avrebbero imparato (non era abbastanza aver dovuto imparare l’italiano?), cose che a Claudio portavano via poco tempo. Stavolta niente di tutto questo accadde. Una giornata intera di traduzioni ed erezioni. Se Claudio non avesse avuto un vissuto così problematico, avrebbe addirittura potuto pensare che era stata una bella giornata: poco lavoro, per di più piacevole, seguito da una cena con una ragazza indiscutibilmente desiderabile. E invece, man mano che si avvicinavano le 19.00, orario di chiusura dell’ufficio, Claudio sentiva crescere una sensazione di aver sbagliato qualcosa, un po’ come quella che ti prende quando a un incrocio imbocchi una strada per un’altra. Ma a quel punto non c’era altro da fare che viversi le conseguenze del suo errore. Si sarebbe mangiato la pita, sarebbe andato a casa e si sarebbe fatto una sega con tutti i sentimenti. E poi avrebbe ripreso un minimo di distanze da Vanessa. All’uscita dall’ufficio li accolse una serata fredda e ventosa. Vanessa colse subito la palla al balzo per stringersi a Claudio, che ebbe l’ottava erezione clandestina. Presero la macchina di lei, un po’ più comoda e spaziosa dell’impresentabile Seicento di Claudio, e si diressero verso il centro storico. A questo punto l’imbarazzo di lui era chiaramente percepibile da entrambi. L’attrazione, così violenta fino a pochi minuti prima, era sparita del tutto. Dovendosi concentrare sulla guida, Vanessa non poteva più recitare la parte della femme fatale, e Claudio la vedeva finalmente per quello che era: una borghesuccia mediocre, senza personalità né fascino; e certo lo sguardo da ebete che aveva mentre si destreggiava in mezzo al traffico napoletano, con la bocca semiaperta e gli occhi privi di espressione, non l’aiutava. Perfino quelle sontuose mammelle, trasformate nuovamente in budini dalle irregolarità del manto stradale, non gli sembravano più invitanti come prima. Wobble, wobble, wobble. No, grazie, il budino non mi va. Mangio questa pita e me ne vado a casa.


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Riuscirono miracolosamente a trovare un parcheggio a via Mezzocannone. Alcuni studenti fuorisede stavano uscendo, per andare a una festa ai Quartieri Spagnoli. Vanessa si fiondò sullo spazio lasciato libero come uno squalo si potrebbe fiondare su un pesce ferito, e Claudio provò un moto di ribrezzo verso di lei forse eccessivo rispetto alle circostanze. Nemmeno cinque minuti dopo erano al takeaway. Ordinarono le due pite, una birra per Claudio e una Coca per Vanessa. Il fatto che non bevesse irritò ancora di più Claudio, che ormai chiedeva perdono a dio o chi per lui. Mentre facevano la fila, la vide. Linda era lì insieme a un’amica, davanti a lui, sfasata sulla destra. Non l’aveva notato. Non portava il tailleur del giorno in cui si erano incontrati, era vestita in modo semplice, non appariscente. Non ne aveva bisogno. Claudio si sentì a disagio, per la seconda volta in presenza di Linda. Non voleva essere visto con Vanessa. Si voltò verso di lei per fare un commento di circostanza sulla folla che avevano trovato, e in questo modo si nascose allo sguardo di Linda. Con la coda dell’occhio, si accorse che aveva preso la sua pita, e che stava uscendo insieme all’amica. Doveva trovare un modo per fermarla, parlarci, chiederle il numero di telefono. Lo fece nel modo più sfacciato e indecoroso possibile. “Scusa Vanessa, io qui dentro ho un caldo pazzesco. Vado un attimo fuori, ti dispiacerebbe restare in fila? Torno subito”. Quella sera a Milano era caldo. Ma che caldo, che caldo faceva… Napoli non è Milano, ma dicembre è dicembre. Claudio si sarebbe meritato di fare la fine del povero Pinelli, altroché. Raggirare così una signora… E almeno trova una scusa decente, no? Corse fuori e raggiunse Linda, che si era fermata a pochi metri dall’uscita a mangiare. Lei lo riconobbe subito. “L’eroe di Casalise!” Non c’era traccia di ironia o sarcasmo nella sua voce, né nel suo sorriso. Era pura espansività, la genuinità di chi non si aspetta di trovare il male nel prossimo, ma parte senza pregiudizi, senza troppi filtri. Ora che non stava lavorando, poteva scherzare tranquillamente con Claudio. Non lo prendeva per il culo, rideva con lui di quanto fosse scritto male il giornale per cui lavorava. “Ciao, Linda”. E mo’? Hai fatto una corsa, l’hai fermata, e adesso che le dici? E vedi di sbrigarti, eh, non ti dimenticare che lì dentro c’è quella deficiente che ti aspetta… “Ma che bello vederti, Claudio! A Casalise non ti incontro mai.” “Sì, in effetti la frequento poco. Qualche volta vado al circolo di via Nizza”. Sì, bravo, dal momento che lei non conosce le tue frequentazioni, diglielo tu che te la fai con la meglio gioventù del paese. “E a Napoli vieni spesso?”


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“Beh, sì, a Napoli… scusa, io non posso trattenermi molto, sono in fila per la pita…” Finalmente ne hai fatta una buona. “Ok, allora ti do il mio numero, così non ci perdiamo più! Allora, tre due zero… “ Mentre Claudio segnava il numero sulla rubrica del cellulare, sentiva qualcosa cominciare a sollevarsi, a fargli un po’ meno pressione sui polmoni. Era come se cominciasse finalmente a respirare bene dopo un’apnea durata anni. “Chiamami, mi raccomando!” Lo baciò sulla guancia e si allontanò, in compagnia dell’amica che non aveva avuto il tempo di presentargli. Claudio restò lì qualche secondo ad assaporare il retrogusto dell’ossigeno. Poi tornò nel takeaway da Vanessa, che aveva appena preso le loro pite. Claudio prese le bibite, e uscirono fuori. “Marò, ma che freddo che fa! Ma tu sei pazzo, là dentro si sta molto meglio!” Claudio non rispose. Continuava a sorridere, suo malgrado. Non riusciva a smettere. Vanessa, con la sua pita e la sua Coca Cola da consumare sul cofano di una macchina, al freddo, si domandò cosa avesse quel cretino da sorridere.


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Capitolo III: La sirena e gli squali

1 La cosa non era andata secondo i piani. Vanessa non riusciva spiegarsi perché. Non le era mai capitato che un uomo rimanesse insensibile di fronte alle sue avances, tanto meno quando le faceva in modo così spudorato. Usando il freddo come scusa, aveva proposto a Claudio di salire da lei. Niente. C’era solo una conclusione da poter trarre: era ricchione. Ci voleva il piano B. Il piano B era Arturo, un cugino omosessuale di Calvizzano. La famiglia di Vanessa gli era stata vicino quando a diciotto anni lui aveva fatto coming out e il padre, un impiegato comunale e tabagista part-time in quota MSI, gli aveva scassato una sedia addosso, e poi gli aveva dato il resto. Fortunatamente il ragazzo era robusto, quello che lo aveva demolito moralmente era stato il fatto che all’ospedale la famiglia non si era fatta vedere. Al suo risveglio aveva trovato al capezzale la madre di Vanessa, e quella brava donna che così poco aveva in comune con la sua infausta prole ci era rimasta per quasi due settimane, fin quando non era stato dimesso. Lo aveva preso in casa come un figlio, lo aveva tenuto fra le braccia come un bambino quando si rifugiava nel pianto, gli aveva dato quelle poche lire che lei e suo marito, con il loro modesto negozio di ferramenta, potevano permettersi di dargli. Un bel giorno Arturo aveva deciso che era arrivato il momento di togliere il disturbo, e se ne era andato. Per circa due anni non si era visto né sentito, e poi improvvisamente era ricomparso, completamente cambiato nel vestire, nel parlare e nel modo di guardarti in faccia. Era stato a Londra, aveva fatto le sue esperienze, e aveva fatto anche un sacco di soldi. Per qualche motivo, i genitori di Vanessa non osavano indagare sulla provenienza di quel denaro. Lei, che era poco più che una bambina, si era innamorata. No, non del cugino, dei suoi soldi. Talune vocazioni si manifestano precocemente. Arturo era diventato l’idolo di Vanessa: il cugino ricco, anticonformista, che frequentava l’università e gli ambienti gay. Lui, avendo una gratitudine immensa per la famiglia Corcione, era sempre gentile e disponibile con Vanessa. Ancora adesso che era uno stilista di una certa fama, ogni tanto telefonava o faceva una scappata per salutare. Vanessa pensò che se riusciva a organizzare un’uscita per farli incontrare, magari, chissà, si sarebbero piaciuti. E lei avrebbe avuto una quasi-parentela con il nipote del dottor Maglione. Se Vanessa era arrivata a essere ossessionata da Claudio, seppure solo come mezzo per giungere a un fine, Claudio si era completamente dimenticato di Vanessa. La notte dopo l’uscita con lei aveva sognato di incontrare Linda sulla spiaggia in cui lo portavano i genitori da piccolo; lei gli sorrideva, poi correvano insieme verso il mare, ci entravano dentro e cominciavano a nuotare, spingendosi sempre più al largo. L’acqua era tiepida, calma, il sole illuminava i riflessi biondi dei capelli castani di Linda, e si rifletteva nell’azzurro dei suoi occhi. A un tratto, una barca a remi spuntava da dietro uno scoglio. A bordo c’erano zio Gigi e Armando che remavano, e il professor Santamaria, in completo grigio, in piedi, con le mani sui fianchi e lo sguardo rivolto al sole. Claudio indicava


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l’imbarcazione a Linda, che la raggiungeva con poche possenti bracciate e la ribaltava senza apparente sforzo. A quel punto, trasformatasi in sirena, trascinava verso il fondo il perfido cattedratico, mentre Claudio, ora dotato di bombole, maschera e pinne, li seguiva a una certa distanza. Quando Santamaria era ormai un corpo senza vita, Linda si voltava verso Claudio, e gli sorrideva. Solo che a questo punto Linda era allo stesso tempo Imma, la madre di Claudio, che a sua volta era diventato il Commissario Montalbano interpretato da Luca Zingaretti. Il giovane D’Avella passò metà della giornata lavorativa a cercare di interpretare quello strano sogno. Il resto passò fra una traduzione e l’altra, e a sventare i tentativi di attaccare discorso da parte di Vanessa. Mentre stava raccogliendo le sue cose per andare via, zio Gigi entrò nella stanza con una strana espressione. “Ué Claudietto! Come andiamo? Senti, lunedì il professore deve incontrare delle persone per definire un aspetto importante del progetto. Tu come te la cavi come interprete?” Una traccia di nervosismo nella voce, il viso leggermente tirato, il sorriso forzato. “Zio Gigi, la verità non l’ho mai fatto, ma penso che non ci dovrebbero essere problemi.” “Ah, bene! Perché la tua presenza è importantissima, eh! Lunedì è una giornata di fondamentale importanza!” Quando zio Gigi scandiva le parole in quel mondo la situazione era seria. “Non ti preoccupare, zio Gigi, lunedì a che ora?” “Appuntamento alle dieci all’Hotel Vesuvio. Ovviamente non c’è bisogno che passi per l’ufficio, vai direttamente là”. Nella sua ingenuità di bravo ragazzo che aveva fatto l’università, Claudio pensò che avrebbe passato una giornata diversa, magari piacevole, a fare da interprete a un incontro d’affari in uno degli alberghi più esclusivi di Napoli. Immaginava che le persone che avrebbe incontrato insieme al professor Santamaria fossero finanziatori o, che so, tecnici. Li immaginava americani, britannici, sudafricani… Non sapeva, non poteva sapere, essendo stato deliberatamente escluso dalla gestione quotidiana di questo benedetto progetto, di che cosa si trattasse veramente, e chi vi fosse coinvolto. E comunque era giovedì, stava per arrivare il weekend, e lui avrebbe chiamato Linda. Erano passati solo due giorni, ma non aveva intenzione di aspettare oltre. Non poteva aspettare oltre. Doveva prendersi la sua boccata d’ossigeno, subito. Uscito dall’ufficio, compose un messaggio sul cellulare e glielo inviò. Le chiedeva se sarebbe andata al centro storico, venerdì sera. Quando lei lo richiamò, era appena uscito dall’edificio. Il ragazzo del bar da cui si servivano quando capitava di restare senza cialde sentì che il nuovo impiegato della Maglione Consulting riceveva una telefonata da una che si chiamava Linda, e che gli doveva piacere parecchio. Pensò che a lui le femmine non gli telefonavano mai. Ma stava faticando, e la malinconia non è roba per chi fatica,


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per cui rientrò nel bar. Mentre lui prendeva un’altra comanda, Claudio prendeva appuntamento con la donna del suo sogno. 2 Quando arrivò al lavoro, il venerdì mattina, si notava che il vento era girato a suo favore. Era arrivato perfino a scherzare con Armando su una partita di coppa della sera prima. Partita che, in un impeto di socialità e ottimismo verso la razza umana risvegliato da un singolo esemplare della stessa, aveva guardato al circoletto di via Nizza con la meglio gioventù del paese. L’effetto “eroe di Casalise”, se ormai cominciava a scemare, non si era ancora del tutto esaurito. Nell’arco dei novanta minuti regolamentari più sette di recupero, Claudio aveva rimediato tre birrette e un cicchetto di whisky. Vanessa sembrava aver desistito da qualsiasi proposito avesse avuto nei suoi confronti, e faceva le sue telefonate senza badargli troppo. Claudio traduceva documenti dei quali non comprendeva l’utilità, come sempre. Verso le undici si era diffusa la notizia del decesso di una vecchia gloria della politica nazionale, immediatamente sottoposta a varie forme di vilipendio su Facebook. Claudio si chiese se fosse lui ad avere amici particolarmente insofferenti verso il potere costituito, ma poi si rese conto che sulla parete di Vanessa postavano le stesse frasi, le stesse immagini, e dovette concludere che agli Italiani piace proprio il vilipendio di cadavere, che la cosa peggiore che possa fare una personalità politica in questo paese è morire. Finché sei vivo, pare che nessuno si accorga di quanto fai schifo; o forse pochi hanno il coraggio di riconoscere l’ovvia verità che se un paese, un intero mondo, è sottosopra, evidentemente chi sta sopra dovrebbe andare a finire sotto, ed è forse un po’ meschino aspettare che a mandarcelo definitivamente sia il declino biologico. Bah, chi se ne frega, stasera esco con Linda. Questo pensava Claudio, mentre cercava di rendere al meglio il termine inglese viability. Non avendo scadenze né tabelle di marcia, poteva permettersi di stare anche mezz’ora su una singola parola. E ci rimase, per l’esattezza trentaquattro minuti, su quel viability. Quando finalmente gli sembrava di aver trovato una soluzione accettabile, la voce di Vanessa lo riportò al qui e ora: “Claudio, di là sono finite le cialde, ci andiamo a prendere un caffè al bar qua sotto?” Non c’era niente da dire, era proprio l’ora della pausa caffè, e Claudio non aveva motivo di dubitare che le cialde fossero effettivamente terminate. Non aveva altra scelta, se non quella di accettare l’invito. Si infilò il giaccone e seguì Vanessa, passando davanti alla stanza di Armando, e intravedendo sul suo monitor qualcosa che sembrava avere poco a che fare con il consulting (qualsiasi cosa fosse), ma che somigliava terribilmente a una mano di Texas Hold’Em. Nell’ascensore ci fu un po’ d’imbarazzo. Anche se la vestale aveva smesso di puntargli contro le mammelle, quelle continuavano a essere bene in vista, data l’entità delle scollature che portava. E Claudio, contrariamente a quanto pensava la collega, non era omosessuale. Fra l’altro c’era un non detto che, se da parte di Vanessa aveva trovato soluzione nella ricchionaggine di Claudio, per quest’ultimo rimaneva tutto lì, e adesso era come una terza persona nell’ascensore. Una persona


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obesa, maleodorante e importuna. Il sollievo durò da quando uscirono dall’ascensore fino a quando entrarono nel bar. Vanessa si avvicinò a un tipo vistosamente effemminato, lo baciò sulla guancia, e glielo presentò. “Claudio, questo è mio cugino Arturo. Arturo, lui è Claudio, il collega di cui ti parlavo”. La vittima di questa vile imboscata cominciò quasi subito a sudare freddo. C’è qualcosa nel cervello umano che ci rende ostica l’astrazione, ma ci permette di capire in modo rapidissimo situazioni complesse appena si manifestano nella realtà esperibile. Basta uno sguardo, a volte, e la matassa più ingarbugliata si scioglie di colpo. Il disagio di Claudio non era certo dovuto al fatto di essere stato preso per omosessuale e offerto “in pasto” ad Arturo, ma alla spiacevole posizione in cui lo aveva messo l’idiozia di Vanessa. Come fargli capire con garbo che quella deficiente della cugina non aveva capito una mazza senza farle fare la figura della cretina agli occhi di qualcuno che, purtroppo, le era parente, e forse affettivamente legato? Fortunatamente per Claudio, Arturo si rese immediatamente conto di avere a che fare con un eterosessuale. La conversazione andò subito sul generico, la partita della sera prima (che c’è, a un ricchione non può piacere il pallone?) e il lavoro alla Maglione Consulting. Presero il caffè, Arturo raccontò una barzelletta e un paio di aneddoti londinesi, e chiese a Claudio come si stava trovando con i suoi datori di lavoro. L’eroe di Casalise ebbe l’impressione che il suo interlocutore avesse inquadrato perfettamente zio Gigi e Armando. Quanto più andava avanti la chiacchierata, tanto più montava l’impazienza di Vanessa. Impazienza che si placò solo quando, accompagnando Arturo alla macchina, le fu spiegato dal cugino che a Claudio non piaceva la fava. Forse nemmeno la fessa, chissà. Ma certamente non la fava. Forse Vanessa non era il suo tipo, tutto qui. Non tutti siamo uguali, c’è chi ti rompe le sedie addosso pur essendoti padre, e chi ti tratta come un figlio, pur non essendo tua madre; c’è chi ti paga per farti spogliare, e chi per farsi vestire; c’è chi rimane soggiogato dal fascino ipnotico di un decolleté impeccabile, e chi si tuffa in chissà quali insondabili profondità senza neanche la garanzia di un’anteprima. Se il primo viaggio in ascensore era stato imbarazzante per Claudio, il secondo lo fu per Vanessa. Per la prima volta da quando era alla Maglione Consulting, Claudio la vide tenere lo sguardo basso. E allora anche per la disinvolta e sbarazzina Vanessa Corcione, 27 anni a luglio, arrivò finalmente un’epifania: il seno che si guardava, mentre Claudio si sforzava di ignorarlo, era una parte del suo corpo. Una parte del suo corpo che lei aveva pagato sette dei suoi stipendi per farsi manomettere. Non aveva mai avuto occasione di rimpiangere l’operazione, prima d’allora. In quell’ascensore che non arrivava mai, ripensò a tutto quello che non riusciva a capire di Claudio, e alla facilità con cui invece lo aveva capito, almeno in parte, Arturo. Ripercorse la sua vita, e la confrontò a quella del cugino. E capì, suo malgrado, che dietro il viso abbronzato, il sorriso smagliante, gli occhiali da sole anche a dicembre, il fisico scolpito dalla palestra, c’era una lunga e penosa ricerca. Ci sono più cose in cielo e in terra, Vanessa, di quante non ne sogni la tua filosofia. Adesso tira fuori lo specchietto, fai finta di truccarti, il tuo personaggio non è all’altezza di una scena di pianto. E lascia stare Claudio D’Avella, non è roba per te. Non avrai mai abbastanza seno da competere con una sirena.


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3 “Ma come non resti a mangiare? Ti ho fatto la pasta alla siciliana!” L’esistenza di Immacolata Maglione in D’Avella si riduceva alla liturgia della spesa, con i vari pettegolezzi annessi e connessi, i servizi di casa e i “programmi d’approfondimento”, che seguiva con religiosa attenzione. Ma ciò in cui profondeva più amore e devozione era sicuramente la cucina. Il nutrimento del figlio era il suo reale scopo di vita. Avrebbe strabuzzato gli occhi se le avessero fatto presente l’ovvio, e cioè che Claudio mangiava fin troppo, aveva anche messo su un po’ di pancetta; e che quello che gli mancava non erano né i carboidrati né le proteine, ma una prospettiva di vita decente. “Mamma, te lo avevo detto, non ti ricordi?” Non glielo aveva detto. Figuriamoci se, preso com’era dall’appuntamento con Linda, poteva ricordarsi di avvisare la madre dei suoi programmi. “E io mo’ che faccio, la butto???” La solita commedia dell’arte. Era scontato che la signora Immacolata avrebbe fatto con quel ruoto di pasta al forno la stessa cosa che aveva fatto decine di altre volte: ne avrebbe tolto una porzione per sé, e avrebbe regalato il resto a una vicina di casa qualsiasi: la signora Mantile del primo piano, la signora Capece, che abitava alla porta a fianco, o meglio Giacomino del quarto piano, che era rimasto senza la moglie il mese passato, e che se non fosse stato per la solidarietà del palazzo avrebbe letteralmente rischiato la morte per inedia. Tutto questo era distante anni luce da Claudio, novello Capitano Kirk impegnato a esplorare galassie remote e misteriose, come facciamo un po’ tutti quando proviamo a immaginare il futuro, specialmente a seguito di eventi inattesi. “Claudio, ma dove vai???” Guagliò, ferma ‘st’Enterprise, metti il cavalletto e fai un attimo mente locale. Non è che c’è qualcosa fuori posto? “Le scarpe!!!” Dopo aver passato un quarto d’ora, tempo record per lui, a scegliere le cose da mettersi, stava uscendo in pantofole. Non si può andare verso il futuro in pantofole. Non è questo che ci ha insegnato il nostro tempo. Bisogna vivere il proprio tempo, eccheccazzo. Il tempo della perfomance (ma pronunciato con l’accento sulla “e”), della vision, della smartness e della wellness. La ciabatta non ha una collocazione nel modo costruito per noi dai depositari del know-how e della mission, se non nella sfera domestica, quella parentesi di rest & recuperation fra una battaglia e l’altra. Togliti quelle pantofole, Claudio, e infilati una paio di stivali con gli speroni. Guida la carica, espugna la fortezza Linda a colpi di sciabola e di moschetto. E se la prima carica fallisce, guidane un’altra con rinnovata forza e una tattica migliorata dall’esperienza del fallimento.


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“A che ora torni?” “Che ne so, mamma! Tu vai a dormire, non ti preoccupare.” E si tirò la porta. La Seicento che lo avrebbe portato a Napoli non era esattamente il cavallo bianco di Napoleone. Non c’erano mostrine sul giaccone nero, un po’ consunto, che si era infilato passando davanti all’appendiabiti. Ma quello che preoccupava di più Claudio era la prolungata assenza dai ranghi, quella sorta di pavido pacifismo che lo aveva reso poco pugnace ma discretamente pugnettaro. Sarebbe riuscito a fare fuoco, al momento opportuno? In cuor suo, sperava che nell’incontro di quella sera avrebbe prevalso la diplomazia. Mentre si destreggiava tra fossi, rifiuti che avevano invaso la carreggiata e carcasse di animali morti, escogitava strategie per la serata, le passava al vaglio di quel poco di ragione che riusciva a impiegare di fronte a un evento di simile portata, e le rigettava quasi immediatamente come inadeguate e patetiche.

In a minute there is time For decisions and revisions which a minute will reverse.

