Patrocinio:
PROVINCIA DI PISA
COMUNE DI VOLTERRA
COMITATO SCIENTIFICO UNIVERSITÀ DI PISA
Organizzazione:
Ideazione:
Quando Volterra non c’era... ... gli squali mangiavano le balene
Con il contributo di: FONDAZIONE E CASSA DI RISPARMIO DI VOLTERRA COMUNE DI VOLTERRA PRO VOLTERRA ROSSI ALABASTRI - VOLTERRA LINOLEUM GOMMA ZANAGA - FIRENZE
COMUNE DI VOLTERRA
la collaborazione di: CONSORZIO TURISTICO VOLTERRA /VALDICECINA/VALDERA STUDIO FOTOGRAFICO “FOTO DAINELLI” BIBLIOTECA COMUNALE DI VOLTERRA ASSOCIAZIONE “ANIMA VOLTERRA” e la partecipazione di: ISTITUTO COMPRENSIVO DI VOLTERRA ISTITUTO TECNICO COMMERCIALE E PER GEOMETRI “F. NICCOLINI” ISTITUTO DI ISTRUZIONE SUPERIORE “G. CARDUCCI “ U.C.I.M. - SEZIONE VOLTERRA
Organizzazione: ASSOCIAZIONE S.O.S. VOLTERRA Borgo S. Lazzaro, loc. Chiarugi - 56048 Volterra (Pisa) Ideazione: GRUPPO AVIS MINERALOGIA PALEONTOLOGIA SCANDICCI Piazza V. Veneto 1, Badia a Settimo – 50018 Scandicci (Firenze) Testi: L. ODDONE, S. CASATI, M. ZANAGA, G. BIANUCCI, F. GASPARRI Fotografie: S. CASATI, G.P. FAIENZA, FOTO DINELLI Progetto grafico: LA TIPOLITO - SIGNA
Gli organizzatori ringraziano gli Enti, gli Sponsor, i Musei e i ricercatori che nel tempo hanno reso possibile la realizzazione di questo opuscolo. In particolar modo, ci teniamo a ringraziare: Prof. Walter Landini, il Prof. Franco Cigala Fulgosi, il Prof. Lazzeri Gabriele, il Dott. Michelangelo Bisconti, la Dott.ssa Chiara Sorbini, il Dott. Menotti Mazzini, il Dott. Vittorio Trinciarelli, il Dott. Fabio Bernardini, il Dott. Graziano Gazzarri, il Sig. Carlo Auletta, il Sig. Giovanni Guerrieri e il Sig. Renato Caldon
Attraverso la riscoperta dell'identità locale, SOS Volterra opera con l’obbiettivo di difendere la cultura della propria città e il territorio di appartenenza. Nell'ambito di tali prerogative, l’associazione svolge un ruolo determinante valorizzando tutti quegli aspetti che fanno riscoprire il piacere delle proprie origini. A tal proposito, dall'unione sinergica con il gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci G.A.M.P.S, prende vita un insolito, ma straordinario evento dal titolo: Quando Volterra non c'era... gli squali mangiavano le balene. Una manifestazione che nasce con lo scopo di far conoscere alle scolaresche del territorio ciò che milioni di anni fa nuotava sopra le campagne della propria terra.
Premessa Questa pubblicazione non vuole essere un testo tecnico in antitesi a quanto già ampiamente trattato sugli aspetti geologici e naturalistici del volterrano, ma una piccola guida su “Quando Volterra non c’era… gli squali mangiavano le balene”. Ciò che viene presentato rappresenta un contributo didattico per chi si affaccia a questa materia con spirito di curiosità verso quegli aspetti di un mondo che fu, quando all’abituale verdeggiante paesaggio si contrapponeva un ambiente marino ricco di balene, squali e tanti altri esseri viventi attualmente estinti o che non vivono più nel bacino del Mediterraneo. Quando Volterra non c’era” nasce dalla collaborazione fra l’Associazione S.O.S. Volterra e il Gruppo AVIS Mineralogia Paleontologia Scandicci, due associazioni che se pur con diverse finalità, sono accomunate da una cosa: la riscoperta di un mondo legato alla propria terra, alle sue origini ed a tutti quegli aspetti della ricerca sul territorio che per più di un secolo sono rimasti un po’ sotto le ceneri. L’auspicio è che ciò che viene sintetizzato oggi in questa mostra, rappresenti quel seme che possa un domani dar vita a qualcosa di più importante, stabile, con canoni più specifici e legati a quella che è la morfologia del territorio e alle sue lontane origini.
