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Il sogno di Camilla un romanzo di Riccardo Mainardi scritto per Camilla Fragomeno
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Il Sogno di Camilla Storia e stesura: Riccardo Mainardi Revisione: Stefano Sottini Illustrazioni: Camilla Fragomeno e Riccardo Mainardi
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Premessa Il fumo del tabacco ha roso l'aria. La stanza è un capitolo dell'inferno di Kruchenych. Ricordi? Accanto a questa finestra per la prima volta accarezzai freneticamente le tue mani. Eccoti oggi seduta, il cuore chiuso dentro una corazza. Ancora un giorno e poi mi scaccerai forse maledicendomi. Nella buia anticamera, la mano, rotta dal tremito a lungo non saprà infilarsi nella manica. Poi uscirò di corsa e lancerò il mio corpo per la strada, evitato da tutti diventerò folle, consumato dalla disperazione. Ma non è necessario tutto questo mia cara, mia dolce, diciamoci adesso addio. Il mio amore è un pesante macigno che incombe su di te ovunque tu possa fuggirmi. Lascia che io sfoghi in un ultimo grido l'amarezza degli offesi lamenti.
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Quando anche un bue è disfatto di fatica lui pure andrà a gettarsi in fredde acque in cerca di ristoro; ma altro mare non c'è per me tranne il tuo amore, né tregua c'è in amore anche nel pianto. Se un elefante stanco vorrà pace si stenderà maestoso sulla sabbia infuocata; ma altro sole non c'è per me tranne il tuo amore, benché io non sappia neppure dove sei e con chi. Se così se ne fosse tormentato dell'amore, un poeta, in soldi e gloria l'avrebbe mutato; ma altro suono non c'è che mi dia gioia fuori dal suono del tuo nome adorato. E non mi getterò giù nella tromba delle scale, non berrò il veleno. né premerò il grilletto dell'arma contro la tempia; su di me, fuori da quella del tuo sguardo, nessuna lama ha potere. Tu scorderai domani che io t'incoronavo, che con ardente amore l'anima ti bruciavo, e un carnevale effimero di frenetici giorni disperderà le pagine dei miei piccoli libri... Potranno mai le foglie secche delle mie parole trattenerti un momento per aspirare avidamente?
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Lascia almeno che un’ultima tenerezza copra l’allontanarsi dei tuoi passi. (Lilika! di Vladimir Majakovskij)
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I Lascia almeno che un’ultima tenerezza copra l’allontanarsi dei tuoi passi. (Vladimir Majakovskij)
Rimini, 10 agosto 2012, ore 20:07 Il lungomare è quasi disabitato a quest’ora della sera. Affacciarsi dalla ringhiera sulla spiaggia è sempre una buona idea, puoi vedere la vita come in un quadro futurista muoversi avanti e indietro sul bagnasciuga o vibrare impercettibilmente stesa al sole; ma non stasera. Stasera la vita è immobile e del calore del sole non resta che il ricordo in qualche sasso ancora tiepido. Contare i granelli di sabbia può sembrare una perdita di tempo. Eppure qualcuno l’ha fatto! Non solo di questa spiaggia, ma di tutte le spiagge del mondo e alla fine ha partorito un numero: 1023. Una grandezza vertiginosa, vero? E non può che aumentare se la si somma ai granelli di sabbia contenuti nei deserti. Pensa al Sahara, il deserto più grande del mondo: quanti granelli di sabbia può contenere prima di diventare spiaggia? Perché il Sahara prima o poi diventa spiaggia e non è più deserto. Ma dove? Quali sono i limiti del deserto? Dove il deserto diventa spiaggia? Dove la spiaggia diventa mare? 1023. Dove l’ho letto? Di certo in una di quelle riviste pseudoscientifiche che oziano da parecchie mensilità sul tavolino della sala d’attesa del mio dentista. Comincio a ricordare: stavo proprio aspettando il mio controllo periodico e fra le automobili e i gossip, trovai una copia di North and South 9
Magazine, una rivista neozelandese. Mi chiedo come ci fosse finita in Via Giovanni Torti. In ogni caso, c’era dell’altro. Non contenti di stimare quanti granelli di sabbia costituiscono le spiagge del Pianeta, questi scienziati (o qualunque cosa fossero) autori dell’articolo, si divertivano a sparare cifre assurde circa la vaga enumerazione degli atomi che costituiscono l’universo, la quale dovrebbe girare intorno a 1085. Universo a parte, sono dell’idea che il mare non ci lasci molta possibilità di calcolo. Ogni volta che lo guardo, così immenso e vivo, ogni volta che mi perdo fra le onde della demenziale quantità d’acqua che lo costituisce, la mente corre a un libro letto anni fa, un libro di Baricco dal titolo Oceano Mare. Fra i tanti di questo romanzo, due personaggi mi sono rimasti impressi, entrambi clienti della Locanda Almayer, il luogo in cui si svolgono i fatti. Il primo si chiama Bartleboom ed è un professore. Di lui Baricco scrive: Ha 38 anni Bartleboom, lui pensa che da qualche parte, nel mondo, incontrerà un giorno una donna che, da sempre, è la sua donna. Ogni tanto si rammarica che il destino si ostini a farlo attendere con tanta indelicata tenacia, ma col tempo ha imparato a considerare le cosa con grande serenità. Quasi ogni giorno ormai da anni, prende la penna in mano e le scrive. Non ha nomi e non ha indirizzi da mettere sulle buste: ma ha una vita da raccontare. E a chi se non a lei? Lui pensa che quando si incontreranno sarà bello posarle in grembo una scatola di mogano piena di lettere e dirle: "ti aspettavo!" Lei aprirà la scatola e lentamente quando vorrà leggerà le lettere una ad una e risalendo un chilometrico filo di inchiostro blu, si prenderà gli anni, i giorni gli istanti, che quel-
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l'uomo prima ancora di conoscerla le aveva regalato. O forse, più semplicemente, capovolgerà la scatola e attonita davanti quella buffa nevicata di lettere sorriderà dicendo a quell'uomo: "tu sei matto!"... e per sempre lo amerà! Tu mi conosci, non ti è difficile capire perché questo personaggio mi stia tanto simpatico. Ma oltre a questo c’è altro d’interessante nel Professor Bartleboom, ad esempio la sua bellissima Enciclopedia dei limiti riscontrabili in natura con un supplemento dedicato ai limiti delle umane facoltà. Quanto è lungo un fiume? Quante sono larghe le foglie di un albero? Possono arrivare fino a un metro e mezzo! E poi ci sono i tramonti. Se ci pensi, è geniale che i giorni finiscano e inizino le notti, le bellissime e tremende notti; e poi di nuovo il giorno e poi di nuovo la notte e di nuovo il giorno. E proprio lì, nel mezzo, dove la natura decide di collocare i propri limiti, esplode lo spettacolo. I tramonti. Tutto in natura, fatta eccezione per lo spazio e il tempo forse, ha una fine. Persino il mare. Tuttavia, dice Bartleboom, quest’ultimo non può essere misurato; finisce, ma nessuno sa dire con esattezza dove; pensaci, è difficile isolare l’idea, riassumere chilometri e chilometri di scogliere, rive, spiagge, in un’unica immagine, un concetto che sia la fine del mare, qualcosa che si possa scrivere in poche righe, che possa stare in un’enciclopedia, perché poi la gente, leggendola, possa capire che il mare finisce. Il mare non è misurabile. Non resta che incantarci nel guardare le onde frangersi sul bagnasciuga percorrerla e nel punto di massima estensione bagnare la sabbia, togliere granelli alla spiaggia per regalarli al mare, segnando i limiti dell’uno e dell’altra. Sono sicuro che chiunque abbia scritto che ci sono 1023 granelli di sabbia nelle spiagge del mondo a questa variabile non aveva pensato. Non aveva pensato che il
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mare è vivo e potrebbe prendersi tutte le spiagge del mondo in un attimo se volesse. Il secondo personaggio, il mio preferito nel romanzo, si chiama Plasson e fa il pittore. Ogni giorno della sua vita esce dalla Locanda Almayer e monta il suo cavalletto dirimpetto al mare. Vuole dipingere il mare. L’ho sempre immaginato qui a Rimini, in un bagno poco frequentato. Potrei vederlo avvicinarsi scalzo alla riva con uno di quei costumi interi a righe che usavano i signori di una volta, piantare il cavalletto nella sabbia e restare immobile col pennello per aria a guardare il mare al crepuscolo… e non dipingere assolutamente nulla. “È difficile.” diceva Plasson: “Il mare è difficile. È difficile capire da dove iniziare. Quando facevo ritratti, ritratti alla gente, io lo sapevo da dove iniziare, guardavo quelle facce e sapevo esattamente… quando facevo i ritratti alla gente iniziavo dagli occhi. Dimenticavo tutto il resto e iniziavo dagli occhi, li studiavo per minuti e minuti, poi li abbozzavo con la matita, quello è il segreto, perché una volta che voi avete disegnato gli occhi tutto il resto viene da sé, è come se tutti gli altri pezzi scivolassero da soli intorno a quel punto iniziale, non c’è nemmeno il bisogno di… si può quasi evitare di guardare il modello, tutto viene da sé, la bocca, la curva del collo, perfino le mani… Ma quel che è fondamentale è partire dagli occhi, capite?” Qui sta il problema di Plasson, il problema che lo fa impazzire: dove cavolo sono gli occhi del mare? Dove inizia il mare? Finché non lo capirà, continuerà a passare i suoi giorni a guardare smarrito una maledetta distesa d’acqua. Ho sempre amato questi due personaggi. E il mare. Concetti universali d’inizio, fine e continuità. Ma senza sfociare nella dialettica filosofica, pur generalizzando, mi trovo costretto a
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iniziare da qualche parte se voglio scriverti. Ed io voglio scriverti. Quindi prenderò in prestito le teorie compositive di Plasson, utili per iniziare qualsiasi opera d’arte, cercando gli occhi del mare in questa città adriatica, lontana. Plasson alla fine troverà gli occhi del mare; sarà proprio Bartleboom a dirgli dove sono, riferendo le parole di Dood, un bambino che se ne sta sempre sulla sua finestra a gambe penzoloni a guardare il mare: le navi sono gli occhi del mare. Ce n’è una poco lontano dalla linea d’orizzonte. Con gli occhiali la vedrei meglio, ma ho comunque una buona vista e si sta avvicinando alla costa, ne intuisco le luci colorate sull’acqua. Credo sia una nave da crociera e intorno il mare è… e intorno il mare… è mare. Il mare è mare, cosa c’entra con le navi? Il mare resta mare con o senza navi. La nave sparirà al di là della scogliera, oltre il campo visivo, entrerà in porto e io non la vedrò mai più. E il mare resterà mare. Che Dood si sbagliasse? D’altronde quando per Plasson arriverà l’ultimo giorno di vita, questi non sarà comunque riuscito a dipingere il mare, pur sapendo la storia delle navi. Forse il mare non si può dipingere, non si può scrivere né comporre. Forse il mare non ha occhi, è solo una distesa blu inanimata, è solo materia non passibile di poesia. Mi rifiuto di crederlo. Il mare non può essere che vita. È necessario che lo sia. Solo che ognuno ci vede occhi diversi, poiché ognuno lo guarda coi propri, differenti da quelli di chiunque altro; ognuno trova diversi punti di principio e infiniti punti di fine, estremi che possono anche coincidere, occhi che si sovrappongono abbracciando la nostra vita e il mare in una struttura circolare che ritorna sempre a se stessa. Ed è inutile girarci intorno, cercare gli occhi del mare in pittori e navi: per me gli occhi del mare sono i tuoi occhi. Qui è iniziato e qui finirà tutto.
