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torico

I segreti del Bitto S

gustare DE

Degustare l’olio

Il

gelato di Rigoletto

alla scoperta dei sapori d’Italia

a r t n e a n a i l a t i a p a n a c La t e m r u o g a n i c u c a l l e n



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itoriale ED

di Maurizio Ferrari

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Fiducia, futuro e mercato

Quanto vale la fiducia? Si dice che non ha prezzo, che una volta

persa è difficile riconquistarla. Nel campo dell’agroalimentare la fiducia è essenziale, è alla base di tutto. La reputazione di

un’azienda, di un prodotto, di un territorio sono il più importante biglietto da visita. Faccio un esempio: penso che chiunque

comprerebbe in una enoteca una bottiglia di champagne, anche

se è di una cantina che non si conosce. Lo farebbe per due motivi: la fiducia nel locale dove la si acquista e la fiducia nel territorio di origine del prodotto. Un abbinamento perfetto, una somma

che spinge il consumatore a portarsi a casa una bottiglia di quel vino. Ora possiamo proseguire in questo giochetto sostituendo

lo champagne con altri prodotti italiani. Ma otteniamo lo stesso risultato? A volte sì, a volte no! In questi anni di crisi, troppe

realtà hanno cercato di approfittare del consumatore, gettando discredito su tipologie di prodotto o su determinati territori.

Ben venga dunque un giro di vite sui reati agroalimentari: in questo periodo una speciale commissione presieduta dall’ex

procuratore Caselli sta tracciando le linee guida di una riforma che renderà più costoso (in tutti i sensi) commettere questo tipo di reato. Sperando che il deterrente penale possa servire, ma

sono però convinto che il deterrente più forte deve arrivare dalla società, dai colleghi e dai consumatori. Un sistema Italia più

forte, più strutturato, meno litigioso e meno soggetto a invidie, può reggere l’urto quando avviene un reato. Riuscire a fare

sistema significherebbe anche aumentare la fiducia della gente,

ma sarebbe una fiducia conquistata con i fatti, e non con parole. È fondamentale che l’Italia passi dalle parole ai fatti, per dare

finalmente vita a un sistema che protegga l’immagine del nostro Paese, ne tuteli i prodotti e permetta alle eccellenze di fare da

traino a tutto il comparto. Così quando un tedesco entrerà nel suo negozio preferito comprerà fiducioso un prodotto italiano, sicuro

che questo sarà di qualità, anche se non ha mai sentito parlare di quel produttore. Rimbocchiamoci tutti le maniche.


contributors

contributi

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hanno contribuito a questo numero

Riccardo Carnevali

Cuoco, imprenditore, appassionato di storia della cucina e di prodotti tipici. In cucina da sempre. Per lui cucinare significa non smettere mai di studiare la materia prima e le tecniche. Si può innovare solo quando si è compreso appieno tutto quel che già è stato creato. Titolare di una società di catering di Pavia, l’Ars Convivium, dove tiene i suoi corsi di cucina e pioniere nell’uso dei social e del web per raccontare la cucina e i suoi prodotti. È segretario della Unione Cuochi della Lombardia (Federazione Italiana Cuochi).

Franco Cavalleri

Pratica il giornalismo da quasi venti anni e ha da sempre la grande passione di raccontare storie e persone. Il suo obiettivo è far percepire al lettore cosa c’è oltre il profumo di un piatto o di un bicchiere di vino. La storia, la tradizione, il duro lavoro, la capacità di scoprire, provare, innovare, il rapporto ed il legame con un territorio e la sua gente nel corso dei secoli se non dei millenni, in una ricetta che combina aspetti culturali, economici e sociali. Ha lasciato il mondo della tecnologia perché il mondo è un grande racconto da scrivere ogni giorno.

Daniele Colombo

Giornalista professionista dal 2002, una laurea in Lettere Moderne conseguita presso l’Università degli Studi di Milano, tesi su «Guido Piovene viaggiatore», è da sempre appassionato ai temi legati al food per i quali ha scritto articoli anche per le pagine milanesi del «Giornale» e per altre pubblicazioni e periodici free press. È stato redattore di 19 guide turistiche ed enogastronomiche (collana «Viaggio attraverso le regioni italiane») distribuite in allegato ad alcuni quotidiani nazionali. Ama sorseggiare un «Anghelu Ruju» contemplando il mare di Alghero.


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Da sempre nel mondo dell’agricoltura, sia come formazione sia come professione. Dopo gli studi ha iniziato la sua carriera che lo ha portato a ricoprire il ruolo di direttore di Aipol (Associazione Interprovinciale Produttori Olivicoli Lombardi) e del Consorzio di tutela dell’olio extra vergine di oliva Dop Laghi Lombardi. È anche assaggiatore professionista di olio d’oliva vergine ed è membro del panel professionale Aipol. Ricopre anche la carica di consigliere di Federdop, la federazione che raggruppa tutti i consorzi di tutela delle Dop olearie presenti sul territorio italiano.

Rossella Lucangelo

Dopo una importante carriera come direttore marketing in Multinazionali nel settore Ict decide nel 2000 di fondare Pragmatika Srl, società di Media Relations, Marketing e Social media dove oggi ha la carica di Amministratore Delegato e Presidente. Il mondo dell’enogastronomia, oltre a essere una grande passione, è uno dei mercati principali dove opera l’agenzia. Giornalista, docente in scuole di alta formazione per master post universitari e autore di diversi libri relativi al food, coniuga rigore e determinazione con creatività e un pizzico di follia.

Filippo Parmigiani

Docente universitario, enologo, consulente e appassionato di vino e buona cucina. Ha prodotto il primo Ice-Wine italiano e si occupa sin dal 1997 di agricoltura biologica e biodinamica. Collabora con università e molte aziende del settore vinicolo. Negli anni ha contribuito a formare innumerevoli sommelier, sia Ais sia Fisar. Ha pubblicato diversi lavori e articoli sul vino e sull’enologia. Ha insegnato alla facoltà di Agraria dell’Università di Parma storia dell’enologia, dove ha tenuto anche seminari sulla psicologia della degustazione.

contributors

Simone Frusca

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Donatella Polvara

Dopo la laurea in Biologia, indirizzo Fisiopatologico, si dedica alle analisi di laboratorio seguendo in particolare il settore della batteriologia e parassitologia umana. Ha frequentato la Scuola di Nutrizione Olistica a Milano, dove ha approfondito i temi legati a una corretta alimentazione e al miglioramento della qualità della vita. Il detto «Siamo ciò che mangiamo» è una corretta sintesi del suo pensiero, dove al centro ci deve essere la persona e i suoi problemi. Ama la montagna e lo sport: la vita attiva è per lei lo strumento migliore per garantire un buon equilibrio psico-fisico alla persona.

Valerio Sisti

Sommelier professionista abilitato con diplomi Ais. e Fisar. Per Fisar oggi è Direttore di Corso e Docente nei corsi di formazione per aspiranti Sommelier. È anche membro per le commissioni d’esame per l’abilitazione al ruolo. Nel 2012 viene eletto Consigliere Nazionale per la stessa Federazione, ed è oggi membro della Giunta Esecutiva Nazionale. È stato prima ristoratore e poi Sommelier presso l’enoteca della rivista ”Viaggi del Gusto”. Oggi è docente e consulente libero professionista. Ha predisposto il primo corso sul vini italiano ufficiale in Bielorussia, per il quale ha scritto integralmente il libro di testo.


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luglio agosto 2015

professioni

Gelato artigianale: semplice e naturale

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Incontro con Antonio Morgese, proprietario e gelatiere di Rigoletto Gelato e Cioccolato, che dai quartieri di Milano è ora a Expo con la gelateria di Padiglione Italia. Ci racconta perché quello fatto dagli artigiani come lui è un prodotto con una marcia in più

alimentazione

I segreti dell’albero della vita

DEgustare

anno I - numero 2; lug-ago 2015 Direttore responsabile: Maurizio Ferrari Direttore editoriale: Gaetano Di Blasio Hanno collaborato a questo numero: Riccardo Carnevali, Franco Cavalleri, Daniele Colombo, Simone Frusca, Rossella Lucangelo, Filippo Parmigiani, Donatella Polvara, Valerio Sisti Grafica: Aimone Bolliger Sede: via Marco Aurelio, 8 - 20127 Milano tel 0236580441 - fax 0236580444 www.de-gustare.it - redazione@de-gustare.it Editore: Reportec srl, via Gian Galeazzo 2 - 20136 Milano Iscrizione al tribunale di Milano n° n.119 del 16/4/2015 Tutti i diritti sono riservati; Tutti i marchi sono registrati e di proprietà delle relative società

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Esiste la dieta per campare cent’anni? Dal modello Marche (la regione con la maggiore aspettativa di vita in Italia) alle «blue zone», le cinque aree del pianeta dove vivono le popolazioni più longeve. Vince la dieta mediterranea, ma il nutrimento dello spirito gioca un ruolo altrettanto fondamentale nel godimento di buona salute

tradizione e innovazione La canapa italiana entra nella cucina gourmet

Tra le dolci colli del Chianti Il Convito di Curina (due stelle Michelin), annesso al Resort Villa Curina, propone un menu degustativo ad hoc. Per lo chef Giorgio Trovato, che la definisce «nutraceutica», è un ritorno al passato

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valtellina

Paolo Ciapparelli: passato, presente e futuro del Bitto storico 40 Il rilancio di questo formaggio, il rapporto con Slow Food, la Guerra del Bitto e molto altro ancora nelle parole del presidente dell’Associazione dei Produttori Valli del Bitto che traccia un ritratto di questo territorio con pennellate forti e decise, com’é nella natura di chi vive con passione

tradizioni

La pasta delle mie origini 48 Un breve viaggio nei ricordi che diventano storia e aneddoti di un prodotto che ha segnato, in tutte le sue forme, la cucina del nostro Paese. Dal passato ai giorni nostri, attraverso prodotti simbolo delle regioni Italiane

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Rubriche news

La tavola degli italiani sempre più light and green Pesce, come evitare fregature e danni per la salute

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nutrizione

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enologo

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olio

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sommelier

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i vini

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ricette

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Pesce crudo: una tradizione antica ricca di nutrimenti salutari

Contiene solfiti

L’importanza dell’analisi sensoriale per l’olio extravergine d’oliva

Il nonno e il decanter

Bianco d’estate sempre apprezzato

Vasocottura, un modo diverso per gustare l’estate

filosofando in cucina Panta rei culinario

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8 news

La tavola degli italiani sempre più light and green Cibo «slow» e vegetale, sempre meno carne, boom della soia. È un cambiamento radicale quello che emerge dalla fotografia della nuova tavola degli italiani dal 1995 a oggi. L’indagine – effettuata da Gfk Eurisko e commissionata da TreValli, terza azienda del Paese nel lattiero-caseario, sede a Jesi, nelle Marche – mette in luce il consolidamento della dieta mediterranea a base di frutta, verdura, pesce e cereali (chi la segue passa dal 41 per cento al 62 per cento) e l’arretramento di quella con prevalenza di proteine animali. Se si va poi ad analizzare l’evoluzione dei capitolati di spesa alimentare, si scopre che negli ultimi 40 anni (fonte Istat) la dieta nordica basata su carne, latticini e uova è calata del 9.3 per cento. Il dato più impressionante è che dal 2006 a oggi ben 2 milioni di italiani hanno ridotto il consumo della carne e circa uno su cinque (18.1 per cento) la consuma

meno di una volta la settimana. Soffre, in particolare, il comparto salumi, il prodotto di cui il maggior numero di italiani ha diminuito nel tempo il consumo. Per contro cresce quello di frutta e verdura (dal 12,7 per cento al 18,4 per cento del budget), pesce e cereali. Meno carne e meno latte, che sente forte la concorrenza della soia (il 40 per cento degli intervistati la usa abitualmente o ne ha fatto uso negli ultimi sei mesi). L’interessante ricerca evidenzia poi come sia cambiato anche il modo di stare a tavola: niente più pasti veloci (chi mangia in fretta scende dal 40 per cento al 21 per cento), crolla il pasto completo (a pranzo dal 68 per cento al 48 per cento; la cena dal 41 per cento al 25 per cento), cresce invece la colazione (dal 70 per cento all’87 per cento) e si fa strada il fuoripasto (36 per cento), voce non contemplata nel 1995 e che rimanda in primis ai fan dell’aperitivo. Aumenta poi, in generale, il numero di persone più attente a quello che mangia (cala dal 24 per cento al 13 per cento la quota di chi la trascura). «Prima del buono da mangiare – afferma Paolo Salafia, direttore di Ricerca di Gfk Eurisko – viene il buono da pensare. Il cibo


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deve allora rimandare all’idea di salutare, sicuro, controllato, garantito dalla filiera, ma anche gourmand e goloso, lento; e poi bello da vedersi, pittorico e conviviale, ma anche sostenibile, etico, stagionale, a filiera corta. I pilastri di questo modo di pensare sono in sostanza quattro, naturalistico, edonistico, culturale e sensoriale. Fino a metà degli anni 90 – aggiunge – c’è stata la “snackerizzazione”, il cibo come carburante di rapido consumo. Questa idea si è sbriciolata, oggi si vuole mangiare lentamente. Cresce poi la convivialità, il mangiare con amici e l’attenzione ai piatti regionali o della cucina etnica. Sul crollo della carne ci sono tante spiegazioni. Viene spesso sostituita da altre fonti proteiche, come il seitan che è uno dei suoi maggiori concorrenti. A questa trasformazione hanno contribuito

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anche le istituzioni, penso alle scuole che oggi offrono la possibilità di avere diete alternative». «Da quest’anno entriamo nel mercato della soia – annuncia Federico Camiciottoli, direttore pianificazione strategica e business innovation di TreValli, azienda che vanta un fatturato di 232 milioni di euro e raccoglie ogni anno da oltre mille produttori ben 200 milioni di litri di latte bovino e 7 milioni di litri di latte ovino – Se cambiano i bisogni dei consumatori, le aziende devono seguirli. Noi entriamo con un prodotto a base di soia non Ogm (e italiana per la bevanda) utilizzando il brand Hoplà. Quello della soia – sottolinea – è un mercato in crescita in tutte le aree anche se fortemente concentrato nel Nordovest. Il mercato delle bevande vegetali vale circa 87 milioni di euro di fatturato al consumo e il 70 per cento è costituito dalle bevande di soia che hanno un trend di crescita nell’ultimo anno pari al 25 per cento. Alle bevande di soia vanno poi aggiunti circa 12 milioni di euro di fatturato fra dessert, panna da montare e da cucina e besciamella a base di soia. Per quanto riguarda il latte – precisa – è vero che i consumi sono in calo, complice anche il fatto che il Paese invecchia, ma sono in crescita quelli del prodotto ad alta digeribilità, anche per la diffusione dell’intolleranza al lattosio. Dunque bisogna intercettare le nuove esigenze. Del resto è stata l’Italia ad avere inventato, nel 1965, il latte a lunga conservazione». «Che aziende orientate su prodotti d’origine animale si aprano a quelli vegetali è un segnale importante – afferma Lorenzo Ferrante, medico nutrizionista e componente del comitato scientifico di Assovegan – mangiando vegetale il corpo si rigenera e si disintossica. Oggi in Italia ci sono 6 milioni di vegetariani di cui un milione e centocinquantamila vegani. È un mondo certamente eterogeneo ma non è una moda: è ormai massa critica». (D.C.) i


