Il colore per l’edilizia storica diffusa

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Il colore per l’edilizia storica diffusa Indirizzi di metodo Sergio Tinè

© 2009


PARTE I °

1. L’INTERVENTO SULLE F RONTI ESTERNE DEGLI EDIFICI STORICI : ATTUALI INDIRIZZI DI METODO.

IL RESTAURO INTESO COME TRASMISSIONE AL FUTU RO DELLE ANTICHE TESTIMONIANZE CULTURALI

Sulla base delle recenti acquisizioni intorno alle “testimonianze materiali aventi valore di civiltà”, si è giunti ad una rielaborazione del termine ‘restauro’ ben al di là delle questioni lessicali che hanno contraddistinto il XX° secolo. Secondo la lucida interpretazione di Giovanni Carbonara per restauro, oggi, s’intende “qualsiasi intervento volto a tutelare ed a trasmettere integralmente al futuro, senza cancellarne le tracce del passaggio nel tempo, le opere d’interesse storico, artistico ed ambientale“. Di conseguenza il restauro degli edifici storici [nella più vasta accezione di “insieme di elementi“ e non di “emergenze”] consiste in una “attività rigorosamente scientifica, filologicamente fondata, diretta a ritrovare, conservare e mettere in evidenza, consentendone una lettura chiara e storicamente esatta, le opere che ricadono nella sua sfera di interesse e cioè i beni architettonici ed ambientali, in un campo esteso dal singolo edificio alla città antica, non esclusi il paesaggio ed il territorio” 1 . Per consentire l’integrale trasmissione al futuro di tali opere occorre che il restauro si attui in assenza di alterazioni irreversibili dell’originale, nel pieno rispetto,

Giovanni Carbonara , Per una definizione attuale del restauro in Avvicinamento al Restauro. Napoli 1997. 1

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quindi, “della sostanza antica e delle documentazioni autentiche”. Dato per acquisito, quindi, che “il fine del restauro modernamente inteso è quello di conservare e trasmettere al futuro, nella loro autenticità, le antiche testimonianze culturali” (comprese quelle dovute alla cultura materiale contenute nelle tracce di lavorazioni o in diverse tecniche non più usuali), si deve concludere che tali testimonianze devono essere “preservate nella loro fisicità, lasciate alla vista in tutta la loro evidenza documentaria, non alterate da nuovi interventi”. Una volta che queste testimonianze, in seguito a scriteriati interventi di ripristino (inteso come atto che presume il cammino a ritroso nella storia) o peggio di imitazione (intesa come copia di un presunto stato originale della materia) siano state rimosse, la loro presenza culturale risulterebbe irrimediabilmente cancellata. Infatti, “ciò che ... di consistenza fisica si perde in un'architettura è perduto per sempre. Non c'è alcuna possibile arte magica che possa alimentare la ingenua nostalgia ... di richiamare in vita le componenti perdute del nostro passato. Quest'ultimo sopravvive come testimonianza materica e s'infutura solo in quanto persistenza fisica ... singolare, irriproducibile materia provata, contrassegnata dal tempo e dall'uomo ... Il restauratore opera sul contesto fisico esistente e s'impegna a rispettarlo, conoscerlo e conservarlo. L'esistente costituisce il patrimonio complessivo di una società, la sua insostituibile risorsa, caratterizzata dall'essere comunque singolare, unica, irripetibile ... in una parola irriproducibile” 2 .

M. Dezzi Bardeschi, Restauro : punto e a capo. Frammenti da una (impossibile) teoria, a cura di Vittorio Locatelli. Milano 1991. 2

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MANUTENZIONE E RESTA URO DELLE FRONTI ESTERNE : PRECISAZIONI METODOLOGICHE

Dovendo intervenire sul tema della manutenzione e del restauro delle fronti esterne degli edifici storici, occorre precisare quanto segue : 1) Le fronti esterne degli edifici storici sono parte dell’intero edificio che è, in ogni caso, da considerare come un organismo architettonico dotato di un suo sistema statico costruttivo e di una specifica struttura d'uso funzionante. Non è corretto considerare i lavori di manutenzione delle fronti come restauro del solo “apparato scenico” dell’involucro esterno. 2) Nessun edificio può essere considerato isolatamente come se fosse un elemento estraneo all'ambiente di cui, invece, è parte integrante. La crescita della città storica ha donato ad ogni edificio ed al suo intorno un armonioso equilibrio formale, che deve essere rispettato e mantenuto. Questo equilibrio è definito sia dal rapporto fra l'edificio e l'ambiente circostante che dal rapporto fra lo stesso edificio ed il complesso urbano considerato nel suo insieme. 3) I lavori di manutenzione delle fronti esterne sono interventi che prevedono, in alcuni casi la conservazione o il rinnovamento degli intonaci e delle coloriture, in altri casi la pulizia ed il trattamento dei materiali lapidei ; questi lavori incidono sulla consistenza materica e sulla forma del monumento : si ritiene, quindi, necessario considerare tali interventi come vere e proprie operazioni di restauro (intendendo per tale un “atto critico3, che muove dalla

L'attuale riflessione sul restauro ‘critico', riconosce i suoi principi fondatori nelle opere R. Pane, A. Pica e R. Bonelli, G. Carbonara, con i contributi d'idee da parte di R. Papini e C.L. Ragghianti ; laTeoria di C. Brandi, costituisce un preciso punto di 3

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comprensione delle valenze storiche e dalla considerazione dei valori formali dell'oggetto architettonico”). 4) Considerando la manutenzione delle fronti esterne un vero e proprio intervento di restauro occorre evidenziare il contrasto lessicale e sostanziale con le definizioni dell’art. 31 della Legge 5 agosto 1978 n. 457 4 del tutto inapplicabili al “patrimonio edilizio esistente” ove si consideri che per buona parte questo è costituito da “testimonianze culturali da conservare e da trasmettere al futuro”.

riferimento. Il 'restauro critico' muove dall'affermazione che ogni intervento costituisce un caso a sè, non inquadrabile in categorie (quali i restauri di completamento, di liberazione, d'innovazione, di ricomposizione, di consolidamento, ecc.) si tratta, quindi, di una attività non rispondente a regole prefissate o a dogmi, consistente nel reinventare con originalità, di volta in volta, i criteri ed i metodi d’intervento. L'opera da restaurare, una volta indagata con sensibilità storico-critica e specifica competenza tecnica, suggerirà al restauratore la corretta via da intraprendere. Solo lo stretto legame fra l'attività conservativa e la ricerca storica (artistica e architettonica) può fornire risposte soddisfacenti ai ricorrenti problemi di: reintegrazione delle lacune, rimozione delle aggiunte, controllo ‘critico’ delle tecniche, reversibilità e distinguibilità degli interventi. Legge 5 agosto 1978 n. 457 art. 31. Definizione degli interventi - Gli interventi di recupero del patrimonio edilizio esistente sono così definiti: 4

a) interventi di manutenzione ordinaria, quelli che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e quelle necessarie ad integrare o mantenere in efficienza gli impianti tecnologici esistenti; b) interventi di manutenzione straordinaria, le opere e le modifiche necessarie per rinnovare e sostituire parti anche strutturali degli edifici, nonché per realizzare ed integrare i servizi igienico-sanitari e tecnologici, sempre che non alterino i volumi e le superfici delle singole unità immobiliari e non comportino modifiche delle destinazioni di uso; c) interventi di restauro e di risanamento conservativo, quelli rivolti a conservare l'organismo edilizio e ad assicurarne la funzionalità mediante un insieme sistematico di opere che, nel rispetto degli elementi tipologici, formali e strutturali dell'organismo stesso, ne consentano destinazioni d'uso con essi compatibili. Tali interventi comprendono il consolidamento, il ripristino e il rinnovo degli elementi costitutivi dell'edificio, l'inserimento degli elementi accessori e degli impianti richiesti dalle esigenze dell'uso, l'eliminazione degli elementi estranei all'organismo edilizio: 5


L’art. 31, infatti, prevede per le opere di manutenzione ordinaria e straordinaria sia il generalizzato rinnovamento che la ingiustificata sostituzione delle finiture esterne degli edifici. DIFFERENTI POSIZIONI CONCETTUALI SUL RINNOVO DELLE FI NITURE: RIPRISTINO O RESTAURO ?

Il rinnovamento delle finiture esterne è da mettere in relazione con distinte posizioni concettuali. Alcuni studiosi si riferiscono alla constatazione che le finiture (intonaci e tinteggiature) sono da considerare come uno strato protettivo delle murature, concepite ed eseguite per essere periodicamente rinnovate ; la ricorrente pratica del rinnovare le facciate utilizzando vecchie tecniche o colori identici deve essere, quindi, considerata lecita ed auspicabile trattandosi di legittimi lavori di manutenzione. Altri sostengono che, lungo il corso della sua esistenza, l'edificio ha ricevuto ripetute e diverse finiture, (vere e proprie reintegrazioni cromatiche), operate attraverso periodiche re-interpretazioni delle soluzioni cromatiche precedenti. Essendo possibile, mediante l'analisi stratigrafica degli intonaci, individuare ogni singolo strato pre-esistente, è possibile operare la scelta del colore più rappresentativo. La tendenza è quella di riferirsi alla coloritura originaria, la prima, in ordine di tempo, che sia possibile identificare. Sul piano critico, invece, “Il rifacimento di una tinta non è un fatto meccanico, di passiva e quasi automatica ripetizione, ma un atto che richiede una partecipazione attiva alla ricomposizione dell'oggetto ... oggi, con tale procedimento, si vorrebbe riaprire a freddo un processo creativo, che non realizza un restauro, vale a dire un intervento su base critica, ma genera invece un ripristino, il quale per il suo carattere ripetitivo si apparenta alla 6


sostituzione su criterio stilistico e produce in realtà un'aggiunta, la quale storicamente costituisce un falso” 5. LA RICERCA DEL COLORE ORIGINALE E DELLO STATO ANTICO DELLA MATERIA: UN INTENTO ANTISTORICO ED ANTIS CIENTIFICO

Il rinnovamento riferito ad un presupposto colore originale 6 è da considerare a tutti gli effetti “un ripristino filologico e come tale teoreticamente impossibile, dato che sotto il profilo scientifico lo stato originale della materia antica si deve considerare irraggiungibile” 7. In ogni caso il rifacimento delle fronti esterne cancella le stratificazioni cromatiche accumulatesi nei secoli eliminando le tracce di quello che “la nostra coscienza critica considera come un valore storico e figurale. L'errore risiede nel ritenere possibile di riavere la forma antica e il suo colore come se il tempo non fosse trascorso, considerando cioè il tempo storico come reversibile”. Le manutenzioni relative agli intonaci ed alle coloriture, da effettuare sulle “testimonianze culturali da conservare e trasmettere al futuro”, dovrebbero, più correttamente, consistere in lavori di piccola entità e di ciclica esecuzione che, tesi a preservare il bene dall’inevitabile degrado legato al tempo ed all’uso, non comportino mutamento alcuno

G. Carbonara. Il trattamento delle superfici come problema di restauro. In Avvicinamento al restauro op. cit. 5

Lo 'stato antico' è irraggiungibile anche in considerazione delle difficoltà di recuperare attendibilmente le tecniche esecutive premoderne, tanto sulla base di ricerche dirette o documentarie, iconagrafiche ed archivistiche, quanto sulla ‘memoria’ dei mestieri tradizionali. Risulta poi molto strana la pretesa di restituire all'antico le superfici esterne degli edifici (la 'pelle' con i suoi colori) separandole da quelle interne, dallo 'spazio' architettonico vero e proprio, dalle finiture e dalle decorazioni. sino ai pavimenti. agli infissi. agli impianti e via dicendo. G. Carbonara. Op. cit. 6

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G. Carbonara. Op. cit. 7


per le caratteristiche originali delle unità edilizie interessate 8 . Da quanto precedentemente affermato “ne discendono .. le negazioni dell'ambientamento, dei completamenti in stile, di tutte quelle operazioni in cui, ripetendo delle cose già note, si camuffa quasi sempre l'aggressione «colta», e quindi più difficile ad individuarsi, al patrimonio architettonico ambientale urbano e paesistico. Ci sembra poi che da questo discenda per i centri antichi il rifiuto alle tentazioni per i maquillages architettonici a fini turistici o per la loro museificazione, nella quale gli edifici, trasformati in scene urbane, diventerebbero sfondo, come nei tableaux vivants, alle recite degli abitanti“ 9 .

G.Rocchi in ‘Istituzioni di restauro dei beni architettonici ed ambientali‘ Milano 1990, definisce le opere di 'manutenzione ordinaria' «quei piccoli ma quasi quotidiani interventi come riparazioni di tetti, canne fumarie, grondaie, tubi pluviali e colonne di scarico, riparazioni delle colonne di distribuzione dell'acqua, del gas, dell'energia elettrica; riparazioni isolate ai serramenti ed agli infissi in genere, nonché riparazioni e sostituzioni di maniglie, chiavistelli, cremonesi, vetri, nei locali di uso comune, sostituzione di apparecchi e dotazioni in genere dovute a normale usura». I lavori di 'manutenzione straordinaria' invece, riguardano «gli interventi periodici come ridipintura di infissi in legno (in media ogni cinque anni) e di opere 8

in ferro (in media ogni dieci anni), con sostituzione di parti anche di intelaiature e di singoli serramenti, ridipintura dei vani scala nonché riparazioni per gravi danni delle coperture e terrazze, delle grondaie e dei tubi pluviali, rifacimento di grandi tratti di intonaco o di rivestimenti, ecc.». da S. Boscarino, Metodi operativi del restauro. Op. Cit. In proposito ci rammenta G. Carbonara che, imboccata la via del ritorno al passato è difficile fermarsi; tutto 'deve' per coerenza muoversi all'indietro, l'architettura e, perché no, le funzioni, gli stessi suoi abitanti, il loro abbigliamento, i costumi di vita. È la strada che si colloca fra turismo, folklore e Disneyland, paradossalmente indicata da alcuni 'restauratori' nord-europei. 9

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2. IL COLORE DEGLI EDIFICI STORICI E LA CONSERVAZIONE DELLE SUPERFICI.

Il tema del rifacimento delle coloriture e degli intonaci ha dato origine negli ultimi anni ad un acceso dibattito. La pratica professionale ha assunto due differenti atteggiamenti, diretti a legittimare la validità dei criteri d’intervento rispettivamente adottati. IL RIPRISTINO DEL COLORE ORIGINALE ED IL RITORNO ALL’ ANTICO SPLENDORE

Il primo si basa sul presupposto tecnico che le pitture e gli intonaci sono da sempre stati considerati come uno strato di protezione delle murature, concepiti ed eseguiti per essere periodicamente rinnovati. Da questo principio deriva la diffusa convinzione che il restauro delle facciate, eseguito conformemente alle tecniche tradizionali e con i colori originali, deve essere considerato lecito e coerente, dato che si tratta d’un “ripristino legittimo, eseguito attraverso opere di normale manutenzione”. Seguendo questo principio tuttavia non si realizza un corretto restauro, inteso come un intervento su base critica, ma si concepisce invece un vero e proprio ripristino che, per il suo carattere ripetitivo, diviene opera di pura sostituzione basata su criteri stilistici che attua in effetti un’aggiunta, che, dal punto di vista critico costituisce un falso. Sul piano storico-critico questa impostazione non può essere in alcun modo accettata. “Il rifacimento di una tinta non deve essere considerato come un fatto meccanico, di passiva ed automatica ripetizione, ma un’azione critica che richiede la partecipazione attiva alla ricomposizione dell’opera da 9


congiungere all’antico.” 10

spontaneamente

ed

armonicamente

Il secondo atteggiamento si basa a sulla riflessione che, attraverso il tempo, sull’edificio sono state eseguite numerose e diverse opere di coloritura (vere e proprie reintegrazioni cromatiche), operate attraverso periodiche reinterpretazioni delle precedenti. Essendo oggi possibile restituire, tramite l’analisi stratigrafica degli intonaci, la successione delle singole coloriture al fine d’individuarne ogni singolo strato/colore, la logica conseguenza inviterebbe ad operare ripristinando la coloritura originaria, ovvero la prima, in ordine di tempo, che oggi siamo in grado d’identificare. Ma quel colore che abbiamo identificato come l’originale di un’opera, è concettualmente, ancor prima che praticamente, impossibile da imitare. Il presunto stato originale, ovvero quello stato antico della materia spesso definito poeticamente come il“ritorno all’antico splendore”, è uno stato irraggiungibile. Non saremo mai in grado, infatti, di recuperare attendibilmente le tecniche esecutive premoderne solo sulla base di schematiche ricerche documentarie, iconografiche ed archivistiche ed in assenza della “memoria storica” insita nella manualità propria dei mestieri tradizionali. IL RESTAURO DELLE FRONTI ESTERNE INTESO COME RICERCA CRITICA DEL MIGLIORE E FISIOLOGICO “STATO ATTUALE” DELLA MATERIA ANTICA.

Possiamo esclusivamente limitarci nel cercare il migliore e fisiologico stato attuale della materia antica e curare il

Giovanni Carbonara. Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti. Cap II Il restauro delle superfici come problema di restauro. Liguori Editore 1997 10

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risanamento e la corretta manutenzione di ciò che ci è pervenuto dal passato, eliminando o limitando gli effetti delle patologie in atto. Il problema, quindi, non ha un carattere esclusivamente tecnico ma soprattutto critico, come ogni altro problema di restauro. È quanto ci ha chiarito, almeno da un cinquanta anni a questa parte, la più seria riflessione in materia. La fiducia nel restauro inteso come ripristino ha guidato, anche se con diverse perplessità, i nostri predecessori del XIX°, ma per l’attuale coscienza storico-critica le cose stanno diversamente. E’ lecito chiedersi, ad esempio, quale poteva essere il colore originale d’un edificio nato in diverse fasi costruttive e costruito per parti, con lavori durati decenni ed a volte interi secoli. Il colore che cerchiamo era forse quello adottato nel momento in cui se n’è completata la prima parte secondo il progetto d’origine, oppure quello di ogni successiva aggiunta e modifica, magari in base a progetti ormai differenti, o quello in cui la fabbrica ha raggiunto la sua conformazione definitiva ? La ricerca dello stato originario è un atteggiamento inaccettabile sotto l’aspetto storico critico. Si tratta in ogni caso di eseguire un ripristino filologico teoreticamente impossibile. Anche sotto il profilo scientifico lo stato originale della materia antica deve considerarsi irraggiungibile. La macchina del tempo, infatti, si può utilizzare solo ed esclusivamente all’interno dei romanzi di fantascienza. Occorre anche riflettere che il rifacimento delle fronti esterne degli edifici cancella l’accumulo cromatico stratificatosi nei secoli sulle superfici esterne, eliminando le 11


tracce di quello che la coscienza critica considera come un valore aggiunto di tipo storico e figurale. L’errore concettuale avviene quando si ritiene possibile il ritorno alla forma antica ed al suo colore originario cristallizzando la storia della costruzione come se il tempo non fosse mai trascorso e considerando reale la possibilità che il tempo storico in qualche modo possa divenire reversibile. ORIENTAMENTI E INDIRIZZI DI METODO

Da queste riflessioni deriva che gli orientamenti accettabili per l’intervento sulle superfici intonacate degli edifici storici sono due. - Il primo, empirico e fondato sull’esperienza, riguarda i casi nei quali sia possibile esercitare il massimo rispetto della conservazione, limitando le operazioni al minimo indispensabile (principio del minimo intervento). Ci si riferisce ai casi in cui, essendo l’intonaco ben conservato, si decide di lasciarlo così come è, senza rinnovarne il colore, al fine di mantenere le tracce del suo passaggio nel tempo; in alternativa, nella circostanza in cui siano presenti sia l’intonaco che la vecchia tinteggiatura, si decide di provvedere esclusivamente a consolidare, risarcire ed a fissare il colore esistente. - Il secondo indirizzo di metodo riguarda i casi nei quali risulta indispensabile, per un complesso d’incontestabili motivi tecnici, rinnovare la coloritura delle fronti esterne. In questi due casi l’intervento non deve assumere atteggiamenti “competitivi o prevaricanti” rispetto alla figurazione nella quale ci s’innesta; non può risultare imitativo o mimetico nei riguardi dell’immagine 12


architettonica, poiché, seguendo tali comportamenti, si rischia di provocare una grave alterazione ai valori storici ed artistici sia della singola costruzione che del contesto urbano. IL NUOVO COLORE COME AGGIUNTA CRITICA

Il nuovo colore, quindi, non deve imitare quello originario, od uno fra gli altri che lo hanno seguito, dato che esso non si colloca in sostituzione dell’una o dell’altra tinta; il suo inserimento non è rivolto a riempire il vuoto cromatico registrato sull’intonaco, ma a costituire un’aggiunta critica, cioè l’unico apporto che l’odierna cultura storico-artistica può legittimamente recare alla soluzione del problema. “Si tratta d’un intervento che non è fondato su di una scelta di gusto o filologica, ma che deve essere il risultato di un’analisi e di un giudizio critici, perché il restauro è un’ipotesi critica, non una creazione sovrapposta od integrativa dell’opera architettonica.” 11 Inoltre il trattamento delle antiche superfici architettoniche non può essere studiato isolandolo dalla più generale riflessione sui principi del restauro. È certamente vero che su tali superfici si accanisce l’azione degli agenti atmosferici e che esse erano in passato sottoposte a continui rifacimenti. Tutto ciò non significa tuttavia che se ne possano trascurare i valori di autenticità e che si debba procedere automaticamente al loro sistematico ed acritico rinnovo. Si tratta di testimonianze che meritano d’essere conservate per ragioni storiche ed estetiche. Le superfici delle costruzioni storiche vanno difese come se si trattasse della

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Giovanni Carbonara. Op.Cit. 13


superficie di un quadro; le tecniche d’intervento potranno essere diverse ma univoci dovranno essere gli indirizzi di metodo, i principi e l’atteggiamento conservativo.

3. L’EDIFICIO E LA CITTÀ STORICA: VERSO UN ARM ONIOSO EQUILIBRIO STORICO/FORMALE

Le questioni di restauro relative alle coloriture esterne, diventano più complesse e difficili, quando si riconduce ogni singola costruzione al suo contesto; nessun edificio, infatti, può essere considerato isolatamente, avulso dall’ambiente in cui si trova, ignorandone la sua collocazione all’interno dell’ambiente o del tessuto urbano. Le secolari vicende edilizie hanno donato alla costruzione ed al suo intorno un armonioso equilibrio storico/formale, che deve essere rispettato e mantenuto. Questo equilibrio risulta definito criticamente da due relazioni: -

dal rapporto del singolo edificio con l’ambiente circostante, esercitato dall’osservazione diretta e contemporanea della costruzione e degli elementi edilizi del suo intorno;

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dal rapporto fra lo stesso edificio ed il complesso urbano preso nel suo insieme.

Il rinnovo acritico del colore porta ad alterare anche il colore complessivo delle città, adattatosi ed uniformatosi, come siamo abituati a vederlo, sul finire del secolo scorso, a conclusione di tutto il ciclo architettonico pre-industriale. Questo colore costituisce l’essenza cromatica dei centri storici, frutto di diverse stratificazioni. Il nostro intento deve essere quello di tutelare e tramandare al futuro l’intero patrimonio storico-artistico, 14


in tutta la sua ricchezza temporale, dall’antichità all’attualità, nelle condizioni in cui ci è stato affidato dalle generazioni che ci hanno preceduto. Il compito del restauro non è quello di riproporre le fasi edilizie più antiche. I PIANI DEL COLORE COME INTENTO DI RESTITUIRE LA CRO MIA DELL'INTERA CITTÀ O DI SUE PARTI AD UNA PRECISA DATA.

Il problema del colore di una fronte esterna si pone anche, per sua natura, come una questione eminentemente urbanistica, condizionata dall’ambiente circostante. Seguendo questa logica non può esistere un colore che rappresenti lo stato originale della città che, per sua natura, è organismo in continua trasformazione. La città non consiste nella semplice sommatoria di singoli edifici ma rappresenta qualcosa di più. Non ha quindi nessuna giustificazione critica l’intento di restituire ogni singola costruzione, ogni quartiere o settore urbano al suo stato originario. Questo intento, tipico di alcuni “Piani del Colore” rischia di rappresentare esclusivamente un'operazione astratta e riduttiva, perché la città, edificio dopo edificio, è stata sottoposta a continui cicli di manutenzione e di aggiornamento dei colori, mutando il suo aspetto nei secoli, adeguandosi alle esigenze delle diverse epoche, ma conservando sempre ed in ogni caso la sua identità. Inoltre, non ha nessuna giustificazione critica l’intento di restituire la cromia dell'intera città o di sue ampie parti ad una precisa data, rigidamente predeterminata soltanto perché in quel periodo la città venne a delinearsi nel modo per noi più qualificato, nobile o completo.

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Alcuni studiosi, opponendosi ai piani del colore, hanno fatto notare che, in considerazione della dimensione urbanistica del problema, esisterebbero due soluzioni: - riuscire a cambiare d'un colpo il colore dell’intera città (cosa decisamente impossibile ed improponibile) - oppure, operando con una serie di continue e forzate opere di rinnovamento dei singoli pezzi, si rischierebbe di giungere ad intervenire sull'ultima casa solo quando la prima (interessata al piano del colore) avrà nuovamente bisogno d'un intervento manutentivo. Il tutto senza mai vedere realizzata quella immagine predeterminata ed extratemporale che ci si era prefissi di raggiungere 12. MOTIVI PER CUI I PIA NI DEL COLORE NON RISPETTANO I PRI NCIPI DEL RESTAURO CRITICO

I piani del colore si pongono in opposizione ai principi del restauro. Il restauro, nell’accezione contemporanea, non può essere inteso come ripristino o restituzione allo stato antico ma solo ed esclusivamente opera di conservazione. Tutto ciò non significa disconoscere i problemi di rimozione delle aggiunte o di reintegrazione delle lacune, che del restauro, criticamente inteso, fanno parte a pieno titolo. Restauro critico capace di dare, caso per caso, una corretta risposta ai diversi problemi in assenza di pregiudizi o di dogmi di qualsiasi genere quali: il ripristino, la ricerca a tutti i costi del più antico, la mera conservazione, la libera e

Giovanni Carbonara. Avvicinamento al restauro. Teoria, storia, monumenti. Cap IV Restauro e colore della città. Liguori Editore 1997 12

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disinvolta progettazione moderna dell'antico, l'enucleazione dei soli problemi di recupero economico dei beni culturali. Rifarsi ai principi del restauro critico vuol dire: - avere in primo luogo chiara coscienza che ogni restauro è un’ipotesi critica e non una certezza filologica tradotta univocamente in rifacimento ex novo, in restituzione alla maniera antica o in copia; - rispetto dei segni lasciati dal trascorrere del tempo sulle costruzioni, anche su quelle del secolo scorso o dei primi decenni del nostro secolo, giunte ormai alla soglia convenzionale, secondo le vigenti leggi, della loro storicità (50 anni); - rifiuto di ogni tipo di rinnovamento che cancella le tracce delle vicende passate; - convinzione che questo modo d’operare è atto legittimo del nostro tempo (il terzo tempo di Brandi), espressione sempre attuale e null'altro. Ogni restauro, su qualunque forma espressiva (pittura, scultura, architettura) si eserciti, deve assumere, nel pieno rispetto delle valenze conservative, anche il significato di attenta reinterpretazione dell'opera; quasi come reinterpretativa è l'esecuzione d'un brano musicale dimenticato o riscoperto dopo anni di abbandono, oppure la traduzione d'un testo poetico. Reinterpretazione e mai imitazione o, peggio, finzione e contraffazione dell'antico. Da qui discendono, oltre ai princìpi guida del restauro, anche precise conseguenze di metodo. In primo luogo la necessità di studiare a fondo, preventivamente, la costruzione in tutti i suoi aspetti (urbanistici, architettonici, costruttivi, decorativi, funzionali

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ecc..) per trovare di volta in volta la corretta soluzione dei problemi che esso pone. Questa potrà essere, in certi casi, la sola conservazione, in altri casi la parziale reintegrazione o liberazione, la derestaurazione (nel casi di interventi recenti eseguiti male), tenendo sempre conto del fatto che dobbiamo conservare alla città, oltre alle sue memorie, la vita, coniugando intelligentemente le istanze, spesso contrastanti, della tutela e dello sviluppo tecnologico.

4. LA MANUTENZIONE DELLE FRONTI ESTERNE ED I TEMI DEL RESTAURO DEL COLORE

Il problema del restauro del colore assume un particolare significato all’interno del più ampio tema del restauro architettonico. E’ un problema di restauro a tutti gli effetti, da affrontare con unità di metodo e pluralità di tecniche. In tal senso, coerentemente con la linea del restauro critico-conservativo, andrebbe concretizzato in una pratica attenta alla più rigorosa tutela materiale e, nel contempo, ad un auspicabile recupero d'immagine propria dell’edificio. Fino agli anni Cinquanta dello scorso secolo, la questione non ha suscitato particolare attenzione, considerata la naturale continuità col passato dei metodi e delle tecniche allora in uso (tinte a calce, lavorazioni e intonaci tradizionali diffusi anche nell'edilizia corrente). Nel corso degli anni Sessanta, mentre in Europa l'attenzione al problema storico del colore sulla scia d'una tradizione risalente all'Ottocento, risultava ben chiaro, in 18


Italia il problema era sostanzialmente trascurato. Nel corso di quegli anni, i nuovi materiali organici (quarzo plastico, resine acriliche ecc.) suscitarono grandi aspettative. Ma numerosi interventi rivelarono subito gravi insufficienze d'ordine tecnico accanto ad errori di tipo storicointerpretativo. Nel corso degli anni Ottanta si è cercato di correre ai ripari. Si è avuto un grande impulso verso specifici studi storicotecnici sulle finiture e sulle coloriture degli edifici storici che hanno portato sia al recupero di materiali e di lavorazioni tradizionali (estinte o quasi nella pratica corrente e spontaneamente compatibili con l'antico), che a più puntuali specifiche tecniche sui moderni materiali per il restauro. Tuttavia gli esiti continuavano a non essere soddisfacenti sia per il mancato approfondimento concettuale, che per la confusione venutasi a creare fra motivazioni tecniche e ragioni critiche. Si tratta di problemi ardui per almeno due tipi di considerazioni: - una prima, squisitamente tecnica, per rispondere alla domanda su quale tipo di materiali e colori usare nel restauro, se moderni o tradizionali, su quale genere di finiture e di lavorazioni specialistiche; - un’altra, più profonda, di tipo concettuale, per rispondere al quesito sui limiti e sulla legittimità di ogni intervento. Se esso può essere considerato in sé o richiede un più generale rinvio alle questioni di restauro architettonico nel loro insieme; su ciò che si debba intendere per restauro, manutenzione, conservazione o ripristino; sulla reale utilità operativa della ricerca filologica degli antichi colori e via dicendo. 19


IL PROBLEMA TECNICO

Anche nel settore tecnico si ripropone la perplessità sull’utilizzo degli intonaci prodotti con sistemi tradizionali. Ci si chiede, infatti, come sia possibile oggi, alla luce degli attuali sistemi produttivi per lo più industrializzati, riprodurre le tecniche di produzione e di posa proprie delle varie epoche a cui di volta in volta s’intende riferirsi (il presunto stato della materia antica). PERPLESSITÀ SULLE INFORMAZIONI ESTRATTE DAGLI ANTICHI TESTI E DAI CAPITOLATI TECNICI

Diverse motivazioni inducono queste perplessità. In primo luogo: - non possiamo riporre un'assoluta e completa fiducia nelle prescrizioni dei trattatisti. Fiducia, in genere, ben riposta, ma, a volte, tradita in relazione ad errate indicazioni originali o a probabili errori di trascrizione dei testi. Spesso,infatti, le informazioni pervenivano ai trattatisti con molte imprecisioni o con ampie ed inesatte interpolazioni, specialmente se, come spesso accade, non si tratta di testi originali ma di traduzioni o di copie medievali; - la tendenza degli artigiani (particolarmente in epoca rinascimentale) a rendere poco accessibili le loro tecniche (considerate veri e propri segreti di bottega); da ciò derivano le notevoli difficoltà per i trattatisti, nel descrivere le effettive tecniche esecutive e nell'indicare e specificare le esatte proporzioni che i vari componenti avevano nell'impasto o per comprendere il tipo di trattamento superficiale, che, certamente eseguito, non viene per nulla, descritto. - l’eventuale precisione nella descrizione delle lavorazioni desunte dai conteggi particolareggiati presenti in alcuni capitolati tecnici non saranno mai in grado di svelarci le

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tecniche di posa e, soprattutto, la maestria, la gestualità e la manualità del posatore. PERPLESSITÀ SULLA RIPRODUCIBILITÀ DEGLI ANTICHI SISTEM I PRODUTTIVI

In secondo luogo (e non certo per minore rilevanza) anche nell’ipotetico caso in cui le informazioni pervenuteci siano sufficientemente corrette e dettagliate, non saremo mai in grado di operare utilizzando le materie prime ed i semilavorati descritti nei trattati per i seguenti motivi: - l’odierno sistema produttivo (nel nostro caso la calce sia in polvere che in grassello) non è per nulla paragonabile a quello tradizionale. Le differenze sostanziali consistono: 1. nel sistema di cottura del calcare che originariamente avveniva all’interno di appositi forni alimentati a legna ad opera di esperti “maestri di calcina”. Inoltre l'approvvigionamento del materiale, che avveniva direttamente in cava, era affidato a maestranze specializzate; 2. nelle modalità di selezione dopo la cottura. Il calcare cotto veniva selezionato in relazione al differente grado di cottura dovuto al diverso posizionamento all’interno del forno. L'attenzione posta nella scelta del calcare aveva come fine il controllo qualitativo della produzione e l'impiego differenziato dei tipi di calce ottenuta. Ricorreva, infatti, frequentemente la distinzione fra la calcina forte, impiegata prevalentemente nelle malte di allettamento murario e la formazione degli intonaci, e la calcina dolce, usata per il confezionamento dei tonachini, delle finiture e delle scialbature. 3. nei differenti tempi di spegnimento e di stagionatura; I risultati ottenuti con lo spegnimento e la stagionatura in fossa o in appositi calcinaroli (dai 6 21


mesi fino ai 30 anni, come ci riferisce Vitruvio) non possono essere paragonati a quelli ottenuti industrialmente utilizzando una quantità standard d’acqua (stechiometrica). - gli attuali tempi di realizzazione e di consegna delle opere (vedi cronoprogramma dei lavori, incentivi per la consegna anticipata, ecc.) privilegiano la scelta di specifici materiali e di tecniche di posa. Un esempio fra tanti: la sempre maggiore diffusione dell’uso del cemento, come legante delle malte per intonaco, è motivata principalmente dai tempi rapidi di presa e d’indurimento; - la specifica professionalità dei diversi operatori, anche se empirica, ha consentito alle costruzioni antiche inimitabili prestazioni in termini di durata ed affidabilità. QUALI MATERIALI PER IL RESTAURO ?