E di minuti, per arrivare a Napoli, ce ne volevano almeno una ventina. Si consolò pensando che almeno lui, a differenza del povero Prufrock, non stava ancora perdendo i capelli, e stabilì che si sarebbe affidato all’istinto, avrebbe improvvisato. Quest’ultima decisione durò esattamente otto minuti e quarantadue secondi, liquefacendosi fra Mugnano e Melito. Lì l’eroe di Casalise fu colto da un marasma fantozziano, che gli ridusse le mani a due lumache, per come erano mollicce e sudate. È solo per pietà che non parleremo di come la sua viltà si manifestava nella zona del basso ventre. La funzione del membro virile non è quella di ispirare compassione o ribrezzo, e non è nostra intenzione maramaldeggiare su chi già agonizza. L’appuntamento era a Piazza San Domenico, a pochi metri da dove si erano incontrati qualche sera prima. Claudio parcheggiò sul Rettifilo, per non incappare nella famigerata ZTL decisa dall’estroso sindaco che tanti lutti aveva addotto ai partenopei, e continuò a piedi fino alla sua destinazione. Risalendo via Mezzocannone, rifletteva sul fatto che poi, volendo, era anche normale questa cosa. Stava uscendo con una ragazza, che c’era di strano? Teoricamente, in un mondo perfetto, niente. Nel suo, si trattava di un prodigio. Erano anni che Claudio D’Avella viveva come un vecchio, senza desiderare altro che non fosse un piatto di pasta, un bicchiere di vino, un po’ di tranquillità. Mo’ la tranquillità era finita, questa era l’unica cosa certa. Era andato sulla montagna a morire, come gli indiani dei film. Ma questo non era un buon giorno per morire. Il problema era: si ricordava ancora come si fa a vivere? Nel mezzo di questo dubbio, la piazza gli si aprì davanti. Era semideserta, nonostante fosse un fine settimana. La ragione era semplice: era presto, molto presto. Si erano dati appuntamento alle


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nove, che a Napoli è già un orario da quarantenni; Claudio, però, nel terrore di fare tardi, si era avviato in largo anticipo, arrivando così alle otto e quarantadue sul luogo convenuto per il rendezvous. Gli unici a occupare la piazza, a quell’ora, erano alcuni inveterati perdigiorno dediti all’uso di sostanze psicotrope. Claudio pensò che magari un tiro o due dell’aromatico manufatto in loro possesso l’avrebbe aiutato a rilassarsi un po’. Mentre li fissava con malcelato spregio dell’ingiunzione divina di non desiderare la roba d’altri, si sentì chiamare da uno di loro. “Claudio! Oh, ma non mi riconosci?” No, non lo riconosceva. Gli si avvicinò, fino a quando i tratti di quel volto non furono perfettamente visibili alla luce dei lampioni. Ancora niente. “So’ Pasquale! Pasquale dell’università!” Claudio rimase a guardarlo inebetito, come se la canna se la fosse fumata lui. Se fosse stato un doganiere e Pasquale, Pasquale dell’università gli avesse presentato una foto con quelle sembianze, lo avrebbe fatto arrestare senza esitazioni. “Ngul Claudiè, io me faccio ‘i ccanne e tu pierde ‘a cerevella!” L’intercalare e l’accento salernitano fecero scattare qualcosa nella “cerevella” che Claudio non aveva affatto perso, e riconobbe subito il vecchio amico. “Ué Pasquale!!!! Ma che hai fatto, ti sei tagliato i capelli? Erano così belli lunghi!” Pasquale si rabbuiò di colpo. Durò un secondo, perché subito si riprese e disse, sorridendo: “Claudio, io non sono stato tanto bene. Anzi, per dirtela tutta eggio passato ‘nu cazzanculo ‘i guaio… Ma mo’ sto bene, non ti preoccupare. E tu? Che fai, stai lavorando?” “Fatico insieme a mio zio, non è proprio il lavoro dei sogni ma paga bene. Milleduecento euro al mese oggigiorno chi te li dà?” “’A faccia d’o cazzo Claudiè! Io per milleduecento euro al mese m’o facesse mette mmiezo ‘i ppacche!” “E tu stai lavorando, Pasquale?” “Vabbuò, dicimmo… faccio lezioni private, qualche traduzione… insomma, mi arrangio… Vabbuò, non ne parliamo, fumiamo e non ci pensiamo.” E offrì la canna a Claudio, che non se lo fece ripetere due volte. Mentre se la palleggiavano, con il beneplacito degli amici di Pasquale, che ne stavano rullando un’altra per consentire ai due di avere il loro piccolo amarcord, arrivò Linda. Se quando era sceso dalla macchina per Claudio non c’era altro al mondo, l’inaspettato e improvviso incontro con Pasquale lo aveva completamente distolto da quello che poi era l’obiettivo della serata. Non la vide avvicinarsi. Sentì il suo profumo di cannella, un attimo prima della sua voce:


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“Ciao Claudio!” Lui stava lì con il suo bombolone in mano, in mezzo a quattro sfasulati che probabilmente non vedevano un tailleur da anni, ammesso che l’avessero mai visto, e parlava con un individuo che sembrava evaso da un campo di prigionia, il quale se ne avesse avuto il tempo avrebbe spiegato a Claudio che era stato il cancro a ridurlo nelle condizioni in cui si trovava. E adesso? Come sempre, Linda non perse un colpo. “Aspetti da molto?” Confuso dall’infinita clemenza di Linda e stordito da quell’esecrabile puzzone, Claudio biascicò a fatica che lei era in perfetto orario, era stato lui ad arrivare in anticipo. Poi, in qualche modo, Linda si fece presentare Pasquale, disse qualche frase di circostanza, infine prese l’eroe di Casalise per mano e se lo portò via. Per tutto il resto della serata, il nostro si guardò dall’esterno come in una sorta di out-of-body-experience. Mangiò, conversò con Linda, passeggiò con lei per Spaccanapoli. Quando la sirena gli prese la mano, Claudio realizzò improvvisamente che il protagonista di quella strana commedia romantica era lui. Panico. Mani sudate. Il ritorno delle lumache assassine. “Ma tu ti butteresti nel fuoco per me?” Che quello poi, alla fine, tutto è più semplice di quanto non sembri. Claudio ricordava di aver letto, negli anni di università, che gli Eschimesi avevano una serie infinita di parole per indicare la neve. Essendo l’elemento dominante, quasi esclusivo, dei loro paesaggi, è abbastanza naturale. Ma alla fine, stringi stringi, sempre neve è. Come diceva quella vecchia canzone napoletana, con l’amore è facile tutto il difficile: se deve succedere, succederà. E allora si vede che il bacio che si diedero Claudio e Linda, mentre i giovinastri sfrecciavano sugli scooter in mezzo ai fuorisede intimoriti e Pasquale si fumava un’altra canna con i suoi amici, doveva succedere. 4 Riflettendoci a mente fredda la mattina dopo, Claudio si era preoccupato senza motivo. Pensare che Linda potesse avere aspettative non realistiche, che non avrebbe capito la sua “condizione esistenziale”, che le distanze fra di loro sarebbero state incolmabili, aveva voluto dire cedere all’insicurezza e al pessimismo generati da una vita vissuta più o meno come l’oliva nel frantoio, e lasciarsi spaventare da ipotesi di futuro prossimo create a immagine e somiglianza del passato. Era la neve degli Eschimesi, tante parole per complicare un concetto semplice: acqua molto fredda. Lui a Linda piaceva. Se così non fosse stato, non gli avrebbe chiesto il numero. E le piaceva proprio perché lo aveva visto fare una cosa che dalle loro parti pochi avrebbero fatto. Le piaceva perché l’aveva visto uscire da una discarica fradicio e fetente, con un cane in spalla, una specie di profeta della decenza che predicava con le armi dell’autoironia involontaria e del grottesco. Mo’ non esageriamo, questo Claudio non lo aveva capito. Però era arrivato a realizzare che Linda non lo avrebbe giudicato male, e tantomeno respinto, per comportamenti che eventualmente non corrispondessero alle sue previsioni. Anzi. Gli chiedeva solo di sorprenderla; e lui, giovane di belle speranze finito a giocare nelle serie minori, godeva presso di lei di un notevole credito grazie al suo “gesto di eroismo”.


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Cotali elucubrazioni gli consentirono di trattenersi dal comporre il numero di Linda, appena sveglio, alle 10,11 di sabato 14 dicembre. Dopo il bacio al quale abbiamo assistito ce ne erano stati altri, ma alla fine erano tornati in paese ognuno con la sua macchina. Linda non aveva preso in considerazione la possibilità di portarsi Claudio a letto al primo appuntamento; per quello non si era fatta andare a prendere. Si erano salutati davanti all’auto di lei, anche se poi Claudio l’aveva protettivamente scortata fino a Casalise, dove si erano congedati con un gesto della mano. Fin qui era andato tutto bene. Ora c’era una sola cosa da fare: aspettare un paio di giorni prima di richiamare, per non sembrare troppo “affamato”. In effetti, a Linda non sarebbe dispiaciuto se Claudio l’avesse chiamata subito, ma a volte è meglio non scoprirsi troppo. Pensiamo a quanti scudetti si sono vinti con il catenaccio, e a quanti rapporti si reggono su fragili equilibri fatti di emozioni vissute con il contagocce. E allora come dare torto a Claudio, se si accontentava di rotolarsi nel letto a inalare il profumo di Linda, che aveva ancora addosso, invece di telefonarle e rischiare così di far rompere il giocattolo? *** Nello stesso momento in cui Claudio ripensava all’appuntamento, inebetito dall’improvvisa felicità, due tipi discretamente loschi facevano il loro arrivo all’hotel Vesuvio. Samir Bošković e Darko Radojević erano indubbiamente ben vestiti e impeccabili nei modi. Ma a chi li avesse guardati con attenzione, i tratti induriti e la risolutezza dei gesti avrebbero fatto sorgere il sospetto che non si trattasse proprio di due gentiluomini. E questo osservatore non avrebbe avuto torto: i Balcani erano disseminati di cadaveri lasciati là da Samir e Darko, che indossando prima questa e poi quella divisa si erano distinti per atrocità commesse e sprezzo del pericolo dimostrato. Quando poi la guerra (o meglio la serie di guerre che si erano succedute) era finita i due commilitoni, forti dell’amicizia cementata dagli ettolitri di sangue sparsi insieme, si erano dati al traffico di armi. Con l’arrivo dell’Unione Europea, erano arrivati più soldi di quanti quelle terre non avessero mai visto; e in una macroregione con più fucili che posti di lavoro il pericolo che tanto ben di dio sfuggisse ai signori della guerra era inesistente. Samir e Darko non riuscivano a credere alla fortuna che gli era capitata. Adesso erano a Napoli per concludere l’affare della vita. Diversamente da Claudio, non avevano le mani sudate e non si scervellavano su come sarebbe stato meglio impostare la trattativa. C’erano tanti, ma proprio tanti soldi in ballo, e un accordo alla fine si sarebbe trovato. Maglione era un pesce piccolo, aveva bisogno di loro. Santamaria era furbo e sapeva il fatto suo, lo riconoscevano, ma la sua posizione non gli consentiva di sporcarsi le mani, e poi non aveva altri contatti. No, in questo affare erano loro ad avere il coltello dalla parte del manico. Ed erano tipi, Darko e Samir, che con il coltello ci sapevano fare. Fecero il check-in, presero le chiavi della suite che avevano prenotato, e salirono in camera. Disfecero i bagagli con calma, riponendo nei cassetti le camicie con le iniziali ricamate, e poggiarono le pistole sui rispettivi comodini. Le avrebbero riprese prima di uscire per il pranzo. Ma prima avevano intenzione di rilassarsi un po’. Darko passò a Samir una fiaschetta piena di qualcosa che l’amico buttò giù a grandi sorsate. Poi fu Darko a bere. E poi si spogliarono e si succhiarono il cazzo a vicenda.


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5 Claudio stava guardando la partita del Napoli al circoletto di via Nizza, quando il cellulare gli squillò e il display gli indicò che la chiamata veniva da Linda. Per la seconda volta in pochi giorni, pur essendo ormai chiaramente diventata il fulcro della sua vita (di una vita come quella ci voleva poco a diventare il fulcro), lo colse di sorpresa. “Pronto, Linda…” “Ciao Claudio, come stai?” “Behrami recupera palla, lancia Insigne sulla sinistra, ma arriva il fallo da dietro di…” “OOOOHHH!!!” “Scurnacchiato!” “Arbitro, e caccia ‘stu cartellino ‘e chi te mmuorto!” “Claudio, ma dove sei?” “Stavo guardando la partita con gli amici…” “Vabbè, non ha importanza, ti volevo chiedere se ti andava di cenare con me stasera. Mia madre è andata a trovare la sorella a Verona, e sono tutta sola in casa. Mi fai compagnia?” “Inler carica il tiro…” “GOOOOOOOLLLLLL!!!!!” Il circoletto fu attraversato da un boato terrificante. Se Samir e Darko fossero stati lì, con tutto che avevano fatto la guerra, si sarebbero cacati sotto. “Il Napoli ha segnato, eh?” “Sì, gol di Inler” specificò Claudio, come se fosse verosimile che a Linda, in quel momento, interessasse il nome del marcatore. “E allora, vieni?” Linda gli aveva assegnato un calcio di rigore, e solo lui poteva batterlo. Doveva fare l’uomo. Doveva sistemare il pallone sul dischetto e prendersi la sua responsabilità. “Certo che vengo. A che ora?” “Io sono qui, non mi muovo, puoi venire quando vuoi.” Il Napoli vinse 2-1 con la Juve. A seguito del momentaneo pareggio di Pirlo su rigore come sempre inesistente, fu Higuaín a regalare i tre punti agli azzurri. Dopo aver festeggiato la vittoria con un


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giro di rum e pera offerto da Mimmo, il gestore del locale, Claudio tornò a casa e avvisò la madre che non sarebbe rimasto per cena. “Uh, e io avevo fatto la pasta e patate con la provola!” Mamma, devo andare a casa di una femmina, hai capito? Mo’ dimmi tu se io adesso la posso mai chiamare e dire “no, scusa, Linda, mia mamma ha fatto la pasta e patate con la provola, sarà per un’altra volta”. Questo è quello che Claudio avrebbe voluto rispondere. Quello che effettivamente rispose fu: “Hai ragione, la prossima volta ti avverto per tempo”. “Mettiti le scarpe prima di scendere!” gridò la madre, inseguendolo con la voce mentre Claudio filava in camera sua per sfuggire al ventesimo secolo. Fece un giro veloce su Facebook, si cambiò, e uscì. Casa di Linda era vicina, ci si poteva arrivare a piedi. Casalise era abbastanza piccola, e non era stato difficile per Claudio capire le indicazioni che la ragazza gli aveva dato mentre chiacchieravano davanti a una birra, il venerdì sera. Anche se poi nessuno usava i nomi delle strade: Linda, per esempio, abitava “davanti al negozio di articoli sportivi, ma non il palazzo con il portoncino rosso, quello con il cancello verde”. Claudio, come già sappiamo, abitava davanti a una discarica. Ma, dal momento che ce n’era più di una a Casalise, a dispetto delle modeste dimensioni del centro abitato, questo non avrebbe detto niente a Linda. No, Claudio abitava sulla parallela della statale, il palazzo giallo prima della macelleria di Don Augusto. Passando davanti alla farmacia all’angolo si chiese se fosse il caso di acquistare dei preservativi, un’invenzione del demonio che lui odiava indossare, e concluse che, se non voleva fare la figura dell’imbecille o, peggio, dell’incosciente, non poteva andare a casa di Linda senza. Fece un salto all’enoteca per prendere una bottiglia. Non sapeva che cosa avrebbero mangiato, e così si fece guidare dal gusto personale: un Aglianico del Taburno, adesso che guadagnava, se lo poteva permettere. E così, equipaggiato di tutto punto, si presentò a casa di quella che pareva stesse diventando la sua donna. Linda lo accolse con addosso una tuta e un paio di pantofole, ma truccata e profumata. Gli prese la bottiglia di mano, e con l’altra se lo tirò in cucina. Claudio aveva già notato questa spiccata tendenza di Linda ad impadronirsi delle sue estremità e guidarlo dove più le aggradasse. E non gli dispiaceva. Lo sollevava dalla responsabilità di sforzarsi continuamente di capire che cosa doveva fare. Se era vero che le donne erano complicate e insondabili, Linda faceva eccezione. Adesso, per esempio, voleva portare Claudio in cucina. “Che mi hai portato, vediamo… Buono! Lo apriamo?” Era una domanda retorica. Prima che Claudio potesse aprire bocca, aveva già preso il cavatappi e lo aveva applicato al sughero della bottiglia. L’eroe di Casalise si sarebbe offerto di eseguire quell’operazione, che aveva sempre considerato prerogativa maschile, se non si fosse accorto della disinvoltura con cui la eseguiva Linda. Questo agio in qualunque situazione, questa naturale spigliatezza che faceva sembrare qualsiasi cosa facilissima, quando era Linda a farla, un po’ lo


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inquietava. Lui era sempre stato un po’ imbranato. Quello che lo salvava era che lei non si fermava un momento. Mentre Claudio rimuginava su questi suoi timori e disagi, ad esempio, la sua sirena aveva già riempito due bicchieri. “A noi” disse con dolcezza, e avvicinò il suo bicchiere a quello di Claudio. Quel brindisi produsse nel protagonista di questa storia lo stesso stordimento che lo aveva accompagnato per le strade del centro storico di Napoli due sere prima. Rimase rincoglionito per tutta la durata della cena, e mentre finivano di bersi quello che restava della bottiglia. E questa volta non aveva nemmeno la scusa del puzzone. Tornò con i piedi per terra solo quando Linda lo prese per mano e lo guidò verso la camera da letto. È superfluo dire che se un medico lo avesse visitato in quel preciso momento, gli avrebbe dato pochi mesi di vita. Eppure, una volta che Linda ebbe spento la luce, tutto venne da sé. Dopo che ebbero suggellato il loro connubio con una sciammeria da Champions League, Linda si alzò per andare in bagno a darsi una ripulita, e Claudio rimase spaparanzato sul letto a quattro di bastoni, con un ghigno che pareva il Joker di Batman: non l’aveva dovuto usare, il preservativo. 6 La sera prima Immacolata Maglione aveva ricevuto un messaggio sul cellulare dal figlio, in cui le comunicava telegraficamente che non sarebbe tornato a dormire. Adesso che lo vedeva rientrare avrebbe voluto chiedergli dove era stato, ma Claudio le disse che andava di fretta, e che aveva un impegno di lavoro importante. Si fece una doccia veloce, si vestì e uscì, senza neanche prendere il caffè. Era evidente che nella sua vita aveva fatto la sua comparsa una donna. La signora Imma si augurò che fosse una brava ragazza, e che trattasse bene il suo Claudietto. Eppure, per quanto si sforzasse di essere ottimista al riguardo, dubitava fortemente che questa signorina sapesse fare la pasta e patate con la provola come lei. Claudio, che a casa di Linda aveva mangiato bene e soprattutto aveva interrotto una striscia di risultati negativi che cominciava a essere preoccupante, ora si dirigeva verso l’Hotel Vesuvio e l’appuntamento con il professor Santamaria. L’ottimismo che aveva suscitato in lui la subitanea comparsa della fessa lo portava a immaginare scenari remoti dalla realtà. Si vedeva seduto intorno a un tavolo, con il professore e i suoi ospiti, a tradurre l’inglese forbito e preciso di ingegneri e manager d’azienda formati all’MIT o alla London School of Economics, e l’immancabile segretaria in tailleur (capo d’abbigliamento che ormai lo ossessionava) con un paio di occhiali dalla montatura nera in corno. Quando arrivò davanti al Vesuvio, Santamaria gli fece un cenno dalla lobby, dov’era seduto. Claudio entrò e salutò il professore, che lo invitò seccamente ad accomodarsi sulla poltrona di fronte alla sua. “Allora, Claudio, adesso noi saliamo dai nostri partner. Tu ti limiterai a tradurre, hai capito? Per nessun motivo devi prendere la minima iniziativa. Traduci quanto più fedelmente quello che dicono, e soprattutto quello che dico io.”


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“Saliamo solo noi due? Mio zio e Armando non partecipano all’incontro?” Santamaria lo guardò con l’espressione che un severo insegnante di latino potrebbe riservare ai suoi studenti meno brillanti. Per la prima volta a Claudio sembrava di scorgere tensione nei suoi lineamenti. “Mi raccomando, Claudio, questo è un incontro molto importante. Confido nella tua intelligenza e nella tua professionalità”. Il nipote di zio Gigi rimase interdetto, e si limitò a seguire Santamaria nell’ascensore che li portò all’ultimo piano, e lungo il corridoio che conduceva alla suite di Samir e Darko. I due aprirono la porta prima che gli emissari della Maglione Consulting potessero bussare, e li fecero entrare. Strinsero la mano a Santamaria, e ignorarono deliberatamente Claudio. In compenso, all’interprete fu consentito di servirsi dal carrello carico di caffè, tè, cornetti, burro e marmellata che era stato approntato per l’incontro. Non c’era nessun tavolo da conferenza, nessun proiettore, né tantomeno c’erano laureati, che fossero usciti dall’MIT o dall’Università della Calabria. C’erano solo due personaggi palesemente loschi, per quanto vestiti benissimo, seduti come loro intorno a un carrello, con le loro tazze di tè in mano. “So, Professor, what you have for us?” esordì Samir. E diciamo addio anche all’inglese forbito e preciso. Prima che Claudio avesse il tempo di tradurre, Santamaria cominciò a formulare la sua risposta. In inglese. E così andò avanti per quasi tutto l’incontro. Solo in un paio di frangenti Santamaria chiese l’intervento di Claudio. Non se lo era portato per tradurre; se lo era portato perché quell’uomo solitamente così sicuro di sé non voleva andarci da solo, a quell’incontro. Nel capire questo, Claudio fu improvvisamente preso da un panico ben peggiore di quello che lo aveva assalito la sera prima, al momento di andare a letto con Linda. Se le cose stavano così, con chi cazzo stava avendo a che fare? “Then we can say goodbye now, no?” concluse Darko, sorridendo di autentica soddisfazione. “We can say goodbye, for now. We will contact you as soon as we have the answer” gli rispose Santamaria, con un’espressione cordiale, ma comunque molto più fredda e neutrale. Il cattedratico aveva ripreso la solita aria sicura e arrogante. Si strinsero le mani. Questa volta anche Claudio fu degnato della cortesia. Poi Samir e Darko li accompagnarono alla porta, e la aprirono per farli uscire. Mentre scendevano in ascensore, Claudio si domandava di cosa avessero parlato. Là in mezzo il laureato in inglese era lui, ed era stato ad ascoltarli con tutta l’attenzione di cui era capace per quasi due ore; eppure non aveva capito quasi niente. Arrivati al piano terra, si diressero verso l’uscita senza parlare. Quando l’aria fredda del lungomare d’inverno li assalì dopo il tepore dell’albergo, Santamaria si rivolse a Claudio e gli mise una mano su una spalla: “Da domani ci sarà da lavorare, caro Claudio.” E a Claudio non si sarebbe gelato tanto il sangue nelle vene, se a toccarlo fosse stato il dottor


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Mengele.