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Pesce, come evitare fregature e danni per la salute L’acqua ossigenata rende più bianca la carne della seppia. Il monossido di carbonio ringiovanisce il tonno. L’acido borico mantiene vivo il rosso dei gamberoni. Il Cafodos, un additivo venduto come spray e reperibile anche su Internet, mantiene freschi esteriormente acciughe, sgombri e naselli anche se dentro sono marci. Le frodi e le adulterazioni nella commercializzazione del pesce, per mascherarne il deterioramento, sono sempre più ingegnose e molto pericolose per l’utilizzo di sostanze chimiche vietate. E sono in aumento, come si evidenzia dal dato dei sequestri operati dai Nas nel 2014 (+454 per cento). Per farsi un’idea del problema basta dare un’occhiata al Sistema di allerta rapido per gli alimenti, o Rapid Alert System for Food and Feed (Rasff), in vigore all’interno della Comunità Europea dal 1979, che consente il rapido ed efficace scambio di informazioni tra gli Stati

membri e la Commissione nei casi in cui si rilevino rischi per la salute umana nella filiera degli alimenti e dei mangimi. Se si interroga il database (sempre aggiornato alla settimana corrente) sulle segnalazioni relative al pesce, emergono episodi inquietanti per presenza di sostanze nocive oltre i livelli consentiti: metalli pesanti, contaminanti ambientali, antibiotici e farmaci vietati in Europa. Si va dagli elevati quantità di istamina presente nelle acciughe tunisine, ad alti livelli di mercurio nei filetti di pesce spada del Vietnam, al cadmio nelle acciughe dalla Thailandia e così via. «Il pesce è un alimento sano e ricercato per le proprietà nutrizionali – ammonisce Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti – e va tutelato dalle violazioni frequenti delle norme relative alla cattura, conservazione e messa in commercio le quali provocano incalcolabili danni agli ecosistemi e turbamento del funzionamento del mercato». Le frodi sono spesso legate all’importazioni da Paesi lontani. Il ricorso al pesce straniero è del resto necessario in quanto l’Europa, dal 15 maggio scorso, ha calcolato Coldiretti Impresapesca, ha esaurito le proprie scorte. In media in Europa si consumano 23 chili di pesce per persona all’anno, 25 in Italia che contribuisce al 13 per cento del pescato Ue. Negli ultimi 15 anni anche il grado di autoprovvigianemento dell’Italia è sceso dal 50 al 30 per cento, a causa certamente del calo del pescato ma anche della concorrenza sleale del pesce straniero. Più di due pesci su tre consumati in Italia provengono dall’estero. È vero che dal 23 dicembre 2014 è più facile riconoscere il pesce italiano in etichetta sulla base del recepimento di nuovi regolamenti comunitari, ma le norme esclu-


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mento che è obbligatoria. L’acquisto di pesce ricomposto (tipo il surimi che è costituito da parti di scarto di altri pesci) andrebbe evitato: è in genere pieno di additivi, aromi artificiali e carne di scarsa qualità.

dono l’obbligo per i ristoranti, dove è facile spacciare per made in Italy pesce importato. Tra le truffe maggiori, il pangasio allevato nel delta del Mekong (fiume che presenta gravi problemi di inquinamento) venduto come cernia, l’halibut servito come sogliola, il polpo del Vietnam venduto come nostrano, così come le vongole turche o i gamberetti cinesi. Sulla base di alcuni consigli di Coldiretti Impresapesca, possiamo stilare una sorta di vademecum che ci aiuti nell’acquisto. PROVENIENZA – L’area di pesca deve essere indicata per legge. Per i motivi spiegati, meglio privilegiare quella italiana, l’area del Mar Ligure e del Tirreno è per esempio indicata come Gsa9, la Gsa16 è quella relativa alle coste meridionali della Sicilia. L’obbligo di indicazione vale anche per la tecnica di pesca. Per un consumo consapevole, sarebbe opportuno evitare tecniche distruttive che portano danni all’ecosistema come la pesca a strascico. Se il prodotto è decongelato (e dunque non va ricongelato in quanto aumenta il rischio di un’intossicazione) va controllata la data di decongela-

QUALITÀ – Verificata l’etichetta, si analizza il prodotto in modo da evitare l’acquisto di un prodotto sospetto di sofisticazione alimentare. Innanzitutto l’odore: non deve essere forte e sgradevole. Quindi la carne, deve avere una consistenza soda, elastica. Quindi si passa alle branchie: devono avere un colore rosso o rosato e devono essere umide. Il colore potrebbe essere stato però ravvivato attraverso l’uso vietato del monossido, il che non è facile da capire se non si è un esperto. Poi si guarda all’occhio del pesce: non deve essere opaco o secco. Per i molluschi e i mitili il guscio deve essere chiuso. Particolare attenzione va data a tonno e sgombro, che vanno sempre mantenuti a una temperatura attorno a zero gradi. Il rischio, a causa della cattiva conservazione, si chiama sindrome sgombroide, una sorta di shock anafilattico causata dall’istidina, un amminoacido di cui questi pesci sono ricchi, e che in seguito a contaminazione microbica, dovuta a cattiva conservazione, si trasforma in istamina diventando nociva. I casi di intossicazione alimentare sono in aumento, un po’ per la moda della consumazione del tonno crudo, ma anche per il fatto che alcuni ristoranti di cucina etnica, in particolare cinese, spesso non si attengono alle indicazioni di conservazione e alle raccomandazioni delle rispettive Asl. DOVE ACQUISTARE – Meglio dal produttore che garantisce maggiore freschezza, anche se questo non è sempre possibile. Rapid Alert System for Food and Feed https://webgate.ec.europa.eu/rasff-window/portal/) (D.C.) i


nutrizione

12 Rubrica a cura di Donatella Polvara, biologa nutrizionista • donatellafisher@libero.it - www.microbio.it

Pesce crudo: una tradizione X antica ricca di nutrimenti salutari

nche in Italia, come nel resto del mondo, negli ultimi anni si è assistito ad un incremento del consumo di pesce crudo. Il primo posto lo detiene la cucina Giapponese, conosciuta soprattutto per il sushi, cibo a base di riso cotto condito con aceto di riso, zucchero e sale, combinato con un ripieno di pesce, alghe e vegetali. Il ripieno può essere crudo, cotto o marinato, e può essere servito arrotolato in piccole quantità di riso guarnite con alghe. Questo piatto ha origini molto antiche e

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risale alla tradizione giapponese. Sulle spiagge vicino a Tokyo i pescatori già agli inizi dell’800 disponevano il pesce crudo a strati alternati con il riso, per prolungarne la conservazione d’intere settimane. Anche sul Lago di Como, in particolare nella zona della Tremezzina, in epoche ancora più antiche, i pescatori escogitarono un sistema per conservare il frutto della loro pesca: il “misultitt”. Con questo termine del dialetto comasco venivano chiamati gli agoni, tipici pesci del lago, che dopo essere pescati e salati e venivano fatti essiccare al sole e poi deposti in barattoli. Questa specialità culinaria richiedeva una preparazione piuttosto complessa e laboriosa ma permetteva di conservare il pesce per lunghi periodi di tempo. Passano gli anni, ma le tradizioni permangono e la buona cucina lascia un segno indelebile nella storia dell’umanità, i sapori e le tradizioni vengono riviste e riscoperte in ottiche moderne dagli chef di tutto il mondo, nei catering e nei ricevimenti il pesce crudo o

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leggermente affumicato ne fa da padrone. Salmone, tonno, pesce spada in carpaccio e negli antipasti. Ma non solo, anche la trota, la regina dell’acqua dolce, la si trova nei ricevimenti, consigliata dagli esperti nel settore, come alternativa d’eccellenza, nella versione affumicata. Con la bella stagione anche per gli aperitivi e le cene fra amici la tendenza è quella di servire pesce crudo. Definito da tutti i nutrizionisti ottimo alimento, oltre che per i suoi principi nutrizionali, anche per la sua alta digeribilità. È una fonte di proteine nobili, Sali minerali, omega tre e omega sei: oligoelementi e antiossidanti che andrebbero persi in parte se sottoposti a cottura. Il tonno, il merluzzo e il pesce spada sono ricchi di proteine di alto valore biologico, come gli amminoacidi istidina, lisina e arginina, essenziali per ricostruire la massa muscolare e per garantire un buon funzionamento delle miofibrille. Il pesce azzurro, sarde e sardine, è ricco di sali minerali come fosforo, ferro, iodio e cloro, importante fonte di


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integrazione per l’organismo soprattutto per chi fa sport o per chi, come per i giovani, deve ancora crescere e necessita di tutti quegli elementi importanti per la formazione di ossa robuste. Il salmone, le acciughe e le aringhe sono fra i pesci più ricchi in acidi grassi insaturi, molto indicati per chi ha problemi con il colesterolo e vuole preservare le arterie dal fenomeno dell’aterosclerosi. Se da una parte sono molteplici gli aspetti positivi sia dietetici sia nutrizionali del consumo del pesce crudo, come l’assunzione di tutti gli oligoelementi e gli antiossidanti, dall’altra, vi è il rischio di predisporre il consumatore al rischio di tossinfezioni e parassitosi. Uno dei maggiori rischi è quello di contrarre la larva di Anisakis, un parassita che si annida nei muscoli dei pesce di mare come il tonno e le aringhe soprattutto dei Pesci provenienti dai Paesi Esteri. Questo parassita se ingerito, si ancora saldamente alla parete gastrica e può sopravvivere sulla mucosa per

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parecchio tempo senza dare sintomi, in altri casi può causare seri disturbi digestivi . Una parassitosi molto diffusa nei pesci di acqua dolce, come il pesce persico, è il Diphyllobothrium latum, un parassita che spesso si rivela asintomatico, ma che può causare anemia e deficit di vitamina B12, creando gravi disturbi come una stanchezza cronica. Per questo ed altri motivi il Ministro della Sanità obbliga chi somministra pesce crudo o in salamoia a utilizzare pesce congelato o a sottoporre a congelamento preventivo il pesce fresco da servire crudo. Una regola importante dunque: la sola marinatura di sale e zucchero non basta per prevenire le contaminazione e debellare il rischio parassitosi.

Dunque è essenziale utilizzare un abbattitore che può raggiungere temperature molto basse in breve tempo, favorendo così la surgelazione e mantenendo intatto il colorito del pesce. I ristoratori infatti utilizzano temperature molto basse, - 40 C° per 9 ore, e fanno dei tagli di pesce molto sottili per favorirne la veloce surgelazione. Per un consumo domestico, invece, sarebbe bene conservare il pesce crudo nel congelatore ad una temperatura di -20 C° per 5 -6 giorni prima di portarlo in tavola . Importante, per garantire la consistenza e le qualità del prodotto, la decongelazione, che dovrebbe in frigorifero a +4C° e non sotto acqua tiepida . Dunque tutti gli esperti sono a favore del consumo di pesce crudo. Ma attenzione: il massimo rispetto per la materia prima, le adeguate procedure di conservazione e un tocco di professionalità nella lavorazione, permettono di garantire un risultato culinario di eccellenza, portando in tavola tutti i principi nutrizionali garantiti da una consumazione protetta e sicura. ❉


enologo

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14 Rubrica a cura di Filippo Parmigiani

contiene solfiti

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ull’utilizzo dei solfiti in enologia e sulla scritta non contiene solfiti aggiunti si stanno leggendo molte opinioni, i blog e le riviste son piene di articoli che ne esaltano virtù insostituibili o ne evidenziano limiti e tossicità. Ma cosa sono in realtà: una pratica imprescindibile o un pericolo per la salute? Questa domanda me la sono posta nel 2003 anno in cui è cominciata la mia personale sperimentazione sul non uso dei solfiti e sulle pratiche alternative. L’uso dei solfiti è una pratica che ha radici antichissime, ma ha trovato applicazione capillare e “cosciente” solo nella seconda metà del Novecento, periodo da cui la solforosa in aggiunta ai vini è stata interpretata con diverse finalità e utilizzata come elemento di prevenzione, di stabilizzazione e di riparazione, tanto che per molti contadini era il “farmaco” del vino.

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Senza entrare nel dettaglio tecnico sull’uso dei solfiti nel mondo enologico, ben più esteso che nell’uso in conservazione alimentare, cito alcune delle funzioni che lo hanno visto protagonista: antiossidante, controllo fermentativo, gestione delle estrazioni del colore, controllo enzimatico. Tutte strettamente correlate, tutte pratiche enologicamente corrette e in uso. Provo ad affrontare il problema da un punto di vista insolito, quello della contestualizzazione storica, provando a inquadrare l’uso non dal punto di vista prettamente chimico, ma da quello delle esigenze contingenti che ha contribuito ad affrontare e risolvere. Gli anni Sessanta e Settanta hanno caratterizzato un periodo di forte fermento in enologia, consumi ancora alle stelle, esigenze di trasportabilità e conservazione, iperproduttività in campo, particolare attenzione a parametri quali alcolicità e acidità, basi del prezzo dei vini ai mercati dello sfuso. A farne le spese i parametri organolettici, in particolare quelli legati

alle componenti proteiche certamente più difficilmente gestibili. Questo era un periodo in cui la qualità commerciale del vino viene identificata con il concetto di pulizia del vino, la limpidezza è segno di qualità, la stabilità è identificativa di buona vinificazione. Il vino viene sottoposto a una serie di processi sempre più raffinati, ma non per questo meno invasivi per governarne le evoluzioni, per limitarne i depositi e le modificazioni in bottiglia. Ne esce un vino le cui caratteristiche sono sicuramente ridimensionate rispetto al potenziale iniziale, ma la cui stabilità nel tempo è ben garantita, il cui gusto è ben identificato e comodamente ripetibile a prescindere dalle differenze dettate dall’andamento stagionale. In questa fase l’uso dei solfiti è in effetti una garanzia senza pari: costante, certa ed economica. Il vino ha necessità di essere coadiuvato a preservarsi e di essere limitato nelle sue naturali evoluzioni ossidative, mantenere invariati i caratteri di freschezza e varietalità. Gli anni Ottanta e Novanta, invece, vedono un cambio


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radicale della gestione della vigna, si aumentano le densità di impianto, si riduce la quantità prodotta, il carico di uva per ceppo viene ridotto in molti casi anche al dieci per cento di quanto fatto prima. Resta invariata invece almeno in un lungo primo periodo la concezione enologica. Cambia la materia prima, ma non la filosofia di trasformazione. Aumenta la gradazione media dei vini, che si tende a identificare come parametro di qualità, resta invariata la tendenza a voler ridurre la carica naturale delle uve preferendo a questa gli apporti che si possono operare in cantina, sicuramente più controllabili e con maggior garanzie di continuità (ad esempio viene preferito il tannino delle barrique a quello dei raspi). L’uso dei solfiti perde la sua valenza igienica e di conservazione, le dosi vengono progressivamente ridotte mantenendo comunque in vita le sue funzioni legate alle pratiche di stabilizzazione e di antiossidante, evidenziando ancora una volta come il modello enologico degli anni sessanta abbia generato la tendenza a voler ricondurre il vino nella logica di una bevanda ripetibile, stabile e pronta all’uso. E in quest’ottica si capisce come gli sforzi della ricerca stiano oggi fornendo sostanze alternative all’uso dei solfiti che siano comunque in grado di garantire i parametri commerciali cui si è scelto di sottostare; queste sostanze dal canto loro prestano già il fianco a

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una serie di critiche non di secondo piano, come potenziali allergeni e frequenti intolleranze. Chi invece interpreta il vino come frutto di biodiversità e come sostanza in continuo divenire, chi trova più affascinante il processo evolutivo e le sue potenziali conseguenze opta per l’uso delle uve in modo completo, evitando di separare prima della vinificazione le sostanze poco gestibili e di sostituirle con altre di facile gestione. Queste figure accettano di aspettarne i naturali tempi di evoluzione per il consumo, sfruttando il potenziale che hanno costruito con una corretta gestione della vigna. Si perdono in gran parte dei casi molte delle caratteristiche dettate dal commerciale, prima fra tutte la pronta beva all’apertura, stile Crodino, a fronte della

necessità di far aprire il vino per il tempo necessario, si perde la sicura brillantezza a scapito di una maggior ricchezza naturale del prodotto. Si perdono parametri di facile commercializzazione a fronte di maggior personalità del prodotto. A difendere il vino nel tempo ci pensano i tannini, gli acidi e il grado alcolico. E i solfiti? Qualcosa si sviluppa in modo naturale, ma sono tracce, e come per tante altre sostanze che prese singolarmente e in quantità importanti potrebbero essere ritenute tossiche, ma in realtà non causano problemi. La loro aggiunta, attualmente, è più utile alla coscienza del cantiniere e alla paura di uscire da schemi commerciali più o meno consolidati. Per far cambiare le abitudini in cantina, devono cambiare anche quelle dei consumatori. i