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UN VIAGGIO NEL TEMPO Immaginate di trovarvi per le strade di Volterra e di poter tornare indietro nel tempo fino ad oltre tre milioni di anni fa: il paesaggio che vi circonda cambierebbe all’istante! Dopo un attimo di incredulità, sentireste sprofondare la terra sotto i piedi e, compiendo un tuffo di oltre 600 metri, vi trovereste a galleggiare in un mare popolato da balene e da squali dalle dimensioni pari ad autobus di linea. Avreste così iniziato la vostra avventura nella preistoria che vi consentirebbe di scoprire come il clima sia cambiato in questi ultimi milioni di anni, ma soprattutto, come le terre di Volterra siano riuscite a prendere il sopravvento sulle acque del mare tirrenico. Questo viaggio comincia con una catastrofe, con un momento di grande crisi nel mondo biologico mediterraneo. Crisi provocata da un piccolo cambiamento nella disposizione dei continenti avvenuto poco meno di 6 milioni di anni fa. Bene, in questo istante geologico l’Africa ruota in senso orario e va a toccare l’Europa all’altezza di Gibilterra interrompendo il flusso di acqua dall’Oceano Atlantico al Mediterraneo. Questo fenomeno ha avuto una ricaduta importantissima sulla vita perché il Mediterraneo è un mare piuttosto particolare. Infatti, il Mare Nostrum è una grande tinozza che viene continuamente riempita dall’acqua portata dai fiumi, dalle precipitazioni (come la pioggia o la neve) e dall’acqua dell’Oceano Atlantico. Se togliessimo l’acqua atlantica, il contributo fornito da fiumi e precipitazioni sarebbe inferiore all’acqua persa per evaporazione. In sostanza, senza l’acqua portata dall’Atlantico, il Mediterraneo evaporerebbe in maniera pressoché totale. Ebbene, secondo alcuni studiosi, è proprio questo che è successo quando l’Africa, toccando Gibilterra, ha interrotto le comunicazioni con l’oceano Atlantico: senza l’acqua oceanica, il Mediterraneo è andato incontro ad un processo di disseccamento. Il livello del mare è calato bruscamente e il Mediterraneo è diventato una specie di grande laguna di acqua salmastra nella quale precipitavano enormi quantitativi di cristalli di gessi. Alcuni studiosi hanno ipotizzato che il Mediterraneo si sia totalmente disseccato; secondo altri, il disseccamento non è stato mai completo e una certa quantità di acqua è rimasta comunque presente. In ogni modo, a prescindere dalle questioni degli studiosi, è chiaro che uno sconvolgimento importante si è realizzato in Mediterraneo tra 5 milioni e 960 mila e 5 milioni e 330 mila anni da oggi. Ed è anche chiaro che nello stesso periodo si assiste a quella che molti scienziati hanno chiamato la completa “sterilizzazione” delle specie marine mediterranee. Quello di questo periodo è un Mediterraneo infernale, un ambiente assolutamente inospitale per la maggior parte degli organismi marini che infatti si estinguono in massa. Fortunatamente, questa crisi dura relativamente poco, solo 500 mila anni, passati i quali l’Africa torna
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a ruotare in senso antiorario consentendo all’acqua dell’oceano Atlantico di rientrare a riempire la tinozza mediterranea. Alcuni studiosi hanno immaginato questo momento come una sorta di scenario epico caratterizzato dalle più alte cascate mai viste sul nostro pianeta. I geologi utilizzano la fine della crisi di salinità mediterranea per stabilire il momento di inizio del periodo denominato Pliocene che va appunto da 5 milioni e 330 mila anni fa a 1 milione e 800 mila anni fa. Il Pliocene è caratterizzato inizialmente dal ripristino di condizioni francamente marine nel Mediterraneo che si è andato riempiendo grazie all’indispensabile apporto dell’Oceano Atlantico.
Le estinzioni ed il raffreddamento climatico nel Mediterraneo Per spiegare le estinzioni plioceniche in Mediterraneo bisogna dunque cercare una o più cause globali. Il Pliocene medio, diciamo tra 3 milioni e mezzo e 2 milioni e mezzo di anni fa, è un periodo di intensi sconvolgimenti climatici e geologici. Prima dell’inizio della crisi del Pliocene medio, la geografia terrestre era un po’ diversa da quella che conosciamo oggi. Intanto, dopo la crisi di salinità, l’America del nord non era connessa all’America del sud perché l’America centrale non esisteva. C’era una unica corrente equatoriale che passava indistintamente dall’Oceano Pacifico all’Oceano Atlantico. Tra 3 milioni e mezzo e 3 milioni di anni fa, l’America del sud e l’America del nord sono entrate in collisione con la conseguente formazione dell’America centrale. Questo processo
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ha interrotto definitivamente le comunicazioni tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico interrompendo anche la corrente equatoriale di cui dicevamo prima. Pensiamo a che tremendo sconvolgimento deve essere stato: due oceani improvvisamente vengono divisi dall’emersione di un piccolo continente. Con l’emersione dell’America centrale si attiva quella che noi oggi conosciamo come Corrente del Golfo che porta acque calde fino all’Europa settentrionale garantendo un clima temperato alle medie latitudini. Il momento della chiusura delle comunicazioni tra Oceano Atlantico e Oceano Pacifico, però, è contemporaneo alla formazione di una calotta glaciale artica perenne. E’ probabile che i due fenomeni siano collegati da un rapporto di causa-effetto? Tra 3 milioni e mezzo e 3 milioni di anni fa, dunque, un meccanismo a catena che comincia con l’emersione dell’America centrale attiva una estesa glaciazione nell’emisfero nord culminante con la deposizione di una calotta glaciale artica, e innesca il circuito delle correnti che oggi caratterizza il nord Atlantico e dal quale dipende il clima in Europa. In quello stesso periodo si assiste alla scomparsa di un gran numero di specie marine in Mediterraneo. Possibile che ci sia un legame? Possibile che la scomparsa delle specie tropicali dal Mediterraneo sia dovuta ad un generale raffreddamento dell’emisfero nord dovuto sostanzialmente all’emersione dell’America centrale? Si direbbe di sì. Infatti questa complessa sequenza di eventi è la migliore candidata per spiegare un grande sconvolgimento climatico verificatosi nel Mar Mediterraneo quando le acque marine avevano il predominio sulla terraferma.
L’emersione delle terre plioceniche C’è stato un tempo in cui molte province toscane erano sommerse dalle acque del mare tirrenico: un tempo in cui al posto delle vigne e dei campi di grano nuotavano squali e balene dalle forme più arcaiche. Oggi di quel mare non esiste altro che le tangibili tracce disseminate nei terreni sottoforma di fossili. Spesso all’osservatore distratto, guardando una conchiglia sul bordo di una strada di campagna, capita di pensare che i terreni erano sommersi poiché un tempo il mare era molto più elevato di oggi, ma non è così! A partire da 2 milioni e mezzo di anni fa, una forte spinta della placca continentale Africana, su quella Europea, ha dato il via ad un progressivo sollevamento delle terre generando la morfologia della regione che conosciamo oggi. Enormi porzioni di territorio subirono una sollecitazione ascensionale innalzando quello che un tempo era il fondale del mare preistorico.