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Capitolo IV: Amaro Montenegro

1 Claudio era tornato a casa in uno stato di pressoché totale confusione. Che cosa avrebbe raccontato a zio Gigi e Armando dell’incontro, se gliene avessero chiesto un resoconto? Come avrebbe affiancato il professor Santamaria, se non capiva in cosa consistesse il “progetto molto importante” che stava trattando? Quello che Claudio, ingenuamente, non aveva previsto, fu invece l’interrogatorio in stile Torquemada a cui lo sottopose la madre. Come è ben noto, nessuno si aspetta l’Inquisizione Spagnola. “Allora, Claudio, come è andata? Di che avete parlato? Che si è deciso?” “Mamma, la verità? Non ci ho capito niente”. “Ma come? Tu parli così bene inglese! Che vuol dire che non ci hai capito niente?” “Non c’entra l’inglese, mamma. È che parlavano per allusioni, senza dire le cose chiaramente.” Claudio stava per aggiungere che “era come se non volessero farmi capire di cosa parlavano”, ma si trattenne per non allarmare eccessivamente la madre. Troppo tardi. “Uggesù, ma questi che tengono da nascondere? Mo’ chiamo a Gigi, mi deve spiegare tutto per filo e per segno!” A Claudio quella non sembrava una buona idea, ma sapeva bene che non sarebbe mai riuscito a far recedere la madre dal suo proposito. E così se ne andò in camera sua a leggere The Art of Loving di Erich Fromm, sperando di trovarci qualcosa di utile per cominciare a capire qualcosa di quello che succedeva quando era con Linda. Questo era un tentativo poco felice di essere pragmatici; quello che invece, sorprendentemente, andò a buon segno, fu la telefonata di Immacolata Maglione. “Gigi, ma che gli stai facendo fare a mio figlio?” “Ué, Imma… come, che gli sto facendo fare… che vuoi dire, spiegati”. Si era spiegata benissimo. “L’incontro di stamattina, Gigi. Chi erano quelle persone?” Seguì una breve pausa, che la signora Imma lesse, correttamente, come un guadagnare tempo da parte del fratello, un modo per ragionare su una possibile risposta. “Imma, qua i tempi sono duri. Se non ci meniamo a fare qualsiasi cosa andiamo tutti quanti a capa


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sotto. Comunque tu non ti devi preoccupare, perché Claudio non sarà coinvolto in niente di spiacevole, te lo assicuro”. “Il tempo indeterminato, Gigi. Gli devi fare il tempo indeterminato”. “E va bene, Imma. Gli facciamo il tempo indeterminato. Sei contenta?” “Non ancora, Gigi. Mi devi promettere sull’anima di nostro padre che non lo mandi a fare cose pericolose. Me lo prometti, Gigi?” Un’altra pausa. Un sospiro all’altro capo del telefono. “Va bene, Imma, te lo prometto. Domani gli faccio trovare il contratto da firmare. Stai tranquilla”. “No, Gigi, non sto tranquilla. E non stare troppo tranquillo nemmeno tu. Sei meno diritto di quello che credi. Sì ‘nu piscetiello ‘e cannuccia, Gigi. Vire ‘e nun te fa magnà da ’e squale. E bada a mio figlio, se no ti scanno come un porco con le mani mie”. “Stai tranquilla Imma” concluse Gigi, e attaccò. Non gli piaceva la sensazione che gli aveva messo addosso la sorella. Non gli piaceva il passato nebuloso dei due montenegrini, non gli piaceva la scaltrezza di Santamaria, che lo trattava con sufficienza e gli centellinava le informazioni. Gli piacevano i soldi, le puttane e le belle macchine. Se Gigi fosse stato tipo da morire per la gloria, almeno gli avrebbero fatto il monumento; ma morire per fare il nacchennella era da coglioni. E non ci aveva voluto pensare fino a quel momento, ma qua se non stava attento rischiava veramente la pelle. Aprì la porta della stanza del socio, che si stava giocando l’impossibile a blackjack online, e gli si rivolse con un tono di voce meno deciso di quello che avrebbe voluto usare. “E basta cu ‘stu videopoker, Armà! Ccà s’adda faticà! Prendi il prospetto del tempo indeterminato che ci ha fatto Iacovelli, vediamo quanto ci viene a costare mio nipote…” *** Quella sera stessa, Samir e Darko raggiunsero Roma in treno e a Fiumicino si imbarcarono su un aeromobile diretto a Podgorica. Al capo di un’oretta di volo raggiunsero la capitale del loro paese di origine, dove li aspettava una macchina. La comoda Mercedes classe E si diresse verso una contrada abitata solo da cervi e conigli, e si fermò davanti a un casale che a prima vista sembrava abbandonato. Samir e Darko scesero dall’auto ed entrarono nell’edificio. Due malignoni con i Kalashnikov e le mimetiche avevano messo in fila una decina di ragazze, tutte fra i diciotto e i ventisei anni. Molte di loro portavano segni di violenza: occhi neri, labbra spaccate, lividi. Darko disse qualcosa, e le ragazze cominciarono lentamente a spogliarsi. I due uomini d’affari le passarono in rassegna, le fecero voltare, le tastarono, le palpeggiarono. Una biondina esile dall’espressione terrorizzata cominciò a singhiozzare. Samir le tirò uno schiaffo e la ragazza cedette di schianto, crollando a terra e mettendosi a implorare in una lingua che non era proprio quella di Darko e Samir, ma abbastanza simile per essere capita. Poi fu Darko a parlare, e la biondina fu portata via da uno dei due satanassi. Aveva smesso di piangere e strepitare. Fissava


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con gli occhi sbarrati un punto a caso nello spazio, e si lasciava guidare dal suo carceriere. Adesso quella stessa espressione di terrore ce l’avevano stampata in faccia le altre. Darko palpeggiò ancora un po’, si strusciò addosso a un paio di loro, e alla fine ordinò al belzebù rimasto di portarle via. Lui, insieme a Samir, risalì in macchina, per farsi portare a casa. Mentre l’autista imboccava la strada per tornare in città, Darko prese la mano di Samir e se la mise sull’erezione che qualche secondo prima aveva fatto sentire alle ragazze. Samir la tirò fuori e cominciò a fargli una sega, mentre lo chauffeur chiudeva la partizione per non disturbare l’intimità dei due amanti. 2 La signora Imma non aveva parlato a Claudio della conversazione telefonica con il fratello. Non voleva dargli ulteriori motivi di agitazione e di allarme. Stava per ottenere un contratto a tempo indeterminato. Nella sua lucida follia, a Immacolata Maglione sembrava che un’occasione del genere andasse colta a tutti i costi, perfino a rischio della propria incolumità. Ma Claudio non doveva preoccuparsi: sarebbe stata lei a farlo per lui. Per questo, quando il giovane arrivò al lavoro non si aspettava assolutamente che zio Gigi lo facesse accomodare nella sua stanza e gli mettesse davanti l’ennesimo contratto da firmare, e stavolta quello più ambito. “Claudio, il Professore è entusiasta di te! Sei diventato un asset fondamentale per questa azienda. Per questo abbiamo pensato che fosse giusto offrirti un contratto a tempo indeterminato”. Claudio lo firmò immediatamente, senza darsi il tempo di riflettere sui perché e i percome. “Bravo Claudio! E mo’ sì che sei veramente uno dei nostri!” Un’immagine raccapricciante attraversò il cervello di Claudio: i Freaks di Todd Browning lo attorniavano, cantilenando “one of us, one of us, gooble gobble, gooble gobble…” “Più tardi Santamaria ti chiama e ti fa sapere quali saranno i tuoi nuovi compiti. Per il momento goditi questo successo!” Diede una pacca sulla spalla al nipote, il quale non trovò assolutamente niente da dire. Per cui si alzò, si infilò il contratto in una tasca del giaccone (che non aveva nemmeno avuto il tempo di togliersi) e se ne andò nella stanza sua e di Vanessa. Ecco perché zio Gigi gli aveva aperto la porta, e lo aveva fatto entrare direttamente nella sua stanza. Vanessa non doveva sapere. Vanessa era ancora a tempo determinato. Ma la vestale, che si era resa conto di quella stranezza nel comportamento del datore di lavoro, vide qualcosa spuntare dalla tasca del giaccone di Claudio. Un pezzo di carta. Attese disciplinata l’ora della pausa caffè. Finse di leggere un messaggio di posta elettronica. “Marò, e mo’ questo che vuole? Claudio, ti dispiace andare a fare un paio di caffè? Io sono bloccata. Devo rispondere a ‘sto cretino, se no mi combina qualche guaio…” Non appena Claudio uscì dalla stanza, Vanessa si fiondò sulla carta sospetta. I suoi peggiori timori furono confermati. Fu presa da una rabbia che non aveva mai provato in vita sua, e non riuscì a


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trattenersi dal fare irruzione nella stanza del dottor Maglione con un cipiglio da Gorgone. Quando Claudio tornò con i caffè, Vanessa era già paonazza, con le vene del collo che sembravano sul punto di scoppiare, e sperperava i frutti di anni di pazienti tatticismi in una sola, epica sfuriata. “Sono tre anni che mi faccio il mazzo qua dentro! Tre anni! E quello mo’ è arrivato!” “Vanessa, calmati!” “No, non mi calmo! Che tiene lui più di me? Sa l’inglese? Sì? E je tengo cheste!” Vanessa aveva passato ogni limite. Si era presa le mammelle in mano e le agitava contro zio Gigi come un capo d’accusa. “SETTE MENSILITÁ, DOTTOR MAGLIONE! SETTE MENSILITÁ!” “Ué, picceré, mo’ basta. E’ capito o no? BASTA! Qua dentro comando io, è chiaro? E se non ti stanno bene le mie decisioni aiza ‘ncuollo e te ne vaje!” Vanessa dovette scappare in bagno, per non avere una crisi di pianto davanti al suo capo. Pianse finché non le bruciarono gli occhi e giurò vendetta. Vendetta contro il dottor Maglione, che l’aveva umiliata. E vendetta anche contro suo nipote; tutto era cominciato a girare storto con il suo arrivo. “No, io a questi li rovino” continuava a ripetersi, mentre si rifaceva il trucco. Si era decisa ad andarsene, lì dentro non ci poteva più rimanere. Ma se doveva morire Sansone, i Filistei non si sarebbero salvati. Lei andava dai Carabinieri. Vedessero, se non lo faceva. Li denunciava per mobbing e per l’interminabile serie di irregolarità che aveva riscontrato in tre anni di lavoro in quel posto. Prima però doveva passare per la sua scrivania a recuperare le sue cose. Quando entrò nella stanza, non degnò Claudio di mezzo sguardo. Fu lui a rivolgerle la parola, spiazzandola ancora una volta. “Mi dispiace, Vanessa. Lo so che tu sei qui da prima di me, e forse questo non è giusto. Ma mettiti nei miei panni, tu che avresti fatto? L’avresti rifiutato, il contratto?” Vanessa restò a guardarlo fisso, a bocca aperta, per alcuni secondi. Poi gli parlò, con un tono accorato che lui non le aveva mai sentito usare: “Stai attento, Claudio! Questa è gente cattiva. Rischi di metterti nei guai…” Era successo un miracolo. A ventisei anni e mezzo, Vanessa Corcione aveva scoperto il sentimento della solidarietà. Era bastato trovarsi una sola volta in zona retrocessione. La ragazza prese la borsa, ci mise dentro il cellulare e i pupazzetti e gadget vari che aveva sulla scrivania, e si avvicinò a Claudio. Con un gesto spontaneo, una volta tanto, si chinò su di lui e lo baciò sulla guancia. Poi, senza più sculettare, si avviò alla porta, la aprì e se la chiuse dietro. 3 Le cose stavano prendendo una brutta piega. Doveva capire che diavolo stava succedendo.


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Durante l’incontro all’Hotel Vesuvio Santamaria e i montenegrini continuavano a parlare di bruciare qualcosa. Il resto non riusciva a capirlo, era come se fosse una specie di codice. Claudio pensò che Vanessa avrebbe potuto aiutarlo a fare chiarezza. Dopo tutto, era effettivamente alla Maglione Consulting da tre anni, magari ne sapeva più di lui. Appena uscito dal lavoro, la chiamò. “Pronto, Vanessa, sono Claudio. Mi chiedevo se potevamo parlare un po’ delle cose che sono successe ultimamente in ufficio. Ti devo ancora una cena come si deve”. Non l’avesse mai detto. Vanessa si fece portare al sushi bar. Si trattava notoriamente di un posto dove si spendeva molto e non ci si saziava mai. Vanessa gli parlò di evasione fiscale, delle magagne di Armando per finanziare il vizio del gioco, di sporadici contatti con la criminalità organizzata. Solo quando portarono il sake arrivò finalmente al dunque. “E poi c’è quest’ultimo affare, quello in cui ti hanno coinvolto. Non ne so molto, so solo che i due tizi che hai incontrato sono due montenegrini, e secondo tuo zio sono molto pericolosi. Pare che siano pure criminali di guerra.” “Sì, ma l’affare in che consiste?” “Non lo so, Claudio. Davvero, altrimenti te lo direi.” Vanessa lo guardava sorridendo, ma non come aveva fatto quando cercava di allisciarselo per avere il tanto sospirato tempo indeterminato che poi invece era stato concesso a lui. Ora il sorriso era disinteressato, autentico. “Vabbè, facciamo un brindisi” propose lui. “Al futuro”. “Al futuro” ripeté Vanessa, svuotando il bicchierino. “Qualsiasi cosa ci porti”. Per il momento, il futuro portò a Claudio il conto della cena. Sessantatre euro in due, e pareva che stava digiuno. Uscirono dal ristorante, e Claudio accompagnò Vanessa alla macchina. La ragazza lo abbracciò e gli sussurrò nell’orecchio: “Grazie”. Claudio aveva capito che quel ringraziamento non era solo per la cena. Aveva aiutato Vanessa a diventare donna, più di quanto non lo avesse fatto la fatidica operazione costata sette mensilità, e gli dispiaceva solo che lei avesse conquistato questa nuova consapevolezza al prezzo della perdita del lavoro. Ricambiò l’abbraccio e le augurò buona fortuna. Tornò alla macchina pieno di orgoglio per il modo in cui aveva gestito quest’ultima fase del suo rapporto con Vanessa, dell’impronta che aveva lasciato su di lei. Sarebbe stato ancora più orgoglioso, pensò, se mentre si abbracciavano non avesse avuto l’ennesima, involontaria erezione. Ma chi può spiegare i misteri della sessualità? Era immerso in questi pensieri, e infilava meccanicamente le chiavi nella portiera della Seicento, quando si sentì chiamare da lontano. “Claudio!”


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Socchiuse gli occhi per sforzarsi di mettere a fuoco la sagoma lontana, alla luce fioca dei lampioni. “Ummarò, Claudio! So’ Pasquale! Pasquale dell’università!” Un paio di minuti dopo erano seduti sotto il colonnato della chiesa di San Francesco di Paola, a Piazza Plebiscito. Pasquale, manco a dirlo, stava facendo una canna. L’effetto straordinariamente suggestivo creato dall’illuminazione notturna non bastava a distoglierlo dall’alacre ufficio di seppellire praticamente ogni minuto della sua vita sotto una pietosa coltre di ottundimento. Ci voleva ben altro, per pensare soltanto di cominciare a riscattare un’esistenza come quella di Pasquale. “Montenegrini, Pasquale. Pare che sono pure criminali di guerra… hai capito con chi devo avere a che fare, per guadagnarmi uno stipendio?” Nel frattempo Pasquale aveva acceso lo spinello, in ottemperanza all’antica ma sempre valida legge di Mastro Ciccio. Esalando una densa boccata di fumo, disse la sua: “Claudiè, te lo ricordi a Kipling? Eh? 'Il fardello dell’uomo bianco'… La missione civilizzatrice… Ecco qua come li abbiamo civilizzati. Quelli erano comunisti, si spartivano la robba… Claudiè, ma tu hai capito? Se sparteveno ‘a rrobba!” Pasquale aveva un’espressione molto divertita, come stesse dicendo qualcosa di veramente esilarante. “E Gramsci? A Gramsci te lo ricordi, eh Claudio?” Si riferiva al fondatore dell’Ordine Nuovo e del Partito Comunista d’Italia come se fosse stato un loro collega d’università. “L’egemonia culturale… Ma di quale cultura? Eh, Claudiè? La cultura della morte. Questa è la cultura che abbiamo fatto trionfare nel mondo, amico mio. ‘A cultura d’a bbotta ‘mpietto, ‘a cultura d’o fucile e d’a pistola…” Pasquale abbassò di colpo la testa, con un gesto ridicolamente teatrale. Poi, mentre passava la canna a Claudio, aggiunse: “Camposanti e supermercati, Claudio. Solo quello resterà, alla fine. Camposanti e supermercati”. Fumarono in silenzio, poi Claudio disse “palo”, gettò via il mozzicone e si alzò per andarsene. “Oh, ci becchiamo in giro…” “Sì, ci becchiamo…” ripeté Pasquale, sorridendo di un sorriso esile e malaticcio. 4 Per tutto il tempo del viaggio da Napoli a Casalise Claudio continuò a chiedersi che cosa potessero voler bruciare i montenegrini. Come si potevano fare soldi bruciando qualcosa? Bruciare voleva dire distruggere. Come si faceva a guadagnare distruggendo? Arrivato sotto casa, vide che la discarica abusiva era di nuovo in fiamme, e la realizzazione dell’ovvio lo colpì come un pugno in un


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occhio. La monnezza, Claudio. La monnezza. La “termovalorizzazione”. Questo era il business. Ma che c’entravano i montenegrini? A che servivano, nell’affare? E qual era invece il ruolo della Maglione Consulting? E quello di Santamaria? Squillò il cellulare. Era Linda. “Ciao Linda. Tutto bene?” “Perché non mi chiami mai?” Aveva ragione. Perché? Era sempre lei a contattarlo. “Scusami, è che ho un problema al lavoro…” “Ne vuoi parlare con me?” “Non so, Linda, adesso è tardi… Se ti va ci vediamo domani sera, per cena”. “Certo che mi va, Claudio. Ma chiamami tu, domani. Non giocare a nascondino”. Ormai non poteva, anche volendo. Gli aveva fatto tana. Avrebbero mangiato insieme, Claudio si sarebbe aperto con lei, e forse Linda gli avrebbe dato qualche buon consiglio. Oppure, magari, avrebbero fatto sesso. E pure quello ci poteva stare, almeno allentava un po’ la tensione. “Ti prometto che ti chiamo. Buonanotte, Linda”. “Buonanotte, tesoro”. Questa volta bastò una singola parola pronunciata nel modo giusto per procurare a Claudio un’erezione. E non si pensi che il nostro non aveva un animo romantico. Scambiare il desiderio per prosaica ricerca di appagamento è cosa assai prosaica. Claudio mise la macchina nel box condominiale e salì a casa. La madre era già a letto, e dormiva come un minatore gallese del diciannovesimo secolo con un gallone di sidro in corpo. Lui andò nella sua stanza, accese il computer, e aprì come al solito Facebook. C’era un messaggio privato di Vanessa. “La password del computer di tuo zio è 'luigimaglione1952'. Che fantasia, eh? Difenditi, Claudio, non ti fare fottere!” Claudio ringraziò la ex-collega e memorizzò la password sul cellulare. Poi fu lui a scrivere un messaggio privato a un amico: “Ciao Federico, mi servirebbe un favore. Tu sei capace di entrare in un PC in accesso remoto?” Federico era online, e gli rispose subito. “Sì, certo, basta che il computer in cui devo entrare sia acceso”.


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Non c’erano problemi, gli assicurò Claudio. Zio Gigi lasciava sempre il computer acceso quando andava a casa a mangiare. Federico avrebbe avuto due ore abbondanti per entrarci dentro, trovare i file che interessavano a Claudio e scaricarli. “Ok, ora mi devi solo dare l’IP del PC in questione e dirmi quali file ti servono”. “Domani ti scrivo tutto. Grazie Federì, sei un grande”. “Non c’è di che, Claudio. Mi devi una birra”. E così, in cambio di una birra, Claudio si era assicurato un alleato che gli avrebbe consentito di fottere zio Gigi senza il minimo rischio personale. Qualsiasi codice può essere appreso, se si hanno abbastanza tempo e sufficienti motivazioni. Claudio lo sapeva bene. Era così che aveva imparato l’inglese. Era così che aveva imparato a giocare a scacchi. Ed era così che stava imparando a fare l’uomo di merda. “Adeguarsi” diceva Antonio Buonocore. E lui si sarebbe adeguato. Gli avrebbe fatto un culo così, al ragioniere Casoria. 5 I computer dell’ufficio, naturalmente, erano tutti collegati in una rete locale. Questo presentava un problema, dal momento che il router assegnava automaticamente un IP a ciascun PC, appena acceso. L’IP di oggi non sarebbe stato quello di domani: bisognava agire in fretta. Tramite Facebook Federico spiegò a Claudio come fare per individuare l’elenco degli IP. Identificare quello corrispondente al computer di suo zio fu semplicissimo, dal momento che zio Gigi l’aveva nominato, con la solita immaginazione che lo contraddistingueva, “GIGIPC”. Una volta arrivata l’ora di pranzo, il filibustiere andò come sempre a casa a mangiare, lasciando il campo libero a Claudio e al suo complice. Trovare i file fu forse la cosa più semplice: erano tutti in un cartella denominata “Progetto Montenegro”. Federico li scaricò rapidamente, e li girò a Claudio nel giro di pochi minuti. Ormai solo in stanza, con lo zio fuori dai piedi e Armando incollato davanti a una rappresentazione pixellata del tavolo verde che lo stava rovinando, Claudio studiò con calma tutta la documentazione. Il Progetto Montenegro consisteva nella costruzione di dodici inceneritori in altrettante località di quel paese, grazie a finanziamenti europei. Fondi per lo sviluppo. Ironica questa idea di uno sviluppo che cominciava dall’avvelenare un paese, e ridurlo come se un Attila di umore particolarmente cattivo lo avesse percorso in lungo e in largo. Eppure geniale. Santamaria (Claudio non aveva dubbi che l’idea fosse sua) aveva trovato il modo di smaltire tutta la monnezza che la Campania e l’Italia tutta non sapevano più dove mettere: farla bruciare a chi era più pezzente di noi. Il progetto avrebbe impiegato fondi destinati sia al Montenegro (nuovissima acquisizione della UE) che all’Italia, con l’impegno da parte della “Čast i Ponos Ltd”, la ditta di Darko e Samir, di smaltire almeno un milione e duecentomila tonnellate di monnezza tricolore ogni anno. Non bastavano i morti che aveva fatto la guerra; stavano per arrivare quelli fatti dalle polveri sottili, e dalla variegata gamma di rifiuti altamente tossici che sarebbero stati certamente buttati di


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stramacchio negli inceneritori, come per decenni erano stati sotterrati nelle campagne fra Napoli e Caserta, o dati alle fiamme ai bordi delle strade provinciali. Stava arrivando la missione civilizzatrice del progredito Occidente. Malattie delle vie respiratorie, malformazioni genetiche, cancro, erano un prezzo ragionevole da pagare per il benessere, o no? Certo, un benessere limitato a pochi, ma la Storia aveva chiaramente decretato che il diritto a primeggiare era l’essenza della libertà. Che poi questo primeggiare non fosse il risultato di una leale competizione all’insegna del fair play, ma di una complessa e fitta rete di inenarrabili violenze di cui anche il peggiore degli esseri umani avrebbe dovuto vergognarsi, era un dettaglio. Mentre leggeva e rileggeva cifre, nomi e date, Claudio si sentì venire meno. Era già tutto deciso. Quello che Santamaria e i montenegrini avevano discusso era evidentemente il lato illegale, sommerso, dell’operazione. Bustarelle per amministratori locali e funzionari di polizia, bonus fuori bilancio, criminali da assoldare per scoraggiare qualsiasi eventuale opposizione… Il progetto era chiuso, e presto sarebbe stato presentato. Claudio si vide davanti il sorriso sbiadito di Pasquale, che non smetteva di ripetergli “L’egemonia, Claudiè! L’egemonia della morte!” Con le mani che gli tremavano, si passò la cartella su una pen drive, la cancellò dal suo desktop, e corse in bagno. L’acqua gelata in faccia non riuscì a cancellare il viso smunto di Pasquale che, fra un tiro e l’altro di puzzone, continuava a incalzarlo: “Gramsci, Claudiè. Te lo ricordi a Gramsci? Ce l’hanno ucciso! La morte, Claudio! La morte è l’unica ideologia rimasta!” Claudio si guardò allo specchio, e vide una faccia da cinema espressionista tedesco. Capì che se non fosse corso immediatamente da Linda sarebbe impazzito. Prese il giaccone dall’attaccapanni, se lo infilò, e si fiondò fuori dalla porta, mentre Armando bestemmiava perché gli era uscito il sei invece della donna. 6 “Linda, ti devo vedere. Adesso, subito. Ti prego…” Claudio, che le era sembrato così distaccato, che non l’aveva mai chiamata di sua iniziativa, ora insisteva per incontrarla immediatamente. “Ma non avevamo detto che ci saremmo visti a cena?” “No, Linda, non posso aspettare, ti devo vedere adesso…” Stava piagnucolando. Linda pensò che doveva essere successo qualcosa di grave. “Va bene, va bene. Io ora vado in pausa pranzo.” “Dov’è la redazione del giornale?” “Hai presente il centro commerciale che hanno messo l’anno scorso? Venendo da Napoli, ci passi davanti e prendi la seconda a destra”.