Per concludere possiamo affermare che anche sotto l’aspetto tecnico è più corretto riferirsi al “migliore e fisiologico stato attuale della materia” ovvero ai quei materiali ed a quei sistemi produttivi odierni che, in seguito ad una specifica ed approfondita ricerca, sono in grado di assicurare prestazioni simili a quelle degli intonaci tradizionali. Sconsigliate ormai le cosiddette pitture traspiranti, in realtà semplici mezze tempere, perché poco legate e poco consistenti; esclusi i rivestimenti plastici (quarzo plastico ecc.), esteticamente intollerabili e dannosi per il fatto di modificare il regime termo-igrometrico delle murature, non consentendo la naturale traspirazione dei muri, fra i sistemi di coloritura migliori restano: - le tradizionali pitture a calce, che presentano indiscutibili pregi estetici e di compatibilità chimicofisica-meccanica con gli intonaci. Queste tuttavia non resistono a lungo alle piogge acide, particolarmente 22


aggressive nelle nostre città inquinate, e richiedono comunque l’uso di un additivo organico. Spesso queste pitture non possono neanche essere applicate perché sull'intonaco è stata precedentemente applicata un'idropittura a base di resine, anche se parzialmente rimossa. In questi casi sarebbe necessario il totale rifacimento degli intonaci, rimedio peggiore del male, in quanto comporta l'irreversibile alterazione dell'originalità e dell'autenticità della costruzione. - le pitture ai silicati prodotte per la prima volta in Germania nel secolo scorso, che non modificano il regime termo-igrometrico ma si legano perfettamente all'intonaco (come quelle a calce) se applicate sugli intonachi freschi. Inoltre non riempiono le porosità dell'intonachino e consentono la permeabilità al vapore d'acqua delle murature. Sono abbastanza complesse da applicare e vanno posate a pennello e non a rullo. Non si possono mettere in opera, in assenza di specifici trattamenti, su intonaci nuovi o precedentemente dipinti a calce; - le pitture a base di resine silossaniche da applicare preferibilmente con il sistema della “velatura”. Con questa tecnica si evita il fastidioso “effetto cartone” che distingue la maggior parte degli edifici tinteggiati, la cui superficie esterna sembra foderata con una sorta di carta coprente; con la velatura si evita anche ogni effetto serico delle superfici, che offusca la trasparenza tipica delle tinteggiature tradizionali invecchiate. Questa pittura si può applicare sopra una mano di grassello di calce dato come sottofondo, in successive stesure molto velate. Bisogna inoltre osservare che per ottenere effettivamente, con i prodotti presenti nel mercato, il tono delle tinte 23


tradizionali proprie delle diverse regioni italiane, è indispensabile che si recuperi l'uso delle terre coloranti nostrane, sostituendole a quelle commerciali estere (generalmente tedesche e olandesi) anche di buona qualità ma pur sempre estranee al nostro ambiente. Concludendo, le buone qualità d'una tinta di restauro devono essere le seguenti: - la compatibilità chimico, fisica e meccanica con il supporto (costituito da intonaci tradizionali in grassello di calce, sabbia o pozzolana) ottenuta impiegando quale base il latte di calce mescolato con terre naturali (e non con i moderni ossidi) evitando poi i leganti sintetici, a meno di modeste quantità di resina da impiegare come agente stabilizzatore in alternativa ai tradizionali additivi proteici; - la compatibilità estetica. Se si guarda al cammino fatto in questi ultimi anni, si vede che il problema tecnico è stato ben impostato e sostanzialmente risolto. Le Soprintendenze hanno condotto una giusta battaglia in favore dei materiali tradizionali o comunque compatibili e quindi, anche nell'ambiente professionale, imprenditoriale e della produzione, questi si sono ormai aperti una sicura strada. 1

IL PROBLEMA ESTETICO

Molto più complesso ed ancora lontano da una convincente soluzione è, invece, il problema estetico. Al di là dei materiali utilizzati un dato di fatto incontrovertibile è costituito dal fatto che per il comune osservatore (ed anche per molti addetti ai lavori) le facciate ridipinte, dopo la rimozione dei ponteggi, costituiscono spesso un motivo di profonda delusione.

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Il giudizio, in verità non dovrebbe esser dato subito, ma solo dopo qualche anno, una volta che il tempo ha compiuto il suo lavoro di maturazione e di attenuazione dei colori rinnovati. Tutto ciò è vero in astratto ma occorre precisare che la città deve essere vissuta, godendone l’immagine, quotidianamente senza che quanto cade sotto i nostri sensi possa esteticamente essere rimandato a futura memoria. Resta inoltre da considerare che la diffusione dei lavori di manutenzione ci sottopone quotidianamente ad immagini architettoniche snaturate, falsate o comunque ancora immature, senza che la speranza del riequilibrio venturo possa realmente consolarci. Quanto detto sopra riguarda l'aspetto visivo e figurativo del problema (in altre parole l'insostenibile confronto fra le vecchie facciate, pur dilavate dal tempo, e quelle di restauro, forzate in una novità e modernità a-temporale che non compete loro). Da un punto di vista storico documentario, invece, il problema si presenta più grave perché la coloritura generalizzata o il totale rifacimento degli intonaci, occulta e distrugge antiche testimonianze costruttive ed artigianali, espressioni d'una manualità perfezionatasi nel corso dei millenni, d'una cultura materiale che non è oggi lecito seppellire sotto le nostre moderne reinterpretazioni. Quasi sempre la scelta di operare una generale tinteggiatura non è dovuta a vere ragioni tecniche di opposizione al progredire dei danni di superficie. Spesso sarebbe sufficiente un'opera di accorta protezione e di vero e proprio restauro delle parti ammalorate, rimuovendo non tanto le antiche pitture ma le cause proprie dei danni (cornicioni malandati, pluviali occlusi o rotti, difettosi

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sistemi di smaltimento a terra delle acque meteoriche, ecc.). Così facendo avremmo già assicurato ai vecchi intonachi qualche altro decennio di vita, nel rispetto della loro storicità, autenticità e di quei valori estetici, aggiunti dal tempo, che definiamo patine. Negli anni più recenti, come s'è detto, prevale la pratica dell'intervento di ricoloritura, guidato da una scelta di ripristino, spesso fondata su scelte filologiche, che mira a riportare l'edificio al suo vagheggiato stato originale, conferendogli comunque una modernità ed una freschezza che non gli competono. Qualità queste che lo assimilano ad un’opera attuale o ad una copia in stile, non costruzione originale, vecchia di secoli. In alcuni casi, dopo avere riportato a nuovo l’intero fronte, se ne invecchiano artificialmente le superfici, credendo di porre rimedio agli effetti d'accentuata novità dei materiali. In ogni caso si tratta sempre di un'inconscia volontà di abbellimento e di aggiornamento dell'oggetto antico, molto lontana dal restauro e dalle sue istanze conservative, o di un atteggiamento che mira non a mantenere ma a restituirci edifici finto antichi che rischiano di non interessare più né l'arte, né la storia dell'architettura, né la stessa tecnica edilizia. Le poco gradevoli sensazioni che ci accompagnano percorrendo una città antica pesantemente ripristinata nei suoi colori possono essere ricondotte a cinque tratti prevalenti 13 : - colpisce l'assuefazione o, meglio, la familiarità che ognuno di noi ha sviluppato rispetto ad un'immagine

Renato Bonelli Colloquio su “Il colore della città”, diretto da G. C. Spagnesi presso l'Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1988 13

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tradizionale, che si vorrebbe rispettata e duratura nel tempo, per ragioni più psicologiche che di giudizio estetico; - disturba la singolarità degli elementi cromaticamente rinnovati rispetto all'insieme ambientale o urbano; - colpisce la circostanza che, il più delle volte, il rinnovamento è limitato alle fronti e non tocca l'intero organismo architettonico; si creano in tal modo effetti di estranietà particolarmente violenti; - offende l'a-temporalità che discende da tali interventi. Si perde, in altre parole, il senso del tempo trascorso, che dovrebbe segnare ogni opera antica; queste, inoltre, si rendono disponibili alle personali predilezioni del restauratore e possono venir tinteggiate in modo totalmente diverso; - induce, infine, un giudizio negativo, sulla qualità figurativa e sull'effetto complessivo delle coloriture di restauro. INDIRIZZI DI METODO

Laura e Paolo Mora e Paul Philippot, 14 hanno affermato che occorre innanzitutto mantenere e conservare ciò che esiste, riducendo al minimo indispensabile l'intervento, sapendosi fermare addirittura “prima del momento giusto”. Non è lecito rivestire di nuova pelle un antico edificio e, per rimediare ai guasti, si possono seguire tre strade: - conservare l'intonaco, risarcendolo senza ridare il colore, anzi valorizzando l'effetto cromatico del supporto;

P.Mora, L.Mora in : Le superfici architettoniche, materiale e colore. Il colore nell’edilizia. 1984 14

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- sull'intonaco risarcito applicare a spruzzo una velatura; - riprendere le cromie originali riducendo però la brillantezza dei colori con patine trasparenti. Si tratta di note pratiche che ben rispondono alla possibile casistica, quando la si voglia affrontare nel rispetto dei criteri teorici brandiani. A questo punto è necessario, per completezza, aggiungere e richiamare altre considerazioni. Il diffondersi, in questi ultimi anni, della moda del rinnovo cromatico delle facciate, giunta improvvisamente a costituire quasi una prassi obbligata, spesso imposta dagli enti pubblici, trova spiegazione nella: - volontà d'affermazione e di prestigio con il ricorso a formule di facile definizione e dai risultati vistosi; - ricerca di un impulsi economici di carattere decisamente extra-culturale; - affermazione della creatività, più o meno larvata e forzata del restauratore; - visione distorta o parziale del tema, che va inteso, al contrario, sempre in termini di organismo architettonico e di contesto urbano; - incapacità a valutare correttamente il rapporto edificio-città, che è l'unico in base al quale si può differenziare l'architettura dalle altre arti, anche sotto l'aspetto del restauro. Il rapporto edificioambiente può essere inteso in termini visuali non escludendo tutte le implicazioni di tipo morfologico, psicologico, ecc. Bisogna rendersi conto che le opere di “manutenzione”, non possono essere considerate automaticamente neutre, 28


innocue o naturalmente conservative. Queste opere tendono sempre a modificare l'oggetto, ad alterarne la materia e la forma e, con queste, la storicità. La manutenzione va quindi tenuta sotto stretto controllo, limitandone l'azione alterante ed esaltandone le valenze conservative. Attraverso il giudizio critico e l'interpretazione storica dell'oggetto si può affrontare il problema del colore, valutando di volta in volta la specificità della circostanza, distinguendo il dato storico dal mero fatto di cronaca, scegliendo attentamente caso per caso, senza aderire a tesi preconcette. In certe condizioni potrà essere necessario rimuovere o ricoprire con nuovi colori quelli grossolani ed incongrui di recente applicazioni; altre volte potrà doversi considerare l'ipotesi di rimettere in luce la facies originale, ad esempio nel caso d'uno spazio autografo, introspettivo tanto da non dialogare in alcun modo con la città circostante. Si tratterà, comunque, di fatti eccezionali; l'intervento di restauro dovrà sempre essere, in primo luogo, conservazione e difesa di quanto materialmente sussiste, non correzione né restituzione o abbellimento. La scelta del colore andrà fatta e verificata non certo sui campionari delle tinte, ma creata come farebbe un pittore, vista e giudicata sotto la luce, in loco, nelle diverse ore del giorno; in altre parole, progettata, anche se su rigorosi binari di metodo, fondendo insieme arte e scienza, in una sottile dialettica di critica e di creatività. In ogni caso non si dovrà mai ipotizzare a priori, come pretendono molti piani del colore, il rinnovo sistematico delle facciate, magari studiato esclusivamente a tavolino, pur con buoni supporti archivistici e iconografici.

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PARTE II° IL SUPPORTO DEL COLORE: L’INTONACO

1. STORIA ED EVOLUZIONE DELL’INTONACO

L'intonaco è stato sempre considerato un manufatto povero; per questo motivo non risulta facile trovare precisi riferimenti storici anche nei testi più specializzati. In queste brevi note si cerca di risalire alla preistoria, la cui conoscenza è affidata solo ai reperti archeologici, con l'aggravante che il materiale interessato, pur non essendo tra i più deperibili è, a volte, difficile da riconoscere negli scavi perché, spesso, simile al terreno circostante. (ovviamente, prima dell'introduzione dei leganti.) Tuttavia, pur ammettendo la non facile dimostrabilità delle ipotesi iniziali, può essere utile un veloce excursus sull'evoluzione dell'intonaco. PREISTORIA

"L'intonaco primitivo" ovvero il manufatto edilizio più antico che possa, per funzioni, tecnica esecutiva e componenti, essere assimilato all'intonaco può essere considerato lo strato di fango che, nell'ultima età neolitica, veniva grossolanamente applicato come protezione dei graticci stesi fra i pali verticali che formavano le pareti delle capanne. Si ritiene che l'intonaco fosse già parte rilevante e sostanziosa delle prime dimore stabili costruite dagli esseri umani. Le prime tribù di agricoltori, una volta trovato un sistema di sostentamento meno precario di quello usato per la caccia, cercarono riparo all’interno di strutture più durevoli e solide delle tende dei loro progenitori. Questi ultimi, prima solo cacciatori ed in seguito pastori-cacciatori, essendo 30


costretti al nomadismo al fine di seguire le fonti del loro nutrimento, avevano bisogno di ricoveri (le tende fatte con le pelli degli animali) che fossero rapidamente smontabili oltre che facilmente trasportabili. Le popolazioni neolitiche che si stabilizzarono nelle zone fertili del pianeta, ritennero necessario e più conveniente, disporre di residenze meno precarie delle tende. In primo luogo si ritiene che si limitarono a sostituire le pelli sospendendo ai pali di sostegno degli arbusti o dei cannicci. È logico supporre che, una volta adeguata l'intelaiatura palificata ed il sistema di tompagnamento in canniccio alla nuova realtà, al fine di migliorare il comfort di questi ricoveri, iniziarono a chiudere grossolanamente con fango argilloso gli interstizi presenti fra gli elementi delle loro rudimentali pareti. Questo materiale, essiccando, si legava bene al canniccio e col trascorrere del tempo venne affinata una maggiore accuratezza nella realizzazione utilizzando tecniche che consentissero la realizzazione di un più consistente spessore di questo primordiale sistema d’intonacatura. Nelle zone paludose, ove originariamente vennero costruiti i primi villaggi agricoli, abbondavano sia i cannicci che l'argilla ed il clima, piuttosto caldo e relativamente secco, consentiva la facile manutenzione di queste strutture. Questa tecnica costruttiva rimase, a lungo e con continui miglioramenti, il metodo costruttivo più praticato e diffuso. Con il trascorrere dei secoli e con il progredire delle tecniche vennero apportati perfezionamenti sia pratici che estetici, e dalla elementare chiusura delle fessure e delle lacune tra i cannicci si pervenne al completo rivestimento dell’intero canniccio.

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Il primordiale fascio sciolto di canne si trasformò in un componente più complesso. Divenne prima un insieme di elementi legati, in seguito intrecciati ed infine ancor più razionalmente connessi per formare una vera e propria stuoia. E’ probabile che l'osservazione diretta di un miglior isolamento riscontrabile negli ambienti con pareti aventi un maggior spessore di intonaco sulle stuoie abbia poi portato alla formazione di intonacature sempre più consistenti sino alla creazione di vere e proprie pareti di argilla aventi uno scheletro composto da pali e cannicci intrecciati. Questo tipo di pareti, a dimostrazione della validità di questa tecnica neolitica, vengono tuttora utilizzate in alcune zone di paesi africani e del Medio Oriente. Una volta trasformata la funzione dell'elemento vegetale ad una semplice struttura connettiva di un manufatto, essenzialmente costituito da blocchi d’argilla, l'intonacatura divenne superflua in quanto sostituita dal paramento del muro stesso che appariva sufficientemente liscio e compatto. È probabile che, l'innata esigenza dell'uomo di curare anche dell'aspetto estetico, abbia ben presto reso indispensabile provvedere alla realizzazione di una vera e propria intonacatura di questo nuovo genere di parete. Si supporre che, soprattutto nelle costruzioni più antiche, l'intonaco sia consistito in un semplice strato di fango argilloso, solo un po' più fine e liquido del materiale sino ad allora usato per la chiusura degli interstizi, ma si può anche immaginare che, affinando sempre più la tecnica esecutiva, si sia presto giunti all'impiego di due diversi tipi di materiale: l'uno, più grossolano, ideale per otturare buchi e fessure, e l'altro, con grana più minuta per ottenere lo strato superficiale di finitura. 32


Un successivo processo evolutivo consistette nell'introduzione, all’interno di queste malte primordiali, sia del gesso (primo tipo di legante prodotto dall'uomo) che di un primordiale sistema d’armatura composta da paglia, erba e altre fibre vegetali. Questa tecnica, frutto di un'intuizione geniale o dell'osservazione che la casuale presenza di questi elementi provocava un miglior comportamento del manufatto, venne poi utilizzata per la costruzione dei primi mattoni. L'inclusione delle fibre vegetali negli impasti argillosi, infatti, oltre a conferire una maggiore coesione al materiale ed a distribuire più uniformemente la naturale propensione alla fessurazione, facilita l'evaporazione dell'umidità interna consentendo una più rapida asciugatura ed una notevole riduzione delle possibilità di deformazione. Questo sistema di costruzione del mattone crudo (seccato al sole ed impastato con paglia) risulta così efficace e funzionale che in diversi paesi africani viene ancora impiegato. E’ lecito ritenere che la memoria di queste tecniche primordiali sia stata il fondamento di alcune prescrizioni fornite, in epoca rinascimentale, per l'esecuzione di una buona intonacatura. Si raccomandava tra l'altro, l'impiego anche di piccoli steli e di peli animali. La tendenza a dare sempre maggior consistenza alle pareti esterne o, più semplicemente, la propensione alla sempre più netta distinzione tra semplici costruzioni precarie (le capanne), destinate, al massimo, a una limitata e momentanea occupazione umana, ed edifici più complessi e abitati con continuità, portò alla differenziazione, anche strutturale, delle costruzioni.

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EGITTO E MEDIO ORIEN TE

Le case di abitazione degli antichi contadini egiziani (non molto dissimili strutturalmente da costruzioni ancor oggi esistenti nelle campagne di quel paese) andarono sempre piĂš articolandosi come un sistema di edifici addossati e basati su murature in terra. Questa tecnica utilizzava vari metodi: senza cassaforma, con cassaforma o con blocchi d'argilla, spesso impastati con paglia e seccati al sole. Gli edifici in terra o in mattoni crudi determinarono l'evoluzione anche dell'intonaco sino all'introduzione di leganti artificiali nella malta. L’intonaco primordiale era costituito da fango argilloso e ne era stato previsto un utilizzo esclusivamente utilitaristico; con l'evolversi della civiltĂ e del livello di vita esso divenne anche un elemento decorativo ed acquistò consistenza strutturale una volta che le malte vennero arricchite da materiali con caratteristiche leganti particolarmente efficienti. Risulta difficile stabilire quando il gesso, il primo tipo di legante artificiale, venne introdotto nell'edilizia. In Egitto venne utilizzato sin dai tempi delle prime dinastie. Negli edifici monumentali gli Egizi impiegarono, essenzialmente, un intonaco di gesso per livellare i paramenti di pietra o di mattoni (quasi sempre crudi) e ottenere superfici ben levigate sulle quali poter poi dipingere. In Mesopotamia l'evoluzione dell'intonaco seguĂŹ un andamento analogo a quello egiziano e fu spesso impiegato anche per proteggere i muri argillosi e, quindi, accrescerne la durata.

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A Gerico, in strutture che sono datate ad oltre 6.000 anni, i muri (di mattoni assai rudimentali, a forma di sigaro e crudi) vennero, anche se in epoca appena più tarda, rivestiti con gesso. CIVILTÀ MINOICA E MICENEA

A Creta, tra la fine del III e l'inizio del Il millennio a.C., i costruttori dei primi Palazzi (Cnosso, Festo, Mallia) usavano affrescare le pareti degli ambienti stendendo i colori su intonaci tecnologicamente molto raffinati, eseguiti a più strati. Si sono trovati intonaci di questo periodo aventi spessori di circa cm 5 in cui lo strato finale andava da uno a due centimetri. Un'accurata analisi di questi manufatti ha consentito di stabilire che circa il 40% era composto da silice e che, assai probabilmente, si trattava di argilla aggiunta al gesso il quale, ovviamente, fungeva da legante. Anche qualche piccolo ciottolo, diversi frammenti di ceramica ed una considerevole quantità di paglia sminuzzata facevano parte dell'intonaco esaminato e ciò consente di comprendere quanto si fosse affinata la tecnica esecutiva di questo manufatto. In altri campioni trovati a Cnosso ma, presumibilmente, risalenti al periodo successivo della civiltà minoica la percentuale di inerti, argilla e pietrisco, raggiungeva il 30% dell'impasto ma non vi era traccia di paglia. La proporzione di calce riscontrata in alcuni intonaci ancora più tardi raggiungeva invece il 95%; anche se non è stato possibile stabilire se si trattasse di calce idrata pressoché pura o se, invece, alla calce fosse stata aggiunta una certa quantità di calcare in polvere. In alcuni casi, i Minoici, arrivarono ad applicare sino a quattro strati di malta, iniziando con un impasto composto da calce, ghiaia e coccio pesto (in genere frammenti di 35


terraglia) seguito da altri strati, ciascuno sempre più levigato. L'estrema scarsità di documenti comprensibili e la scarsità dei reperti archeologici rendono difficile stabilire una netta suddivisione tra storia e preistoria nell'evoluzione dell’intonaco. Il progredire della civiltà ed il moltiplicarsi degli scritti, anche di carattere tecnico (come nel caso della Grecia), e la possibilità di disporre di un gran numero di reperti (le necropoli etrusche) consentono di poter dire che a partire, approssimativamente, dal VII secolo prima di Cristo inizia il periodo da cui la documentazione riguardante l'intonaco si fa più ricca, meno incerta e limitata. GRECI ED ETRUSCHI

In Grecia, dove l’uso della pietra iniziò a sostituire quello del legno (dapprima nei templi e in seguito anche nell'edilizia diffusa), si usava ricoprire le superfici a vista dei conci in calcare (poros) con uno strato d'intonaco. Questa tecnica, consentiva di otturare gli interstizi tra i conci e di rifinire le superfici delle colonne e degli altri elementi architettonici, di modellarli e di completare l'opera con appropriate colorazioni. Come noto, le strutture etrusche sono, essenzialmente, quelle tombali. Esse consentono di seguire l'evoluzione della tecnica dell'intonaco sulla base delle diverse metodologie adottate nel corso dei secoli. A partire dalla seconda metà del VI secolo, gli intonaci sono utilizzati come supporto delle pitture tombali. Venivano applicati sulla roccia nella quale erano scavate le tombe. Le pareti, accuratamente levigate, venivano ricoperte da uno strato (1-3 mm) di argilla fine mista a polvere della stessa roccia nella quale erano scavate le tombe. Questo genere d’intonaco veniva comunemente arricchito con sostanze destinate ad ostacolarne l'essiccazione (torba, 36


filamenti vegetali ecc.) ed era completato con uno strato di scialbo di calce; quest’ultima, reagendo chimicamente con l'intonacatura, creava una pellicola di carbonato di calcio in cui si amalgamavano facilmente i colori minerali usati per decorare gli ambienti tombali. A partire dal IV secolo le pareti iniziano ad essere ricoperte da un intonaco più consistente, nel quale si possono individuare tre strati sovrapposti. Questa intonacatura così evoluta (antesignana di quella, sofisticatissima, dei Romani, che, come è noto la ereditarono dai costruttori etruschi) consisteva in uno strato di fondo a base di tufo e calce; di uno strato intermedio di sabbia silicea e calce e di uno strato finale con calce, colori e sabbia. ROMANI

I Romani misero a punto una tecnica edilizia talmente raffinata che, sino alla moderna rivoluzione industriale, i loro sistemi costruttivi rimasero ineguagliati. Per quanto concerne l'intonaco, inoltre, le tecniche costruttive romane restano ancora inarrivabili. Per l'analisi dell'intonaco romano occorre fare almeno tre ordini di considerazioni: - si usa fare riferimento al momento centrale di questa epoca sia perché in questo periodo venne raggiunto l'apice evolutivo di questa cultura sia perché vennero scritti e pubblicati vari studi sulle tecniche edilizie (Catone, Plinio il Vecchio, Vitruvio e Plinio il Giovane). In particolare con Vitruvio (De Architectura) ci si trova in presenza del primo trattato specifico sull'arte dell'edificare; - alle prescrizioni presenti nei manuali corrispondono puntuali riscontri esecutivi comprovati da innumerevoli reperti trovati sia in edifici ancora esistenti sia nel contesto di scavi archeologici; 37


- molti manufatti edilizi romani, dei generi più svariati, risultano sostanzialmente integri o, quantomeno, ancora funzionanti dopo duemila anni. Occorre precisare che furono i costruttori romani a scoprire i principi fondamentali per ottenere un buon intonaco e che, in ogni caso, seppero far tesoro di quanto inventato da altri e lo applicarono puntualmente. In concreto riuscirono sempre a produrre ottimi manufatti edilizi dove alcuni loro intonaci appaiono, ancora oggi, tecnicamente perfetti. Seppero cioè comprendere che per realizzare un intonaco valido, si dovevano rispettare alcune regole generali concernenti il supporto (maturazione già completata, consistenza strutturale ecc.) e l'aggrappo (pulitura accurata della superficie, relativa umidificazione, ecc.), ma anche mettere in opera diversi strati, sempre più sottili, con malte diversificate. In questi due principi fondamentali è concentrato il segreto degli intonaci romani. Intonaci che possono essere costituiti anche da sette strati di malte di composizione e tipologia diverse; con un primo strato, quello di aggrappo alla muratura, di notevole consistenza (cm 5-6) e strati successivi a spessori decrescenti (eseguiti con malte a componenti sempre più sottili) sino ad arrivare ad uno spessore complessivo di una decina di centimetri. Diversi trattamenti di finitura degli strati e differenti composizioni delle malte consentivano ai Romani di ottenere superfici e prestazioni assai vari ed adattabili alle più eterogenee necessità d'uso. Gli innumerevoli reperti pompeiani e quelli provenienti da centinaia di altre città dell'impero testimoniano, dopo diversi secoli d'uso o d'abbandono, l'alto livello tecnologico raggiunto dalla loro tecnica costruttiva. MEDIOEVO 38


In seguito alla caduta dell'impero romano la tecnica edilizia, in Europa, iniziò progressivamente a decadere soprattutto nei paesi dell'Europa occidentale dove le continue invasioni portarono al progressivo abbandono delle città e ad una momentanea flessione della civiltà urbana, principale fondamento della tecnologia romana. Molte delle metodologie edilizie romane continuarono ad essere applicate nell'area dell'impero bizantino e, più tardi, anche i conquistatori Arabi seppero approfittare della cultura tecnico-costruttiva romana che, sommandosi a quella di origine orientale (in particolare persiana), consentì loro di creare autentici gioielli architettonici in Asia, Africa ed Europa. In tutto il mondo arabo, per soddisfare i desideri e l'ambizione di sultani, califfi ed emiri, molte nuove città sorsero ed altre s’ingrandirono e s’abbellirono. Diversi edifici furono decorati o rivestiti con marmi e ceramiche o con intonaci, anche modellati (stucchi). Tuttavia, per quanto riguarda gli intonaci, più che alla tecnica romana i costruttori arabi si riferiscono principalmente a quella persiana. Impiegarono infatti, come legante il gesso, sostanza cementante di facile produzione ma molto sensibile all'umidità (motivo per cui trovò scarso utilizzo presso i Romani). I Persiani, originari di regioni piuttosto secche (e, quindi, abituati ad operarvi) non si ponevano eccessivi problemi nell'utilizzare anche materiali tendenzialmente idrofili. Per tutto il Medioevo, nei paesi europei già appartenenti all'impero romano (ad esclusione di gran parte della penisola iberica, occupata dagli Arabi), l'intonaco si ridusse a un manufatto molto povero, spesso limitato a un solo strato, applicato direttamente sulla muratura senza alcuna

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planarità o levigatura. Soltanto nei casi in cui si volevano eseguire degli affreschi veniva applicato un secondo strato Normalmente la malta dell'intonaco medievale era confezionata solo con sabbia e calce anche se, non di rado, veniva inserita nell'impasto una percentuale di coccio pesto. Talvolta, al posto della sabbia, veniva utilizzata la polvere di marmo, ma ciò si verificava, particolarmente, nelle malte utilizzate per lo strato di finitura degli affreschi. RINASCIMENTO

Nel corso del XV e del XVI secolo, con la riscoperta della cultura e dell'arte antica vennero riprese alcune tecniche costruttive romane. I trattatisti rinascimentali (Alberti, Palladio, Serio, Scamozzi, al Milizia, Ligorio) e tutti coloro che, riprendendo brani e testi degli antichi autori (in particolare di Vitruvio), andarono diffondendo i metodi operativi dell'edilizia romana, erano anche architetti e costruttori. Pertanto, non solo divulgarono sistemi e tecniche, ma le sperimentarono direttamente nelle fabbriche che andavano realizzando con l'apporto di modifiche e di correttivi. Queste variazioni consistevano spesso in adattamenti dettati, in prevalenza, dall'inadeguatezza dei mezzi (umani e materiali) a disposizione, più che da prove e studi volti a migliorare o a perfezionare l’intonaco. Molto prima che i trattatisti rinascimentali iniziassero a pubblicare i loro scritti, una parte del clero e gli ambienti universitari conoscevano gli autori classici (Vitruvio, Plinio e Catone). E’naturale che alcune delle tecniche antiche venissero, più o meno segretamente, riprese e riutilizzate anche anteriormente alla divulgazione dei testi latini o alla loro reinterpretazione rinascimentale. Il problema della segretezza, anche per i più semplici metodi operativi o professionali, era piuttosto sentito 40


nell'ambiente edilizio medievale, essendo all'esistenza di rigide regole corporative

legato

Il Rinascimento, come nuovo stile architettonico non si radicò molto nel resto d'Europa ma le molteplici possibilità plastiche e decorative connesse con l'impiego dei vari tipi di intonaco (stucco, mormorino, finta pietra ecc.) entusiasmarono i regnanti europei. DAL BAROCCO AL NOVECENTO

Se il Medioevo fu indubbiamente il regno dei materiali strutturali in cui la pietra ed il mattone venivano comunemente lasciati a vista (non solo nei prospetti esterni ma anche negli ambienti interni), nel Rinascimento e, soprattutto, nei periodi barocco e neoclassico sino al Novecento, s’impose l’uso diffuso del paramento, interno ed esterno, trattato a intonaco. Questa consuetudine non derivò da scelte culturali o di costume, ma soprattutto di carattere economico; una parete intonacata, infatti, rappresentava, considerati i bassissimi costi della manodopera e le rilevanti difficoltà nel reperimento e nel trasporto dei materiali lapidei, un notevole risparmio rispetto a un rivestimento di marmo. Per gli stesso motivi, una modanatura o un bassorilievo realizzati in stucco risultavano meno costosi dei corrispondenti manufatti eseguiti in pietra. La propensione al risparmio e la tendenza (presente sin dal Rinascimento) a non applicare compiutamente le prescrizioni dei testi latini spinsero i costruttori a ridurre sempre più consistenza e numero degli strati dell'intonaco arrivando ai due strati attuali. Occorre anche considerare che le migliorate condizioni culturali generali congiuntamente l'affacciarsi, sulla scena mondiale, della rivoluzione industriale, portarono nel settore dei leganti, (soprattutto in Francia e in Gran 41


Bretagna tra il 1750 e il 1824) a una molteplicità d’invenzioni e di brevetti. Ci riferiamo alla calce idraulica ed al cemento Portland. La scoperta della calce idraulica viene attribuita all'inglese John Smeaton che, nel 1750, non rispettando le indicazioni di Vitruvio (che raccomandava di utilizzare rocce bianche quindi sostanzialmente pure), effettuò la cottura di un calcare contenente notevoli impurità argillose (intorno all’11%) ed impiegò la calce così ottenuta per la costruzione del faro di Eddystone con ottimi risultati, malgrado la particolare esposizione del manufatto all'azione delle onde. In quel periodo, approfittando anche delle nuove acquisizioni della scienza chimica, gli studiosi compresero che a determinare la formazione dei leganti, capaci di effettuare la presa anche in assenza di aria, senza l’utilizzo delle sabbie pozzolaniche o di coccio pesto, erano le impurità di silice ed d’allumina incluse naturalmente in diverse rocce calcaree. Dal cemento romano o cemento di Parker (1796), al cemento naturale (prodotto in Francia sulla base degli studi pubblicati da Vicat nel 1818), al cemento di Frost (1811), al cemento inglese (sempre di Frost, ma del 1822), si arrivò al cemento Portland (brevetto Aspdin del 1824). Allo stesso modo la tecnica dell'intonacatura venne considerevolmente modificata per l'introduzione, dapprima, della calce idraulica e, poi, dello stesso cemento. Occorre precisare che l'alto costo di questi materiali ne condizionò notevolmente l'impiego diffuso. In effetti, durante il periodo appena successivo all'ultima guerra mondiale la tecnologia edilizia rimase, sostanzialmente, simile a quella dell'immediato anteguerra ma, in seguito, andò rapidamente evolvendosi tramite un più massiccio impiego del cemento armato e, negli ultimi 42


anni, con l'utilizzo, sempre più generalizzato, dei prefabbricati. E ciò non solo nell'edilizia industriale e commerciale ma anche, seppure parzialmente, nell'edilizia abitativa. Questi notevoli cambiamenti non si riferiscono soltanto alle strutture degli edifici, ma interessano anche i tompagni, e quindi pure le tecniche ed i materiali di rivestimento, interni ed esterni. L'imponente uso del cristallo, del metallo e di altri materiali (pannelli prefabbricati) ha reso desueto l’utilizzo dell'intonaco nei prospetti degli edifici più moderni. Questo breve excursus storico sull'intonaco è troppo sintetico per consentire di comprendere compiutamente le cause, i moventi, le ragioni che, nelle diverse epoche, ne determinarono la nascita, lo sviluppo, la decadenza e il riaffermarsi. Ciò avviene perché l'intonaco rappresenta solo una parte dell'edificio. Nessuno specifico studio è mai stato fatto in proposito e nemmeno all'interno di ricerche più vaste sono mai state prese in grande considerazione le motivazioni che determinarono le pur notevoli variazioni sia qualitative sia quantitative, che l'intonaco ebbe nel corso dei tempi. Le motivazioni che spinsero i nostri lontani antenati all'esecuzione di quello che si è definito “intonaco primigenio” possono essere soltanto induttive, presupposti, e congetture plausibili, che hanno portato alla ipotesi formulata all’inizio di questa sintesi.