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La spiaggia di Rimini vista dal lungomare
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Rimini, 10 agosto 2012, ore 20:12 Sono molto fortunato a trovarli stasera in spiaggia. Sono fortunato che la spiaggia sia così ben illuminata. Li porta una ragazza bionda che di andare a cena non ne ha proprio voglia. Se ne sta sdraiata a prendere il fresco; ogni tanto mi guarda ed io sento i tuoi occhi su di me. È strano. Di solito quando incrocio per strada una ragazza che ti somiglia, anche solo lontanamente, è un tuffo al cuore. Devo suggerirmi “Non è lei! Guardala bene Richi, non è lei!” e allora mi calmo. A volte sei tu e di calmarmi proprio non mi riesce. Beh, questa ragazza, che mi guardava coi tuoi occhi (i tuoi occhi che sorridono sempre anche quando sei triste) non mi metteva agitazione, ma riusciva a infondermi un senso di pace, come nei momenti in cui sei con me ormai da qualche ora ed io mi sento a mio agio a casa tua e non vorrei essere in nessun altro posto al mondo. Nella vaga luce del giorno ormai andato l’ho raggiunta sulla sabbia. -Mi ricordi tanto una ragazza che conosco, sai? Hai due occhi belli come i suoi.- le dico guardandola negli occhi del mare. -Grazie che bel complimento! Ti va di stare un po’ qui con me? Non so cosa rispondere. Non ero preparato a questo. Non rispondo. -Come ti chiami?- le chiedo. -Mi chiamo Irene. Tu? -Riccardo, piacere.- stringendole la mano. Mi hanno insegnato che non si dice “piacere”, per qualche motivo… Io lo dico sempre. Dico sempre anche “salve”, eppure anche “salve” non è accettabile, troppo colloquiale dicono. Invece è un saluto molto antico e rispettoso per me, è
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proprio una bella parola e la uso spesso per salutare. -E cosa fai stasera Riccardo? -Credo andrò in discoteca. Vado sempre in discoteca coi miei amici qui a Rimini. Dico bugie e si vede, infatti lei si mette a ridere. Rido anch’io. -E come fai a entrare in una qualsiasi discoteca di Rimini vestito così? -Così come? -Con questa tuta, che sembra più un pigiama che una tuta, e la maglietta dell’Hard Rock Cafe IBIZA… Non c’è neanche un Hard Rock Cafe a Ibiza, lo sai? Ci vuole la camicia per la discoteca. Lo sai? -Ma io mi sento comodo vestito così, mi sento a mio agio! I jeans e le camicie strette mi comprimono, mi da fastidio sentire i vestiti che premono su di me. Rigidi, duri… Mi piacciono le cose morbide come la panna sul gelato e… -Gelato? -Perché no?! Ci alziamo. Irene si riveste e i tuoi occhi mi accompagnano alla Gelateria Pellicano, sfilando fra le bandiere e i negozietti di souvenir dei portici. Lei prende yogurt e nocciola. Incredibile, proprio i gusti che piacerebbero a te! Io prendo anguria e cioccolato bianco, senza panna. -Sei innamorato di lei?- mi chiedono i tuoi occhi e qui il tuffo al cuore non me lo toglie nessuno. -Sei innamorato di lei.- prima ancora che riuscissi a rispondere ha visto la mia reazione. -E lei ti ama?- ne sono in balia. M’incalza con le sue domande, ma lo fa sorridendo e in maniera gentile, non riesco a scocciarmi. Abbasso lo sguardo, ho dimenticato come si parla. -Oh, mi dispiace… Lei non ti ama, vero?
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-Scusami, ma non voglio parlarti di lei. Non parlo mai di lei, parlarne è sintomo del fatto che lei non è qua. Tutto ciò che riconduce a questo è male e mi fa male. -Sei tu che hai iniziato dicendomi che avevo i suoi occhi. -Li hai ancora. -Perché l’hai fatto? -Cercavo gli occhi del mare. -Gli occhi del mare? -Sì, è una lunga storia, un po’ pazzesca. Mi servivano per scriverle. -Beh, li hai trovati? -Sì, adesso sì. -Buon per te. Scusa, ma devo andare. -No, aspetta. Non volevo offenderti. -Non mi hai offeso, devo andare davvero. -Scusa se ti ho disturbata. È che adoro parlare di lei. -Sei un po’ contraddittorio. -Lo so. Me lo dice spesso anche lei. -Beh, ciao, ci vediamo in giro, grazie per il gelato. -Ciao… Non ci vedremo mai più. È strano come nella nostra vita le persone entrano ed escono come dalla porta di un hotel, quelle porte girevoli che ti fanno schizzare dalla strada alla hall e viceversa. Molte le vedi schizzare periodicamente fuori e sono clienti abituali, sai che molto probabilmente torneranno; altre hai la certezza che non le rivedrai mai più e un po’ ti pesa perché a ognuna hai lasciato un pezzo di te, grande o piccolo che sia, ognuna ha un fotogramma del tuo corpo, il ricordo di una parola che hai detto o lasciato intuire. Tu questi pezzi li vorresti almeno rivedere di tanto in tanto, sapere che ci sono ancora, sentirli tuoi, anche se sono stati ormai regalati a qualcun altro, ma sono più le volte che non li rivedi e chissà che fine fanno, e tu
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non puoi farli tornare neanche volendo perché magari l’altro non vuole, non vuole più condividere quello che gli hai dato; e magari ha tutte le ragioni per non farlo. Oppure ci si saluta sempre con frasi tipo “Ci vediamo in giro!” oppure “Ci vediamo alle prossime” anche se sai che in giro non ci si può vedere perché si abita in città diverse e le prossime non ci saranno perché di solito si vive in ambienti diversi, e poi il tuo numero non ce l’ho né ce l’avrò mai. Irene è andata via. Si è presa quindici minuti della mia vita ed io gliene avrei dati volentieri cinquanta. Ha preso i miei soldi (che per me non valgono niente) e ci ha comprato un gelato; quando se n’è andata doveva ancora finirlo. Passano, ridono, fanno scivolare le loro mani sugli schienali delle panchine, sulle ringhiere, attorno ai fianchi delle ragazze, dei ragazzi. Hanno mani molto scivolose; ed io non posso vedere dentro loro. Mi sento una gritta. Hai presente una gritta? Non so come si chiami in italiano, “gritta” penso sia dialettale perché le chiama così mio nonno Luciano, comunque sono quegli animaletti che camminano sul ciglio dell’acqua sfruttandone la tensione superficiale. Anch’io come loro cammino sulla superficie e per quanto mi sforzi di andare a fondo non riesco a guardare dentro di loro; sono troppo troppo leggero. Eppure non sono mai stato una persona leggera. Ho sempre vissuto di sentimenti intensi... Anche se a pensarci bene questo non c’entra molto con l’abilità di inquadrare le persone, di vedere l’infelicità nei loro sorrisi, la lascivia nei loro sguardi più dolci. C’è gente che ci riesce ma io no, io sono troppo ingenuo, non riesco a vederle queste cose. Per questo è così facile imbrogliarmi, cavalcare le mie più assurde convinzioni, come ad esempio quella che ciascuno di noi abbia in sé del buono e che, se mi comporto bene, nessuno
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mi farà mai del male. Anche se in verità del male non me ne ha mai fatto nessuno e tutto il male che ho ricevuto e che ricevo tuttora, anche in questo preciso istante, proviene da me, soltanto da me che di male me ne sono fatto spesso. Milo Della Vedova appare in passeggiata. Avanza mani in tasca nella direzione opposta alla mia, quando lo noto capisco dal suo ghigno compiaciuto che lui mi ha già visto da tempo. Ci fermiamo a metà strada. -Ehi, chi si vede!- fa lui. -Ciao Milo, come stai?- faccio io. -Bene, bene, grazie. E come mai potrebbe stare uno così? Valanghe di ragazze ad aspettarlo nei corridoi della Facoltà di Medicina della Sapienza, un attico ai Parioli in regalo per i suoi vent’anni e una vita colma di successi davanti. Ma il punto non è neppure questo. Uno così ti direbbe che sta bene anche se fosse nella merda fino al collo, perché per uno così “Come stai?” non è una domanda interessata, ma una formalità da sbrigare. Vorrei esser stato impressionato. Vorrei che mi avesse detto che stava male, che era nei casini, che aveva il cuore spezzato, non perché abbia invidia di lui e vorrei che ci fosse qualcosa di storto nella sua vita perfetta, ma perché avrei voluto credergli una volta e magari alla prossima incontrarlo e chiedergli ancora “Come stai?” e credergli se mi avesse risposto “Bene” ed essere felice per lui. Come se si potesse essere felici per qualcun altro… Va beh, lasciamo stare. -Mi fa piacere. Cosa ci fai qua? -Passo l’estate in vacanza fra una vacanza e l’altra. Roma è un incubo in questi periodi, c’è un’afa… Una vena di autoironia sa come farti sentire a tuo agio di fronte alla sua smisurata ricchezza. -…e allora via lungo la Flaminia fino a Rimini!
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-Bravo. Avrai una casa anche qui immagino. -Eh no! Mica sono fatto di soldi! Sto al Grand Hotel. Sai quello di Fellini? Lo conosci? Quello dove hanno girato Amarcord. -Sì, sì. Lo conosco. In realtà credo sia fatto di soldi. Potrebbe rappresentare una bella sfida nel mio intento di guardare dentro le persone. Perché, siamo onesti, chi è già interessante fuori non ha alcun bisogno di mostrare il proprio interiore. Milo è già interessante all’esterno e la maggior parte delle persone (io per primo) si accontenta di questo. Milo è simpatico, è bello e sta al Grand Hotel e ha un attico ai Parioli comprato dal papà deputato nelle liste PDL o FLI, ora non ricordo bene, non dedico molto tempo alla politica e forse dovrei cominciare a preoccuparmene prima che qualcuno lo faccia al posto mio. Oltre a questo, Milo è in gamba nello studio, è serio, veste bene e sa divertirsi e divertire. A che cazzo gli serve far vedere le profondità del proprio animo, le sue debolezze, le sue incertezze? Perché mai dovrebbe mostrarsi vulnerabile? Potrebbe rappresentare una sfida al di sopra delle mie capacità, sbirciargli dentro intendo. Non riesco a farlo con la gente comune, figuriamoci col principe di Roma. -Ti va di fare due chiacchiere?- gli chiedo. -Ma certo Richi; sediamoci pure sulla panchina. Ci sediamo sulla panchina e guardiamo il mare. Poi torniamo a guardarci l’un l’altro. -Tu come stai?- mi chiede Milo. -Non bene. Mi manca sentirmi felice, sai? Non mi sento felice da così tanto tempo che quasi mi pare di non esserlo mai stato. -Davvero? E lo sei mai effettivamente stato? -Beh, felice felice magari no, mai. Chi può dire di esserlo
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stato? Ma ricordo perfettamente di essermi sentito felice, così felice da credere di esserlo effettivamente, così felice da non essere costretto a fare discorsi come questo, né con te, né con me stesso, né con nessun altro. -Eh sì, è una bella sensazione quella. -Puoi giurarci che lo è, Milo. -E cosa ti rende così infelice adesso? -Immagino che sia l’assenza di felicità… -Beh, fino a qui potevo arrivarci anch’io. -…ciò che mi rende felice è venuto a mancare. -Sì, ma cosa ti rende felice? -Camilla. -E nient’altro? Questo sarebbe il problema? -Sì, ma non mi sembra poco. Non riesco a pensare che a lei e la felicità delle cose fuori di lei è nulla se relazionata a quella che potrebbe darmi un solo minuto in sua presenza. Se avessi un milione di vite le userei tutte per stare insieme a lei, ma di vita ne ho una sola e non riesco ad averla accanto neppure in questa. Questo è il problema, e non mi sembra un problema da poco. -Non è necessario fare i poeti tristi, Richi. Bastava che mi dicessi che ti manca e che soffri la sua assenza. Milo per qualche motivo odia i poeti tristi; con lui devi essere diretto nel parlare altrimenti ti fa notare che non lo sei stato chiamandoti “poeta triste” con una nota di disgusto nella voce. Io non amo i poeti tristi così tanto da odiare Milo per questo, vorrei solo capire che gli hanno fatto. -Non volevo fare il poeta triste, è quello che sento. Volevo spiegarti. -Beh, e cosa pensi di fare per uscirne? -Io non ne ho idea. Vorrei semplicemente tornare a sentirmi felice. Vorrei avere sue notizie in qualche modo. Vorrei che quantomeno mi scrivesse un messaggio o mi chiamasse.
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Insomma, io non ho niente in contrario se c’è un po’ da soffrire, ma adesso sta diventando troppo! Vorrei che mi dicesse che non l’ho persa e che… Ecco, vorrei barattare il mio mal di schiena con lei! Questa sarebbe la ricetta perfetta per far tornare il buonumore! -Hai male alla schiena? -Sì, da tre anni di fila ormai; e ogni tanto ai dolori si aggiungono dolori. Ad esempio da una settimana mi fa male qui mentre respiro. Faccio vedere a Milo il punto dove mi fa male. -Qui sotto la scapola? -Sì. -Potrebbe essere anche un’infiammazione polmonare. Quante ne fumi al giorno. -Quasi un pacchetto. -Dovresti diminuire. -No, ti prego non puoi levarmi le sigarette. Fumare e scrivere sono le uniche cose che mi consolano in questo momento… -Sì, ma è per la tua salute. -…mi ci mancherebbe smettere di fumare, un bell’esaurimento nervoso non me lo leverebbe nessuno. In realtà la mia condizione è molto più grigia di come la presento a Milo, ma non voglio passare per troppo patetico, non è mia intenzione fargli sapere di come mi senta venir meno giorno dopo giorno, di come mi stia spegnendo. -Stai scrivendo? -Sì, certo. -Cosa scrivi? -Questo. -Cosa? -Questo, quello che sta succedendo adesso. Scrivo di me, di te e di lei. Soprattutto di lei. -E a chi scrivi?