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“Aspettami, arrivo prima che posso”. Quindici minuti e quarantasei secondi dopo era davanti alla redazione del Gazzettino di Casalise. Linda era sul marciapiedi ad aspettarlo, avvolta in una pesante sciarpa per proteggersi dal freddo. Claudio parcheggiò alla buona, si catapultò fuori dalla macchina e corse ad abbracciarla. “Claudio, ma che succede?” “Questi sono pazzi… pazzi e criminali…” mormorava Claudio, senza riuscire ad aggiungere altro. “Chi è pazzo?” “Pazzi e criminali…” Claudio, insomma, mi vuoi spiegare? Claudio tirò fuori la pen drive e la spinse contro il palmo della mano di Linda, che istintivamente la strinse. Stavolta parlò con voce ferma e decisa. “Qua sopra c’è il progetto che mio zio vuole farmi seguire, Linda. Questo è il parto geniale della mente eccelsa del grande accademico, professor Santamaria! QUESTO È IL PROGRESSO, LINDA!” “Claudio, calmati! Che ti è successo?” “Apri i file, Linda. Studiali tutti, come ho fatto io. Renditi conto del mondo in cui viviamo. E POI LO DEVI SCRIVERE, HAI CAPITO? LO DEVI SCRIVERE!” “Ma che cosa devo scrivere?” “No no, ferma, non scrivere niente!” Claudio aveva ricominciato a piagnucolare. “Non scrivere niente, quelli ti fanno fare la fine di Siani! O era Gramsci? Io non lo so, non capisco più niente…” “Andiamo a casa mia, Claudio. Vieni, prendiamo la mia macchina.” Ancora una volta Linda lo prese per mano, e lo guidò alla vettura. “Entra, Claudio. Ecco, mettiti la cintura…” Lo sistemò sul sedile del passeggero come se fosse stato un bambino, gli allacciò la cintura di sicurezza, poi montò, mise in moto, e corse a casa. La madre di Linda era tornata da Verona. Quando sentì la porta d’ingresso aprirsi, diede una voce dalla cucina. “Linda, sei venuta per pranzo? Non ti aspettavo… E mo’ che ti do da mangiare?” Poi vide che la figlia attraversava il corridoio con un giovanotto che sembrava in stato confusionale, e la guardò con espressione interrogativa. La ragazza le restituì lo sguardo, limitandosi a dire un’unica parola: “Dopo”. Accompagnò Claudio nella sua stanza, si sedette con lui sul letto, e gli fece appoggiare la testa


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sulla sua spalla. Cominciò a oscillare dolcemente, quasi impercettibilmente, accarezzandogli la testa. Cinque minuti dopo, lui dormiva. Linda accese il PC, inserì la pen drive in una porta USB e si mise a leggere i file che c’erano dentro. Quando Claudio si svegliò, un’ora e un quarto dopo, se n’era fatta un’idea abbastanza precisa. Le prime parole che il suo uomo le sentì dire, al suo risveglio, furono: “Tu te ne devi andare da quel posto”.


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Capitolo V: Napule nunn’adda cagnà

1 Era una parola. Come faceva ad andarsene? Come avrebbe potuto dire alla madre che rinunciava a un contratto a tempo indeterminato? Poteva mai dare un simile calcio alla fortuna? Lui non aveva l’intimo di sfratto, come Cardone, né doveva pagare le cambiali della Pedalina della premiata ditta Bordini & Stocchetti di Torino come Lo Turco, ma non nuotava nemmeno nell’oro. Claudio e la madre avevano sempre vissuto con il costante aiuto economico di zio Gigi, e quello sporadico di suo padre Antonio. Con la pensione di maestra elementare due persone in affitto vivono piuttosto male. E la signora Imma non disponeva di altri redditi. Claudio poteva lasciare la Maglione Consulting e tornare ai suoi lavoretti saltuari, non sarebbe morto di fame. Almeno, non finché fosse stata in vita la madre. Alla scomparsa di lei, si sarebbe trovato nell’impossibilità di pagare l’affitto, e sarebbero stati i proverbiali cazzi da cacare. Linda aveva capito e non aveva insistito, ma adesso le era entrata un’ansia fino ad allora mai provata. E questo mentre il suo rapporto con Claudio si consolidava con inattesa rapidità: quando la madre aveva chiesto chi fosse “quel giovanotto”, lui si era presentato senza la minima esitazione come “il fidanzato di vostra figlia”. La signora aveva improvvisato qualcosa, e Claudio era rimasto a pranzo. Era contenta, la madre di Linda, che la figlia avesse trovato “un bravo ragazzo, lavoratore e con la testa sulle spalle”. La situazione, se non ci fossero stati di mezzo due criminali di guerra, un puttaniere scriteriato e un professore universitario che per la ricchezza e il potere era disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella degli altri, sarebbe stata quel che si dice idilliaca. Mentre erano a tavola, la madre di Linda accese il televisore e lo sintonizzò sul telegiornale locale. A momenti il boccone gli andò di traverso, quando Claudio D’Avella vide sullo schermo il viso spigoloso e severo del professor Santamaria. Pareva che avesse pubblicato un libro, e il TG regionale gli faceva la marchetta di prammatica. Il titolo del volume era Bruciare le tappe. “Allora, professore, ci parli della sua ultima fatica”. “Si tratta di un libro a cui tengo molto. Vede, lo smaltimento dei rifiuti urbani è una grossa opportunità per il Mezzogiorno d’Italia, ma va affrontato con maturo realismo, senza farsi illusioni. Le esperienze recenti hanno dimostrato che la raccolta differenziata produce risultati modesti nelle grandi aree metropolitane”. Le “esperienze recenti” erano intimidazioni camorristiche agli autisti dei mezzi Asia, atti di vandalismo contro le campane del vetro e del multimateriale, e proteste di piazza con tanto di svuotamento di sacchetti sulla pubblica via. “La termovalorizzazione, al contrario, permette di trasformare un problema in una fonte di impiego e di guadagno”.


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“Ecco, professore, ma lei si rende conto che nel nostro paese si sta creando una certa, diciamo così, insofferenza rispetto alla costruzione degli inceneritori…” “Termovalorizzatori, prego. Certo, sono perfettamente cosciente di questo aspetto. Infatti sto lavorando a un progetto che prevede la delocalizzazione delle attività di combustione. Il futuro è nell’integrazione europea, nella libera circolazione di merci e servizi. E noi italiani, specialmente noi meridionali, dobbiamo bruciare le tappe per recuperare tutto il terreno perduto”. “Insomma, la globalizzazione della monnezza?” osservò l’intervistatore con un sorrisetto che voleva sembrare ironico, ma risultava solo imbecille. Il professor Santamaria ricambiò il sorriso, ma il suo non gli dava l’aria di un cretino. “Certo, perché no?” Infatti, perché no? Se il tempo, il lavoro, la dignità degli esseri umani erano merce, perché mai non avrebbe dovuto esserlo anche la loro salute? Perché separare l’umido dalla plastica, dal vetro, dalla carta? Perché riciclare, quando produrre da zero creava maggiori profitti? Che cosa? Le risorse si sarebbero esaurite? E che era, un problema di Santamaria? Quanti anni ancora poteva campare, lui? Venti? Venticinque? Se la sarebbero pianta le generazioni che non erano ancora nate. Nunc est ardendum, nunc libera manu inquinanda tellus. Che sfaccimma ce ne fotte ‘e chi ancora nunn’è nato? E poi noi la monnezza la facciamo bruciare a quei quattro zingari, mica la bruciamo noi. I veleni se li respirano loro. Che ci importa di quello che dicono quattro morti di fame? La democrazia? Ma facitece ‘o piacere… Sono i soldi a decidere quello che si fa e quello che non si fa. Il banco, alla fine, vince sempre. Linda mise la mano su quella di Claudio, mentre il giornalista mostrava il libro di Santamaria alla telecamera. Bruciare le tappe. Quello che voleva bruciare questa gente di merda era il futuro. Non c’era più niente da dire, e così Linda si limitò a intrecciare le dita con quelle del suo “fidanzato”. “Ah, ma questo professore ha avuto proprio un’idea rivoluzionaria!” La madre di Linda era solita parlare senza riflettere troppo su quello che stava per dire. Questa volta non fece eccezione. Lo sguardo della figlia la fulminò. “Ma perché, scusa, non è vero?” “Napule nunn’adda cagnà” disse Claudio a bassa voce, fissando il vuoto. E poi aggiunse, sorridendo più o meno come Pasquale dell’università quando parlava di Kipling: “E chi fa ‘o festival more acciso”. 2 “Stu fetente! St’omme ‘e niente! Ma chi l’ha vutato a stu deficiente!” Gli improperi di zio Gigi erano per il sindaco. Il giorno prima, all’inaugurazione di una nuova,


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ennesima zona pedonale, aveva parlato della sua intenzione di avviare la “differenziata spinta” in altre sei circoscrizioni della città, nel giro dei prossimi due anni. “Chisto ce leva ‘a purpetta ‘a int’o piatto” sentenziò Armando, preoccupato per il suo futuro di gioco-dipendente. “Si deve fare qualcosa! Questo incosciente ci toglie la monnezza! E noi come lavoriamo???” “Hai chiamato Santamaria?” chiese Armando. “Hai ragione. Dobbiamo parlare con lui, subito”. Compose il numero sul cellulare e fece partire la chiamata. Santamaria alzò al secondo squillo. “Ci sto già lavorando. Non preoccupatevi, restate calmi. E da domani il ragazzo viene a lavorare nel mio studio, in dipartimento”. Il dottor Maglione non ebbe il tempo di dire mezza parola. Santamaria gli comunicò quanto doveva comunicargli e attaccò. Poco male, perché le chiavi che giravano nella toppa annunciavano l’arrivo in ufficio di Claudio. Quando quest’ultimo passò davanti alla stanza dello zio, lui e Armando prendevano il caffè e parlavano del Napoli, che tra un paio di giorni avrebbe affrontato in Champions League il Real Madrid. “Il gol dell’ex, Armà. 1-0, Higuaín!” “E non è poco un solo gol, Gigi?” “L’importante è non prenderli in casa, Armà”. “Buongiorno zio Gigi. Buongiorno Armando”. I due manigoldi gli restituirono il saluto, affettando giovialità. Claudio andò a sedersi nella sua stanza e si collegò immediatamente a Facebook. Ormai per muovere un dito aspettava gli ordini di Santamaria. Al di fuori del Progetto Montenegro, in ufficio non c’era più niente da fare, se non rimanere a disposizione di zio Gigi e dei suoi dilemmi linguistici. Armando, invece, dell’inglese conosceva tutto il vocabolario che gli serviva: deal, hold e raise. Quando lo zio entrò nella stanza, quasi di soppiatto, chattava con Linda. Un rapido ALT+TAB e sul monitor comparve un PDF a caso, che Claudio finse di essere in procinto di tradurre. Zio Gigi esordì con una domanda inane, come fa chi si crede unico depositario della furbizia quando deve introdurre un argomento potenzialmente sgradevole per il suo interlocutore. “Tutto bene, Claudio? Hai finito di tradurre la presentazione del Progetto Melissa?” Si trattava di un progetto da quattro soldi per salvaguardare l’habitat naturali delle api. Roba da fricchettoni, un finanziamento ridicolo, nessuno ci avrebbe mai perso cinque minuti. Claudio lo sapeva bene, e non aveva mai nemmeno iniziato il lavoro. “Veramente sono stato molto impegnato col professor Santamaria ultimamente…”


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“Ecco, parlando del Professore…” Il Progetto Melissa era già stato dimenticato. “Da domani vuole che tu vada a lavorare nel suo studio, all’università”. Anni prima, quando si era laureato, Claudio aveva giurato a se stesso che mai e poi mai avrebbe rimesso piede in un istituto di istruzione superiore. Meglio andare in carcere che restare in un ambiente come quello. Aveva anche rinunciato a un dottorato di ricerca, che la relatrice della sua tesi di laurea aveva provato in tutti i modi ad affibbiargli. Naturalmente, se ci fosse bisogno di dirlo, il dottorato era senza borsa. Adesso Santamaria lo stava risucchiando nell’abisso dal quale era emerso a fatica, lo stava richiamando all’ordine, e al posto che gli era assegnato nel cosmo. L’uomo artefice della propria sorte? Erano solo puttanate. Non era vero niente, il feudalesimo non era mai finito. Alla terra si era sostituito il capitale, ai titoli nobiliari i titoli azionari. Tutto qui. Lui era un servo della gleba, apparteneva a Santamaria. Con un tono carico di infinita stanchezza, chiese: “Dove si trova questo studio?” Zio Gigi si era segnato l’indirizzo su un pezzo di carta. “Via Luigi Settembrini 79”. Si trattava dell’ennesimo edificio acquistato da un ateneo napoletano dalla politica marcatamente espansionista per metterci dentro i suoi baroni e le loro stanze personali. Lì dentro gli illustri accademici facevano un po’ di tutto: ci svolgevano le loro attività professionali extra-accademiche, ci guardavano la partita del Napoli con l’abbonamento Sky pagato dalle rette degli studenti, ci ricevevano le loro amanti… insomma, tutto tranne che il loro lavoro. Il palazzo aveva ospitato fino a poco tempo prima un museo di arte contemporanea, un ignobile carrozzone messo su dall’intellighenzia della sinistra campana, che con l’arrivo del centro-destra al timone della Regione era stato condannato a un lento ma inesorabile declino. Del resto, a quanti potevano interessare le estrose installazioni e performances degli artisti che vi esponevano? Finché c’erano loro, i comunisti, si poteva spendere qualche milioncino per far sbariare la figlia dell’assessore, che in piena estate appendeva le retine con le cozze al soffitto, con l’ovvia e prevedibile conseguenza che dopo due giorni la stanza puzzava a cane morto, e nessuno si azzardava a entrarci; dopo, quando arrivarono quegli altri, ebbero voglia i compagni a denunciare “la morte della cultura”. Non c’erano cazzi, il museo o trovava il modo per autofinanziarsi, oppure chiudeva. E infatti chiuse. La figlia dell’assessore se ne andò in Paraguay a dipingere tucani, e i lavoratori, come di consueto, se lo presero in culo. Adesso ci avrebbe pensato l’Università degli Studi Marco Polo a far fruttare l’investimento. Insegnare (o fingere di insegnare) l’inglese, il francese e lo spagnolo a stuoli di semianalfabeti, figli di semianalfabeti, che non avevano una buona padronanza nemmeno dell’italiano era lucrativo, altroché. Il figlio dell’idraulico non voleva fare l’idraulico. Voleva studiare. Solo che questo desiderio subentrava nella sua labile psiche solo alla fine delle superiori, quando il padre arrivava con la cassetta degli attrezzi in mano e proponeva al rampollo di seguirlo nella giornata di lavoro. Fino ad allora il giovinetto aveva vissuto in un mondo fatato popolato da naufraghi famosi, faccendieri palestrati e puttane in denial. La vista della sagoma della fatica induceva shock e sgomento, e il fanciullo come per incanto si tramutava in aspirante Pico della


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Mirandola, e anelava le sudate carte e gli sudi matti e disperatissimi di leopardiana memoria. L’università ringraziava e incassava. E ingrassava maiali come Santamaria. Maiali di una strana razza, che si nutrivano dell’altrui futuro. “E quindi, caro Claudio, da domani non ci vediamo più…” Zio Gigi rimase lì in silenzio, con le mani sui fianchi, come se aspettasse che il nipote contribuisse alla conversazione. Ma Claudio, infischiandosene delle ingiunzioni di Grice, si ostinava a tacere. “Beh, io vado. Ti lascio lavorare. Prima di andartene passa da me, io e Armando ti abbiamo preso un pensierino”. La giornata fu interminabile. Claudio la passò quasi interamente a farsi consolare da Linda, nei messaggi privati di Facebook. Gli mancava il fiato quando pensava alla macchina mostruosa di cui faceva parte. E non aveva scelta, non poteva rifiutarsi. Lui era il numero sei. Era il Prigioniero. Se avesse provato a sfuggire alla Maglione Consulting e al perfido professor Santamaria, una bolla gigante lo avrebbe raggiunto e inghiottito, e si sarebbe risvegliato circondato dalla solita masnada di avventurieri senza scrupoli, politici corrotti, criminali con la pistola e senza, cardinali finanzieri e decerebrati convinti di avere idee perché tutte le mattine compravano un giornale pubblicato da gente che si arricchiva fottendoli. Il suo unico rifugio era Linda, le sue braccia che lo stringevano, le sue mani che lo accarezzavano, la sua voce che lo rassicurava. Quando finalmente arrivarono le sette, zio Gigi e Armando gli consegnarono uno smartphone di ultimissima generazione. “Grazie, Claudio, per la tua collaborazione! Siamo certi che il professor Santamaria sarà soddisfatto di te come lo siamo noi!” “E questo” aggiunse zio Gigi mettendogli in mano un pacco di forma rettangolare che doveva contenere cioccolatini “è una sciocchezza per tua madre. Portale i miei affettuosi saluti!” Poi Zio Gigi baciò il nipote su entrambe le guance. Armando, come aveva fatto qualche tempo addietro, allungò a Claudio una mano che avrebbe potuto essere quella di un cadavere, se non fosse stato per la temperatura. Claudio uscì dall’ufficio, prese l’ascensore fino al piano terra, e uscì a passo svelto dall’edificio. Dall’altra parte della strada c’era il carcere di Poggioreale. Claudio seguì con lo sguardo la parte della cinta muraria visibile dal suo punto di osservazione. Sembrava non finire mai, eppure quella casa circondariale era stipata di detenuti, ben oltre il numero per cui era stata progettata. Il servo della gleba si chiese come mai, se le cose stavano così, sembrava che i fetenti di merda fossero rimasti tutti fuori. 3 Il tabellone delle informazioni lo informava che il Dipartimento di Geografia dello Sviluppo si trovava al secondo piano. Tale “dipartimento” constava di un’unica stanza, quella del professor Santamaria. Al corso universitario corrispondente erano presenti in media dai sette ai dodici studenti, dei quali solo quattro o cinque resistevano fino al termine dell’anno accademico. Di tanto


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in tanto, il criminale con lo sguardo da procione si prendeva anche il lusso di bocciarne qualcuno. Non lo spaventava il rischio di trovarsi, un bel giorno, di fronte a un’aula vuota; era ben consapevole che quella cattedra era perfettamente inutile all’Università degli Studi Marco Polo, sia dal punto di vista accademico che da quello economico. Gli spettava, punto e basta. La sua militanza di lungo corso nel partito che aveva raccolto le forze “progressiste” della società italiana, nei vent’anni di penosa e travagliata storia politica del paese che vanno sotto il nome di “Seconda Repubblica”, lo rendevano un inamovibile. Claudio salì le scale con la morte nel cuore. There was never a tear in his blue eyes, both sad and bright were they… …perché il giovane Roddy McCorley oggi va a morire sul ponte di Toome. Ad attendere Claudio non c’era la forca, come per l’eroe della sollevazione degli United Irishmen del 1798, ma qualcosa di forse anche peggio: la perdita della libertà, della dignità, della possibilità di vivere senza calpestare i propri principi, se non proprio mettendoli attivamente in pratica. Ebbe nostalgia degli anni passati ad abbrutirsi nella sua stanzetta, delle ore buttate a guardare un programma di cartomanzia o a giocare a un videogioco, delle serate al bar con gli amici a cui non si chiedeva altro che una birra e una chiacchiera. Era abituato alla sconfitta, l’aveva metabolizzata; fin quando poteva restare ai margini di quel mondo in cui non avrebbe mai potuto non solo vincere, ma nemmeno piazzarsi nella parte sinistra della classifica, andava tutto bene. Ma adesso gli avversari pretendevano di portare a casa i tre punti con i suoi gol. Era come se in Fuga per la vittoria Pelè fosse stato costretto a giocare nella squadra dei nazisti. Non voleva fornire assist a Santamaria, gli ripugnava il pensiero di fare da sponda alle sue triangolazioni diaboliche e metterlo solo davanti al portiere. Tutto questo gli faceva schifo soprattutto per la constatazione desolante, indicibilmente amara che stava a monte: l’arbitro era venduto. Non solo non fischiava, non guardava nemmeno la partita. L’avevano messo davanti a uno schermo su cui passavano senza soluzione di continuità le fiction di Rai 1, i programmi “di approfondimento” della 7, i reality, i porno di Sara Tommasi e l’Angelus del papa. Ogni tanto fischiava, su indicazione del potente di turno, e sempre contro la squadra che stava perdendo; la squadra che doveva perdere. Claudio bussò alla porta con la stanchezza e la rassegnazione ataviche di generazioni senza nome. Solo che le sue, a differenza di quelle da cui discendeva il macchinista della locomotiva di Guccini, non urlavano vendetta e non gli accecavano il cuore. Avevano deposto la “fiaccola dell’anarchia”. Ormai si erano cacate il cazzo. “Avanti” rispose con voce ferma il professore. Claudio entrò, salutò il suo aguzzino e appese il solito giaccone nero, un po’ malandato, all’attaccapanni. Sul lato sinistro della stanza c’era la scrivania del cattedratico, e di fronte quella che evidentemente avrebbe dovuto essere la sua. La occupò, e accese il computer. Si aspettava che Santamaria gli dicesse cosa doveva fare, che gli fornisse un qualche input. Ma quello continuava a leggere qualcosa a video, ignorando completamente l’altro occupante della stanza. Claudio ormai aveva completamente rinunciato a qualsiasi parvenza di professionalità, così aprì