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Migliaia di fossili di organismi marini, compresi gli scheletri delle balene, i resti dei molluschi e i denti di squali, si ritrovarono a molti chilometri dalla costa a testimonianza di un mare lontano nel tempo.
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A Volterra un giorno di tre milioni di anni fa La carcassa di una balena, trasportata dalla corrente quasi impercettibile, procede lentamente in direzione della costa ancora lontana. Fino alla linea dell’orizzonte tutto appare immobile; solo una decina di uccelli marini ravvivano la scena sorvolando nell’aria afosa le spoglie del gigante addormentato per sempre. A poco a poco, a piccoli gruppi fra stridule urla i bianchi volatili planano verso ciò che rimane del cetaceo per prendere parte al ricco banchetto cominciato già da tempo sotto la superficie. Il facile pasto, infatti, sta richiamando a sé ogni sorta di predatori. I piccoli pesci, con la bocca fornita di file di denti aguzzi e taglienti, seguono la carcassa e staccano minuti brandelli di carne. Una sorta di frenesia alimentare incontrollabile attira però sagome sempre più possenti: piccoli squali non più grandi di un metro. Come proiettili filano in acqua portando scompiglio fra banchi di pesci dai riflessi argentei attirati, come i predatori, da tutta quella improvvisa abbondanza. Un lontano movimento dell’acqua passa inosservato; sembra una piccola scia in avvicinamento prima con andamento incerto, poi con moto sempre più veloce e rettilineo. All’improvviso dal mare emerge una forma triangolare che fende l’acqua in modo tanto silenzioso e discreto quanto rapido e sicuro. Solo gli uccelli sospesi in aria sembrano accorgersi che qualcosa sta per irrompere sulla scena e con un gracchiare nervoso paiono protestare e rivendicare il loro diritto al cibo. A circa cinquanta metri dalla carcassa l’oggetto appena emerso scompare nuovamente come inghiottito dalle profondità marine. Tutto sembra immerso per qualche attimo in una calma irreale finché, dopo pochi secondi in mezzo al ribollire dell’acqua un’enorme sagoma si avventa dal basso sulla carcassa.
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Nel frastuono in un istante tutti i commensali battono in ritirata in ogni direzione lasciando campo libero all’enorme squalo bianco, un maschio di circa sette metri, che, proiettando le fauci ben al di sopra del pelo d’acqua, si avventa sulle spoglie del cetaceo staccandone enormi pezzi di carne con poderosi morsi. Il sordo tonfo provocato dal gigantesco corpo del predatore che ricade agitandosi nell’acqua fra mille schizzi si confonde con il crepitare delle ossa della preda che si frantumano sotto la pressione inimmaginabile delle mascelle. Queste enormi tagliole si richiudono in morsi così violenti da provocare nello squalo stesso il distacco di un grande dente seghettato e triangolare che, precipitando verso il fondo, si perde nell’oscurità.
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Non siamo di fronte alle coste sudafricane né in pieno Oceano Pacifico; siamo a Volterra…circa tre milioni di anni fa. A distanza di migliaia di secoli il fondale marino sopra il quale si è svolto il terribile banchetto si mostra ammantato di verde chiaro, e la lieve brezza mattutina non increspa più l’acqua cristallina, ma muove sinuose onde nel grano ancora immaturo. Un uomo, forse un cacciatore, forse un contadino, si china lungo il sentiero sterrato che costeggia i campi coltivati incuriosito da quell’oggetto grigio scuro ben distinguibile dal tipico colore biancastro dei calanchi argillosi. Troppo particolare la forma per essere un semplice sasso, troppo netti e definiti i bordi per non esserne incuriosito. L’uomo raccoglie l’oggetto ed in un istante si trova in contatto con la preistoria della sua terra: nella mano tiene stretto quel dente che milioni di anni prima aveva perduto il maestoso e temibile squalo bianco.
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Niccolò Stenone: Volterra uno scrigno di tesori Da secoli sappiamo che le campagne toscane sono costellate dai resti di antichi animali marini: l’uomo sembra interrogarsi da sempre sul motivo della loro presenza negli alti strati della terra ben lontani dalla contemporanea linea di costa. Nel tempo si sono succedute molte interpretazioni spesso figlie della cultura dei singoli periodi storici. Scherzi di natura, resti del Diluvio Universale, dimostrazione della potenza creatrice di Madre Natura in grado di plasmare dalla nuda terra le forme viventi senza giungere a volte a compimento: il pensiero antico legava con vincolo indissolubile scienza, religione e filosofia e le interpretazioni ne risultavano ovviamente permeate. Nel 1666 si fece strada una nuova concezione naturalistica grazie alle intuizioni del danese Niels Stensen (Niccolò Stenone).