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-A lei. -Come se fossero lettere? -Sono lettere, per l'appunto. -Posso leggere? -Certo. Passo a Milo il mio manoscritto e si mette a leggere a voce bassa. Penso a te, a quando studi a voce alta e pretendi il silenzio a discapito della mia già precaria concentrazione sui libri. Sono queste le cose che ti aiutano a capire quando sei innamorato di qualcuno: ti ricordi le sciocchezze, i particolari più insignificanti e quando li porti alla memoria senti dentro una stretta dolce… o una morsa terribile, dipende dal contesto nel quale li rievochi. In ogni caso, i grandi gesti non valgono, mi avrebbero fatto innamorare di chiunque. -Quindi gli occhi di Camilla sarebbero gli occhi del mare?- mi chiede Milo. -Sì, per me sì. -Umm… Non è granché. E poi basta parlare degli occhi dell’amata! Non ti sembra un po’ inflazionato come argomento? -Ho avuto anch’io i miei dubbi. Ma dimmi: tu li ricordi i suoi occhi? -Beh a dire la verità no. Sono particolarmente belli? -Ti conviene non specchiartici mai, Milo, ti vedresti bruttissimo. Non sono belli: sono ciò che di più bello ha il mondo. Non posso non parlare dei suoi occhi se voglio scrivere di lei. Forse in passato hanno scambiato occhi normali per incantevoli, resi tali dall’amore; ma gli occhi di Camilla non sono normali. Non hanno neppure bisogno di essere amati per incantare. Forse non li ricordi bene… -Beh, ci siamo incontrati a Roma solo quella sera di settembre, in Piazza Navona. È difficile ricordarsi di una persona che si è visto una volta soltanto.
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-Quella sera a Roma, Milo… Tu quella sera mi hai visto nel periodo più felice della mia vita. Hai avuto questo privilegio. E se paragono quei momenti a questi, se penso a quanto era vicina a me in quei giorni e lo confronto col presente… mi viene da morire, Milo. Non riesco più a fingere. Mi viene da morire e Milo lo vede che non sto facendo la scena. E dire che volevo guardargli dentro! Alla fine sarà lui che vedrà dentro me. Bella forza, la mia pelle è così sottile… -Mi viene da morire, mi gira la testa, non riesco più a ragionare. -Dai alzati, facciamo due passi.- si risolve Milo restituendomi il manoscritto. Il lungomare si perde nella vaga e lunghissima linea del litorale romagnolo e noi ne percorriamo un tratto infinitesimale, se paragonato alle migliaia di chilometri di costa della Penisola. Io mi sento piccolo piccolo. -Sono innamorato di lei e questo a volte mi fa male. -Scusami ma non ti capisco. L’amore dovrebbe essere una cosa bella che ti fa sentire bene. Ma come si fa a morire dietro una ragazza? Ma che avrà di tanto speciale? -Oh, niente in particolare, credimi, è una ragazza semplice. Non fraintendermi: ha tante qualità rarissime che non ho ancora trovato nelle altre, ma… -Ad esempio? -Non è questo il punto. -Voglio sapere cosa ti piace di lei. -Perché? -Per curiosità. -Beh una delle cose che mi piace di lei è che ha modi e abitudini molto simili alle mie. È una di quelle cose che mi rassicura, mi fa sentire a casa ovunque siamo. -Questa non l’ho proprio capita.
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-Mi spiego meglio: hai presente quando sei con una persona e ti senti a disagio perché, che so, si mette a letto con le calze o usa espressioni stereotipate o antiche o mette la busta di tè nel pentolino e non nella tazza? -Non noto queste cose solitamente. -Beh, io le noto. Io faccio caso a ogni piccolo dettaglio, anche inconsciamente alle volte, e questo determina il sentirmi a mio agio o meno. Lei mi fa sentire a mio agio, ogni suo piccolo movimento ha un che di familiare. Questa è una delle tante cose che mi piacciono di lei. -Che strano… -Poi è sincera, non mi racconterebbe mai una bugia ed io mi fido di lei, so che tutto quello che mi dice è vero e mi ha insegnato quanto sia importante dire sempre la verità. Mi ha insegnato quanto sia importante dire la verità in un periodo della mia vita che di verità ne avevo proprio bisogno. -Beh, mi stavi dicendo…? -Stavo dicendo che non è lei il problema. Il problema sono io, la mia limitatezza sentimentale, la mia difficoltà ad affezionarmi agli altri e focalizzarmi sempre su una e una sola persona. Per questo mi è impossibile divincolarmi dal suo pensiero, provare a disinnamorarmene. Io credo che sia preferibile soffrire per amore piuttosto che sprofondare nell’apatia. Per uno come me, uno che non vive d’altro fuori dei suoi sentimenti, l’apatia è il primo dei mali, è negazione della vita. Capisci? Milo non risponde. Credo abbia capito, d’altronde non c’è nulla da capire. Immagino stia provando a immedesimarsi in me, a capire quale parte di me non funziona e come diavolo abbia fatto a cacciarmi in una situazione del genere. Glielo direi pure, ma non lo so nemmeno io. -Come puoi essere tanto sicuro che sarebbe così difficile distaccartene? Ci hai mai provato almeno?
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-Ho provato a dire addio a Camilla più di una volta, ad allontanarla per potermi avvicinare a qualcun altro, qualcuno che forse avrebbe potuto rendermi un poco di serenità. Ma ogni volta che lei se ne va si porta via il mio amore, il mio amore più vero e profondo che è legato a lei ed io non sono più niente senza il mio amore; ho sempre dovuto richiamarla a me. Dopo l’ultima volta mi sono promesso di smetterla di dirle addio e fare in modo di tenermela vicino il più possibile, fino al giorno in cui sarà lei ad andarsene portandosi via la parte più bella di me; perché lei è la mia voglia di vivere, è lei che mi fa venir voglia di scrivere canzoni, di uscire di casa la mattina presto, di studiare, di lavorare persino! -Ma lei che dice riguardo a tutto questo? -In parte non lo sa, e al resto spero non ci pensi. Preferirei non ci pensasse, non vorrei mai le venissero sensi di colpa. Lei è sempre stata perfetta, si è sempre comportata in maniera perfetta, è nel suo stile d’altronde. E credo sia inutile dire che non ha colpa di nulla. A questo punto ci siamo arrivati a causa degli eventi, niente di più niente di meno. Lei è una ragazza molto sensibile, non vorrei che si colpevolizzasse gratuitamente, non potrei perdonarmelo. Poi a che servirebbe dirglielo? Per farle pietà? Non vorrei mai che spendesse il suo tempo con me per pena, ma solo per piacere. -Mi sembra un ragionamento giusto. Passano alcuni istanti di silenzio. Qui si risolve tutto, qui si risolverà tutto, con il silenzio. È una vecchia storia che si ripete dall’inizio dei tempi, è la fine di ogni cosa. Alla fine il silenzio vince sempre, vincerà sempre. Puoi romperlo ma si ricomporrà, non vale farlo in mille pezzi, tornerà. Lo rompo io: -Come fai tu con le ragazze, Milo? -Sono sempre impegnato su più fronti. È l’unico modo per non farti schiacciare.
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-L’amore non è una guerra. -Non ho mai parlato d’amore. Su questo siamo d’accordo. -Comunque- riprende Milo: -insisto col dire che è roba vecchia. Nessuno parla più di una sola donna dal 1500; la letteratura contemporanea è tutta fatta di donnaioli bugiardi, dolci canaglie, sentimenti contrapposti. Questo piace alla gente! Scusa, ma non lo leggi Bukowski? Bukowski è nato nel 1920 ed è morto il 9 marzo 1994. Milo non è aggiornato sull’attuale mercato letterario se considera le tematiche di Bukowski recenti e competitive col resto della produzione letteraria contemporanea. C’è da dire che è medico, non è il suo campo, se lo può permettere. C’è da dire che, a pensarci, Bukowski ha influenzato non poco la letteratura contemporanea. In negativo, ovviamente: se mi conosci e conosci Bukowski sai a cosa mi riferisco. C’è da dire che Milo se legge Bukowski è di sicuro un radical chic del cazzo. Nei quartieri alti romani non hai molta scelta: o diventi fascista come tuo padre o fai il “dissidente” e diventi radical chic. Per la cronaca io preferisco i fascisti, non tanto perché condivida qualche loro ideale, semplicemente li trovo pittoreschi, buffi a loro modo; mi divertono. Tuttavia non biasimo nessuno per le proprie scelte politiche e apprezzo quando non criticano le mie (obbiettivamente pessime). In ogni caso Milo ha ragione sul fatto che parlare di una ragazza è roba vecchia. Ma forse nella sua mentalità capitalista non potrebbe mai immaginare che il mio fine non è mai stato quello di vendere copie. Non credo di valere molto come romanziere o pensatore, non sarà questo il mio lavoro. Se c’è una ragione per cui scrivo va ricercata piuttosto nel discreto dare sfogo a questo stato
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d’animo che spegne ogni gioia, assorbe i miei sensi e sgombera il mio cuore da sentimenti estranei alla tristezza. È come una nuvola nera d’inchiostro perennemente appesa nel mio cielo altrimenti sereno. Rabbuia il mio mondo ed io non so dissiparla, posso solo decidere quando farne piovere di tanto in tanto parole su questi fogli di carta, per rendere il mio mondo meno grigio, far riacquistare all’ambiente un po’ di colore. E questa nuvola ha un nome, una volta mi hanno detto come si chiama, ma non lo scriverò, non merita considerazione perché è maledetta e sudicia e non mi permette di vivere come vorrei. In pratica qui si esaurisce la faccenda. Semplice no? Ah, dimenticavo, poi ci sei tu, il sole. Prima di questa eclissi, dissipavi ogni nuvola nera d’inchiostro, lasciando solo quelle nuvolette bianche qua e là nel cielo azzurro che mi piacciono tanto. Non mi piace il cielo terso, è un enorme e stupido telone blu che qualcuno ha messo lì per prendermi in giro, per farmi credere che sarà sempre così; e poi non ci sono punti di riferimento, l’unica cosa blu e senza nuvole in cui mi piace perdermi sono i tuoi occhi e niente deve provare a imitarli. Ritornando al discorso con Milo: -Come faccio a parlare di ragazze? Di ragazze diverse?- gli chiedo: -Io non amo che lei. -Vuoi dirmi che non sei mai stato innamorato di un’altra ragazza? -Le ragazze di cui sono stato innamorato non si contano che sulle dita di mezza mano. Ma io ti giuro che, vuoi perché è l’ultimo, vuoi perché io sono un po’ più grande, a portare alla mente gli altri amori tutti mi sembrano nulla in confronto a questo. -I sentimenti si evolvono… -Già. Ma ogni evoluzione è dettata da una causa. Io per la
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prima volta sono inciampato in un amore che mi ha reso migliore. È questo un altro dei motivi che mi straziano, pensare che nel tempo sprecato lontano da lei io non ricevo alcun miglioramento del mio essere. Prescindendo dal mio amore per lei, Camilla è oggettivamente una persona unica e speciale e stare insieme a lei, sentirla parlare, osservarla nei suoi atteggiamenti, nel suo porsi, nel suo comportamento più ignorabile, non può che recarti ricchezza. Questo è tutto un altro discorso, un discorso a parte, c’entra poco o niente col mio amore e col piacere della sua compagnia. -Sarà pure perfetta come dici, ma a me pare che tu sia qui a morirle dietro e di lei non c’è traccia. E credo lei sappia la pena che ti porti dietro a non vivere di lei. -Cosa ci posso fare se lei non vuole più frequentarmi, se non ne ha più voglia? Non è colpa di nessuno, nessuno deve essere forzato. -Sarà anche perfetta, ma non è perfetta per te. Lo sarà per qualcun altro, qualcuno di cui s’innamorerà, ma non per te, Richi. Mi dispiace dirtelo, ma questo è l’unico modo per fartene uscire. Questa strada porta a un vicolo cieco e tu ne hai già visto il fondo ma non ti vuoi rassegnare a… -Sai cosa ti dico? Basta così, non ne voglio più parlare. Me ne vado. -Non te la prendere. Vorrei solo ricordarti che esiste una realtà e tu mi pare che stenti a viverci dentro. -Esiste una realtà? E chi l’ha deciso? No, non sono d’accordo. Esiste la tua realtà, esiste la mia realtà e quella del passante coi rollerblade. E non è che la tua realtà mi stia stretta, non è che stento a viverci dentro. Semplicemente mi disgusta. -Che tu lo voglia o no dovrai cominciare a viverci dentro un giorno per l’altro. Dovrai cominciare a guardarti intorno e cercare qualcun altro. Ma non t’interessano le altre ragazze? -Credo che il vero amore non dovrebbe mai essere il risultato
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di un compromesso. Io amo Camilla e finché esisterà nessun’altra mi potrà mai interessare. Il resto per me non esiste, il resto è un insieme indefinito di volti, sguardi, cosce e labbra, persone, ragazze alle quali non posso regalare il mio amore per il semplice fatto che non possiedo la facoltà di controllarlo. Il mio amore è tenuto in ostaggio, lo ucciderebbero se provassi a riscattarlo. -Chi lo tiene in ostaggio? -Davvero non lo so. Non mi conosco a fondo, ho paura di conoscermi a fondo, troverei cose orribili, lo so, me lo sento. Terminata quest’ultima frase mi faccio buio, ma buio come non mi hai mai visto e tu mi hai visto buissimo! Milo sta solo cercando di fare ciò che ritiene più giusto per me e forse non ha tutti i torti. Diciamo pure che credo abbia ragione. Credo anch’io che la realtà sia una sola, ho solo qualche problema ad ammetterlo. Ma in fondo che colpa ne ho se è così terribile? -Dai non fare così, Richi. Mi dispiace, non ne parliamo più, non ci pensiamo più. Ehi, perché stasera non vieni al Pineta? Siamo io, l’Agata, Fede… -Milo, ma secondo te mi fanno entrare al Pineta? A me? Vestito così poi? -È per via della camicia? Vai a casa a cambiarti! -Lo sai che abito in provincia; mi ci vorranno più di due ore per andare e tornare. -Passiamo da me! Te ne presto una io! -Milo, sei molto gentile ma non è per via della camicia. Hai presente che selezione c’è all’ingresso del Pineta? Quelli ti prendono per le caviglie e ti ribaltano per vedere quanti soldi hai in tasca prima di farti entrare. Tu lo sai che io non sono ricco… -Ma sei con me e gli altri. Vedrai che entriamo tutti! -Milo, davvero, non insistere. Non me la sento, non sono in vena. Non mi sentirei a mio agio stasera.
