«Raven, cosa vuoi fare da grande?» Ci pensai per un attimo. «Voglio diventare... un vampiro!»
Ellen Schreiber
Ellen Schreiber, attrice e cabarettista, ha studiato alla Royal Academy of Dramatic Arts di Londra, indirizzo teatro shakespeariano, prima di intraprendere la carriera di scrittrice. È autrice di tre romanzi, oltre ai cinque finora pubblicati negli Stati Uniti della serie Vampire Kisses.
Ellen Schreiber
Vampire
Kisses
Vampire Kisses
ROMANZO
Una storia di primi batticuori, grandi cambiamenti e dinastie centenarie. Un romanzo indelebile... come un morso sul collo!
ISBN 978-88-95261-33-1
€ 0
,9
11
www.renoircomics.it
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788895 261331
R e No ir
Dullsville è una cittadina tranquilla. Anche troppo, soprattutto per una ragazza anticonformista e sopra le righe come Raven Madison, che si sente un pesce fuor d’acqua e aspetta che il mondo dei suoi sogni, quello dei film che guarda fin da bambina - fatto di grandi amori, vampiri e creature della notte - invada la sua noiosa quotidianità. E poi succede. E Raven non è più tanto sicura di ciò che voleva.
ReNoir
1 Piccolo mostro a prima volta è successo quando avevo cinque anni. Avevo appena finito di colorare Il mio primo libro di disegno. L’avevo riempito di ritratti in stile Picasso di mamma e papà, di collage con la carta crespa e di risposte alle domande della signora Peevish, la nostra maestra di cento e passa anni. (Qual è il tuo colore preferito? Hai degli animali? Chi è la tua migliore amica?) I miei compagni e io eravamo seduti a semicerchio sul pavimento della stanza di lettura. «Bradley, cosa vuoi fare da grande?» chiese la signora Peevish, dopo aver sentito le risposte a tutte le altre domande. «Il pompiere!» rispose lui.
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«Cindi?» «Uh... l’infermiera» sussurrò timidamente Cindi Warren. La signora Peevish fece la stessa domanda a tutta la classe: agenti di polizia, astronauti, giocatori di football… alla fine toccò a me. «Raven, cosa vuoi fare da grande?» mi chiese, con i suoi occhi verdi fissi su di me. Non dissi nulla. «L’attrice?» Scossi la testa. «Il dottore?» «Certo che no» sbottai. «L’assistente di volo?» «Bleah!» dissi. «E allora cosa?» mi chiese, infastidita. Ci pensai per un attimo. «Voglio diventare...» «Sì?» «... un vampiro!» dissi, con un tono di voce probabilmente più alto del normale, che spaventò la signora Peevish e i miei compagni di classe. Per un istante ebbi la sensazione che stesse per ridere. Forse lo fece davvero. I bambini seduti accanto a me si allontanarono un poco. Ho passato la maggior parte della mia infanzia a guardare gli altri allontanarsi. Sono stata concepita sul letto ad acqua di mio padre, o sotto un cielo stellato sul tetto del dormitorio universitario di mia madre, a seconda di quale dei miei genitori racconti la storia. Erano spiriti affini che non riuscivano a smettere di vivere 10