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Facebook e cominciò a chattare con Linda. Mentre la ragazza gli dirigeva, tra il serio e il faceto, alcuni vezzeggiativi al limite del codice penale, Santamaria accese il televisore montato sulla parete di fronte alla porta. “Nuje nunn’a vulimme ‘a raccolta differenziata! Nuje vulimme ca aizano tutta ‘sta fetenzia ‘a terra!” Chi parlava era un disoccupato di trentadue anni con piccoli ma numerosi precedenti penali. La fetenzia a cui si riferiva era il contenuto di alcuni sacchetti della spazzatura che lui e i suoi sodali avevano poco prima svacantato in mezzo a Via Roma. “L’anna fernì ‘e ce piglià pe’ cculo! Nuje nun ci’a facimme cchiù!” A quel punto una signora sulla quarantina, truccata come un prostituta daltonica, irruppe sulla scena. “Stamme chine ‘e zoccole e scarrafune! Cierti scarrafune ‘e chesta posta!” e accompagnò l’enfatica dichiarazione tendendo il braccio destro e sovrapponendovi la mano sinistra, all’altezza del polso. La voce fuori campo spiegò poi che la rivolta era cominciata verso le nove della sera prima, quando un gruppo di “cittadini” dei Quartieri Spagnoli aveva fermato un mezzo dell’azienda comunale preposta alla raccolta dei rifiuti, e aggredito l’autista. Quest’ultimo se l’era cavata con qualche contusione e tanta paura, ma il camioncino era stato dato alle fiamme, con frotte di scugnizzi urlanti che gli giravano intorno agitandosi scompostamente come in una specie di immondo sabba. Seguiva un’intervista a un imbarazzatissimo sindaco, al quale un’intervistatrice insolitamente agguerrita faceva sistematicamente la seconda e la terza domanda, non risparmiando un colpo che fosse uno per metterlo in cattiva luce. Così imparava quel megalomane a farsi la sua lista civica, invece di confluire nei ranghi de “l’Italia giusta”. La spietata arpia lo mise alle corde quando gli chiese: “Sindaco, lei come interpreta il crescente malcontento circa la sua politica dello smaltimento dei rifiuti? Non crede che sia giusto dare una risposta alle persone che stanno protestando in queste ore?” Se il sindaco avesse voluto dare una risposta sincera alla domanda, avrebbe dovuto sferrare un calcio in culo al politically correct e informare il resto dell’Italia che a Napoli un voto si vende per cinquanta euro e anche meno, o qualche volta per una spesa al discount o una bolletta pagata. Che se uno aveva soldi da spendere e i giusti contatti, poteva mettere su anche una manifestazione per dichiarare l’Islam religione di stato, o per introdurre lo ius primae noctis. Invece, poiché viveva in un’epoca ormai incapace di rappresentarsi il mondo come il prodotto di spinte opposte e contrarie, che si ostinava a pensarlo retto da un ordine astorico e quindi immutabile, si limitò a dire:


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“Mi rendo conto del disagio vissuto da questi cittadini, e prometto che saranno tutti ascoltati. Però adesso li invito alla calma e al rispetto delle regole del vivere civile”. La linea fu poi restituita al corrispondente di guerra, dietro il quale alcuni cittadini portatori di disagio stavano cospargendo di liquido infiammabile un montone di monnezza. Mentre il giornalista faceva il punto della situazione, le fiamme proruppero improvvisamente dai sacchetti, seguite a breve giro dalle urla belluine degli indomiti comunardi. Il professor Santamaria spense il televisore. Evidentemente aveva visto abbastanza. Claudio, dal canto suo, aveva visto fin troppo. “Napule nunn’adda cagnà…” Fu appena un bisbiglio, ma l’orecchio di Santamaria registrò qualcosa. “Come?” “No, niente, professore. Mi era tornato in mente un film.” Sorrise come Pasquale, come sempre più spesso gli capitava di sorridere. Poi aggiunse: “Un vecchio film”. 4 Il breve interregno di ozio di Claudio era durato poco. All’improvviso Santamaria aveva cominciato a passargli documenti da tradurre, informandosi via via sui progressi fatti nel lavoro. Claudio aveva riconosciuto in quelli i file trafugati dal PC di zio Gigi, ma aveva notato che gli venivano somministrati a pezzetti, e in ordine sparso. Inoltre, il professore gli metteva continuamente fretta, ripetendo ossessivamente che la rapidità era un requisito fondamentale in quel genere di attività. Bisognava rispettare le scadenze, la concorrenza andava battuta sul tempo e via discorrendo. Era chiaro che Santamaria voleva costringerlo a lavorare meccanicamente, senza lasciargli capire quello che leggeva. Ormai non c’era più tempo per farsi chiamare “il mio orsacchiotto” da Linda sulla chat di Facebook, o per leggere indiscrezioni sul mercato di riparazione che stava per aprirsi. Gli unici momenti gradevoli della giornata erano quelli che passava a chiacchierare con Sabatino, un impiegato dell’università che svolgeva le mansioni di custode e tuttofare al servizio di docenti e assistenti. Sabatino non era nato uomo di fiducia. Non veniva da una razza di fiducia, come Luca Cupiello. Suo padre, come il nonno materno di Claudio, era un contadino. Lui stesso, fino all’inizio degli anni Ottanta, aveva lavorato la terra. Poi però il paese aveva cominciato a cambiare, qualcuno aveva capito che con i rifiuti tossici si potevano fare molti più soldi che con le mele annurche, ed era finita che le mele annurche non si erano potute fare più. Sabatino era stato a lavorare in Germania, fino a quando un professore di Economia Politica legato a lui da vincoli di parentela acquisita non gli aveva fatto avere il posto che occupava ora. Tutto questo Sabatino glielo aveva raccontato nelle pause caffè o quando Claudio tirava fuori il panino quotidianamente preparato dalla signora Imma e se lo andava a mangiare in guardiola da lui. Era un galantuomo,


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Sabatino, un signore d’altri tempi, di quella strana specie di aristocrazia che aveva un vestito per il lavoro e uno per la domenica, ma un proverbio per ogni frangente, e una parola di cortesia da mettere all’inizio di ogni frase. Quando Claudio gli raccontava la sua, di vita, Sabatino sospirava, scuoteva la testa e diceva: “O tempora, o mores!” Aveva imparato questa frase da un professore di Filosofia del Diritto, si era fatto spiegare che significava e la ripeteva continuamente perché gli piaceva come suonava. “Don Sabbatì, ma quindi la terra non la tenete più?” “No, je m’avetta vennere tutte cose… Mo’ tengo un giardino a casa, a Brusciano. Mi sfizieo col giardino”. Sabatino spiegò a Claudio che si era trasferito da Acerra a Brusciano perché la casa del padre, che lui avrebbe dovuto ereditare in quanto unico figlio, era stata mangiata dai debiti. Il povero vecchio si era trovato travolto da cambiamenti socio-economici che non aveva capito, era rimasto ostinatamente attaccato alla campagna e al suo modo di fare, che poi era stato quello di suo padre e di suo nonno prima di lui. E l’avevano fottuto. Adesso, al posto della terra del padre di Sabatino c’era un outlet. “Ma io non mi lamento, qua sto bene. ‘O lavoro nunn’è assaje, la mattina apro, la sera chiudo e in mezzo non faccio quasi niente”. Era vero. In quella sede del prestigioso ateneo non si svolgevano corsi né esami: era riservato ai docenti, e ai cazzi loro. Ogni tanto capitava che chiamassero Sabatino per una maniglia da riparare o una guarnizione nuova da mettere a un rubinetto, ma niente di più. Lui, che aveva lavorato la terra, quello non lo considerava nemmeno una fatica. Era il posto. Grazie alla figlia di suo cugino, che aveva sposato il figlio del professor Guardascione, a Sabatino era stato consentito di accedere al paradiso in terra di ogni meridionale. Un pomeriggio Santamaria si era assentato per un non meglio precisato “impegno” e Claudio, come faceva sempre in questi casi, era andato di filato da Sabatino. Un’emittente locale trasmetteva un film di Totò, uno di quei classici che hai visto venti volte, eppure non cambi canale. Di solito il sistema di telecamere di sorveglianza avvisava Claudio dell’arrivo di Santamaria con un anticipo sufficiente a consentirgli di rientrare in stanza e farsi trovare lì dal professore. Ma stavolta, preso da una gag vista e rivista ma sempre divertente, Claudio non si rese conto che l’ideologo della combustione permanente si appropinquava a passo celere, e se lo trovò improvvisamente davanti, mentre rideva per qualcosa che aveva detto Nino Taranto. “Claudio! Sono pronte le traduzioni dei PDF che ti ho passato stamattina?” Il renitente alla leva rimase a bocca aperta, incapace di pensare a una risposta che non lo esponesse a un cazziatone con tutti i sentimenti. Fu Santamaria, allora, a rompere il silenzio. “Mi sembrava di essere stato abbastanza chiaro quando ti ho detto che siamo in una fase molto


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importante del progetto, e che non c’è tempo da perdere”. Santamaria aveva sempre fretta. Apparteneva a una categoria la cui fretta è proverbiale, pensò Claudio. Ma che poteva fare, se non seguirlo in ufficio, in silenzio e a capo chino? Qualche ora dopo, Sabatino lo vide scendere le scale e passare davanti alla guardiola. “Claudio, che ha detto il professore? T’ha sgridato?” Sì, che lo aveva sgridato. Gli aveva fatto pelo e contropelo. E non c’era da stupirsi: la traduzione era necessaria per presentare il progetto. Era una formalità, certo, ma una formalità senza la quale Santamaria, zio Gigi e Armando avrebbero perso una barca di soldi, così come li avrebbero persi i montenegrini. E Claudio non voleva neanche immaginare la situazione in cui si sarebbero venuti a trovare i tre moschettieri del malaffare se un movimento come quello fosse saltato perché mancava la traduzione del progetto in lingua inglese. Si rese conto che inconsciamente aveva tentato di boicottare il Progetto Montenegro. Tutte queste cose Claudio però non le disse a Sabatino. Si limitò a un: “M’ha fatto ‘nu partaccione can un ferneva cchiù…” “Mi dispiace… Tu sì ‘nu bbuonu guaglione, non te lo meriti. Chillo ‘o prufessore a me m’è stato sempre antipatico. Nun l’aggio maje visto ‘e se fà ‘na resata…” Claudio provò a spiegarsi il fenomeno. Evidentemente, la gente come Santamaria non rideva mai perché sapeva bene quanto poco ci fosse da ridere.


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Capitolo VI: Natale in casa D’Avella

1 E intanto era arrivato Natale. La gente intasava di traffico la città, prendeva d’assalto i negozi, chi ce l’aveva si spendeva la tredicesima. Lo “spirito natalizio” prendeva possesso delle strade, attraverso decorazioni che erano in realtà un modo come un altro per estorcere denaro ai commercianti, e ispirava insipidi intermezzi fra i programmi televisivi in cui si mischiava la simbologia cristiana con quella di un personaggio che la gente considerava tradizionale, ma che in effetti ci era stato somministrato pochi decenni addietro, per quanto avesse già nettamente soppiantato il bambino Gesù in quanto a potenza iconica. Come tutti gli anni, zio Gigi e signora erano invitati a mangiare a casa di Claudio. Cinzia, la moglie del filibustiere, era una cinquantaseienne un tempo splendida, ma che non aveva saputo instaurare un rapporto corretto con il tempo. Alcune donne colte e sofisticate riescono, invecchiando, a guadagnare in fascino quello che perdono in freschezza; Cinzia, che era una zantraglia, si ostinava imperterrita a vestirsi e truccarsi come quando aveva venticinque anni, con il risultato di apparire patetica e volgare. Ma, considerata la pasta di cui era fatto Gigi, era quello che Claudio avrebbe definito a match made in heaven. Ciascuno amasse come sapeva, e come poteva: agli aggraziati passerotti, eterei connubi, e ai sublunary lovers come zio Gigi e Cinzia i ristoranti che riciclavano i soldi della cocaina e il centro commerciale la domenica. Quest’anno la signora Imma aveva invitato anche Linda, conosciuta per caso un giorno in cui Claudio aveva pensato di approfittare di una visita di cortesia della madre a una vicina colpita da un lutto improvviso, e una volta tanto concedersi un amplesso come Venere comanda. Di solito si arrangiavano in macchina, o nella sala prove di alcuni amici di Claudio, su un divanetto che non era comodo per sedersi, figuriamoci per farci sesso. Dunque, Linda era andata da lui, e si erano precipitati subito a letto. Ma Imma, una volta fatte le condoglianze alla signora, era subito rientrata per preparare la cena. Aveva trovato Claudio insieme a una bella signorina sui trent’anni, mentre guardavano un DVD nella sua stanza. Claudio aveva a stento avuto il tempo di rimettersi i pantaloni e buttarsi addosso la giacca di una tuta. Linda, per evitare situazioni potenzialmente imbarazzanti, non si era spogliata: si era limitata ad alzarsi la gonna, e togliersi gli slip. Era quello l’unico dettaglio che l’avrebbe potuta tradire, a un’attenta ispezione. La donna che tese la mano alla signora Imma non portava le mutande, ma era per il resto assolutamente inappuntabile. La madre di Claudio strinse quella mano, senza sospettare che fino a qualche secondo prima palpava la natica sinistra di suo figlio mentre lui la penetrava. O tempora, o mores! Che sciagurata epoca, quella in cui due ultratrentenni erano costretti a vivere la dimensione erotica del loro rapporto giocando a un due tre, stella con le generazioni passate! Se non fosse stato per quell’inconveniente, Claudio non avrebbe presentato Linda alla madre. Innanzitutto gli sembrava prematuro, e poi meno sapeva la signora Imma della sua vita sentimentale, meglio era.


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Ma l’inconveniente era capitato, e Linda la sirena era diventata subito una di casa. Imma si era gettata a capofitto nella lunga e laboriosa opera del preparare la successione. Quando lei non ci sarebbe stata più, avrebbe dovuto essere Linda a prendersi cura di Claudio. Le due settimane scarse che erano passate da quella domenica di coito interrotto fino alla vigilia di Natale erano state un turbinio di ricette di cucina, dritte su come togliere le macchie più ostinate dai delicati, e accorati appelli al senso materno di Linda. Tutto ciò era sfociato in un rito di iniziazione che potrà farci sorridere, ma che per Immacolata Maglione era una cosa molto seria: Linda l’avrebbe aiutata a preparare il cenone del ventiquattro sera. Era l’investitura. Il ventiquattro Claudio fu degnato dal professor Santamaria della magnanima concessione di fare mezza giornata. Lui, invece, il rinomato accademico, rimase al lavoro fino alle sei, fra le imprecazioni di Sabatino, costretto a restare fino a quell’ora solo per lui. Claudio si chiedeva come potesse essere impostata la vita privata del professore. Sapeva che era sposato, e non riusciva a immaginare su quali basi, quali compromessi e quali fragili equilibri si reggesse il suo rapporto con la moglie. Bah. Adesso non era il momento di pensare a Santamaria. Linda era già a casa sua da ore, in balia della signora Imma. Claudio si infilò il giaccone e andò via senza fare gli auguri al professore, che del resto non aveva la minima intenzione di farli a Claudio. Li fece, e di cuore, a Sabatino, che con altrettanta cordialità li ricambiò. Poi si infilò nella Seicento e si mise in viaggio. “Homebound” pensò, e si chiese come diavolo si poteva tradurre efficacemente quell’espressione in italiano. 2 Quando Claudio entrò in cucina vide Linda e la madre in grembiule, completamente assorbite dalla frittura del capitone. I rumori della cucina avevano coperto quello della porta di ingresso che si apriva e si chiudeva, e Claudio, in assenza di un maggiordomo, dovette annunciare il suo arrivo. Si schiarì la voce e disse una banalità qualsiasi: “Grandi preparativi, eh?” “Uggesù!” La signora Imma era sobbalzata, colta di sorpresa dall’improvvisa apparizione di Claudio. Linda, invece, si voltò e gli sorrise come faceva sempre. Lui si forzò a baciarla sulle labbra e accarezzarla fra la mandibola e la nuca. Lo infastidiva abbandonarsi a queste dimostrazioni di affetto davanti alla madre; ma lei era quasi sempre presente, per cui aveva deciso che doveva sforzarsi di vincere l’imbarazzo. “E mo’ vattene, lascia lavorare le donne!” gli ingiunse bonariamente Linda, sostenuta dalla sincera approvazione di Imma, che prendeva il matriarcato (o meglio, la particolare forma di matriarcato che vige nel Sud Italia) molto sul serio. Mentre usciva dalla cucina, Claudio notò che Linda indossava il tailleur del giorno in cui l’aveva intervistato. Studiò il modo in cui la gonna le modellava i fianchi generosi, sotto il grembiule che le aveva fatto mettere la madre. Guardò le sue mani piccole, dalle unghie curate, mentre adagiava dolcemente tocchetti di capitone nella padella, in modo da non far schizzare l’olio bollente. Si disse che aveva avuto una fortuna sfacciata, e


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mentre si allontanava a malincuore da quel rassicurante quadretto di serena vita familiare, sentì un improvviso e irrazionale timore che Linda potesse smaterializzarsi, evaporare e tornare a popolare l’immaginazione di uno sconosciuto. Gli tornò in mente un racconto di Borges in cui c’era un tizio che dormiva, e tutto ciò che sognava prendeva forma. Ma poi a un certo punto lui stesso si rendeva conto di essere stato sognato, e questa consapevolezza lo uccideva. Una cosa del genere, non ricordava bene. Claudio sperò che, se Linda era il prodotto dei sogni di qualcuno, quel qualcuno non smettesse di sognarla. Se ne andò nella sua stanza, si tolse le scarpe e si buttò sul letto. Era stravolto dalla stanchezza accumulata in appena una decina di giorni al servizio del professore. Non era una stanchezza causata dallo sforzo prolungato, o dalla mancanza di sonno: era la stanchezza di quelli che remano al ritmo dei tamburi nelle galere moderne. Era la stanchezza dei figli del ceto medio, che si erano diligentemente preparati a raccogliere il testimone dai genitori, si erano presi i loro diplomi e le loro lauree, ma erano stati poi lasciati a piedi dalla stagione delle privatizzazioni selvagge e dalla pressoché totale scomparsa dello Stato da qualsivoglia attività produttiva. Era la stanchezza dei servi della gleba. Claudio si rese conto di aver preso sonno solo quando fu svegliato dall’arrivo di zio Gigi e Cinzia. “Auguri Imma!” Era la voce del lestofante, seguita un attimo dopo da quella di Cinzia, che augurava a sua madre un buon Natale e le faceva un complimento falsissimo sulla sua acconciatura. Claudio era infastidito dall’idea di doversi sedere a tavola con lo zio, ma in un momento come questo la madre non avrebbe mai e poi mai rinunciato a un’occasione per vedere da vicino il fratello e sincerarsi che tutto andasse per il verso giusto, e che suo figlio non fosse esposto a pericolo immediato. Fu Linda a chiamarlo. “Claudio, c’è tuo zio…” Lui la guardò con un’espressione sofferente e sconfitta, come a voler mostrare che aveva sentito arrivare zio Gigi, e sapeva di doversi alzare. Mentre Imma e Linda continuavano a preparare il cenone, fu lui a dover intrattenere la coppia di trappani. Gli toccò ascoltare ben tre barzellette di zio Gigi, che le riciclava dai varietà televisivi; si trattava di idiozie incommensurabili che, per motivi ignoti a Claudio, facevano ridere milioni di italiani. Lui, con tutta la tolleranza di cui era solitamente capace, non era disposto a ritenere legittimo che la gente si scompisciasse alle puttanate di Panariello, e poi non sapesse chi erano i Monty Python o George Carlin. Una volta un cretino al circoletto lo aveva visto con un cofanetto dei Fratelli Marx, e aveva dichiarato con meraviglia di non sapere che l’autore de Il Capitale aveva dei fratelli che facevano i comici. Comunque, poteva fare il comico pure lui, Invece di “inventarsi” il comunismo che, lo sapevano tutti, era “una feroce dittatura”, che poi quello Stalin avrebbe mandato la gente in Siberia, e in tutto il mondo questi cacchio di comunisti avrebbero fatto rivoluzioni su rivoluzioni per togliere la roba e i soldi a chi se li era guadagnati lavorando onestamente. “E non era meglio che faceva il comico? Tengo ragione o no?” aveva concluso il demente, nell’assenso del Gran Consiglio degli Anziani, che avevano alzato


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gli occhi dalle loro partite di scopone e briscola per seguire una discussione di livello insolitamente elevato. Claudio non aveva trovato il coraggio di replicare. Anche ora, ascoltava e fingeva di essere divertito. Finalmente, dopo trentasette minuti di presunte arguzie, doppi sensi da lupanare (ai quali Cinzia sghignazzava sistematicamente senza il minimo ritegno) e banali luoghi comuni sulla politica nazionale, Linda riemerse dalla cucina per prendere posto accanto al suo fidanzato. In sei secondi netti pesò zio Gigi e Cinzia per quello che erano: un trastolaro inverecondo e una venale vaiassa. Simulò cordialità, ma era pronta a difendere il suo uomo con le unghie e con i denti, se avessero osato attaccarlo in qualsiasi maniera, fosse anche la più innocente delle battutine. Non fu necessario. Adesso zio Gigi era terrorizzato dalla possibilità che Claudio lasciasse il lavoro. Proprio adesso che stava per arrivare il momento cruciale… Eh, sì, cruciale. C’era una cosa che Claudio ancora non sapeva, perché non ve n’era traccia scritta, né sul PC dello zio né altrove: era stato designato, in quanto incensurato e servo della gleba, per firmare il Progetto Montenegro. Se qualcosa fosse andato storto, se Darko e Samir si fossero fatti “prendere la mano”, se insomma l’affare si fosse macchiato di sangue, i carabinieri sarebbero andati a prelevare lui. Ci fu un ulteriore quarto d’ora di conversazione insipida e mortalmente noiosa, durante cui Linda dimostrò grande pazienza e metodo. Il discorso non cadde mai sul lavoro di Claudio, il che non fu facile: gli interessi di quei due avanzi dell’Età del Bronzo erano così pochi, e così diversi da quelli di Claudio e Linda, che sarebbero stati costretti a chiedere a zio Gigi di raccontare un’altra barzelletta, se sull’uscio non fosse comparsa la signora Imma con una zuppiera in mano. “Forza, mettiamoci a tavola!” 3 La Vigilia era passata senza particolari danni. Ogni tanto la signora Imma aveva fatto lusinghieri riferimenti a Claudio, quel gran lavoratore di suo figlio, che ormai non stava più “buttato davanti al computer o giù al circoletto”, ma era diventato un membro produttivo della società. Zio Gigi annuiva, e Linda sfiorava la mano di Claudio sotto al tavolo, come per incoraggiarlo a sopportare l’involontaria molestia che gli arrecava la povera Imma, a prenderla per quello che era: l’incapacità di sua madre di capire che la vita non è un esame o un’interrogazione. Sventolava la partecipazione del figlio a un atto ignobile di imperialismo economico come un otto in pagella. Cinzia raccontava aneddoti rionali di scarsissimo interesse, Imma rispondeva con la stessa moneta. Entrambe si complimentarono con Linda per essere “così una bella ragazza, ben vestita, educata…” e con Claudio per essersela accaparrata. Insomma, una rassicurante celebrazione del gretto spirito piccolo borghese grazie al quale questo paese si conserva sempre sostanzialmente uguale a se stesso da tempo immemore. Cambiano le fogge degli abiti, i mezzi di trasporto, la lingua, ma la sostanza dei rapporti sociali rimane la stessa: stabilire, in un complesso gioco dalle regole non scritte, chi so’ je e chi sì tu, e stringere alleanze per levare gli scudi, alla bisogna, contro le fastidiose ingerenze della legge e della norma.