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Il giovane studioso ebbe modo di farsi notare sezionando con maestria la testa di un gigantesco squalo bianco pescato al largo della costa tirrenica, ma ciò che l'avrebbe reso immortale in ambito scientifico fu l'osservazione dei fossili marini presenti nella zona collinare di Volterra. Gli scienziati dell'epoca, in ossequio alla Bibbia, li consideravano prova evidente del diluvio universale. Ma Stenone si rese subito conto che la visione di un pianeta fisicamente statico nel tempo, frutto della creazione divina e che avrebbe potuto al massimo avere seimila anni di storia, non era verosimile. Instancabile e acuto osservatore, intuì la struttura geologica della terra individuando e "leggendo" sedimentazioni e strati antichi di milioni di anni. Nell'opera "De solido intra solidum" (1669) enunciò i primi principi della geologia stratigrafica. In seguito, a piedi o a cavallo per tutto il diciottesimo e diciannovesimo secolo insigni naturalisti percorsero ed esplorarono in lungo e in largo la Toscana aprendo per la prima volta finestre su un mondo dimenticato. Non solo conchiglie, ma decine di specie di mammiferi marini e di squali furono scoperti e descritti per la prima volta proprio in quegli anni di così fervida e appassionata ricerca. Ben presto però lo slancio iniziale si affievolì e con esso si perse progressivamente l’interesse e la meraviglia per ciò che ci circonda. Il secolo appena trascorso ha inesorabilmente sancito la perdita della centralità della Toscana nel pensiero degli stessi suoi abitanti e un latente disinteresse generalizzato ha accumulato metaforici strati di polvere sui tesori riportati precedentemente alla luce. Negli ultimi anni associazioni locali hanno cercato di riallacciare quel filo interrotto da decenni fra il territorio e la sua gente. Attraverso la divulgazione questi gruppi non svolgono solo l’importante compito di riscoprire ciò che è stato dimenticato, ma aggiungono nuovo valore scientifico ai reperti del passato in virtù delle nuove conoscenze e delle nuove tecniche. Inoltre, operando direttamente sul campo, è stato possibile giungere a nuove e meravigliose scoperte che in alcuni casi hanno perfino contribuito a modificare sensibilmente teorie ritenute da decenni valide e comprovate. Si sta così verificando un vero e proprio ribaltamento di prospettive in cui la Toscana, da terra relegata ai margini dell’interesse, diviene nuovamente centro e fulcro di nuove correnti scientifiche, attirando a sé studiosi di ogni latitudine pronti, come accadeva più di un secolo fa, a percorrerne e riscoprirne i mille sentieri. Scopo di questa mostra è proprio la valorizzazione del territorio attraverso la riscoperta delle sue antiche origini. La Toscana ha affascinanti storie da raccontare: basta saperle ascoltare.
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I VERTEBRATI FOSSILI DELLE COLLINE PLIOCENICHE DI VOLTERRA La maggior parte dei ritrovamenti di vertebrati fossili rinvenuti nelle argille plioceniche affioranti nei dintorni di Volterra risalgono al 1800 e furono descritti principalmente da Roberto Lawley, Giuseppe Meneghini e Giovanni Capellini. Tra i resti riportati alla luce, tutti appartenenti a vertebrati marini, si annoverano pesci, sia cartilaginei (selaci) che ossei (teleostei), cetacei, sia con fanoni (misticeti) che con denti (odontoceti), foche (pinnipedi), sirenii e tartarughe. I pesci sono rappresentati da una trentina di specie, molte delle quali descritte per la prima volta. In particolare i selaci sono segnalati sulla base di numerosi denti, molti dei quali riferiti allo squalo bianco (Carcharodon carcharias), al mako (Isurus hastalis) e alla razza (Myliobatis crassus). Da segnalare anche un’eccezionale mascella quasi completa fornita di 140 denti provenienti dalla località Case Bianche attribuita alla nuova specie “Oxyrhina” agassizi. Anche i teleostei sono stati segnalati prevalentemente sulla base di denti, di mascelle (come ad esempio quelle riferite a Sphoerodus cinctus) da rostri di pesce spada (Xiphias gladius) e anche da resti scheletrici più consistenti, come quelli trovati al Podere Fogliano e riferiti ad una nuova specie di dentice (Dentex musterii). Tra i resti di cetacei misticeti meritano di essere ricordati una mandibola e parte dello scheletro scoperti nel 1877 presso Podere Le Colombaie (circa 3 km a sud-est di Volterra). Il reperto, probabilmente andato perduto, fu riferito al genere fossile Plesiocetus. Gli odontoceti sono rappresentati da numerosi resti, tra i quali un cranio di Cogia (Kogia pusilla) e una mandibola di Globicefala (Globicephala? etruriae), rinvenuti sul Monte Voltraio, a circa due chilometri ad est di Volterra. Da altre località provengono numerosi denti di capodoglio (Physeter sp.) e frammenti di cranio di zifidi. Fossili di pinnipedi sono stati scoperti nel 1875 presso la località Podere Nuovo. Si tratta di vari resti scheletrici, denti frammenti cranici e una mandibola attribuiti a Pliophoca etrusca. Le tartarughe marine sono state segnalate sulla base di diversi frammenti e di uno scheletro quasi completo ed eccezionalmente ben conservato rinvenuto nella seconda metà dell’ottocento in località Poggio alle Monache. Questo reperto fu inizialmente descritto col nome di Trionyx pliocenicus ed è stato attribuito successivamente alla specie Trionyx pliopedemontanus.
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SALINE DI VOLTERRA Chi si fosse trovato a nuotare nella zona di Volterra 3 milioni di anni fa, avrebbe visto intorno a sé una vasta distesa marina dalla quale emergevano come grandi isole i monti di Montecatini e Riparbella e i promontori formati dai monti di Libbiano – Micciano e della Sassa. Nel corso di migliaia di anni la zona di Volterra fu interessata da un fenomeno di lento sollevamento. Estesi tratti di mare, che ricoprivano l’attuale Val di Cecina e tutte le altre valli fluviali della Toscana sino ai piedi dell’Appennino, lentamente furono sostituiti da estesi lembi di terra ricchi di fossili marini. In questo contesto il mare ha lasciato nel suolo non solo resti di organismi acquatici, ma anche due importantissime risorse che hanno costituito nel corso della storia dell’uomo motivo di lavoro e di ricchezza. L’estrazione del sale e dell’alabastro (residuo marino, risultato di una trasformazione del gesso) costituiva e costituisce ancora oggi una fonte di lavoro per le popolazioni di queste zone della Toscana. È risaputo che gli etruschi erano già a conoscenza di questi imponenti giacimenti di salgemma e che ne fecero oggetto di sistematico sfruttamento, anche se le prime testimonianze dirette risalgono al periodo romano, quando storici e narratori del calibro di Plinio e Galeno, descrissero nelle loro opere le immense potenzialità delle saline di Volterra.