16 Professioni

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«Gelato artigianale:

Incontro con Antonio Morgese, proprietario e gelatiere di Rigoletto Gelato e Cioccolato, che dai quartieri di Milano è ora a Expo con la gelateria di Padiglione Italia. Ci racconta perché quello fatto dagli artigiani come lui è un prodotto con una marcia in più


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di Maurizio Ferrari

semplice e naturale» É

il momento dolce dell’estate per antonomasia, tutti aspettano i primi raggi di sole per prendersi un buon gelato, anche se oggi viene consumato tutto l’anno. In Italia la cultura del gelato è fortemente radicata, è un prodotto che ci accompagna da anni, sempre presente nei bar e nelle gelaterie, ma negli ultimi tempi ha sempre più preso piede la produzione di gelato artigianale. Molte realtà hanno abbandonato quelli industriali per dotarsi dell’attrezzatura necessaria a preparare il gelato in casa, meglio se artigianale: realizzato con prodotti freschi e seguendo le stagioni, magari anche con gusti un po’ particolari. Una curiosità, nei primi del Novecento i maestri gelatieri italiani hanno portato in giro per il mondo questo prodotto, tanto che all’estero, nei paesi a lingua anglosassone, la parola Gelato indica un prodotto artigianale, mentre Ice Cream significa un prodotto industriale. Per scoprire cosa serve per fare un buon gelato artigianale abbiamo incontrato Antonio Morgese, gelatiere e amministratore di Rigoletto Gelato e Cioccolato, la realtà italiana che ha vinto il bando per essere la gelateria di Padiglione Italia a Expo 2015. Qui a Expo presenta il Gelato delle Regioni, un progetto che vede protagoniste le eccellenze delle regioni italiane trasformate in gelati, come la Nocciola Mortarella Campana, la Crema Santa Fina di Zafferano e Pinoli o Gorgonzola di Abbiategrasso con Zenzero. Saranno

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in totale oltre 30 gusti, realizzati in collaborazione con mastro gelatiere Sergio Colalucci, fra i massimi esperti italiani e già vincitore della coppa del mondo riservata ai gelatieri. È con piacere che Morgese ci racconta e ci spiega la sua filosofia nel fare il gelato artigianale per le sue gelaterie di quartiere a Milano. Tutti quanti ne mangiamo fin da piccoli, ma c’è gelato e gelato. Come facciamo a riconoscere un buon gelato? Ci sono delle regole da seguire nel farlo? «Secondo me ci sono delle regole nel fare un buon gelato che devono essere rispettate. Io faccio gelato artigianale italiano e faccio il gelato prima di tutto con semplicità. Sì, una regola fondamentale è proprio questa: la semplicità, fare il gelato in maniera semplice. Poi gli ingredienti per farlo non devono essere assolutamente “artificiali”. Il gelato deve essere una cosa semplice e naturale. Per naturale intendo fatto con prodotti che non sono additivi chimici. Anche lo stesso dolcificante: per quanto si possa fare il gelato senza zucchero, per diabetici, deve essere di origine naturali. E questa è un’altra buona regola per fare il buon gelato. Deve, dopo, essere artigianale e quando parlo di gelato artigianale non intendo semplicemente quello fatto

in un piccolo laboratorio, ma intendo quello fatto con l’artigianalità che ci può essere quando dietro c’è una persona che fa questo lavoro con passione. L’artigiano è quello che mette nel suo prodotto quella passione, quella competenza e professionalità che il gelato artigianale italiano da sempre rappresenta. E lì c’è un mondo perché dietro l’artigiano c’è tanto: il sapere e l’esperienza. L’artigianalità è anche questo nel buon gelato italiano». L’artigiano è una figura molto importante nella scelta degli ingredienti che vuole utilizzare: li seleziona in prima persona? «Certo, anche lì sta parte di quel valore dell’artigianalità. Il fatto di conoscere la materia prima è un fondamento della gelateria. Sapere quali prodotti utilizzare, saperli scegliere tra i mille che l’industria e il mercato in genere ci può offrire, sta in gran parte del lavoro del gelatiere. C’è la questione dei semilavorati in gelateria che è tanto discussa. Esistono semila-


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vorati e semilavorati: usare una pasta di nocciola non vuol dire usare un semilavorato, vuol dire che alle spalle del gelatiere c’è qualcuno che ha tostate e pestato le nocciole per lui. E lì sta al gelatiere saperlo scegliere: esiste la pasta di nocciole ed anche la pasta di nocciole dove dentro di nocciole non ce ne sono ed è fatta con degli aromi. Sta alla professionalità e alla competenza del gelatiere saper scegliere il prodotto giusto per fare un buon gelato artigianale e questo discorso poi vale dalle materie prima ad altri semilavorati più complessi, che non sono solo la nocciola o il pistacchio. Ma lì allora l’industria ha seguito il mercato e ha iniziato a creare delle basi già pronte, diciamo accollandosi una parte del lavoro del gelatiere, che a quel punto io dico sempre non è più gelatiere ma è gelataio, perché ha delegato il lavoro di gelatiere a un’azienda, che gli fornisce il semilavorato già pronto che lui miscela e manteca. Quindi fa solo una parte del lavoro di gelatiere, più da gelataio». Diventa un tecnico della mantecatrice? «Si perde una parte della specializzazione del lavoro e della professionalità necessaria per farlo. Anche nel mio staff è così: ci sono io che posso bilanciare una ricetta e c’è un mio collaboratore che è inquadrato come “operaio”. Sembra un pò denigratorio, ma non vuole esserlo. Perché al di là della sua specializzazione nell’usare il mantecatore per fare il gelato, lui magari non è in grado di bilanciare una ricetta, e quindi il gelatiere non è chi manteca, il gelatiere è chi fa le ricette».


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Il gelato si può fare con tanti prodotti, spesso appaiono anche gusti salati: vuol dire che il gelato è un prodotto che si può abbinare in diverse fasi del pranzo? «Negli anni ho imparato ad amare questo prodotto, in parte anche per questo motivo. Perché il gelato, quando hai imparato a farlo e quindi sei un gelatiere e sai dove mettere le mani, è forse il prodotto più versatile in assoluto, almeno che io riesco a pensare in cucina. È un alimento, fondamentalmente, con tutte le sue sfumature, però si presta a mille e mille interpretazioni: dal classico gelato, al gelato gastronomico, il gelato salato, e magari un giorno lo faremo anche al grillo (gusto uscito durante l’incontro, vista la possibilità di assaggiare a Expo gli insetti – ndr) tutto può essere. Però questo sta anche alla professionalità del gelatiere, perché sarà impossibile trovare nel banco del supermercato un gelato a un gusto così particolare come al pomodoro, ad esempio. Oppure, sempre parlando di quelli che faremo per Padiglione Italia, penso al gorgonzola. E questo è anche il grosso vantaggio del gelatiere artigianale, che è in grado di rispondere a una richiesta che può essere un po’ particolare di un cliente, piuttosto che di una serie di eventi, è in grado di stupire con dei gusti tipo il grillo, quindi è capace di

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stupire in questo senso. Poi esistono le ragioni di mercato, per cui alla fine vendi nocciola, cioccolato e stracciatella, tanto per dire. Però se sai fare il gelato puoi soddisfare qualsiasi richiesta. Io l’ho fatto spesso e volentieri per alcuni nostri clienti, anche qualche chef di ristorante famosi, che per fare le sue prove per creare dei nuovi piatti mi ha chiesto di fare del gelato, al pomodoro o al formaggio, tanto per fare un esempio. Quindi si può fare, anzi è anche divertente: è la parte bella di questo mestiere». In Expo siete il gelatiere di Padiglione Italia: che aspettativa ha ? Tante. Se facciamo un semplice discorso legato alla mia azienda, quindi al nostro business, noi siamo comunque una piccola realtà artigianale, quindi il primo obiettivo è recuperare il grande investimento che è stato richiesto per partecipare all’interno di Padiglione Italia. Ma al di là di questo c’è anche l’aspettativa di riuscire a diffondere un modello che è quello della gelateria artigianale italiana, la gelateria artigianale di quartiere , che è il modello che corrisponde ai miei negozi a Milano. Noi abbiamo


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quattro negozi, che non sono in luoghi di passaggio, o dove arriva il turista in piazza Duomo, ma sono gelaterie di quartiere, frequentate dal quartiere e radicate nel territorio: facciamo tante iniziative con le scuole, con i comitati dei cittadini e quindi mi piacerebbe diffondere all’estero questo modello. In più c’è un alto obiettivo che ho sempre avuto perché io sono anche consigliere dell’associazione gelaterie di Milano e mi piacerebbe diffondere la cultura del gelato artigianale: quello fatto secondo i criteri che prima dicevamo e che non è sempre così facile per il consumatore comune che frequenta le gelaterie poter apprezzare. A volte ci sono dei luoghi comuni nell’apprezzare proprio il gelato che non corrispondono alla verità e ai canoni del gelato artigianale. Il gelato colorato fa tanto vetrina, fa tanta scena, ma non è naturale. Non si possono raggiungere certe gradazioni di colore senza mettere del colorante: questa può essere una scelta magari quella di usare dei coloranti alimentari naturali, ma comunque è un colorante. Si vedono sempre più spesso queste vetrine pirotecniche quasi, molto scenografiche e bellissime. Onore ai gelatieri che riescono a modellare la materia gelato per raggiungere certi obiettivi, però secondo me il gelato resta comunque un alimento e deve rispettare certi canoni, che sono quelli che abbiamo detto prima e non sempre i coni sumatori riescono a percepire».

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I segreti dell’albero della vita Esiste la dieta per campare cent’anni? Dal modello Marche (la regione con la maggiore aspettativa di vita in Italia) alle «blue zone», le cinque aree del pianeta dove vivono le popolazioni più longeve. Vince la dieta mediterranea, ma il nutrimento dello spirito gioca un ruolo altrettanto fondamentale nel godimento di buona salute

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a ricerca della longevità ha sempre affascinato l’uomo sin dalle origini. Nella Bibbia (Genesi) si parla dell’albero della vita piantato nel giardino dell’Eden, ma poi misteriosamente non se ne fa più cenno e ci si riferisce solo all’albero del bene e del male (Kafka scrive che «Noi siamo peccatori non soltanto perché abbiamo mangiato all’albero della conoscenza, ma anche perché dall’albero della vita non abbiamo ancora mangiato»). Nell’Epopea di Gilgamesh, saga di ambientazione sumerica che precede l’epica omerica di almeno millecinquecento anni, il re di Uruk parte alla ricerca di Utna-

pishtim, l’unico uomo sopravvissuto al Diluvio Universale al quale gli dei fecero il dono dell’immortalità. Questi gli rivela che un modo per non morire esiste: mangiare una particolare pianta che sta in fondo al mare. Gilgamesh la trova, la raccoglie, ma si addormenta sulla riva di un ruscello e quando si risveglia, la pianta è stata mangiata da un serpente. Se per la religione, e la mitologia, la ricerca della fonte dell’eterna giovinezza è qualcosa di sfuggente e misterioso, la scienza oggi ci dice che potremmo realmente arrivare a vivere molto più a lungo. Siamo programmati


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per vivere fino a 120 anni, così com’è scritto nel nostro Dna, sostiene Pier Giuseppe Pelicci, condirettore scientifico dell’Istituto Europeo di Oncologia (Ieo). Ma quanto può incidere il fattore alimentazione sulla longevità e quanto altri aspetti? È l’interrogativo cui hanno cercato di rispondere esperti internazionali e ricercatori nel forum Longevity is what we eat and…? promosso dalla regione Marche con il contributo scientifico e organizzativo di Italia Longeva e in collaborazione con l’Istituto nazionale per la ricerca e cura dell’anziano. L’evento si è tenuto al Padiglione Italia di Expo e rientra nell’ambito delle iniziative affidate alle Regioni. Il fatto che alle Marche sia stato asse-

di Daniele Colombo

gnato il tema del rapporto tra alimentazione e longevità non è un caso. In Italia sono oltre sedicimila gli ultracentenari, ma donne e uomini marchigiani detengono il primato della maggiore aspettativa di vita. Che sia l’alimentazione il segreto? I prodotti e i nutrienti alla base della piramide alimentare marchigiana sono gli stessi che hanno sfamato nei secoli passati le comunità di contadini, pastori e marinai che abitavano la regione: i cereali, preziose fonti di carboidrati e fibre, assieme a legumi e abbondanti quantità di verdure, ortaggi e spezie. Il piatto principale è stato per tutti i secoli dell’età moderna la polenta (o polentone) con aggiunta di legumi: anche il pane era spesso

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fatto con farina di granturco. Le carni, il pescato e i latticini rappresentavano le pietanze della festa. Il consumo di olio d’oliva era poi la fonte principale, se non l’unica, di grassi da condimento. Quindi il vino, in particolar modo rosso, del quale sono ormai note le proprietà nutrizionali e salutistiche, purché consumato con moderazione. In realtà c’è qualcosa che va oltre il semplice man-

giare. «Quel che fa la differenza sono le abitudini di vita, dall’alimentazione all’attività fisica – spiega il professor Bernabei, presidente di Italia Longeva – Ed è semplicistico attribuire tutto ai geni: il dato genetico incide fra il 20 e il 25 per cento sulla speranza di vita di ciascuno di noi. Ma c’è qualcosa in più. E per le Marche quel qualcosa in più del mangiare o del colesterolo, è

Italiani a Expo per un check-up, la metà rimandata

Nutrire il pianeta? Forse occorre prima nutrire meglio gli italiani. Perché da un campione rappresentativo di circa mille visitatori (il 94 per cento italiani e il 6 per cento stranieri, con un’età media di 54 anni), sottoposti a un longevity check-up, è emerso che il 48 per cento è in sovrappeso (di cui il 13 per cento obeso), il 46 per cento soffre di pressione alta e il 38 per cento ha il colesterolo con valori fuori controllo. Il test è stato effettuato nello spazio Expo riservato alle Marche, grazie al supporto dei medici di Italia Longeva, network internazionale fondato dalla Regione con il ministero della Salute, per promuovere le abitudini alimentari e gli stili di vita che rappresentano le strategie ottimali per candidarsi a divenire centenari. E non a caso è stato offerto dalle Marche, regione con l’aspettativa di vita più alta d’Italia. In particolare il controllo si è focalizzato su sette parametri di salute cardiovascolare che sono alla base di una vita lunga e in salute (astensione dal fumo, regolare esercizio fisico, dieta equilibrata con adeguato apporto di frutta e verdura, lotta al sovrappeso; valori di colesterolemia, pressione arteriosa e glicemia sotto controllo). I dati negativi fanno oltremodo riflettere se si considera che l’80 per cento del campione analizzato – attenzione! – segue, in base al referto, una dieta equilibrata e il 70 per cento pratica regolarmente un’attività sportiva. C’è qualcosa che non torna e sfugge a una consequenzialità delle cifre e che pare rimandare ad altri fattori. «Purtroppo dal nostro test – dichiara il professor Roberto Bernabei, presidente di Italia Longeva – è risultato che solo il 9 per cento delle persone esaminate rispetta tutti e sette questi parametri».