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2. GLI INTONACI MODERNI E LE COSTRUZIONI STORICHE: SOLUZIONI TECNICHE E MATERIALI INDIRIZZI METODOLOGICI

Prima di entrare nei dettagli tecnici relativi alla posa in opera degli intonaci è utile riferirsi agli indirizzi metodologici al fine di stabilire quando e come è corretto l'uso di un intonaco nuovo. Quando l’intonaco esistente versa in pessime condizioni ed è tecnicamente irrecuperabile o completamente assente (il caso di edifici completamente decorticati e privi del rivestimento per effetto della mancata manutenzione, è un fenomeno molto diffuso) è vano riferirsi ad opere di conservazione o di manutenzione. Ci si trova di fronte ad un problema di "reintegrazione dell'immagine", da condurre con rigore filologico e senso critico; gli edifici danneggiati hanno, infatti, perso irrimediabilmente la loro immagine assumendo l’aspetto di una figura mutila. Nel progettare un nuovo intonaco, quindi, occorre evitare ogni tentativo di riproporre un inverosimile ritorno allo "stato originario" o di perseguire effetti di "finto antico" o di "imitazione in stile". Occorre, in questi casi, risolvere i problemi di reinterpretazione dell’edificio (in linea con l’attuale teoria e prassi del restauro) operando aggiunte da definire "caso per caso" entro i limiti cromatici, storicamente circoscritti o proposti dall’ambiente circostante. Restando in tema di cromatismo è utile rammentare la difficoltà "tecnica" di ottenere, nel cantiere odierno i colori del passato in ordine ai seguenti morivi:

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- la difficoltà di reperire facilmente le terre e gli ossidi utilizzati per il confezionamento degli intonaci tradizionali; - l'assenza della manualità e della professionalità dei posatori ; - i pigmenti utilizzati per la produzione degli intonaci preconfezionati vengono riferiti alle norme DIN; si utilizzano, in genere nel loro confezionamento, pigmenti ed ossidi di provenienza tedesca ed olandese con tonalità diverse da quelle della tradizione locale. Sotto l'aspetto più strettamente tecnico, occorre anche ripetere che nessun intervento di restauro può risultare duraturo quando non si garantisce l‘efficienza dei sistemi di smaltimento delle acque. Le più diffuse manifestazioni di degrado sulle fronti esterne degli edifici, infatti, sono da imputare principalmente all’azione dell’acqua. LA NUOVO INTONACO

PROGETTAZIONE

DEL

La progettazione di un nuovo intonaco comporta, quindi, anche la definizione in dettaglio di una serie di "piccoli dispositivi" capaci di evitare le infiltrazioni e di limitare il ruscellamento delle acque meteoriche. L'individuazione e la realizzazione di questi dispositivi è legata alla sensibilità del progettista. Entrando nel merito della tecnologia dei rivestimenti ad intonaco iniziamo col dire che le finiture esterne vengono realizzate non solo per scopi decorativi ma anche e soprattutto per assolvere la funzione di protezione delle pareti perimetrali dalle azioni nocive prodotte dagli agenti atmosferici. Il comportamento delle finiture viene influenzato, oltre che dalla natura e dall’intensità dell’azione nociva, anche da 45


altri fattori i cui effetti dannosi si manifestano sui vari strati del supporto con l’insorgere di movimenti e/o di cedimenti. Sono disponibili diversi tipi d’intonaco che possono essere applicati in strati successivi su di un supporto predisposto in modo realizzare la perfetta aderenza; il supporto deve, quindi, essere privo di difetti, omogeneo, con i giunti di malta solidi ed aderenti. Il compito del progettista consiste nel valutare con attenzione le varie condizioni di sollecitazione in rapporto alle tecniche che intende utilizzare al fine di pervenire a soluzioni affidabili e durature. SUGGERIMENTI TECNICI

Elenchiamo alcun criteri atti ad evitare che i rivestimenti con intonaco perdano la loro primaria funzione di protezione : -

Prevedere differenti tipologie di rivestimento differenziandole in relazione alle condizioni di esposizione delle facciate. Per le pareti esposte alla pioggia battente è preferibile l’impiego di intonaci idrorepellenti scegliendoli fra quelli capaci di garantire con certezza l’efficace scambio di vapori fra interno ed esterno. Per le pareti soggette all’azione costante di forti venti è preferibile l’impiego di intonaci dotati di buone caratteristiche meccaniche. Nelle pareti fortemente soleggiate sono da preferire intonaci porosi con spiccate caratteristiche termoisolanti. Le pareti soggette all’attacco di microrganismi vanno difese con una finitura a base d’intonaci poco porosi e resi idrorepellenti con specifici trattamenti.

-

Prevedere, con la massima cura per il dettaglio, tutte quelle opere che, al contorno delle fronti esterne, direttamente o indirettamente, possano influire positivamente al fine di evitare infiltrazioni, 46


ruscellamenti, ristagni o altri fenomeni capaci di indurre il degrado del rivestimento. -

Evitare l’applicazione dell’intonaco durante la stagione invernale o quella estiva. In caso di necessità, sarà opportuno proteggere l'intonaco dalla rapida disidratazione provocata dall’azione del vento e del sole ricorrendo a teli protettivi ed a periodiche irrorazioni con acqua nel corso delle ore meno calde.

-

Predisporre i ponteggi ad una distanza idonea dalle pareti (circa 20 cm.) evitando accuratamente parti sporgenti o dispositivi d’ancoraggio che ostacolino i lavori d’intonacatura costringendo la manodopera a gestualità improprie per la più corrente regola d’arte.

-

Predisporre un supporto in modo tale che si presenti ruvido, omogeneo, complanare e, quanto più possibile a piombo.

-

Eliminare, prima di procedere all’esecuzione dell’intonacatura, tutte le eventuali disomogeneità provvedendo ad seguire uno strato integrativo di livellamento. Quando l’integrazione dovesse risultare di spessore eccessivo, è buona norma ricorrere, non tanto all’uso di semplici malte ma ad un vero e proprio incremento della sezione muraria ; in casi intermedi ed in ossequio della tradizione locale si possono utilizzare scaglie di laterizi (tegole e mattoni).

-

Eliminare, con una preventiva ed accurata pulizia, eventuali residui di polvere o di altre sostanze inquinanti che possono ridurre l’adesione della malta.

-

Applicare gli intonaci solo ad avvenuto assestamento delle murature rispettando gli spessori e la successione degli strati. L'intonaco deve possedere, in ogni strato, una porosità decrescente dall'interno verso l’esterno, onde assicurare il necessario scambio di vapore fra le 47


parti interne e quelle esterne. Nel caso di intonaci a più strati sarà opportuno attendere il tempo necessario per realizzare un sufficiente indurimento tra la prima applicazione e la successiva. -

Agevolare l'adesione dell'intonaco in corrispondenza dei giunti (angoli, aperture, basamento, ecc.) predisponendo, all’interfaccia fra parti del supporto costituite da materiali differenti, i dispositivi più idonei allo specifico caso.

-

Predisporre, nelle superfici continue ed estese, l’inserimento di idonei giunti in corrispondenza delle zone più soggette a forti tensioni (testate, solai, angoli, ecc.) in modo da compensare il diverso comportamento dell’intonaco e del supporto rispetto alle sollecitazioni sia termiche che meccaniche.

-

Applicare gli intonaci su supporti resi omogenei dal punto di vista della conducibilità termica e delle capacità dì assorbimento idrico onde evitare fastidiose variazioni di tonalità del colore.

-

Inumidire, prima della posa di ogni singolo strato, i supporti asciutti.

-

Stendere sui supporti lisci e fortemente assorbenti), almeno 12 ore prima dell'intonacatura, uno strato di fondo (imprimitura), composto con malte (scelte in funzione della resistenza del supporto) ed inerti con granulometria fino a 7-8 mm.

-

Applicare l’ultimo strato d’intonaco in modo che esso abbia, ove richiesto, un aspetto ruvido non troppo accentuato al fine di evitare l’accumulo di particelle inquinanti capaci di produrre, in breve tempo, il degrado della superficie.

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Le indicazioni fornite non intendono essere esaustive in quanto le soluzioni tecniche dipendono da specifiche scelte progettuali elaborate in base ad un preciso progetto relativo ad un determinato contesto ambientale. 

NUMERO ST RATI DELL’INTONACO

E

FUNZIONE

DEI

DIVERSI

Nelle costruzioni in muratura non è consigliabile stendere un solo strato d’intonaco (come correntemente avviene per le costruzioni in calcestruzzo di cemento armato) senza incorrere nel rischio della formazione di pericolose cavillature conseguenti al ritiro idraulico della malta. Conformemente alla tradizione locale occorre raggiungere gradatamente lo spessore finale applicando in successione più strati d’intonaco. La prassi tradizionale di eseguire l'intonaco a più strati deriva dalle seguenti motivazioni: -

i singoli strati svolgono differenti funzioni che un solo strato e, quindi, un solo tipo di malta non può assicurare;

-

per realizzare il corpo dell'intonaco è preferibile utilizzare sia sabbie di granulometria media (al fine di ridurre il ritiro della malta e le conseguenti microfessurazioni) che un legante con elevata tenuta idrica e discreta resistenza meccanica;

-

per gli strati di finitura superficiale invece è preferibile utilizzare una grana molto fine ed un legante non troppo impermeabile; il tutto per consentire la facile evaporazione verso l'esterno dell'acqua di impasto, dei vapori e dell'umidità che, per diverse ragioni, possono accumularsi nel rivestimento;

-

il ricorso a passaggi successivi di malta garantisce, rispettando i corretti tempi di presa e d’indurimento 49


dell'impasto, il contenimento del ritiro idraulico, con la conseguente riduzione delle pericolose cavillature, la cui formazione dipende sia dal tipo di legante, sia dal rapporto all'inerte/legante, che dal quantitativo d'acqua d’impasto rapportato alla percentuale del legante. -

la stesura dell'intonaco in fasi successive con strati di spessore ridotto facilita, inoltre, la penetrazione dell'aria e, quindi la completa carbonatazione della malta. Si assicura in tal modo un regolare processo di indurimento; questo processo avviene procedendo dall'esterno verso l'interno dell'intonaco. La presenza di sabbie in idonea distribuzione granulometrica comporta l’incremento dei pori nella struttura agevolando la penetrazione dell'aria all’interno della malta.

Nell'intonaco tradizionale a tre strati il primo (rinzaffo) svolge la duplice funzione di imprimitura e di sommario livellamento; applicando l’intonaco sul supporto, occorre da un lato adeguarne le caratteristiche fisico chimiche al fine di favorire l’adesione, dall’altro lato è necessario correggere le irregolarità del supporto livellandolo al fine di ottenere gradatamente una superficie planare, regolare e capace di assicurare l'aderenza con i successivi strati d’intonaco. Questo stato deve essere steso in modo che abbia uno spessore minimo e una consistenza relativamente fluida ; deve essere lasciato grezzo (ruvido) senza preoccuparsi dell’eventuale formazione di fessure da ritiro (verranno coperte dagli strati successivi). La distribuzione granulometria degli inerti deve variare gradualmente dai 2 agli 8 mm. Lo strato intermedio (corpo dell'intonaco) ha la funzione di rendere planare l’intera superficie intonacata. La consistenza della malta deve essere pastosa ed i dosaggi d'acqua e di legante inferiori a quelli impiegati per lo strato 50


di aggrappo in modo da garantire una buona compattezza ed una scarsa tendenza alla fessurazione. La distribuzione granulometria degli inerti deve variare da 0,6 a 2 mm con meno dello 0,5%, di elementi fini. Lo finitura svolge la funzione di conferire all’intonaco l'aspetto finale; in questo strato, deve essere accuratamente evitata la formazione di fessurazioni da ritiro che facilita la penetrazione dell'acqua e di eventuali sostanze inquinanti. LA GRANULOMETRIA DEGLI INERTI

La granulometria degli inerti varia in genere da 0,08 a 0,6 mm. Nel caso di strutture murarie particolarmente esposte, per propria natura o per condizioni ambientali particolarmente svantaggiose, ad agenti di degrado, le prestazioni richieste al primo ed all’ultimo strato (interno ed esterno) dell’intonaco variano in relazione alle funzioni che questi devono svolgere; tali funzioni, in diversi casi, possono essere svolte da ulteriori stratificazioni di cui alcune hanno uno spessore inconsistente (le impregnazioni consolidanti, deumidificanti, antisaline, ecc) altre hanno spessori variabili (strati a base di malte speciali preconfezionate). Occorre precisare, in proposito, che le malte speciali, di qualsiasi natura e per qualunque ruolo esse vengono utilizzate, devono avere valori di porosità e di distribuzione granulometrica omogenei con quelli degli strati adiacenti; il loro utilizzo, inoltre, in qualsiasi posizione esso sia previsto, non deve comportare alcuna interruzione nel graduale decrescere di tali valori verso l’esterno. Il principio è semplice: la tipologia di muratura più diffusa nelle costruzioni in muratura è ottenuta, più o meno grossolanamente, da pietra rustica costruita tramite assise di ripianamento di varia natura. Il passaggio da una costituzione così grossolana verso una finitura dell’intonaco 51


compatta e planare, comporta il graduale raffinamento della struttura. Ogni frapposizione di strati con caratteristiche fisiche e meccaniche differenti si pone come elemento di disturbo e, quindi, di probabile frattura o degrado. Questa riflessione richiama il più ampio concetto della compatibilità fra la muratura ed i rivestimenti che, nei termini della meccanica sottintende il comportamento elastico e la resistenza, nei termini della fisica riguarda i diversi coefficienti di dilatazione, la porosità, la traspirazione, l’adesione ed il ritiro ; nei termini della chimica, infine, l’inerzia ovvero la caratteristica di non interagire chimicamente dando vita a composti instabili e/o idrosolubili in vario modo dannosi. L’insieme di queste caratteristiche devono essere simili per l'intonaco, in ogni singolo strato, e per il supporto. Compatibilmente alla natura delle murature sono, quindi, da preferire gli intonaci meno resistenti e di prestazioni (meccaniche) meno elevate, ma dotati di un alto grado di omogeneità con le caratteristiche della muratura da intonacare. DIFETTI DELL’INTONAC O CEMENTIZIO

Un esempio ricorrente d’incompatibilità è costituito dall'intonaco a base di normale cemento Portland che risulta poco adatto per gli edifici antichi, essendo questi caratterizzati da materiali con elevata porosità, bassa resistenza meccanica e coefficienti di dilatazione molto contenuti. Il cemento Portland, invece, presenta una forte resistenza meccanica, un coefficiente di dilatazione termica elevato ed una porosità così bassa da impedire, in determinate condizioni d’uso, l'evaporazione. La conseguenza più diffusa dell’uso dell’intonaco cementizio sono i distacchi conseguenti ai fenomeni di 52


scorrimento differenziato, di condensazione interstiziale, di accumulo di sali solubili, ecc. Un riflessione diversa va effettuata nei confronti di alcuni intonaci cementizi preconfezionati; diversi fra questi sono, infatti, ottenuti modificando le caratteristiche fisiche e meccaniche del cemento con l’aggiunta di additivi chimici o tramite specifici processi di trasformazione. In questi casi ogni parere preconcetto nei confronti del cemento andrebbe rivisto eseguendo, in dettaglio, un’analisi critica delle loro specifiche caratteristiche. L'uso di malte preconfezionate a base di calce aerea per l’utilizzo in esterni è reso possibile tramite l'aggiunta di specifici additivi che compensano i limiti propri di questo legante. Una maggiore diffusione hanno invece gli intonaci a base di miscele calce/cemento in relazione alla loro versatilità, che li rende compatibili con la maggior parte dei supporti anche in condizioni ambientali particolarmente difficili. L'aggiunta moderata di leganti idraulici alla malta a base di calce aerea, aumenta la resistenza meccanica, limita la cristallizzazione dei sali, diminuisce il tempo d’indurimento ed aumenta l'impermeabilità all'acqua senza alterare le caratteristiche fondamentali della malta a base di calce aerea. Per quanto attiene al dosaggio, una parte del legante aereo viene sostituita da una parte di legante idraulico (calce idraulica naturale o artificiale). INTONACI PRECONFEZIONATI

La maggior parte degli intonaci realizzati con malte preconfezionate sono ottenuti da due distinti prodotti: una miscela per la realizzazione del corpo dell'intonaco (detta comunemente intonaco di sottofondo) e un'altra per eseguire la finitura (detta comunemente rasatura, intonaco di finitura, tonachino). Le finiture, al fine di garantire la 53


massima compatibilità, possono essere scelte unitamente a prodotti per il sottofondo forniti dalla stessa azienda ; in alternativa si possono utilizzare premiscelati di diversa origine avendo l’accortezza di accertarsi sulla loro compatibilità. Esistono in commercio alcuni premiscelati specifici per il rinzaffo, normalmente a base cementizia ed altri più specifici per murature umide. Le malte preconfezionate in commercio sono le seguenti: - malte a base di calce aerea; - malte a base di calce idraulica; - malte a base di cemento; - malte a base di malta bastarda; una composizione tipo è costituita da calce, cemento, inerte calcareo e additivi; sempre a base di calce e cemento sono gli intonaci colorati in pasta che impiegano sabbie silicee e quarzifere e pigmenti inorganici per la colorazione; negli intonaci di malta bastarda quando il nome è, per esempio, intonaco a base di ‘calce/cemento’, significa che è maggiore la quantità di calce; viceversa quando il nome è intonaco a base di ‘cemento/calce’ significa che è il cemento in proporzioni maggiori;

I produttori di intonaci preconfezionati dovrebbero riportare nelle schede tecniche dei loro prodotti l'esatta composizione della miscela. In genere dovrebbero essere riportati: - il tipo di legante (spesso tuttavia per le malte bastarde non si specifica se la calce impiegata è aerea o idraulica; altre volte inoltre si fa riferimento a leganti speciali senza ulteriori specificazioni);

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- le caratteristiche dell'inerte; - le percentuali esatte dei diversi componenti. Per gli intonaci preconfezionati la preparazione avviene ovviamente in due fasi distinte: - il confezionamento della malta, tramite preparazione in stabilimento della miscela secca;

la

- le operazioni di impasto con acqua in cantiere per il confezionamento definitivo della malta e la sua posa. Circa il primo aspetto, occorre innanzi tutto sottolineare che i produttori possono essere sia semplici "assemblatori" di materie prime diverse fra loro (in questo caso i leganti, gli inerti e gli additivi), sia aziende che producono uno specifico componente e che ricorrono ad altri materiali (prodotti all’esterno) per dar vita a un prodotto piÚ evoluto. La produzione della malta secca in stabilimento avviene miscelando, in ambiente controllato, i diversi componenti, compresi gli eventuali additivi, tramite : - silos per lo stoccaggio dei materiali, collegati automaticamente all'impianto di miscelazione, sistemi capaci di normalizzare le condizioni igrometriche dei materiali, - attrezzature in grado di vagliare le caratteristiche dimensionali delle particelle e le quantità totali di materiale sfuso; - tramogge per la miscelazione prima di alcuni e poi di tutti i diversi ingredienti; - una sezione per il riempimento dei sacchi di prodotto ; - una centrale di controllo dell'intero processo ; 55


- un laboratorio di ricerca per prove e verifiche. L’impiego delle malte preconfezionate diventa sempre più diffuso in quanto con la grossolana miscelazione dell'intonaco in cantiere (in presenza di personale poco qualificato) non sono facilmente raggiungibili le prestazioni ottenute utilizzando un prodotto che ha subito una miscelazione a secco in ambiente controllato. Nella generica preparazione manuale a piè d'opera, infatti, è alta la possibilità di commettere errori sia nella scelta che nel dosaggio dei componenti, ottenendo, in tal modo, una malta poco omogenea. Escludendo le imprese specializzate, l’inaffidabilità della confezione manuale è da mettere in relazione con l’assenza di sensibilità da parte di troppi operatori che, adusi al nuovo, non sono in grado di riconvertirsi all’antico in assenza, anche di una specifica ed accurata formazione professionale.

3. CRITERI DI SELEZIONE RELATIVI ALLE SABBIE ED AGLI INERTI DI VARIO GENERE

Nella formazione degli impasti gli inerti costituiscono lo scheletro e non partecipano alla reazione di presa e d’indurimento. Questa inerzia (da cui prendono il nome) risulta indispensabile nel processo di indurimento delle malte in quanto serve a compensare, riducendolo a termini accettabili, il fenomeno conseguente alla presa: il ritiro. Nel corso del complesso processo chimico-fisico dell’indurimento delle malte, i leganti reagiscono e si trasformano. Questa trasformazione avviene, dapprima rapidamente ed in seguito più lentamente, provocando una consistente diminuzione di volume. Ciò, principalmente, per la notevole dispersione nell'atmosfera dell’acqua sotto forma di vapore che si forma a seguito del calore che si sviluppa durante la reazione di presa. 56


La riduzione del volume provoca una contrazione che si manifesta con la formazione di crepe, più o meno ampie, sulla superficie dello strato di malta. Per ridurre questo fenomeno entro limiti sopportabili, tra i componenti delle malte sono stati inseriti gli inerti. Pertanto, nelle condizioni abituali di applicazione, il requisito principe dell'inerte è quello di non partecipare alla reazione chimica con gli altri componenti della malta. Naturalmente, affinché non si verifichino reazioni chimiche con l'acqua o con i leganti è necessario che gli inerti non contengano sostanze quali, per esempio, solfati, cloruri ecc. E’ opportuno che, prima dell'utilizzo, ci si accerti che i materiali da impiegare siano stati controllati, in cantiere o all'origine. Secondo L. B. Alberti nel cap. XII del libro dell'architettura la sabbia è: «costituita da frammenti minutissimi derivati dal frazionamento di pietre più grosse e può essere di tre tipi: di cava, di fiume, di mare. La sabbia marina si secca con difficoltà, è solubile a cagione della salsedine, sicché s'inumidisce molto facilmente e scorre via: quindi male sopporta i pesi e non dà affidamento alcuno. Sarà ottima nel suo genere quella sabbia che, strofinata o stretta nel pugno, stride: e quella che, raccolta in una veste candida, non la macchia né vi lascia residui di terra. Invece non sarà buona una sabbia morbida e non ruvida al tatto e simile al terreno fangoso per odore e colore; o quella che abbandonata nel terreno, presto si copre d'erba. Del pari non sarà buona una sabbia che sia rimasta a lungo ammucchiata all'aperto, esposta al sole, alla luna o alle brinate; giacché si riempie di terra e si scompone, diventando bensì adattissima a produrre arbusti e fichi selvatici, ma non certo a farne costruzioni».

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La normativa vigente prescrive: «La sabbia naturale o artificiale deve risultare bene assortita in grossezza e costituita di grani resistenti, non provenienti da roccia decomposta o gessosa. Essa deve essere scricchiolante alla mano, non lasciare traccia di sporco, non contenere materie organiche, melmose o comunque dannose; deve essere lavata con acqua dolce, qualora ciò sia necessario, per eliminare materie nocive». In cantiere si può eseguire una semplice prova per controllare se la sabbia contiene materie organiche : in un recipiente contenente una soluzione in un litro d’acqua di soda o di potassa (un paio di cucchiaini da caffé) si versa un quantitativo di sabbia facendo in modo che il liquido copra completamente la sabbia e che ne resti una parte al di sopra della stessa. Dopo almeno un giorno si può controllare la soluzione ; se questa è rimasta limpida significa che la sabbia è scevra da sostanze organiche, in caso contrario il liquido diviene torbido colorandosi intensamente. Nel settore della conservazione è importante che le sabbie siano prive di sali ; è, quindi, opportuno eseguire diversi ed accurati lavaggi al fine di eliminare quelle impurità che necessariamente si aggregano durante la macinazione, il trasporto e la giacenza in cantiere. La classificazione delle sabbie si basa sul diametro dei granuli: - fina (da 0,06 mm. a 0,5 mm. circa) - media (da 0,5 mm. a 2 mm. circa) - grossa (da 2 mm. a 8 mm. circa). Per ottenere l’efficace cernita per un sufficiente numero di gradazioni, è sempre consigliabile l’ulteriore vagliatura in cantiere ; solo in questo modo si può ottenere una specifica 58


granulometria adatta, come di regola, ad ogni singola applicazione. Più accurata è, in genere, l’usanza di eseguire adeguate scelte cromatiche della sabbia in base alla tonalità che si vuole ottenere in rapporto con l'esigenza estetica dell'intervento. Gli inerti solitamente usati nelle malte da intonaco sono: la sabbia, la polvere di marmo, l'argilla cotta (o coccio pesto) ed eventuali materiali speciali per intonaci particolari (ghiaietto, silice colorata, pigmenti, pomice, coibentanti artificiali ecc.). LE SABBIE

L’inerte più usato è la sabbia. Essa può essere di tre tipi: di cava, di fiume e di mare. Nel 1570, Andrea Palladio (I quattro libri dell'Architettura, Libro I, Cap. 4, 1,2) della sabbia (o arena) dice: «...quella di cava è di tutte la migliore,...» e più oltre: «...Quella di fiume è buonissima per le intonacature...» ed ancora: «...Sarà ogni sabbia nella sua specie ottima, se con mani premuta, e maneggiata striderà: e che posta sopra candida veste non la macchierà ne vi lascierà terra...». È certo che Palladio si riferisce a Vitruvio, anche se non lo cita. Dice infatti Vitruvio (De Architectura, Libro II, Cap. 4, 1,2 «Dell'arena») «Nelle fabbriche di cementi bisogna principalmente aver cura di trovare l'arena; cioè, che ella sia buona per fare la calcina, e che non sia mescolata con terra. Le spezie dell'arena fossile sono, la nera, la bianca, la rossa, ed il carboncolo. Di tutte queste la migliore sarà quella, che stropicciata fra le mani scroscia, perché quella che è terrosa non ha quest'asprezza; oppure se versata sia in un panno bianco, indi crollata, e gettata via non l'isporcherà, ne vi lascierà terra. Ove poi non si trovassero cave d'arena, allora deesi cernire quella dé fiumi, o la ghiara. »

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Anche L.B. Alberti, Della architectura, lib. II, cap. XII: «Della sabbia» riprende questi concetti affermando che «.. di tutte queste sorte quella sarà l’ottima, che fregata con le mani stride, e raccolta in candido lino non lo macchia, ne vi lascia terra. Cattiva è la sabbia che è molle, non aspra, e che col colore, e coll'odore s'assomiglia alla terra fangosa, e che mescolata nell'acqua la fa torbida, e lasciata nello spazzo subito produrrà l'erbe. Non è parimente buona quella che sia stata lungo tempo all'aria, al sole, ed alla brina, perché si converte quasi in terra, e si putrefa. E perché non in ogni luogo ve ne ha la medesima abbondanza di sabbia, bisogna aver diligenza di usare di quella ch'è più adatta, e che più comodamente si può apprestare». In passato i pareri circa la qualità della sabbia in base alla sua provenienza (cava, fiume, lago) erano molto discordi. Vitruvio vantava le qualità dell'arena fossile, altri, invece, le qualità di quella di fiume. Buona parte delle maestranze attuali preferiscono la sabbia di fiume perché "lega" più facilmente con la calce. Persino la sabbia di mare, tratta da alcune località, per esempio nel salernitano, è risultata essere di buona qualità. Oggi si è più concordi nel ritenere ché la cattiva qualità di una sabbia dipenda in particolare dalle sostanze eterogenee che vi sono frammiste. Nel restauro è importante che le sabbie siano prive di sali, perciò sarà opportuno eseguire ulteriori accurati lavaggi, anche per eliminare le impurità che necessariamente si aggregano durante i trasporti. Esiste una classificazione delle sabbie basata sul diametro dei granuli: - fina (da 0,06 mm. a 0,5 mm. circa) - media (da 0,5 mm. a 2 mm. circa)

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- grossa (da 2 mm. a 5 mm. circa) Sono talora consigliabili ulteriori vagliature da effettuarsi in cantiere per ottenere una granulometria più determinata tenendo ben presente che una granulometria ridotta fornisce manufatti con prestazioni meccaniche piuttosto scadenti soprattutto se in presenza di rilevanti quantità di legante. E importante eseguire adeguate “scelte cromatiche” della sabbia in base alla tonalità che si vuol far assumere all'impasto, in rapporto con l'esigenza estetica dell'intervento. Scavando sotto la superficie del suolo, a varie profondità e in banchi di spessori ed entità diversi, si può reperire ottima sabbia i cui requisiti organolettici non sono inferiori a quelli del materiale ricavato direttamente dai fiumi. Le sabbie migliori, tra quelle prelevate dai fiumi, sono quelle che provengono da emissari di laghi in quanto questi funzionano da vasca di decantazione e che, pertanto, le sabbie che si dragano in tali corsi d'acqua, di solito, risultano le più pure. Le sabbie del Ticino sembrano essere un modello di quanto appena affermato proprio perché il lago Maggiore (di cui il Ticino è emissario) risulta notevolmente allungato nel senso del deflusso delle acque e questa prerogativa consente una considerevole depurazione del materiale che le acque stesse trasportano inglobato nella loro massa. Tale peculiarità, sommata alla buona qualità silicea e quarzosa della sabbia, è, con ogni probabilità, alla base dell'affermazione che il viaggiatore inglese John Evelyn fece nel suo diario (1645) in merito ai magnifici vetri di Murano la cui eccellenza dipendeva dalla: «...bianca silice di Pavia...» (Davey, 1965).

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LA DI MARMO

PIETRA

MACINATA

E

LE

POLVERI

In alternativa alla sabbia che si trova in natura si può ricavare questo inerte dalla macinazione della roccia, del pietrame o della ghiaia. (Del resto, quella di origine naturale, non è altro che il prodotto dello sbriciolamento delle rocce, originato dall'azione dell'acqua o del vento o dei ghiacciai, e poi, magari, convogliata anche molto lontana dal luogo d'origine, da quegli stessi fenomeni geomorfici.) La sabbia prodotta dalla frantumazione o dalla macinazione, prima dell'uso, deve essere lavata in quanto esce dai frantoi mista a polvere finissima (<50 micron) che è necessario eliminare poiché, altrimenti, potrebbe occupare gli spazi che devono essere riempiti dal legante. Premesso tutto ciò, è pertanto indispensabile che la sabbia sia essenzialmente silicea e calcarea, non contenga argilla, abbia elementi con diametri compresi tra µm 50 e mm 4, sia esente da sali e da sostanze organiche. Il derivato della diretta frantumazione della pietra di cava, soprattutto se viene effettuato sul cantiere di lavoro, costituisce un ottimo inerte. E’ un prodotto puro, fresco, che non ha subito alterazioni. Queste caratteristiche migliorano la resistenza degli impasti e permettono di ottenere miscele della “stessa tonalità” e consistenza del materiale lapideo del manufatto su cui s'interviene. Vitruvio, a proposito dell'arena di cava, afferma: « quella poi di cava fa seccare la muratura assai più presto, durano gl'intonachi e reggono le volte: ma dee essere cavata di fresco: perciocché se dopo lavata, si faccia stare molto allo scoperto, il sole, la luna, la brina, la stemperano e la fanno terrosa». (De architectura, lib. 11, cap. IV, «Dell'arena»). 62


In genere, non è difficile reperire nelle vicinanze del luogo dov'è situato il fabbricato, la cava produttrice del materiale lapideo che lo costituisce. La pietra, prima di essere sottoposta a frantumazione, deve essere accuratamente spazzolata per liberarla da eventuali incrostazioni e grosse impurità. Successivamente deve essere lavata e quindi asciugata. La pietra quando esce dal frantoio è mista ad una finissima polvere di macinazione. Questa polvere non contribuisce alla resistenza della malta, anzi risulta dannosa, perché, essendo quasi impalpabile, si mescola con il legante. Pertanto l'inerte non svolge più la funzione di ossatura della malta, ma, sostituendosi al legante, diminuisce le capacità coesive dell'impasto. E opportuno, dunque, eliminare la polvere di macinazione che avvolge i granuli dell'inerte, dapprima ventilando accuratamente il derivato della frantumazione, in seguito lavandolo. Con successive setacciature si possono ottenere granulometrie diverse a seconda delle differenti necessità. Per le ragioni appena esposte, nel linguaggio tecnico, con il termine "polvere di pietra", "di marmo" o "di laterizio" ecc. s'intende esclusivamente la macinazione molto fina degli inerti. Un altro materiale spesso usato come inerte, particolarmente nelle malte dello strato più superficiale di finitura, è la polvere di marmo. Occorre precisare che per marmo gli antichi intendevano qualunque pietra dura che fosse lucidabile. Infatti, in greco, "marmarein" significa brillare, rilucere. Anche nel linguaggio tecnico corrente, per marmo s'intende qualsiasi roccia che sia lucidabile ma nella 63


moderna classificazione delle rocce, fanno parte dei marmi soltanto le rocce calcaree di origine metamorfica. Adottando un compromesso tra linguaggio corrente e terminologia scientifica, il termine marmo viene qui riferito all'insieme di tutte le rocce calcaree, metamorfiche e sedimentarie, che sono suscettibili di levigazione. La polvere di marmo quindi è il ricavato della frantumazione di rocce calcaree, che per l'alto contenuto di carbonato di calcio possono conferire ad un impasto requisiti di ottima resistenza e compattezza. La natura stessa del materiale porta alla formazione di una malta con particolari caratteristiche. Nei secoli scorsi, soprattutto nelle zone lontane dalle fonti di rocce calcaree, la calce veniva ottenuta con la macinazione e la cottura di marmi statuari o architettonici provenienti dalla spoliazione dei monumenti antichi. Pertanto, quando si esaminano in laboratorio malte antiche e provenienti da località con difficoltà di accesso alle cave di rocce sedimentarie, è opportuno tener conto di questa prassi assai diffusa. Conseguentemente non sarà mai possibile sapere con certezza quanto, del carbonato di calcio reperito in granuli nell'impasto di queste antiche malte, provenga da una cattiva esecuzione delle operazioni di cottura e spegnimento della calce e quanto invece derivi dalla polvere di marmo eventualmente introdotta quale inerte. La polvere di marmo solitamente più usata è quella ricavata dalla macinazione di rocce sedimentarie bianche ed il manufatto, la cui colorazione finale risulta appunto biancastra, può essere lasciato allo stato naturale oppure facilmente tinteggiato con i colori più diversi.