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Io odio le camicie, poi. Posso dire di avergli guardato dentro restando piacevolmente sorpreso. Milo è a posto, non ci conosciamo bene ma è una persona di cuore che sa come comportarsi con gli amici e si comporta bene. Che se ne fa del comportarsi bene? Ma che gli frega? A lui sarà sempre perdonato tutto, nessuno sarà mai severo nel giudicarlo e continueranno ad amarlo sempre. Perché mai dovrebbe sforzarsi di essere buono? Ha già qualità sufficienti per sopravvivere più che decorosamente. Eppure lo fa, credo senza secondi fini, senza malizie o interessi. È una persona buona, esistono ancora, io ci ho sempre creduto in fondo. Ci salutiamo. Cavolo sembra davvero dispiaciuto, forse adesso toccava a me comportarmi bene e non rifiutare l’invito. Ma no dai, non esageriamo, sicuramente a lui non cambia quasi nulla che io ci sia o meno, adesso sto viaggiando con la fantasia. Non accettando l’invito mi sono autocondannato a essere triste e solo stasera. Cazzi miei a un certo punto, dovevo pensarci prima. In fondo se non me lo diceva il cuore ho fatto la scelta giusta. Ho una teoria in merito: ognuno di noi ce la mette tutta per essere felice. Vuol dire che qualunque strada decidiamo di percorrere, ogni volta che scegliamo una cosa invece di un’altra, lo facciamo perché riteniamo che ci possa condurre a essere più felici, nell’immediato o nel lungo corso. Se io sono qui e sto facendo questo, lo devo a un calcolo più o meno conscio che, secondo chissà quale logica, mi porterebbe al massimo livello di felicità cui posso aspirare. Se questo è il massimo, non voglio pensare come potrei stare se fossi meno felice di così. Solo iniziare a immaginarlo mi
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sconvolge. Anche tu ce la stai mettendo tutta per essere felice ed i tuoi calcoli non prevedono la mia presenza, almeno in questo momento. Che c’è di male? Mica siamo noi a decidere cosa ci rende felici e cosa no. Come posso colpevolizzarti se hai deciso di non vedermi per un po’? Come posso dire di amarti e insieme volerti accanto se averti accanto facesse diminuire i tuoi livelli di felicità? Io spero che tu sia felice in questo momento, lo spero a tal punto da volerlo credere, ma quello che so è che, ovunque tu sia, con chiunque tu sia, partendo dal sola con te stessa per arrivare al con tutto il resto del mondo escluso me, ebbene tu sei di certo più felice di quanto non saresti se fossi qui. Altrimenti saresti qui. Questa è la freddissima logica che mi aiuta a non impazzire, spero che il mio cervello funzioni sempre così bene fino alla fine dei miei giorni. Ho paura di diventare matto a volte io. Tuttavia, questa è solo una piccola parte di me, un’isola sperduta in un oceano d’irrazionalità e quindi a poco mi serve adesso pensare al come e al perché non ci sei. Tu non ci sei e questo, come ho già detto a Milo, fa male. Io non ho più morbide budella dentro, ma ruote dentate, arrugginite e mi meraviglia che non mi sia ancora messo a piangere e forse perché non ho ancora riflettuto su ciò che mi fa davvero male. Perché questo è niente, credimi. Provo a non pensarci, devo assolutamente trovare qualcosa che mi distragga e quindi faccio saettare lo sguardo per l’ambiente d’intorno. Sul lungomare. Sono su ‘sta maledetta passeggiata da ore, devo andarmene. C’è un pagliaccio inquietante con una nuvola di palloncini colorati in mano. Forse potrei comprarne un paio, anzi no, tutti, mi metterebbero allegria. Sì, mi sembra una buona idea; li legherò alla vespa e andrò in giro e tutti diranno “Guarda quel ragazzo coi palloncini! Chissà a chi li sta portando…
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Sicuramente a una ragazza. Che cosa dolce, che giovani fortunati.” Sì, li comprerò.
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II La luna è l’unico astro che nasce dietro le montagne e tramonta dentro di noi. (Tonino Guerra)
Rimini, 10 agosto 2012, ore 21:23 -Quanto vuoi per tutti i palloncini? -Li vuoi tutti? -Sì tutti quanti. -Beh, io in realtà sono qui per regalarli. Sai, c’è la Notte Rosa stanotte e ognuno deve avere un palloncino. -Allora non dovrebbero essere palloncini rosa? -In teoria sì, ma per sbaglio gli organizzatori hanno comprato un carico di palloncini multicolore. Diamo via per primi questi perché sappiamo che saranno i primi a scoppiare. -Ve ne libero io se volete. Mi servono proprio dei palloncini. -Posso chiederti a cosa ti servono? -Guarda è una storia lunga e un po’ pazzesca. -Mi piace quel genere di storie. -Beh, se proprio lo vuoi sapere, devo regalarli a una ragazza… per farmi perdonare… per essermi dimenticato del suo compleanno. -Oh… E come si chiama? -La ragazza? -Sì. -Camilla. Io le voglio molto bene, ma mi dimentico sempre del suo compleanno e non le regalo mai nulla. Non lo faccio per cattiveria, è che ho la mente super occupata dal lavoro… Non ho mai raccontato tante cazzate per un cazzo di mazzo di palloncini. 34
-Beh, allora suppongo che per questa volta si possa fare uno strappo alla regola. Tieni i palloncini e va’ da lei. -Grazie Signor Pagliaccio! Non mi dimenticherò di questo gesto. -Figurati. Vedi di non dimenticarti più neppure del compleanno di Camilla. -Sono sicuro che non me ne scorderò più. Ma cosa succede? Il mondo si è popolato d’incanto di brave persone dal cuore d’oro? Mi viene da pensare che forse qui in mezzo il falso e manipolatore sono io. Va beh, che sarà mai! Per un mazzo di palloncini colorati! Mi faccio troppi problemi. Li lego alla sella della Vespa, metto in moto e parto. Dove sto andando? Non ne ho idea, ma un pensiero quasi inconscio mi dice di lasciare Rimini. È tardi ormai e qui non c’è più niente per me, questa notte rivierasca mi ha escluso. Ovunque andrò, sarà di certo un luogo più vicino a casa, vicino al confine marchigiano. Passando per Parco Fellini vengo abbagliato dal Grand Hotel di Milo, bianco e silenzioso nella sera che volge alla notte. Poco lontano, il Viale Principe Amedeo appare più oscuro del solito, creando un forte contrasto col cielo d’agosto, illuminato dai raggi cosmici anche diverse ore dopo il crepuscolo; ma l’aria è limpida e sul marciapiede vedo sfilare le coppie abbracciate o disciolte o per mano, e a guardarli felici mi sembra di intravedere in me quella felicità che invaghisce i cuori d’estate, come per empatia. Andranno con le loro belle macchine nuove in discoteca stasera. Prenderanno da bere con gli amici, balleranno vicini, stretti stretti e si sussurreranno “ti amo” nelle orecchie e nonostante la musica altissima si capiranno lo stesso perché in certe situazioni non c’è altro da dire. Magari neanche sanno della loro fortuna e danno la loro
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felicità per qualcosa di scontato; magari la loro felicità è già diventata noia e non immaginano neanche, né vogliono immaginare cosa sia vivere senza i loro agi sentimentali, le loro sicurezze, l’essere amati. Non immaginano cosa sia l’infelicità, mentre gli infelici sperano in continuazione di abbandonare il loro senso d’asfissiante assenza e colmare il vuoto affettivo che si portano appresso. E forse, a furia di non conoscere l’infelicità, finiscono col dirsi infelici pur non essendolo davvero. Forse neppure io lo sono, d’altronde sono argomenti talmente vaghi e indefiniti… non possono che sfociare nel relativismo. Leopardi nella Storia del Genere Umano, scriveva che gli uomini oppressi dai morbi e dalle calamità sogliono anche, lasciando luogo alle speranze migliori, allacciare gli animi alla vita, anziché lasciarsi andare alla rassegnazione. In questo modo gli infelici hanno ferma opinione che sarebbero felicissimi quando si riavessero dei propri mali; e ciò, com’è la natura dell’uomo, non mancano mai di sperare che debba loro succedere in qualche modo. Questo è il punto, la chiave di volta, tutto ciò che ruota intorno alla condizione dei tormentati: il sentimento della speranza. A questo punto: è conveniente essere forti e coraggiosi e portare un fardello così pesante e doloroso, sperando che un giorno (e quel giorno potrebbe non arrivare mai) si venga ripagati di tutte le fatiche ed i malesseri, sapendo pure che proprio queste fatiche e questi malesseri renderebbero la nostra felicità mille volte più intensa di una raggiunta senza alcuno sforzo? Oppure è meglio arrendersi, smettere di vivere e di lottare facendosi sopraffare da altre forze, dalla rassegnazione, dallo scoraggiamento? Cos’ho sempre scelto io lo sa chiunque e non credo arriverà
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mai giorno in cui me ne pentirò. In ogni caso, vorrei dirti che non sto parlando né di te, né di me nello specifico, ma della condizione umana in generale, non solo applicata all’amore, ma a ogni nostro desiderio apparentemente irraggiungibile che riteniamo utile a far di noi stessi persone più felici. Non vale per me e per te, vale per tutti. Lo so che anche gli altri lo sentono. Certo, stasera invidio le coppie che passeggiano felici sui marciapiedi del viale, che non sanno della loro felicità. Ma anch’io un tempo non lontano mi sono sentito felice quanto loro, anch’io ho provato qualcosa del genere, nei giorni passati con te ad esempio, e anche se adesso la mia condizione mi porta a vedere tutto così opaco, il mio futuro compreso, non posso non pensare che un giorno tornerò a sentirmi felice. Anche se ora non so più chi mi sta suggerendo questo pensiero, se la razionalità o una speranza folle. Una cosa è certa: adesso, qui, loro sono più felici di me ed io nutro una certa invidia benevola; benevola perché non vorrei l’infelicità di nessuno, solo non vorrei esserlo io. Un’altra cosa è certa: adesso, qui, io sono meno felice di loro; adesso, qui io sono infelice e non c’è nulla di peggio di un infelice con abbastanza fantasia e memoria da poter immaginare e ricordare la felicità; e da oggi l’estate non è una stagione, ma uno stato d’animo. Uno stato d’animo che non mi appartiene e che vorrei. Mi allontano dalla città in festa guadagnando la Via Emilia. Finalmente campagna. Quando passo per questa strada e il sole è ancora nel cielo, moscerini e altri insetti vari mi rimbalzano sulle palpebre ed io non riesco a tenere gli occhi aperti alle volte. Però adesso d’insetti nell’aria non ce n’è, forse stanno dormendo… o sono
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morti, non ricordo più se vivono più di un giorno. I filari di vite, campi di rabarbaro ad alternarsi ai campi di girasoli e le sporadiche industrie casearie romagnole sono cornice a questo mio esitare nel ritorno a casa. Andare in Vespa ogni volta migliora il mio umore. Sfioro i 90 km/h in questi rettilinei all’estremo sud padano, di più non va e di più non andrei, data l’instabilità del mezzo. Ma mi piace la velocità, il vento addosso, e meno male che mi sono portato il maglione pesante, nonostante il caldo del giorno lontano dalla costa fa sempre un freddo cane di notte, anche d’estate. I palloncini svolazzano impazziti, posso vederli dallo specchietto retrovisore. Poco più in qua, il pezzo di sella proprio dietro di me è vuoto. Dopo di me, sei stata su questa vespa più d’ogni altra persona al mondo, a oggi. Più di ogni altra ragazza, più di chiunque altro amico o parente, sempre qui dietro, tutti i giorni a cantare a squarciagola e steccare note perché “in Vespa si può fare”, usando parole tue. Mi manchi. Ma ancor di più mi sconvolge non sapere nulla di te, non sapere come stai, se ritornerai… In questo momento non riesco nemmeno a ricordare quand’è stata l’ultima volta che ti ho vista, cosa abbiamo fatto. Eppure non è passato molto tempo, sarà stato poco più di un mese fa. Mi sembra una vita, proprio non ricordo. Ricordo distintamente cose successe negli anni passati, i momenti felici, i momenti più che felici, quando non avevo bisogno di scrivere, non avevo bisogno di parlare di te, non avevo quasi più bisogno di pensare e semplicemente vivevo aspettando il giorno dopo che mi scrivessi. E tu puntualmente mi scrivevi, tutti i giorni. Non mi sarei mai stancato di te, non mi sono ancora stancato adesso, non mi stancherò mai a prescindere dai tuoi impegni e dalle tue priorità… Ecco, come finisce sempre! Vorrei parlare della campagna,
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della mia Vespa e poi un particolare mi richiama alla mente te. Anche se adesso sono solo le cose belle che porto a memoria. Una volta, leggendo Marin Faliero doge di Venezia, una sconosciuta tragedia byroniana da intellettuali universitari che non avrei mai letto altrimenti, trovai un bel verso che faceva: Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore. Posso capire che per chiunque altro sia così, ma in questo mi sento una persona abbastanza speciale, perché nel mio caso accade invece il contrario. Non mi cimento nel rivangare dolori antichi; ne ho sempre di nuovi e in confronto a questi, quelli antichi sono barzellette. Invece il ricordo della felicità, grazie alla mia fervida immaginazione, può diventare felicità nuova. Sono molto bravo a immaginare le cose che ricordo fino a riuscire a straniarmi da questa realtà presente per rivivere realtà passate e felici. Questa pratica, poi, trova una valida alleata nella lettura, nella scrittura e nell’arte in generale, nell’alienamento artistico che ci fa volare con la fantasia… -Vroooom!- fa il camion. -Ma dove cazzo guardi, coglione?!- fa il camionista. Dio, che paura! Per poco non faccio un frontale con una specie di tir. Mi sono ritrovato nella corsia del sorpasso senza neppure accorgermene! È pericoloso vivere altre realtà quando in questa stai guidando, devo tenerlo a mente. Però questo ragionamento lo voglio finire. …dicevo che l’arte è utile a sentire meno i nostri dolori e addirittura a rievocare quelle felicità passate. Ovviamente non è che lasciamo questa dimensione per approdare a un’altra, io non vedo i tuoi occhi quando scrivo di te; li ricordo (come potrei dimenticarli?) eppure non riesco a vederli di fronte a me come in una fotografia. Le parole sono solo parole, non possono nulla contro l’immagine.