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I PROCESSI DI FOSSILIZZAZIONE Quando i bambini al museo osservano un fossile rimangono stupefatti davanti alla “magia” che ha permesso a quella conchiglia che hanno sotto gli occhi, di conservarsi per un tempo così lungo, quasi inimmaginabile per la nostra e la loro mente. Eppure quella conchiglia, così come quei denti di squalo che sovente si rinvengono tra le colline di Volterra, ha un’età di circa 3 milioni di anni, anno più, anno meno! La fossilizzazione è la “magia” che ha consentito a quel reperto di conservarsi per così tanti anni e di giungere fino a noi. Questa non è altro che l'insieme dei processi biologici ed ambientali che modificano i resti degli esseri viventi, impedendo il loro disfacimento, e li tra-
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sformano nel prodotto finale chiamato appunto fossile. Esistono diversi processi e diversi tipi di fossilizzazione, che permettono ad un reperto di conservarsi. Il requisito fondamentale per la conservazione allo stato fossile, è che i resti dell’organismo morto vengano sottratti il più rapidamente possibile a tutta una serie di agenti biologici, chimici, fisici e meccanici che tendono a distruggerle. In genere, i reperti che si fossilizzano sono quelli che vengono preservati grazie ad un rapido seppellimento, che li sottrae all’ossidazione e alla putrefazione aerobica; ciò avviene meglio in acqua (mare, laghi, paludi, ecc.), dove la sedimentazione dei detriti è più veloce della decomposizione. I resti possono essere sottratti all'aria anche in altri modi, ad esempio nel caso dell'ambra o delle eruzioni vulcaniche. Le parti dure mineralizzate, come ossa e gusci, o non mineralizzate, come chitina e lignina, hanno maggiori probabilità di superare l’intervallo di tempo critico tra la morte e l’inclusione nel sedimento rispetto alle parti molli. Per questo motivo, la fossilizzazione preserva le parti molli solo raramente. Una volta sepolti e sottratti agli agenti atmosferici che li deteriorerebbero in tempi molto brevi, i resti sono solo a metà del loro processo di fossilizzazione. Coperti da strati di sedimenti inizia per loro una fase più lunga, chiamata mineralizzazione. Questo è il principale processo che porta alla fossilizzazione dei reperti di origine marina. In questa fase, la conchiglia, i denti di squalo o le ossa che sono rimaste sepolte iniziano una trasformazione durante la quale, la loro composizione chimica viene modificata per azione delle soluzioni che circolano tra i sedimenti. Il caso più frequente è quello di organismi che, morti per cause naturali o perché prede di altri animali, restano sepolti sul fondo di un lago o di un mare. Qui poco alla volta, grazie alle reazioni chimiche tra le parti dure dell'organismo e le soluzioni che penetrano e percolano tra i sedimenti sovrastanti, i minerali presenti in soluzione vanno a sostituire quelli presenti nei resti sepolti. Le modalità sono diverse a seconda dei vari tipi di sedimenti presenti: possono avvenire delle reazioni di sostituzione o precipitazione, di impregnazione o di calcitizzazione. Alla fine quello che si ottiene è un oggetto perfettamente identico all’originale, preciso nei minimi dettagli, dalle più particolari circonvoluzioni che può avere una conchiglia, ai fini margini seghettati dei denti di uno squalo e addirittura le incisioni che questi denti possono aver lasciato sulle ossa di una sfortunata balena che di quello squalo era stata il pasto. L’unica differenza dal reperto organico originario è che il fossile risulta ora costituito da un minerale differente, più resistente, che gli permetterà restando sepolto tra i sedimenti in cui si trova, di conservarsi per tutti quei milioni di anni… fino a quando, le piogge e gli agenti atmosferici, consumando gli strati di sedimenti che ricoprono quel fossile, lo riporteranno in superficie, consentendo ad un fortunato paleontologo di ritrovarlo intatto, apprezzandone l’inestimabile valore e la sua straordinaria storia!
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I CALANCHI Soprattutto durante le piene, capita di vedere un grande fiume diventare di color marrone e, se facciamo attenzione, possiamo vedere tra le onde e i vortici formati dall’acqua, rami ed altri detriti trasportati a valle. Il colore delle sue acque è dovuto principalmente alla presenza di una grande quantità di sedimenti erosi dalle colline e dai campi: per l’esattezza stiamo parlando di ghiaia, di sabbia, di argilla e di limo. Questi sedimenti quando sfociano in mare, a seconda della loro granulometria, ovvero della dimensione delle particelle che li compongono, vanno incontro a diversi destini. Il materiale più pesante, ghiaia e sabbia, in genere non ha modo di essere trasportato al largo per cui si deposita vicino alla costa. Il materiale più fine, argilla e limo, entra invece in sospensione più facilmente e viene trasportato al largo, dalle correnti marine e dalle onde, dove lentamente finisce per depositarsi sul fondale. Dobbiamo immaginare che nel Pliocene, proprio come accade oggi, intense piogge andassero ad alimentare fiumi in grado di trasportare sedimenti di varia natura fino a quel mare tropicale dal quale in futuro sarebbe emerso il volterrano. In quei fondali preistorici l’argilla e i sedimenti più fini andarono a depositarsi al largo, su un fondale che era destinato, sotto la costante spinta del continente africano, a sollevarsi di diverse decine di metri, fino ad emergere e formare proprio quelle colline che sorgono oggi intorno alla città di Volterra.
Questi versanti collinari, proprio per la loro particolare formazione geologica, sono oggi diffusi non solo nei pressi di Volterra, ma lungo tutti i versanti appenninici e formano quei meravigliosi paesaggi a calanchi caratteristici di ambienti climatici aridi e semiaridi con precipitazioni intense e concentrate, fortemente “aggressiveâ€?, su suoli e substrati facilmente erodibili. I calanchi sono tipiche morfologie del terreno causate dall'erosione delle acque di dilavamento in terreni pelitici o marnosi, cioè proprio quei sedimenti fini che i fiumi pliocenici avevano trasportato al largo! Normalmente i calanchi sono il prodotto dell'evoluzione geomorfologica di paesaggi dove l'assenza di una copertura vegetale protettiva mette a nudo i terreni argillosi. I calanchi quindi vengono profondamente incisi dalle acque di ruscellamento, riportando al mare i sedimenti seguendo una sorta di percorso circolare che non ha mai avuto inizio e non avrĂ mai fine.