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Claudio aveva auspicato che anche il pranzo del venticinque si svolgesse in un’atmosfera analoga. Purtroppo non fu così. Stavano per sedersi a tavola, quando suonò il campanello. La comitiva era al completo, cosicché la signora Imma pensò che si trattasse di qualche vicino che veniva a fare gli auguri a un orario un po’ inopportuno. Per poco non le prese un colpo, quando aprì la porta e si trovò davanti quello che era ormai a tutti gli effetti, se non formalmente, il suo ex marito. “Antonio!” “Immacolata... Mi fai entrare?” La signora lo lasciò passare e chiuse la porta, ma subito dopo gli pose l’ovvia domanda: “Anto’, che ci fai qua?” “Sono venuto a fare Natale con voi. Ti dispiace?” Non lo sapeva nemmeno lei, se le dispiaceva. Semplicemente, non era nell’ordine delle cose che lui si presentasse da un momento all’altro a casa. Una casa che, di fatto, non era più la sua. “No, figurati, è che non ti aspettavamo… non abbiamo messo il tuo posto a tavola…” Antonio prese questa osservazione come un segnale che forse non era stata una buona idea fare quell’improvvisata. La moglie se ne accorse, e si affrettò a puntualizzare: “Vabbè, la roba c’è, non rimaniamo digiuni! Entra, accomodati. Dentro ci sono Gigi e Cinzia. Ah, a proposito! Claudio si è fidanzato. Lei si chiama Linda, vai a conoscerla”. Nel cervello della signora Imma si stava facendo strada la folle illusione che il marito fosse tornato a casa. In realtà Antonio aveva litigato con Svetlana, la spogliarellista ucraina che stava frequentando, per via del suo rifiuto di metterle l’appartamentino. Svetlana aveva inscenato una crisi di nervi e gli aveva detto chiaro e tondo che lei si era stancata di fare quel lavoraccio, e che se lui le voleva davvero bene la doveva sposare, o quantomeno mantenere. Gli aveva assicurato che non gliela avrebbe fatta neanche vedere fino a quando Antonio non le avesse consegnato le chiavi del loro “nido di amore”, e gli aveva comunicato che per Natale tornava dai suoi, a Odessa. Così Antonio, dopo aver passato la vigilia solo come un cane a mangiare una pizza nel cartone, aveva pensato bene di cercare rifugio e comprensione a casa della donna che aveva tradito, umiliato, snobbato per ventidue anni. Di tornare con lei, se ci fosse bisogno di chiarirlo, non aveva la minima intenzione. Svetlana aveva ventisette anni, un culo che parlava sei lingue e uno stacco di coscia di quelli che hanno solo le slave con il migliore patrimonio genetico. Avrebbe trovato il modo per riuscire a farlo, quello sforzo economico: glielo avrebbe messo, l’appartamentino. In attesa che lei rientrasse, dopo la Befana, avrebbe fatto il family man. Si sarebbe consolato dell’assenza di Svetlana con i manicaretti della signora Imma, che almeno sotto quell’aspetto era decisamente superiore a tutte le bionde e statuarie ragazze dell’Est dietro le quali Antonio aveva perso la testa. Siccome non aveva la minima idea di come gestire una telefonata alla moglie, di come giustificare il suo improvviso desiderio di trascorrere il Natale con lei, non lo aveva fatto. Era abbastanza privo


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di senso della vergogna da presentarsi lì di punto in bianco, e così si era regolato. “Antonio, quanto tempo…” Zio Gigi si meravigliò della presenza del cognato, ed essendo il tipo di persona a cui non piace meravigliarsi si mise subito sulla difensiva. E se fosse tornato a casa? E se Imma, recuperato lo stipendio del marito al ménage familiare, avesse deciso di non mandare più il figlio a lavorare da Santamaria? Claudio, che non vedeva il padre da anni, non era meno sorpreso. “Ué, papà…” fu tutto quello che ritenne opportuno dire. Antonio era in difficoltà. Aveva facilmente dribblato la moglie, ma lì c’erano due uomini adulti e sani di mente che attendevano chiaramente una qualche spiegazione, senza contare Cinzia, che lo guardava come se fosse stato un fantasma. Non c’è che dire, era una situazione scomoda. Ma Antonio D’Avella, non avendo il minimo accenno di spina dorsale, ruppe l’imbarazzo con un: “Beh, che si mangia di buono?” 4 Pochi minuti dopo erano a tavola. In un clima surreale, Claudio presentò Linda ad Antonio, che la subissò di domande. Qualsiasi osservatore avrebbe pensato che Antonio D’Avella stava cercando di rientrare nel suo ruolo di padre e uomo di casa. E questo fu proprio quello che pensò Gigi. La cosa lo infastidiva non poco: Antonio se ne era andato, quella non era più la sua famiglia. Lui, Gigi, l’aveva mandata avanti con i suoi soldi, se l’era coltivata, e adesso che finalmente raccoglieva i frutti di tanto duro lavoro non esisteva proprio che quel puttaniere da quattro soldi gli mandasse tutto all’aria. E se avesse fatto assumere Claudio alla concessionaria in cui lavorava? No, bisognava agire, bisognava impedire un simile disastro. Gigi bevve lentamente dal bicchiere del vino, poi fissò l’invertebrato negli occhi e gli tirò una stilettata: “Anto’, ma facci sentire. Che stai facendo di bello? Frequenti ancora l’Antares?” L’Antares era un locale di dubbia fama in cui tutti i weekend si davano appuntamento puttanieri e puttane, scambisti, pervertiti e professionisti dell’industria del porno in cerca di “amateurs” disposti a girare filmini. Al tavolo lui e Antonio erano gli unici a conoscerlo, per cui agli altri sembrò una domanda innocente. Il padre di Claudio, invece, rimase interdetto. Gigi lo incalzò. “Eh, come ti invidio! Certe volte pure io vorrei fare la vita dello scapolo! Abbi pazienza, Cinzia, non ti offendere, ma l’omme è omme. Deve variare la dieta, non può mangiare mica sempre la stessa cosa. O no, Antonio?” L’uomo era rimasto a bocca aperta, incapace di formulare una qualsiasi risposta. Gigi non aveva la minima intenzione di fermarsi. “Certo che dove la trovi una che cucina come mia sorella? Int’e club privé sicuramente no!” e rise


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sguaiatamente, innescando un riflesso pavloviano in Cinzia e facendole tirare fuori la ianara che era in lei. Fu Imma a intervenire a difesa dell’uomo che, incredibilmente, ora avrebbe voluto trattenere: “Gigi, ma mo’ mi sembra che stai esagerando però…” “Sto esagerando? Sto esagerando?” E qui in zio Gigi scattò qualcosa di sinistro e inquietante, che gli trasformò l’espressione da picaro che aveva sfoggiato fino a quel momento in una maschera di rabbia e aggressività. “’Stu zeza se ne va d’a casa pe’ se mettere cu ‘na zoccola ‘e vintitre anne e lascia ‘a mugliera e ‘nu figlio! Vint’anne doppe torna e s’assetta a tavula senza ricere niente. E io sto esagerando?” Linda era esterrefatta. Guardò Claudio, e si accorse che aveva i pugni e la mascella serrati, e gli occhi lucidi. Non sopportava che un personaggio come zio Gigi desse lezioni di morale a suo padre. E sopportava ancora di meno il fatto che quella merda avesse ragione. “Dici che me ne devo andare, Gigi? Ma che c’entri tu con la mia famiglia?” “Non te ne andare, Antonio! Io voglio che resti!” si affrettò a squittire la signora Imma. A questo punto Antonio D’Avella commise un grave errore. “E tu, Claudio, vuoi che resti o che me ne vada?” Il figlio si alzò con calma da tavola, si avvicinò ad Antonio e gli scaricò addosso ventidue anni di disprezzo. Mentre lo colpiva con calci e pugni ripeteva “chesta nunn’è ‘a casa toja!” e gli sputava addosso. Zio Gigi e Cinzia fecero fatica a tirarlo via. La signora Imma era rimasta pietrificata, e Linda si era affrettata a metterle un braccio intorno alle spalle, un po’ per sostenerla, un po’ per evitare che quella donna così fragile si intromettesse nella colluttazione. Quando l’ira di Claudio si fu placata, Antonio era una maschera di sangue. Si alzò lentamente e a fatica, e guardò in direzione della moglie. La signora Imma piangeva in silenzio. Il tempo della diplomazia era finito. Gigi lasciò il braccio di Claudio, fece un passo avanti e guardò il cognato a muso duro. “E mo’ vattenne, pecchè si no, quant’è vera ‘a Maronna, te dongo ‘o riesto”. 5 Dopo l’incidente, Claudio si era chiuso in camera con Linda, mentre lo zio e Cinzia consolavano la madre e cercavano di convincerla che un uomo come quello era meglio perderlo che trovarlo. La lasagna era rimasta sulla tavola a raffreddarsi, e il resto del sontuoso pranzo di Natale preparato dalla signora Imma attendeva invano di essere consumato nel forno e su un tavolo in cucina. La signora Capece aveva bussato alla porta, dichiarando di essere preoccupata per il rumore infernale che veniva dalla casa di Claudio, ma in realtà motivata dall’irrefrenabile impulso di farsi i cazzi della famiglia D’Avella. Antonio si era messo in macchina e se ne era tornato a casa, dove si era


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medicato con l’acqua ossigenata e aveva telefonato a Svetlana, assicurandole fra le lacrime che lei era la donna della sua vita e che le avrebbe affittato il bilocale che le piaceva tanto. Tutto era tornato a posto. O quasi. “Usciamo, Linda. Andiamo da qualche parte. In un posto qualsiasi, basta che usciamo da qui”. Linda passava la mano fra i capelli di Claudio e rifletteva. Finalmente si decise, e mise il suo ragazzo a conoscenza di un proposito che andava prendendo forma nella sua mente da un paio di settimane. “Claudio, io ho fatto un articolo sul progetto che stai seguendo, e ho già scritto a vari giornali per offrirglielo. Il Giacobino mi ha risposto che la cosa poteva essere interessante, e che se il pezzo era ben documentato l’avrebbero pubblicato. Io ho aspettato a mandarlo perché tu mi hai detto che non volevi lasciare il lavoro. Adesso credo di doverlo fare, e credo che tu debba tagliare ogni rapporto con quella gente. Non si può vivere così, Claudio. Noi non dobbiamo vivere così”. Claudio non riuscì a risponderle. Gli occhi gli si riempirono di lacrime, e la abbracciò. Rimasero così per qualche minuto, fino a che Linda non si alzò dal letto di Claudio e, dopo averlo rassicurato che sarebbe tornata subito, si avviò verso la camera da pranzo. Qualche minuto dopo Gigi e Cinzia si congedavano, esprimendo solidarietà a Imma, ma ribadendo che era meglio che si fosse liberata di Antonio, questa volta si sperava definitivamente. La signora, Claudio e Linda si ritrovarono seduti in soggiorno. Immacolata se ne stava lì con le braccia conserte e un’espressione di infinita pena, senza dire una parola. Fu Linda a prendere l’iniziativa e rompere il silenzio. “Imma, adesso basta. Basta campare così. Fidati di me, per favore”. La signora la guardò e sorrise debolmente. “Non possiamo dipendere da gente come quella, hai capito? Sanno solo mangiare e fottere. Non capiscono che cosa siano l’amore, il rispetto, l’altruismo… solo mangiare e fottere.” Era la prima volta che si concedeva l’uso di un termine così esplicito con la suocera. Ma dopo quello che era successo era improbabile che la signora Imma rimanesse scandalizzata per un riferimento figurato all’atto della copula. “Claudio non deve più andare a lavorare da quelle persone”. Rinfrancata dal fatto che Imma la ascoltava senza controbattere, Linda si sbilanciò: “Tuo fratello non si è comportato bene con Claudio, e non si è comportato bene nemmeno con te”. Qui la signora inarcò le sopracciglia e dischiuse le labbra, come per dire qualcosa, ma non lo fece. La nuora affondò il colpo finale. “Imma, adesso la tua famiglia è solo Claudio. Devi pensare a lui. Allora, che dici?”


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La signora Maglione in D’Avella avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma non poteva: aveva perso l’uso della parola.


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Capitolo VII: I materassi

1 Oramai non si poteva più tornare indietro. Il Giacobino aveva stampato l’articolo di Linda, e lo scandalo aveva assunto portata nazionale. Già dal ventisette Claudio aveva smesso di presentarsi al lavoro. Quando Santamaria lo aveva chiamato, chiedendogli con la solita aria da padrone di questo cazzo come mai non fosse ancora lì, quello che il professore aveva appena un mese prima definito un “ragazzo così entusiasta e dedito al lavoro” lo aveva mandato seccamente affanculo, e gli aveva comunicato con voce carica di autentica gioia che si apprestava a distruggerlo. Dopo di che, aveva attaccato. Era seguita quasi immediatamente una telefonata di zio Gigi il quale, fra l’incredulo e l’indignato, gli chiedeva conto di quello strano comportamento. Gli era stato detto che la famiglia di Claudio aveva chiuso con lui, e gli era stato consigliato di espatriare al più presto, prima che le cose si mettessero male. Ora che perfino i media mainstream avevano dedicato servizi e interi programmi a quella che era rapidamente diventata “Monnezzopoli” nell’immaginario collettivo, restava solo una cosa da fare: andare fino in fondo. “Ma lei si rende conto che i nomi dei titolari della ditta montenegrina coinvolta nel progetto compaiono più volte nei rapporti di Amnesty International? Ha idea delle atrocità di cui sono accusati Samir Bošković e Darko Radojević?” Chi aveva posto la domanda era uno dei pochi giornalisti rimasti in Italia. Pur essendo un moderato e un legalitario, in un paese come quello passava per “comunista” e forcaiolo. La stampa rivale gli dava continuamente del “giustizialista”, come se nel concetto di giustizia ci fosse qualcosa di terribilmente sinistro. “Quelle accuse non sono mai state dimostrate. I signori Bošković e Radojević sono, a quanto mi risulta, liberi cittadini. E io ho sempre fermamente creduto nella presunzione di innocenza. Trovo che sia un caposaldo irrinunciabile di una cultura giuridica democratica”. A difendere l’osceno progetto di Santamaria era stato mandato dal partito Gustavo Rovati, “Guga” per gli amici e per i pennivendoli, uno dei giovani più promettenti del nuovo centro-sinistra. Il suo profilo era quello di un brillante rampollo dell’aristocrazia economica lombarda. Laureato alla Bocconi e dottorato alla UCLA, aveva alle spalle una sfilza di pubblicazioni nel campo dell’economia politica intrise del più bieco liberismo, e un fidanzamento di lunga data, ancora in corso, con la figlia di un importante esponente del centro-destra veneto. “Presunzione di innocenza? Ma certo. Qui non stiamo processando nessuno”. Il giornalista, che era venuto in trasmissione con un faldone di prove più o meno convincenti del fatto che Samir e Darko erano due canaglie della peggiore specie, si mise a leggere documenti e testimonianze. Poi la regia mandò un servizio girato in Montenegro, paese nel quale i partner di


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Santamaria risultavano avere più o meno la stessa reputazione che ha in Italia Totò Riina. Il servizio si chiudeva con l’intervista a un sopravvissuto al massacro di un villaggio bosniaco, in cui Samir e Darko avevano brillato per spirito di iniziativa. Il pubblico fu particolarmente colpito dalla parte in cui Samir, per zittire il comprensibile pianto di un neonato mentre violentava la madre, lo aveva preso per un braccio e scaraventato fuori dalla casa attraverso una finestra aperta. Quella donna e quel bambino erano rispettivamente la moglie e il figlio dell’intervistato, che nel mentre giaceva immobile sul pavimento con la colonna vertebrale spezzata. L’unico motivo per cui i soldati non l’avevano finito era che lo credevano morto. Anche lui, in effetti, credeva che sarebbe morto, quel giorno. E forse, constatava adesso piangendo davanti al microfono sulla sua sedia a rotelle, sarebbe stato meglio. Rovati non aveva fatto una piega, continuando a ripetere che solo un tribunale avrebbe potuto stabilire l’eventuale colpevolezza di Samir e Darko. Ma dopo un’ora e un quarto di trasmissione era l’unico in studio a pensarla così. Gente come Guga faceva carriera, in quella oscena parodia di partito, perché aveva la faccia come il culo. Ed era proprio quello che ci voleva per difendere a spada tratta la granitica alleanza tra le “forze progressiste” e un capitalismo sempre più sfacciatamente criminale. Continuava a riempirsi la bocca della parola “democrazia”, ma la verità era che provava disprezzo e paura per tutto ciò che era autenticamente democratico. Claudio spense la televisione e si rivolse a Linda e alla madre. “E mo’ la guerra la dobbiamo fare noi”. Linda abbracciò una turbata signora Imma, che se solo avesse potuto parlare non avrebbe più smesso di dire “uggesù, ggesù, ggesù”. 2 La mattina del ventisette dicembre, nella sede della Maglione Consulting, due uomini in preda al panico cercavano una via d’uscita dal baratro in cui li aveva cacciati il nipote di zio Gigi. “Giggi, amma chiammà a Santamaria! Subito!” “Statte zitto Armà!” Luigi Maglione doveva riflettere, non poteva dire al professore che non era riuscito a far ragionare Claudio. Doveva trovare un modo per ricomporre il caos, far tornare tutto come prima. Esplorò rapidamente le varie opzioni, e una nuova determinazione si fece strada nel suo sguardo. “Alfredo”. “Giggi, ma sì sicuro?” “Damme ‘o nummero, fà ampressa”. Alfredo era un teppistello di San Pietro a Patierno che all’occorrenza, e in cambio di compensi assai modesti, faceva il lavoro sporco per Gigi e Armando.


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“Alfrè, so’ Maglione. T’aggia parlà ‘e ‘na situazione”. “Dicite, ‘on Luì!” “No per telefono. Viene ccà”. Venti minuti dopo un ragazzo di ventidue anni in tuta e scarpe da ginnastica, con la faccia bruciata dalle lampade e incattivita dalla vita, entrò nella sede della Maglione Consulting. Quando ne uscì, con duecento euro in tasca, sapeva perfettamente cosa fare. *** Avevano da poco spento la televisione, quando le lastre della finestra del soggiorno andarono in frantumi. Il rumore del vetro che si infrangeva fu accompagnato da un suono più secco e sordo. Era quello di un colpo di pistola. Claudio, sua madre e Linda rimasero interdetti. Sentirono uno scooter che ripartiva sgommando, e subito dopo il vociare della gente che si era affacciata ai balconi. La signora Imma tremava come una foglia. Claudio guardò Linda e verbalizzò quello che era ormai ovvio: “Non possiamo restare qua”. Quella sera andarono a dormire da Linda. La madre, quando si vide entrare in casa la figlia con il fidanzato e una donna più o meno nello stesso stato in cui si trovava Claudio quando lo aveva visto per la prima volta, pensò che forse in fondo la sua bambina avrebbe potuto scegliersi anche un ragazzo un po’ più normale. Ma una volta che le fu spiegata la situazione capì che non c’era altra soluzione. Erano tutti in ballo, e se smettevano di ballare erano cazzi. Il giorno dopo, senza avvisare nessuno né lasciare recapiti, Claudio, Linda e la signora Imma presero una stanza in un bed & breakfast del centro storico di Napoli. Nel pomeriggio arrivò una telefonata dal Gazzettino di Casalise, con cui Linda veniva licenziata in tronco. Non era stata sufficiente la precauzione di far firmare l’articolo da qualcun altro. E così adesso Claudio e Linda erano di nuovo entrambi a carico dei genitori. Se era vero che i soldi sono il nervo della guerra, stavano nella merda. Ma Claudio a Cicerone non l’aveva mai potuto soffrire. Per questo, quando gli arrivò sul cellulare la chiamata di zio Gigi, che chiamava per offrirgli protezione e sostegno di fronte a quell’episodio di inaccettabile intimidazione dietro il quale c’era sicuramente Antonio D’Avella, non rispose. Al settimo squillo, il machiavellico lestofante cominciò a capire che era veramente finita. 3 Il ventinove dicembre, come tutte le mattine, alle nove in punto il professor Santamaria varcò il portone del civico numero 79 di Via Settembrini. Aveva comprato il giornale, ma non aveva ancora avuto il tempo di sfogliarlo. Del resto, il quotidiano che leggeva lui aveva dedicato la prima pagina ai soliti guai giudiziari del Presidente del Consiglio, relegando lo scandalo di gran lunga più grave degli ultimi anni a pagina tredici. Passando davanti a Sabatino, ebbe l’impressione che lui lo guardasse in modo diverso dal solito. Non si sbagliava. Al custode era rimasta un’abitudine, dai


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tempi in cui faceva il contadino: quella di svegliarsi molto presto. Aveva una vecchia radio che si portava in giardino, e che ascoltava mentre aggiustava i fiori nelle aiuole o innaffiava il basilico e la menta. E così Sabatino aveva appreso dalla voce di un’importante firma de Il Giacobino, ospite di un programma appropriatamente chiamato Il canto del gallo, del coinvolgimento di Santamaria in un losco affare che minacciava di decretarne la morte politica e accademica. Erano già le dieci passate quando Santamaria si rese conto di essere finito nella merda. Se Claudio fosse stato presente, si sarebbe tolto l’enorme soddisfazione di vederlo allentarsi il nodo della cravatta e passarsi le mani fra i capelli, mentre si aggirava per la stanza come un leone in gabbia. Lo avrebbe visto telefonare a sei referenti politici, nessuno dei quali aveva voluto esporsi minimamente, prima che fosse Mannesi in persona a chiamare lui. Mannesi era stato segretario del partito, anni addietro. Non solo: era stato uno dei suoi principali traghettatori dal periodo “rosso” a quello liberal-democratico, consentendo al maggiore partito comunista dell’Occidente, legato a filo doppio a Mosca, di sopravvivere ai cataclismi della Storia. Adesso parlava con Santamaria, con tono pacato e senza tradire la minima agitazione, e gli dettava la linea. Non si tornava indietro. Sarebbe stata un’implicita ammissione di colpa. Rovati era già stato avvertito, e la sua partecipazione al talk show della sera successiva sarebbe stata confermata a minuti. Quando Mannesi attaccò, Santamaria era decisamente sollevato. L’affare non sarebbe saltato. Darko e Samir non lo avrebbero orribilmente torturato e ucciso, lui avrebbe preso i soldi delle sue consulenze, e anche Gigi e Armando avrebbero avuto la loro parte. Everyone’s happy, everyone’s a winner, avrebbe detto un simpatico lestofante londinese che aveva fatto spesso ridere Claudio e svariati altri milioni di telespettatori. Lovely jubbly. Certo, la sua carriera politica aveva subito una battuta d’arresto. La candidatura alle prossime comunali, che proprio quell’affare avrebbe facilitato con l’indotto lecito e illecito che avrebbe creato, era sfumata. Ma a Santamaria sembrava che, tutto sommato, quella soluzione limitasse i danni. La parte del progetto ancora non tradotta sarebbe stata affidata a un’agenzia, ora che tutto era di dominio pubblico e non avevano più senso le cautele usate con Claudio. Sì, alla fine tutto sarebbe tornato a posto. Fu con questa convinzione che il professor Santamaria si rimise alacremente all’opera di spremere il mondo come un limone, fino a quando le ultime gocce di libertà, di vita decente e di equità nei rapporti economici non fossero finite negli hotel da tremila euro a notte, nelle Mercedes, nelle escort e nei kalashnikov. *** Quella stessa mattina, alla stessa ora in cui il professore era arrivato nel “suo studio”, Armando Cecere aveva aperto la porta dell’ufficio della Maglione Consulting, nel Centro Direzionale, Isola G5, Napoli. Gigi non c’era. Armando, come ogni mattina, aveva acceso il computer e si era messo a giocare. Quando però si erano fatte le undici passate, e Gigi ancora non si era visto, Armando aveva pensato che forse era il caso di fargli una telefonata. Il cellulare del socio risultava irraggiungibile. Riprovò mezz’ora più tardi; niente. Alle 12,36 Armando finalmente pensò di fare una pausa da quella che era effettivamente la sua principale attività, dopo aver perso la somma di 360 euro a vari tavoli virtuali, e aprì la posta elettronica. C’era un messaggio di Gigi.