negli anni Settanta: vero amore misto a droghe, incenso al mirtillo e la musica dei Grateful Dead. Una ragazza scalza, con gli short di jeans strappati, un top annodato in vita e mille collane di perline, abbracciata a un tizio in sandali, con i pantaloni a zampa, un gilet di cuoio, l’abbronzatura permanente, la barba lunga e gli occhiali alla Elton John. Credo che abbiano avuto fortuna a non avere una figlia più eccentrica. Avrei potuto desiderare di diventare un lupo mannaro hippie con le perline nei capelli! Per qualche motivo, invece, mi sono sempre sentita attratta dai vampiri. Sarah e Paul Madison divennero più responsabili, dopo la mia nascita, o forse dovrei dire che semplicemente divennero un po’ meno svagati. Vendettero il furgoncino Volkswagen da figli dei fiori nel quale abitavano e presero in affitto una casa vera. Il nostro appartamento hippie era decorato con poster di fiori tridimensionali e fosforescenti e con tubi arancioni pieni di una specie di pongo gelatinoso che si muoveva da solo – le cosiddette lampade lava – e che sarei rimasta a guardare per sempre. Fu il periodo più felice della mia vita. Tutti e tre insieme, giocavamo al Gioco dell’oca e srotolavamo rotelle di liquirizia. Stavamo alzati fino a tardi per guardare i film di Dracula, Dark Shadows con il famigerato Barnabas Collins e il telefilm di Batman su un televisore in bianco e nero che ci avevano regalato quando i miei genitori avevano aperto il loro primo conto in banca. Mi sentivo al sicuro, in quelle notti, quando accarezzavo il pancione sempre più gonfio della mamma, che faceva lo stesso suono delle lampade lava arancioni. Pensavo che avrebbe dato alla luce altro pongo luminoso. 11
Invece tutto cambiò quando nacque Piccolo Nerd. Come aveva potuto farmi questo? Fu la fine delle serate a base di rotelle srotolate. Mamma cominciò ad andare a letto presto, mentre l’abominevole creatura che i miei chiamavano “Billy” piangeva e si lamentava per tutta la notte. Mi ritrovai improvvisamente sola. Era Dracula – il Dracula della TV – che mi faceva compagnia mentre mamma dormiva, Piccolo Nerd frignava e papà cambiava pannolini puzzolenti al buio. Come se non bastasse, cominciarono a mandarmi in un posto che non era il nostro appartamento, che non aveva i poster dei fiori alle pareti, ma noiose impronte di mani di bambini fatte con i colori a tempera. Chi è l’arredatore di questo posto? mi domandai il primo giorno. Era pieno di bambine vestite come manichini di un negozio alla moda e bambini elegantissimi e perfettamente pettinati. Mamma e papà lo chiamavano “l’asilo”. «Diventeranno tuoi amici» mi rassicurava la mamma, mentre mi aggrappavo alla sua gamba come se fosse stata l’ultima scialuppa di salvataggio. Mi salutò con un cenno e mi schioccò un bacio mentre io me ne restavo, incredula, accanto a quella matrona della signora Peevish, sola. Guardai mia madre andare via con Piccolo Nerd in braccio: lo riportava nel posto dove c’erano i poster fosforescenti, i film di mostri e le rotelle di liquirizia. In qualche modo riuscii a sopravvivere a quella giornata. Ritagliando e incollando carta nera su carta nera, dipingendo le labbra di Barbie di nero con le dita, e raccontando all’assistente della maestra storie di fantasmi, mentre i 12
bambini-manichini scorrazzavano felici, come a un picnic in puro stile “allegra famiglia americana”. Quando la mamma venne a prendermi, ero perfino felice di rivedere Piccolo Nerd. Quella sera mi beccarono con le labbra sullo schermo della TV, mentre cercavo di baciare Christopher Lee in Dracula il vampiro. «Raven! Cosa ci fai sveglia a quest’ora? Domani c’è la scuola!» «Cosa?!» chiesi. La crostatina alla ciliegia che stavo mangiando cadde a terra, seguita a ruota dal mio cuore. «Ma credevo di doverci andare solo oggi!» dissi, in preda al panico. «Piccola Raven... ci devi andare ogni giorno!» Ogni giorno?! Le parole rimbombarono