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Tuttavia, in particolari casi, allorché si vogliano ottenere peculiari effetti coloristici o evitare dipinture finali, si possono utilizzare polveri provenienti dalla macinazione di marmi di colori diversi a seconda, appunto, dei risultati conclusivi che si vogliono conseguire. Commercialmente la polvere di marmo si trova sotto il nome di «spolvero», ma la qualità in alcuni casi è scadente, in quanto si tratta di derivati della frantumazione di rocce non essenzialmente calcaree. E' consigliabile, pertanto, se si vuole ottenere una buona polvere di marmo, effettuare una produzione in proprio, in cantiere, mediante frantoio, setacciando il prodotto, sino ad ottenere la granulometria desiderata. LE SCAGLIE E LE POLVERI DI LATERIZIO

Il laterizio è un materiale da costruzione ottenuto dalla cottura di argille con quantità variabili di ossidi di ferro, sabbia, carbonato di calcio. Opportunamente triturato, costituisce un buon inerte da adoperare nel confezionamento delle malte. Gli elementi costitutivi le argille, e cioè gli ossidi di ferro e alluminio, la silice, i carbonati di calcio, conferiscono ai laterizi caratteristiche di impermeabilità e buona resistenza meccanica, analoghe a quelle proprie della pozzolana. E noto infatti come il "coccio pesto" degli antichi romani fosse utilizzato come rivestimento impermeabile di vasche, di fontane, o di pavimentazioni esposte all'umidità. L'aggiunta, quindi, di una certa dose di laterizio macinato in un impasto di calce, ne aumenta l’idraulicità e la resistenza. Vitruvio (De architectura, lib. II, cap. V) afferma:” Che se nella arena di fiume o di mare, vi si aggiungerà una terza parte di matton pesto e cernito, diverrà la malta di miglior impasto e forza". 65


L'uso del laterizio tritato in impasti specifici trova ampio spazio in interventi di consolidamento e di restauro, con diverse applicazioni e risultati: - per stuccature di cortine laterizie. - per conferire maggior resistenza e impermeabilità a malte prevalentemente di calce. - per ottenere impasti di determinate tonalità se finemente macinato, cioè ridotto a polvere di mattone. Selezionando opportunamente e raggruppando diversi tipi di laterizi destinati alla frantumazione, si ottiene un'ampia gamma di polveri di varie tonalità, dal giallo chiaro al rosso cupo, quasi marrone. Il colore del laterizio è legato alla temperatura di cottura. Se il laterizio è poco cotto, risulterà di colore giallo chiaro (sarà anche poco resistente), se e molto cotto, risulterà di colore rosso bruno (sarà più resistente e più impermeabile). E importante, perciò, saper valutare i dosaggi in base al risultato che si vuole ottenere. Va ricordato, a tal proposito, che l'argilla grezza contiene comunque una certa quantità di sali, la maggior parte dei quali si decompone alle normali temperature di cottura. I mattoni poco cotti, di conseguenza, generalmente contengono una maggiore quantità di sali. La polvere di mattone ottenuta dalla macinazione di mattoni gialli (poco cotti) va quindi dosata negli impasti in piccole quantità. L'uso può essere limitato in quei casi in cui si voglia conferire all'impasto caratteristiche di impermeabilità e resistenza, senza tuttavia volerne la colorazione rossiccia. 66


La polvere di mattone gialla, infatti, in basse percentuali non altera il colore base dell'impasto. Si tratta di un inerte che può anche essere considerato una sorta di pozzolana artificiale. Ed infatti i Romani, nelle zone ove mancava o non si reperiva facilmente la pozzolana naturale, usavano introdurre nelle malte laterizi frantumati, in varie pezzature. In effetti, come già detto, la pozzolana non può essere considerata solo un inerte in quanto in presenza di acqua si combina con la calce aerea assumendo proprietà idrauliche e cementanti. Pertanto anche l'argilla cotta ed il coccio pesto non si devono ritenere semplici inerti, bensì materiali complessi che, per le loro proprietà chimicofisiche, interferiscono nella reazione di presa. In pratica sia la pozzolana sia il cocciopesto aumentano la percentuale dei silicati alluminosi contenuti nella calce e, pertanto, influenzano positivamente accrescendoli sia il potenziale di idraulicità della malta che la resistenza a compressione. Occorre sottolineare che, se l'aumento dell'idraulicità e la maggior resistenza alle pressioni assiali possono essere ottenuti anche mediante l'impiego della calce idraulica o del cemento, tuttavia l'uso di malte in grado di acquisire simili prerogative senza l'utilizzo di tali leganti può risultare in diversi casi molto importante in special modo quando risulta preferibile o indispensabile evitare sia eccessivi ritiri che la produzione di sali (sempre presenti nei leganti cementizi). Nell'impiego del coccio pesto occorre tuttavia tenere rigorosamente presente che notevole importanza rivestono il sistema e temperatura di cottura del materiale utilizzato per la sua preparazione. Era già stato notato in antico che esistevano differenze sostanziali tra i diversi tipi di argilla 67


cotta e che i migliori risultati si ottenevano con l'inserimento di stoviglie e tegole macinate. L’azione dei raggi ultravioletti, dell’acqua e delle intemperie, infatti, modifica la struttura dei laterizi liberandoli dai sali e da impurità. Recenti esami di laboratorio hanno confermato che le malte contenenti frammenti di elementi sottili (quali tegole e pianelle) risultano assai più resistenti alla compressione delle malte confezionate con mattoni macinati. Da queste verifiche è emerso anche che, a causa della differente metodologia di cottura, appare sconsigliabile l'utilizzo di frammenti di laterizi moderni. La frantumazione di laterizi nuovi, prodotti ricorrendo anche all’uso di additivi chimici, non assicura gli stessi effetti del coccio pesto tradizionale. Inoltre, l’uso esclusivo di polveri finissime, derivate dalla macinazione di laterizi, può essere indicato per la pigmentazione di strati di finitura e non certo per svolgere una corretta funzione di inerte idraulico; per tale funzione, infatti, è richiesto l’uso di un adeguato fuso granulometrico.

LA POZZOLANA

Nelle regioni di origine vulcanica si trova spesso un particolare tipo di tufo che, ridotto in polvere (naturalmente o artificialmente), si usa come componente delle malte, in luogo o in unione con la sabbia ed altri inerti. Con il termine pozzolana (pulvis puteolana) è stato denominato il materiale scavato inizialmente presso Pozzuoli (NA) e poi, per estensione, anche il consimile prodotto vulcanico di cave situate presso Roma ed altre località italiane.

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È un prodotto costituito prevalentemente da silicati idrati di allumina, da silice (70%) e da altri elementi quali ossido di ferro, calcio, potassio, sodio e magnesio. La pozzolana si trova in genere sotto forma di sabbia incoerente, ma può presentarsi come tufo e quindi deve essere frantumata in grana fine e vagliata prima dell'uso con la stessa granulometria della sabbia. La pozzolana di origine tufacea è particolarmente adatta per essere miscelata con calci aeree, ha presa piuttosto lenta e si presenta di un colore rosso cupo. La pozzolana di Napoli, che si combina sempre con calci aeree, ha presa più lenta ed un colore che varia dal verde marcio al cinereo. Materiali delle stesse caratteristiche della Pozzolana si trovano anche in Grecia, nell'isola di Santos, in Germania (il Trass, che è composto di frammenti di pomice), in Francia ed in Giappone. La pozzolana però non deve essere considerata solamente un inerte, perché, pur non essendo cementante di per se, in presenza di acqua si combina con la calce, assumendo proprietà cementanti. Le pozzolane hanno la caratteristica che, impastate con malta aerea in aggiunta o in sostituzione della sabbia, conferiscono proprietà idrauliche e maggiore resistenza alla malta. Proprietà ben conosciute dai Romani che usarono la malta pozzolanica nelle opere idrauliche. La pozzolana è un materiale conosciuto dai costruttori romani, che ne fecero un largo uso (specialmente nell'opus coementicium, per l'esecuzione di opere portuali e per alcuni tipi di intonaci) ed utilizzarono, a questo scopo, anche varie cave nei pressi di Roma.

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Vitruvio (Libro 11, Cap. 6, 1) scrive che: « Esiste anche un tipo di polvere che per le sue qualità naturali dà risultati strabilianti. È diffusa nella zona di Baia, nelle campagne di quei municipi che sorgono intorno al Vesuvio. Mista a calce e a pietre essa non solo rende estremamente solidi i vari tipi di costruzioni, ma anche le strutture dei moli costruiti sott'acqua». Proprio per questa sua facoltà di trasformare la calce aerea in legante idraulico la pozzolana risulta un inerte sui generis in quanto svolge, sostanzialmente, una doppia funzione: quella di inerte e quella di coadiuvante del legante, essendo in grado di attivare, significativamente, l'indurimento della calce e di rendere resistente all'acqua la malta indurita. In effetti nel materiale pozzolanico sono inglobate silice reattiva ed allumina che, a temperatura ordinaria ed in presenza di acqua, reagiscono con il grassello di calce (idrossido di calcio) determinando la formazione di alluminati idrati di calcio e, particolarmente, di silicati idrati di calcio per la reazione della calce con l'allumina e la silice della pozzolana. La velocità con cui avviene questa reazione è molto maggiore di quella con cui si manifesta il processo di carbonatazione della calce. Ciò determina il più rapido indurimento della malta pozzolanica. Inoltre, a causa della diversa micro-struttura degli alluminati idrati e dei silicati idrati, essa risulta assai più compatta e resistente di quella del carbonato di calcio. È molto importante ricordare che le malte di calce e pozzolana possono indurire autonomamente (e rapidamente) anche in assenza di aria ma che, comunque, la formazione dei silicati e degli alluminati non impedisce la carbonatazione per cui, allorché la presenza di anidride carbonica lo consente, ambedue i processi contribuiscono alla trasformazione della calce. 70


LE SABBIE VULCANICHE.

Occorre precisare che l’uso di sabbie provenienti dalla macinazione delle rocce vulcaniche dell’Etna non è in alcun modo paragonabile con l’utilizzo della pozzolana. La sabbia vulcanica è un inerte di qualità dotato di ottime caratteristiche meccaniche che, in modo blando, agevola il comportamento idraulico della malta. La pozzolana, nascendo dall’attività esplosiva del Vesuvio, ha una struttura cristallina molto diversa. La silice reattiva e l’allumina, inglobate nel materiale pozzolanico, reagiscono con l’idrossido di calcio formando rispettivamente i silicati idrati e gli alluminati idrati di calcio ; queste sostanze agevolano il rapido indurimento della malta anche in assenza di aria. L’elevato numero di cavillature, la porosità e l’estesa area superficiale delle sabbie pozzolaniche, inoltre, consentono un più ampio contatto e, quindi, una maggiore reattività con le particelle di calce.

4. CRITERI PER LA PREPARAZIONE DELLE MALTE PER L'INTONACO 4.1 MALTE DA CONFEZIONARE IN C ANTIERE

PER

INTONACI

In generale i principali requisiti che un impasto deve soddisfare per garantire una buona posa in opera sono: - una consistenza tale da consentire la corretta applicazione dei diversi strati; - una capacità d’adesione tale da evitare, fino alla presa, il distacco dal supporto ; - un tempo di presa che consenta un periodo sufficiente, fra l’impasto e la presa, per la posa in opera della malta. 71


Nel cantiere edile e’ diffusa la consuetudine di misurare e di calibrare i componenti della miscela grossolanamente ricorrendo ad unità di misura quali la pala, il secchio o la carriola ; questi sistemi, ove non utilizzati con il necessario raziocinio, possono comportare gravi anomalie nelle prestazioni del rivestimento, anche in relazione alla difficoltà di stabilire l'esatto volume dell’acqua già incorporata nell'inerte. Pertanto, essendo difficile ottenere un'indicazione assolutamente precisa delle quantità di tutti i componenti delle varie malte e considerando che i suggerimenti debbono valere soprattutto per il cantiere, si ricorre, in genere alla quantificazione in volume prendendo come riferimento un’unità chiamata parte al fine di consentire l'uso di un qualsiasi contenitore per la misurazione dei componenti. Riportiamo in calce al presente testo delle tabelle di riferimento. Per la preparazione dell’impasto occorre assicurarsi che il piano di lavoro o l’eventuale contenitore nel quale si intende operare, sia pulito e non contenga, quindi, sostanze inquinanti capaci di pregiudicare la durata dell'intonaco. Il confezionamento in cantiere della malta può essere eseguito a mano o con idonee attrezzature meccaniche (piccole betoniere, impastatrici meccaniche con tramoggia fissa ecc.) ; le modalità variano in relazione al tipo di legante impiegato. Di norma si devono miscelare a secco i leganti e gli inerti, mescolandoli in seguito con un quantitativo d’acqua pari ai 2/3 del totale, fino a ottenere una pasta densa e di colore uniforme. Successivamente si aggiunge gradualmente il restante 1/3 dell'acqua necessaria per ottenere la consistenza e la plasticità desiderata.

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Se la preparazione viene eseguita a mano, è preferibile lavorare su di un tavolato. Non bisogna mai confezionare le malte sul terreno, sostanze organiche o altri elementi inquinanti possono miscelarsi agli impasti. Per confezionare le malte a base di calce aerea (idrata in polvere) è necessaria la miscelazione preventiva con gli inerti inumiditi ; solo in seguito si possono aggiungere gli altri leganti e la rimanente quantità d'acqua. Le malte a base di calce idraulica devono essere applicate entro le due ore in primavera o le tre ore in autunno dal momento dell'aggiunta di acqua. Non è mai una corretta abitudine, dopo il confezionamento della malta o nel corso della posa in opera, aggiungere ulteriormente dell’acqua allo scopo di compensare l’avvenuta presa della miscela. 4.2 MALTE PRECONFEZIONATE

Gli intonaci preconfezionati più diffusi sono i seguenti : - intonaco pronto completo di tipo ordinario; - intonaco ordinario per rinzaffo; - intonaco ordinario sottofondo;

per

la

realizzazione

del

- intonaco ordinario per la realizzazione dell'ultimo strato ; - intonaco pronto completo ; - intonaco con prestazioni speciali macroporosi, impermeabili, ecc.) ;

(intonaci

- semplici componenti da aggiungere alla malta tradizionale per ottenere particolari comportamenti del rivestimento o per una componente estetica particolare. Tutti questi formulati vengono commercializzati in sacchi (i formati più ricorrenti variano da 25, a 5O kg). Quando il 73


prodotto premiscelato è a base di grassello di calce, essendo il prodotto allo stato di pasta, il tipo di formato è generalmente il secchio di plastica o il sacco plastificato da 25 - 30 kg. Il grassello contenuto in recipienti sigillati, in assenza di aria non sviluppa nessun fenomeno di presa. Non è possibile confezionare intonaci a base di leganti idraulici sotto forma di miscele pronte in pasta, la presenza d’acqua permette la maturazione della malta anche nel contenitore sigillato. Gli intonaci preconfezionati devono essere posti in cantiere su piani di legno staccati dal terreno (per esempio i pallet stessi usati per il trasporto, previa stesura di un telo impermeabile) in luoghi coperti e riparati. Nel caso del grassello il prodotto dovrà rimanere sigillato e al riparo dal gelo e dal calore eccessivo. Per la preparazione di queste malte valgono, in via generale, le stesse considerazioni fatte per gli intonaci ordinari da preparare in cantiere ; occorre, in ogni caso prestare la dovuta attenzione nel seguire attentamente le istruzioni fornite dal produttore con particolare attenzione per gli esatti quantitativi d’acqua, per le modalità di impasto (generalmente meccaniche), per la miscelazione di componenti differenti e per l’eventuale trattamento preventivo di imprimitura. Diverse malte pronte all’uso si preparano in piccoli quantitativi anche in relazione all’impossibilità di poterle riutilizzare in fasi o giorni successivi. Con l’esclusione della calce aerea che ha lunghi tempi di presa ed è quindi facilmente utilizzabile a ragionevole distanza di tempo, per tutte le altre malte non è mai una consuetudine corretta adoperarle dopo l’inizio della presa aggiungendovi dell’acqua. Il prodotto finito non sarà mai di qualità. 74


4.3 DI CALCE AEREA

INTONACI

CON

MALTA

Una composizione molto diffusa nel passato per la finitura delle pareti esterne consisteva in una malta di calce spenta, sabbia, e terre colorate. Attualmente negli intonaci esterni si usa raramente una miscela a base di sola calce aerea, almeno nei primi strati ; si preferisce in genere aggiungere moderate quantità di leganti idraulici o di additivi al fine di accorciare i tempi di attesa (relativamente lunghi) fra le diverse fasi della posa. La natura degli strati è caratterizzata dall'uso dello stesso legante ma viene differenziata diminuendo gradatamente la quantità e la dimensione degli inerti dallo strato interno verso quello più esterno. L’applicazione dell'intonaco a base di calce aerea segue i criteri generali della posa dell'intonaco. I migliori risultati si ottengono con le seguenti modalità: - si predispongono le adeguate difese contro il sole ed il vento ; - si prepara accuratamente il supporto (A1); - si bagna con acqua la superficie del supporto; - si posa il 1° strato di aggrappo con uno spessore inferiore a 0,5 cm lasciandolo ruvido; - si attende, in condizioni ambientali favorevoli, almeno 3 giorni; - si stende un secondo strato di circa 1,5 -2 cm, - si attende, in condizioni ambientali favorevoli, da 3 a 8 giorni; - si stendere lo strato di finitura colorata con uno spessore non inferiore a 0,5 cm.

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- si tratta l’ultimo strato dell’intonaco, solo ad indurimento avvenuto, con degli idonei protettivi (B2) - si protegge l’intonaco dalla rapida disidratazione. Specifiche sui materiali Il rapporto volumetrico fra il grassello di calce e l'inerte è : Per il rinzaffo 1parte di calce aerea + 2 parti di sabbia (2 - 8 mm) + 0,7p di acqua Per l’intonaco rustico 1 parte di calce aerea + 2 parti di sabbia (0,6 - 2 mm) + 0,7p di acqua Per le finiture 1 parte di calce aere + 2,5 parti di sabbia (0,08 - 0,6 mm) + 0,9p di acqua I materiali da impiegare sono facilmente reperibili sul mercato in termini di fornitura e appartengono al complesso dei materiali comunemente impiegati dalle imprese. Le lavorazioni in cantiere seguono tuttavia ritmi e cicli che non richiedono l’uso di attenzioni particolari al di là della conoscenza delle qualità intrinseche del materiale e del rispetto dei tempi d'attesa più lunghi se confrontati con agli intonaci a base di leganti idraulici. Anche se assimilabili a tutti gli effetti alle malte bastarde riportiamo i rapporti volumetrici per le malte di calce aerea + pozzolana o cocciopesto (inerti assimilabili, intercambiabili e miscelabili). Per sottofondi 76


1 parte di calce aerea + 2 parti di pozzolana + 0,8p di acqua Per finitura 1 parte di calce aerea 2,5 parti di pozzolana + 1p di acqua Avvertenze In ambiente marino, i pregi estetici dell'intonaco a base di calce aerea non sono suffragati da una corrispondente qualità tecnologica che ne garantisca l'accettabile durata nel tempo. Inoltre la persistenza di elevati tassi di umidità relativa (pareti esposte a nord) e la rapida disidratazione (pareti esposte ad ovest) sono fattori che non consentono le condizioni ideali per la presa e l'indurimento della calce aerea. In presenza di condizioni ambientali intermedie, ove non s'intenda rinunziare in alcun modo ai loro pregi estetici, è possibile utilizzare questi rivestimenti nel rispetto delle seguenti condizioni: - tempi di posa adeguati al prodotto; - protezione dalle intemperie; - protezione dalla rapida disidratazione; - posa in condizioni climatiche favorevoli (stagioni intermedie); - protezione (silossani);

finale

con

sostanze

idrofobizzanti

- predisposizione e rispetto di un piano di ciclica manutenzione. Per una corretta posa degli intonaci di calce aerea occorre rispettare i tempi di attesa fra la stesura di uno strato e il successivo ; la carbonatazione della malta aerea è un processo che richiede un lungo contatto con l'aria.

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In uno strato troppo spesso, ricoperto prematuramente da altri strati, si ostacola il passaggio di un sufficiente quantitativo d’aria, rallentando ed a volte interrompendo la reazione di carbonatazione. Il ritardo della maturazione della malta porta alla formazione dei ‘calcinaroli’, grumi di particelle di calce non spenta che a contatto con l’acqua, anche a distanza di tempo, si carbonatano rigonfiandosi. Questo fenomeno pregiudica irreversibilmente la qualità del rivestimento comportando pericolose conseguenze anche a lungo termine. Per consentire il corretto e completo processo di carbonatazione occorre bagnare ripetutamente la superficie di ogni strato. La lenta reazione può avvenire solo se la calce non cede troppo rapidamente l'acqua di impasto. Nelle superfici a diretto contatto con l'aria, inoltre, la carbonatazione avviene rapidamente formando uno strato consistente che ostacola il fenomeno nella parte sottostante. Per gli intonaci impiegati in esterni è importante la presenza di sporti che li proteggano dalle infiltrazioni e dal dilavamento dell'acqua piovana. Considerando la scarsa resistenza della calce aerea alle sollecitazioni meccaniche e la spiccata propensione ad assorbire acqua per capillarità, si devono prevedere dispositivi atti a difendere l’intonaco lungo la base delle murature ed in ogni altra parte della costruzione dove la superficie del rivestimento viene interrotta da elementi più rigidi.

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Per le suddette caratteristiche l'intonaco a base di calce aerea è stato da tempo sostituito con intonaci di più facile e rapida applicazione. 4.4 COMPOSITA O BASTARDA

INTONACI

CON

MALTA

Occorre precisare subito che, contrariamente alla comune convinzione, la malta bastarda non è esclusivamente quella composta con calce e cemento (di recente formulazione); si chiamano bastarde tulle le mate ottenute con diversi leganti ed inerti, in vario rapporto (calce aerea, idraulica naturale e artificiale, pozzolana, coccio pesto) L'intonaco di malta bastarda rappresenta la tipologia di intonaco più diffusa. Se eseguito a regola d'arte, fornisce infatti alte garanzie di tenuta e di durata unitamente ad un apprezzabile aspetto estetico. La malta bastarda presenta un elevato gradiente di compatibilità con quasi tutti i supporti da intonacare, anche all'interno di locali umidi. La tipica versatilità di queste malte risiede nella possibilità di variare, nel corso del confezionamento, le percentuali dei leganti fornendo in tal modo prodotti con prestazioni appropriate, caso per caso, in funzione della natura del supporto e delle caratteristiche dell'ambiente in cui l'intonaco andrà a operare. L’intonaco di malta bastarda costituisce una base di buona qualità per la maggior parte delle successive opere di finitura. Le uniche controindicazioni sono quelle relative all'uso di intonaci a base di malta bastarda con forte presenza di cemento Portland se applicati su murature antiche ed umide. I migliori risultati si ottengono con l'uso cemento bianco che, essendo un prodotto più raffinato (proviene da calcari puri) contiene un quantitativo inferiore

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di sali solubili e non condiziona l'effetto estetico della malta ( il colore della malta cementizie vira verso tonalità grigie). Nella produzione edilizia corrente il rivestimento a base di malta bastarda, su pareti di nuova costruzione, viene realizzato, per ragioni economiche, attraverso la stesura di soli due strati. Nelle opere di conservazione, al fine di garantire il massimo grado di compatibilità e di collaborazione fra l'intonaco e il suo supporto si deve realizzare un terzo strato capace di regolarizzare le discontinuità della superficie. Il rinzaffo, nell'intonaco a tre strati, ha anche la funzione di uniformare l'assorbimento idrico della superficie quando non si è stati in grado di uniformare sufficientemente quello del supporto. L'assorbimento poco uniforme può provocare la disidratazione della malta (privandola rapidamente dell'acqua di impasto) in maniera differenziata da zona a zona. Nel caso di piogge battenti sulla facciata, inoltre, si possono formare macchie di umidità più accentuate in corrispondenza delle aree del supporto con più elevato assorbimento. E’ opportuno ricordare che, nella preparazione di una malta bastarda con un legante a base di grassello (in pasta), conviene operare come se si dovesse preparare una semplice malta di calce ; l’ulteriore legante di diversa natura va aggiunto solo in un secondo momento provvedendo ad una successiva ed accurata miscelazione. Quando, invece, si devono mescolare più leganti in polvere (calce aere, calce idraulica e l’eventuale cemento), si può procedere, dapprima, con la miscelazione dei leganti, indi

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proseguire con l’aggiunta a secco dei vari inerti, lavorando il tutto come se si trattasse di un unico materiale. Specifiche sui materiali L'intonaco di malta bastarda prevede cinque possibili combinazioni di leganti ed inerti : - Calce idraulica/calce aerea: la calce aerea è caratterizzata da un ritiro contenuto; la sua presenza diminuisce quindi sensibilmente il fenomeno delle cavillature; la calce idraulica conferisce all'impasto sia una maggiore resistenza meccanica che caratteristiche di idro-repellenza. - Cemento bianco/calce aerea: rispetto alla calce idraulica il cemento presenta facilità d'uso e maggiori resistenze alle sollecitazioni meccaniche ( queste prestazioni si pagano in contenuto di sali solubili); - Cemento bianco/calce idraulica: la calce idraulica presenta un minor ritiro del cemento e una maggior porosità. - Calce aerea/pozzolana e/o cocciopesto: è una miscela fortemente idraulica adatta alle condizioni ambientali di Ortigia. - Cemento bianco/calce idraulica/calce aerea: il composto ottimizza in se tutte le qualità dei singoli leganti correggendone vicendevolmente i rispettivi difetti. Per il numero delle possibili combinazioni non è semplice fornire delle schematiche indicazioni sulle caratteristiche delle diverse formule per il confezionamento delle malte bastarde. L’uso di queste malte è giustificato se, di volta in volta, vengono confezionate, in funzione dei loro componenti, per una determinata e precisa applicazione.

81


Nei lavori di restauro le malte pi첫 utilizzate sono:

1

1/2

1/2

1

2

1/2

1/2

1

3

1/2

1/2

3

4

1/4

1/2

1/4

1

1

5

1/2

1/2

1+1/2

1+1/2

6

1/2

1/2

7

1/2

1

8

1

1

2 1/2

1

1/2

1/2

3/4

9

1/2

1/2

10

1/2

1/2

1

11

1/2

1/2

1

12

1/2

1/2

1

13

3/4

1/4

2 +1/2

14

1/2

1/2

1

Mattone macinato grana media

fine

Sabbia grana

Polvere di marmo

Polvere di travertino

media Pietra calcarea macinata grana grossa

Pietra calcarea macinata grana

calce

Inerte

Grassello di

bianco

Cemento

Calce idraulica

Legante

Malta

1

1

1

1 1

1 1

1/2

1 1/4

1

1/2

1/2 2

1

1 1/2 1

1

82


Per valutarne il comportamento occorre riflettere sui criteri generali:

 la lavorabilità e la duttilità dell’impasto si ottengono aumentando nel legante la quantità della calce grassa (quella ottenuta da un calcare puro al 95%);  le tonalità desiderate si ottengono calibrando la miscelazione dei diversi inerti;  le resistenze meccaniche si ottengono, ove occorre, con l’accurata scelta dell’inerte (qualità e granulometria medio/grossa) ed aumentando nel legante le quantità della calce idraulica o del cemento ;  le resistenze meccaniche con minore contenuto di sali solubili si ottengono limitando nel legante la quantità del cemento;  l’impermeabilità viene data dalla presenza della calce idraulica, del cemento o degli inerti a comportamento idraulico. Avvertenze È diffusa l’usanza di utilizzare miscele di componenti con soli leganti idraulici; tuttavia, quando al rivestimento è richiesto un comportamento meno rigido, capace, quindi, di adeguarsi ai movimenti differenziali della muratura, è corretto utilizzare anche la calce aerea calibrandone il dosaggio rispetto ai leganti idraulici. Occorre ricordare inoltre che l'introduzione di leganti idraulici limita l'evaporazione dell'acqua contenuta all'interno della muratura, con pericolo di probabili rigonfiamenti dovuti alla pressione dei vapori; pericolo 83


analogo è causato, anche, dalla presenza di granuli non spenti di calce aerea (calcinaroli), che continuando a reagire provocano bolle nel rivestimento. 4.5 INTONACI CON MALTA DI CALCE IDRAULICA

L'uso della calce idraulica è andato sempre più diffondendosi in epoca moderna in tutti i settori edilizi, sia per la rapidità di posa e di indurimento rispetto alla calce aerea, sia per le più elevate caratteristiche di resistenza e di impermeabilità. La malta a base di calce idraulica è utilizzabile sui più diversi supporti. A sua volta costituisce un buon fondo, anche se non l’ideale, per i tinteggi a calce, con sufficienti garanzie di tenuta. L'utilizzo di malta a base di sola calce idraulica non è diffuso. Il fatto che la calce idraulica, rispetto alla calce aerea, faccia presa anche in presenza di acqua, la rende utilizzabile su quelle superfici connotate dalla presenza costante di umidità. In rapporto alla calce aerea, la calce idraulica presenta un miglior comportamento agli sbalzi termici, ma è dotata di minore elasticità. Le tecniche di applicazione dell’intonaco a base di calce idraulica seguono gli stessi criteri di quelle per l’applicazione delle malte bastarde. Il confezionamento della calce idraulica con sabbia ed acqua varia in relazione con il diverso grado di idraulicità. Si riportano, quindi, differenti composizioni dei più comuni leganti impiegati. Calci debolmente idrauliche per malte da rinzaffo o da rustico : 1p di calce + 2,2p di sabbia + 0,8p di acqua. 84


Calci eminentemente idrauliche: È preferibile aumentare la quantità di inerte (e perciò anche di acqua) per unità di legante. da sottofondo 1p di calce + 2,8 di sabbia + 0,9 di acqua Per le malte di finitura : 1p di calce + 2,7p di sabbia + 0,9 di acqua Un adeguato aumento proporzionale dovrà essere applicato all'inerte nelle malte di finitura (circa 4 p.) anche se è sempre preferibile, salvo casi particolari, evitare l'impiego di calce idraulica (o di cemento) almeno negli strati superficiali degli intonaci sia a causa della loro tendenza a fessurarsi, sia per il maggior contenuto di sali (nel caso di calci idrauliche artificiali). Specifiche sui materiali Come implicito nella denominazione, la calce idraulica, a differenza della calce aerea, può realizzare la presa anche in assenza d'aria e sott'acqua ; i fenomeni di presa e di indurimento, infatti, sono dovuti alla formazione, per elettrolisi, di silicati ed alluminati. L'indice o gradiente di idraulicità è il rapporto intercorrente fra la quantità d'argilla e quella degli ossidi (calcio, magnesio, sodio e potassio) in essa contenuti. In relazione all’indice d’idraulicità, la calce viene distinta in: - debolmente idraulica I = 0,10 - 0,15 presa 15 -30 giorni. - mediamente idraulica I = 0,16 - 0,30 presa10 - 15 giorni. - propriamente idraulica I = 0,31 - 0,41 presa 5 - 9 giorni. - eminentemente idraulica I = 0,42 - 0,50 presa 2 - 4 giorni.

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Le calci eminentemente idrauliche, in condizioni favorevoli, iniziano la presa dopo un'ora dall'esecuzione dell'impasto e la completano in circa 48 ore, tuttavia la stabilizzazione del processo non può essere considerato completato prima di sei mesi. Spesso, tuttavia, dimenticando la gamma di soluzioni possibili ottenibili con queste calci ci si indirizza esclusivamente verso quella eminentemente idraulica ovvero verso un prodotto molto simile, per caratteristiche (positive e negative) al cemento Portland. In base all'unificazione normativa vigente, l'individuazione dei prodotti avviene con le seguenti denominazioni: - calce idraulica normale ; - calce idraulica, normale o artificiale, in polvere ; - calce eminentemente idraulica, normale o artificiale, in polvere ; - calce idraulica artificiale pozzolanica in polvere ; - calce idraulica siderurgica in polvere. Avvertenze Volendosi avvalere della calce idraulica occorre prestare la dovuta attenzione alle caratteristiche specifiche di ogni tipo. Spesso e inconsapevolmente vengono utilizzati, a guisa di calci idrauliche, materiali di scarto del ciclo produttivo del cemento. Sotto il profilo della resistenza a compressione, ciò non rappresenta certo un danno in quanto tali materiali, pur non avendo indici di resistenza accettabili per un cemento, presentano sempre carichi di rottura largamente superiori a quelli richiesti per la calce idraulica.

86


Tuttavia, in diversi casi (per esempio quando necessita contenere il ritiro delle malte), questo beneficio diventa un vantaggio solo apparente. Occorre, anche, considerare che il materiale utilizzato nel processo produttivo del cemento contiene molti sali e, come noto, la presenza di tali sostanze nell’intonaco può causare non lievi problemi ed inconvenienti. Solo la calce idraulica naturale, nei diversi indici d’idraulicità, ci consente di ottenere malte forti e pure (spesso nei prodotti artificiali sono presenti diversi sali). La calce idraulica si può ottenere anche artificialmente eseguendo le seguenti miscele: - carbonato di calcio + argilla; - calce aerea idrata + pozzolana; - calce aerea idrata + loppa basica d'altoforno. occorre precisare che quasi tutte le calci idrauliche attualmente in commercio sono artificiali e si possono riconoscere abbastanza facilmente perché. la calce idraulica naturale ha, solitamente, una colorazione biancogiallastra, mentre la calce idraulica artificiale è di colore grigio (più o meno scuro). SUGGERIMENTI PER LA PROTEZIONE DELL’INTONACO ALL’APPOGGIO

Il distacco delle zone dell’intonaco a diretto contatto col terreno o con le pavimentazioni è fra i fenomeni di degrado dell'intonaco più diffusi. Affinché e l'acqua piovana non ristagni nelle suddette zone devono essere presi opportuni provvedimenti (risanamento delle murature entroterra, pendenze di scolo ecc.). Occorre, inoltre, provvedere a specifici trattamenti contro la proliferazione dei microrganismi, e riparare, ove 87


possibile, le pareti con piccole zoccolature resistenti, e, in ogni caso, ad interrompere prima del contatto col terreno l'intonaco, predisponendo zoccoli di malta o di pietra, resistenti all'umidità ed all’insudiciamento.. La pioggia che, battendo sulla pavimentazione, rimbalza sulla parete provoca l'erosione lenta, ma continua, dello strato di finitura dell'intonaco e contribuisce a sporcarlo con la polvere o il fango sollevati dalla pavimentazione o dal terreno. In questi casi, ove è possibile intervenire senza falsare l’aspetto dell’edificio, è bene predisporre uno zoccolo di altro materiale più resistente. L'altezza minima di questo zoccolo è di circa 30 cm. Specifiche sui materiali Nella scelta della soluzione tecnica più appropriata (sia come tipo di intonaco sia come tipo di eventuale zoccolatura), si deve tenere conto del requisito di resistenza agli urti, prodotti principalmente da persone e da veicoli. Le protezioni posizionate in corrispondenza dell'attacco a terra devono essere realizzate con elementi e materiali che limitano l'ascesa per capillarità dell’acqua piovana, che presentano una buona resistenza meccanica agli urti e all'erosione, che trattengono poco lo sporco o la polvere e siano in grado di pulirsi sotto l'azione della pioggia. SUGGERIMENTI PER LA PROTEZIONE DELL'INTONACO DALLA RAPIDA DISIDRATAZIONE

Occorre proteggere all'intonaco sia quando è appena applicato per condurlo a una corretta maturazione (presa e indurimento), sia quando è pienamente maturato al fine di permettergli di mantenere nel tempo le caratteristiche richieste.