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forse un piacere di continuare a vivere che qualcosa vorrà pur dire». La questione è intricata. L’alimentazione in sé è importante, ma sembra insufficiente a garantire una vita longeva se non intervengono altri aspetti sinergici. Il sociologo Aldo Bonomi cerca di distillare il segreto Marche con qualche flash. «Altri fattori vanno valutati. Innanzitutto il luogo, la bellezza di ciò che ti circonda. Se quando ti alzi al mattino hai davanti un magnifico paesaggio, questo aiuta a vivere meglio. E il paesaggio marchigiano è ancora intriso di bellezza. Quindi il rapporto con la spiritualità (pensiamo al santuario di Loreto). Se vivi solo nel presente, senza un senso di ciò che c’è dopo, questo è insufficiente. Nelle Marche la coesione sociale, poi, tiene di

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più: è l’importanza del senso di famiglia e di comunità. Un corpo immerso nella communitas è un reagente che produce immunitas, stile di vita e cibi che anticipano la piramide alimentare. Arriva poi l’alimentazione, che significa soprattutto legame con il territorio, la sua anima contadina. A livello economico, infine, le Marche hanno mantenuto una dimensione rurale, hanno avuto un capitalismo dolce, non hanno un’area metropolitana. Sono ancora un insieme plurale di città e borghi». Il modello Marche sembra pertanto più complesso di una semplice dieta. E la conferma arriva dalle famose Blue Zone, le cinque fortunate aree del pianeta dove si trovano le popolazioni più longeve del mondo, studiate da Dan Buettner,


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esploratore del National Geographic. Queste oasi di salute sono la regione dell’Ogliastra (Sardegna), l’isola di Icaria, situata nel Mar Egeo (Grecia), l’isola di Okinawa (Giappone), Nicoya (sulla costa pacifica del Costa Rica) e Loma Linda (in California, Usa). Una prima ragione che li accomuna è quella di un’alimentazione che s’ispira alla dieta mediterranea, patrimonio dell’Unesco. Ovvero abbondanza di frutta e verdura, cereali, fibre, legumi (i fagioli vengono per esempio preferiti alla carne) e anche un moderato consumo di vino, fino a due bicchieri al giorno. Anche le porzioni di cibo, che è a chilometro zero, sono moderate. «Nell’Ogliastra il Cannonau – ricorda Buettner – ha livelli antiossidanti più alti al mondo, il pane, carta da musica, è fatto con lievito ma-

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dre e non alza il livello glicemico». Va però detto che l’alimentazione dei pastori sardi centenari è basata anche su prodotti caseari, il che esula un po’ dal discorso dieta mediterranea. A Icaria, dove la popolazione ha una possibilità di raggiungere i novant’anni tre volte superiore rispetto a quella occidentale, l’effetto antiossidante pare sia stato garantito nel tempo da infusi quotidiani ottenuti con erbe aromatiche come salvia e origano. Nell’isola di Okinawa mangiano soprattutto tofu, alghe marine e l’effetto antiossidante è garantito dall’uso della curcuma: anche lì consumano poca carne. Un secondo fattore è quello dell’attività fisica. Tutte queste popolazioni tengono costantemente in movimento il corpo durante il giorno ma san-


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no anche prendersi spazi per sé e godere di pause relax come capita ai pastori dell’Ogliastra che si fanno la pennichella (rivalutata dai medici recentemente) o gli abitanti di Icaria che riposano di pomeriggio, nelle ore di maggior caldo. Ad accomunare poi gli abitanti delle cinque zone sono il forte senso di comunità e la religiosità. Fattori che evidentemente giocano un ruolo decisivo nei 20 mila abitanti di Loma Linda, che pare non risentano

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dell’area inquinata della vicina Los Angeles. Il 40 per cento di loro fa parte infatti della comunità degli Avventisti del settimo giorno. Conducono una vita priva di vizi, cercano di tenersi lontano dall’alcol e dal fumo e s’impegnano molto nel sociale. «Dal tramonto del venerdì a quello del sabato bloccano tutte le attività – racconta Buettner – Qui le donne vivono fino a 89 anni e gli uomini 87, rispetto alla media di 80 e 76 del resto degli Usa».


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Un’altra costante delle Blue Zone è quella di una certa morigeratezza dell’alimentazione che si spinge fino alla restrizione. A Okinawa mangiano l’80 per cento di quanto si mangia in altre parti del mondo. C’è anche un proverbio a sostenerli: quello di smettere di mangiare prima che si sentano sazi.

Famiglia e rete sociale sono poi principi fondamentali nella scala dei valori. I vecchi sono tenuti in grande importanza nell’Ogliastra, non sono visti come peso. Sarebbe una vergogna metterli in case di riposo. A Okinawa si venerano gli antenati. Il ricercatore Ulisse Francioso scri-

«Scaffale d’argento» un progetto per aiutare gli anziani a fare la spesa Secondo l’Oms l’Italia è tra i primi Paesi al mondo come aspettativa di vita (al settimo posto per gli uomini, 80,2 anni; al quinto per le donne, 85 anni), ma continua a invecchiare (16,7 milioni hanno più di 60 anni). Un trend che determina una serie di problemi. Secondo il Global Agewatch Index, che misura sostanzialmente le politiche verso gli anziani, dal sistema pensionistico allo stato di salute, alla possibilità di lavorare fino a una certa età, l’Italia è al 39esimo posto. Molto lontana da Norvegia e Svezia, ai vertici della classifica. Come servire al meglio un Paese sempre più di vecchi? Un problema è l’alimentazione. Niccolò Marchionni, professore ordinario di Gerontologia e geriatria all’Università di Firenze, attraverso Italia Longeva e Unicoop Firenze, sta elaborando un progetto, denominato «scaffale d’argento» (vedrà la luce nel giro di qualche mese), con lo scopo di promuovere una dieta equilibrata tra la popolazione over 65/70 con prodotti a basso costo. L’idea è di agire nei supermarket con spazi appositi e cartelli che spieghino cosa mettere nel carrello della spesa. «Partiremo con una sperimentazione in tre, quattro punti della grande distribuzione in un’area fiorentina – spiega il professor Marchionni – C’è una malnutrizione per eccesso, questo è il primo errore, perché troppi grassi

e zuccheri portano a sovrappeso e obesità. Ma c’è anche una malnutrizione per difetto, che coinvolge un milione di anziani, a rischio perché isolati, depressi o poveri. Quella che abbiamo elaborato potremo chiamarla la “dieta al tempo della crisi”. Pochi sanno, per esempio, che gran parte degli anziani è carente di vitamina D che si ricava soprattutto dal sole. Questo è dovuto certamente al fatto che si espongono meno alla luce solare, ma soprattutto perché col tempo la cute diventa meno efficiente a convertirla. L’insufficienza di questa vitamina, che in realtà agisce come un ormone, comporta una minor forza muscolare, con il rischio di aumentare le cadute e le fratture ossee. Ecco perché bisogna allora prevedere e aumentare il consumo di cibi, come il pesce azzurro (per esempio sardine, alici, sgombri, ndr), ricchi di vitamina D». Con gli anni, secondo il professore, meglio poi privilegiare le proteine vegetali e diminuire quelle animali. In base a diversi studi, la dieta mediterranea e un’attività fisica regolare garantiscono una vita più lunga e con minore rischio di soffrire di disabilità, come il morbo di Alzheimer. Secondo l’Oms, l’Italia è con la Spagna il maggiore consumatore pro capite di frutta e verdura: i dati sono però relativi al 2007, oggi nel nostro Paese è in atto una pericolosa riduzione dei consumi.


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anni». Sembra dunque limitativo ridurre la questione longevità a un semplice rapporto con la dieta ed è un enigma capire quanto pesino gli altri fattori. Molto ancora deve essere indagato per carpire i segreti dell’albero della vita. Per ora accontentiamoci di ammirarne i una riproduzione all’Expo.

ve (Digiuno autofagia e longevità) che in realtà altre zone di centenari sono state studiate negli anni 70 dal medico americano Alexander Leaf: dalla Valle degli Hunza (Pakistan) a Vilcabamba (Ecuador), alla regione dell’Abcasia, sulle montagne del Caucaso. A Vilcabamba la dieta è tutt’altro che frugale: alcol, fumo, cibi salati fino all’uso di una droga essiccata da fumare, il chamico. A mettere tutto a posto in modo miracoloso potrebbe essere il terreno, eccezionalmente ricco di selenio, come constatò poi il dottor David Davies dell’Università di Londra che fece delle analisi in loco e trovò le stesse alte quantità anche nella valle degli Hunza. Il selenio è uno dei minerali fondamentali per il nostro organismo ma risente, per esempio, dell’uso di fertilizzanti. «Alcuni scienziati britannici – ricorda ancora Franciosi – hanno calcolato che assumendo selenio la nostra vita potrebbe allungarsi di dieci-quindici


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La canapa italiana entra nella cucina gourmet

Tra le dolci colli del Chianti Il Convito di Curina (due forchette Michelin), annesso al Resort Villa Curina, propone un menu degustativo ad hoc. Per lo chef Giorgio Trovato, che la definisce nutraceutica, è un ritorno al passato


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Tra le dolci colline del Chianti e campi di girasole che avrebbero ammaliato Van Gogh, a una quindicina di chilometri da Siena, si trova Castelnuovo Berardenga, comune che ha aderito al movimento Cittàslow. La parola d’ordine, da queste parti, si chiama ecogastronomia, una sorta di declinazione della filosofia Slow Food alla pratica del vivere quotidiano, fino a coinvolgere il governo dei paesi e delle città. Ci spostiamo a Curina, una località del comune, nota per la pregevole cappella di San Liberato con gli affreschi da Arcangelo Salimbeni del 1573. Qui si trova Villa Curina Resort, una splendida dimora cinquecentesca, panorama incantevole, un posto ideale per chi vuole trascorrere momenti di puro relax assaporandone lo stile e il gusto raffinati, grazie alle camere eleganti dell’hotel (due casette nella Guida Michelin), un giardino all’italiana del ‘700 e un ristorante con cucina tipica all’avanguardia (al-

Nuove sfide e un nuovo progetto

Mentre stiamo terminando questo numero arriva, come un fulmine a ciel sereno, la notizia che le strade dello chef Giorgio Trovato e de Il Convito di Curina si separano. Per Trovato l’esperienza a Il Convito è stata importante, gli ha dato la possibilità di crescere professionalmente e di costruire il suo percorso di ricerca. Ricerca che continua, in particolare quella sull’utilizzo della canapa sativa in cucina, all’interno di un nuovo progetto professionale che vedrà la luce prossimamente. I contenuti dell’intervista rimangono quindi validi, perché se da una parte lo Chef Trovato prosegue il suo percorso di ricerca, dall’altra Il Convito avrà ancora gli splendidi panorami e troverà, di sicuro, un cuoco all’altezza del luogo. In bocca al lupo Giorgio per la tua nuova avventura.

di Daniele Colombo

tre due forchette Michelin). Da quest’anno la struttura si avvale poi di tre nuove realtà ristorative, un bistrot, un lounge bar e il Belvedere, un pool bar che propone tra l’altro centrifughe e prodotti bio. L’anima godereccia è racchiusa nel Convito di Curina, ristorante dalla clientela internazionale: basterebbe citare le 350 etichette di vini e 200 di bollicine d’Oltralpe tanto che il vino della casa è lo champagne «Il Convito di Curina» prodotto in Francia dall’azienda Alain Bernard in esclusiva per il ristorante. Qui lavora Giorgio Trovato, 44 anni, executive chef. Trovato è un personaggio straordinario, un artista del cibo e insieme un instancabile sperimentatore, attento alla ricerca e alla qualità degli ingredienti, all’aspetto salutistico, tanto che ha eliminato il sale in alcuni dei suoi piatti, sublimato con altri componenti ricchi di sapore (gli italiani ne consumano dieci grammi al giorno, circa il doppio di quanto ci chiede l’Oms).

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Il cibo per lui è «strumento di corteggiamento» e in un menu deve trovarvi posto anche un piatto da mangiare senza posate, per esprimere «la carnalità». Ma «il cliente deve anche capire l’essenza di un piatto, solo così la cucina diventa cultura, esaltazione della storia di un territorio» («L’arte non dovrebbe mai cercare di essere popolare. È il pubblico che dovrebbe cercare di diventare artistico», scriveva Oscar Wilde). L’ultima sua idea, è quella di portare la canapa nella cucina gourmet, tanto da proporre un apposito menu. Un prodotto che lui definisce «nutraceutico» e che rispetta la natura (a Expo non se ne sono accorti, salvo un evento in programma per il 26 luglio presso l’Auditorium del Padiglione Italia intitolato «Ricerca e sviluppo per una sana alimentazione e la rinascita delle coltivazioni italiane d’eccellenza ecosostenibili di piante aromatiche fonti di oli essenziali. Il ruolo di Cannabis sativa e dei funghi nutraceutici. Più qualità meno veleni»). Di qui la volontà di sensibilizzare il pubblico a comprendere i benefici di questo prodotto. Benefici che pochi conoscono. Neppure l’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, visto che nel suo database compaiono praticamente tutti gli oli eccetto quello di canapa. Lo stesso accade in quello americano. Curiose dimenticanze. Per scoprire qualcosa bisogna interpellare il database svedese (!). Trovato ha un curriculum di tutto rispetto. D’origine calabrese, si è trasferito a Siena all’età di 18 anni. Una laurea in Legge e Scienze dell’amministrazione, ma poi ha seguito la sua vera vocazione iscrivendosi alla Boscolo Etoile Academy di

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Sottomarina che forma i migliori chef. Oggi è presidente e docente della Federazione italiana professional personal chef che include 163 cuochi di tutta Italia ed è anche consulting chef e food stylist, e ha prestato consulenza all’estero per diversi ristoranti, anche come start up, da Dublino a Kiev.

Quando, come e perché nasce la sperimentazione con la canapa a usi alimentari? «Da due anni seguo il progetto. L’idea che ho di cucina è di una forma espressiva in movimento. Credo sia importante mantenere un legame con il territorio, ma aprendoci a contaminazioni culturali: dobbiamo essere pronti ad allargare gli orizzonti. Ci troviamo oggi in una nuova fase, non possiamo definirla salutistica, diciamo conoscitiva: anche il cliente medio vuole capire cosa mangia. Noi dobbiamo allora soddisfare mente, gusto ed estetica». E l’uso della canapa soddisfa questi precetti? «Fino al 1935-38 ci sono testimonianze di coltivazione di canapa nel Chianti. Certo non ad uso alimentare, ma per scopi artigianali e industriali, per fare tessuti, cordame. Dalle ricerche americane oggi però sappiamo che la canapa è un prodotto nutraceutico. È quasi un medicinale. Per esempio i semi sono un ottimo supporto energetico per gli sportivi. Io mi sono documentato e ho letto molta bibliografia straniera in tema. E ho scoperto diverse cose. Ho cominciato allora a utilizzare i prodotti, olio e farina. Inizialmente mi sono appoggiato ad Assocanapa, poi ho cominciato la coltivazione in


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un terreno vicino al ristorante di due e prossimamente tre ettari. L’idea non è di fare del Chianti una sorta di Amsterdam, qualcosa di trasgressivo. Non mi interessa creare un fuoco di paglia».

Con quali piatti ha cominciato la sperimentazione? «Ho cominciato con prodotti da forno e

un tipo di pasta. All’inizio ho sposata la farina di canapa con ricette del territorio, come i pici, un piatto tradizionale toscano. L’ho proposta nella versione con la farina di farro o gluten fee con farina di riso e tapioca o grano saraceno. La farina di canapa riesce a dare una consistenza molto interessante, simile a quella integrale».