MOLLUSCA* ECHINODERMATA** CRUSTACEA***
I molluschi* (bivalvi e gasteropodi) gli echinidi** (ricci di mare) e i crostacei*** (granchi), rappresentano solo una piccolissima parte di quella immensa varietà di esemplari che popolava i fondali del mare tirrenico. Grazie alla conservazione nei sedimenti, molti di questi organismi hanno mantenuto inalterata la loro forma per milioni di anni e sono tornati ai giorni nostri grazie al lavoro dell’uomo o all’erosione dovuta alle acque piovane. Per i non addetti ai lavori, questi reperti, separati l’uno dall’altro, potrebbero avere soltanto un valore estetico, ma se messi in un insieme, soprattutto tenendo conto delle località dove sono stati recuperati, acquistano importanza perché riescono a disegnare un quadro di come si presentava l’ambiente marino nel momento in cui questi organismi erano ancora vivi. Un’associazione di più elementi, consente agli studiosi di capire a grandi linee che tipo di habitat si poteva trovare in una determinata zona della Toscana milioni di anni fa.
Il famoso Pesce Ingordo: si tratta di un barracuda soffocato dall’ingestione di una preda troppo grande ancora ben visibile all’interno del predatore.
PESCI La maggior parte dei pesci rinvenuti a Castelnuovo Berardenga (SI) appartengono alla famiglia dei Mictofidi, gruppo che vive nelle tenebre delle profondità ed è caratterizzato dalla presenza di parti del corpo bioluminescenti che, a seconda delle specie, possono servire ad attrarre le prede o a confondere i predatori. Tra i vari ritrovamenti spicca il cosiddetto “pesce ingordo”: in una lastra di argilla oggi esposta al Museo Paleontologico di Firenze si osserva la sagoma di un predatore morto per aver tentato di ingerire una preda troppo grande che lo ha soffocato. In studio sempre presso il Museo di Firenze è anche l’unico rappresentante pliocenico fossile mai trovato al mondo del genere Trachipterus. Ricci e granchi completano la fauna, mentre anche la flora è presente con foglie e persino frutti. La fauna di estrema profondità e la tipologia dei sedimenti (argille fini) con la quasi totale assenza di gasteropodi e bivalvi, ci consentono di ricostruire l’antico bacino. Si trattava di un’area di mare profonda centinaia di metri con fondale buio, senza correnti e probabilmente asfittico, cioè così privo di ossigeno da rendere difficile la vita delle forme bentoniche (viventi sul fondo) ma allo stesso tempo da favorire la conservazione dei resti dei pesci morti che precipitavano dall’alto. La presenza di fossili di piante terrestri dimostra la vicinanza dell’antica linea costiera. Lo scenario più probabile quindi è quello di una fossa o di un canyon sottomarino molto vicino alla piattaforma costiera dalla quale precipitavano nelle profondità foglie, rami e semi trasportati in mare dai fiumi.
SQUALI Sono oltre quattrocento le specie di squalo attualmente esistenti. Presenti a tutte le latitudini dai mari freddi a quelli tropicali passando per la fascia temperata, questi predatori si sono adattati ad ogni temperatura e ad ogni profondità. Gli squali, le cui dimensioni oggi possono variare dai venti centimetri dello squalo pigmeo (Squaliolus laticaudus) ai quasi diciotto metri dello squalo balena (Rhiniodon typus), hanno una storia evolutiva molto lunga. La loro origine infatti si perde nella notte dei tempi. I fossili più antichi fino ad ora ritrovati appartenenti a questo gruppo risalgono al Devoniano (circa 370 milioni di anni fa) e dimostrano come tali creature esistessero ben prima dei dinosauri. In effetti è possibile affermare che da circa centocinquanta milioni di anni la struttura e la forma di questi predatori sia rimasta pressoché immutata. Trattandosi di pesci cartilaginei (Condroitti) gli squali preistorici hanno lasciato poche tracce della loro esistenza. Normalmente infatti solo i denti, fatti di dentina e smalto, si conservano mentre tutto lo scheletro si dissolve per decomposizione in breve tempo. Durante le ricerche sono stati raccolti i denti fossili di quasi trenta specie di squalo che popolavano l’antico mare pliocenico toscano dai cinque ai tre milioni di anni fa. Alcune di queste specie sono tuttora comuni nel Mare Nostrum mentre altre non sono più presenti. Tra queste ultime alcune sono estremamente si-
gnificative dal punto di vista paleoambientale. Negli affioramenti risalenti all’inizio del Pliocene (circa cinque milioni di anni fa) ad esempio non è insolito trovare denti di squalo tigre. Questi reperti non sono degni di nota solo per la loro meravigliosa forma arcuata o per il loro lato tagliente finemente seghettato, ma sono estremamente indicativi da un punto di vista climatico. Allora come oggi infatti lo squalo tigre viveva in mari caldi in zone a clima tropicale o subtropicale. E’ quindi evidente che la prima fase del Pliocene vede il Mediterraneo interessato da un ambiente sensibilmente più caldo rispetto alla condizione attuale. Col passare delle centinaia di migliaia di anni il clima iniziò progressivamente a raffreddarsi comportando un netto cambiamento nella flora e nella fauna. Anche gli squali testimoniano la grande variabilità climatica ed ambientale che caratterizzò buona parte del Pliocene. Specie adattate a mare caldo si alternarono con altre di ambiente sempre più freddo o temperato. Le variazioni non riguardarono soltanto il clima, ma anche il rapporto fra mare e terre emerse. La linea di costa nel Pliocene cambiò più volte posizione tanto che oggi nello stesso affioramento fossilifero è possibile recuperare, in livelli distinti, specie dall’ habitat molto diverso se non addirittura in contrasto fra loro. Anche ai piedi di Volterra furono evidenziati questi cambiamenti. Poco distante dai denti di squali di acque profonde (Centrophorus granulosus e Dalatias licha), vennero in passato recuperati altri squali tipicamente adattati a vivere in prossimità della costa. Accanto a specie moderne ne esistono altre arcaiche o addirittura estinte dalle importanti implicazioni evolutive. Tra queste troviamo il grande Isurus hastalis il cui dente differisce da quello dello squalo bianco solo per la mancanza della seghettatura laterale. Le due forme sono così simili che per alcuni studiosi il secondo deriva dal primo attraverso un diretto legame filogenetico. In sostanza sembra che da una popolazione isolata di hastalis, oggi scomparso, sia derivato lo squalo bianco che attualmente domina i mari. Oggetto misterioso è invece il Parotodus benedeni. Squalo estinto come l’ hastalis, ha tuttavia una storia evolu-