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Fortunatamente c’è un altro modo per rievocare quei sentimenti, quelle situazioni, quelle immagini a noi care, custodite gelosamente nei nostri ricordi, nel nostro subconscio, e addirittura inventarne di nuove se si ha un po’ di fantasia. È il massimo livello di straniamento dalla realtà che si può avere in vita. Non sto parlando di droga o di chissà quale stato di allucinazione, ma di qualcosa ben più potente e antico di tutto ciò: i nostri sogni. Tu sai quanto io ami sognare, tanto che un giorno mi regalasti un libro sui sogni, anzi, il libro sui sogni. Inutile che ne ricordi il titolo, sappiamo di che libro sto parlando. Non era il mio compleanno, non era Natale, avevi solo voglia di farmi un regalo. E forse neppure immaginavi allora quanto mi rendesse felice sapere che tu tenessi a me, che tu mi avessi pensato in quel momento e che avessi deciso di comprarmi dei libri. Beh, sperando di non perdermi ancora in divagazioni smielate, stavo dicendo che i sogni, secondo il dottor Freud (e Cenerentola conferma) sono lo specchio dei nostri desideri. Non era difficile capirlo, ma anche nelle ovvietà c’è spazio alle trattazioni. E che spazio! Solo la copia dell’Interpretazione dei Sogni che mi hai regalato tu conta quasi seicento pagine! Ma fuori dalla scienza psicologica, approdando su isole a me più congeniali, posso dire che i sogni non sono solo le immagini dei nostri desideri, ma ci aiutano anche a sopportare i nostri dolori agendo da valvole di sfogo. Io non so come starei adesso se non t’incontrassi così spesso nei miei sogni, se non mi concedessi quelle felicità illusorie, utili a stemperare i tormenti del giorno. Probabilmente avrei dovuto abbandonare il tuo pensiero e il mio amore perché sono pur sempre un essere umano e, benché siano alti, ho i miei limiti di sopportazione del dolore. Oppure non avrei
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ancora raggiunto il punto di rottura del sentimento e adesso starei peggio, molto peggio. Se tutto questo non è accaduto è grazie ai miei sogni e in parte grazie a te, all’avermi dimostrato in varie occasioni quanto ci tenessi a me, prima di lasciarmi in questi momenti bui. Come vorrei che fossi qui adesso… Non in un sogno, ma tu, veramente tu. Un’ora soltanto mi basterebbe per tutto il resto dell’estate. Ma ora, qui, nessun profumo sa di te. Non ci sei più e chi lo sa se tornerai… Dove sono? Oh cristo, sono già allo svincolo per Torriana? Devo aver fantasticato molto lentamente o viaggiato a una velocità folle. E sono già passato pure per Sant’Arcangelo di Romagna e per il suo bellissimo centro storico! Che peccato non avertelo potuto descrivere, è una cosa meravigliosa con Piazza Garganelli, l’arco di trionfo, i portici, i ristoranti… è un borgo bellissimo davvero… chissà se ci sei mai stata… Beh, te ne descriverò un altro ancor più suggestivo, molto più piccolo e incontaminato, un paese non molto differente da come doveva apparire mille anni fa in epoca medievale (fatta eccezione per il castello che risale al rinascimento, quando i Malatesta erano Signori di Rimini). Ad aumentare la suggestione ci metto anche che questo castello si dice sia abitato da un fantasma, il fantasma di una bambina che tu conosci bene e che ti ha spaventata un sacco quando hai sentito la sua storia in televisione. Beh, questo paesino è Montebello, una frazione di Torriana e fra un po’ sarò lì. Stasera mi pare di aver letto in un cartellone pubblicitario che fanno la festa del miele e il borgo sarà pieno di bancarelle e prodotti locali, e musica da valzer, e vecchiette gentili e sorridenti. Proprio quello di cui ho bisogno.
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La mia Vespa sulla Via Emilia coi palloncini legati alla sella
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Montebello, 10 agosto 2012, ore 22:34 Non farti trarre in inganno dal nome. Il “-bello” nella parola “Montebello” non sta per l’aggettivo “bello”, che indica qualcosa di bello (nonostante il panorama spettacolare sulla campagna marchigiana e i tramonti mozzafiato che si possono godere da quassù), ma per il sostantivo latino “bellum, belli” che non ti dirò cosa vuol dire perché lo sai benissimo e poi mi prendi in giro perché faccio il saccente. Quindi il significato della parola “Montebello” è quello di “monte della guerra”, perché qui i Malatesta trovavano un valido avamposto bellico contro i nemici del Montefeltro, la regione storica sottostante dove la mia famiglia ha radici, che si divide fra Romagna, Toscana e Marche. Questo per dire come un apparentemente pacifico paesino arroccato su una vertiginosa cima romagnola possa nascondere migliaia di anni di conflitti, morti, dolori, tradimenti e offese, conflitti interni ed esteri e come per giustificare tutto questo si debbano inventare leggende. Non credo sia un caso che dietro a ogni storia di fantasmi ci sia sempre un qualche dolore. Lo scenario è ancora più bello di quanto mi aspettassi. Il paese è pieno di persone d’ogni età e c’è un piacevole vociare nell’aria e decine di bancarelle tutte unite le une alle altre da cordoli di lanterne colorate e festoni. La chiesa antica è illuminata come l’ho vista solo la notte di Natale di qualche anno fa e ci sono tavolate ancora piene di cibo nonostante l’ora che volge come sempre al tardi. L’orchestra suona una mazurka, le coppie d’anziani ballano. Se i miei nonni fossero qui e non nella colossale e grigia città in cui si sono confinati, ballerebbero anche loro; era una gioia vederli ballare quando ero piccolo. Credo sia stato proprio in
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uno di quei momenti in cui guardavo i miei nonni muoversi insieme al ritmo di ¾ che ho pensato “Allora l’amore esiste davvero” e ho cominciato a crederci. Dev’essere questo il motivo inconscio che mi porta a scrivere tutte le mie canzoni d’amore in ¾. Fra i prodotti in vendita c’è una vasta scelta di miele: acacia, agrumi, castagno, eucalipto, girasole, lavanda, millefiori e così via. C’è addirittura il miele di kiwi! Poi ci sono anche salumi, selvaggina e tantissimi tipi di formaggio; ti piacerebbe tutto questo. E pensare che questa è solamente una piccolissima realtà all’interno delle numerosissime meraviglie della mia terra. Ma per descrivertele tutte come si deve non mi basterebbe stendere un’enciclopedia e in ogni caso queste lettere non vogliono essere una giuda turistica del Centritalia visto con gli occhi di Riccardo, altrimenti avrei chiamato il romanzo epistolare Il Centritalia visto attraverso i miei occhi o qualcosa del genere. Quindi direi che possiamo andare avanti con la storia. Ti comprerei pure qualcosa, ti comprerei un barattolo di miele (e ti posso giurare che più “del contadino” di questo non esiste nulla), ma ho paura che se non ti rivedrò me lo dovrò mangiare io e, trovandolo inevitabilmente amaro, mi si rovinerebbe per sempre il sapore del miele. Così me ne sto qui, seduto su una sedia a ridosso delle case di pietra a rigirami un barattolo di millefiori fra le mani in preda all’indecisione, quando mi si avvicina una bella signora anziana con lunghi capelli grigi raccolti e un grembiule ad api e con aria amichevole mi dice: -Hai intenzione di comprarlo quel miele o vuoi solo tenerlo in mano per un po’? Dev’essere l’apicoltrice della bancarella dalla quale l’ho preso che è preoccupata per il suo prodotto ed io la tranquillizzo
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rispondendole: -Non ho intenzione di rubarlo, sono solo indeciso se prenderlo o no. -Cosa c’è da essere indecisi? È solo miele! Se sei indeciso sul miele allora come farai quando ti toccherà prender moglie? Lo sai quante ragazze ci sono al mondo? -Sì, una sola per me. Ero appunto indeciso se regalarle questo vasetto di miele o meno. -Ah! Adesso capisco tutto!- fa l’anziana signora: -Non ti ricordi qual è il miele preferito della tua morosa! Lo capisco, ce ne sono di tanti tipi, uno si può anche confondere. -Non ce l’ho la morosa. C’è solo una ragazza di cui sono innamorato e so benissimo quale tipo di miele preferisce. Non so se la vedrò più per poterle dare questo regalo, perciò sono indeciso. Mi è già successo di far marcire i regali e sentirmi stupido… L’anziana signora mi fa segno di stop con la mano e assume un’espressione più seria, ma sempre buona. Prende una sedia di legno del tutto simile alla mia e si siede di fianco a me. -Non vorrei portarti via del tempo con le mie… -Sta’ bono; la vedi quella bella figliola dietro al mio banchetto. Quella là è mia nipote, ci pensa lei al miele. In quanto a te, promettimi che non dirai mai più una cosa del genere. -Cosa? -Non c’è niente di stupido nell’essere innamorati e niente di ciò che si fa o si dice è stupido se detto o fatto per amore. -Ma vedi, noi non siamo innamorati. Lei non corrisponde questo sentimento. -L’avevo capito, sono mica nata ieri e ho ancora molti domani davanti prima della demenza. Ma credimi si può anche essere innamorati da soli. Io stessa sono stata innamorata da sola per molto tempo. -Davvero? E di chi?