Una pianta riscoperta con un giro d’affari da 10 milioni La canapa è una pianta ben conosciuta, tanto che è coltivata da 5 mila anni, ma per svariate ragione il nostro Paese aveva perso memoria del suo utilizzo. Basti dire che in un passato non lontano l’Italia è stata la seconda nazione al mondo nella produzione di canapa per usi industriali, dietro solo alla Russia. Nel corso del decennio 19031913, nel nostro Paese a tale coltura erano destinati 79.477 ettari.

foto di Paolo della Corte

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Miriadi sono gli usi commerciali utilizzando fibre e canapulo. Basti dire che erano di canapa i primi jeans e che nel 1941 Henry Ford presentò un prototipo di auto con struttura in fibra vegetale, canapa e soia. La riscoperta oggi, oltre che a livello cosmetico, è per gli usi alimentari. La pianta che viene coltivata lecitamente è la canapa sativa. La varietà deve essere

compresa nel Registro Europeo delle Sementi e deve avere un tenore di Thc (il principio attivo psicotropo, che è presente solo nelle foglie e infiorescenze, mai nei semi) inferiore allo 0,2%. Generalmente si usano i semi (utilizzati anche in ambito cosmetico), ricchi dei preziosi omega 6 ed omega 3, grassi essenziali in quanto l’organismo non è in grado di sintetizzarli e li ricava pertanto


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E oggi quali sono i piatti a base di canapa che propone? «Oggi propongo ai clienti un menu di degustazione con farina di canapa che va dall’antipasto al dolce. Naturalmente contemplo anche altri menu, per esempio uno interamente gluten free. In quello alla canapa si può degustare, per esempio, una terrina di fegatini di dagli alimenti. Essi contengono poi tutti gli aminoacidi essenziali nella giusta ed equilibrata proporzione oltre a essere una fonte preziosa di calcio e potassio. L’olio, presente per circa il 30 per cento nei semi, ha un gusto nocciolato e contiene fino al 75 per cento di acidi grassi polinsaturi ed è buona fonte di vitamina E. Viene estratto per spremitura a freddo dagli stessi semi che si formano dai fiori femminili all’incirca a metà luglio

pollo in crosta di decortitato di canapa, mele al rosmarino e calvados; ricottine fresche in crosta decorticata di canapa; tortelli di farina di canapa con farcia di pere caramellate, crema cacio e pepe di Sarawak; salsa di barbabietole chips di rigatino di cinta senese e riduzione di aceto balsamico Dop di 25 anni; il bauletto di canapa con far-

mentre la raccolta avviene a metà agosto. Volendo si possono usare anche fiori e foglie per fare tisane o la birra. Dai semi si ricava poi la farina che è priva di glutine, ricca di potassio e può essere addizionata ad altre farine in una misura intorno al 20 per cento. Assocanapa, sede a Carmagnola (To), è l’associazione che ha tra i principali obiettivi la promozione, la tutela e la diffusione della canapa e il suo impiego nei vari

settori produttivi. «Il giro d’affari legato al consumo di prodotti alla canapa in Italia è di circa dieci milioni – afferma il presidente Felice Giraudo – Quest’anno contiamo di superare i duemila ettari coltivati da 300 aziende. Il mercato è in crescita, ma molto dipende dagli investimenti che si fanno: di aiuti pubblici finora non ne sono arrivati anche se ce lo auguriamo per il futuro».


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Maxi pizza alla canapa, alla Fiera del Levante si tenta il primato

Crescono i prodotti a base di canapa che riscontrano sempre più il favore dei consumatori. Un nuovo mercato è quello delle pizzerie. La farina di canapa riesce a dare al prodotto un gusto rustico simile all’integrale che trova apprezzamento in una nicchia di consumatori più esigenti. A settembre, a Bari, in occasione della 79esima Fiera del Levante verrà realizzata la pizza più lunga a base di farina di canapa (e priva di glutine e senza lattosio). La sfida arriva dai Buoni senza glutine, con sede a Gradara (Pu), azienda che ha un accordo commerciale con l’Associazione pizzaioli professionisti. Massimilano Barnaba, co-fondatore e direttore commerciale, scommette che «entrerà certo nel Guinness dei primati perché finora non c’è mai stato un tentativo del genere. Nel Sud – sottolinea – la canapa sta spopolando». I Buoni senza glutine impiega una decina di persone, vanta un fatturato di circa 300 mila euro, in crescita. Le esportazioni toccano anche Polonia e Regno Unito. «Acquistiamo i diversi mix di farine da Assocanapa – dice Barnaba – Uno serve per la pasta, una per la pizza, uno per dolci e uno per pane e focaccia. Usiamo riso, mais, fecola di patate, amido di frumento deglutinato. Le stesse tipologie le produciamo anche nella versione con farina di canapa e da novembre sperimenteremo anche l’aloe. Vendiamo a farmacie, negozi specializzati e alla ristorazione e abbiamo un accordo con l’Associazione pizzaioli professionisti. Un’intera linea di prodotti alla canapa viene offerta dall’azienda La Finestra sul Cielo, storica azienda che oggi ha sede a Villareggia (To), riconosciuta dal mercato per essere sempre attenta e tempestiva nel lanciare nuovi prodotti ed essere cosi un punto di riferimento in fatto di innovazione. Dal 1978 La Finestra sul Cielo, oggi una Spa con sedi estere anche in Francia, Spagna e Brasile, propone alimenti naturali e da agricoltura biologica, selezionando i migliori ingredienti nel rispetto dell’ambiente senza utilizzare zucchero, latte e derivati. I prodotti a base di canapa sono stati lanciati già nel 2007 e nel corso degli anni la gamma è stata costantemente ampliata. A oggi si può contare su una ricca offerta di prodotti che comprendono pasta, olio, farina, semi, cracker, croissant, muesli e crunchy. Indirizzi utili www.ibuonisenzaglutine.it - www.pizzaioliprofessionisti.it www.lafinestrasulcielo.it

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cia di stinco di bue chianino, vellutata di zolfini bio e zafferano di San Gimignano; una tagliata di tonno in crosta di decorticato di canapa su crema di toscanello bio e caponatina in vetrocottura. Come dolci, il cannolo croccante agli agrumi, pistacchio di Bronte e decorticato di canapa del Chianti con mousse di ricotta. O il Cioccolatissimo con canapa su coulis al frutto della passione. Il menu di canapa costa 65 euro vini esclusi e 95 con vini inclusi (quattro tipologie e il primo è lo “Champagne della casa” - ndr)».

Con quale vino si abbina la canapa? Quali effetti sui piatti e sul gusto? «Ideale sono le bollicine o un Sauvignon, molti vini del Nordest, come il Gewürztraminer. La farina di canapa dà maggiore consistenza e ha un leggero gusto nocciolato. Ha anche un retrogusto erbaceo e lavorata con altre spezie dà riscontri interessanti. Il top sono i semi decorticati, la panure di tonno è molto più dolce e morbida se fatta con i semi di canapa anziché di pistacchio. L’olio in purezza non è per tutti ma utilizzato con dell’extravergine si sposa bene».

La canapa in cucina è innovazione o riscoperta della tradizione? «È un giusto equilibrio tra innovazione scientifica e tradizione del territorio. Io voglio proporre piatti locali che non mettano a disagio, voglio rilassare il cliente che qui nel Chianti può godere anche di un panorama mozzafiato. La canapa è “il maiale del vegetale”, non si butta via niente. E io uso ingredienti che c’erano già mezzo secolo fa. Spetta a noi tecnici far sì che si serva un prodotto appetibile e gustoso come partenza. Il fine è preservare la tradizione, il gusto e il sapore, ma contestualizzandolo a oggi. Ai nostri giorni il consumo calorico non è quello di una volta». Quanto è importante la scelta delle materie prime? «Io voglio sostenere artigiani e imprese locali che magari non hanno appeal commerciale. Mi rifornisco allora da aziende del territorio per alcuni prodotti. Guardo al gusto, che è anche legato alla stagionalità delle produzioni, ma anche all’ecosostenibilità e al fattore salutistico. Il lavoro di uno chef deve essere di continua formazione: io do degli input ai clienti, li stimolo a cambiare e a provare. E sulla canapa ho avuto risposte positive sia in termini di gusto, ma anche di conoscenza di un prodotto salutistico».


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Link utili

Database alimenti italiano

http://nut.entecra.it/646/tabelle_di_composizione_degli_alimenti.html

Database alimenti statunitense http://ndb.nal.usda.gov/ndb/foods

E quali sono gli effetti della canapa sulla salute? «L’impiego della canapa alimentare ha effetti curativi accertati sule malattie immunodepressive. È provato scientificamente che l’uso per almeno 12 settimane dell’olio di canapa dà dei benefici. Ho amici che hanno risolto problemi di colesterolo, altri di psoriasi». Come nasce il processo creativo di un suo piatto? «Alcuni piatti nascono da un’idea di una persona, da un momento particolare. Altri da una sperimentazione tecnica. Sto ora spostando la ricerca sulle farine di legumi, ceci, piselli, cicerchie.

Voglio fare la stessa cosa come per la canapa, proporli dall’antipasto al dolce. Vedo che il consumo cambia se sono io stesso a fare delle proposte al cliente. Per la colazione già preparo dei biscotti con farina di canapa, ceci e lenticchie con piccola presenza di uova. E nella proposta vegana gluten free e senza lattosio uso la farina di grano saraceno e il cioccolato».

Riserva molta attenzione anche al glutine… «Mi sono convinto che dobbiamo limitare il glutine nella nostra alimentazione, ti senti meno appesantito e il ceri vello viaggia più veloce».


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foto di Paolo della Corte

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Il rilancio di questo formaggio, il rapporto con Slow Food, la Guerra del Bitto e molto altro ancora

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ecuperare un territorio, la sua vocazione, la sua storia, i suoi tesori e valorizzarli davanti al mondo intero. Solo così si possono rilanciare le periferie, le loro economie, il loro ruolo in una comunità più ampia. È il succo, anzi un estratto, di un lungo incontro con Paolo Ciapparelli, presidente dell’Associazione dei Produttori Valli del Bitto. Quello storico, come ci tiene a precisare. Una precisazione importante, come avremo modo di capire durante il discorso. Un incontro in cui ha ripercorso molti momenti della ventennal storia del Bitto storico, le lotte per conser-

Paolo Ciapparelli: passato, presente e futuro del Bitto storico


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di Franco Cavalleri

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nelle parole del presidente dell’Associazione dei Produttori Valli del Bitto che traccia un ritratto di questo territorio con pennellate forti e decise, com’e' nella natura di chi vive con passione vare il nome e il disciplinare, l’alleanza con Slow Food, l’attenzione dei media di tutto il mondo. Fino ad arrivare a Expo e a cosa possa significare per l’Italia e per i piccoli produttori. Ci incontriamo nella sede dell’associazione, a Gerola Alta. Una sede allo stesso tempo ristoro, negozio, casera e museo. Un santuario, come viene spesso definita dai duri e puri del Bitto storico. E lì, tra un giro nei locali che ospitano le famose forme dedicate del Bitto, quelle che compaiono praticamente sempre sui media, e che sono il simbolo stesso del successo di questo manipolo di casari nella lotta per far sopravvivere una storia plurisecolare, e un assaggio dei loro formaggi, Ciapparelli racconta cos’è il Bitto, cos’è l’Associazione del Produttori delle Valli del Bitto. Storico, ovviamente. «Abbiamo voluto valorizzare – dichiara Ciapparelli – quella che era la grande caratteristica di questa produzione. Che non era la bontà: questa è una cosa scontata, non siamo gli unici a fare le cose buone, probabilmente ce ne sono anche di più buone. Però questo è l’unico formaggio che può invecchiare

anche dieci anni: un’unicità. Una cosa che è impossibile trovare altrove. Per cui noi, nonostante l’esiguità del numero delle forme, i nostri numeri sono sempre intorno alle 1500 forme che vanno in commercio, se pensiamo ai tre milioni e mezzo di parmigiano. Però abbiamo capito che qui forse avevamo quello che poteva tenerci in piedi e distinguerci. Vogliamo parlare di innovazione? Noi non potevamo toccare il metodo, abbiamo cercato qualcosa che potesse rappresentare l’innovazione». Ecco l’idea delle forme con dedica, forme che vengono personalizzate, su cui compaiono le parole o i disegni, i simboli, che l’acquirente desidera, e che poi vengono lasciate a Gerola Alta. E per non rovinare le forme, per scrivere o disegnare si utilizza inchiostro di mirtillo. “È una cosa incredibile – continua Ciapparelli – pagano prezzi importanti, per una forma selezionata, perché non tutto il Bitto può durare, devi prima scegliere le forme che possono invecchiare, però poi lasciano tutto qua, nella nostra Casera. Siamo in un paese fuori dal mon-


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do, piccolissimo, ci si deve venire apposta, non certo per caso, e seguendo una strada che non è tra le più facili, eppure non solo vengono fin quassù per conoscere il nostro formaggio, assaggiarlo, comprarlo, ma poi vogliono anche lasciare qua le loro forme personalizzate e dedicate, magari anche regalate». Una casera che, a questo punto, è più un museo, un’esposizione di forme d’arte e quelle che si possono ammirare nei locali di Gerola Alta possono a buona ragione essere annoverate tra le forme di espressione artistica, vista la varietà di disegni e colori che le ornano. E difatti, tra le corsie degli scaffali su cui sono poste, in bella mostra, queste forme del tutto particolari, è facile sentire parlare lingue diverse dall’italiano. Proprio in questo momento, una delle giovani guide del Consorzio sta illustrando la storia di questa casera così diversa ad una giovane coppia, probabilmente americani. «Ed è proprio la storia di questo formaggio, della sua tradizione, che vogliono sentirsi raccontare», conferma Ciapparelli. Parlando di storie: voi siete Bitto storico. Perché avete voluto aggiungere l’aggettivo ‘storico’ al nome di uno dei formaggi più famosi d’Italia? «La storia dovrebbe essere qualcosa scritto da anni, da secoli, sui libri di storia, appun-

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to. Vuol dire che se c’è uno storico, ce n’è stato uno nuovo. Venti anni fa hanno esteso l’area di produzione a tutta la Valtellina, che già faceva dei formaggi anche più buoni del Bitto. Ma non il Bitto. Perché l’hanno fatto, è presto detto: per avere la Dop. Il Bitto era l’unico ad avere i requisiti per la Dop. Non potevo certo dirgli di no, sarei passato per quello che non voleva il bene di tutti gli altri contadini. Però li avevo avvisati: “Fate attenzione, perché il giorno in cui modificherete il disciplinare sarà guerra davvero”. I due Bitto sono nati per questo discorso. Chiaramente gli altri, che facevano dell’ottimo formaggio, ma non avevano mai fatto il Bitto, si sono trovati a confrontarsi con la produzione a caldo, fatta subito, con l’aggiunta del latte di capra. Hanno detto “Ma è buono lo stesso, anche se non si fa così”, sì certo, ma non è Bitto. E allora noi lì ci siamo opposti, abbiamo cominciato questa famosa Guerra del Bitto, che è cominciata nel 1996 e non è ancora finita, si è creato un accordo, soprattutto perché hanno riconosciuto che la nostra produzione può aiutare gli altri, che il Bitto è la base, ma di certo millecinquecento forme, cosa vuoi che siano».