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Caro Armando, la situazione si era fatta brutta, troppo brutta. Era venuto il momento di togliersi da mezzo. Quando leggerai questo messaggio io sarò già in volo per una destinazione che per prudenza non ti scrivo. Non si sa mai. Armando, fallo anche tu. Lascia tutto e vattene lontano. Questi non sono più cazzi per i culi nostri. Gigi

Armando rimase a guardare lo schermo, frastornato. Non sapeva se era meglio seguire il consiglio del socio e sparire, o telefonare a Santamaria e dirgli che adesso la Maglione Consulting era lui, e mangiarsi anche la parte di soldi che spettava a Gigi. Ma sparire, poi, dove? E con quali soldi? Dopo una mezz’oretta di camera di consiglio con i croupier che aveva nel cervello, decise per la seconda ipotesi. Avrebbe chiamato Santamaria, spiegato come stavano le cose, e assunto il suo nuovo ruolo. E se il professore si fosse alterato? Se avesse detto a Darko e Samir che la Maglione Consulting non era affidabile, e cercato un’altra ditta che subentrasse in extremis alla sua nella cura del progetto? Tanto più che, ormai, andava solo firmato e presentato. Questa eventualità lo atterriva. Se solo avesse avuto il coraggio per affrontare Santamaria, convincerlo che l’improvvisa sparizione di Gigi non doveva costituire un ostacolo alla loro collaborazione… Ci sarebbe voluta un’iniezione di fiducia in se stesso, qualcosa che lo mettesse emotivamente all’altezza di una telefonata con l’illustre docente universitario. Se Armando fosse stato un cocainomane, avrebbe risolto con una striscia. Ma, purtroppo per lui, era un gioco-dipendente. Mentre fuori i negozi chiudevano, per riaprire solo la mattina dopo, Armando non si era ancora staccato dal monitor, e aveva gli occhi arrossati dallo sforzo prolungato e dal pianto. 4 La mattina del 30, la segretaria del direttore del Giacobino chiamò Linda per offrirle un colloquio di lavoro. Le porgeva, fra l’altro, i complimenti del dottor Fatica in persona. Fatica era uno dei fondatori del giornale, ed era stato lui a demolire dialetticamente Rovati nel programma che aveva fatto conoscere ad alcuni milioni di italiani il Progetto Montenegro. La disoccupazione di Linda, a conti fatti, era durata molto poco. Il quotidiano aveva una redazione napoletana, presso la quale le era stato dato appuntamento. Claudio ce la accompagnò in taxi, per non correre rischi. Il colloquio fu brevissimo. Il flemmatico fidanzato aveva a stento avuto il tempo di trovare un distributore automatico di bevande e farsi un caffè. Al suo ritorno nella sala d’attesa in cui l’avevano fatto accomodare, Linda era già fuori, con un sorriso raggiante e il contratto firmato fra le mani. La neo-assunta spiegò a Claudio come la sua nuova posizione avrebbe dato loro la possibilità di


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difendersi meglio. Fatica in persona, dopo essersi consultato con Gallotta, aveva richiesto la presenza di Claudio alla puntata successiva di Carte 48. Era il programma che aveva denunciato al pubblico televisivo italiano il Progetto Montenegro, programma di cui Fatica era ospite fisso. Marco Gallotta, il conduttore, aveva con lui una lunga e fruttuosa collaborazione, e un profondo rispetto del suo intuito giornalistico. Se Fatica non le mandava a dire, Gallotta non era da meno. Sebbene in passato avesse avuto motivi per rimpiangere il proprio stile arrembante e la scarsa propensione agli inchini ossequiosi e alle untuose deferenze, il tempo gli aveva dato ragione. Ride bene chi ride ultimo. E Gallotta aveva riso a lungo, guardando i cadaveri dei suoi nemici trasportati dal fiume. Il prossimo sperava che fosse Santamaria, con il quale aveva vecchie ruggini, risalenti alla comune militanza nei movimenti studenteschi di sinistra negli anni Settanta, quando entrambi frequentavano l’università a Napoli. “Ti prego, Claudio, vacci alla trasmissione. È molto importante. Fallo per me…” “Certo che ci vado”. Non bisogna pensare che Claudio fosse un vigliacco, solo perché mentre pronunciava quelle parole gli tremavano le gambe. La paura è una risposta fisiologica dell’organismo di fronte a un pericolo. Lui certo non sapeva gestirla come Darko o Samir. Del resto, lui non aveva mai ucciso bambini o violentato donne. Il coraggio di Claudio consisteva nel non fuggire di fronte alle sue responsabilità, come avevano fatto suo zio e Armando. “Grazie, tesoro!” Lo tirò a sé e lo baciò sulla guancia. “Adesso torniamo al bed & breakfast, mettiamoci su internet e cerchiamo un appartamento in affitto qui a Napoli”. Arrocco. Avrebbero preso una casa qualsiasi, Linda avrebbe convinto la madre a lasciare Casalise (onde evitare che anche lei potesse subire atti intimidatori come quello di due sere prima) e tutti insieme, compatti, avrebbero aspettato l’evolversi degli eventi. Assunta Iovine, la madre di Linda, era casalinga. Non aveva un reddito, ma ci sapeva fare con la macchina per cucire, e avrebbe potuto rifarsi una clientela fra tutti quei napoletani che non sguazzavano nell’oro, e prima di buttare un capo d’abbigliamento diventato troppo grande o troppo piccolo in seguito al perenne divenire a cui è soggetto qualsiasi organismo vivente, verificavano se non fosse possibile recuperarlo attraverso l’utile arte della sartoria. Il padre era scomparso undici anni prima, per un linfoma. Uno di quei tumori che, a quanto pare, hanno un’incidenza nettamente maggiore in presenza di alte concentrazioni di diossina e prodotti della combustione indiscriminata di rifiuti. Alle 18,35 avevano già trovato un appartamento di cinque vani in una traversa di via Foria. Non era la Reggia di Caserta, ma era già arredato e occupabile da subito. E quello non era il momento di andare per il sottile. Versarono la caparra e ne presero subito possesso. Claudio andò a prendere la signora Assunta, mentre Linda restava in compagnia di Imma, che sembrava adesso più serena. Alle nove meno un quarto si erano messi a tavola davanti a quattro margherite ordinate alla Pizzeria Miracoli. Claudio riempì i bicchieri della birra che avevano portato insieme alle pizze, e propose un brindisi. “Al futuro, qualsiasi cosa ci porti”.


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Il Roddy McCorley di Casalise non lo sapeva ancora, ma il futuro gli aveva già portato una sorpresa piacevolissima. *** Alle 19.00 in punto, come ogni sera, Sabatino aveva chiuso ed era andato via. Il professor Santamaria, come qualche volta capitava, era rimasto in stanza. Sarebbe stato contro le regole, ma Sabatino era uomo pratico, e attaccava il ciuccio dove voleva il padrone. Gli aveva fatto una copia delle chiavi, in modo che potesse uscire quando voleva, ricordandosi però di chiudere il portoncino a chiave, se no gli faceva passare un guaio. Del resto, questa soluzione era stata raggiunta anche con altri docenti. Volevano fare notte là dentro? E lo facessero pure. Lui, Sabatino, quando arrivava l’ora sua se ne andava a casa. Ed aveva funzionato a meraviglia, questo compromesso, in svariate occasioni. Quella sera fece eccezione. Intorno alle nove, un urlo di donna squarciò la relativa quiete di una sera d’inverno in Via Settembrini. La signora Raffaella Quatrano aveva visto un corpo precipitare “dal secondo piano del palazzo dove sta l’università”. Quando la polizia arrivò sul posto non poté fare altro che constatare il decesso del professor Ferdinando Santamaria, stimato accademico e politico locale.


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Capitolo VIII: La giustizia deve fare il suo corso

1 Il commissario Ammendola aveva un paio di mani inquietanti. Non che Claudio fosse particolarmente rassicurato dai suoi lineamenti marcati e dalla sua espressione torva, o dal modo in cui impostava la voce quando poneva le sue domande. Ma erano le mani il particolare che lo turbava di più. Era certo che quelle mani fossero incapaci di accarezzare una donna o rimboccare le coperte a un bambino. Quelle erano mani atte a contundere, spezzare, immobilizzare, stritolare, in una parola offendere. E, come se non si rendesse conto del loro aspetto osceno, Ammendola gliele continuava ad agitare davanti. “Dottor D’Avella, ma è possibile che lei non riesca a fornirci nessun elemento utile a capire chi è l’autore di questo delitto?” “Ma scusi, commissario, perché parla di un delitto? Il professore si è buttato dalla finestra, no?” Ammendola sferrò una manata sul tavolo che, se non avesse avuto due armi improprie alle estremità delle braccia, non sarebbe risultata così devastante. Claudio non poté fare a meno di sobbalzare. “Eh, no! Il medico legale dice che quando è caduto dalla finestra era già morto!” Questa rivelazione spiazzò Claudio, che aveva attribuito quello che riteneva il suicidio di Santamaria alla disperazione e alla vergogna di fronte allo scandalo. “Mi perdoni, commissario, ma allora quali sono le cause della morte?” “Questa è un’informazione riservata che non la riguarda. Intanto mi ripeta dov’era lei ieri sera alle 20:50”. “Glielo ho già detto, ero a casa con la mia fidanzata, mia madre e mia suocera. Abbiamo chiamato le pizze, la Pizzeria Miracoli può confermarglielo”. “Sì, stiamo già procedendo alla verifica del suo alibi. Ma mi dica, come mai ieri non era al lavoro? A noi risulta che lei stava collaborando con il professor Santamaria, ma il custode di Via Settembrini 79 sostiene che da alcuni giorni lei non si faceva vedere”. “Non mi facevo vedere perché avevo deciso di chiudere con il professore e con l’azienda di mio zio, presso la quale ero stato assunto”. Ammendola puntò i gomiti sulla scrivania e si sporse verso Claudio, come se quell’ammissione fosse una svolta nelle indagini.


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“Ah, e come mai aveva preso questa decisione?” Il commissario Ammendola doveva far parte di quei milioni di italiani che non avevano idea di che diavolo succedesse nel loro paese e nel mondo, a meno che non si trattasse delle lotte di potere e degli inciuci che ormai occupavano interamente le prime pagine dei giornali e i titoli dei TG. “Mio zio e il professor Santamaria erano coinvolti nel Progetto Montenegro, non so se ne ha sentito parlare”. Ammendola non voleva fare la figura del disinformato. Si ripropose di dare a uno dei suoi agenti il compito di scoprire cosa fosse il Progetto Montenegro, e incalzò Claudio. “Sì, ma dove si trova in questo momento suo zio?” “Non ne ho la minima idea” rispose Claudio impassibile. “Ho tagliato anche i rapporti personali con lui”. “Glielo dico io dov’è suo zio. È irreperibile, ecco dov’è!” Ammendola, che aveva il quoziente intellettivo di un macaco lento di comprendonio, non si rese conto che la parola “irreperibile” difficilmente poteva essere usata come risposta a una domanda introdotta dalla parola “dove”. Lo stizziva piuttosto il fatto che Claudio non avesse battuto ciglio a quella rivelazione. Era uno strano personaggio, questo D’Avella. Il commissario non aveva ancora capito da che parte attaccarlo. La ragione per cui aveva deciso di attaccarlo, invece, era semplice: era l’unica persona risultata finora coinvolta nella faccenda che fosse riuscito a trovare. “E di Armando Cecere che mi dice?” “Lei che vuole sapere?” La mano destra del commissario si abbatté nuovamente sulla scrivania. “Come, che voglio sapere??? Voglio sapere dove cazzo è finito! Non riusciamo a trovare nemmeno lui!” Claudio avrebbe voluto farla lui una domanda al commissario. Gli avrebbe voluto chiedere come mai si aspettava che fosse lui a condurre le indagini al suo posto. Invece rispose: “Mi dispiace, non ho idea di dove possa essere. Provate in qualche casinò”. Aveva fatto una semplice battuta, ma spesso la realtà supera l’immaginazione. In effetti, di lì a poco Armando si sarebbe trovato proprio in un casinò. Solo che non esisteva un mandato di cattura nei confronti di Armando Cecere, e non si sarebbe potuto chiedere alle autorità rumene di prelevarlo con la forza dalla casa da gioco di Bucarest in cui stava andando a sputtanarsi tutto quello che era riuscito a portarsi via dalla Maglione Consulting prima di scappare dai creditori e dai montenegrini. Ammendola giocò l’ultima carta, prima di lasciar andare Claudio.


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“Sa se il professor Santamaria aveva dei nemici?” Era la prima domanda che avrebbe dovuto fargli, e saltava fuori solo adesso. “Nemici, non so. Ma immagino che i due titolari della ditta montenegrina debbano essere rimasti abbastanza contrariati dallo scandalo degli ultimi giorni”. Questa volta la mano di Ammendola per poco non spaccò il legno del piano di scrittura. “E perché escono fuori solo adesso ‘sti cazzo di montenegrini???” “Scusi, io rispondo alle sue domande. Lei questa domanda me l’ha fatta solo adesso”. Il commissario era abituato ad avere a che fare con scippatori, pusher, extracomunitari irregolari e tossici dediti a piccoli furti. Con Claudio, che la legge non rendeva ricattabile, certi sistemi non funzionavano. Si sforzò di calmarsi, e chiese con un tono appena più urbano: “Mi sa dire i loro nomi?” Claudio glieli compitò lettera per lettera, apponendo poi lui stesso i segni diacritici, che il commissario non sapeva “che cazzo sono”. Entrò un agente e informò Ammendola che la pizzeria aveva confermato la consegna di quattro pizze al “signor D’Avella”, alle nove meno un quarto circa della sera prima. A quel punto il commissario gli disse a malincuore che poteva andare. Claudio scattò in piedi e uscì dalla stanza, sollevato dal fatto che a quel gorilla con la camicia non fosse venuto in mente di provare a dargli la mano. 2 La morte di Santamaria aveva cambiato le carte in tavola. Mannesi aveva chiamato Rovati e gli aveva spiegato che la discussione andava spostata dagli scabrosi risvolti del Progetto Montenegro all’improvviso e misterioso omicidio del professore. La puntata di Carte 48 del 6 gennaio era un’occasione per ribaltare il tavolo, e non bisognava assolutamente lasciarsela sfuggire. Claudio fu accompagnato a Roma da Linda, mentre Assunta si prendeva cura di Imma. Presero una doppia in un modesto albergo nei pressi della stazione Termini. Se qualcuno aveva intenzione di vendicarsi su Claudio del fatto che ormai il progetto Montenegro era bello che andato, o di mettere a tacere accuse che potevano nuocere all’immagine del partito, avrebbe avuto più difficoltà a trovarlo fra i turisti, i pendolari e i barboni che affollavano via Marsala a qualsiasi ora. Arrivarono in stazione alle 13.26, e salirono in stanza intorno alle due meno un quarto. Dovevano trovarsi agli studi di Saxa Rubra alle sette. Uscirono solo alle sei e dieci, e solo dopo essersi assicurati che il taxi che avevano chiamato li stava aspettando davanti all’albergo. Ad accogliere Linda, nel teatro di posa in cui si sarebbe registrato il programma, c’era Fatica in persona. Le andò incontro, le sorrise, le strinse la mano. “Che piacere incontrarti, finalmente!”


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Una delle firme più note del giornalismo italiano, un volto noto a milioni di persone, stava esprimendo stima per una donna che fino a pochi giorni prima lavorava al Gazzettino di Casalise, e veniva pagata dai 5 ai 10 euro al pezzo. “Il piacere è mio, dottor Fatica!” “No, ma quale dottore! Chiamami Franco!” le disse ridendo il giacobino. C’era vita oltre il feudalesimo, pensò Claudio. C’era un’Italia che, con tutti i suoi limiti e tutte le sue contraddizioni, voleva cambiare le regole del gioco. Quando lo fecero accomodare al suo posto, era determinato a fare la sua parte. Le luci si abbassarono. Partì la sigla, che era una svisata di fisarmonica tipo Astor Piazzolla, accompagnata dall’immancabile e sempre fastidiosissima jazzata di pianoforte. A Claudio piacevano Carlos Gardel, i Dubliners e il punk rock. Come sentiva un accordo che fosse più sofisticato e insolito di una banale settima, si metteva a bestemmiare. In quella particolare occasione lo fece a bassa voce. La sigla terminò, le luci si riaccesero, e la telecamera inquadrò Gallotta. Dietro di lui, su un grosso schermo, il titolo della puntata:

SANGUE E MONNEZZA

“Amiche e amici, buonasera. In questa puntata avremmo dovuto parlare dello scandalo che ha investito il centro-sinistra nei giorni scorsi, della cosiddetta ‘Monnezzopoli’…” E qui l’anchorman si portò l’indice al labbro superiore, assumendo una studiatissima espressione cogitabonda. “Ma la morte del professor Santamaria getta un’ombra ancora più inquietante sulla vicenda. Chi aveva interesse a eliminare l’accademico napoletano? Cosa avevano paura che potesse rivelare? Cercheremo di capirlo parlandone con i nostri ospiti”. Furono presentati uno per uno. Oltre a Claudio e “Guga” Rovati, c’erano un sedicente prete anticamorra, un paio di esponenti di secondo piano del centro-destra, e naturalmente Fatica. Claudio fu presentato come “il coraggioso dipendente della ditta di consulenza coinvolta” che aveva, con la sua ribellione, messo in crisi il “discutibile” Progetto Montenegro. Gallotta lo fece parlare per primo. Claudio spiegò a circa cinque milioni di italiani in cosa consistesse il progetto, e descrisse il ruolo che Darko e Samir avrebbero avuto nella sua esecuzione. Quando stava per cominciare a delineare la complessa rete di rapporti che il professor Santamaria aveva intessuto, e mostrare così chiaramente la sua centralità nel progetto ed essenziale paternità dello stesso, Guga lo interruppe.


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“Mi scusi, Gallotta, ma mi pare che si stia evitando quello che avrebbe dovuto essere il nodo centrale della discussione: la barbara uccisione del professor Santamaria”. Gallotta si rimise il dito sul labbro, e attese pazientemente che Guga terminasse. “E mi pare che ci sia il rischio concreto di trasformare la vittima in carnefice…” Un brusio attraversò la platea, quando Rovati definì “vittima” quello che ormai appariva chiaramente a tutti come l’ennesimo politicante senza scrupoli che sfruttava l’arretratezza economica del Mezzogiorno per fare carriera. “Sì, vittima!” ribadì Guga. “Santamaria è innocente fino a prova contraria…” Fatica, reclinato sullo schienale della poltrona con le gambe accavallate, indirizzò un sorrisetto beffardo alla giovane promessa del progressismo italiano. “Certo che siete ossessionati dal concetto di onere della prova. È come se foste sempre pronti a dovervi difendere da qualche accusa…” Franco Fatica era un superbo interprete dell’arte dell’agguato dialettico. Riusciva a rimanere pazientemente in attesa per ore. Poi, al minimo spiraglio concessogli dal nemico, sferrava la sua poderosa stoccata. Rovati, che nonostante i suoi 657.578 followers su Twitter era un povero coglione, accusò il colpo. Fu con voce stizzita che replicò: “Non raccolgo questo genere di provocazioni! Purtroppo per i giustizialisti come te, viviamo ancora in uno stato di diritto!” Vallo a dire alle famiglie di Cucchi o Aldrovandi, pensò Claudio. Vallo a dire agli occupanti della Diaz pestati con gli estintori, o ai manifestanti NO TAV con le braccia spezzate dalle manganellate. “E in uno stato di diritto, vivaddio, la giustizia deve fare il suo corso! Noi pretendiamo che sia fatta luce sulla vicenda. Quando saremo a conoscenza dei fatti, e solo allora, potremo commentare”. La puntata si era poi rapidamente trasformata nella solita ammuina senza costrutto. Il prete anticamorra aveva fatto un accorato appello il cui senso nessuno aveva compreso, i due rappresentanti del centro-destra avevano polemizzato con Guga sulla politica di smaltimento dei rifiuti del suo partito in alcuni dei maggiori comuni in cui governava, e c’era stato infine un collegamento con Casal di Principe, dove una manciata di persone aveva sfidato il freddo per esporre uno striscione che diceva “+ legalità, - monnezza”. Quando partì la sigla di chiusura, nessuno tranne Claudio aveva detto una sola parola sulla ditta Čast i Ponos, intestata a Samir Bošković e Darko Radojević, noti criminali di guerra montenegrini. 3 Erano tre giorni che Santamaria non rispondeva al telefono. Samir concluse che doveva esserci stato qualche serio problema. Neanche dalla Maglione Consulting arrivavano segnali di vita. C’era una sola cosa da fare: andare a Napoli e constatare di persona cosa fosse successo. Dopo tutto,


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come potevano mai sospettare che Santamaria fosse stato ucciso? Una morte violenta era qualcosa che loro due avevano messo in conto (pur prendendo tutte le precauzioni possibili per evitarla), ma perché mai qualcuno avrebbe dovuto ammazzare un professore universitario? Non avrebbero potuto apprenderlo dai giornali italiani perché, pur conoscendo quella dozzina di parole che consentivano semplici transazioni con la criminalità pugliese, non erano in grado di leggere la nostra lingua, né avevano nel loro entourage persone con quel tipo di competenze. E così salirono su un aereo e tornarono nella capitale mondiale della monnezza. Avevano prenotato all’Hotel Vesuvio: la stessa suite in cui avevano alloggiato quando Claudio ci aveva accompagnato Santamaria. Fecero il check-in, lasciarono che un facchino portasse i bagagli in camera, e subito ripartirono in cerca del Centro Direzionale, Isola G5. Neanche un quarto d’ora dopo il tassista li fece scendere, indicando un palazzone di vetro. Darko e Samir entrarono nello stabile e verificarono dalla targa d’ottone che la Maglione Consulting era al piano numero 9. Salirono con l’ascensore, e si trovarono davanti alla porta dell’ufficio in cui Claudio aveva buttato un mese della sua vita. Bussarono più volte. Niente. Origliarono: nessun rumore proveniva dall’interno. L’ufficio era deserto. Non avevano un recapito di Santamaria che non fosse il suo numero di cellulare o la sua e-mail, e non avevano contatti a Napoli, all’infuori del professore e di quella ditta di consulenza. Se si fossero trovati a Brindisi o Bari avrebbero risolto il problema in una mezza giornata. Ma a Napoli le cose erano più complicate. Decisero di tornare in albergo per ragionare con calma sul da farsi. *** Il commissario Ammendola aveva distribuito foto di Darko e Samir ai suoi agenti, sperando che prima o poi si facessero vivi. In un insolito lampo di intuito aveva capito che era meglio non chiedere la collaborazione delle autorità montenegrine. Era stata una scelta saggia. Se avesse fatto così, nessuno in Italia avrebbe mai più visto i titolari della Čast i Ponos. Invece, grazie alla occasionale sagacia del titolare delle indagini, i due fetentoni erano lì. L’agente scelto Barrese li aveva visti chiaramente, mentre prendeva il caffè nello stesso bar in cui lo prendeva Claudio quando finivano le cialde. Era in divisa e non li aveva potuti seguire, per non destare i loro sospetti. Così aveva preso nota del numero di vettura del taxi che li aveva caricati per riportarli in albergo, e aveva chiamato Ammendola. Mezz’ora dopo il commissario e cinque agenti, fra cui Barrese, entravano nell’Hotel Vesuvio. Il primate con la giacca si avvicinò alla reception, mostrò il tesserino al portiere, e gli chiese in che stanza alloggiassero i montenegrini. “Scusi, di quali montenegrini parla?” chiese l’uomo, per guadagnare tempo e cercare di trovare una soluzione che non gettasse nel fango il buon nome dell’albergo. “Di questi!” fece Ammendola, sventolandogli le foto di Darko e Samir a pochi millimetri dalla faccia. Il gesto sortì l’effetto desiderato, e un minuto più tardi Ammendola e i suoi uomini erano davanti