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-Di mio marito, che domande! -Beh io non lo darei per scontato. Gli amori infelici esistono. A te è andata bene, ma chissà a quanti va male. -Va male a chi rinuncia al proprio amore. Sempre. Chi invece lotta e ci crede fino in fondo ha qualche possibilità di vittoria. -Lo dici solo per farmi comprare il tuo miele. -Ma non dire fesserie! Il miele avevo già deciso di regalartelo quando ho capito che tipo di persona sei e qual è la tua situazione. Anzi se ti può far sentire meglio te ne regalo anche un altro barattolo.- Rivolgendosi alla nipote: -Paolina! Paolina! Portami qui uno di quei barattoli che stanno sotto il banco! Poi di nuovo a me: -Questo è un miele speciale. Dà questo alla ragazza, fidati. -Non devi disturbarti per me davvero… -Come no? Certo che devo. Cosa ci stanno a fare le persone anziane allora? A lamentarsi dei giovani? Ad aspettare l’avvento della morte e basta? Paolina arriva con il miele e un sorriso. Mi porge solo il miele, io la ringrazio e la guardo andare via. -È bella, vero?- mi chiede la signora. -È bellissima. Non ci sono davvero parole per descriverla. -Lo so, ha preso tutto dalla nonna, quand’ero giovane… -Ah, ma intendevi tua nipote! -E chi altro? Ci viene da ridere a entrambi. -Lo vedi? Non riesco a pensare che a lei, alla mia Camilla… Comunque anche tua nipote è molto bella, davvero. -Si chiama Camilla dunque, come le farfalle! -Come le farfalle? -Sì, le farfalle camille! Non le hai mai viste? -No. O forse sì, non m’intendo di farfalle. -Sono quelle farfalle marroni e bianche che nascono sul
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principio dell’estate. Le avrai viste di certo! -Anche Camilla è nata sul principio dell’estate… Comunque le conosco, ce ne sono molte nei campi intorno a casa mia. -Dove abiti? -A Soanne. Voglio dire, lì c’è la casa dei miei nonni, io ci vengo solo in villeggiatura. In realtà abito a Genova. -E Camilla dove abita? -A Genova pure lei. -E lei lo sa che ne sei innamorato? Mi piace un sacco questa signora, mi fa ridere e soprattutto mi fa parlare di te. È proprio quello di cui ho bisogno. -Lo sa. Sa che ne sono innamorato. -Ma non ti corrisponde. -No, purtroppo no. Però siamo amici e mi vuole tanto bene e ci tiene a me, io lo so. Ne abbiamo passate tante insieme e mi ha regalato quelli che ritengo essere i momenti più belli della mia vita. Però non si è mai innamorata di me. Non che per me cambi qualcosa, intesi. Che lei s’innamori di me o meno per me non fa molta differenza. Ciò che soffro è la sua lontananza. -E non pensi che le due cose siano correlate? -No. Beh, forse un pochino. Però non riesco a capire. Cos’è cambiato? Anche prima non mi corrispondeva eppure è sempre stata qui con me, tutti i giorni. Perché adesso non può più esserci? -Le persone cambiano col tempo, le situazioni ancor di più. È normale che se da parte sua non c’è un sentimento forte quanto il tuo lei si possa essere un po’, diciamo pure, “stancata” di frequentarti e adesso preferisca altra compagnia. Il suo comportamento è quanto di più normale esista al mondo. Quante volte ti sei annoiato del frequentare persone amiche alle quali vuoi pure bene e ti è capitato di non vederli più anche per molto tempo?
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-Qualche volta mi è capitato. -Ecco, a quanto ho capito per lei sei una di quelle persone. L’inconsueto non sta nella sua lontananza, bensì nel tuo bisogno di averla vicino. -Vuoi dire che il mio è un comportamento anomalo? -Tutt’altro! Se ne sei innamorato è normale che tu voglia stare con lei. -Quando mi capita di non vederla per molto tempo (e per così tanto tempo non mi era mai capitato) ripenso sempre a una conversazione fatta a Roma in un ristorante giapponese. Eravamo lì a mangiare con dei nostri amici quando a un certo punto una ragazza mi chiede “Com’è stare con Camilla tutti i giorni?” ed io rispondo “È bello, ma non vedo l’ora che questo viaggio finisca così possiamo ritornare a Genova e posso farmela mancare un po’.” Naturalmente la mia era una battuta, perché in verità per me stare con Camilla, nel bene e nel male, è sempre una cosa positiva. Però ogni tanto ripenso a quel momento, ad aver scherzato su una cosa che poi mi avrebbe dato tanta pena non molto tempo dopo, la sua mancanza; addirittura essermela scherzosamente auspicata! -Non crederai di esserti portato sfortuna in qualche modo… Non sarai superstizioso… -No, neanche un po’. È che mi sorprendo sempre di quanto può essere ironica la sorte. -Era una battuta come un’altra. Non farti ossessionare da una frase. -Non mi ossessiona, giuro. Mi è solo rimasta impressa per qualche motivo. Forse l’ho ritenuta particolarmente simpatica. -Scusa sai, ma te l’ho chiesto perché ne ho veramente abbastanza della situazione qui a Montebello, me ne sto facendo un complesso. -Quale situazione, se posso farmi gli affari vostri? -Non ti preoccupare, ormai tutto il mondo si fa gli affari nostri
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grazie alla televisione. È che ne ho abbastanza di castelli stregati, fantasmi e leggende. Qui nessuno ricorda mai la Brigata Partigiana Montefeltro che ha fatto la Resistenza in queste valli e che nel giugno del ’44 respinse i tedeschi ben oltre la Linea Gotica. Io ero a solo una bambina di Torriana e mio padre morì l’anno prima per mano straniera. Ma di lui nessuno parla, molto meglio alimentare la leggenda del un fantasma di una bambina uccisa, perché è stata uccisa eh, ne sono sicura. Ogni solstizio d’estate vengono qua e fanno i rilevamenti, le registrazioni… e qualcosa devono trovare, i soldi non si spendono mica per poi non averne un ricavato. Qualcosa trovano e se non la trovano se la inventano. Qualcosa troveranno sempre. -Forse cercano solamente di rendere il mondo un posto più magico e distrarci un po’ dalla cruda materialità alla quale ci siamo ormai abituati. -Non c’è nulla di magico nell’infanticidio. Azzurrina, ha avuto la sfortuna di nascere albina in un’epoca d’ignoranza e caccia alle streghe, tutto qui. Un’epoca che non è ancora finita. Voi ragazzi non dovete più credere a certe cose, è vostro dovere abbandonare leggende, paure, superstizioni e creare qualcosa di moralmente migliore di tutto questo schifo che c’è al mondo. La vedi questa rocca? La signora s’interrompe. Forse non considera la sua domanda retorica poi così retorica. -Sì, la vedo. -Ecco, vorrei che questa rocca non avesse più bisogno di leggende e superstizioni per stare su, per essere restaurata. Vorrei che i soldi non venissero dalla televisione o dai souvenir con il ritratto di Azzurrina, ma dal fatto che questo castello e questo paesino sono opere d’arte d’inestimabile valore storico e artistico, realtà uniche in tutto il mondo. -Sarebbe bello, signora; ma temo che tuttalpiù la situazione
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peggiorerà. Vedrai quando ti metteranno qualche bella pubblicità d’ammorbidente o di sbiancante dentale sui muraglioni della rocca. La mia generazione ha gli occhi troppo chiusi per spegnere la televisione, se spegnesse la televisione non vedrebbe più nulla. E noto già alcuni peggioramenti nella generazione che ci succederà. -Ma esistono ragazzi come te, con bei pensieri e sensibilità. C’è ancora speranza. -Quelli come me, purtroppo o per fortuna, sono una specie in via d’estinzione. La conversazione si perde nel vago e l’anziana signora si alza. Credo che sia giunto il momento di salutarci quando: -Tieniti stretto la tua Camilla.- mi dice prendendomi di sorpresa: -L’amore non è cosa da tutti. Non tutti sono in grado di provarlo e i più che dicono d’essere innamorati s’ingannano a chiamare “amore” qualcosa che dell’amore non ha neppure la somiglianza. Altri invece, che all’amore sono naturalmente inclini, per un motivo o per l’altro non riescono a legare questo sentimento a una persona. Tu sei stato fortunato ad avere un amore e l’espressione materiale di tale amore, non rinunciarci, non buttare via la tua fortuna solo per un poco di malessere. Vedrai che riuscirai a trovare il modo per non soffrire più dei mali per i quali soffri oggi. Vedrai che in un modo o nell’altro lei tornerà. -Come puoi esserne tanto sicura? -Quei giorni perduti a rincorrere il vento…- comincia a cantare l’anziana signora mentre scompare tra la folla in direzione della sua bancarella. “Magari potessi tenermi stretto la mia Camilla, a stringermi è solo il vuoto” penso io, che sono rimasto solo. Cammino lungo le mura e mi sporgo di sotto. C’è un bel salto da quassù, mi vengono le vertigini e torno a guardare di fronte a me la strada di cinta che porta al muraglione del castello
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sotto il quale ho parcheggiato la Vespa. La luna all’apice dell’ultimo quarto è una lama sottile e affilata da film horror, violenta il cielo; le parole dell’anziana signora non sono servite a nulla, le parole sono deboli. Monto sulla vespa e quasi non riesco a starci in equilibrio. È come una febbre, nasce dentro di me, è dentro me e sono io. Trova posto negli anfratti degli stati d’animo complessi, nei sentimenti forti e contrastanti. E fa un male cane, mi affolla di pensieri e calcoli e considerazioni e proporzioni, cercando aspetti positivi a cui appigliarsi, non trovandoli, trovandoli ma costringendomi ad ammettere che non bastano. Alla fine vince il male (e fa male). Il male e un desiderio di leggerezza e semplicità, di qualcosa che non sono. E in fondo, semplificando, lo so che è la mia coscienza che mi dice di rinunciare a te, lo so che è il mio cuore che mi dice che si è rotto il cazzo di spasimare a vuoto, lo so che è il mio cervello che calcola percentuali e aspettative relative a un tuo ritorno nella mia vita e come un commercialista mi consiglia di non investire più i miei sentimenti in te. Ma c’è una parte di me, non so se lo stomaco o il pancreas, alla quale do retta a discapito delle altre, una parte che mi dice di non lasciarti andare mai perché nessun sollievo al mondo vale quanto te. Lo stomaco no, mi fa un male bestia e si contorce e urla. Il pancreas è troppo insensibile. E allora cosa? Sarà bene ascoltare in silenzio.
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III Il visionario è l'unico realista (Federico Fellini)
Statale 258, 10 agosto 2012, ore 23:46 Sono sceso dalla rocca lungo la ripida strada fra i paesi di Torriana e Ponte Verrucchio, arrivando alla statale che segue il corso del fiume Marecchia. Guido molto piano perché sono troppo impegnato a pensare. Sarà bene ascoltarmi in silenzio, qui la situazione mi sta sfuggendo di mano. Per prima cosa rallentiamo il mio organismo. I battiti del cuore scendono, la compressione polmonare si fa più lenta, lo stomaco si libera dai crampi, la mente da tutti i pensieri affannosi. Non ho più nulla a che fare con te, non ho più modo di volerti bene, di provare a renderti felice. Tu non hai bisogno di me, semplicemente, è semplicemente questo; io credevo che ne avresti avuto sempre, ma ora non ne hai più. E quindi di che sto parlando? A che vale pensarti? Cosa te ne fai del mio amore? Nulla. Il mio amore riguarda solo me. È una cosa che serve a me. Il mio amore è il miele del calabrone: non importa quanto possa essere dolce, si scarta a prescindere perché è il calabrone a farlo e sarà senz’altro velenoso e avrà un saporaccio schifoso. È semplicemente inutile con qualche sospetto che sia dannoso. E allora perché continuare ad alimentarlo? A che scopo mantenerlo vivo? Dentro noi è nascosta la risposta a ogni nostra domanda, ne 52
sono sempre stato convinto; devo solo ascoltarmi pensare. Certo, le verità cui si può arrivare possono essere agghiaccianti come quella che ho appena raggiunto, ma sono pur sempre punti di ripartenza solidi per cominciare a costruirsi il futuro. Questa è la verità da cui devo ripartire: il mio amore, la cosa più bella e grande della mia vita, adesso è inutile. Forse una volta un senso l’ha anche avuto, sono sicuro che ti ha fatto felice in tante occasioni, ma adesso è qualcosa di sorpassato, qualcosa che deve finire. Qualcosa che deve finire e non finisce. Nei pressi di Novafeltria mi devo fermare, mi viene da piangere. Sono affezionato al mio amore, non saprei vivere senza. Davvero non so cosa fare, sono sconvolto, ho paura, mi sento venir meno. Basterebbe che mi scrivessi adesso, basterebbe un messaggio con scritta la cosa più stupida del mondo, basterebbe per farmi rinsavire, per salvarmi, per farmi capire che esisti ancora, per farmi capire che esisto ancora. Lo interpreterei come un segno, darebbe un senso alla lotta. Ma non arriverà, lo so. Tu non esisti più, anzi sono io che non esisto più, sono io quello dimenticato. Cosa cercare ancora in questa vita? Cosa c’è in fondo alla notte? Quanto costa la compagnia della solitudine? Mi consola pensare che forse oggi ho raggiunto l’essenza della vita. Perché questo nostro esistere non è stare insieme, non sono gli amici, tantomeno gli amori. Questa è la vita, questa notte sperduta e solitaria, è questa luna spietata, affilata come un rasoio, questa situazione in cui io e te non siamo una persona sola ed io, inevitabilmente, sono una persona sola. Non sono mai stato al cinema senza te. Davvero non è mai successo. Non è successo, e se è successo non era andare al