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- Protezione dell'intonaco fresco. L'intonaco va protetto da una rapida disidratazione, fenomeno capace di provocare la precoce conclusione del processo di presa e di indurimento della malta. Negli intonaci a base di malta di calce aerea, per esempio, si possono formare i ‘calcinaroli‘ (grumi di particelle di calce non spenta che a contatto con l’acqua, anche a distanza di tempo, si carbonatano rigonfiandosi). Il vento, il sole e le alte temperature in genere, costituiscono elementi negativi. Per evitare o comunque limitare i danni si possono utilizzare, come protezione, teli di juta bagnati, di incannucciato o di plastica. Nei periodi più caldi e ventosi occorre irrorare periodicamente l’intonaco d'acqua per circa 8 giorni, evitando le ore più calde della giornata quando l'intensa evaporazione aumenta il ritiro. Se si ricorre a teli in materiale plastico, occorre evitare il contatto diretto con la superficie intonacata; si rischia, in questi casi di surriscaldare la superficie e si limita l’apporto di aria utile per la reazione di carbonatazione. - Protezione dell'intonaco maturato. Una condizione ottimale per l'intonaco si ottiene impedendo il più possibile alla pioggia battente di raggiungere la parete. Fenomeno che, oltre a un abbondante apporto di umidità, produce una sensibile erosione del rivestimento e delle pigmentazioni. Risultano perciò utili in questo senso tutti quegli sporti orizzontali che proteggono efficacemente le superfici intonacate sottostanti.

5. LA MANUTENZIONE DEGLI INTONACI

La conservazione degli intonaci è spesso condizionata dalla presenza di diversi fenomeni di degrado. Il distacco di parti 89


consistenti, la mancanza (lacuna) di frammenti o di parti consistenti, la presenza dei danni conseguenti alle efflorescenze saline, all'erosione, all’umidità di risalita sono tutti fenomeni di degrado consueti e diffusi. Non è raro, tuttavia, imbattersi in edifici dove gli intonaci si presentano ben conservati e dove i fenomeni di degrado sono limitati a specifiche zone quali: le parti basamentali, alcuni muretti d'attico, parti lesionate dall'inserimento di elementi metallici, perdite localizzate d’impianti, ecc.; in altri edifici il rivestimento si presenta strutturalmente sano ma il dilavamento operato dalle acque meteoriche ne ha sbiadito le tinte. In tutti questi casi, contrariamente all'uso comune che privilegia la demolizione, risulta più corretto conservare gli intonaci per i seguenti motivi: -

le implicazioni culturali a cui si è fatto riferimento nel capitolo iniziale "l'intervento sulle fronti esterne degli edifici storici: attuali indirizzi di metodo";

-

le implicazioni tecniche, in genere gli intonaci tradizionali, soprattutto quelli che versano in buono stato di conservazione, presentano qualità tecnologiche ed estetiche ben superiori a quelli di odierna produzione;

-

le implicazioni economiche, la manutenzione degli intonaci comporta investimenti (di tempo e di denaro) decisamente inferiori se paragonati a quelli da sostenere per il rifacimento integrale.

Una volta accertata l'opportunità (culturale, tecnica ed economica) di eseguire la manutenzione conservativa degli intonaci occorre riflettere sul fatto che tali opere non comportano solo ed esclusivamente delle scelte tecniche ma necessitano di un approfondimento teorico sul modo di intendere la manutenzione stessa. 90


Nella corrente prassi del cantiere edilizio (legittimata da una normativa insufficiente), infatti, la manutenzione si fonda su generici principi di "buon senso" e di " buon gusto" che si sostanziano nella sistematica distruzione e falsificazione dell'immagine propria di tante costruzioni e, quindi, dei valori estetici dell'intero contesto ambientale. Il concetto di manutenzione assume il significato di imbellettamento, di rinnovamento, di revisione e di rifacimento; concetti, come si vede, ben lontani dall'intento conservativo. SUGGERIMENTI METODOLOGICI

Il fine della conservazione, è utile ripeterlo anche se schematicamente, può essere ottenuto rispettando i seguenti suggerimenti: - approfondire la conoscenza della fabbrica in termini sia tecnici che storico-critici; - evitare di demolire o ricostruire solo in base a giudizi storici o estetici; - evitare di demolire o ricostruire solo in base a distinzioni fra materiali "ricchi" e "poveri"; - formulare giudizi solo in seguito all'approfondita conoscenza dell'effettivo stato di degrado o di conservazione di ogni singolo elemento della fabbrica evitando, nella redazione del capitolato delle opere, generalizzazioni quali "spicconatura delle superfici esterne"; - limitare le demolizioni e le sostituzioni esclusivamente ai casi di reale ed accertata necessità ; - fare in modo che ogni rimozione sia giustificata dalla reale irreversibilità del degrado; - evitare ogni atteggiamento estetico/innovativo; 91


- limitare le opere al minimo indispensabile; - indirizzare il progetto verso il controllo di qualsiasi intervento evitando di delegare, anche le piÚ piccole scelte, all'arbitrio dell'impresa. Questi suggerimenti sono conseguenti all'odierno concetto di manutenzione inteso come "attività operativa coerente con i fondamenti della conservazione che riguarda le strutture ed i materiali della fabbrica al solo fine di prolungarne l'esistenza". IPOTESI D’INTERVENTO

Nello specifico caso della manutenzione degli intonaci le ipotesi perseguibili sono le seguenti: - l'intonaco si presenta ben conservato e si decide, quindi, di conservarlo senza rinnovare il colore al fine di mantenere le tracce del suo passaggio nel tempo; - In alternativa si provvede ad una blanda pulizia ed alle conseguenti opere di protezione (consolidamento ed idrofobizzazione delle superfici); - L'intonaco ha subito le ingiurie del tempo e si presenta degradato, scolorito e in alcune parti assente; si procede alle cure del caso (reintegrazione delle lacune, risarcimento delle fessure, consolidamento delle parti distaccate, ecc) concludendo i lavori con le opere di protezione (consolidamento ed idrofobizzazione delle superfici); - In alternativa, e solo se tecnicamente necessario, si possono definire i lavori con la stesura di scialbature piĂš o meno trasparenti e spesse affidando loro (al posto dei composti chimici) la funzione protettiva che svolgevano gli intonaci prima del degrado. In questo caso l'immagine dell'edificio viene 92


modificata, anche se in maniera reversibile in quanto lo scialbo scompare col trascorrere del tempo. Questa soluzione comporta scelte estetiche da meditare con attenzione e coscienza. In alcuni casi si può considerare opportuno riferirsi a colori collaudati dalla tradizione locale mentre, in altri casi, si possono trovare delle interessanti soluzioni innovative. Avendo accennato alla possibilità di modificare l'immagine dell'edificio ricorrendo alle scialbature protettive e naturalmente reversibili, corre l'obbligo di accennare, anche se brevemente, al tema della tinteggiatura con prodotti vernicianti. LIMITI DEI PRODOTTI VERNICIANTI

Da alcuni anni l'uso di questi prodotti si è esteso all'edilizia storica anche in quelle zone geografiche dove la tradizione costruttiva locale non prevedeva questa pratica. In diverse zone del sud, infatti, il colore della costruzione si è ottenuto con la semplice aggiunta, nella pasta dell'intonachino di finitura, di inerti o di terre. Questa consuetudine trova la sua giustificazione tecnica nelle diverse condizioni ambientali. Nelle zone climatiche caratterizzate da piovosità, da nebbia e da fenomeni di gelo gli intonaci necessitano di una pellicola protettiva in difesa dall'umidità indotta dall'esterno e dai conseguenti degradi, mentre, nei climi caldi gli intonaci porosi (privi di una pellicola protettiva che riduce la porosità) si difendono meglio dagli effetti dell'irradiazione solare. La tinteggiatura degli intonaci porosi deve essere evitata in ordine, anche, al seguente motivo: lo strato esterno dell'intonaco formato appositamente come supporto alla successiva coloritura è in genere poco poroso e su di esso la tinteggiatura pellicola rendendosi 93


facilmente reversibile; su questa caratteristica si fonda in concetto della tinteggiatura protettiva da intendere nella manutenzione edilizia come "superficie di sacrificio" . Quando, invece si tinteggia l'intonaco poroso, il prodotto verniciante si addentra nelle porositĂ dello stesso in modo spesso irreversibile; si ottiene, con questa pratica, l'effetto opposto: il "sacrificio" dell'intonaco. Inoltre, i pigmenti utilizzati per la produzione dei prodotti vernicianti vengono riferiti alle norme DIN; si utilizzano, quindi, nel loro confezionamento, pigmenti ed ossidi di provenienza tedesca ed olandese con tonalitĂ diverse da quelle della tradizione locale.

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5.1 INIEZIONI A BASE DI MISCELE LEGANTI PER INTONACI PARZIALMENTE DISTACCATI SCOPO DELL'OPERA

Un intonaco, ben conservato, si presenta parzialmente distaccato in alcune sue parti. Il distacco si può presentare sotto forma di parti esfoliate come nelle zone marginali di una lacuna, oppure si può manifestare, senza soluzione di continuità, su alcune parti della superficie dell'intonaco, con rigonfiamenti percettibili soltanto al tocco o dietro prova strumentale. Le iniezioni devono consentire l'efficace riadesione dell'intonaco al supporto. Modalità dell’intervento

Questi interventi consentono di ripristinare la condizione di adesività fra l’intonaco ed il supporto (la muratura o un altro strato dello stesso rivestimento) mediante l'iniezione di una miscela legante. Il distacco può essere limitato ad alcune parti esfoliate o alle zone marginali di una lacuna, oppure può essere estendersi, senza soluzioni di continuità su varie parti dell'intonaco. Nel primo caso (esfoliazione) si può applicare la miscela legante direttamente sulle parti distaccate, pressandole al supporto. Nel caso in cui la zona non è direttamente accessibile, si eseguono le seguenti lavorazioni : 1. s’ispezionato le superfici e si individuano le zone interessate dai distacchi ; 2. si praticano delle perforazioni con piccoli trapani (esclusivamente a rotazione) limitando l'intervento

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alle parti distaccate ed iniziando la lavorazione a partire dalla quota più elevata; 3. si aspirano i detriti della perforazione e le polveri depositatesi all'interno dell'intonaco; 4. s’inietta con un’apposita siringa una miscela acqua/alcool all'interno dell'intonaco al fine di pulire la zona distaccata e di umidificare la muratura; 5. si applica lungo i bordi del foro un batuffolo di cotone; 6. s’inietta una soluzione a base di adesivo acrilico in emulsione (primer) avendo cura di evitare il reflusso verso l'esterno; 7. si attende che l'emulsione acrilica abbia fatto presa; 8. s’inietta una malta idraulica operando una leggera ma prolungata pressione sulle parti distaccate, avendo cura di evitare il percolamento della miscela verso l'esterno. A volte la presenza di alcuni detriti ostacola la collocazione nella sua posizione originaria del vecchio intonaco anche praticando su di esso una leggera pressione, altre volte questi detriti possono impedire l'ingresso della miscela; in questi casi si deve rimuovere l'ostruzione ricorrendo ad iniezioni d'acqua (con una leggera pressione) oppure tramite appositi piccoli attrezzi meccanici. Per distacchi di lieve entità, fra strato e strato, con soluzioni di continuità dell'ordine di 0,5 mm, non è possibile iniettare miscele idrauliche; in questi casi si può ricorrere a iniezioni a base di solo adesivo acrilico, Per distacchi estesi si può utilizzare una miscela composta da calce idraulica, da un aggregato idraulico e da un additivo liquido fluidificante. 96


SPECIFICHE SUI MATERIALI

I materiali adatti alle iniezioni devono presentare caratteristiche simili a quelle dell'intonaco preesistente; in ogni caso questi prodotti devono avere: - porosità simile all’intonaco preesistente; - ottima presa idraulica; - assenza di sali solubili; - buona lavorabilità; - ritiro limitato. L’idraulicità della calce permette al preparato di far presa anche in ambiente umido; l'idraulicità dell'aggregato conferisce maggiore resistenza alla malta; l'adesivo limita la perdita di acqua appena la miscela viene a contatto con muratura e l’intonaco esistente; il fluidificante eleva l’iniettabilità dell'impasto. Come legante si usano calci idrauliche naturali bianche, come additivi alcuni lattici acrilici; gli aggregati consigliati sono la pozzolana superventilata e lavata (per eliminare eventuali sali) e il cocciopesto. AVVERTENZE

Si deve garantire la sicurezza tramite accorgimenti e puntellature per quelle zone che possono accusare danni a causa delle sollecitazioni prodotte dai lavori di conservazione. Il consolidamento di intonaci distaccati va eseguito ricorrendo preferibilmente a maestranze specializzate.

5.2 CONSOLIDAMENTO DI INTONACI DISTACCAT I MEDIANTE L’USO DI MICROBARRE DI ARMATURA SCOPO DELL'OPERA

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Un intonaco ben conservato si presenta parzialmente distaccato in alcune sue parti. Il distacco può presentarsi sotto forma di zone prive di evidenti soluzioni di continuità sulla superficie dell'intonaco, con rigonfiamenti percettibili soltanto al tocco o dietro prova strumentale. La collocazione di microbarre deve consentire la riadesione dell'intonaco al supporto. MODALITÀ DELL’INTERVENTO

Le fasi della lavorazione sono le seguenti: - si ispezionato le superfici e si individuano le zone interessate dai distacchi ; - si praticano delle perforazioni ( = 10/16 mm);  - si aspirano i detriti della perforazione e le polveri; - si iniettano, mediante siringhe (da veterinario) delle miscele acqua/alcool all’interno dell'intonaco al fine di pulire la zona distaccata e di umidificare la muratura; - si applica ai bordi del foro un batuffolo di cotone; - si provvede alla sigillatura delle zone in cui si sono manifestate, durante la precedente iniezione, perdite di liquido; - si inietta una soluzione a base di adesivo acrilico in emulsione (primer) ; - si inietta una parte della miscela idraulica in modo da riempire circa il 50 % del volume del foro; - si colloca la barra di armatura, precedentemente tagliata a misura (= 6/10 mm);

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- si inietta la rimanente parte di miscela idraulica evitando, tramite il batuffolo di cotone, il percolamento della miscela verso l'esterno. SPECIFICHE SUI MATER IALI

Le barre di armatura devono essere costruite con materiale imputrescente e inossidabile. In ogni caso sono da preferire le microbarre in vetroresina armata con fibre di vetro. Come legante si usano delle calci idrauliche naturali, come additivi dei lattici acrilici con caratteristiche fluidificanti ed antiritiro. AVVERTENZE

Si deve garantire la sicurezza tramite accorgimenti e puntellature per quelle zone che possono accusare danni a causa delle sollecitazioni prodotte dai lavori di conservazione. Il consolidamento di intonaci distaccati va eseguito ricorrendo preferibilmente a maestranze specializzate.

5.3 RIPARAZIONE DELLE LACUNE DELL'INTONA CO SCOPO DELL'OPERA

Conservare un intonaco generalmente ben conservato che presenta, in alcune zone un degrada dovuto alla caduta di parti limitate in seguito a urti o ad altri stress meccanici. MODALITÀ DELL’INTERVENTO

Nelle parti delle fronti esterne dove sono presenti delle lacune si può intervenire ricostituendo l'omogeneità e la continuità della superficie intonacata tramite l'applicazione di un impasto compatibile con quello esistente in modo da ricostituire non tanto l'omogeneità estetica della facciata, quanto la continuità funzionale del rivestimento.

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Se le lacune sono profonde si procede preventivamente al riempimento con malta idraulica (formata da grassello di calce con aggregati grossolani di cocciopesto o di pozzolana), per definire in seguito la parte superficiale con un impasto più fine. In presenza di discontinuità strutturali (lesioni, cavità, ecc.) di efflorescenze saline ecc., si deve provvedere ad eseguire le opere di predisposizione della muratura per i successivi interventi SPECIFICHE SUI MATER IALI

Per realizzare rappezzi duraturi e gradevoli alla vista occorre utilizzare materiali simili e del tutto compatibili con quelli esistenti, soprattutto in relazione al reciproco comportamento nei confronti delle escursioni termiche. Si devono, quindi, impiegare leganti della stessa natura da caricare con inerti ben crivellati e di idonea granulometria, costituiti, di volta in volta, dall’equilibrato dosaggio di ghiaie, di sabbie e di terre ; ove occorre all’inerte di deve miscelare del cocciopesto o altro genere di componente idraulico ; per migliorare le caratteristiche delle malte, al fine di favorire l'adesione al supporto e di evitare un eccessivo fenomeno di ritiro con conseguente comparsa di fessurazioni, occorre utilizzare specifici additivi acrilici. I vari strati d’intonaco devono essere eseguiti ad opportuni intervalli avendo cura, nello strato di finitura, di realizzare una tinta leggermente sotto tono; con una successiva VELATURA SI OTTIENE LA TONALITÀ DESIDERATA. Avvertenze

Per la buona riuscita dei lavori occorre : - scegliere aggregati che non contrastino eccessivamente, per colore e granulometria, con l'aspetto della malta esistente; 100


- rendere lavorabile l'impasto diminuendo la quantità di acqua ed aggiungendo additivi fluidificanti; - evitare di usare malte di calce aerea e sabbia che possono dar luogo ad efflorescenze sulle parti limitrofe. Per sottolineare la discontinuità fra i diversi materiali alcuni restauratori realizzano la reintegrazione con un leggero sottoquadro, in modo da differenziarli ulteriormente e da renderli immediatamente leggibili come ‘aggiunta’. Questa usanza oltre a determinare effetti estetici discutibili al punto da apparire un vero e proprio "feticismo del rappezzo", viene vanificata dalla constatazione che in realtà è impossibile nascondere l'evidenza della differenza (soprattutto con luce radente) fra l'intonaco esistente e la riparazione.

5.4 VELATURE SCOPO DELL'OPERA

La superficie dell’intonaco ha perso, in alcune sue parti, più o meno ampie, la tinta originale oppure, in seguito all'esecuzione di alcuni rappezzi il colore si presenta disomogeneo. L'intervento ho lo scopo di rendere omogenea la tinta. MODALITÀ DELL’INTERVENTO

Una volta eseguiti i necessari lavori preliminari di spolveratura e di pulizia dell’intera superficie da trattare, si esegue la velatura ricorrendo ad uno dei seguenti sistemi : - tinte a calce - si esegue uno strato di imprimitura, di colore bianco o leggermente in tinta, realizzandolo in modo da regolarizzare efficacemente la capacità 101


d’assorbimento del supporto, al fine di diminuisce il quantitativo di pigmenti da applicare nelle successive mani di finitura e di accentuare l’effetto velo; per assicurare la durata della velatura occorre trattarla con protettivi. - tinte al silicato di potassio - la velatura si ottiene incrementando, nella mano di fondo, il quantitativo di bianco e, contemporaneamente, diminuendo il quantitativo di tinta da utilizzare nella mano di finitura; - tinte acriliche - la velatura si ottiene incrementando nella mano di fondo il quantitativo di pigmento bianco e miscelando, nelle tinte basi coprenti della mano di finitura, un appropriato quantitativo di prodotto trasparente. La tinta trasparente deve essere costituita (pena l'immediata perdita del prodotto) dallo stesso polimero utilizzato per la produzione della tinta base. SPECIFICHE SUI MATERIALI

Le caratteristiche dei materiali variano in relazione al prodotto utilizzato AVVERTENZE

Le velature a calce vanno trattate con un protettivo idrorepellente capace di ritardare il loro rapido deperimento. Le velature con tinte ai silicati vanno eseguite esclusivamente su intonaci a calce ; in presenza di superfici di dubbia natura, seguire attentamente le istruzioni del produttore. Le tinte acriliche contrastano, per loro intrinseca natura estetica, con le trasparenze proprie delle costruzioni antiche. 102


Utilizzando sia i silicati che per le acriliche è da escludere ogni tentativo di ottenere effetti di trasparenza diluendo le tinte oltre i limiti consigliati dai produttori; la diluizione eccessiva di questi prodotti ne provoca il rapido deperimento.

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PARTE III° IL COLORE

1) LESSICO E DEFINIZIONI

Il termine colore deriva dal latino “color” dalla radice del verbo célàre, mascherare, coprire, nascondere, occultare. In un certo senso l'azione del colore, ad esempio su un muro, serve a nasconderne le imperfezioni e le irregolarità derivanti dal suo essere grezzo o troppo povero. Altri materiali da costruzione manifestano, per loro natura o in seguito a specifiche lavorazioni, una qualità superficiale che non necessita di ulteriori trattamenti (ad esempio la pietra che è dotata di un proprio colore, scabrosità, ruvidità, lucentezza, ecc.), ne esistono molti altri che invece non hanno caratteristiche di finitura tali da essere lasciati così come sono, oppure altri che, a loro volta, richiedono una determinata protezione superficiale. Il colore, quindi, è in genere costituito da una sostanza che ricopre qualcosa ed in tal senso viene inteso e definito. Un significato simile assume il termine greco che mostra la stessa radice di (pelle). In senso più ristretto indica, quindi, i materiali coloranti usati, in modo intenzionale o meno, in architettura, e gli effetti da questi prodotti. In tale accezione il colore è legato a motivi decorativi o funzionali (simbolici, psicologici, estetici ecc.). In senso più generale, tuttavia, il colore è difficilmente definibile come elemento a sé stante, in quanto inscindibile da tutte le altre componenti che danno vita all’architettura. Essendo, infatti, il colore intimamente connesso con la luce, il termine può indicare non solo il vero e proprio colorismo, ma anche tutti gli effetti, cromatici e chiaroscurali, da questa provocati. 104


Sotto l’aspetto fisico il colore si definisce come: 1) luce costituita da radiazioni elettromagnetiche variabili in base alla loro lunghezza d’onda; 2) proprietà di un corpo di riflettere la luce, determinando sull’occhio, la percezione del colore. Nell’ambito della fisica per colore s’intende la percezione visiva che avviene quando delle onde elettromagnetiche di varia lunghezza vengono riflesse da un corpo colpendo la retina. Nel linguaggio comune, invece, il colore viene inteso come l’aspetto cromatico degli oggetti osservati alla luce naturale. Questo significato è presente nella nostra lingua già nel XII secolo. Si è soliti distinguere tra colori semplici, costituiti da una sola radiazione, colori composti, costituiti da più radiazioni, colori complementari, quelli che, sovrapposti, danno luce bianca, come i sette colori dell’iride. Nel suo significato più concreto, il colore indica una sostanza naturale o artificiale, minerale o organica impiegata per colorare gli oggetti. Si tratta per lo più di composti metallici definiti, oppure miscugli di due o più composti. Il colore, inteso in questo senso, è alla base della pittura e contribuisce a distinguerla dal disegno. I colori vengono distinti in primitivi, cioè colori primari, e composti, ottenuti miscelando due o più colori primitivi. In base alla sostanza usata per miscelare i colori, possiamo avere colori a olio, a tempera, ad acqua. Questi tipi diversi di colori producono effetti nella resa delle forme e della prospettiva.

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Il colore locale è l’insieme degli aspetti e dei modi di vita che caratterizzano maggiormente un luogo, un tempo, un ambiente. 2. BREVI CENNI SULLA TEORIA DEI COLORI

Gli oggetti e gli ambienti che ci circondano sono in gran parte colorati. Ciò dipende dal fatto che la luce si diffonde attraverso onde di diversa lunghezza. Ad ogni onda corrisponde un colore. La differenza tra un “colore” ed un “non colore” è generalmente soggettiva. Il nostro occhio avverte solo una piccola parte delle onde luminose esistenti in natura; a questa corrisponde uno spettro di sette colori: il rosso, l’arancio, il giallo, il verde, l’azzurro, l’indaco e il violetto. La storia della teoria del colore riconosce tre pionieri: Newton, Goethe e Schopenhauer. Questi personaggi non hanno fondato la teoria e non risultano essere quelli che se ne sono interessati per primi. Infatti fin dalle prime civiltà si annotano diverse esperienze interessanti. Citiamo in proposito gli studiosi ed i filosofi greci (i pitagorici, Empedocle, Democrito, Aristotele, Teofrasto, Senofane, Zenone, Plutarco, ecc.), i romani (Vitruvio, Plinio, Plauto, ecc.), che avevano istituzioni corporative quali il Collegium tinctorum, ed i trattatisti (L.B. Alberti, De pictura, Leonardo da Vinci, Sulla pittura, Antonio Tilesio, De coloribus, Bernardino Telesio, De colorum generatione, ecc.) e tutte le altre esperienze artistiche che hanno interessato la storia dell'arte. ISAAC NEWTON

Il fisico inglese Isaac Newton dimostrò, nel 1672, che la luce, percepita come bianca, è in realtà composta dai sette colori dello spettro solare. 106


Nel suo esperimento Newton fece transitare un raggio di luce attraverso un prisma di cristallo. Il raggio si scompose nei sette colori dello spettro solare, dimostrando che il bianco è la somma di quei colori. Qualcosa di simile accade nell’arcobaleno: la luce che passa attraverso le piccole gocce d’acqua, sospese nell’aria dopo una pioggia, si scompone nei sette colori dello spettro (con tutte le relative gradazioni intermedie). Da questi presupposti derivano le seguenti osservazioni: -

l’oggetto che riflette tutte le onde luminose appare bianco (bianco = somma di tutti i colori);

-

l’oggetto che assorbe tutte le onde, senza restituirle ai nostri occhi, viene visto dai nostri occhi come nero (nero = assenza di colori);

-

l’oggetto che assorbe tutte le onde tranne una, ha il colore corrispondente a quella unica onda ( ad esempio: un oggetto che non assorbe il verde, viene visto dai nostri occhi verde).

Per queste ragioni alcuni artisti definiscono il bianco e il nero “non colori” perché il bianco è dato dalla somma di tutti i colori, il nero dall’assenza di colori. Il fatto di sostenere, contro ogni evidenza rilevabile, che la luce bianca, quella proveniente direttamente dal sole, costituisce l'insieme delle diverse lunghezze d'onda che contribuiscono alla formazione dei colori dell'arcobaleno fu certamente la prima tappa significativa nella comprensione dei fenomeni legati alla percezione dei vari colori. Questa impostazione, presentata nel 1730 da lsaac Newton nel suo Optics: ora Treatise of Refrections, Refractions, Inflections and Colours of Light, trovò notevoli difficoltà ad essere accettata per vera all'epoca della sua apparizione.

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WOLFGANG GOETHE

Quasi un secolo dopo Wolfgang Goethe, s'interessò intensamente della percezione del colore pubblicando nel 1808 un libro dal titolo Zur Farbenlehre; Goethe si oppose alle ipotesi newtoniane levandosi a difesa della purezza della luce. La sua contestazione nasceva dal fatto che i colori, che sono più scuri della luce, non possono esservi contenuti. Un colore scuro non poteva, con tutta evidenza, far parte della luce, in quanto quest'ultima era notoriamente più chiara. Era questa, però, una posizione squisitamente etica. L'apporto della sua Farbenlehre è, in linea di massima, di tipo psicologico-percettivo, il primo accenno alla Gestaltpsychologies. Per Goethe «L'attività dell'occhio è complessa: bisogna spiegare la permanenza delle immagini sulla retina, la capacità dei toni, la produzione continua di immagini che non corrispondono ad oggetti esterni, e si potrebbero chiamare endogene. Se le immagini non durassero oltre lo stimolo immediato la realtà apparirebbe come una rapida successione d'immagini staccate; la permanenza le lega in una continuità ritmica che verosimilmente dipende dalla tendenza a non recepire la realtà come una proiezione, ma come un discorso. Ma ciò significa che la percezione è anche memoria e, quindi, immaginazione» (G. C. Argan Introduzione in Goethe, La teoria dei colori. Milano 1981) Questi aspetti sono pertinenza della psicologia; il fatto di tentare d'interpretare cosa succede nella mente umana quando è terminato un determinato fenomeno fisiologico ed inizia la successiva azione interpretativa di tipo soggettivo. Il colore risulta, infatti, un potente strumento di modificazione delle condizioni psicologiche degli individui.

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ARTHUR SCHOPENHAUER

Il giovane Arthur Schopenhauer, affascinato come Beethoven dalle ipotesi di Goethe, entusiasmatosi all'argomento, decise di applicarsi allo studio sulla teoria del colore. Nel suo scritto Vista e colori, chiarì il ruolo che aveva la retina nella percezione del colore: quando si percepisce il colore bianco la retina risulta nella pienezza delle sue funzioni, quando invece si coglie il nero la retina manifesta un'assenza di azione. «E indicando i colori complementari generati dall'immagine postuma, egli continua affermando che le coppie di colori complementari appaiono per bipartizione qualitativa della funzione retinica. Così il rosso e il verde, essendo di uguale intensità, dividono l'attività retinica in due metà uguali, mentre il giallo e il viola sono prodotti in proporzione di tre a uno e l'arancione e il blu in proporzione di due a uno» (Rudolf Amheim in Arte e percezione visiva. Milamo 1997). Tale suddivisione proporzionale, pur non essendo stata dimostrata da Schopenhauer, risulta ancor oggi interessante ed anticipa la teoria del colore indicata da Ewald Hering. Quest'ultimo propose la teoria dei processi antagonisti, basata sull'ipotesi che i processi visivi si comportano secondo modalità di reazione opposte. Non volendoci addentrare nelle diverse teorie che hanno condotto all'attuale situazione ci limitiamo a considerare che i diversi filoni di ricerca sul colore (fisica, fisiologica, psicologica e artistica) s'intrecciano e si compenetrano l'una con l'altra a seconda delle necessità di verifica delle ipotesi che nascono all'interno di ognuno dei rispettivi settori. Dalla fisica sappiamo che, per la teoria ondulatoria, la luce è un campo elettromagnetico rapidamente alternante che si sposta nello spazio sotto forma d'onda, mentre per la teoria quantistica la luce è costituita da fotoni che possiedono una determinata energia. 109


In ambedue le teorie si è d'accordo nel considerare lo spettro visibile compreso fra il rosso ed il violetto. Nel 1931 venne messo a punto il sistema CIE (Commission Internationale d'Eclairage) che ha convenzionalmente circoscritto la «luce visibile» o la «banda della radiazione visibile» quella compresa nelle lunghezze d'onda di 380 nm per il violetto e di 780 nm per il rosso. L'occhio umano risulta in grado di percepire lunghezze d'onda comprese tra circa 400 e 700 nm.

FIG 1 BANDA DELLA RADIAZIONE VISIBILE

In realtà il colore non è misurabile in quanto si tratta di una sensazione esclusivamente indivisuale e quindi risulta, al di là di un presunto "occhio normale", diversa da osservatore a osservatore. Quando un raggio luminoso attraversa un prisma di vetro, o di un’altra sostanza perfettamente trasparente, a sezione triangolare avviene una dispersione dei colori secondo uno spettro cromatico solare costituito dai sette colori dell'arcobaleno: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro (o blu), indaco e violetto. La luce bianca, quindi, condensa in sé tutti i colori. SUDDIVISIONE DEI COL ORI 110


Nelle sostanze coloranti e nei pigmenti vi sono tre colori che non possono essere ottenuti per mescolanza: il giallo, il rosso ed il blu. Avendo a disposizione questi tre colori, combinandoli fra loro, è possibile ricavare tutti gli altri. I tre colori che non si possono trarre per mescolanza e non possono essere generati da altri colori sono chiamati colori primari.

FIG 2 COLORI PRIMARI

Sommando i tre colori primari si ottiene il grigio. Se, invece, si mescolano a coppie si otterranno i colori secondari, o derivati dai primari, diametrali dei primari, più spesso chiamati complementari. Si chiamano secondari perché sono costituiti da due colori fondamentali; derivati, perché derivano dall'unione di due primari; complementari perché opposti e soggiacenti sullo stesso diametro del colore primario loro opposto. Questi colori sono: l'arancio, il viola ed il verde

FIG 3 COLORI SECONDA RI

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Miscelando due colori primari in quantità diverse, si ottiene un colore terziario come in questo esempio:

fig 4 colori terziari

Ovviamente, proseguendo con il medesimo criterio si possono ottenere colori quaternari, quinquenari e così via. Questo modo di organizzare i colori è utilizzato ogni qualvolta si debbano creare dei colori che andranno a dépositarsi su superfici che acquisteranno il colore che verrà colto per assorbimento e riflessione dei raggi. All’interno dei colori primari e secondari, esistono tre coppie di colori detti complementari. Ogni coppia di complementari è formata da un primario e dal secondario ottenuto dalla mescolanza degli altri due primari. Per sapere qual è il complementare del colore primario giallo, mischiate gli altri due primari, il rosso e il blu: ottenete il viola che risulta essere il complementare del giallo.

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Fig 5

il viola è complementare del giallo

Fig 6

il verde è complementare del rosso

Fig.7

l'arancio è complementare del blu.

Ogni coppia ha in sé un colore poco luminoso ed uno molto luminoso. Nelle coppie giallo/viola, rosso/verde, arancio/blu, il primo colore è molto più luminoso del secondo. Se si accostano i colori complementari si ottiene un effetto di massimo contrasto: i due colori acquistano forza cromatica rafforzando a vicenda la luminosità di entrambi. Se si pone un colore luminoso al centro del suo complementare meno luminoso, l'effetto di contrasto e di complementarità è particolarmente evidente.

FIG 8

COLORI CALDI E FREDD I

I colori hanno una "temperatura" e si suddividono in caldi, freddi e neutri in base alle diverse sensazioni che 113


trasmettono, alle immagini e alle situazioni che richiamano alla mente. I rossi, i gialli e gli arancio sono luminosi e si associano alla luce del sole ed al suo calore, mentre i blu, i violetti e i verdi evocano la neve, il ghiaccio, il mare, il cielo.

FIG 9

Sono definiti caldi i colori che tendono all'arancio e al rosso:

FIG 10

Sono considerati freddi quelli che tendono al viola e al blu:

FIG 11

Sono considerati neutri quelli che tendono al nero, al bianco e al grigio.

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FIG 12

I colori si influenzano tra di loro e può verificarsi che la predominanza dei colori freddi faccia passare in secondo piano la presenza di colori caldi e viceversa.

FIG 13

La teoria della "temperatura" di un colore non è così rigida. Infatti, fatti, tra la metà calda e la metà fredda del cerchio cromatico si distinguono ulteriori colori "caldi" e "freddi". Prendiamo per esempio i rossi: in questo cerchio cromatico a 12 spicchi esistono due tipi di rosso, uno caldo e uno freddo. Il primo è il rosso rosso di cadmio che tende al "caldo" arancio. Per contro il cremisi d’alizarina è relativamente freddo in quanto tende al "freddo" violetto vicino nel cerchio cromatico. Le stesse considerazioni valgono per i gialli. Il giallo di cadmio chiaro è un colore caldo caldo perché tende al "caldo" arancio. Invece il giallo limone è freddo e infatti è collocato vicino al "freddo" verde. Anche i colori secondari si dividono in caldi e freddi. Il verde è freddo perché formato dalla combinazione di un giallo freddo e di un blu b freddo. Il cerchio disegnato sopra è simile a quello di Itten, pittore contemporaneo. Nel triangolo al centro ci sono i tre colori primari; su ogni lato del triangolo sono disegnati i tre secondari in

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corrispondenza dei due primari; tra i primari e i secondari si trovano i terziari.