nella mia testa. Era una condanna a vita! Quella notte il Piccolo Nerd non riuscì a competere con il mio pianto e le mie grida. Sola nel mio lettino, pregai che la notte fosse eterna, e che il sole non sorgesse più. Invece il mattino seguente mi svegliarono una luce accecante e un mal di testa formato famiglia. Avrei voluto avere una persona che mi capisse, ma non ne trovavo né a casa né a scuola. A casa le lampade lava furono rimpiazzate con lumi da terra in stile Tiffany, i poster fosforescenti vennero coperti da carta da parati di Laura Ashley e il nostro sgranato televisore in bianco e nero fu sostituito da un modello a colori da venticinque pollici. A scuola, invece di cantare le canzoni di Mary Poppins, fi13
schiettavo la colonna sonora dell’Esorcista. Durante il secondo anno dell’asilo, cercai di diventare un vampiro. Trevor Mitchell, un biondino pettinatissimo con slavati occhi blu, era stato la mia nemesi da quando l’avevo fulminato con gli occhi quella volta che aveva cercato di passarmi davanti nella fila per lo scivolo. Mi odiava perché ero la sola bambina che non avesse paura di lui. Tutti gli altri, insegnanti compresi, gliela davano sempre vinta perché suo padre possedeva gran parte dei terreni sui quali sorgevano le loro case. Trevor era in una fase mordace, non perché come me volesse diventare un vampiro, ma semplicemente perché era cattivo. Aveva affondato i denti in tutti, eccetto che in me. E la cosa cominciava a seccarmi! Eravamo in cortile, sotto al cesto del canestro, e pizzicai la pelle del suo minuscolo avambraccio con tanta forza che pensavo che ne sarebbe uscito sangue. Il suo viso divenne rosso come una barbabietola. Rimasi immobile, in attesa. Il corpo di Trevor tremava per la rabbia, e io gli sorrisi mentre i suoi occhi mi giuravano vendetta. Poi lasciò l’impronta dei suoi incisivi nella mia mano, che non aspettava altro. La signora Peevish fu costretta a farlo sedere contro il muro della scuola, e io cominciai a ballare felice per tutto il cortile, aspettando di trasformarmi in un pipistrello vampiro. «Quella Raven è proprio strana» sentii la signora Peevish dire a un’altra maestra mentre svolazzavo vicino a Trevor, che piagnucolava, seduto per terra. Gli mandai un bacio riconoscente con la mano che mi aveva morso. Guardavo orgogliosa la mia ferita, mentre andavo sull’altalena. Potevo volare, giusto? Ma avevo bisogno di prendere 14
una bella rincorsa. Il seggiolino dell’altalena arrivava fino alla sommità della ringhiera, ma io volevo raggiungere le nuvole. Le tubature arrugginite tremarono, quando saltai. Avevo intenzione di volare sopra al cortile e di planare davanti a Trevor, per fargli paura. Invece precipitai nel fango, peggiorando le condizioni della mia mano già segnata dal morso. Piansi più per aver capito che non avevo i poteri soprannaturali dei miei eroi televisivi, che per il dolore vero e proprio. Dopo aver messo del ghiaccio sulla ferita, la signora Peevish mi fece sedere contro il muro per riprendermi, mentre quel moccioso viziato di Trevor era nuovamente libero di scorrazzare. Mi schioccò un bacio di scherno e disse: «Grazie.» Io tirai fuori la lingua e gli dissi una parola che avevo sentito dire a un mafioso nel Padrino. La signora Peevish mi mandò subito dentro. Mi mandavano dentro spesso, durante le ricreazioni della mia infanzia. Era come se per me ci fosse in serbo una ricreazione dalla ricreazione.