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qualche dubbio perché vede, l’apparato funziona in un certo modo, dà fastidio che una piccola produzione da sola ce l’abbia fatta». Chi va in negozio ad acquistare il Bitto trova con facilità la differenza tra Bitto nuovo e Bitto storico? «Io direi che qui è la parte più facile e più difficile. Più facile, perché basterebbe che le istituzioni pubblicizzassero che ci sono due Bitto, e perché uno ha l’etichetta rossa, il nostro no. Più difficile perché queste produzioni sono diventate un fatto culturale: anche il consumatore deve sapersi informare. Se tu sai informarti, magari ti fregano meno. Lo vedo soprattutto negli stranieri. Arrivano preparatissimi, hanno letto tutto, sanno perfino cosa è un calècc (costruzioni in pietra che fungono da caseifici itineranti - ndr), che non lo sanno più nemmeno a casa mia, sanno cos’è una produzione a caldo, sanno della battaglia che è stata fatta a favore dell’erba e contro i mangimi con i fermenti. Vengono soprattutto da paesi che non hanno nessuna cultura di queste cose, però si sono resi conto della differenza che c’è tra una produzione fatta in maniera artigianale e una più industriale».

Senza nulla togliere alla qualità Come potrà finire, ma sul serio, questa dell’industriale, però le due modalità di Guerra del Bitto? produzione sono diverse? «Se si riuscirà a trovare questa sinergia, questo rispetto delle due produzioni, allora «Infatti una delle mie teorie, che non è può darsi che si possa andare d’accordo. Ho mai stata capita qui, e credo sia un errore


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italiano, che non ci permette di raggiungere la Francia, è proprio questo: loro, i francesi, fanno un’esaltazione del grand cru, ma per fare cosa, per attirare i turisti e poi vendere con i numeri. Una cosa che dovremmo fare anche noi. Non si è mai visto un turista americano, giapponese, che arriva in Francia e viene mandato a visitare una grande fabbrica. Lo mandano a visitare il posto più sperduto. Poi gli vendono il prodotto industriale. Per i grandi numeri. Il Bitto ha millecinquecento forme, non posso pensare di mandarle negli Usa. Non ha senso e non sarebbe neanche possibile. Queste produzioni rappresentano la rivincita dei piccoli. Questo è importante, perché queste microeconomie da una parte le esaltano e dall’altra le vedono quasi come un fastidio, perché uno che maneggia soldi, che fa di più, si sente più importante. Può essere, però io oggi chiedo a tante industrie italiane se sono famose come il Bitto. Quello storico». A proposito di piccoli, quali sono i numeri del Bitto?

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«Millecinquecento sono le forme che vanno in commercio, ma la produzione reale è di tremila. Millecinquecento vengono lasciate vendere subito in alpeggio. La produzione effettiva dipende dalle condizioni atmosferiche, dall’erba, dall’uomo: non tutto riesce perfettamente, ma questo lo sappiamo. Se lo consumi fresco è buonissimo, per cui i produttori vendono le forme che si rendono conto che non possono durare e recuperano i primi soldi. Il produttore rientra subito perché con il nome che ha riesce a vendere bene. In più, oggi sta succedendo quello che dovrà essere il futuro: sono i turisti che vanno a cercarli. I produttori stanno capendo che se mettono lì un tavolo, servono anche un po’ di mascherpa, una fetta di burro, guadagnano tanto quanto a fare il formaggio. Oggi queste produzioni sono un veicolo turistico enorme». Un veicolo turistico e anche culturale, perché in fondo chi arriva qua si prende un pezzo di formaggio, Bitto o mascherpa, va a mangiare nei ristoranti, visita il museo e gli altri posti di interesse. In questo modo aiuta a preservare una cultura e una storia? «Non è un caso che abbiamo fatto la sede di questo consorzio quassù, in un posto dove devi venirci apposta, a quindici chilometri dalla valle. C’è gente che spende cinquanta euro di benzina per comperare quaranta euro di formaggio. Ma lo fa e il bello è


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questo, perché è convinta di andare in un posto serio e vuole aiutare. E questo per noi è importane, ci ha fatto capire tante cose, che se si vuole mantenere ancora certe cose bisogna avere il coraggio di non cedere agli interessi delle proprie tasche e ricordarsi soprattutto della storia e poi a un certo momento saper lavorare anche per gli altri. Se avrò successo qui, ma il territorio non lo capisce, non ho completato la cosa». Intende dire che ancora una parte del territorio non capisce? «Sì, ma perché questo è un fatto sociologico: in montagna c’è sempre questo individualismo forte, che porta sempre a vedere un avversario, mai un collaboratore. Soprattutto a non riconoscere che la credibilità è stata acquisita fuori perché hanno visto delle facce, dei comportamenti, per cui

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quando verranno sostituite queste facce, vogliono essere che tutto rimarrà uguale». Il ricambio generazionale come si presenta? «Come tutte le cose, non è ancora completo. Sto facendo un lavoro straordinario su questo, sono riuscito a far sì che tra i miei produttori ci sia un ricambio con i figli. Importantissimo. Quindici anni fa questi figli non avrebbero più fatto il contadino in montagna. Oggi lo fanno perché con i nomi che lei vede, qui gli compriamo il prodotto e sono sicuri. Ma soprattutto abbiamo rivalutato un lavoro. Arrivano giornalisti da tutto il mondo per intervistarli, si rendono conto di fare qualcosa di importante. Come mi hanno fatto notare alcuni giornalisti giapponesi questi contadini vanno chiamati Maestri. E se vengono a dirlo i giapponesi...».


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Finisce che siete più considerati in Giappone che in Italia? «Sa perché? Spesso a casa certe cose vengono date per scontate. Non si dà l’importanza giusta ad una storia di contadini, di persone che hanno dovuto fare dei sacrifici». Voi siete anche un Presidio Slow Food. Come procede la collaborazione con loro? «Credo che sia questo un discorso molto positivo, ma anche personale. Il più grande alleato del Bitto storico, che gli ha permesso di fatto di non morire, è stato Slow Food. Non so come, magari sarà stato il rapporto con il vicepresidente storico di Slow Food, Piero Sardo, con il quale si è creato anche un rapporto di amicizia e di fiducia tra me e lui. Non gli conveniva nemmeno, eppure è anche venuto con me al Ministero a scontrarsi con il ministro. Però lui l’ha fatto, in maniera convinta. Non so se sia stato appoggiato del tutto dal Movimento, perché chiaramente quando si diventa grossi ci sono tante teste, però io lo dico e penso di avere anche titolo per poterlo fare, visto che c’ero già nel 1994 quando tutto è cominciato e seguito il tutto, non avessi avuto questa collaborazione con Slow Food oggi non saremmo così famosi. Slow Food ci ha dato quella visibilità che altrimenti non avremmo mai avuto». O che avreste raggiunto in tempi più lunghi e con grande fatica?

«Più lunghi e molto difficoltosi. Perché comunque il fatto di avere un alleato così forte, anche quando siamo stati multati e tante altre cose, ci ha dato un peso diverso. Io lo voglio dire, perché so benissimo quante critiche vengono da altre parti su certi comportamenti, non voglio giustificare nessuno, perché in un mondo di mediatori, in un mondo in cui tutti devono stare in piedi, però, con noi sono stati corretti fino in fondo. Abbiamo avuto qualche piccolo screzio con alcune persone, ma non dalla parte di chi conta, con persone che probabilmente erano dall’altra parte, dalla parte dell’anima che vedeva un problema, ma ha


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vinto sempre quell’altra. D’altronde non si può pensare di essere perfetti nemmeno noi, che sia stato un alleato importante per noi lo rimarchiamo sempre anche nelle forme: come può vedere, su ognuna è segnato “Presidio Slow Food”. E non è certo una forma di piaggeria. Quando hai avuto tanti nemici, avere anche un solo amico così importante non ha prezzo, non mi stancherò mai dirlo». Slow Food uguale Expo: per voi l’esposizione in corso ha avuto qualche riflesso positivo? «Quando si parla di un’esposizione universale è abbastanza evidente che deve trat-

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tarsi di qualcosa di grandioso. Nutrire il pianeta, come tema, è forse più riduttivo, anche se più importante. Fa pensare a correttezza e onestà. Non fa pensare a grandi capannoni e a spese folli. Però posso dire questo: Expo ha richiamato un’attenzione enorme. È una cosa importante, ha messo davanti a tutti il tema, ma per noi piccoli ci sono anche altre cose che contano, più importanti. Sono finito su tutti i giornali del mondo, mi devo lamentare? Ci deve essere un po’ di ironia e anche di non pretendere troppo. Expo sta andando, si sta rivelando un qualcosa che vale, è fatta bene, ci sono cose interessanti, che colpiscono. Il tema del cibo, finalmente, a parte l’eccessiva pornografia che viene fatta, l’eccesso sui cuochi che viene fatto, per l’Italia è una risorsa enorme. È il rilancio delle aree perdenti e periferiche. Però il rilancio delle aree periferiche deve venire dalla periferia, non dal centro. Nel nostro caso, il futuro non passa dagli impianti di sci, come si credeva negli anni Setttanta. Ci si è resi conto che gli impianti costano di più come manutenzione. Bisogna tornare a fare le cose come si faceva una volta, perché è lì la grande i attrazione di questi territori».


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La pasta delle mie origini Un breve viaggio nei ricordi che diventano storia e aneddoti di un prodotto che ha segnato, in tutte le sue forme, la cucina del nostro Paese. Dal passato ai giorni nostri, attraverso prodotti simbolo delle regioni Italiane


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a vita è una combinazione di pasta e magia. Questo è quello che pensava il grande maestro Federico Fellini. Il ricordo di corpi opulenti, di donne dal seno rotondo e dalla bellezza sfacciata, di una “dolce vita” che si affermava come immaginario per definizione, si fonde immediatamente con la parola “pasta” che con il suo sapore, il profumo cattura tutti i nostri sensi proprio come un film del Maestro trasformandosi in un concetto universale. Una volta c’erano i grani antichi, lunghe spighe d’oro che si piegavano danzando seguendo il corso del vento. Dopo la mietitura quei favolosi chicchi pieni e profumati venivano macinati per creare la polvere divina che per incanto, con tante uova per ogni etto di farina, si trasformavano in tagliatelle, lasagne, agnolotti, tortellini e ogni altro ben di Dio che, ogni regione italiana, saggiamente tramanda, a chi fa della pasta un punto d’onore. E poi c’è la pasta di grano duro dove solo con l’aggiunta di acqua si preparano formati e tipi di pasta che tutto il mondo ci imita: le trofie liguri, le orecchiette e i cavatieddi pugliesi, i fusilli e i malloreddus sardi…

di Rossella Lucangelo

Per chi ama l’opulenza felliniana, aggiungiamo all’impasto anche burro e latte per dare vita ad una pastella morbida e vellutata che porta alla preparazione delle famose crespelle dove, in ogni regione, famiglie e cuochi hanno farcito con tutto ciò che di buono offre il territorio. La Pasta e il Pane, tra storia, leggenda e realtà Ho sempre pensato che tutte le cose siano nate dal caso o da errori. La storia e le leggende mi danno ragione; infatti si narra che una schiava, nell’antico Egitto, preparando l’impasto del pane con il grasso frumento coltivato nel Nilo, si sbagliò. Invece che acqua all’impasto aggiunse la birra. Avendo commesso un errore non disse nulla a nessuno e continuo ad impastare. Dopo qualche ora il preparato si era gonfiato il triplo del suo volume ed era morbido e soffice al tatto. Il primo pane lievitato comparse quindi oltre 5.000 anni fa. La stessa cosa accadde alla pasta. Nonostante ancora oggi il primato dell’invezione del cibo più amato nel mondo sia assegnato a pari merito a cinesi, arabi e italiani, non bisogna dimenticare che il primo piatto di spaghetti fu trovato imbalsamato in una tomba

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egiziana, vicino alla mummia, come cibo per l’aldilà. Mi sono sempre chiesta come fosse condito. Ma è la storia del tortellino che vale la pena di raccontare, forse perché bolognese di adozione ne sono rimasta subito affascinata e soprattutto deliziata. “Quando sentite parlare della cucina bolognese, fate una riverenza, ché se la merita!” , cosi recitava il grande Pellegrino Artusi, ancora oggi mentore e menestrello di ricette antiche che potrebbero essere anche cantate. Ma torniamo alla storia. Nel 1200, a Castelfranco Emilia arrivò, con la sua carrozza, una giovane e avvenente marchesina e decise di fermarsi a riposarsi e fare bere i suoi cavalli in una locanda del luogo dal nome Corona. Il locandiere accompagnò la fanciulla in camera e attratto irrimediabilmente dalla sua bellezza rimase a spiarla dalla serratura, rimanendo colpito dal suo ombelico. Al momento di preparare la cena, il locandiere cuoco era talmente ispirato dall’immagine perfetta dell’ombelico della marchesina che con la sfoglia delle lasagne, tagliò dei piccoli pezzettini di pasta, li riempì di carne e li avvolse su

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sé stessi al fine di riprodurre quell’ombelico perfetto. E nacquero i tortellini. Bolognese di adozione, ma piemontese di nascita, un giorno di tanti anni fa entrai in un pastifico artigianale e chiesi di guardare come si facevano gli agnolotti. Il pastaio mi raccontò che l’agnolotto, fu chiamato così perché il primo ripieno era di carne di agnello, poi si trasformò nel tempo e il ripieno fu sostituito da carni avanzate che venivano macinate al mortaio con l’aggiunta di verdure e di cacio per dare consistenza e sapore. Poi il cacio divenne parmigiano e i tagli di carni divennero i più pregiati. Essendo però anche metà pugliese e metà trentina, non posso non raccontare di quella pasta che nasce senza l’uovo: solo acqua, sale e farina di grano duro.


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I baresi, non me ne vogliano, ma le prime orecchiette nacquero nel Medioevo in Provenza. Era un disco di pasta fatta con il grano duro e schiacciato al centro con il pollice per farla essiccare più velocemente, il suo nome era “crosets”. La storia racconta che ne venissero imbarcate in grandi quantità sulle navi che si accingevano ad affrontare lunghi viaggi. Arrivarono, come im-

maginerete, anche in Basilicata e in Puglia. Gli Angioini, dinastia che nel Duecento dominava quelle terre, fece subito sua quella pasta e la trasformò nella famosa orecchietta. Vi posso assicurare che le orecchiette

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con le cime di rape di mia zia Anna fanno onore alla tradizione del buon, si fa per dire, Federico II. E per concludere questa passeggiata tra il mio sangue variegato e la pasta dei miei ricordi non posso che fare onore alla terra, odorosa di aghi di pino, del Trentino Alto Adige dove di grano ne cresce poco ma che ha comunque una lunga tradizione in fatto di pasta. Il canederlo, mia nonna lo faceva grande come uno gnocco tondo e lo cuoceva nel brodo di gallina. L’impasto era fatto di pane raffermo, latte e uova e, sapendomi golosa di formaggio, aggiungeva l’asiago stagionato. Il profumo caldo e avvolgente che in questo momento mi torna in mente farebbe impallidire qualsiasi Madeleine di Proust, l’acquolina in bocca si fa sentire e mi fa pensare che la pasta, in tutte le sue forme e varianti, è di fatto i una grande gioia della vita.


olio

52 Rubrica a cura di Simone Frusca – Direttore di Aipol (Associazione interprovinciale produttori olivicoli lombardi) - www.aipol.bs.it

L’importanza dell’analisi sensoriale X per l’olio extravergine d’oliva

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a cos’è l’analisi sensoriale? E perché è importante imparare ad assaggiare un olio? L’analisi sensoriale, intesa in senso ampio, è il risultato di una complessa interazione dinamica tra diversi fattori fisiologici, sociologici, culturali ed economici. È infatti uno strumento che ognuno di noi utilizza quotidianamente per giudicare e scegliere cibi, vestiti, strumenti di lavoro, persone, attraverso, appunto, gli organi sensoriali umani. Imparare ad assaggiare un olio extra vergine d’oliva vuol dire sostanzialmente, riconoscere e scegliere un olio buono, e che quindi fa bene alla salute, da un olio di bassa qualità che non dona

all’organismo, e al cibo al quale si abbina, benefici sostanziali. Anche a livello legislativo si è compreso l’importanza dell’assaggio per la classificazione merceologica di un olio. Dal 1991 l’Ue, infatti, ha reso obbligatoria oltre a quella chimica, anche l’analisi organolettica per classificare un olio d’oliva come extra vergine, vergine o lampante. La valenza dell’analisi sensoriale è superiore a quella chimica: se un olio infatti, è chimicamente ineccepibile, ma non passa la prova di assaggio, viene declassato. La valutazione merceologica è eseguita da un gruppo selezionato di assaggiatori, chiamato in gergo tecnico Panel, e deve essere riconosciuto e approvato dal Mipaaf (Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali. I professionisti, iscritti in un apposito elenco, vengono guidati da un “Capo Panel” e rilasciano un giudizio sensoriale dell’olio analizzato, attraverso una procedura standardizzata e codificata. Perché un Panel sia valido deve garantire alcuni parametri di ripetibilità e

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standardizzazione. I suoi componenti costantemente si sottopongono ad allenamenti, al fine di arrivare pronti, all’annuale prova di allineamento emanata e gestita dal Mipaaf che è fondamentale superare per mantenere lo status di Panel riconosciuto. In provincia di Brescia l’unico Panel professionale riconosciuto dal Mipaaf è quello gestito dall’Aipol (Associazione interprovinciale produttori olivicoli lombardi), e ha la sala d’assaggio presso la sede della Camera di Commercio di Brescia e sviluppa la sua attività con incontri settimanali. Al di là degli aspetti legali, ognuno di noi può imparare ad assaggiare in maniera professionale un olio e fare una valutazione quantitativa e, non solamente edonistica, dei suoi aspetti positivi.