FIG 14

COLORI ADIACENTI

Un colore può sembrare più caldo o più freddo a seconda del contesto in cui è collocato. Ad esempio il violetto è un colore intermedio ottenuto dalla combinazione di blu (freddo) e rosso (caldo); se posto accanto a un colore caldo come il rosso sembra freddo,

fig 15

mentre vicino a un colore freddo come il blu, appare caldo.

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fig 16

Sfruttando la temperatura di un colore si possono ottenere diversi effetti. Sapendo sfruttare al meglio questa caratteristica, si possono realizzare giochi prospettici veramente particolari: i colori caldi hanno la prerogativa di "avanzare", dando l'impressione di venire incontro all’osservatore, quelli freddi sembrano allontanarsi. Quindi, utilizzando colori freddi per lo sfondo e colori caldi per il primo piano, si può creare in un disegno l’illusione della prospettiva e degli effetti tridimensionali.

fig 17

Osservando i due disegni che rappresentano stanze con colori diversi ci si chiede: · · · · ·

le stanze sembrano avere la stessa dimensione? quale delle due sembra più ampia? la finestra sembra essere alla stessa distanza? i due disegni hanno realmente le stesse dimensioni? a cosa è dovuta la diversità apparente?

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Nel valutare un colore entra in gioco non solo la natura fisica dello stimolo percepito, ma anche il contesto percettivo in cui questa valutazione avviene. Numerosi esperimenti hanno dimostrato che la presenza di informazioni contestuali è in grado di cambiare notevolmente la percezione di un colore. Un tipico esempio dell'influenza del contesto è esemplificato nella fig. 18.

In cui la presenza del contesto varia la valutazione del colore del disco presente sulla sinistra Molti osservatori, posti in una situazione sperimentale in cui il colore del disco sulla sinistra è presentato, all'interno di una stanza completamente buia, come una macchia fluttuante priva di contesto, descrivono ciò che vedono o come una superficie arancione poco illuminata o come una luce arancione di bassa intensità. È sufficiente aggiungere delle semplici informazioni contestuali perché il giudizio cambi. Se, ad esempio, la situazione sperimentale viene modificata con l'aggiunta di un disco bianco che dà all'osservatore la misura dell'intensità della sorgente luminosa presente nella stanza, oppure con l'aggiunta di una macchia di colore arancione puro (nell'immagine sono presenti entrambe le modifiche del contesto), allora il colore prima definito come un arancione poco illuminato viene percepito dalla maggioranza degli osservatori come marrone. 118


Simili esperimenti dimostrano la complessa natura altamente soggettiva dell'atto di descrivere un colore da parte di un osservatore. Tuttavia è possibile definire, in quest'atto soggettivo, delle componenti elementari ed universali, che concorrono alla determinazione di qualsiasi colore e ne costituiscono, per così dire, gli ingredienti. Ogni sensazione derivante dal colore può essere scomposta in tre ingredienti, ciascuno dei quali è a suo modo elementare, nel senso che partecipa alla determinazione del colore da parte dell'osservatore e non può essere ricondotto, per via di semplificazioni, a nessuno degli altri due costituenti. I tre ingredienti del colore sono: la tonalità, la luminosità e la saturazione. LA TONALITÀ

La tonalità è l'attributo più semplice da comprendere. Essa è, infatti, nell'esperienza comune, la percezione che ci fa attribuire un nome al colore che stiamo vedendo. Rosso, verde, giallo, blu sono tutti nomi di tonalità. Da un punto di vista fisico il corrispondente della tonalità è costituito dalla lunghezza d'onda della radiazione luminosa: quanto più la luce incidente su un certo punto della retina è riducibile ad una banda ristretta di lunghezze d'onda tanto più netta e precisa sarà per l'osservatore la possibilità di attribuire un nome al colore percepito. È importante precisare che le tonalità che l'occhio è in grado di discriminare come irriducibili ad altre sono i soli colori spettrali (cioè i colori dell'arcobaleno, quelli separati da Newton tramite l'esperimento del prisma) più i colori originati dalle combinazioni di rosso e di blu spettrali (le cosiddette porpore). Tutti gli altri colori (ad esempio il rosa, il marrone, il salmone, il verde oliva, ecc.) possono essere

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definiti come combinazioni di una certa tonalità con gli altri due attributi (luminosità e saturazione). La tonalità è una qualità del colore discriminabile ugualmente sia in valutazioni fuori dal contesto sia in valutazioni all’interno del contesto. Essa ha a che fare, infatti, con l'apparenza l'apparenza del colore in se stesso più che con la comparazione di un colore con gli altri elementi circostanti. Tuttavia come abbiamo visto, la presenza o l'assenza di un contesto possono mutare notevolmente la percezione di una medesima tonalità.

fig 19 Differenze di tonalità con valori massimi di saturazione

LA LUMINOSITÀ

La luminosità è l'ingrediente che specifica la quantità di bianco o di nero presente nel colore percepito. La determinazione della quantità di bianco o di nero in una macchia di colore colore è possibile sia fuori che all’interno del contesto. Tuttavia il tipo di valutazione che consente di determinare in modo accurato il livello di grigio (cioè la distanza dai due estremi bianco e nero) in un colore è quello contestuale. Per dimostrare la la correttezza di tale affermazione, occorre introdurre innanzitutto una distinzione terminologica. Intendiamo per brillantezza o intensità la quantità totale di luce percepita, emessa da una sorgente o riflessa da una superficie. La valutazione di tale quantità quantità è un giudizio non contestuale, ma dipendente dal solo effetto percettivo suscitato dalla luce incidente sulla retina.

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Definiamo, invece, luminosità apparente la quantità di luce proveniente da un oggetto, riferendola alla quantità di luce proveniente da una superficie bianca sottoposta alla proveniente medesima illuminazione. Si tratta evidentemente di una valutazione contestuale.

Fig 20 Differenze di luminosità con tonalità e saturazione costanti

Il fatto che il giudizio sulla luminosità sia più preciso a quello sulla brillantezza si può dimostrare con un esempio. Se osserviamo una luce bianca piuttosto fioca (percezione di brillantezza) essa ci appare comunque bianca e non grigia. La visione del colore grigio possiamo averla solo osservando una superficie superficie che ci appare meno luminosa rispetto ad una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione (percezione di luminosità). Ciò significa che possiamo variare anche notevolmente l'intensità della luce che colpisce una superficie, senza che cambi la percezione della luminosità relativa delle sue parti. Esiste, cioè, un rapporto costante tra la quantità di grigio percepita in una zona dell'oggetto osservato, a paragone della quantità di grigio percepita in altre zone dell'oggetto, rapporto che non cambia cambia al variare dell'illuminazione complessiva dell'ambiente. Da quanto detto, emerge che la valutazione della luminosità è un atto percettivo qualitativamente differente rispetto alla determinazione della tonalità di un colore. Mentre la percezione della tonalità tonalità può avvenire in modo non contestuale e sembra spiegabile nei termini fisiologici descritti dalla teoria tricromatica della visione, la valutazione della luminosità è invece un atto comparativo 121


che pone in rapporto reciproco tutti gli elementi della scena osservata. Proprio per questa sua natura comparativa l'attributo della luminosità è l'elemento più importante all'interno della percezione visiva. La visione acromatica, basata solo sul contrasto di luci, è in grado di veicolare tutte le informazioni essenziali ai fini della comprensione della scena osservata. LA SATURAZIONE

La saturazione, ultimo ingrediente che contribuisce alla percezione del colore, consiste nella misura della purezza dell'intensità di un colore. La valutazione della saturazione può essere non contestuale o contestuale. Nel primo caso, essa definisce la purezza e la pienezza del colore in rapporto unicamente all'intensità della sua percezione isolata. Nel secondo caso, invece, in rapporto ad una superficie bianca sottoposta alla medesima illuminazione. I colori spettrali sono in assoluto i più saturi che noi possiamo osservare. Essi ci appaiono vivi, puri, brillanti, pieni, per nulla mescolati con parti di grigio. Al contrario, un colore poco saturo appare opaco, grigiastro, poco riconoscibile dal punto di vista della tonalità. Il motivo di questa scarsa conoscibilità è che un colore poco saturo è il frutto di una mescolanza di luci di diversa lunghezza d'onda, ragion per cui differisce profondamente dai colori spettrali che sono invece prodotti da luci di banda molto ristretta. Una radiazione costituita dalla mescolanza di molte lunghezze d'onda differenti produce una curva di assorbimento da parte della retina piatta e senza picchi, che corrisponde alla percezione di un colore grigiastro. 122


Per questi motivi la saturazione viene comunemente definita come la misura della quantità di grigio presente in un colore. La sequenza dei campioni presenti nella fig. 21 mostra appunto un aumento ordinato della saturazione da sinistra verso destra.

FIG 21 DIFFERENZE DI SATURAZIONE (CON TONALITÀ ALITÀ E LUMINOSITÀ COSTANTI)

Il fatto che un colore saturo ci appare come “pienamente se stesso” e facilmente identificabile, rende possibile accoppiare la misura della saturazione alla caratteristica caratteristic d’identificabilità di un colore spettrale nel campione che si sta osservando. Se, infatti, non siamo in grado di stabilire con certezza se stiamo osservando un rosso, un giallo, un blu, un verde, ecc., è certo che siamo di fronte ad un colore non saturo. saturo Osservando i primi tre campioni a sinistra della fig. 21, potete notare che è difficile valutare se appartengano o no alla gamma dei rossi; risulta evidente che si tratta di colori non saturi. Un problema ben noto agli artisti ed agli studiosi del colore consiste in genere nella difficoltà di separare psicologicamente, soprattutto in condizioni di scarsa illuminazione, la componente di luminosità dalla componente di saturazione di un colore. Quanto più un colore è scuro, infatti, tanto più risulta difficile identificarne la tonalità al fine di valutarne il livello difficile di saturazione. 123


Inoltre, un colore molto saturo apparendo chiaro e brillante, induce spesso l'osservatore a giudicarlo più luminoso di un colore meno saturo che riflette la medesima quantità di luce.

FIG 22 INFLUENZA DEL DELLA LA LUMINOSITÀ E DELLA DELL SATURAZIONE SULLA PERCEZIONE DI UN COLORE

La fig. 22 mostra schematicamente il modo in cui rispettivamente la luminosità e la saturazione influenzano la visione dei colori. Nello schema grafico la luminosità lumin cresce gradatamente dal nero verso il bianco sull'asse verticale; la saturazione aumenta in modo corrispondente lungo l'asse orizzontale. Pertanto tutti i campioni posti sulla medesima riga condividono lo stesso livello di luminosità; tutti i campioni campioni sulla medesima colonna condividono lo stesso livello di saturazione. Dall'osservazione della disposizione dei campioni di colore sulla tavola emergono due considerazioni: - la differenziazione degli ingredienti di un colore è più difficile in corrispondenza corrispondenza dei toni scuri; - la capacità di differenziare livelli di saturazione differenti è massima in corrispondenza di livelli di luminosità medi.

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Tra i modelli di rappresentazione dei colori sviluppati sulla base del complesso percettivo tonalità-luminositàsaturazione, occorre riferirsi al sistema di notazione creato da Alfred H. Munsell, assistente presso la Normal Art School di Boston nel 1898, e il modello di rappresentazione digitale noto come HLS (dalle iniziali delle parole inglesi hue, lightness e saturation). Il sistema Munsell, viene utilizzato soprattutto come aiuto nella scelta dei colori per la pittura. In questa sede è sufficiente ricordare che Munsell ordinò le tonalità della luce spettrale più le porpore lungo un cerchio, suddividendole arbitrariamente in 100 intervalli equidistanti e designando le tonalità principali con le iniziali dei nomi dei colori nella lingua inglese. Divise inoltre la luminosità apparente di un colore in dieci intervalli, dal nero al bianco, e la saturazione in intervalli progressivi designati con multipli di 2. I colori meno saturi sono i grigi nella scala da nero a bianco, con valore di croma 2; i colori più saturi, che possono raggiungere valore di croma (saturazione) 18 o 20, si trovano lungo l'equatore del solido pseudo-sferico utilizzato per rappresentare spazialmente il sistema; solido il cui asse verticale rappresenta la dimensione della luminosità.

FIG 23 SOLIDO PSEUDO-SFERICO DI MUNSELL UTILIZZATO PER RAPPRESENTARE SPAZIALMENTE IL SISTEMA

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FIG 24 SCEMA DELLE 3 DIMENSIONI DEL SOLIDO

In questo modo ogni colore appartenente al modello viene univocamente identificato per mezzo di una sigla e di tre parametri numerici: ad esempio 10R 6/4 identifica un rosso (R = red) leggermente spostato verso il giallo, di d luminosità 6 e croma (luminosità) 4.

FIG. 15 PARAMETRI NUMERICI NU MUNSELL

II SECONDO J. ITTEN

CONTRASTI CONTRASTI

DI DI

COLOR COLORE

Johannes Itten, nel suo libro Kunst der Farbe Ravensburg 1961, individua sette contrasti di colore spiegandoli nel 126


seguente modo: «Si parla di contrasto quando si avvertono differenze o intervalli evidenti tra due effetti cromatici posti a confronto. Se queste differenze sono assolute, si parla di contrasto di opposti o di contrasto di polarità. Grande-piccolo, bianco-nero, freddo-caldo al loro massimo grado di opposizione sono contrasti di polarità. I nostri sensi valutano sempre e solo mediante confronti». Per quanto riguarda i colori Itten individua sette diversi contrasti: Contrasto di colori puri; Contrasto di chiaro e scuro; Contrasto di freddo e caldo; Contrasto dei complementari Contrasto di simultaneità; Contrasto di qualità; Contrasto di quantità. 1. II contrasto di colori puri si riferisce all'accostamento di colori al loro più elevato grado di saturazione: bianco-nero che determina il contrasto chiaroscurale, giallo-rosso-blu che produce il massimo grado di tensione fra i colori puri. L'effetto chiassoso, energico e deciso che ne risulta scema gradualmente se si passa ai complementari, calando ulteriormente con i terziari. 2. Il contrasto di chiaro e scuro riguarda i valori luministici dei colori. Come esiste un bianco assoluto ed un nero assoluto e nel mezzo è presente un'infinita gamma di grigi, così ogni singolo colore manifesta un suo limite luminoso superiore combaciante con il bianco, uno inferiore che equivale al nero e nel mezzo vi sono le infinite gradazioni chiaroscurali dello stesso colore.

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3. II contrasto di freddo e caldo è riferito alle sensazioni che i colori inducono nella nostra psiche. Risulta evidente che il colore rosso produce una sensazione di calore, mentre il verde, suo complementare, è più freddo. Si è stabilito che il colore più caldo è l'arancio-rosso (rosso saturno) ed il più freddo è il blu-verde (ossido di manganese). La modulazione dei colori caldi va dal giallo al rosso-viola, passando per il rosso, mentre quella fredda va dal viola al giallo, passando per il blu. In pratica compiendo un percorso destrogiro sul cerchio dei colori. Dal giallo: gialloarancio, arancio, aranci-orosso, rosso, rosso-viola, viola, sono colori caldi, mentre dal viola: viola-blu, blu, blu-verde, verde, verde-giallo, giallo, sono colori freddi. 4. II contrasto di complementari parte da una constatazione: all'interno del cerchio dei colori un primario ed il suo complementare sono giustapposti, la loro mescolanza produce il grigio, cioè si annullano nel grigio. Sono infatti coppie di complementari il giallo ed il viola, il blu e l'arancio, il rosso ed il verde. Per quanto contrari, tali colori si richiamano continuamente e raggiungono il massimo della luminosità quando sono nel loro stato più puro. 5. Il contrasto di simultaneità è legato a quello dei complementari. Quando manca il colore complementare (o il primario) l'occhio ed il cervello ricreano quello giustapposto. È un fenomeno che ognuno di noi può sperimentare: se si fissa per un determinato periodo un oggetto o una superficie di colore rosso, una volta chiusi gli occhi rimane impressa sulla retina una sagoma dello stesso oggetto o superficie di colore verde: fisiologicamente ricreiamo il colore complementare. Analogamente se due colori intensi (ad esempio righe rosse accanto a righe nere) sono accostati ogni colore per il contrasto di simultaneità fa in modo che vengano visualizzati i complementari (nel caso

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delle righe di cui sopra, quelle nere diventeranno verdastre). 6. Il contrasto di qualità, o contrasto di luminosità, è riferito al grado di purezza o di saturazione dei colori. I colori possono essere nel loro stato assolutamente puro, così come derivano dalla luce bianca per rifrazione del prisma, oppure offuscati, tagliati, modificati per mescolanza con altri colori. 7. Il contrasto di quantità, o contrasto di proporzioni, verte sulle dimensioni, sulla quantità di superficie cromatica in rapporto alle altre per creare una situazione di equilibrio fra i colori. Giallo e viola, ad esempio creano un contrasto di chiaroscuro, mentre il rosso ed il verde quello di luminosità. Come in ambito musicale è facile comprendere che un accordo è capace di dare una equilibrata mescolanza di singole note, o quantomeno organizzate in maniera da produrre una determinata sensazione uditiva, così nella percezione dei colori gli accordi costituiscono un accostamento fra colori diversi capaci di garantire una composizione cromatica. Le relazioni oggettive che si instaurano dall'accostamento di colori diversi possono produrre una vastissima gamma di accordi. Si accennerà, in questa sede, solo agli accostamenti armonici (fig. ??). Gli accordi cromatici possono comporsi a due, tre, quattro, e più colori, ottenendo rispettivamente accordi a due, tre, quattro, e così di seguito. L'accordo a due, il più semplice, è costituito dall'accostamento di due colori che nel disco (accordo cromatico piano) o nella sfera cromatica (accordo cromatico volumetrico) si trovano giustapposti, cioè in

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posizione simmetrica rispetto al centro (ad esempio: gialloviola, rossoverde, blu-arancio). L'accordo a tre è costituito dall'accostamento di tre colori. La loro scelta può avvenire mediante i vertici di un triangolo equilatero inscritto nel disco dei colori; in questo caso di ha un accordo fondamentale nel caso si utilizzino i tre primari, oppure accordi caratteristici scegliendo i tre complementari, o i terziari e così via. È altresì utilizzabile, negli accordi a tre, un triangolo isoscele inscritto nel cerchio dei colori. Facendo ruotare tali triangoli si possono configurare tutti gli accordi a tre possibili. Analogamente inscrivendo un quadrato o un rettangolo all'interno del disco cromatico si ottengono gli accordi a quattro. Accordi a quattro sono ad esempio: gialloaranciorosso-viola-bluverde, oppure gialloarancio-rossoviolablu-verde e così via. Se si inscrivono le figure all'interno della sfera cromatica si possono individuare un'infinità di altri accordi, tenendo però presente che il polo di rotazione dovrebbe essere sempre il centro delle figure.

FIG 27 ACCORDI CROMATICI SECONDO ITTEN 130


È risaputo che i colori producono una spazialità, nel senso che tendono ad emergere oppure ad implodere secondo la loro luminosità. Contrasti chiaroscurali, di caldo-freddo, di quantità e di qualità sono aspetti che incidono fortemente sulla percezione cromatica. È grazie a queste caratteristiche che la corretta scelta di un colore può modificare, plasmare, accentuare o diminuire superfici piatte o tridimensionali. Questa caratteristica dovrebbe essere correttamente impiegata nelle opere di coloritura delle superfici esterne degli edifici.

LE RIFLESSIONI DI JO SEF ALBERS

Riportiamo qui di seguito alcune interessanti riflessioni tratte da Josef Albers “Interazione del colore” ed. Pratiche Editrice 1971

Nella percezione visiva un colore non viene quasi mai visto come è nella sua realtà fisica. Questo fa sì che il colore sia il mezzo più relativo in campo artistico. Per poter usare il colore efficacemente, è necessario sapere che esso inganna di continuo. Allo scopo di dimostrare ciò, il punto di partenza non è uno studio dei sistemi cromatici, ma per prima cosa si dovrebbe imparare che uno stesso colore produce innumerevoli possibilità percettive. Invece di applicare meccanicamente o semplicemente dare per scontate leggi e regole sull' armonia del colore, vengono quindi prodotti diversi effetti di colore, attraverso il riconoscimento dell' interazione del colore, facendo in modo che per esempio due colori molto diversi sembrino uguali fra loro o quasi uguali. 131


Lo scopo di uno studio come questo è sviluppare, attraverso l'esperienza e gli errori, l' occhio per il colore. In particolare ciò significa sia saper vedere l'azione del colore sia sentire la relazione reciproca fra i colori [...] proprio come la conoscenza dell' acustica non può dare ad una persona l' attitudine per la musica, nè in senso produttivo nè dal lato della sensibilità, così nessun sistema cromatico può sviluppare di per se stesso la sensibilità al colore. Allo stesso modo bisogna riconoscere che nessuna teoria della composizione porta di per se a produrre musica o arte. Le prove pratiche dimostrano attraverso gli effetti illusori prodotti dal colore la sua relatività ed instabilità, inoltre l' esperienza insegna che nel campo della percezione visiva esiste una discrepanza tra fatto fisico ed effetto psichico. Se si dice 'rosso' (il nome di un colore) e ci sono cinquanta persone che ascoltano, ci si può tranquillamente aspettare che abbiano in mente cinquanta tipi di rosso e si può essere sicuri che tutti questi rossi saranno diversi e, anche quando un determinato colore è quello che sicuramente tutti hanno visto innumerevoli volte, essi continueranno a pensare a molti rossi diversi l' uno dall' altro. Inoltre se prendiamo in considerazione le associazioni e le reazioni sperimentate in rapporto al colore e al nome, probabilmente tutte saranno molto diverse tra loro per molti aspetti. Cosa mette in evidenza tutto questo? Innanzi tutto che è difficile se non impossibile ricordare distintamente i colori: questo sottolinea il fatto importante che la memoria visiva è molto limitata se la confrontiamo a quella uditiva, spesso infatti si può facilmente ripetere una melodia ascoltata solo poche volte, e in secondo luogo che la nomenclatura del colore è davvero inadeguata, benché 132


infatti i colori siano innumerevoli, così come le loro sfumature e tonalità, nel vocabolario corrente vengono usati solo una trentina di nomi di colori. LETTURA AL CONTESTO

DEL

COLORE

IN

RELAZIONE

Si è dimostrata l'erroneità del concetto per cui si afferma che più la forma di una lettera è semplice, più semplice è la sua lettura dal momento che durante la lettura noi non leggiamo lettere ma parole, parole come 'unità', 'paroleimmagini'. Lo si è scoperto in psicologia, in particolar modo nella psicologia della Gestalt. L' oftalmologia ha inoltre rivelato che più le lettere sono diverse le une dalle altre, più semplice è la loro lettura. Senza addentrarci in confronti e dettagli, dovrebbe essere chiaro che le parole composte solo con caratteri maiuscoli sono le più difficili da leggere a causa della loro altezza uguale, dell'uguale spessore e per la maggior parte per l' uguale larghezza. Confrontando caratteri con grazie e caratteri senza, ne risulta che questi ultimi sono di più difficile lettura. Questo dimostra che una lettura chiara dipende dal contesto. Nelle composizioni musicali, se noi ascoltiamo solo note non udiamo musica: l' ascolto della musica si basa sul riconoscimento dell' intervallo fra le note, della loro disposizione e della loro spaziatura. Nella scrittura conoscere l' ortografia non ha niente a che fare con la comprensione della poesia. Allo stesso modo una precisa identificazione dei colori all' interno di un determinato dipinto non ha nulla a che fare con la sensibilità visiva e nemmeno con la comprensione dell' azione del colore all' interno del dipinto...Tutti noi siamo in grado di udire un suono isolato, al contrario, quasi mai 133


(cioè senza particolari accorgimenti) possiamo vedere un colore solo, isolato e non in relazione con altri colori. I colori si presentano in un flusso continuo, costantemente in rapporto con quelli vicini in condizioni variabili.

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3. IL COLORE NELLA STORIA DELL’ARCHITETTURA.

Contrariamente a quanto comunemente si crede, nel passato lo spazio abitato era fortemente caratterizzato dall'uso del colore. Le prime manifestazioni del colore nell'architettura monumentale si sono avute probabilmente in Mesopotamia. Nel grande edificio di Uruk erano inseriti, nell'intonaco delle pareti esterne, coni di terracotta con le facce dipinte di giallo scuro, di rosso e di nero, a formare mosaici policromi e con la funzione di alleggerire la compattezza della costruzione. Tale usanza dovette avere una diffusione piuttosto ampia. Più tardi, in epoca assira i rilievi sui muri dei palazzi reali erano ravvivati da tocchi di colore e a volte probabilmente dipinti, come sembra di poter dedurre dall'adozione di mattonelle smaltate policrome che compaiono per la prima volta durante il regno di Assurnasirpal. Il semplice schema coloristico (spesso giallo-azzurro) è connesso alla funzione architettonica essendo le mattonelle collocate, come i rilievi, nelle parti alte, mentre il restante muro era dipinto a colori vivaci. La più tipica realizzazione dei Babilonesi consiste nel rilievo a colori su mattoni smaltati (porta di Istar e grande via processionale a Babilonia con draghi e leoni su fondo azzurro). Sono infine note le descrizioni, dateci da Erodoto, dei colori simbolici delle ziqqurat. L’ANTICO EGITTO

I colori nell'architettura dell'epoca egiziana erano semplici: il rosso per l'uomo, la porpora per la terra, il giallo per il sole, il verde per la natura e il blu per la verità divina.

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Il primo esempio di uso del colore nell’architettura egiziana è offerto, in età thinita, dalle camere sepolcrali sotterranee presso Abydos che avevano le pareti rivestite di legno dipinto. In questo caso il colore aveva certamente un ruolo notevole, pur sempre in funzione simbolica ed evocativa nella decorazione interna. Nell'antico regno è caratteristico il trasferimento nella pietra dipinta delle forme e dei motivi delle primitive costruzioni lignee, mentre la scelta dei materiali avviene anche in base alla loro possibile utilizzazione in funzione cromatica. Si nota inoltre un uso simbolico del colore negli ambienti interni dei templi della tomba di Saburé. Il rilievo policromo, che si sviluppa in questo periodo, è strettamente legato all'uso del calcare come pietra da costruzione che favoriva, con il suo colore, i complementi dipinti. Sulle pareti in mattoni si applicava infatti la semplice pittura su intonaco. Oltre al bianco e al nero si usavano il rosso, il giallo, il verde, l'azzurro e le rispettive tonalità intermedie. Caratteristico delle pareti esterne era il rilievo a incavo che permetteva un minor deperimento del colore, nonché intensi effetti di ombre ottenuti col un taglio profondo e netto dei contorni. Venivano utilizzati anche marmi colorati, facilmente reperibili data la costituzione geologica del paese (graniti bianconeri e rosa di Assuan, porfido rosso dell'Alto Egitto, breccia verde, ecc.). Nel tempio inferiore della piramide di Chephren, i pilastri erano in granito rosa e il pavimento di alabastro: la luce, entrando dall'alto, illuminava con effetti particolari le statue dei sovrano . L'Antico Regno si presenta caratterizzato dai monumenti funebri dei sovrani e dei dignitari a cui è strettamente

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collegata la decorazione parietale sia come semplice pittura sia come rilievo policromo. Nel Nuovo Regno invece troviamo nella pittura testimonianze di grandiosità e di splendore che, pur ispirandosi alle tecniche tradizionali, riescono ad elaborare forme più plastiche e libere delle figure, rispetto alla precedente rigidezza. L'ARCHITETTURA MINOICA

Molto rappresentativa in questo senso appare l'architettura minoica, sviluppatasi a Creta nel III° millennio a.C. Si tratta di una ricchissima decorazione applicata a grandiosi complessi architettonici, studiata per stabilire una continuità tra l’architettura ed il paesaggio, l’uomo e la natura tramite una vivace policromia della struttura, oggi quasi del tutto perduta. Già nel periodo arcaico (2500-2000 a.C.) si affermava l'uso di intonaci dipinti e di pavimentazioni policrome. Nel periodo protopalaziale (2000-1700 a.C.) a Phaistos, i palazzi hanno in complesso un aspetto festoso: facciate rivestite di lastre di selenite, pavimenti di alabastro, colorazione degli elementi portanti e tinte intense degli intonaci. Questo aspetto fastoso raggiunge l'apice nel periodo dei secondi palazzi (1700-1400 a.C.), durante il quale l'effetto pittorico dei grandiosi complessi doveva essere accresciuto notevolmente dalla ricchezza della decorazione interna ed esterna. Quest'ultima è documentata dal “mosaico della città" (lastrine di ceramica smaltata raffiguranti prospetti di case). Più noti sono i colori degli interni: pavimenti in alabastro e rifiniti, ai bordi e al centro, con lastre di schisto verde o di 137


pietra nera (ma anche con lastre policrome a schemi irregolari); zoccoli in alabastro gessoso; pareti con intonaci vivaci (rossi, blu, gialli) diversi da stanza a stanza, a volte anche con affreschi figurativi, soprattutto a Knossos e Agia Triada . LA POLICROMIA NELL’A NTICA GRECIA

Nell'antica Grecia si usava colorare vivacemente le superfici in pietra. Il Partenone era ricco di colori di forte significato simbolico. Gli elementi architettonici e le sagome delle costruzioni apparivano sottolineate dai colori puri: il bianco, il nero, il blu, il giallo e il rosso. Gli edifici greci più importanti erano dipinti con colori precisi: l'ocra rossa, l'ocra gialla, il nero e l'oro, queste ultime tinte riservate particolarmente alle sovrastrutture dei capitelli. Gli edifici dei greci erano, per la maggior parte, dipinti con tinte: ocra rossa, ocra gialla e nero. La policromia dei monumenti architettonici greci fu scoperta solo verso il 1830 da G. Semper. L'uso di colorare le parti alte del tempio era legato alla necessità di preservare le primitive strutture lignee dall'azione disgregatrice degli agenti atmosferici e della luce solare. Tale uso perdurò anche quando si iniziò a costruire in pietra (secolo VIII-VII a.C.). I colori usati furono il nero, il marrone, il giallo e il rosso. Nel V secolo, sostituita la pietra con il marmo, si introdusse l'uso, caratteristico nell'architettura dorica, del rosso e dell'azzurro verdastro alternati. Con tale bicromia si sottolineava l'andamento architettonico della costruzione: per esempio, i triglifi verdi-azzurri risultavano arretrati rispetto agli altri elementi dell'architrave dipinti in rosso. 138


D'altra parte, per il principio dei colori complementari, di cui i Greci avevano una conoscenza empirica, il loro accostamento, nella visione da lontano, dava come risultato un tono grigio chiaro, quasi bianco, cui la forte luce solare aggiungeva una sfumatura giallina. Questa tonalità armonizzava con il colore del marmo (giallo avorio) delle parti inferiori della costruzione, sempre prive di colorazione. Dopo un'accurata stuccatura delle pietre assai porose, impiegate nelle architetture dei loro templi (come facevano anche gli egiziani), i greci procedevano a dipingere le superfici. Le sostanze coloranti adoperate nell'antichità degradavano all'esposizione ai raggi solari, per questo motivo l'aspetto cromatico non è compreso tra i valori che ci sono stati trasmessi dalle culture classiche del passato. IL CULTURA ROMANA

COLORISMO

NELLA

Testimonianze pittoriche dell'arte romana ci pervengono dalle decorazioni parietali di Pompei e di Ercolano, conservate quasi intatte grazie alla particolare resistenza conferita alle opere dalla tecnica di stesura dei pigmenti. Si tratta dell'encausto, che consisteva nello stendere i colori mescolati con cera riscaldata e diluiti tramite oli essenziali come la trementina. Questa tecnica pittorica, di derivazione tardo ellenistica, veniva caratterizzata da elementi architettonici, i finti elementi che compongono gli illusionistici sfondi arricchiti dai motivi figurativi e fantasiosi (i moderni trompe l'oeil). Il colorismo che caratterizza la cultura romana si sviluppa, in architettura, non solo accentuando gli elementi decorativi e strutturali, ma anche attraverso un maggior

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impiego del colore, sia per mezzo dei materiali che della pittura. In quest'ambito si collocano anche i risultati dell'architettura romana a partire dall'ultimo periodo repubblicano, caratterizzata da tecniche edilizie dai notevoli risultati coloristici (opus reticulatum). L'uso del marmo colorato, inizialmente apparso in architettura della Grecia classica, si diffuse come rivestimento nell'età ellenistica (primo esempio ricordato è il palazzo di Mausolo) ed ebbe a Roma grande incremento per opera di Augusto per colonne, pavimenti e rivestimento di pareti. Fra i più usati il marmor phrigium, il giallo antico, l'africano, il carium, il carystium (basiliche Giulia e Emilia, tempio della Concordia, Pantheon, colonne dei fori, ecc.). Il variopinto rivestimento marmoreo è inoltre imitato, negli interni, con la pittura: la più evidente espressione è costituita dal cosiddetto primo stile pompeiano: Casa del Fauno a Pompei, case di Priene, Delos, ecc. L’ARCHITETTURA MEDIO EVALE

Di elementi tardo-antichi e bizantini è impregnata l'architettura medievale. Il colore caratteristico degli edifici romanici è ottenuto dai materiali di costruzione (molto spesso il laterizio, ma anche altri, come la pietra rosata dell'architettura umbra). Gli effetti policromi erano ottenuti in vari modi: alternanza di pietra e mattoni o di pietre diverse (S. Zeno a Verona; architettura pisana) incrostazioni di pietre colorate (architettura alverniate); tarsie marmoree (Firenze); ornamenti in marmo, calcari e pietre vulcaniche (Italia meridionale e Sicilia); incrostazioni musive e di marmi policromi (opere cosmatesche); decorazioni ceramiche (nei campanili); facciate rivestite di mosaici (S. Maria in Trastevere a Roma). 140


Nel Gotico le novità maggiori sono rappresentate dall'uso delle vetrate colorate (colori intensi tendenti al purpureo, al violetto, al verde smeraldo) che, schermando la luce, provocano effetti cromatici nuovi negli interni, nonché, soprattutto in Italia, dalle decorazioni pittoriche eseguite in funzione architettonica Nel corso del Medioevo era presente un interesse diffuso per il colore; nelle città si utilizzavano mattoni, pietre, marmi policromi, grandi vetrate variopinte e pigmenti con significati e gerarchie ben precisi non solo nell'ambito degli edifici pubblici ma anche nel patrimonio privato. La posizione sociale di un cittadino nei confronti del papato veniva manifestata colorando le imposte delle finestre di verde, se favorevole, o di giallo, se contrario. VERSO IL RINASCIMENTO

Nel Trecento, l'atteggiamento nei confronti del colore cambia; la cultura si distaccata dalla visione magico/religiosa tipicamente Medioevale, accostandosi verso una nuova idea di spazio, più logico e razionale. Il rifiuto del colore, in quanto massima espressione simbolica della vecchia cultura, diviene inevitabile. II Trecento ed il Quattrocento toscano sono connotati dall'uso pittorico di toni bassi, privo di colori squillanti in relazione alla diffusa pratica dell'affresco su calce che richiede la presenza di terre coloranti. La carenza di vistosità nell'uso dei colori si percepisce anche nel paesaggio urbano delle città di allora, connotato dal mattone a vista, pietra locale ed intonaco non colorato. Tale prassi ha fatto sì che i materiali acquisissero un particolare qualità estetica con il passare del tempo, invecchiando.