tiva del tutto differente. Adatto probabilmente a nutrirsi di grandi cetacei grazie ai potenti denti a forma di cuneo in grado di schiantare perfino le ossa di notevoli dimensioni, questo squalo di mare aperto sembra sparire nel nulla già a metà del Pliocene senza lasciare alcun discendente. La stessa forma del dente, con radice possente e punta tozza, è diametralmente opposta alla struttura generalmente riscontrabile sia nelle specie moderne che in quelle più antiche ed è un’ulteriore conferma della peculiarità di questo animale. Ultimo per ritrovamento, ma non certo per importanza, e particolarità, è il dente tricuspidato di squalo anguilla (Chlamydoselachus anguineus). Specie ancora presente nelle profondità abissali dell’Oceano Pacifico e dell’Atlantico, è considerata un vero e proprio fossile vivente dato che sembra esistere, senza grandi modificazioni, da oltre trecento milioni di anni. I suoi denti fossili sono tornati alla luce dopo più di un secolo in un piccolo, ma ricco giacimento presso Siena ed hanno contribuito così a riscrivere la paleogeografia dell’antico bacino senese, ritenuto fino ad ora molto meno profondo. (A small fossil fish fauna, rich in Chlamydoselachus teeth, from the Late Pliocene of Tuscany Siena, central Italy, Franco Cigala Fulgosi, Simone Casati, Alex Orlandini & Davide Persico). Oggi, dopo un accurato studio durato alcuni anni, si ritiene che la parte di mare che un tempo ricopriva quel bacino fosse quasi abissale e in collegamento, attraverso correnti marine, con le acque dell’Oceano Atlantico, condizioni necessarie per lo sviluppo di una ricca, ma concentrata popolazione di squalo anguilla. Questa scoperta, come detto, colma una lacuna di più di cento anni consentendoci di riallacciare la ricerca moderna con quella pionieristica, ma entusiasta, di fine ottocento quando Lawley, grande naturalista toscano, scoprì per primo al mondo i resti di Clamydoselachus senza tuttavia poterli classificare dato che lo squalo vivente fu pescato per la prima volta nel Mar del Giappone solo alcuni anni dopo la sua morte.
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HEXANCHUS GRISEUS
ISURUS OXYRINCHUS
CARCHARHINUS OBSCURUS
SQUATINA SQUATINA
EGOMPHODUS TAURUS
CENTROPHORUS GRANULOSUS
C’è stato un tempo in cui gli squali mangiavano le balene, un tempo lontano dove vivere o morire era semplicemente dettato da non incontrare mai questo temibile predatore del passato: il CARCHAROCLES MEGALODON La ricostruzione della mandibola di megalodon si trova presso la sede espositiva della Riserva Naturale Speciale di Valle Andona, Valle Botto e Val Grande, gestita dall’Ente Parchi e Riserve Naturali Astigiani
È il terrore di tutti i bagnanti, un incubo costante nell’immaginario collettivo di chi nelle calde estati affolla le spiagge. Sarà per i suoi denti affilati, per il suo muoversi furtivamente sotto il pelo dell’acqua, per i suoi attacchi fulminei che non lasciano scampo, ma da sempre lo squalo, seppur ingiustificatamente, genera nella gente un senso di timore e paura! C’è stato un tempo, un tempo in cui l’uomo ancora non c’era, in cui un solo squalo dominava incontrastato i mari di tutto il mondo, uno squalo che incuteva timore e paura anche agli altri abitanti del mare, alle balene e ai delfini. Quello che vi sto raccontando non è fantascienza, ma la testimonianza di fossili giunti fino a noi!
Il protagonista di questa storia è il più grande squalo mai conosciuto, il più grande predatore tra i pesci e il secondo più grande carnivoro (dopo il Capodoglio, Physeter macrocephalus) che sia mai esistito sul nostro pianeta. Il Carcharocles megalodon, ben noto per i suoi spettacolari denti fossili, doveva essere un predatore molto temuto ai suoi giorni. Le dimensioni dei fossili ritrovati, per lo più denti lunghi fino a 17 cm, anche se pare siano stati ritrovati denti di 20 cm, fanno pensare ad un animale la cui lunghezza avrebbe potuto raggiungere 17-18 metri. I reperti vengono generalmente trovati nei sedimenti di terreni che vanno dall’Eocene al Pliocene (tra i 55 e i 4 milioni di anni).
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Studi e ricerche effettuate negli anni passati suggerivano che il C. megalodon fosse uno stretto parente del grande squalo bianco (Carcharodon carcharias) soprattutto per la grande somiglianza morfologica, nella forma e nella struttura dei denti. Tuttavia, recentemente, un numero crescente di ricercatori sta mettendo in discussione questo legame, abbracciando l'ipotesi secondo la quale il vero motivo per cui lo squalo bianco e C. megalodon hanno una dentatura tanto simile sia legato a convergenze evolutive derivanti da pressioni selettive analoghe (simili abitudini alimentari, stessi habitat, ecc...). Per questo motivo è stato creato un nuovo genere in cui classificare il megalodon, che dal genere Carcharodon è stato inserito nel nuovo genere Carcharocles. Qualunque sia la sua discendenza filogenetica, l'aspetto e le dimensioni del C. megalodon sono da sempre stati ricostruiti proprio a partire da questa somiglianza con lo squalo bianco. Le stime sul peso indicano che poteva raggiungere le 40 tonnellate.