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2 Dullsville l cartello di benvenuto ufficiale della mia città dovrebbe dire: «Benvenuti a Dullsville. Più grande di una caverna, ma abbastanza piccola da farvi venire la claustrofobia!» Ha una popolazione di ottomila persone tutte uguali, previsioni del tempo pessime tutto l’anno – ovvero sole, sole e sole senza sosta – casette fatte con lo stampino e circondate da candide palizzate, e campagna a perdita d’occhio. Ecco, Dullsville è così. Il treno merci che attraversa la città separa il lato “giusto” dei binari da quello “sbagliato”, i campi di grano da quelli da golf, i trattori dalle auto elettriche. Credo che il paese ragioni al contrario. Com’è possibile che la terra sulla quale crescono granturco e frumento valga meno di
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quella piena di buche di sabbia e di bandierine?! L’edificio del tribunale ha più di cent’anni e si affaccia sulla piazza del paese. Non mi sono mai messa nei guai abbastanza da farmici portare... per ora. Negozi di moda, un agenzia di viaggi, un negozio di computer, un fioraio e un cinema che proietta solo film in seconda visione completano l’arredo della piazza. Vorrei che casa nostra fosse sulle rotaie, che avesse le ruote e ci portasse via di qui, ma invece se ne sta immobile dal lato “giusto” della ferrovia, vicino al country club. Dullsville. Il solo posto divertente è un maniero abbandonato che una baronessa in esilio fece costruire in cima a Benson Hill, dove poi andò a morire, sola. Ho una sola amica, a Dullsville, una ragazza di campagna, Becky Miller, che è ancora meno popolare di me. Ci siamo conosciute in terza elementare. Ero seduta sui gradini della scuola e aspettavo che mia madre mi venisse a prendere (in ritardo, come al solito, dato che ormai stava cercando di farsi largo nel mondo degli affari), quando notai una ragazzina minuscola seduta in fondo alla gradinata, che piangeva come un neonato. Non aveva amici, era timida e viveva a est delle rotaie. Era una delle poche bambine di campagna della nostra scuola, e sedeva due file dietro di me, in classe. «Che succede?» chiesi, perché mi dispiaceva vederla triste. «Mia mamma si è dimenticata di me!» ululò lei, con le mani che le coprivano il faccino patetico e fradicio. «Ma no che non si è dimenticata» la consolai. «Non arriva mai così tardi!» piagnucolava. «Magari è bloccata nel traffico.» 18
«Tu dici?» «Ma certo! Oppure l’ha chiamata uno di quei venditori che chiedono sempre “È in casa tua madre?”» «Davvero?» «Succede di continuo. Oppure si è dovuta fermare per comprare uno spuntino, e c’era coda alla cassa del 7-Eleven.» «Dici che potrebbe essere andata così?» «Scusa, perché no? Anche lei deve mangiare, giusto? Non ti preoccupare. Arriverà.» E poco dopo, immancabilmente, un pick-up blu frenò accanto al marciapiede, e ne scesero una mamma che si scusava a capo chino e un simpatico cane pastore. «Mia mamma dice che puoi venire da noi, sabato, se ai tuoi va bene» disse Becky, tornando di corsa verso di me. Nessuno mi aveva mai invitato a casa propria, prima. Non ero timida come Becky, ma ero poco popolare quanto lei. Arrivavo sempre tardi a scuola perché dormivo troppo, indossavo gli occhiali da sole in classe e avevo le mie opinioni, una cosa che a Dullsville proprio non usava. Becky aveva un cortile grande come la Transilvania; era un posto fantastico per giocare a nascondino, ai mostri e per mangiare tutte le mele fresche che lo stomaco di una bambina di terza elementare poteva contenere. Ero la sola nella nostra classe a non picchiarla, escluderla o chiamarla con nomignoli strani, e anzi la difendevo da chiunque se la prendesse con lei. Lei era la mia ombra tridimensionale. Io ero la sua migliore amica e la sua guardia del corpo. Ed è ancora così.
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«Raven, cosa vuoi fare da grande?» Ci pensai per un attimo. «Voglio diventare... un vampiro!»
Ellen Schreiber
Ellen Schreiber, attrice e cabarettista, ha studiato alla Royal Academy of Dramatic Arts di Londra, indirizzo teatro shakespeariano, prima di intraprendere la carriera di scrittrice. È autrice di tre romanzi, oltre ai cinque finora pubblicati negli Stati Uniti della serie Vampire Kisses.
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Una storia di primi batticuori, grandi cambiamenti e dinastie centenarie. Un romanzo indelebile... come un morso sul collo!
ISBN 978-88-95261-33-1
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R e No ir
Dullsville è una cittadina tranquilla. Anche troppo, soprattutto per una ragazza anticonformista e sopra le righe come Raven Madison, che si sente un pesce fuor d’acqua e aspetta che il mondo dei suoi sogni, quello dei film che guarda fin da bambina - fatto di grandi amori, vampiri e creature della notte - invada la sua noiosa quotidianità. E poi succede. E Raven non è più tanto sicura di ciò che voleva.
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