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cinema, era allenamento per andare al cinema, una volta che ti avessi conosciuto. E se dopo averti conosciuto sono mai andato al cinema senza di te, magari solo coi miei amici o con qualche ragazza rimediata, beh tu non c’eri in apparenza, ma in una realtà che non mi è mai stata difficile da immaginare tu ci sei sempre stata. In realtà tu ci sei sempre. E in ogni scena che passa sul grande schermo penso sempre “Cosa direbbe la Ninni?”, “Cosa penserebbe la Ninni?”, “Vorrei dirle questo e quest’altro”, “Come vorrei che fosse qui a vedere il film con me adesso che hanno ripristinato i braccioli sollevabili”. Sì lo so che questa cosa è molto dolce, ma non mi permette più di godermi un film appieno al cinema, il buio in sala mi fa pensare alla tua assenza. In realtà una parte di te c’è sempre quando vado al cinema, ma stanotte no, stanotte c’è solo l’angoscia. Anche se a dirla tutta l’angoscia non mi ha mai impedito di godermi un bel film. Quindi per la prima volta andrò al cinema senza di te, ce n’è uno aperto fino a tarda notte a Pennabilli, il paese a pochi chilometri dal mio. Spero che in programmazione abbiano messo dei bei film, sono abbastanza selettivo sull’argomento. Beh, quando ci andavo con te questo non ha mai avuto poi molta rilevanza, sarei andato a vedere qualunque cosa purché ci fossi anche tu. Ma da solo ho paura di annoiarmi. Pennabilli, 11 agosto 2012, ore 00:50 Il Cinema Gambrinus di Pennabilli si nasconde piuttosto bene dietro al parco. Non ricordavo ci fosse una sala sola, stasera scegliere non mi è proprio possibile. Spero solo che non diano uno di quei film che abbiamo visto insieme, il che è molto facile dal momento
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che questi cinema di paese sono soliti comprare le svendite di film usciti nelle sale parecchio tempo fa. Ecco, appunto. Abbiamo visto questo film il 21 dicembre 2010. Me lo ricordo bene perché è lo stesso giorno in cui ti ho detto di essere innamorato. Innamorato di te, intendo. E mi ricordo che tu non ci credevi subito ed io mi chiedevo se stessi scherzando, per-ché sarebbe stato strano il contrario, sarebbe stato strano se non mi fossi mai innamorato di te e non sarebbe neanche stato strano, sarebbe stato impossibile. Come avrei potuto non amarti? Eri la cosa più bella che avessi vissuto, eri la ragazza più bella che avessi mai conosciuto. E lo sei tutt’ora. Come potrei non amarti? Avevo detto che stanotte non c’eri ed eccoti apparire da dietro il cartellone di un film di spionaggio che mi ricorda una delle notti più belle della mia vita. E quel sentimento c’è ancora, solo che la distanza lo sta ridimensionando. Una volta campeggiava in alto, sul grande palazzo di un cinema multisala della nostra grande città, oggi è qui, sperduto insieme a me in un paese nella campagna romagnola, chiuso in un piccolo cinema. Entriamo a riviverlo, va. -Uno, per favore.- dico al bruttissimo bigliettaio. -Fanno tre. -Ecco. -Sala uno. Grazie al cazzo, c’hai una sala sola… Come la volevi chiamare “Sala 28”? Sarebbe stato spiritoso però! Il film inizia e logicamente c’è tutta una storia d’amore fra Angelina Jolie e Johnny Depp che fanno le spie a Venezia e poi alla fine è tutta una hollywoodianata ambientata in Italia (anche se il regista deve essere un tedesco, mi pare). Mi fa
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ancora ridere che Nino Frassica, quell’attore coi baffetti della fiction Carabinieri, fa il carabiniere pure qui. Comunque questo film è carino e in ogni caso ne abbiamo visti di molto peggiori. Tutti quelli che hai scelto tu per esempio. Ho detto di amarti perché non ne potevo proprio più. Sapevo che non mi corrispondevi e non mi avresti mai corrisposto, ma era da quando siamo tornati da Roma che mi tormentavo sul dirtelo o non dirtelo. Da una parte volevo dirtelo, volevo togliermi un peso, e poi a tacerlo mi pareva di farti dispetto, di nasconderti una cosa importante, di essere falso. Dall’altra avevo paura che ti avrei persa. Quante volte le persone scappano per paura dei sentimenti altrui? E in molti casi fanno pure bene a scappare… Ma tu non ne avevi nessuna ragione in fondo, ci conoscevamo ormai da tempo. E poi non avrei resistito ancora a lungo sinceramente, perché l’amore è come la tosse, non si può nascondere. Così te l’ho detto e tu sei rimasta e mi sono sentito tanto stupido ad aver dubitato di te. Quello che non sapevi è che io m’innamorai di te molto prima quella sera, molto prima di Roma e dell’estate passata a mangiare anguria, prima dei cinema e delle passeggiate a Nervi sotto un cielo grigio a studiare i vulcani hawaiani, prima di incorniciare i nostri nomi con un cuore su un corrimano di pietra in Villa Scassi, prima delle sere da Blockbuster a scegliere i film da portare a casa tua, prima del tuo esame di maturità, prima dell’incendio dal Quartiere Azzurro, prima di trovare i tuoi capelli sui miei maglioni d’armadio. Io m’innamorai di te quando andavamo a scuola insieme, quando tu eri una ragazza di Quarto e ti vestivi tutta di bianco e portavi le ballerine; è che allora non lo sapevo, me ne sono accorto solo tempo dopo. Mi sono innamorato di te precisamente l’1 gennaio 2009. Tu
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eri molto stanca per via dei festeggiamenti del capodanno di Barcellona e riposavi sul tuo letto. Intorno a noi c’erano altre persone che oggi non hanno più nessuna importanza. Eccetto mia sorella forse. Beh, a me piace eliminare queste persone dal racconto: c’eravamo solo tu ed io e facciamo che mia sorella alla fine non era partita, era rimasta a Genova. Nell’appartamento spagnolo deserto, fatta eccezione per noi due, ti accarezzavo per farti addormentare. Avevi un po’ bevuto e i tuoi capelli biondi ti stavano appiccicati alla faccia e si riempivano di nodi. Eppure, pur non essendo nel massimo del tuo splendore, eri bellissima e a ripensarci mi sembra persino di sentire ancora quei battiti che hanno iniziato a far vibrare il mio cuore immobile fino ad allora, mi pare di vederti aprire e chiudere gli occhi verso di me. Ero già innamorato, mi sembra logico pensarlo. In ogni nostra frequentazione successiva ne ho sempre avuto il dubbio, di certo ho sempre sentito qualcosa di speciale nei tuoi confronti, da sempre, da quando ti conosco. E questa è la verità vera, non c’è nessun patto finzionale in questa storia. Il film finisce, mi alzo ed esco dal cinema. Del bigliettaio bruttissimo nessuna traccia. In paese la notte è vivissima, c’è il Festival degli Artisti di Strada nella piazza della chiesa! Ci sono i trapezisti, i giocolieri, workshop teatrali, musicisti di ogni tipo, persino una signora vestita da cameriera americana anni ’50 che suona una macchina da scrivere! E ancora pittori, scultori e persino funamboli! Un tizio ha appeso una fune sul roccione che domina il paese e partendo dalla piazza si è messo, passo dopo passo, a salire fino in cima tenendo fra le mani un’asta da equilibrista dagli estremi infuocati. Prima di partire ha sostenuto che l’asta non gli serviva per l’equilibrio, ma perché tutti nella notte
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potessero, grazie al fuoco, vedere la sua scalata. Quando è arrivato in cima al roccione si è messo a suonare la campana tibetana posta nel punto più alto del borgo in ricordo delle visite del Dalai Lama in questo paesino sperduto nella campagna. Sì perché qui hanno dei legami col Tibet per via di varie storie che non ti racconterò. Ma il mio preferito è e resterà sempre il mangiafuoco. Ne ho conosciuto uno una volta in un ristorante che più che un ristorante era una mezza bettola, uno di quei posti dove il vino costa quanto l’acqua, per intenderci. Era insieme ad altri artisti di strada ed io ero il loro cameriere quella sera. Mi raccontava della vita del circense, di quanto sia dura, e ogni suo gesto, ogni sua parola era poesia e nient’altro, vera poesia intendo. Non c’era nulla di artificiale, nulla di studiato, lui era poesia. Nessuno scrittore che si sia chinato sulla scrivania spremendosi le meningi per ore, sfogliando i momenti più intensi trascorsi e ancora vivi nella sua mente, cercando citazioni colte in libreria, limando il metro con squadre e compasso, partorendo il verso perfetto, ebbene nessuno scrittore di questo tipo può dirsi poeta. Né un qualcosa che nasce da così tante macchinazioni, che passa attraverso tanti filtri può dirsi poesia, ma finzione, artificio. Il mangiafuoco è poeta e ogni suo gesto, dallo sputare fiamme al più piccolo slancio vitale, deve essere assunto come poesia. Si sedette al tavolo come una persona qualsiasi e mostrandomi una carta da gioco mi disse: -La vedi questa? -Certo.- risposi. -Vedi, io non volevo fare il mangiafuoco da bambino; volevo fare il mago.
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Ma con le carte non ci so fare, non sono proprio buono! Allora volli scoprire se magari fossero buone loro così presi a mangiarmele.E una dopo l’altra vidi le carte che sparivano nella sua bocca, tutte e quaranta, per poi riapparire in una delle mie tasche. Questa è poesia. Non le favole pastorali, l’epica, i poemi didascalici, quelli sono inganni, quelli sono finzione, sono pezzi di carta sporchi d’inchiostro fuori da qualsiasi realtà, mentre la poesia è nella realtà è parte della realtà. Se non la si sente è solo perché non la si sa ascoltare o perché non se ne ha interesse. La poesia è la realtà. Tu penserai ancora che mi riferisca a quell’insieme di versi circoscritti alla pagina di un libro, qualcosa di bidimensionale, morto, impalpabile, ma la poesia è molto di più e certo non può stare tutta in una pagina, nemmeno in tutte le pagine di tutti i libri del mondo messi assieme. La poesia è la notte di San Lorenzo a Vobbia, quando da bambino, dalla finestra della stanza di nonna, guardavo cadere le stelle nel limpido cielo d’agosto. E mia nonna s’interrompeva nel leggerci Pinocchio di Collodi e mio cugino non riusciva mai a vederne quanto me, io vedevo tutte quelle che vedeva lui e qualcuna di più. Anzi no, a pensarci io le vedevo tutte. A che mi sarà servito… Per vedere quelle che cadevano mi sono distratto da quelle fisse. Finché poi non sono cadute tutte e stanotte il mio cielo è vuoto.
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Dio, ci stavo piombando di nuovo! Stava diventando ancora una volta tutto grigio, meno male che sono appena arrivati i mangiafuoco e posso distrarmi. Succede sempre così, mi metto a vagare col pensiero e mi ritrovo di colpo in vicoli bui che mi fanno stare tanto male. Beh, cerchiamo di non pensarci mentre la piazza della chiesa prende fuoco nella notte. Io li ho visti qua per la prima volta, da bambino. Pensavo fossero mostri mitologici, non persone, e forse un po’ lo sono, ma non mi facevano paura. Hanno un mucchio di ustioni intorno alle labbra e sulle mani, sputano fuoco come draghi e tutti gli spettatori rimangono in silenzio come incantati. Io lo so cos’è che li incanta, conosco il loro segreto e sono fiero di esserci arrivato da me, di averlo capito da solo. No, non è la prova di abilità degli uomini, non è quella piacevole sensazione di paura e rischio. A incantare il pubblico è la bellezza del fuoco. Questa conoscenza mi rende parte della folla, ma allo stesso tempo me ne tira fuori. Nell’aria solo l’esplosione delle fiammate che escono dalle loro fauci. Ebbene, laddove tutti vedrebbero una piazza io ci vedo una poesia, qualcosa che accade dentro la realtà, qualcosa di reale e allo stesso tempo insolito, inconsueto. Qualcosa di utile. A mio avviso la poesia, per essere poesia, dev’essere utile. A cosa è utile una poesia? A evadere dai dispiaceri della vita. Siamo onesti: possiamo leggere tutti i Pascoli/Carducci/Blake/ Eliot/Proust che vogliamo, ma nessuno di loro può competere con uno spettacolo di mangiafuoco, nessuno può coinvolgerci come il cielo nella notte di San Lorenzo. Certo, Pascoli può scrivere il X Agosto, una lirica bellissima che parla di una cosa bruttissima che gli è capitata la notte di San Lorenzo di parecchi anni fa, ma non vale granché a straniarci, a farci comprendere e sentire in noi tutto il male che ha recato in lui il fatto che ci viene narrato. E sai perché?
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Perché non ci riguarda. Contemplare il cielo notturno, cercare di vedere quante più stelle cadenti possibile, questo impegna tutte le nostre energie, questo ci riguarda, parla di noi, questa è poesia, questo ci rende felici, ci rende tali perché per il male non c’è più spazio in quei momenti. Giravo in Vespa per la periferia della nostra città, con la tua macchina fotografica appesa al collo a fotografarti gli ecomostri per il compito che avresti dovuto consegnare al professore l’indomani; questo era poesia, questo mi riguardava perché era qualcosa che facevo per te, perché eri tu e tu mi riguardi. Dov’era in quei momenti questo dolore? Tu non c’eri, esattamente come adesso, eri assente, eppure eri lì con me, non come adesso. C’eri senza esserci, era un’assenza dolce perché eri comunque presente nelle mie azioni, nel mio gesto, nel condizionare la mia vita, un inanellarsi di promesse fra cui ha sempre spiccato la più dolce di tutte: “A domani” mi dicevi alla fine di ogni giornata ed io irrazionalmente speravo che quel domani potesse trovare il modo di tendere all’infinito. Sono stati i domani più belli di sempre, con te ho vissuto i domani più belli di sempre. Oggi i domani sembrano solo noiose ripetizioni dell’oggi e dello ieri e del giorno prima ancora e di quello prima ancora. “A domani”, quella era poesia, quello era il verso più emozionante che le mie orecchie abbiano mai sentito. Tu eri poesia, Ninni. Se la poesia è utile a non farci sentire male, tu sei stata la poesia meglio riuscita di sempre. Solo che le poesie finiscono. Quando anche l’ultimo mangiafuoco avrà spento la fiaccola nella sua gola torneranno i dispiaceri; ma per adesso è bello viversi questo momento. Penso che non resti molto altro da fare se non viversi i momenti.