La degustazione Ma come si assaggia l’olio d’oliva? C’è una regola fondamentale: per valutare in maniera corretta le caratteristiche di un olio bisogna assaggiarlo da solo, utilizzando un bicchiere. È asso-


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lutamente vietato provarlo sul pane o sulla verdura cruda o su qualsiasi altro piatto. È normale che un alimento, per essere giudicato, debba essere assaggiato senza altri elementi che potrebbero disturbarne o falsarne il gusto. Una normalità che sembra fare eccezione per l’olio, la cui degustazione solitaria lascia ancora molte persone di stucco. Basta versare la quantità di olio contenuta in un cucchiaio da minestra in un bicchiere pulito. I sensi coinvolti nell’assaggio dell’olio d’oliva sono l’olfatto e il gusto. La vista e quindi il colore dell’olio, non è importante nell’analisi sensoriale in quanto l’extravergine ha un colore compreso tra il giallo e il verde, in funzione della maggior presenza di caroteni (pigmenti naturalmente presenti in molti ortaggi tra cui le carote, che danno il colore giallo), clorofille e feofitine (pigmenti che danno il colore verde) che a seguito dell’invecchiamento si degradano con una perdita del colore originario: questi pigmenti variano in base alla cultivar, alla maturazione, al tipo di lavorazione, alla conservazione, e non sono significativi della qualità di un olio.

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za del vino non sono portati dall’alcool ma si sviluppano grazie al calore fornito. Quando non si avvertono differenze di temperatura tra mano e contenitore, si può iniziare l’analisi (temperatura ideale fissata dalla normativa: 28°C), avvicinando e allontanando più volte e lentamente il bicchiere scoperto al naso, inspirando delicatamente. Questa procedura è fondamentale per evitare l’assuefazione. Gli organi recettori del naso infatti sono molto sensibili e tendono a saturarsi molto rapidamente, e questo farebbe si che continuando ad annusare intensamente e senza pause, dopo poco tempo non si sentirebbe più nessun odore Nelle sedute ufficiali si utiUn olio di qualità deve lizza un bicchiere a tulipano necessariamente esprimeblu cobalto o arancio ma re all’olfatto sentori chiari fuori dalle sedute certificate di oliva fresca. Sono difetsi può più semplicemente ti tutte quelle sensazioni utilizzare un bicchierino riconducibili alla salamoia, di plastica da caffè. Per al rancido, alla fermentazioprima cosa si scalda l’olio ne dell’erba o all’aceto. Gli avvolgendo il bicchiere con assaggiatori più esperti e una mano, e coprendolo con dotati di una buona memoria l’altra (nei panel di assaggio olfattiva potranno riconosi usa un idoneo coperchio), scere sentori di mandorla, per non far evaporare i prosfalcio d’erba, carciofo, fumi dell’olio, che a differen- pomodoro, frutti di bosco e


olio

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molti altri ancora. Conclusa l’analisi olfattiva si procede con quella gustativa: il bicchiere va portato alla bocca e si introduce una piccola quantità di olio, senza deglutire; dopo averlo lasciato nel cavo orale per qualche secondo si deve spostare la lingua in avanti a mo’ di cucchiaio, verso i denti superiori appena appoggiati sugli inferiori e si deve “strippare” e cioè inspirare aria dalla bocca semichiusa una o due volte velocemente ed in rapida successione, ossigenando l’olio che irrorerà tutta la lingua e il palato. Questa operazione ci consentirà di percepire l’amaro e il piccante che dimostrano presenza di polifenoli nell’olio. I polifenoli sono biomolecole attive antiossidanti, quindi fondamentali per la nostra salute. Assaggiando un olio extra vergine d’oliva di qualità è necessario percepire in maniera più o meno intensa l’amaro e il piccante. Si possono inoltre percepire il dolce, vari livelli di persistenza, fluidità e astringenza e tutte le sensazioni riconducibili ai sentori retronasali. È impossibile percepire l’acido di un olio, perché l’acidità non si sente assolutamente in bocca. Il “pizzicore” che si sente in fondo alla gola, che ricorda il peperoncino e che spesso viene erroneamente scambiato per acidità, è dovuto alla presenza sempre dei polifenoli che stimolano i nervi trigeminali della gola.

È utile ripetere l’analisi una seconda volta, lasciando passare qualche minuto, dopo aver pulito delicatamente il palato e la lingua con acqua gassata.

Le regole dell’assaggio Ci sono alcuni principi che devono essere rispettati a ogni assaggio: - accertarsi che le proprie condizioni fisiologiche e psicologiche siano positive, tali ossia da non compromettere la prova; - non assaggiare mai dopo i pasti principali: le ore migliori sono quelle della tarda mattinata e del fine pomeriggio; - lavarsi con sapone neutro e non usare alcun profumo, sapone o cosmetico il cui odore persista al momento della prova; - non ingerire alcun alimento prima di un’ora

dall’assaggio; - non fumare; - rumori, colori e odori forti sono elementi di disturbo: è fondamentale assaggiare un alimento in un luogo neutro, pulito e silenzioso. Non si deve mai dimenticare che l’assaggio dell’olio è una disciplina e come tale utilizza tecniche e metodi comuni e codificati per offrire una misurazione e una rappresentazione affidabile, ripetibile, attendibile e completa. Tutti possono diventare degustatori di olio. Su tutto il territorio italiano vengono realizzati corsi da diverse associazioni, l’importante è che rilascino un certificato valido per essere identificati come degustatori, soprattutto nel caso si voglia farlo in modo professionale. ❉



sommelier

56 Rubrica a cura di Simone Frusca – Direttore di Aipol (Associazione interprovinciale produttori olivicoli lombardi) - www.aipol.bs.it

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il nonno e il decanter

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osa può legare un simpatico vecchietto dai capelli bianchi e il decanter, strumento di lavoro del Sommelier? In realtà nulla, salvo che il primo aiuta, metaforicamente parlando, a capire l’uso del secondo. La metafora infatti cita: “se al vecchietto quando si sveglia la mattina lo fai uscire sul balcone all’aria, al vecchietto gli piglia un colpo, al vino, col decanter, uguale”. Fuor di metafora, significa che un vino vecchio, una volta stappato, non può certamente essere imme-

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diatamente pronto da bere, come al nostro vecchietto servirà un poco di tempo per svegliarsi del tutto e per bene. Partiamo dall’inizio. Un vino che riposa a lungo chiuso in bottiglia, continua la sua evoluzione anche in assenza di ossigeno, cambia, migliora, raggiunge il perfetto equilibrio. Non per tutti i vini questo passaggio è identico, anzi il tempo di evoluzione è generalmente diverso da vino a vino, come diversa è la vita di ognuno di essi. Questa evoluzione, se protratta negli anni e in assenza di ossigeno, diventa

riduzione, il vino si richiude su se stesso progressivamente. Una volta aperto la sensazione olfattiva prevalente sarà di polvere, di chiuso, l’odore di quei cassettoni della nonna che hanno un misto di profumo e muffa. Ecco perché quel vino avrà poi bisogno di riprendere fiato, di distendersi per liberare ogni profumo e aroma che racchiude in se. Questa operazione avviene attraverso il contatto con l’ossigeno, l’ossigenazione appunto. Il decanter assolve velocemente a questa funzione, perché la superficie di


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contatto tra vino e aria viene notevolmente maggiorata rispetto al collo della bottiglia. Questo il motivo della particolare forma allargata che distingue i decanter da altri contenitori simili (le brocche per l’acqua ad esempio). Purtroppo però il decanter assolve a questa funzione troppo velocemente. Come per il nonnino della metafora, infatti, anche per un vino invecchiato anni la violenta esposizione all’aria rischia di comprometterlo. A onor del vero va detto che il decanter non nasce per l’ossigenazione, bensì come strumento di decanta-

reilemmos

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Solo quando non si può fare diversamente è giusto ricorrere al suo utilizzo. Ogni volta che è possibile aprire una bottiglia per tempo, generalmente qualche ora prima, l’utilizzo del decanter può essere ovviato e con esso i rischi di danneggiare zione, ovvero per separare il nostro vino. Un trucco per la parte solida (sedimento) velocizzare l’ossigenaziopresente nei vini vecchi e la ne, senza compromettere il parte liquida (vino). La mivino è versarlo nel bicchiere tica candela, strumento del e lasciarlo tranquillo. Per sommelier anch’essa, serve esempio il rosso importante, proprio per porre una fonte da abbinare al secondo, può di luce dietro la bottiglia e essere versato all’inizio del poter così meglio osservare pasto, concedendogli così un il momento del travaso prepo’ di tempo per ossigenarsi. stando la dovuta attenzione Quello rimasto in bottiglia, a non far fuoriuscire elemen- inoltre, riceve più ossigeno, ti solidi dalla bottiglia. perché l’area di scambio non Il decanter dunque è da è più il collo della bottiglia, usare con molta attenzione ma la parte centrale, più e possibilmente parsimonia. ampia. i


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58 i vini

Bianco d’estate sempre apprezzato T

radizionalmente l’estate è il momento dei vini bianchi. Sempre vero? No, assolutamente no. Ci sono molti rossi, magari leggeri e fruttati, che ben si comportano se serviti anche freddi, sono assolutamente adatti all’estate e ad abbinarsi ai piatti che la stagione calda con più frequenza propone. E allora cosa facciamo noi? Abbiamo questa volta fatto i tradizionalisti, perché ci sono tradizioni che piacciono e abbiamo scelto di degustare dei vini bianchi. Prima di accusarci di essere banali però, concedeteci il beneficio del debbio leggendo le degustazioni che seguono. Troverete cinque vini diversi uno dall’altro, cinque mondi paralleli potremmo dire, sicuramente cinque vini pregevoli, particolari, in alcuni casi non esattamente tipici, cosa che spesso, come questa volta, rappresenta un pregio. Cinque vini diversi, perché l’estate non vuol dire per forza vini freschi e leggeri e perché, ancor di più, l’universo dei vini bianchi è davvero molto vasto, fatto cioè di tante bottiglie diverse che in comune hanno solo la tecnica di vinificazione, in bianco appunto.

Si parte con un vino frizzante, leggero e beverino. Ottenuto con una rifermentazione in bottiglia che sa di vecchie tradizioni contadine. Poi uno spumante morbido e gustoso, che però arriva da una zona che non è storicamente votata alla spumantistica, cosa che lo rende molto interessante. Il terzo vino è un Montonico, un vitigno autoctono dell’Abruzzo, perla dell’enologia italiana, un prodotto da assaggiare almeno una volta nella vita. A seguire ancora un bianco dei più classici, un verdicchio dei Castelli di Jesi, fiero alfiere di una terra da sempre prodiga di buoni frutti. Infine, una Falanghina che, in questo caso, con i suo 15 gradi alcoolici e la struttura possente di cui è dotato queto vino, proprio tipica non è. Una carrellata su e già per l’Italia divertendosi a scoprire piacere enologici di bianco vestiti, immaginando un pranzo estivo, all’ombra di un arieggiato patio, sorseggiando vino dall’aperitivo all’ultimo dei piatti gustati. Buona lettura e buona degustazione.

PANEL DI DEGUSTAZIONE Sommelier Valerio Sisti Giunta nazionale Fisar Sommelier Marta Mantini Fisar Milano Duomo Sommelier Alessandro Barbieri Fisar Milano Duomo Sommelier Antonietta Mazzeo Ais Bologna LEGENDA DEI VOTI Il voto in centesimi è comunemente utilizzato nei principali concorsi enologici nazionali e internazionali, è un sistema di votazione che viene generalmente impiegato anche dalle guide del settore, indipendentemente dal fatto che poi utilizzino simboli diversi per l’assegnazione grafica del punteggio conseguito. Secondo la norma generalmente in uso si classifica con 80/100 un vino onesto, ben fatto e ovviamente senza difetti, al di sotto di questa soglia vengono classificati i vini con leggere imperfezioni o comunque non particolarmente piacevoli. Tra gli 80 e 85 punti si posizionano i vini di buona piacevolezza, oltre la soglia degli 85 punti invece si trovano i vini di grande piacevolezza, mentre oltre i 90 punti i vini presenti saranno certamente di assoluta eccellenza. 0-70 punti: vino con difetti o sgradevole 70-75 punti: vino non particolarmente gradevole 75-80 punti: vino gradevole seppur non del tutto convincente 80-85 punti: vino ben fatto e convincente 85-90 punti: vino con caratteristiche superiori alla media 90-100 punti: vino eccellente sotto più punti di vista


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Nome: TERMEN Denominazione: Vino Frizzante Cantina: FOLLADOR ROMOLO Tipologia:Vino Frizzante, rifermentato in bottiglia naturale Vitigno: Glera, Perera, Bianchetta Anno: 2014 Grad. alcoolica: 11,0% Affinamento: acciaio Tipo di viticoltura: tradizionale Temp. di servizio: 6° Degustazione: Una spuma piacevolmente intensa anticipa un color paglierino molto freddo, con qualche lievito in sospensione, apre al naso fresco e piacevole, sentori di pasta di pane, seguiti da frutta fresca, ananas e frutta a polpa bianca in particolare, seguiti da una leggera nota vegetale. In bocca è leggero, facile e beverino, dotato di giusta sapidità, leggero di corpo con un finale breve e pulito. Abbinamento: Antipasti salumi (culatello), frittata con erbette o asparagi, antipasto di pesce, anche crudo, formaggi giovani e salati, alici marinate. Voto: 82/100 www.romoloffollador.it

i vini 59 Nome: MATTAGLIO Denominazione: Vino Spumante di Qualità Cantina: CANTINE DELLA VOLTA Tipologia: Spumante metodo classico Vitigno: 100% Chardonnay Anno: 2010 – 60 mesi sui lieviti Grad. alcoolica: 12,5% Affinamento: acciaio prima della presa di spuma Tipo di viticoltura: tradizionale Temperatura di servizio: 6° Degustazione: Corretto alla vista sorprende piacevolmente al naso, dove apre con note di crosta di pane e lieviti, un sentore vegetale leggero di fieno. In bocca è morbidissimo eppure equilibrato, con una bollicina presente, piacevole e mai aggressiva. Molto complesso anche all’esame retro olfattivo, dove emergono note di fiori, di pasticceria, ad esempio panbrioches e frutta bianca. Il finale è lungo e molto elegante. Uno spumante perfetto da tutto pasto Abbinamento: Tortelloni al formaggio con crema di parmigiano, linguine all’astice, comunque ottimo da tutto pasto Voto: 86/100 www.cantinadellavolta.com