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Il Rinascimento, concentrando l'interesse verso i temi della ricerca strutturale, nell'impiego dei colori predilige la semplicità, favorendo l’uso del bianco per gli intonaci, in contrasto con i colori della pietra, e avviandosi verso la moderna cultura a-cromatica. Lo spirito scientifico è una caratteristica fondamentale dell'arte rinascimentale, che porta alla ricerca di nuove tecniche operative ed applicative, con colori basati sui principi della chimica. Significative innovazioni vengono introdotte anche nelle tecniche, soprattutto dell'affresco, s’impone l'uso dei colori comunemente chiamati terre, dai toni bassi e opachi. Il disegno preparatorio dell'affresco, la sinopia, fino ad allora eseguito direttamente sull' arriccio o sull'intonaco grezzo tramite l'ocra rossa (operazione faticosa che richiedeva un grande lavoro manuale) viene sostituito dall'uso del cartone, che consente la riproduzione del disegno tramite l'incisione e lo spolvero dei contorni delle figure. Questo sistema facilita il lavoro e consente la realizzazione più accurata dei dettagli. In questo periodo si afferma e si diffonde l'uso delle terre coloranti, che sostituiscono i colori brillanti ed accesi che avevano caratterizzato i periodi precedenti. SEICENTO E SETTECENT O

Nel Seicento e nel Settecento, in architettura torna ad attestarsi la facciata dipinta con uso massiccio del colore. Nell'architettura Barocca la ricerca del fasto e della grandiosità viene realizzata combinando svariate qualità di marmo, miscelando ed intarsiando le superfici. La policromia e le dorature in oro e in bronzo ricoprono le pareti architettoniche esterne ed interne; con lo stucco si 142


imitano i marmi e gli altri materiali pregiati realizzando un ricchissimo repertorio decorativo destinato a sopravvivere nei secoli successivi. Nella cittĂ settecentesca, le facciate venivano concepite come un quadro, con le stesse simmetrie di una prospettiva colorata; in seguito si verifica lo spostamento del trattamento pittorico verso le pareti interne dell'edificio ed il prospetto esterno si semplifica con l'applicazione di campiture omogenee di colore tra paraste, cornici e fasce marcapiano realizzate nei due colori favoriti dal Settecento: l'azzurro e il giallo.

DALL'OTTOCENTO MOVIMENTO MODERNO

AL

Nel corso dell'Ottocento si scoprono nuove sostanze coloranti artificiali (gli ossidi) come le aniline, con le quali si possono realizzare tinte molto brillanti, anche se a volte poco resistenti alla luce. Contemporaneamente alle scoperte di Newton sul colore e la luce, in architettura trionfa l'arte neoclassica, le nuove capitali europee vengono costruite con il candore della pietra e si dichiara guerra ai colori. Fino al termine del diciannovesimo secolo, persiste una generale tendenza al rifiuto del colore anche nel quotidiano, dove vengono utilizzati pochi colori neutri, come il nero, il grigio e il bianco. "Da una parte quindi con la polvere del moto industriale di macchine e ciminiere la cittĂ si andava annerendo e oscurando ineluttabilmente dall'altra, ... si andava sbiancando attraverso una coscienza morale illuminista che allora si colorava di bianco...(Manlio Brusatin, Colore in architettura, Superfici dell'Architettura, Atti del Convegno di Studi di Bressanone, Padova) . 143


Con l'Art Nouveau, il clima di grande rinnovamento culturale che accompagnava l'espansione industriale nel mondo occidentale, riabilita l’uso di altre tinte, coinvolgendo intensamente l'architettura e le arti decorative in genere. La produzione architettonica del periodo oscilla tra lo stile austero di Mackintosh e lo stile fiorito di Horta. Gli elementi formali dell'Art Nouveau si configuravano come una anticipazione dei valori e delle ricerche che saranno tipici del Movimento Moderno. Nel XIX secolo, la relazione tra pittura e architettura ritorna ad essere il leit motiv delle avanguardie; un esempio è il Neoplasticismo che dall'influenza del Cubismo definisce la dinamica delle forme e introduce la quarta dimensione, eliminando la staticità dell'oggetto in favore di una completa fruibilità dello spazio. I colori primari sono destinati a segnare un'epoca: il giallo, il blu e il rosso per Mondrian, creatore dell'arte nonoggettiva e convinto che l'architettura del colore fosse un concetto astratto, sono i soli colori esistenti. ` ... giallo è il movimento del raggio (la verticale)... blu è il colore che contrasta con il giallo (il firmamento orizzontale)... rosso è l'unione di giallo e blu", spiegando il motivo di limitare l'espressione neoplastica ai soli elementi ortogonali. Le Corbusier, che all'inizio aveva riconosciuto valido l'uso del colore in architettura, orienta i Razionalisti di tutto il mondo verso l'uso esclusivo del bianco, inteso come il colore simbolo della liberazione e della pulizia. Nel suo scritto "La legge della biacca" egli esalta il purismo: "Il latte di calce è legato all'abituro dell'uomo dalla nascita dell'umanità; si calcinano le pietre, si macinano, si stemperano nell'acqua e i muri diventano del bianco più puro: un bianco di straordinaria bellezza. La calce è la 144


ricchezza del povero e del ricco, la ricchezza di tutti, allo stesso modo che il pane, l'acqua e il latte sono la ricchezza dello schiavo e del re". Nel nostro tempo, la varietà cromatica si trova in una situazione nuova, dovuta anche dalla velocità dei mezzi di comunicazione; in questo contesto si sono proposte alcune esperienze che pongono il tema forma colore, biancopolicromo, in atteggiamento polemico rispetto al passato. Il grigio dell'architettura moderna ha finito per nascondere anche chi cercava una differente concezione dello spazio. ciò fa riflettere sul fatto che nella storia la diatriba colorenon colore si ripeta sempre con forme analoghe. Per concludere, non sarebbe possibile né giusto parlare di colore in termini di valore assoluto in quanto il colore cambia e si modifica con l'evolversi della società, assumendo valori diversi in ogni civiltà e in ogni cultura. In ogni caso "non si può parlare di colore com'è realmente in nessun senso attendibile: il colore è sempre determinato dal suo contesto" (Rudolph Arneim, Arte e percezione visiva, Milano, Ed. Feltrinelli).

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LE TERRE COLORANTI NATURALI : ESTRAZIONE E LAVORAZIONE 4.

Si definiscono terre coloranti quei pigmenti naturali che hanno caratteristiche di finezza tali da poter essere utilizzate come sostanze coloranti. I colori minerali naturali si trovano sotto forma di sali o di ossidi e sono composti da diversi metalli, tra cui il più importante è il ferro che fornisce i colori migliori. Queste sostanze si sono formate nel sottosuolo in seguito a processi geologici e si presentano allo stato terroso o roccioso. La lavorazione di queste terre o rocce è molto semplice. Anticamente era eseguita manualmente mentre oggi avviene in specifici stabilimenti, e consiste nelle seguenti operazioni: - Essiccazione al sole, soprattutto se questi minerali naturali contengono umidità: - frantumazione grossolana per mezzo di frantoi speciali a mole; - prima cernita per separare i pigmenti colorati dalle impurità grossolane; - levigazione, che consiste in un sistematico lavaggio per eliminare i sali solubili. Questa operazione assieme alla successiva polverizzazione contribuisce alla omogeneità e alla finezza del prodotto; Queste lavorazioni servono a far acquistare alla polvere colorata un maggiore potere coprente. Le polveri vengono prima stemperate con poca acqua e lasciate macerare per alcuni giorni.

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Continuando ad esporre il ciclo di lavorazione delle terre, dopo la levigazione si procede alle seguenti lavorazioni: - calcinazione o cottura. Alcuni colori, a questo punto, subiscono questo processo che serve per modificare pittoricamente la tinta. La temperatura varia dai 700° ai 1000°C rispettivamente per i colori più chiari e più scuri. Le terre che subiscono questo trattamento prendono la denominazione di terre bruciate. Bisogna però notare che oggi le terre rosse sono prodotte con la calcinazione, pur mantenendo la stessa denominazione delle terre naturali; - essiccazione, che può essere fatta al calore solare peri colori più resistenti, mentre quelli, che soffrono l'esposizione alla luce, vengono disidratati con speciali macchine a centrifugazione; - polverizzazione. Dopo che il materiale è stato precipitato, lavato ed essiccato, viene polverizzato con speciali frantoi, per ottenere una polvere di aspetto omogeneo. Questa lavorazione un tempo veniva eseguita a mano con una lastra, una macina di porfido ed una spatola. Se si vuole polverizzare ulteriormente il prodotto al fine di ottenere un maggiore potere coprente si possono usare una lastra di vetro, una macina di cristallo ed una spatola, procedendo nel seguente modo: 1) al centro della lastra si mettono poco per volta delle piccole quantità di polvere a forma di montagnola con cratere al centro, nel quale si versa poca acqua; 2) con la macina si pesta la polvere, con cautela, perché fugge via e si deve recuperarla con la spatola.

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Più si insiste con questa operazione, maggiormente i colori acquistano in bellezza.

I pigmenti colorati che resistono all'azione caustica della calce, secondo una classificazione colore per colore sono i seguenti: BIANCHI

- Calce spenta (Ca (OH)2) meglio conosciuta come “latte di calce”, si ottiene diluendo il grassello con acqua. - Bianco San Giovanni. Si ottiene dalla calce spenta fatta seccare e ridotta in polvere, messa in un catino pieno d'acqua per otto giorni. Tolta dal bagno e fatta essiccare al sole, viene scrupolosamente macinata. - Bianco di Spagna - Bianco Meudon - Bianco di Champagne - Bianco Bugival - Biancone o polvere di marmo. Chimicamente sono dei carbonati di calcio che, derivati da rocce calcaree formate da residui microscopici di animali marini, sono purificati attraverso ripetuti lavaggi al fine di eliminare le impurità (silice, argilla e ossido di ferro) e successivamente vengono finemente polverizzati. -Bianco Animale ricavato dalla calcinazione e dalla macinazione di conchiglie, molluschi e gusci d'uovo. Chimicamente sono carbonati di calcio.

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-Bianco di Titanio (biossido di titanio + solfato di calcio + solfato di bario). Il bianco comunemente usato per la pittura a tempera su tela e su tavola è il bianco di titanio. La sua qualità primaria sta nel fatto che copre benissimo e può essere mescolato con tutti i colori. -Bianco di Zinco (ossido di zinco).Anche il bianco di zinco è ottimo per la tempera, benchè abbia come particolarità quella di essere più trasparente del bianco di titanio, quindi con meno potere coprente. Non può essere mescolato con il giallo di Napoli. NERI

- Terra Nera di Venezia ricavata da una creta costituita da carbonato di calcio misto a ferro, manganese ad argilla. Molto resistente alla luce e all'aria. - Nero di Quercia ottenuto dal carbone di quercia o da altri legnami con venatura stretta tipo rovere e faggio. - Nero Manganese è un biossido di manganese che resiste all'azione caustica. - Nero avorio (carbonio 10%, fosfato di calcio 84%, carbonati di calcio 6%). Il nero cosiddetto di avorio è in realtà oggi prodotto con le ossa animali. Ha un potere coprente molto buono, ma non va mescolato con il giallo di cadmio chiaro, né con quello di cromo. - Nero di vite (carbone puro con piccole quantità di sali di potassio e sodio). È un nero che si ricava dalla bruciatura dei tralci della vite, oggi anche con altri alberi. È un nero più freddo come intonazione, ma stabile, di grande utilità. - Nero fumo (99% carbone elementare + carbonio amorfo + ossigeno, idrogeno, zolfo ed impurità). Il nero fumo è prodotto con i residui della combustione di idrocarburi. È una materia molto fine, di grande potere coprente e ne basta pochissimo per preparare il colore. 149


GIALLI

- Terre gialle o Ocre gialle. Sono terre naturali composte da argilla e silice. In relazione alla quantità di ossido di ferro e di manganese che contengono, possono variare nelle sfumature di colore dal giallo pallido fino al bruno rossiccio. Si ricavano in diverse zone dell'Italia e all'estero. La finezza e la purezza del colore dipendono dalla particolare cura della levigazione e macinazione delle terre. - Terra di Siena Naturale è un tipo di giallo ocra cavato a Siena, si può definire la più stabile tra tutte le terre gialle. La terra di Siena è un composto di ossido di ferro idrato con biossido di manganese. La terra di Siena si distingue dalle ocre gialle perché con la cottura non altera molto il proprio colore, acquistando un tono aranciato, mentre le altre nelle stesse condizioni danno dei toni rossi. - Giallo di Napoli (miscela di giallo hansa e bianco di titanio) Il vero giallo di Napoli è un colore a base di piombo e in base alle nuove normative per la tutela della salute dei consumatori la sua produzione è stata sostituita con una miscela composta da giallo hansa e bianco di titanio. BRUNI

- Terra d'Ombra Naturale (ossido silicato doppio ferro 40%, ossido di manganese 15%) è di colore marrone rossastro, chimicamente è un biossido di manganese ed un ossido di ferro. Il suo appellativo deriva dall'Umbria dove anticamente veniva cavata. Ora in commercio si trova una polvere che proviene dalla Sicilia, dalla Sardegna e da Cipro. È un colore molto resistente. - Terra d'Ombra Bruciata (ossido silicato doppio ferro 40%, ossido di manganese 15%) è ottenuta dalla cottura della terra d'ombra, ha una tonalità più rossa e calda. È una terra più corposa di quella naturale, con maggiore potere

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coprente, ottima per ogni genere pittorico. Da usare con parsimonia nelle mescolanze, meglio se a velatura. - Terra di Colonia. Si cava vicino a Colonia ed è molto resistente alla calce. - Terra di Cassel (ossidi di ferro 1%, sostanze organiche 80%, ligniti e torba) È un colore utile nella pittura dei paesaggi, da usare puro. Mescolata con il bianco produce dei grigi molto caldi. Con altri colori è meglio evitare mescolanze per ridurre il pericolo di alterazioni. Bruno Van Dyck (ossido di ferro) È un bruno molto solido e non velenoso. Utilissimo per comporre grigi. - Bruno di Marte (ossido di ferro precipitato) Colore di grande solidità, utilissimo nella pittura di paesaggi. Non va mescolato con i gialli di cadmio e di cromo. ROSSI

- Terre Rosse o Ocre Rosse. Gli ossidi di ferro a diversi gradi di ossidazione producono delle tinte che variano dall'arancio al violetto. Le terre rosse più note, commercialmente sono Rosso di Prussia, Rosso di Spagna, Rosso di Norimberga, Rosso Pozzuoli, Rosso Verona, Rosso Venezia, Rosso Indiano e Caput Mortuum questi ultimi tre sono i più stabili. - Terre Gialle Bruciate derivano dalla cottura delle terre gialle, con la calcinazione assumono un colore più o meno rosso ed oggi hanno le stesse denominazioni delle terre rosse calcinate naturalmente. - Cinabro Naturale chimicamente è solfuro di mercurio. Il più idoneo per l'affresco è il Cinabro Cinese. - Rosso di cadmio (solfuro di cadmio) È un rosso molto caldo, esiste in tre gradazioni: chiaro, medio, scuro. Non va mescolato con verde Veronese, verde smeraldo, terra d'ombra e colori a base di piombo. 151


- Rosso Pozzuoli (sesquiossido di ferro anidro) Detto anche: rosso inglese - rosso Ercolano - rosso di Venezia. È una terra rossa dal grande potere colorante, ottima per ogni genere pittorico. Non va mescolata con giallo di cromo, né bleu di Prussia. - Rosso Cinabro (solfuro di mercurio) Il vero rosso Cinabro è quello proveniente dalla Cina, praticamente introvabile. Il cinabro italiano è quello estratto dalle cave del Monte Amiata, bellissimo, ma dal costo proibitivo. Il cinabro è detto anche vermiglione. Non va mescolato con le terre, ocre, verde smeraldo, verde Veronese, bleu di Prussia, bleu oltremare, giallo di zinco e giallo di cromo. Può essere sostituito con imitazioni dal prezzo più abbordabile. - Lacca di Garanza (acido alizarico o alizarina + porporina) È detta anche lacca di alizarina, si estrae dalle radici della pianta "Rubia tinctora" ha colore rosso trasparente leggerissimo, utile per le velature. Non va mescolato con verde smeraldo, verde Veronese, terra di Siena, terra d'ombra, ocra, e colori a base di piombo. - Rosso quinacridone (pigmento quinacridone ) È un colore moderno, rosso trasparente, simile alla lacca di Garanza, utile per le velature. VERDI

- Terra Verde (silicati ferrosi e ferrici di potassio, manganese e alluminio più ossidi Fe, Mg, Al, K). È un idrosilicato di ferro con sali di magnesio e potassio, originatosi da argilla marina. È un colore oliva solidissimo. La qualità di Verona, e particolarmente di Brentonico sul monte Baldo, è la migliore. La terra di Verona è un colore utilissimo, verde trasparente, a volte tendente più al grigio, utilizzato prevalentemente nella pittura del quattrocento come sottofondo per l'incarnato delle figure.

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- Malachite o Verde di Montagna è un idrocarbonato di rame che si trova in natura specialmente negli Urali. Molto usato anticamente ma poco stabile. Oggi si usa un prodotto artificiale, ma non del tutto stabile. - Verde ossido di cromo (sesquiossido di cromo anidro) È un colore stabile, di grande potere coprente, con una tonalità calda, essenziale sopratutto nei paesaggi. Non confondetelo con il verde cromo detto anche verde cinabro (miscela di Bleu di Prussia e giallo cromo) che a differenza del primo è instabile e tende a scurire e dunque da evitare. - Verde smeraldo (sesquiossido di cromo idrato) È un verde trasparente, utilissimo nei paesaggi e per le velature. Non va mescolato con lacche di Garanza, gialli di cromo e cinabro. - Verde di ftalocianina (ftalocianina clorurata) È un verde frutto della moderna ricerca chimica, molto utilizzato per i colori acrilici. È un colore trasparente ma con un grande potere colorante. Può essere utilizzato in alternativa al verde smeraldo per le velature. - Verde cobalto (ossido di cobalto e ossido di zinco) È in due tonalità, chiaro e scuro. Non va mescolato col giallo di zinco. È un verde utile per i paesaggi ma dal costo proibitivo, potete sostituirlo con il verde smeraldo. BLU

- Blu oltremare (silicato d'alluminio e solfuro di sodio) È l'attuale sostituto dell'azzurro di Lapislazzuli, oggi introvabile, è un colore solido buono per tutti i sistemi pittorici. Non va utilizzato con le tempere in cui è presente l'aceto come conservante. Non va mescolato con giallo di cromo e giallo di Napoli. - Blu cobalto (alluminato di cobalto) È un azzurro molto solido che dà ottimi verdi nelle mescolanze con i gialli di 153


cadmio, utilissimo nei paesaggi. Non va mescolato con colori a base di ferro. Blu di Prussia (ferrocianuro ferrico) È un colore che mescolato insieme al bianco di titanio o di zinco da degli azzurri bellissimi. Ha però il difetto di scurire con il tempo. Va mescolato solo con i gialli di cromo per comporre i verdi, non va mescolato inoltre con le terre naturali, perchè a base di ferro e con il rosso cinabro. Molto velenoso. Colore da evitare sostituendolo con il blu di ftalocianina, molto solido e resistente. AZZURRI

Colore molto difficile da usare, tanto che anticamente l'azzurro veniva applicato a tempera sopra ad una preparazione marrone e nel Rinascimento su una preparazione bianca. Gli azzurri usati erano quello di lapislazzuli e di smalto. L'unico azzurro relativamente moderno da usare in affresco è l'«Azzurro di Cobalto». - Azzurro di ftalocianina (pigmento di ftalocianina PB 15) Ha una gradazione di azzurro che può essere utile per sostituire il bleu di Prussia che è instabile alla luce e nelle mescolanze con altri colori. È un azzurro dal grande potere colorante, molto utile anche nella tempera, particolarmente per le velature. VIOLETTI

- Violetto di cobalto scuro (fosforo cobaltoso basico di cobalto) - Violetto di cobalto chiaro (arseniato di cobalto) Colore usato sia puro che mescolato con bleu e lacche rosse. Non va mescolato con colori a base di ferro. - Violetto di manganese (pirofosfato mananoso ammonico fosfato di manganese)

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Ăˆ un viola solido che può essere anche mescolato con colori a base di ferro.

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5. L’INFLUENZA DEGLI INERTI E DEI LEGANTI SUL COLORE DEGLI INTONACI PRIMA DELL’AVVENTO DEI PIGMENTI ARTIFICIALI (OSSIDI)

Nell’anno 1825, subito dopo il brevetto del cemento Portland, con l'avvento delle tecniche di produzione di pigmenti derivati dalla lavorazione del cromo, cresceva il numero dei pigmenti e delle possibili combinazioni di colori nella gamma che andava dal bianco al nero dando origine ad una vasta gamma di tinte, mezzetinte di qualsiasi grado e tono cromatico impensabile sino al giorno della scoperta di questa nuova tecnica. Nella seconda metà dell'Ottocento, con la scoperta dei silicati, il bianco di San Giovanni lasciò il passo ai sintetici bianco di zinco ed il bianco di titanio; il blu egiziano, detto anche caeruleum aegiptium e ben descritto da Vitruvio, venne sostituito dall'oltremare artificiale e a tutte le sue variazioni; a cavallo della metà del XIX secolo, il verde Veronese si trasformava in ossido di cromo e ossido idrato di cromo. Nelle botteghe artigiane le ocre naturali venivano sostituite dai gialli e dai rossi di cadmio e si iniziava a tinteggiare gli edifici utilizzando molto colore. I pigmenti adoperati tradizionalmente nella pittura murale erano gli stessi usati per altre tecniche pittoriche su altri supporti. Questi pigmenti erano di numero ridotto e moderatamente elaborati: per la maggior parte si trattava di ocre naturali e di ocre bruciate. Nei casi in cui la l’edilizia diffusa non poteva ostentare i costosi tinteggi composti con ocre od altri preziosi cromatismi, le vie dei borghi erano un susseguirsi di colori che la luce sulla pura materia (composta esclusivamente da leganti e malte) conferiva alle facciate delle case.

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Gilberto Quartetti ci testimonia come le “calci morette o nigre, calci livide o quelle erettine, sabbie gialle d'ogni grado e tono, sabbie rossicce, sabbie color avorio, sabbie miste delle quali l'astrazione cromatica infondeva negli intonaci colori varianti al variare delle luce radente, ed altre infinite composizioni volte a condurre i risultati cromatici ai più alti esiti estetici”. Per potere immaginare il colore originario degli antichi edifici costituenti l’edilizia diffusa dei centri storici occorre eseguire un articolato esame delle malte dal colore naturale, ritrovate sui muri degli edifici storici presenti nel territorio. Per ciascun genere di elementi in malta a vista (giunti murari, intonaci, intonachini, ornamenti, stipiti e cornici, finti bugnati, ecc.), l'esame sul luogo porta ad individuare puntualmente i nessi architettonici inscindibili tra i caratteri di dettaglio della “materia” indagata e l'immagine d'insieme dell'edificio stesso. L'esame del colore dell'edilizia diffusa congiuntamente all’esame del colore proprio delle sabbie locali di alveo, di cava e di quelle ottenute dalla frantumazione delle pietre locali, unitamente all’analisi dell’aspetto delle malte dal colore naturale, non tinteggiate, porta univocamente a stabilire il colore degli edifici storici. Questa analisi confermato inequivocabilmente l'ipotesi formulata in origine, che in passato, in ciascuna zona siano state prevalentemente utilizzate, per secoli, le stesse sabbie disponibili nelle vicinanze degli edifici. Lo stretto rapporto esistente fra le costruzioni antiche e l’ambiente circostante - con la sola esclusione delle costruzioni considerate “emergenze monumentali” conduce all’affermazione che il colore degli edifici presenti nei diversi centri storici è certamente quello derivante dalla 157


frantumazione (naturale o artificiale) dei litotipi utilizzati nel corso della loro costruzione Scamozzi, in L’idea della architettura universale, Venezia, 1615, afferma: "Siano ammoniti tutti quelli che fabbricano di servirsi delle materie che sono comode e vicine e che si possono avere con manco costo". L'attività edilizia si avvaleva principalmente di materiali locali poiché la difficoltà delle comunicazioni rendeva molto costose le importazioni da luoghi lontani. Vi sono aree ove scarseggiano materiali litoidi, utilizzabili come pietra da taglio, ma abbondanti sono i terreni argillosi utili per fabbricare mattoni; mentre, in altri luoghi, scarseggia l'argilla e quindi l'antica tradizione riproponeva la tecnica del costruire con pietre locali squadrate, rispondendo all'esigenza imposta dall'usanza d’impiegare la materia meno costosa e tralasciare la più lontana; dove la pietra veniva lavorata, il materiale di risulta veniva finemente frantumato e ridotto a sabbia, da mescolare in seguito con la calce al fine di confezionare le malte per allettare i conci. Viene anche rafforzata l'ipotesi, che in ciascun luogo i caratteri della “grana” delle malte a vista, si associno ai caratteri della pietra da costruzione locali, nonostante le diversità derivanti dalle differenti epoche e culture. Il confronto fra le sabbie locali ed i campioni di malte, prelevate da vecchi edifici, mette in luce la grande varietà di sabbie e di malte, caratteristiche delle diverse zone. Quanto sino ad ora affermato, in ambito nazionale, viene ribadito dalla conoscenza delle malte paglierine di Lecce, realizzate con le sabbie gialle ricavate dal taglio dell'omonima pietra arenaria; le malte di un giallo ancor più acceso, composte con la risulta della lavorazione della pietra di Favignana; le malte bigio/giallicce, associate alle 158


sabbie del Po e del Ticino; le malte rossicce ottenute dall'uso della polvere del coccio pesto; così come le malte ottenute con la miscelazione d'argilla rossa, naturalmente cotta, reperibile nella piana di Catania, che i locali chiamano “ghiara”, e tante altre sabbie che hanno conferito alle malte le tonalità e vibrazioni cromatiche tipiche del costruito locale. In tutti questi casi, si sono possono individuare le connessioni storiche rilevabili tra le sabbie di un luogo ed il tipico cromatismo locale degli edifici. In ogni caso le peculiarità locali nell’aspetto delle vecchie malte d'allettamento e degli intonaci non tinteggiati, risultano rapportabili a tre basilari fattori: -

la grana visibile dell'aggregato;

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la tessitura della superficie;

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il colore di fondo, conferito prevalentemente dal legante usato e dalle frazioni fini dell'aggregato, indistinguibili ad occhio nudo.

IL COLORE DELLA CALC E

La denominazione dei calcari, impiegati per la produzione della calce, variava in funzione delle caratteristiche morfologiche dei litotipi usati. Nei cantieri del passato, nell'appennino tosco-umbro-emiliano, il “sasso Alberino” rappresentava la pietra da calce per eccellenza. Il calcare veniva selezionato in base alla sua lavorabilità, al tipo di grana ed al colore. L'approvvigionamento del materiale avveniva preferibilmente in cava ed era affidato a maestranze specializzate. La cottura della marna, raccolta nelle cave storiche, ed il successivo spegnimento, era invece condotto da “Mastri da Calcina”.

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L'attenzione posta nella scelta del calcare aveva come fine il controllo qualitativo della produzione e l'impiego differenziato dei tipi di calce ottenuta. Nel corso del processo di produzione si distingueva la calcina forte, impiegata prevalentemente per malte di allettamento e per intonaci, dalla calcina dolce, usata per il confezionamento di intonachini, per finiture e nelle scialbature. L'esame della documentazione archivistica evidenzia l’articolazione delle conoscenze empiriche nella scelta dei materiali per la preparazione della calce. In tutto il territorio nazionale, con il termine di "sassi forti" sono stati tradizionalmente denominati tutti i calcari marnosi; le calci ottenute da queste marne, venivano definite genericamente "Albaresi". I calcari e le marne venivano cotte all’interno di un intervallo di temperatura compreso fra 750° e 950°C; la produzione della calce avveniva per calcinazione della pietra in fornaci a cottura intermittente, impiegando come combustibile legname o fascine. Ci chiediamo se esiste una corrispondenza fra il cromatismo delle calci e gli aggettivi che identificano i colori delle calci idrauliche naturali che ci pervengono dagli scritti e dalla documentazione d'archivio? Quando per esempio il Palladio definisce "pigra" la calce "Padoana" d'Albettone, a quale colore allude? V. Scamozzi, descrive i calcari marnosi come pietre che "son molto gravi e pesanti, del color del gesso da sarto, cioè non molto bianche, e di natura fragili e vetrigne, con qualche suono e poco lustro". A quale specifico colore corrispondono i termini nigra, moretta, bigia, gialliccia, berettina, livida, ? 160


Crediamo che il termine "non molto bianche" sia la valutazione più consona. Le descrizioni più ricorrenti del colore delle calci idrauliche (dal gialliccio spento-opaco al nocciola rosato; dal bigio al bigio-nocciola; dal bigio scuro al nocciola-rossastro; dal nocciola-ocra al nocciolino chiaro) sono prive per noi contemporanei di qualsiasi riferimento oggettivo Tutto ciò fa ritenere che in passato, solo la specifica conoscenza dei siti di provenienza delle materie prime e la tradizione, fossero gli elementi che individuavano i cromatismi derivanti dal colore delle calci usate.

6. LA RIFINITURA DELL’INTONACO

L'esecuzione di un intonaco non può ritenersi conclusa con la stesura e la lavorazione dello strato finale; a parte alcuni tipi di intonaci colorati (tramite terre ed ossidi) le superfici, in genere, necessitano di un successivo trattamento. Lo strato di pittura svolge un'azione di difesa "passiva" assai simile a quella della nostra pelle. Tuttavia, per ottenere un buon livello di protezione, l'opera di coloritura deve essere realizzata con chiarezza di obiettivi, con competenza progettuale ed applicativa, con prodotti di provata efficacia ed affidabilità e solo dopo un'attenta analisi e diagnosi delle patologie dell'edificio. L'incremento delle opere di conservazione (non determinato esclusivamente dalla stasi nel mercato delle nuove costruzioni e dallo sviluppo del risanamento dei centri storici, ma anche da un'enorme richiesta di interventi di manutenzione su edifici costruiti nel primo dopoguerra e negli anni del "boom edilizio" configuranti una fetta abbastanza rilevante del nostro patrimonio abitativo) ha incentrato l'attenzione oltre che sulle proprietà decorative 161


della pittura e sul valore del colore che contribuisce a migliorare il nostro habitat sia esso città, quartiere o casa, sulla funzione tecnica delle opere di coloritura. Infatti, le fabbriche, gli uffici e gli appartamenti di questo periodo, costruiti per la maggior parte in cemento armato, presentano per il precoce disfacimento provocato da un'edilizia priva di qualità, delle superfici esterne talmente degradate da richiedere, oltre il rifacimento dell'intonaco e della pittura, anche il consolidamento ed il ripristino del supporto. Ma non tutti gli interventi di coloritura richiedono cure ed impegno particolari, anzi per la maggior parte sono di facile esecuzione purché chi utilizza il prodotto verniciante s'informi sulla sua composizione e chi lo mette in opera ne conosca le prestazioni. Oggi, dovrebbero essersi ridotte le perplessità, nate negli anni passati, sull'utilizzo di tecnologie innovative e di prodotti a sintesi chimica; infatti il mercato ci offre una vasta gamma di pitture in grado di svolgere sia un'azione di copertura capace di nascondere i difetti del paramento murario quali rappezzi prodotti da lavori di restauro, superfici a diversa granulometria e tracce di impianti mediante una messa in opera a spessore, sia funzioni di inerzia chimica, di adesione al supporto, di impermeabilizzazione, di mantenimento della permeabilità ai vapori ed inalterabilità cromatica. A tutto questo si devono aggiungere: - la normativa UNI che ha indirizzato i produttori verso la formulazione di nuovi preparati dalle performances sempre più chiare ed adeguate alle esigenze del periodo; - le più rigorose prove sperimentali effettuate sui prodotti vernicianti, - - la più corretta compilazione delle schede tecniche dei prodotti e la migliore preparazione professionale 162


di un certo numero di imprese di coloritura costrette a misurarsi con una concorrenza sempre più qualificata. Per concludere, essendo attualmente il mercato del recupero più in espansione del nuovo e la produzione finalizzata alle specifiche richieste del risanamento, è possibile reperire pitture capaci di fornire protezioni impermeabili all'acqua, ma nel contempo, permeabili ai vapori, resistenti agli agenti di degrado e sufficientemente affidabili per soddisfare le esigenze di un'imprenditoria più matura e di una committenza sempre più esigente. Occorre anche ricordare che è sempre indispensabile, dopo aver applicato l'intonaco, rispettare ed osservare alcune norme e precauzioni. In estate, è buona consuetudine irrorare periodicamente d'acqua il manufatto per circa otto giorni avendo l’accortezza di evitare le ore calde perché ciò potrebbe far aumentare il ritiro e le conseguenti fessurazioni. La soluzione ideale consiste nel provvedere al confezionamento degli intonaci in primavera o in autunno. È anche opportuno evitare di stendere l'intonaco in giornate ventose e ricordare che il sole, scaldando la superficie appena intonacata, la fa essiccare troppo velocemente. Nel periodo invernale, occorre da escludere l'uso di antigelo ed è sempre opportuno proteggere l'intonaco con teli. Per eseguire la tinteggiatura di un intonaco esistono molti sistemi che usiamo distinguere in funzione del materiale impiegato per ottenere la coloritura del manufatto. COLORITURA A CALCE

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Sino al secolo scorso l'intonaco veniva, quasi esclusivamente, colorato con le tinte a calce. Questo materiale era prodotto in cantiere con il seguente metodo: 1. si preparava il latte di calce diluendo il grassello di calce in acqua (nel rapporto di circa 1 a 10); 2. si setacciava la soluzione (latte di calce) a distanza di almeno 48 ore dalla preparazione, al fine di consentire la deposizione di eventuali parti estranee ed insolubili; 3. si realizzava la tinta desiderata mediante la diluizione, nel latte di calce, di terre coloranti. I colori di base che potevano essere impiegati in combinazione con la calce non erano molti in quanto la calce “brucia” ovvero ossida e modifica molte sostanze coloranti. L'attenzione e la cura che, nei secoli passati, si ponevano nel corso della preparazione di questi prodotti possono essere esemplificate dal sistema di produzione per ottenere il "giallo di Napoli". Si prescrivevano le seguenti operazioni: «...si calcina una mescolanza di dodici once di piombo, due once di perossido di ammonio, una di sale ammoniaco e una mezza oncia di allume calcinato, mantenendole per tre ore al fuoco di un crogiuolo coperto fino a tanto che sia riscaldato al rosso nascente...». In merito ai materiali impiegati in passato per la coloritura degli intonaci e per l'esecuzione degli affreschi è opportuno precisare che non pochi di essi, attualmente, non sono più utilizzati per la loro tossicità, diretta o indiretta. Dopo aver predisposto il materiale per la tinteggiatura ed avere controllato che la temperatura sia quella ottimale e

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che l'aria non sia troppo umida per presenza di nebbia o di pioggia, occorre pulire accuratamente l'intonaco. In seguito occorre inumidire adeguatamente tutta la superficie da trattare. Nel caso in cui il manufatto dovesse presentarsi eccessivamente bagnato è opportuno attendere l’evaporazione dell’acqua eccedente; la presenza di un eccessivo tenore d’umidità nei muri, infatti, può provocare la formazione di dannose efflorescenze saline. In questi casi anticamente era usanza diffusa, allo scopo di espellere l’eccesso d’acqua, comprimere la superficie da trattare rotolandovi sopra un piccolo cilindro di vetro (anche una semplice bottiglia). Eseguite tutte queste operazioni preliminari, al fine di ottenere una superficie compatta e dalla colorazione uniforme, occorre procedere in questo modo: 1. stendere con il pennello due mani di colore, abbastanza liquido (il segnale che l'intonaco non è più sufficientemente inumidito viene dato dalla mancata scorrevolezza del pennello; insistere vuol dire alterare i toni ed avere una disuguaglianza nell'effetto finale); 2. prima di dare il terzo strato, rullare con un cilindro di vetro per far trasudare l'eventuale acqua superflua; 3. stendere velocemente la terza mano di tinta. L'ultima mano, spesso, può essere spruzzata mediante una pompa che, attraverso un apposito ugello d'uscita, tende a nebulizzare la soluzione con ottimi risultati estetici e pratici. La tecnica illustrata ha sempre dato ottimi risultati e ciò è facilmente spiegabile. I materiali impiegati (acqua e grassello di calce) sono quegli stessi che vengono utilizzati anche nella composizione delle malte e, pertanto, non 165


incontrano alcuna difficoltà ad amalgamarsi con il manufatto, formando con esso, a conclusione dell'operazione, un unico strato. Ovviamente ciò avviene, in particolare, allorché la tinteggiatura viene effettuata subito dopo l'esecuzione dell'intonaco in quanto si realizza una tipo di affresco. Nei casi in cui la stesura della coloritura avviene dopo molto tempo dalla presa dell'intonaco o, addirittura, sia effettuata a distanza di anni dalla prima, originaria tinteggiatura, è opportuno che si aggiunga alla soluzione un fissativo oppure che si stenda (a pennello o a spruzzo), dopo la mano finale, un'ulteriore mano di acqua con fissativo. Sino a qualche decennio or sono, il fissativo era costituito da sostanze facilmente reperibili come: latte, caseina, colla animale, silicati di soda o di potassa mentre oggi s’impiegano, in genere particolari formulazioni di resine acriliche. Nei casi in cui si voglia ottenere il cosiddetto effetto di velatura (da usare quando non s’intende provvedere ad una tinteggiatura eccessivamente coprente), occorre: 1. bagnare la superficie intonacata con un pennello morbido intinto nell'acqua pura; 2. stendere, poi, leggermente una sola mano di colore molto diluito con acqua. Una volta steso il colore, in ambedue le metodologie descritte è opportuno spruzzare acqua sulla superficie d'intervento servendosi, preferibilmente, di un nebulizzatore. È comunque ovvio che con la velatura la durata nel tempora della pittura risulterà notevolmente ridotta.