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alla porta della suite dei due sospetti. In un silenzio carico di tensione, il commissario fece cenno agli agenti di sfoderare le pistole e disporsi ai lati della porta. Poi bussò e si appiattì immediatamente contro il muro, temendo che dalla stanza potesse arrivare come risposta un devastante fuoco di soppressione. Potranno sembrare precauzioni eccessive, ma Ammendola non aveva mai avuto a che fare con gente che avesse fatto la guerra, con tutti gli annessi e connessi. Intanto, dalla stanza non arrivava non solo la pioggia di piombo che il commissario aveva paventato, ma neanche una risposta. Nella assoluta quiete Ammendola riuscì a percepire degli strani mugolii provenire dall’interno della suite. Sfondò senza esitazioni la fragile porta. Ora, il solerte commissario si sarebbe aspettato di trovarsi di fronte a un tentativo di strangolamento, o magari alle sevizie di un poveraccio legato e imbavagliato. Quello a cui era invece assolutamente impreparato erano due uomini completamente nudi, dediti all’atto della sodomia. Uno era sull’orlo del letto, nella posizione volgarmente detta della “pecora”, mentre l’altro era in piedi e lo stantuffava energicamente. Quest’ultimo era Samir. Sentendo il rumore della serratura che sfondava lo stipite si voltò, e vide sei uomini armati di pistole fare irruzione nella stanza. Si fiondò verso il comodino, dove aveva poggiato la sua arma. L’agente scelto Barrese lo freddò con tre colpi della sua Beretta di ordinanza. Quando Darko vide il compagno d’armi, socio in affari e amante cadere con un tonfo sul pavimento e macchiarlo del suo sangue, emise un urlo lancinante, e si gettò su Ammendola a mani nude. Il montenegrino venne crivellato di colpi prima che potesse mettergli un solo dito addosso, ma il commissario quell’uomo nudo, il cui volto non aveva niente, assolutamente niente di umano, e che gli si lanciava contro a cazzo dritto ululando non l’avrebbe più dimenticato. 4 “Pronto, dottor D’Avella? Sono il commissario Ammendola. Volevo avvertirla che Samir Bošković e Darko Radojević sono rimasti uccisi in un’operazione di polizia. Abbiamo motivo di credere che lei non abbia più niente da temere”. “La ringrazio, commissario. Arrivederla”. Claudio pensò che fosse stata una fortuna aver ricevuto quella notizia per telefono. Se il commissario avesse ritenuto di dovergliela dare da vicino, sarebbe stato costretto a stringergli la mano. Ripensò alle parole di Rovati, due sere prima, in trasmissione: “la giustizia deve fare il suo corso”. Per quanto lo riguardava, lo aveva fatto. I criminali che avevano partorito la mostruosità che era il Progetto Montenegro erano morti. Comunicò la notizia a Linda, che era in cucina ad aiutare la signora Immacolata. La sirena dagli occhi azzurri lo abbracciò e lo tenne stretto per un tempo che gli sembrò interminabile. La madre non aveva neanche capito che cosa avesse detto, ma sorrise lo stesso. Quella sera si cenò in un’atmosfera diversa, nella casa di Via G. Piazzi in cui Claudio, Linda e le loro madri avevano aspettato che la giustizia facesse il suo corso. La signora Imma aveva fatto la pasta


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e fagioli. Mentre riposava nella pentola, Claudio si versò un bicchiere di vino. Linda gli sorrideva, e lui sorrideva a lei. Il mondo non era più un’accozzaglia di immagini e di storie messe insieme in modo casuale e disordinato. Era il prodotto dell’agire umano. Ed era, quel mondo, anche suo. Restava solo una cosa da capire: chi aveva ucciso Santamaria? Questo era l’interrogativo che gli frullava nel cervello, quando Claudio affondò il cucchiaio nella densa, sontuosamente azzeccata pasta e fagioli della signora Immacolata.


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Capitolo IX: Cluedo

1 “Chi ha pisciato cca ‘nterra?” diceva la prima statua, indicando il pavimento. “Je nun saccio niente…” replicava un damerino imparruccato con bastone da passeggio. “So’ stato io!” rivendicava uno spavaldo Gioacchino Murat, con una mano sul virile petto. Quando Antonio D’Avella chiedeva al piccolo Claudio cosa dicesse la quarta statua, quella con la spada in mano, il bambino eccitatissimo gridava a squarciagola: “E je te taglio ‘o pesce!” E giù a ridere. Era una gag che si ripeteva spesso, da quando Antonio aveva portato il figlio a vedere il Palazzo Reale di Piazza Plebiscito. Ed era forse l’unico ricordo felice che Claudio avesse di suo padre. Più o meno con lo stesso spirito il giovane D’Avella si chiedeva ora chi aveva ucciso Santamaria. Se l’avesse scoperto non avrebbe certo evirato il colpevole, né l’avrebbe minacciato della benché minima ritorsione. Era una specie di curiosità cameratesca: aveva avuto un alleato, e voleva scoprire chi era. Anche in questo avrebbe ricevuto un aiuto significativo: quello della neo-assunta al Giacobino, Linda Iovine. “Certo che quel commissario Ammendola è proprio un buzzurro. Buzzurro, animale e sottosviluppato”. Linda era appena tornata dalla redazione e si stava mettendo in libertà. Indossò la stessa tuta e le stesse pantofole che portava la sera in cui aveva invitato Claudio a cena. Questa volta fu lui a prenderle un polso e tirarla dolcemente a sé, per sfiorare con le labbra quelle di lei. “Alla fine ne hai tirato fuori qualcosa?” “Fortunatamente sì. Sappiamo come è stato ucciso Santamaria”. Qualche secondo di silenzio. “Beh?” “Indovina!” La morte del professore offriva spunti ludici. Linda non si faceva il minimo problema a trasformarlo in un gioco. E perché avrebbe dovuto? Aveva pianto quando, due anni prima, era morto Jack, un


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pastore tedesco di quattordici anni che l’aveva accompagnata fin dall’adolescenza. Ma Jack era un bravo cane, e si era fatto volere bene. Santamaria era un rifiuto umano, più lercio e fetente di quelli che avrebbe voluto bruciare. Forse neanche la moglie se lo era pianto. “Un candelabro!” “Come?” “Te lo ricordi Cluedo?” Linda fece un breve sforzo mnemonico, seguito da una di quelle sue risate che la illuminavano a festa. “Ah, sì! Come no! Cluedo!” “Il colonnello Mustard all’università con il candelabro!” esclamò Claudio, e Linda rise di nuovo. “Non so se il colpevole sia il colonnello Mustard…” Linda riprese un tono serio. “Ma l’arma del delitto non è stata un candelabro. Santamaria è stato avvelenato con del diserbante. Una sorta di pesticida, glielo hanno messo nel caffè. Pare che questi prodotti contengano cianuro, e siano altamente tossici. Però…” “Però?” le fece eco Claudio, aspettandosi un dettaglio che ingarbugliasse ulteriormente la matassa. “Però se l’avessi ucciso io avrei usato la chiave inglese!” Risero ancora. Cominciarono a scambiarsi battute ispirate ai personaggi e ai concetti del noto gioco da tavola. Furono interrotti dalla voce di Assunta, che li chiamava dalla sala da pranzo. “Ragazzi, a tavola!” La signora Imma questa volta aveva preparato la pasta e patate con la provola. E qua non si scherzava. Era una cosa seria, la pasta e patate con la provola di Immacolata Maglione in D’Avella. Mentre guardava le mirabili evoluzioni del latticino che filava, avviluppato dalle volute di vapore che emanavano dalla pasta, Claudio pensò che anche la malerba, se la si vuole veramente morta, muore. 2 Il Giacobino portava in prima pagina un titolo ad effetto:

SANTAMARIA COME SINDONA Il professore della monnezza avvelenato con il caffè


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L’articolo era firmato da una giornalista di maggiore esperienza e notorietà, ma Claudio sapeva bene che era soprattutto farina del sacco di Linda. Era troppo presto per affidarle una prima pagina, ma non per constatare che la ragazza sapeva veramente il fatto suo. Constatazione, questa, che si rifletteva nel suo trattamento economico. Meno male, perché Claudio continuava a essere disoccupato. Aveva contattato lo studente universitario che aveva dovuto rifiutare quando passava le giornate alla Maglione Consulting, e ora gli faceva lezione. Ma si trattava di spiccioli: quella che portava i soldi a casa era Linda. Questa quasi totale inattività dava a Claudio il tempo di stare un po’ con la madre, che ancora non aveva riacquistato il dono della parola, e aiutarla a non sentirsi dimenticata e tagliata fuori dal mondo. Adesso che era ridotta al silenzio, pensò il giovane D’Avella, riusciva ad andarci d’amore e d’accordo. “Mamma, guarda, questo è l’articolo che ha scritto Linda”. La signora indicò la firma, che non corrispondeva al nome della nuora. “Sì, hai ragione. È che lei è appena arrivata al giornale, non può ancora firmare un articolo in prima pagina. Però l’ha scritto lei”. La signora Imma sorrise e annuì in segno di approvazione. Mentre Claudio leggeva il pezzo, gli arrivò un SMS proprio di Linda. Gli diceva di accendere il televisore e sintonizzarlo su un canale di Sky che trasmetteva notizie non-stop, 24 ore su 24. “Pare che il professor Santamaria fosse in possesso di una fortuna in titoli azionari e beni immobili. Secondo fonti attendibili, il valore del patrimonio di cui è entrata in possesso la moglie Barbara, unica erede, si aggira intorno ai quindici milioni di euro”. La corrispondente non si era spinta oltre. Claudio, ovviamente, aveva colto l’illazione implicita nella notizia. Era probabile, o almeno ipotizzabile, che ad uccidere Ferdinando Santamaria fosse stata la donna con cui andava a letto ogni sera. Si domandò se Linda avrebbe mai fatto una cosa del genere a lui, ma si tranquillizzò subito al pensiero che non avrebbe mai messo da parte quindici milioni di euro facendo lezioni di inglese. Ma perché ucciderlo? Aveva forse paura che modificasse il testamento? Santamaria aveva un’amante? Naturalmente, erano le stesse domande che si ponevano Linda e l’intera redazione del suo giornale. La vita del professore sarebbe stata rivoltata come un calzino nelle ore seguenti. Il risultato, però, sarebbe stato deludente. Linda rientrò alle 19.35, stanca morta, e si gettò subito sul letto. “Notizie?” le chiese Claudio. “Niente di niente. Non un’amante, non un tradimento, non una macchia nella vita privata di Santamaria. Anzi, diciamo pure che quell’uomo non ce l’aveva, una vita privata.” Il mistero si infittiva. Chi aveva avvelenato con un caffè corretto al cianuro il perfido cattedratico? La soluzione dell’enigma sembrava ancora lontana. Claudio fu parzialmente consolato dal fatto che


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la madre era in cucina a preparare la frittata di patate per cui lui, che quindici milioni non aveva nemmeno idea di come fossero fatti, avrebbe potuto commettere qualunque sproposito. 3 Mentre la polizia brancolava nel buio era venuto fuori un mitomane che affermava di averlo ucciso lui Santamaria. Il commissario Ammendola aveva creduto per circa un quarto d’ora alla sua confessione. Quando alla prevedibile richiesta del movente aveva risposto con le classiche voci che gli avevano ordinato di farlo, il titolare delle indagini aveva sferrato una impressionante manata sulla scrivania, e dopo un paio di imprecazioni l’aveva fatto portare via. Dunque, avevamo la stanza e l’arma del delitto. Mancava ancora il colpevole, e non sembrava probabile che fosse scoperto in tempi brevi. Non c’erano sospetti, non c’erano indizi, non c’erano piste. Ammendola avrebbe fatto arrestare il ragazzo del bar, se il caffè che aveva avvelenato Santamaria fosse stato portato da lì. Il guaio era che invece proveniva da un distributore automatico installato nella sede dell’università. Ma la vita andava avanti. Chi muore giace, e chi vive si deve sbattere, altro che darsi pace. Per Claudio D’Avella quell’unica lezione d’inglese rappresentava, dopo la traumatica esperienza alla Maglione Consulting, un timido tentativo di ricominciare ad affacciarsi nel raccapricciante “mondo del lavoro” italiano. “So, Leonardo, tell me about your week”. Leonardo era uno studente di Giurisprudenza che di lì a un mese e dieci giorni avrebbe dovuto sostenere una specie di esame di inglese. Aveva un sacro terrore di questa prova, che aveva già fallito due volte. Per qualche ragione, colà dove si puote si riteneva che fosse imprescindibile, per uno che si sarebbe occupato di incidenti stradali e liti condominiali, conoscere l’idioma della perfida Albione. L’esame consisteva in un breve corso monografico sulle differenze fra il sistema giuridico italiano e quello dei paesi anglosassoni, in particolare della Gran Bretagna. Ma quello che preoccupava i candidati non era l’acquisizione di queste semplici nozioni, bensì il fatto che l’esame andava sostenuto in inglese. Per questo Leonardo andava due volte alla settimana da Claudio a soffrire le pene dell’inferno, nella speranza di riuscire a conquistare in una quarantina di giorni la conoscenza che mai gli si era dischiusa, in otto anni di scuola. “Mai uìc…ehm…ehm…” Non appena chiedeva loro di formulare brevi e semplici enunciati in un’altra lingua, gli studenti di Claudio tornavano istantaneamente alla fase della lallazione. Era necessaria una buona dose di pazienza e autocontrollo per trattenersi dal prenderli a martellate sulle ginocchia gridando “PERCHÉ NON PARLI???” “Va bene Leonardo, vogliamo provare a parlare della differenza fra la Common Law e gli ordinamenti fondati sul diritto romano?” “Bene, la common lò…”


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A Claudio cadevano le braccia, ma doveva resistere. “Magari proviamo a dirlo in inglese?” “Ah, occhei… de differens bituin de common lò end de sivil lò is det…” Claudio stringeva i pugni sotto la scrivania, e provava un violento disprezzo per il sistema universitario italiano. Quell’esame era stato creato per angustiare Leonardo, lui e altre decine di migliaia di persone senza altra colpa che quella di essere nati in una cultura rivoltante nella sua ipocrisia e nella sua ossessione per i formalismi e i rituali. A Leonardo l’inglese non sarebbe mai servito. Perché torturarlo così? A un certo punto nella storia del paese tutti erano stati improvvisamente concordi sul fatto che le lingue straniere fossero fondamentali. Avevano cominciato a vendere improbabili corsi a fascicoli, avevano aperto scuole, e con gli anni perfino il sistema accademico, così restio ai cambiamenti, era stato investito da quella rivoluzione. Ma la verità era che la conoscenza media dell’inglese in Italia era ancora quella di Alberto Sordi che si accinge a distruggere il maccherone. E questo perché, in un paese di mummie e fascisti (consapevoli o meno di esserlo), l’inglese veniva insegnato come se fosse stato il latino. Era un paese, il suo, penosamente incapace di confrontarsi con qualcosa di vivo. “Facciamo una cosa, leggiamo un articolo di giornale. Che ne dici?” Leonardo, che aveva raggiunto un livello di sofferenza da martire paleocristiano, accettò subito. Claudio lesse l’articolo, cosa che non permetteva a quella tragicomica controfigura di San Lorenzo di scendere dalla graticola, ma almeno evitava che l’imperizia dell’esaminando alimentasse le fiamme. Arrivò poi il momento di riassumere il contenuto del brano letto, e commentarlo. Il supplizio ricominciò con rinnovata crudeltà. “Dis articol spic abaut…” Al termine della lezione Leonardo era spossato, e Claudio sperava che rinunciasse a sostenere quell’esame, e dunque a laurearsi, puntando magari su una carriera di mangiafuoco o domatore di leoni. Ma quando, prima di andare via, il Perry Mason da catacomba gli chiese come era andata la lezione, Claudio gli mentì spudoratamente, rilevando progressi che non c’erano, e forse non ci sarebbero mai stati. Accese il computer. Su Facebook c’erano delle nuove foto di Vanessa. Era a Londra con Arturo. I decolleté sfacciati erano spariti, i sorrisi sembravano più autentici. A Claudio fece piacere che la vestale di un tempo avesse lasciato il posto a questa ragazza che gli sembrava quasi di non conoscere. Ma sì, lasciamo che si spenga quel fuoco. La poesia della vita era il culacchione di Linda quando si chinava per prendere dal forno la pasta e patate con la provola della signora Immacolata. Un nuovo messaggio privato, da Giuseppe Festa. Giuseppe era l’assistente di un professore di Antropologia Culturale, che Claudio aveva conosciuto durante la breve parentesi a via Settembrini. Gli chiedeva se era disponibile a tradurre una serie di testi in inglese per il professore. Quest’ultimo svolgeva attività di ricerca e non capiva una parola di inglese. A Leonardo, invece, era


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richiesta quella competenza. Non c’è niente da fare, pensò Claudio. Io appartengo a queste persone. Non riuscirò mai a staccarmi dalle loro spregevoli pratiche, devo rassegnarmi. Si rese dunque disponibile, e attese che Giuseppe gli desse un appuntamento. Fu convocato per la mattina successiva, alle 9,30, al primo piano di via Settembrini 79. 4 Sabatino il custode si vide comparire davanti Claudio alle 9,18 del 12 gennaio. “Claudio, che fai qua? Ma non hai saputo che il professor Santamaria…” “Hahaha! Sì, don Sabbatì, lo so. No, sto qua per parlare di certe traduzioni con l’assistente di Mendozza”. “Ah, ho capito… Prego, sali, sali…” Mentre faceva le scale Claudio si chiese quale grado di sfrontatezza sarebbe riuscito a raggiungere, attraverso il suo incolpevole portavoce, il professore di Antropologia Culturale che denunciava nelle sue pubblicazioni il barbaro trattamento dei popoli precolombiani da parte dei colonizzatori europei, ma che nelle transazioni, tutte rigorosamente informali, con i precari locali faceva sembrare Pizarro e Cortés dei sinceri democratici. Dieci minuti dopo, Claudio entrava nella stanza di Festa, e dopo altri cinque ne usciva con tre volumi da tradurre, e un compenso forfettario pattuito di duemila euro. Quello che aveva in mano saranno state 450-500 cartelle. Ma il giovane D’Avella non aveva dubbi che, se lui si fosse rifiutato, qualche altro disperato con le costole a fior di pelle avrebbe accettato quella retribuzione scandalosamente inadeguata. Prima di andare via, Claudio passò in guardiola da Sabatino. Poggiò i libri sulla scrivania e si mise a sedere per fare due chiacchiere con il custode, come aveva fatto tante volte. Il cottimista sottopagato notò delle bustine recanti immagini di cespugli in fiore. Sabatino seguì lo sguardo di Claudio, e gli fornì la spiegazione non richiesta: “Sono semi di viole. Mo’ che vado a casa li pianto”. Il giardino. Lo sfizio di quell’uomo mite e socievole. “Don Sabbatì, ma voi come fate per le erbacce?” Il custode capì immediatamente. Guardò Claudio con due occhi vivi e profondi, e sorrise di gusto. “Eh, non è facile. Uno deve sapere come trattarle senza danneggiare le piante buone”. Di fronte a Claudio si materializzò la buonanima del grande Mario Brega, che mostrava una specie di bistecca con le dita a Lella Fabrizi e spiegava che: “Sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma…”


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Il risolutore del caso Santamaria guardò le mani di Sabatino. Gli sembrarono mani eclettiche. Mani capaci di curare le tenere, delicate violette, e di estirpare con vigore le peggiori erbacce. Si augurò che al mondo fossero sempre di più le mani così; da loro dipendeva se avrebbero prevalso le erbacce o i fiori.


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Epilogo Era arrivato Maggio. Le viole di Sabatino erano sbocciate e profumavano l’aria del giardino. Claudio e Linda avevano preso in affitto un bilocale all’Arenella, e le rispettive madri erano tornate a Casalise. La signora Imma non aveva detto ancora una parola da Natale, ma adesso aveva una sincera amica che si prendeva cura di lei e carpiva i suoi segreti culinari. Vanessa si era innamorata di uno squattrinato aspirante cantautore portoghese conosciuto a Camden Town e non era più tornata da Londra, dove lavorava come cameriera in un ristorante italiano. Parlando di ristoranti italiani, Gigi ne aveva aperto uno a Rosario, in Argentina. Si mangiava malissimo, il locale era sempre vuoto, ma poco male: serviva da punto di spaccio per la criminalità locale, che passava al lestofante napoletano una modesta quota dei suoi profitti. Armando era rimasto senza un euro al terzo giorno in Romania. Aveva provato a suicidarsi gettandosi da un cavalcavia, ma prima che riuscisse a trovare il coraggio di lanciarsi nel vuoto era stato fermato dalla polizia. La moglie se lo era andato a riprendere e lo aveva riportato a casa, con l’ingiunzione di smetterla di giocare, oppure lo avrebbe messo definitivamente in mezzo una strada, e poi sarebbero stati veramente cazzi suoi. Claudio non aveva ancora trovato un lavoro, ma fra lezioni private e traduzioni riusciva a guadagnare quel tanto che occorreva per fare la spesa. Tutto il resto – affitto, bollette, RCA auto e varie ed eventuali – era a carico di Linda. La ragazza lavorava duro, dal lunedì al venerdì, e ormai riusciva a firmare qualche articolo. Il sabato e la domenica reclamava Claudio per sé, trascinandolo per negozi e isole pedonali. La giornata era splendida. Il lungomare, liberato dal traffico, era stato invaso da un numero di persone a occhio e croce valutabile fra le 350.000 e le 400.000 unità. Linda lo percorreva tenendo per mano il suo Claudio, tirandolo come si tira un cane al guinzaglio. “Amore, ci fermiamo un po’? Stiamo camminando da stamattina…” Era quasi l’una, ed erano scesi di casa alle nove e un quarto. Linda si fece vincere dalla tenerezza per il suo orsacchiotto arricchiunito. Si appoggiarono sul muretto che delimitava il marciapiede dal lato del mare. Linda baciò Claudio, giusto per non dargli il tempo di riprendere fiato. L’eroe di Casalise era ancora in affanno quando la sua donna gli disse: “Voglio un figlio”. Era assolutamente impreparato a questo. Del resto, se qualche mese prima gli avessero detto che avrebbe partecipato a un incontro con dei criminali di guerra, rischiato la vita e presenziato a una di quelle trasmissioni televisive di cui la madre non si perdeva una puntata, non ci avrebbe creduto. Il cammino, come dice il poeta, non esiste; diventa cammino nel percorrerlo. E allora Claudio si limitò ad esprimere assenso nel modo più chiaro e conciso possibile. “Va bene”. Linda lo abbracciò e lo tenne stretto per un’eternità. Claudio stava per annunciarle il proprio imminente decesso per asfissia, quando lei finalmente si staccò da lui. Lo riprese per la mano, e


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ricominciò a guidarlo verso il ristorantino dove le era improvvisamente venuta voglia di mangiare. Claudio sperò che si sbrigassero in poco tempo: alle tre c’era l’ultima di campionato, e il Napoli si giocava lo scudetto. Mentre si avvicinavano al locale, che Claudio sperava poco affollato, o perlomeno munito di abbonamento Sky, videro tre sfrantummati sui trentacinque anni che si facevano un cannone seduti sullo stesso muretto dal quale si erano alzati loro poco prima. Questa volta fu Claudio a riconoscere Pasquale dell’università. “Ué Pasquale!” Quella faccia su cui sembrava che fosse passata una ruspa si sollevò verso di lui, e lo guardò con gli occhi semichiusi dell’hashish. “Ué Claudietto…tutto a posto?” “Pasquale, te la vuoi fare una risata?” Il sopravvissuto si sporse leggermente in avanti, atteggiando le labbra in quel mezzo sorriso che era il suo marchio di fabbrica, in attesa della facezia. “Io sono felice”.


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