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Basandosi sul metabolismo dello squalo bianco, si pensa che il C. megalodon avesse bisogno di mangiare in media un quinto del suo peso ogni giorno. Pare quindi che la sua dieta potesse includere anche grandi balene e altri mammiferi marini, e non ci risulta difficile crederlo, dalle profonde incisioni che sovente si trovano sulle ossa fossili di balene con cui il megalodon era solito banchettare. Sebbene tutti gli studi portino alla conclusione che il megalodon si sia estinto circa 1,6 milioni di anni fa, alcuni gruppi di criptozoologi e amanti di mostri marini fantasticano che questo squalo possa essersi estinto successivamente o che addirittura sia giunto fino ai nostri giorni vivendo nelle profonditĂ oceaniche.
MAMMIFERI MARINI Tra i più affascinanti esseri viventi che nuotano nei mari troviamo sicuramente i maestosi cetacei. Oggi questo gruppo risulta nettamente diviso in due sottordini ben distinti: da una parte troviamo i veri e propri giganti dei mari, i Misticeti (balene e balenottere), caratterizzati tra l’altro dalla presenza, al posto di veri denti, di fitti pettini filtratori detti fanoni, e dall’altra dagli Odontoceti (orche, delfini ecc…), mammiferi predatori dotati di una lunga fila di veri denti conici.
I due gruppi, oggi ben distinti ma, nati circa 5557 milioni di anni fa da un progenitore comune, sono presenti nel Mediterraneo con una discreta quantità di specie anche se spesso ritenute in pericolo di estinzione. Niente a che vedere comunque con ciò che possiamo osservare dai sedimenti pliocenici. Questo periodo fu interessato infatti da una vera esplosione di biodiversita’ di cetacei oggi testimoniata dal notevole numero di frammenti che affiorano continuamente ad ogni aratura dei campi. Ogni tanto però la buona sorte e la tenacia dei ricercatori consentono di recuperare porzioni significative di scheletri preistorici o addirittura, in casi così rari da divenire storici, esemplari interi.
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Scheletro di balena fossile fra i più completi d’Europa trovato nelle argille plioceniche di Castelfiorentino (Firenze). L’esemplare, attualmente indeterminato, la cui lunghezza stimata è di circa 9 metri, è esposto nel Museo del G.A.M.P.S. di Scandicci (Firenze)
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Da tali ritrovamenti è possibile capire meglio quanto fosse grande il numero di specie di balene e balenottere presenti nel mare pliocenico; ogni scoperta sembra sancire la presenza di una specie mai osservata fino a quel momento. In un così vasto gruppo si possono ritrovare sia strutture scheletriche di forma moderna sia strutture decisamente arcaiche a testimonianza del fatto che in quel tempo potessero convivere specie più antiche e primitive con altre evolutivamente più avanzate. Dagli otto ai venticinque metri, queste balene navigavano in un mare meraviglioso e ricco di cibo ma, anche di pericolosi predatori come lo squalo bianco i cui denti hanno lasciato evidenti segni su vertebre e costole fossili di alcuni di quei maestosi giganti. Oltre ai cetacei un altro mammifero marino ha lasciato chiare tracce di sé nelle campagne toscane. Si tratta del Metaxytherium subappenninum, parente stretto dell’attuale Dugongo che oggi vive in zone tropicali come il Mar Rosso, nel mare della Florida, Australia, Indonesia e Sri Lanka. Mammifero acquatico totalmente erbivoro, aveva denti simili a quelli dei ruminanti, tanto che l’attuale dugongo viene definito “mucca di mare”. La presenza di due grandi incisivi a forma di zanna rende manifesta la parentela di questi placidi erbivori con gli elefanti. Comparando le modalita’ di vita dell’attuale dugongo con i resti di Metaxytherium ritrovati a Campagnatico (Grosseto) in sabbie risalenti a circa cinque milioni di anni fa, è possibile non solo avere un’ulteriore conferma della vicinanza delle due specie ma anche ricostruire uno spaccato della vita all’inizio del Pliocene nel mare toscano. Anche il Metaxytherium infatti viveva in mari caldi tanto è vero che tra i resti di questo mammifero non è insolito trovare denti di squalo tigre, altro abitante delle zone tropicali. Questa convivenza rafforza la teoria secondo la quale il Mediterraneo di inizio Pliocene fosse un mare decisamente tropicalizzato e riporta alla mente ambienti come le acque costiere della Florida, aree subtropicali in cui ancora oggi fra lussureggianti tappeti di alghe i dugonghi sfuggono agli agguati dello squalo tigre. Abitudinari e gregari, allora come oggi, il Metaxytherium e i Dugonghi vivevano in piccoli gruppi di dieci –venti unità rimanendo a lungo nelle stesse ristrette aree, tanto è vero che la specie fossile, rarissima altrove, è assai frequente nelle limitate sabbie di Campagnatico dove, in meno di un anno di ricerche, sono stati rinvenuti ben quattro esemplari in diverso stato di conservazione.
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Lo scheletro più completo al mondo di Metaxytherium subappenninum, circa 5 milioni disubappenninum. anni fa, è stato Scheletro più completo al risalente mondo dia Metaxytherium ritrovato a Campagnatico (Grosseto) ed è attualmente conRisalente a circa 5 milioni di anni fa è stato ritrovato a CAMPAGNATICO (Grosseto) servato al Museo GAMPS di Scandicci. ed è attualmente conservato al Museo G.A.M.P.S. di SCANDICCI (Firenze)
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