Nome: SANTAPUPA Denominazione: Abruzzo dop Montonico Sup. Cantina: LA QUERCIA Tipologia: bianco fermo Vitigno: 100% Montonico Anno: 2014 Grad. alcoolica: 11,5% Affinamento: acciaio Tipo di viticoltura: tradizionale, leggera surmaturazione Temp. di servizio: 10° Degustazione: Alla vista si presenta giallo quasi dorato, al naso si impone un sentore di banana molto netto, e tutto ciò inganna l’assaggiatore, perché in bocca è invece sorprendente l’acidità, che gli regala una freschezza sorprendente. L’equilibrio è ovviamente spostato verso le durezze, condizionato dalla spalla acida così presente, anche se la buona morbidezza (non alcoolica) regala la piacevole sensazione di alternanza tra morbido e duro che lo rendono ancora più piacevole. Servire molto freddo. Abbinamento: Scrippelle ‘nbuse (frittelle inzuppate nel brodo), ventricina teramana (spalmabile), sanie con ceci e cicoria, scaloppina alla salvia, sgonbro alla griglia Voto: 84/100 www.vinilaquercia.it

Nome: BUCA DELLA MARCONA Denominazione: Verdicchio dei Castelli di Jesi classico DOC Cantina: SOC. AGR. E FORESTALE SAN MARCELLO Tipologia: bianco fermo Vitigno: 100% Verdicchio Anno: 2014 Grad. alcoolica: 13,0% Affinamento: acciaio su fecce fini Tipo di viticoltura: tradizionale Temp. di servizio: 13° Degustazione: Giallo paglierino trasparente alla vista e un bel bouquet floreale e fruttato, dove spiccano fiori di campo e frutta a polpa gialla, con una nota agrumata in bella evidenza. Quasi insolita tanta complessità per un verdicchio. Morbido al punto giusto in bocca non perde mai l’equilibrio gustativo, non spicca in sapidità ma mantiene una buona struttura fino al finale lungo al punto giusto. Abbinamento: Carni bianche anche di buona struttura, coniglio arrosto, spezzatino di maiale con peperoni, se un primo, pasta con ragù bianco. Voto: 82/100 www.tenutasanmarcello.net

Nome: MAIOR Denominazione: Falangina del Sannio Dop Cantina: AZ. AGR. CANTINA FOSSO DEGLI ANGELI Tipologia: bianco fermo Vitigno: 100% Falanghina Anno: 2013 Grad. alcoolica: 15,0% Affinamento: Tipo di viticoltura: tradizionale Temp. di servizio: 12° Degustazione: I profumi del Sannio in un bicchiere. Apre con note di agrumi ed erbe aromatiche seguite da sentori fruttati più classici, come i frutti a polpa bianca e gialla. Tanta morbidezza in bocca, data dall’alcool molto presente, mai spiacevole però perché ben bilanciato dall’acidità. L’equilibrio è ovviamente spostato verso la morbidezza. Finale lungo e pieno. Abbinamento: pasta con colatura di alici e peperoncino, aglio olio e peperoncino, torta di scarola olive pinoli saliccia piccante, pizza bianca con formaggi del territorio Voto: 83/100 www.fossodegliangeli.com


60 Rubrica a cura dello chef Riccardo Carnevali • www.arspersonalcatering.it

Vasocottura, un modo diverso per gustare l’estate L’estate porta con sé tanti prodotti stagionali freschi e non dobbiamo fare altro che imparare a servirci della stupenda verdura colorata e ricca di principi nutritivi che riempie i banchi del mercato. Ancor più che nelle altre stagioni sarà importante (per chi già

non lo frequenta) lasciare le comodità della grande distribuzione e scendere al mercato per prendere pomodori, zucchine, melanzane, piselli, fave, insalate e tutto quello che si trova nelle loro qualità, forme e dimensioni più varie e in vari gradi di maturazione. Vogliamo parlare di come siano buoni i pomodori verdi in agrodolce o le zucchine baby (cioè molto giovani e ancora prive di semi) oppure del basilico a foglie grosse dalle nervature muscolose e il profumo più intenso della menta.

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Trovato il mercato giusto, la metà del lavoro è fatta! Per creare piatti stupendi metà dell’opera consiste appunto nella scelta della materia prima. Il resto è la creazione del piatto

Caponatina di verdure in vasocottura Ingredienti per 4 PERSONE • 2 melanzane romane sottili • 2 zucchine • 5 peperoni baby • 10 pomodorini • pinoli • mentuccia • olio extravergine • aglio • aceto di vino • sale fino Tagliare tutte le verdure e grigliarle velocemente, condirle con olio, sale e menta tritata, aggiungere i pinoli tostati e spruzzare con un po’ di aceto di vino. Quindi invasare e porre a sobbollire a bagnomaria per 20 minuti. Togliere dall’acqua i vasetti e lasciarli riposare 10 minuti. Quindi servire con olio extravergine a crudo.

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61 “Court Bouillon” di pollo e verdure in vaso Ingredienti per 4 PERSONE • 400 g pollo disossato • 2 carote • 1 cipolla dolce • 100 g fagiolini • 100 g patate novelle • olio evo • aglio fresco • 1/2 limone • menta Partendo da acqua bollente salata, porre in cottura nell’ordine: carote aglio e patate, fagiolini, cipolla e pollo. Far bollire per 15-20 minuti circa con l’accortezza di inserire i prodotti scalando di qualche minuto ognuno in base al tempo di cottura. Quindi scolare tenendo da parte un po’ di brodo, tagliare a pezzi il pollo e le verdure e porle in un vaso da cottura. A parte frullare poco brodo di cottura con olio extravergine, il succo di metà limone, la menta fresca e un pezzetto di aglio bollito. Versare due o tre cucchiai di questo frullato in ogni vasetto e chiudere. Prima di servire passare i vasetti 15-20 minuti a sobbollire a bagnomaria, lasciar riposare 10 minuti e servire agli ospiti.

lavorando in modo corretto gli ingredienti acquistati. Per esempio, se partiamo da una melanzana romana di quelle sottili e lunghe, dobbiamo avere l’accortezza di studiare come meglio tagliarla nella giusta pezzatura e cuocerla. Infatti, dopo tutta la cura nella scelta della materia prima, quando non serviamo verdure crude, dobbia-

mo cercare dei metodi di cottura che non stressino le qualità organolettiche dei nostri prodotti. La vasocottura in questo caso ci aiuta in tanti modi: - ci permette di trasmettere gradualmente il calore al prodotto senza rovinarne la consistenza; - essendo chiusi, nei vasetti restano tutti i profumi e le essenze dei nostri ingredienti; - possiamo preparare in precedenza i nostri vasetti e metterli in cottura senza sporcare ulteriormente la cucina; - i piatti in vasocottura sono coreografici. Naturalmente come tutte le novità dovrete testare e provare qualche volta prima di ritenervi sod-

disfatti. Dosate sempre il liquido di cottura nelle ricette che lo richiedono e se a fine cottura avrete un prodotto troppo acquoso basterà diminuire la dose al prossimo tentativo. Se entrerete nel mondo della vasocottura, soprattutto per cene estive con ospite, vi troverete sicuramente i bene.

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62 Pesce in Vasocottura

(…potete utilizzare tutto il pesce che preferite, l’importante è che abbia la stessa tempistica di cottura. Ad es. evitate polipo e gamberi.) Ingredienti per 4 PERSONE • 800 g pesce edibie • olio aromatico* • pomodorini • peperoncino • verdure a piacere • basilico • acqua • qb sale fino In un soffritto blando saltare le verdure solo per segnarle, quindi porle nel vasetto da cottura con olio aromatico* peperoncino ed erbe aromatiche. Aggiungere un cucchiaio scarso d’acqua, il pesce a tocchetti, il basilico, chiudere e cuocere a bagnomaria a sobbollitura per 15-20 min. Si noterà il cambiamento di colore del pesce. Togliere i vasetti dal bagnomaria e lasciar riposare 10-15 minuti. Asciugare quindi i vasetti, impiattare e consigliare all’ospite aprendo il vasetto di sentirne il primo profumo.

Risotto mediterraneo in vaso Ingredienti per 4 PERSONE • 300 g pesce spada fresco • 300 ml brodo vegetale • 300 g zucchine baby • 100 g pomodorini datterino • 200 g riso carnaroli • 4 cucchiai di olio extra vergine d’oliva • qb basilico Fresco • 1 scalogno • ½ bicchiere di vino bianco secco • sale e pepe q.b. Tagliare a losanghe una fetta di pesce spada fresco, quindi ridurlo a fettine In una padella antiaderente con un filo d’olio segnate le zucchine ridotte a rondelle non cuocendole ma solo quanto basta a segnarle esternamente. Quindi aggiungere il riso e farlo tostare assieme alle zucchine. Bagnare poi con ½ bicchiere di vino bianco secco, far sfumare e togliere dal fuoco. Suddividere il riso e zucchine in 4 barattoli di vetro richiudibili (i vasetti con tappo a vite, a capsula o a chiusura ermetica che normalmente vengono usati per marmellate e conserve), della capacità di circa 500 ml e, possibilmente, con una bocca piuttosto larga; alternando il riso e zucchine con il pesce spada a dei pomodorini tagliati a rondelle spesse quasi mezzo cm e del basilico fresco tritato, in modo da creare una composizione bella da vedere. Versare in ogni barattolo 75 ml di brodo vegetale bollente, preparato in precedenza con sedano, carote, cipolle acqua e sale. Completare con un filo dell’olio rimasto e, infine, chiudere bene i vasetti (senza, però, stringerli troppo, perché poi a tavola sarebbe molto difficile aprirli). Sistemare i vasetti in un tegame e coprirli per 2/3 con acqua calda: riaccendere la fiamma e quando il brodo all’interno dei vasetti comincia a sobbollire, abbassare al minimo la fiamma e cuocere per circa 25 minuti (il riso deve assorbire tutto il liquido): spegnere, togliere i barattoli dall’acqua, lasciarli riposare per circa 10 minuti, asciugare i barattoli e portarli in tavola ancora chiusi. Condire i vasetti con un filo d’olio a crudo una volta aperti.

*(olio aromatico: In un pentolino scaldare in un filo d’olio aromi a piacere, ad es. basilico, rosmarino, aglio, zenzero, mezzo limone ed un po’ di sale. Una volta caldi togliere dalla fiamma e coprire con dell’altro olio a freddo e lasciar raffreddare il pentolino, creeremo così una sorta di infusione, senza però scaldare troppo l’olio aggiunto. Quindi filtrare il tutto e conservare in contenitore ermetico)

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Panta rei culinario La cucina è sperimentazione e contaminazione. L’intera storia dell’uomo è caratterizzata da scoperte dovute al caso. Così pure in cucina, anzi soprattutto. Non va infatti dimenticato che mangiare e bere sono bisogni primari. Come tali sono da sempre al centro delle preoccupazioni umane. Subito dopo aver imparato a domare il fuoco è nata la cucina e da allora è stato un continuo cambiamento, tra innovazioni, riscoperte e reinvenzioni. Mediamente ciascuno di noi utilizza una minima parte delle ricette che conosce (tempo fa avevo letto da qualche parte il 20 per cento) e a

noi italiani va bene, perché siamo il popolo che ne conosce di più. Una delle ragioni che portano a una grande varietà di ricette è da ricercarsi nelle caratteristiche del nostro territorio, che, pur non particolarmente vasto, presenta differenze molto spiccate da Nord a Sud, con conseguente varietà di prodotti e abitudini. Il motivo principale, però, è più probabilmente la posizione centrale nel Mediterraneo, che ne ha determinate le sorti storiche. Da Roma Caput Mundi all’Unità d’Italia sono passati secoli di dominazioni e avvicendarsi d’invasioni, che ci hanno lasciato un patrimonio culturale (e genetico) senza pari al mondo. La contaminazione è alla base della scienza culinaria. Gli “chef” (quelli veri) sperimentano, combinando ingredienti fino a ottenere sapori sbalorditivi. È altamente probabile che le loro creazioni siano originali, anche se non potranno mai sapere se, prima di loro, qualcun altro, magari in una cucina sperduta in un angolo remoto del pianeta, non abbia combinato gli stessi ingredienti. Oggi c’è una forte attenzione alla proprietà intellettuale e alla conservazione delle informazioni e, se fosse dimostrata l’originalità di una ricetta, questa sarà certamente salvaguardata per decenni e forse

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secoli. Tuttavia, quella ricetta sarà provata da altri cuochi, magari dal semplice avventore che l’ha assaggiata nel ristorante dello chef e che cercherà di riprodurla a casa propria.

filosofando


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Tutto “scorre” di bocca in bocca

nata, ma anche della nazione. Forse l’autore della ricetta originale verrà ancora ricordato, ma conDi “bocca in bocca”, temporaneamente vi saranno mille varianti, molte la ricetta comincerà a delle quali assolutamente valide e, per taluni, ancambiare, ad adattarsi che migliori dell’originale. a gusti di altri cuochi. Varcherà non solo i confini della cucina in cui è

di Gaetano Di Blasio

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Prendiamo l’esempio della Pasta alla Carbonara. Non v’è certezza su chi ne sia l’autore né, più in generale sulle origini. Di conseguenza anche la ricetta è incerta: l’unico punto fermo è l’uovo insieme a carne di maiale. Questa è di solito la pancetta, talvolta affumicata, ma per alcuni anche il bacon o il guanciale. Dopodiché esiste una miriade di variabili nel modo di cucinarla. Questa meravigliosa arte della trasformazione e contaminazione delle ricette è sintomatica della natura umana. È il “panta rei” di Eraclito: tutto scorre; il divenire continuo d’ogni cosa. È proprio questo

in cucina


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che dovrebbe spingere uno chef a sperimentare, perché dopo di lui l’esperimento continua, l’innovazione porta all’evoluzione. Lo chef è un artista, che, come tale, consegna i suoi capolavori al mondo. Nel far questo e nel riceverne in cambio fama e gloria, deve accettare che la sua opera venga “fagocitata” dal popolo, a volte involgarita, straniata. Perché è quello che accadrà. Del resto, la cucina è l’espressione massima della multiculturalità. Pensiamo anche semplicemente a quanti frutti e specie vegetali sono radicati nella nostra tradizione, pur provenendo da altri continenti. Il pomodoro, per

esempio: cosa sarebbe la pizza napoletana senza ‘a pummarola? Che pure arrivò in Europa nel 1500 e in Italia nel ‘600. I milanesi, poi, se sono famosi in tutto il mondo per il loro risotto, devono ringraziare in primo luogo Marco Polo, che portò il riso nel nostro Paese e poi i napoletani, che furono i primi, in Italia, a utilizzarlo per scopi ali-

mentari, mentre in precedenza era usato solo nella medicina. Le zucchine (o zucchini, come sono chiamati in alcune regioni italiane e nel resto del mondo) sono un esempio da manuale della contaminazione. Le zucchine, infatti, appartengono alla specie delle cucurbitacee, come la zucca, che furono introdotte in Europa dall’America

Meridionale. Lì, però, la zucchina non esisteva. Si tratta di una mutazione spontanea avvenuta in Italia e più precisamente nel milanese durante l’Ottocento: in pratica, la zucchina è una sorta di Ogm, 100 per cento “naturalizzata” milanese, figlia di mamma immigrata (regolarmente importata) e d’ignoto papà lombardo. In America ci è poi arrivata negli anni ’20 con gli immigrati italiani, chiudendo il ceri chio.

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