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Successivamente all'applicazione, la tinteggiatura a calce è soggetta ad un processo di adattamento dovuto, principalmente, a fattori climatici e ambientali. Lo strato superficiale subisce alterazioni e dilavamenti, localizzati e diffusi, provocati dalla pioggia, dall'esposizione all'irraggiamento solare, dall'azione del vento e da altri agenti peculiari, del territorio o dell'edificio (nebbie, inquinamento, esalazioni ecc.). Tutti questi fattori accelerano l'invecchiamento della tinteggiatura, anche in modo disomogeneo, con diminuzione dello spessore del colore, lasciando trasparire, ovviamente in maniera difforme a seconda della collocazione, il tono dell'imprimitura di fondo (di solito, più chiara). Le tradizionali pitture a calce sono particolarmente gradite agli operatori del restauro ma, se gli effetti cromatici sono indiscutibilmente validi, le caratteristiche tecniche in relazione alla loro scarsa durata nel tempo, alla pessima impermeabilizzazione del supporto ed al decadimento della tecnica artigianale di posa in opera, risultano scadenti. La calce, infatti, oltre ad essere permeabile all'acqua viene da essa dilavata e trasformata in carbonati e bicarbonati. L'inquinamento atmosferico da anidride solforosa ha notevolmente aggravato il fenomeno trasformando la calce in gesso. L'anidride solforosa aggredisce, anche, i pigmenti ferrosi formando solfuri e solfati che alterano il colore della pittura. Per annullare queste reazioni chimiche è necessario difendere la pittura tramite specifiche sostanze idrofobizzanti (a base di silani, silossani, metil-etossisilossani, ecc.). La loro caratteristica più rilevante è l'elevata capacità di penetrazione che è funzione della particolare struttura 167


chimica (legami incrociati) che ne consente l'infiltrazione all'interno dei capillari più sottili. La capacità di penetrazione di queste sostanze è migliorata dal solvente che trasporta la sostanza attiva all'interno della struttura da idrofobizzare. Quando, oltre all'effetto idrorepellente, si richiede una protezione contro l'erosione operata dall'atmosfera, occorre trattare le pitture a calce con protettivi a base di resine sintetiche (acriliche o poliuretaniche). Tuttavia, poiché questi trattamenti comportano un abbassamento delle capacità di traspirazione della calce, è preferibile ricorrere ad altri tipi di pitture che a parità di prestazioni risultano molto meno costose. I vantaggi dei sistemi a calce si possono così riassumere: - tecnologia e cromatismo aderenti alla realtà costruttiva del manufatto; - discreta adesione; - capacità di non influire sulla permeabilità ai vapori del sottofondo. TINTEGGIATURA A BIAN CONE

Un tipo di tinteggiatura alquanto utilizzato in passato ma oggi in disuso consiste nella tinteggiatura a biancone (detto anche médon). Si tratta di una variante della tinteggiatura a calce. Mentre la pittura a calce veniva eseguita, come già detto, solo diluendo il grassello (da cui il nome latte di calce), nella tinteggiatura a biancone venivano aggiunti degli inerti (in genere a basi di carbonato di calcio o di gesso). Questo sistema era utilizzato nei casi in cui era necessario procedere con strati di una certa consistenza e spessore al fine di evitare la formazione di possibili screpolature. 168


Questo tipo di inerti sono ancora reperibili in commercio sotto varie denominazioni. In particolare, i diversi tipi di carbonato di calcio (che, sostanzialmente, si differenziano tra loro per granulometria e colore) venivano chiamati: bianco di Spagna, bianco di Champagne, bianco di Bougival, bianco di Meudon e biancone. Questi due ultimi erano quelli più utilizzati per cui questo genere di tinteggiatura veniva, usualmente, denominata: a biancone o, in alternativa médon (per un’evidente trasformazione dialettale del termine francese Meudon). Un altro inerte utilizzato nella tinteggiatura a calce era il gesso. Occorre precisare che non tutti i gessi usati in pittura sono dei veri e propri gessi. Tenuto conto che questo materiale è un minerale costituito da solfato di calcio biidrato, non possiamo considerare gesso il caolino che è un silicato di alluminio (un'argilla bianca, molto pura, proveniente dalla decomposizione di rocce granitiche) e nemmeno ritenere un gesso la creta (un carbonato di calcio ricavato dalla macinazione di rocce con giacimenti di conchiglie marine, gusci ecc.). I cosiddetti gessi che venivano usualmente impiegati come inerti nella tinteggiatura a calce erano: il biaccone (gesso fradicio o marcio, gesso da doratore e gesso da falegname), il caolino e la creta (gesso di Bologna, gesso di Verona, gesso di Parigi e gesso di Firenze). COLORITURA A TEMPERA

Anticamente si usava il termine "tempera" per i sistemi di tinteggiatura che utilizzavano come legante olio, gomme o cera. Oggi, per indicare questo genere di miscele si preferisce utilizzare i termini guazzi, acquarelli e colori a cera. Per colori a "tempera" s’intendono quelli stemperati nell'acqua con colle animali, vegetali, uova o latte. 169


In effetti, diverse tecniche (anche la tinteggiatura a calce esaminata precedentemente) possono rientrare nella tipologia della pittura a tempera. Infatti il carattere distintivo di questa pittura consiste nello stendere colori stemperati in acqua e legati da sostanze collanti varie. Nella pratica di cantiere, tuttavia, si preferiva utilizzare questo termine per le pitture legate da colle "naturali" oppure con uova o latte (almeno come collanti predominanti). Ciò indipendentemente dalla eventuale presenza di altre sostanze che, in genere, venivano considerate tipiche di tecniche differenti. Volendo ovviare all’impegnativa preparazione delle tinte a calce, si ricorreva alla tinteggiatura a tempera soprattutto quando ci si trovava in presenza di una parete intonacata da diverso tempo. Le modalità di posa erano le seguenti: Sulla parete asciutta occorreva ripassare con un po' d'acqua la superficie, indi si stendeva una mano d'acqua e di fissativo (nella proporzione di una parte di colla e due di acqua). Completata la preparazione si procedeva, con grossi pennelli, a stendere la tinta definitiva nei colori desiderati, sempre stemperati in acqua e fissativo, ed avendo cura di ricoprire la superficie con il procedere del lavoro. Nella tinteggiatura per esterni si richiedeva l’uso di una maggiore quantità di collante, mentre il primo strato di tinta doveva risultare più carico di collante degli strati successivi. La sostanza collante, tuttavia, incrementa l'impermeabilità, diminuiva la traspirazione della muratura e tendeva a far screpolare la superficie dipinta ed ad alterare nel tempo il tono dei colori. In passato, venivano utilizzate sia colle, vegetali (confezionate con farine di: grano, riso, fecola, amido) o 170


animali (ossa, pesce, pelle), sia latte (direttamente o attraverso i suoi coagulati, in particolare, la caseina) o anche uova (completo oppure solo il tuorlo o solo l'albume). Oggi esistono in commercio colle che potrebbero offrire la possibilità di essere usate anche a freddo e senza alcuna preparazione e che contengono sostanze che rendono le colle imputrescenti, quindi utilizzabili a lungo senza pericolo di deterioramento. Tuttavia, non sempre, l'impasto risulterebbe completamente equilibrato e, spesso, occorrerebbe diverso tempo per verificarne gli effetti sui toni del colore e soprattutto sulla loro resistenza agli agenti atmosferici. Per l’insieme di questi motivi i colori a tempera sono divenuti desueti per le applicazioni sulle fronti esterne degli edifici. Particolare attenzione deve essere posta nei restauri delle superfici già dipinte a tempera. Nel caso si vogliano conservare le superfici nella loro tinta originale occorre cercare, dapprima, di pareggiare le parti nuove con quelle preesistenti mediante applicazioni ripetute di colore (minerale naturale), stemperato in acqua e latte. Solo in seguito si potrà operare come se si trattasse di una superficie già completamente tinteggiata. Quando s’intende rinnovare completamente una parete dipinta in passato a tempera, conviene, innanzitutto, pulire accuratamente la superficie, spazzolandola energicamente e in seguito applicando una mano di latte di calce. Solo in seguito a questo trattamento si può procedere come se si trattasse di una parete nuova. PITTURE SINTETICHE

A

BASE

DI

RESINE

171


Sono pitture particolarmente diffuse nell'edilizia moderna per il costo relativamente basso, per la loro capacità impermeabilizzante e per la vasta gamma di valori cromatici che consente di ottenere ottimi risultati estetici. Dopo l'enorme progresso attuato dalla chimica industriale nell'utilizzo dei derivati del petrolio, diversi materiali hanno trovato largo impiego in edilizia. Tra questi, diverse pitture sintetiche emulsionate (acriliche, viniliche, alchiliche, ecc.) che, diluite in acqua vengono utilizzate sugli intonaci. Quelle che trovano maggior applicazione sono le cosiddette idropitture, (lavabili o semi-lavabili). Essendo prodotti di larga produzione industriale con facile e pratica tecnica di posa, hanno incontrato una larga diffusione. In effetti chiunque, anche senza molta esperienza lavorativa specifica, è, sostanzialmente, in grado di provvedere alla loro applicazione. Inoltre, come tutti i materiali di questo genere, essi tendono a formare, sulla superficie di applicazione, una pellicola che risulta, in pratica, facilmente pulibile con una semplice spugna imbevuta d’acqua (ciò almeno per i primi tempi dopo la stesura). In ogni caso sia la possibilità di poter effettuare l'operazione con rapidità e senza la necessità di ricorrere a manodopera specializzata sia la relativa facilità di manutenzione e ripristino, sono elementi che ne hanno determinato una rapida diffusione. Tuttavia, occorre segnalare che le pitture a base di resine sintetiche formano, tranne che in casi molto particolari, una barriera al vapore d'acqua. Infatti, un quantitativo elevato di resina influenza negativamente la traspirazione del supporto, variando, soprattutto negli edifici antichi, lo scambio igrometrico fra muro ed ambiente e generando il

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fenomeno di rigetto della pellicola che la resina indurita ha formato sul supporto.

Questi fenomeni possono essere ridotti sensibilmente sia utilizzando una buona mano di fondo che si opponga validamente al distacco, sia scegliendo, per le zone più esposte a fenomeni di condensazione, prodotti più idonei. Per questo motivo i prodotti di questo genere non sono adatti per l'esterno, ove la traspirazione dell'intonaco è di prioritaria e vitale importanza per la conservazione del manufatto. Si è già detto che, quando si desidera ottenere un effetto di velatura, si ricorre, normalmente, alla tinteggiatura a calce. Si possono tuttavia ottenere esiti similari anche con colori a legante acrilico o con silicato di potassio. Il principio di base è costituito dalla stesura di uno strato di fondo chiaro e, successivamente, dall'applicazione di un'altra mano (o due) di tinteggiatura poco coprente. In tal modo si ottengono effetti localizzati di maggiore o di minore trasparenza, con distribuzione non uniforme del colore sulle parti trattate. Di recente sono stati messi a punto sistemi appositamente formulati per consentire variazioni delle miscele così da ottenere diversi gradi di luminosità del fondo che affiora con l'effetto di velatura. In ogni caso, si possono raggiungere buoni risultati di velatura mediante: 1. la spazzolatura accurata della parete con asportazione delle parti incoerenti, o poco aderenti, di eventuali, precedenti pitturazioni;

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2. l’applicazione, su tutta la superficie, di uno strato di vernice fissativa ed isolante a base di resina acrilica, in soluzione acquosa; 3. la realizzazione di un fondo coprente bianco con idropittura (questa operazione corrisponde a quella della tradizionale imprimitura di fondo con latte di calce); 4. la stesura di uno strato di idropittura con il colore prescelto; 5. l’applicazione di una o più mani di velatura con idropittura neutra, trasparente, eventualmente arricchita da una leggera coloritura della stessa tinta del fondo o lievemente più chiara. Qualora il colore prescelto sia piuttosto scuro potrà essere necessario ricorrere ad almeno due strati di velatura per conseguire effetti coprenti accettabili per l'occultamento del segno delle pennellate. Non si dimentichi, inoltre, che per ottenere esiti discreti è indispensabile che l'applicazione della velatura sia effettuata da personale specializzato e capace di procedere con regolarità e costanza in quanto non esiste la possibilità di eseguire dei ritocchi e perché il tratto delle singole pennellate partecipa all’effetto complessivo dell'operazione. Per concludere, le caratteristiche delle pitture a base di resine sintetiche possono così riassumersi: - ottima adesione al sottofondo; - elevata protezione contro le aggressioni atmosferiche; - ottimo effetto impermeabilizzante; - soddisfacente durata nel tempo;

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- influenza negativa sulla permeabilità ai vapori; - cromatismo poco adatto alla coloritura di antiche costruzioni, ma particolarmente indicato per quelle moderne (colori troppo brillanti ed omogenei). PITTURE SILICONICHE

S’intende comunemente per pittura siliconica una pittura formulata con i normali pigmenti, riempitivi e additivi usati per le pitture all'acqua, in cui il legante sia costituito da ameno il 50% in volume di una resina siliconica. Non rientra negli scopi di questo lavoro dilungarci sui meccanismi di azione delle resine siliconiche in tali idropitture, ci limitiamo quindi ad affermare che le pitture siliconiche abbassano la permeabilità all'acqua e la resistenza agli agenti atmosferici, senza modificare in modo sostanziale il gradiente di traspirazione dei vapori del supporto. In alcuni casi queste sostanze migliorano anche la resistenza all'abrasione, riducono la presa dello sporco, migliorano la resistenza alla colonizzazione delle alghe e dei funghi (in relazione al biocida utilizzato), mentre per le altre resine tutti questi effetti sono limitati o nulli (dipende molto dalla natura chimica della resina e dal tipo di carica). Circa venti anni fa, si è dato inizio a tentativi di formulazione di pitture all'acqua per esterno usando come leganti dispersioni miste di resine stirolo-acriliche o acriliche ed emulsioni di resine siliconiche e/o oligomeri silossanici, allo scopo di eliminare gli effetti della porosità, tipica dei films ottenuti da pitture in dispersione responsabili dell'alta permeabilità al vapore ed anche di un’altrettanto elevata permeabilità all'acqua, tramite il ricorso a polimeri idrorepellenti e poco permeabili, quali quelli siliconici Si possono formulare pitture idrofobizzanti purché abbiano le opportune caratteristiche chimico-fisiche e siano portate alla giusta concentrazione, anche combinandole con modeste quantità di resine acriliche, al fine di facilitarne la penetrazione negli strati d’intonaco su cui sono applicati. A questo scopo possono essere usati gli stessi prodotti che s’impiegano per la formulazione delle resine silossaniche (a basso peso molecolare) che consentono di ottenere apprezzabili risultati in termini di idrorepellenza.

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In dettaglio si tratta di polidimetilsilossani (PDMS) a basso peso molecolare (600–1000), oligosilossani e resine PDMS ad alto peso molecolare (1000–5000) o di polisilossani. La caratteristica generale di tutti questi composti siliconici è la bassa tensione superficiale che consente a questa famiglia di prodotti di “distendersi” perfettamente su ogni tipo di superficie e di penetrarne all’interno dei più piccoli interstizi (nel nostro caso specifico i capillari) se abbinate con l’opportuna combinazione di basso peso molecolare e di finezza delle particelle. I polidimetilsilossani (PDMS) formano sulle superfici dei films sottilissimi perfettamente aderenti, per cui i capillari vengono “rivestiti“ di resina siliconica senza venirne occlusi. Questa caratteristica permette che, in virtù della bassissima tensione superficiale venutasi a formare all’interno dei capillari, l’acqua non è in grado di penetrare; ma, nel contempo, essendo i capillari completamente aperti il vapore acqueo è in grado facilmente di transitare. Queste resine idrorepellenti possono essere inserite indistintamente all’interno sia di idropitture silossaniche (sia lisce sia quarzi), sia di tradizionali idropitture di cui, per ragioni ambientali, climatiche o di particolare esposizione alle intemperie, si vogliano migliorare le prestazioni di idrorepellenza, senza per questo penalizzarne il grado di permeabilità ai vapori del supporto. Possiamo sintetizzare le principali caratteristiche dei sistemi silossanici sono le seguenti: -

alta impermeabilità all'acqua;

-

buona diffusione del vapore acqueo;

-

buona adesione ai supporti minerali e non (bassa tensione del film);

-

resistenza alle intemperie;

-

resistenza ai gas inquinanti dell'atmosfera;

-

resistenza alla colonizzazione di alghe e funghi.

-

cromatismo poco adatto alla coloritura di antiche costruzioni, ma particolarmente indicato per quelle moderne (colori troppo brillanti ed omogenei). 176


PITTURE AI SILICATI DI POTASSIO

Verso la metà dell'Ottocento, in Germania, venne brevettato un nuovo metodo di tinteggiatura. Fu Keim, soprattutto, a studiare e perfezionare questa tecnica, basata su polveri minerali unite da soluzioni acquose di silicato di sodio o di potassio. Il risultato finale di questa tinteggiatura è simile a quello dell'affresco anche se, in effetti, si tratta di una pittura a secco che deve essere stesa su di un'intonacatura ben essiccata. La prima formulazione della pittura ai silicati (stereocromia) era bicomponenti e si basava quindi sull'uso, come fissativo o come diluente dei colori, di silicati che essendo sali neutri, una volta diluiti in acqua producevano reazioni alcaline. (andavano quindi maneggiati con estrema attenzione evitando contatti diretti con la pelle a causa della loro causticità.) Il silicato non andava usato puro perché capace di formare una superficie simile al vetro e, pertanto, si doveva utilizzare materiale a densità ridotta utilizzando come diluente l’acqua distillata. Accertato che i colori prescelti erano compatibili con il silicato, si preparava una miscela di bianco di base (solitamente il bianco di zinco o, in alternativa, anche carbonato di calcio), colore e acqua distillata. In seguito si univa la miscela al silicato aggiungendo acqua in proporzione di 6-8 parti per ogni parte di silicato continuando a mescolare energicamente al fine di ottenere un'omogenea dispersione dei pigmenti colorati. Le formulazioni attuali sono delle pitture monocomponenti in cui il legante a base di resine sintetiche viene sostituito da una soluzione acquosa di silicato di potassio, stabilizzata da una impercettibile presenza (2,5%) di resina sintetica.

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Se applicate su un supporto minerale determinano un indurimento chimico sia all'interno dello strato di pittura che nel supporto. A causa di una reazione chimica con l'anidride carbonica presente nell'atmosfera e per effetto dell'assorbimento dell'acqua, si verifica la formazione all'interno dello strato di pittura di polisilicati:

(K2 Si O3) n = n CO2 = nH2O → (H2 Si O3). = nK 2 CO3

Il silicato di potassio trasforma il carbonato di calcio del supporto, in silicato di calcio insolubile:

K2 Si O3 = Ca CO3 → Ca Si 0 3 = K2 CO3

Il polimero dell'acido silicico (il polisilicato formatosi all'interno della pittura) ed il silicato di calcio formano un compatto reticolo cristallino con una struttura fisica molto simile a quella dell'intonaco ma con caratteristiche fisicochimiche decisamente superiori. Queste proprietà si possono così riassumere: - adesione al sottofondo; mediante reazione chimica si forma fra l'intonaco e la pittura uno strato omogeneo ed uniforme che consente alla pittura di aderire perfettamente al supporto; - comportamento in presenza di acqua; la struttura cristallina creatasi all’interno dello strato di pittura risulta porosa, resistente all'acqua e permeabile ai vapori;

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- resistenza ai raggi ultravioletti; i pigmenti inorganici sono stabili ai raggi U.V., non ingialliscono e non sfarinano; - resistenza alle muffe; i componenti inorganici della pittura non consentono né l'attecchimento né la proliferazione di funghi e muffe. Dall'analisi di queste proprietà che riassumono le caratteristiche qualitative delle pitture a calce e di quelle a base di resine sintetiche senza presentarne i difetti, risulta che le pitture al silicato di potassio sono particolarmente indicate per la coloritura degli edifici antichi. Questi prodotti, inoltre, sono facili da applicare e, rispetto alle loro prestazioni, non presentano un costo eccessivo. Per quanto concerne le modalità di applicazione, esse non differiscono molto da quelle di una comune pittura. Dovendo il silicato di potassio reagire con i carbonati di potassio dell'intonaco, occorre: - sverniciare gli intonaci da precedenti strati di pitture sintetiche; - trattare preventivamente gli eventuali rappezzi che presentano un'alcalinità diversa da quella degli intonaci originali; - pulire il sottofondo in modo che polvere e grassi non inibiscano la reazione chimica; - coprire e proteggere tutte le parti della superficie che non dovranno essere tinteggiate ed in particolare quelle in: vetro, pietre naturali e metalli; eventuali spruzzi su questi materiali devono essere sciacquati immediatamente con abbondante acqua non consentendo assolutamente che il prodotto asciughi perché la pittura al silicato è irreversibile. 179


Le pitture ai silicati, mediante queste semplici modalità applicative, sono in grado di fornire ai manufatti edili un aspetto del simile a quello delle antiche pitture a calce pur assicurando caratteristiche tecniche superiori. In genere tutte le superfici possono essere trattate con le pitture ai silicati. Anche perché il silicato viene addirittura impiegato per rendere più consistenti ed impermeabili materiali porosi e friabili (come arenarie, tufo, cotto ecc.) sfruttandone le capacità cementanti e riempitive. Tuttavia la superficie più idonea per il trattamento al silicato è quella costituita da intonaco in malta di cemento e sabbia sia per l'affinità del silicato con la silice di cui è, prevalentemente, composto il cemento sia per la facilità di penetrazione garantita dalla sabbia (soprattutto se di grana grossa). La stagione migliore per eseguire, all'esterno, la pittura ai silicati è il primo autunno, possibilmente in giornate coperte e umide ma non ventilate (come per l'affresco). Occorre astenersi dall'operare con temperature al di sotto di 5°C, per cui non è consigliabile operare in inverno. Qualora invece si dovesse eseguire l'intervento in estate sarà necessario evitare le ore più calde, proteggere con teli e bagnare continuamente (ma leggermente) la superficie. I risultati migliori per ottenere una tinteggiatura uniforme si raggiungono impiegando uno spruzzatore, meccanico o elettrico, per applicare l'ultimo strato. Si rammenti, infine, che l’ applicazione dei silicati presenta non poche difficoltà di esecuzione e che, pertanto: - deve essere realizzata da personale competente ed esperto; - soprattutto se stesa su grandi superfici e con tinte forti, può risultare poco compatta ed evidenziare le sovrapposizioni delle pennellate; 180


- qualora si utilizzi pittura troppo diluita, potrebbero verificarsi colature con grave pregiudizio dell'effetto finale; - se la soluzione risulta eccessivamente densa rischierebbe, asciugando, di screpolarsi; - dovendo effettuare correzioni, occorre riprendere le operazioni dall'inizio con la stesura dello strato d’imprimitura. Come già accennato più sopra l'effetto velatura si può ottenere anche con pitture ai silicati. L'operazione deve essere condotta come illustrato per le tinte con leganti acrilici non dimenticando che, per le pitture ai silicati, risulta ancor più importante non procedere all'applicazione di velature nelle giornate ventose o quando la superficie d'intervento sia troppo calda. In tali circostanze, infatti, un'asciugatura troppo rapida renderebbe inevitabile l’evidenziarsi delle sovrapposizioni delle pennellate.. In caso di necessità può essere opportuno l’uso di un ritardante da aggiungere alla miscela colorante.

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7. Un’ipotesi sul colore dell’edilizia storica diffusa

Partendo dalle cromie ottenibili con la selezione delle sabbie prodotte nelle cave presenti nel territorio, in prossimità degli insediamenti urbani in esame, e la successiva miscelazione con calce aerea o idraulica (senza escludere, in determinati siti, il gesso) è possibile in ricavare i colori “base”che probabilmente caratterizzavano l’edilizia diffusa dei singoli centri storici. Nella precedente sintesi sulla storia dell’intonaco abbiamo evidenziato come spesso, sia per motivi economici che per consuetudini dell’epoca, l’edilizia minore non utilizzava altro colore se non quello proprio delle malte. Le “tinte base”, così ricavate, si coordinano naturalmente con il colore proprio dei litotipi da cui hanno origine (in ogni caso più scuri per l’assenza del legante) soprattutto nei casi in cui questi ultimi venivano utilizzati “a vista” nella costruzione degli elementi decorativi. Seguendo queste semplici linee guida si riesce ad ottenere: - un semplice, calibrato e stilisticamente corretto effetto chiaroscurale; - un colore complessivo della costruzione che con buona probabilità si adatta a quello naturale dell’habitat e del contesto urbano. Occorre inoltre considerare anche gli usi locali. Spesso si riciclavano sostanze correntemente in uso per altre attività produttive (come viene ampiamente dimostrato dalla miriade di additivi di origine organica utilizzati in passato allo scopo di proteggere i litotipi o al fine migliorare le prestazioni delle malte). Due esempi: 182


- con l’ossido di rame, adoperato come protettivo per vigneti, si otteneva il pigmento verde. Occorre ricordare che anticamente questo colore si è spesso ottenuto con l’uso del verderame, chiamato dai romani aerugo o aeruca, cioè ruggine del rame; - con l’azolu o azuolo (derivazione dello spagnolo “azul” azzurro) ovvero una sostanza in polvere chiamata detta anche “turchinetto” utilizzata come smacchiante del bucato, si otteneva il pigmento azzurro. E’ evidente che queste particolari cromie sono irripetibili ma, in particolari circostanze, possono costituire per il progettista un utile riferimento per il progetto del colore. Per tutti gli altri casi riteniamo possibile la realizzazione di una (seppur limitata) cartella dei colori di specifiche aree geologiche utilizzando come base di partenza le caratteristiche cromatiche dei litotipi locali. ORDINI ARCHITETTONICI E BICROMIE

Per tentare un’ipotesi sulle probabili bicromie, occorre indagare se in zona erano presenti giacimenti di terre utilizzate come pigmento per la realizzazione di pitture a latte di calce. Le bicromie contraddistinguono più le emergenze architettoniche in cui sono presenti i cosiddetti “ordini architettonici” piuttosto che l’edilizia diffusa. Tuttavia non si può escludere a priori che le costruzioni più comuni non richiamino, in qualche modo, questi ordini presenti a volte nel contesto della città storica. L'ordine architettonico è un insieme elementi (colonne, architravi, fregi, cornici, sottocornici, gocciolatoi e cimase). Affinché a questo insieme possa darsi il nome di "ordine " occorre che gli elementi che lo compongono si coordinino 183


tra loro secondo determinate consuetudini che ne regolano innanzitutto le proporzioni armoniche fra le parti. Le relazioni armoniche più conosciute sono quelle metriche e volumetriche ma, in questa sede, non possiamo disconoscere il valore assunto, nel conseguimento dell’armonia, dagli effetti chiaroscurali o anche dal risalto o dalla riduzione del rapporto dei vuoti rispetto ai pieni ottenuti dallo studio del colore di ogni singola parte. Sotto il profilo storico le consuetudini che caratterizzano i rapporti tra il tutto e le parti sono quelle del mondo greco, ellenistico, rinascimentale, barocco, tardo-barocco e neoclassico. ERRATE PREESISTENZE

INTERPRETAZIO NI

DELLE

Esaminiamo qui di seguito alcuni errori che si notano nella coloritura degli edifici; errori che crediamo dipendere dall’errata interpretazione del significato dell'ordine, nella quale gli operatori degli interventi di manutenzione sono caduti. a) Quando l'ordine è costruito con materiali e tecniche diverse nei suoi elementi. In alcuni casi si assiste alla “decorticazione” di parti in pietra che in origine, per tipo e qualità, dovevano essere stati sicuramente trattati con latte di calce e terre. Nel caso opposto può accadere anche che, litotipi originariamente a vista, siano stati ricoperti da uno strato colorato, più o meno spesso, b) Quando a una parte in pietra sicuramente in vista ne segue un'altra, che è la naturale continuazione delle sue linee architettoniche, ma la cui ossatura, in origine, era costituita da conci in materiale lapideo meno nobile. Non sono rari in cui i conci vengono stuccati e ricoperti da uno strato d’intonaco.

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Un dilemma nella scelta per la coloritura esterna degli edifici con ordini architettonici è costituito dalla scelta fra la monocromia o la dicromia. E’ impossibile rendere chiara la visione delle difficoltà e dei vantaggi, ora di questa, ora di quella soluzione. In generale si può affermare soltanto l’uso di un'unica tinta, quando la scelta viene effettuata correttamente, mette in evidenza i volumi dell’ordine, fortemente connessi con i volumi generali della costruzione. In ogni caso la scelta monocromatica è sempre quella più facile. Ma nel nostro caso non si tratta di scegliere la via più facile; occorre sempre dare una giustificazione sul perché si è attuata una scelta e su quali sono state le ragioni che hanno indirizzato verso una soluzione. Qui si apre il discorso della ricerca storica ed interviene l'esercizio dello spirito critico.

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SOMMARIO

Parte I ° ......................................................................................................................................................................... 2 1. L’intervento sulle fronti esterne degli edifici storici : attuali indirizzi di metodo. .................................................... 2 2. Il colore degli edifici storici e la conservazione delle superfici. ................................................................................ 9 3. L’edificio e la città storica: verso un armonioso equilibrio storico/formale ........................................................... 14 4. La manutenzione delle fronti esterne ed i temi del restauro del colore ................................................................ 18 Parte II° Il supporto del colore: l’intonaco.................................................................................................................. 30 1. Storia ed evoluzione dell’intonaco ......................................................................................................................... 30 2. Gli intonaci moderni e le costruzioni storiche: soluzioni tecniche e materiali ....................................................... 44 3. Criteri di selezione relativi alle sabbie ed agli inerti di vario genere ...................................................................... 56 4. Criteri per la preparazione delle malte per l'intonaco............................................................................................ 71 5. La manutenzione degli intonaci .............................................................................................................................. 89 5.1 Iniezioni a base di miscele leganti per intonaci parzialmente distaccati .............................................................. 95 5.2 Consolidamento di intonaci distaccati mediante l’uso di microbarre di armatura .............................................. 97 5.3 Riparazione delle lacune dell'intonaco ................................................................................................................. 99 5.4 Velature .............................................................................................................................................................. 101 Parte III° Il Colore ...................................................................................................................................................... 104 1) Lessico e definizioni.............................................................................................................................................. 104 2. Brevi cenni sulla teoria dei colori .......................................................................................................................... 106 3. Il colore nella storia dell’architettura. .................................................................................................................. 135 4. Le Terre coloranti naturali : estrazione e lavorazione .......................................................................................... 146 5. L’influenza degli inerti e dei leganti sul colore degli intonaci prima dell’avvento dei pigmenti artificiali (ossidi) 156 6. La rifinitura dell’intonaco ...................................................................................................................................... 161 7. Un’ipotesi sul colore dell’edilizia storica diffusa ........................................................................................ 182

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