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Un mangiafuoco nella piazza della chiesa.
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IV Ho tutto ciò che mi serve tra le nuvole (Siri)
Pennabilli, 11 agosto 2012, ore 02:43 Spento l’ultimo fuoco, la folla retrattile si ritira verso le proprie abitazioni e la piazza diventa buia, oscura ma non spaventosa. Io non potrei mai avere paura in questo paese, non ho avuto paura neppure qualche notte fa, quando ho visto una povera pazza che recitava sola nel teatro greco poco distante da qui. Urlava a squarciagola; io mi sedetti su un gradone dell’emiciclo ad ascoltare; e ad ascoltare bene sapessi quanta musica nelle sue parole… Ma lasciamo perdere queste cose, possono farci un po’ paura. Invece ti voglio raccontare di meraviglie che non fanno per niente paura e che sono disseminate in questo borgo. Devi sapere che qui ha vissuto Tonino Guerra, un famoso poeta romagnolo che ha scritto pure un sacco di sceneggiature per registi importantissimi come Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, Mario Monicelli, Vittorio De Sica, Elio Petri, eccetera, e perciò qui ogni strada, ogni muro, ogni scorcio ha qualcosa di artistico per via di un progetto urbanistico curato dallo stesso parecchi anni prima che nascessimo. Si può dire che questo paesino sia un’opera d’arte a cielo aperto che stanotte possiamo esplorare in tutta tranquillità. Sopra un vicolo che dà sulla piazza stanno sospesi da muro a muro diciannove archi di ferro che fanno da sostegno a un roseto rampicante, creando così una specie di tunnel di rose e rovi. Passando sotto questo tunnel si possono leggere poesie scritte su alcune mattonelle appese ai muri. Su una di queste 63
c’è scritto: “Chi ha le rose non ha bisogno del pane.” Mi ricordo che un giorno in biblioteca, a Genova, ti citai questa frase e tu mi prendesti in giro, non ho mai capito bene il perché! Dicevi che era una frase stupida o banale o falsa, non ricordo bene. Ed io ti chiedevo “Ma la capisci? Riesci a capire cosa vuol dire?” e tu rispondevi “Sì! Non è difficile da capire!” Ebbene, io ancora oggi non l’ho capita. O meglio, l’ho capita, ma non so se essere d’accordo o meno, mi suggerisce un’infinità di domande alle quali non riesco a venire a capo. Come si fa vivere di sole rose? Cosa si mangia? È giusto vivere di sole rose? Perché privarsi del pane? eccetera eccetera… Eppure tu l’hai liquidata in un attimo. Certo, ti divertivi a darmi un po’ addosso in quel periodo, era il nostro gioco, ammetto di essermi divertito un sacco. Dio, quanto stavo bene quei giorni… Te l’ho già detto altre volte, ma lo ripeterò: anche se dovessi sopportare tutto il dolore del mondo sarebbe giustificato dall’aver vissuto quei giorni con te, forse mi pentirò di alcune cose che ho fatto nella mia vita, ma mai di aver vissuto con te. Passando oltre si arriva all’Orto dei Frutti Dimenticati, un giardino incantato dove sono stati piantati degli alberi da frutto rarissimi e dai nomi buffissimi come l'azzeruolo, la pera cotogna, la corniola, il giuggiolo, la ciliegia cuccarina, il fico verdino, il biricoccolo e tanti altri, anche se poi in realtà assomigliano tutti a comuni pere, mele, albicocche e pesche. Sempre nell’Orto si trovano alcune installazioni artistiche: la Meridiana dell’Incontro, costituita da due colombe di ferro le cui ombre, nel pomeriggio, disegnano sul disco i profili di Fellini e Giulietta Masina che si guardano, opera di Tonino Guerra in omaggio al suo amico conterraneo e a sua moglie; la Porta delle Lumache, un arco trionfale tappezzato da fram-
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menti di ceramica delle chiese scomparse della Val Marecchia che creano un mosaico colorato che porta a un labirinto di monoliti in cui non è difficile perdersi nel fissare incantati due chiocciole di piombo che brucano l’erba dell’orto; e ancora La Voce della Foglia, una fontana in cui l'acqua, come linfa, zampilla gorgogliando da una foglia di legno alta tre metri, per ricadere sulla pietra circolare di un vecchio mulino ed essere raccolta da bianchi sassi di fiume. E così via… Altre stranezze, particolarità che non ti sto a descrivere anche perché, benché le abbia viste mille volte, non le ricordo con esattezza; ogni anno cambiano, o cambio io, o cambiamo insieme e adesso potrebbero essere diverse da ieri e non lo saprò mai perché sono le tre di notte e l’Orto dei Frutti Dimenticati è chiuso a quest’ora. Tutto il borgo è disseminato di meridiane. Sono ovunque, sui muri delle case, su quelli delle chiese, appese ai balconi, sulla facciata del Teatro Vittoria che in cartellone ha Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare e vorrei andarlo a vedere un giorno di questi. Meridiane bellissime, di valore artistico e tutte diverse fra loro! Una rappresenta l’estate, con gli alberi verdi, i campi in maggese e il sole che splende, un’altra è una raffigurazione classica di San Sebastiano martire trafitto dalle frecce e lo gnomone (si chiama così l’asta che proietta l’ombra sul disco e segna le ore secondo l’inclinazione solare) è proprio una freccia che si stacca dal dipinto. Poi c’è quella che riproduce il lucernario della cupola di una chiesa con tanto di angioletti, un’altra col dio Apollo che guida il carro del sole e via così. Solo che di notte non funzionano logicamente ed io ho il cellulare scarico, spento, comincio a perdere la cognizione del tempo e pensare certo non mi sarà d’aiuto. Va beh, tanto mica ho orari, che mi frega?
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Percorrendo la strada delle meridiane si arriva alla Chiesetta dei Caduti di Pennabilli. Qui si trova il dipinto dell’Angelo coi baffi che non era capace a far niente, un dittico raffigurante un angelo coi baffi in cima a una scala intento a dar da mangiare a degli animali impagliati (lo troverai fra qualche pagina). Accanto al dipinto c’è la storia di questo strano angelo, descritta in versi in dialetto romagnolo da Tonino Guerra. Ti risparmio la versione dialettale e te la trascrivo in italiano. C'era un angelo coi baffi che non era capace di far niente e invece di volare attorno al Signore veniva giù nel Marecchia dentro la casa di un cacciatore che teneva gli uccelli impagliati in piedi sul pavimento di un camerone. E l'angelo gli buttava il granoturco per vedere se lo mangiavano. E dai, e dai con tutti i Santi che ridevano dei suoi sbagli una mattina gli uccelli impagliati hanno aperto le ali e hanno preso il volo fuori dalle finestre dentro l'aria del cielo e cantavano come non mai. Inutile dire che in romagnolo è più bella, ma anche così non è male. A me è sempre piaciuta questa storia perché mi rivedo un po’ in lui. Anch’io non mi sento capace di far nulla e perciò ho molta tenerezza empatica nei confronti dell’angelo coi baffi, così diverso da tutti gli altri angeli, così controcor-
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rente. Poi la morale della storia è di inseguire i propri sogni, anche i più irraggiungibili e non mi può che trovare d’accordo. Ce ne sarebbero ancora un sacco di cose da descriverti qua, ma sinceramente non ne ho più voglia e comincio ad avere sonno. Devo tornare verso casa, non so neppure che ore siano. La Vespa è parcheggiata vicino al cinema; poco lontano c’è il parco sempre illuminato, mi metterò su un tavolo di legno a scriverti ancora un po’ di quello che mi salta in mente, benché per la stanchezza non abbia più molti pensieri per la testa diversi dal chiodo fisso del letto.
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Il dittico dell’Angelo coi baffi…
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…nella Chiesetta dei Caduti di Pennabilli.
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Pennabilli, 11 agosto 2012, ore ... : ... Anche le panchine davanti al cinema sono ben illuminate. Mi accontenterò di scrivere qui, il parco è troppo grande e mi fa un po’ paura a quest’ora. Il bigliettaio bruttissimo chiude il cinema con due scuri di ferro e un lucchetto. Cosa ci faceva ancora dentro a quest’ora? Si sarà addormentato; oppure avrà visto un altro film dopo il mio; o tutte e due le cose. Oddio, ma che fa? Sta venendo qua. Ma che vuole? -Buona sera.- mi dice: -Che fa qui a quest’ora della notte? Sarà un malintenzionato? Un maniaco? Ma no Richi, non viaggiare con la fantasia. Sicuramente si sente solo e ha voglia di parlare. -Buona sera a te. Niente di che, scrivo. -E cosa scrive? -Un romanzetto epistolare. -Cosa?- mi chiede, come se avessi parlato marziano. -Beh, delle lettere per la precisione. Scrivo delle lettere. -Oh… E a chi le scrive, se posso permettermi. -A una mia amica. -Ah… E cosa le scrive? -Niente di particolare. Un po’ di questo, un po’ di quello… Ad esempio, ora le stavo raccontando di questo paesino. Glielo stavo descrivendo, è molto bello. -Oh… Lei è un turista? -No, non sono un turista. Sono un villeggiante. Vengo in questa parte di mondo tutte le estati, dall’estate dell’anno in cui nacqui. -Capisco. Ha già scritto molto vedo.- dice il losco bigliettaio sbirciando i miei fogli. È losco questo tipo. Non mi piace per niente. Me ne frego se è solo o cazzate varie, a me non piace e da adesso cercherò di
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far cadere la conversazione e andarmene. -Sì, ho scritto molto e sono molto stanco. Perciò buona notte e… -Ha scritto molto… deve soffrire molto. -Come dici? -Ho detto che deve soffrire molto. Uno che ha tante cose da scrivere, tante cose da dire è senz’altro una persona che soffre molto. Per poco non ci rimango secco. -Questi non sono affari tuoi. Ma cosa ti salta in mente? -Volevo solo far conversazione, non immaginavo che la prendesse male. -Intanto dammi del “tu”. Non sopporto quando mi danno del “lei”. Poi io non ti conosco, non so neppure come ti chiami. Non è educato fare affermazioni del genere con gli sconosciuti. È notevolmente imbarazzato, penso di averlo bacchettato a sufficienza. -Di dove sei?- mi chiede. -Di Genova. -Devi scusarmi, noi gente di paese diamo e pretendiamo immediatamente confidenza dalle altre persone. Se aggiungi poi la cordialità romagnola… -Bella cordialità la tua! Impicciarti dei miei affari… -Su! Non volevo impicciarmi! La tua reazione è sproporzionata! Ha ragione. E se devo essere sincero, mi intrigava la sua osservazione circa il mio stato d’animo, è solo che ho dovuto fare un po’ la scena. Ci tengo a mantenere le distanze con gli sconosciuti. -Hai ragione. -Riguardo a cosa? -Riguardo a tutto. La mia reazione è stata sproporzionata e
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scrivere è sintomo di una qualche sofferenza. Non mi sento di dire “soffro molto”, ma se fossi sereno col cazzo che scriverei. -E cosa faresti? -Il contrario dello scrivere. Se fossi sereno vivrei. -Non stai vivendo anche quando scrivi? -No. Per me scrivere è simulare una vita che non mi appartiene e che vorrei…- mi sbilancio. Questo qui se mi prende per matto fa bene. Poco fa non volevo dargli confidenza e fra un attimo racconterò lui tutta la storia, o parte della storia: -…una vita nella quale posso parlare alla ragazza che amo di quello che mi succede, ad esempio. -Perché non puoi farlo in questa vita? -Perché lei non vuol stare con me. -Non ti ama? Tutti con la stessa domanda in bocca. -Non la vedo più da molto tempo… -Da quanto? -Più di un mese. -Ma quello non è molto tempo! Dieci anni è molto tempo, un mese non è molto tempo! L’ultima volta che ti vidi, ora ricordo, fu alla vigilia della festa di San Giovanni Battista, patrono della nostra città. Era il 23 giugno e sul fare dell’estate andammo in piazza Giacomo Matteotti ad aspettare che accendessero il grande falò. Anche se non mi ricordo di che parlavamo, so che abbiamo parlato molto e tu mi sembravi felice, anche se, come ho già detto, i tuoi occhi sorridono sempre, anche quando sei triste e potrebbero avermi ingannato. Quando hanno acceso la pira, ricordo che abbiamo guardato in alto. Io volevo dirti “ti amo”, ma per me è una cosa sempre più difficile da dire perché più la distanza fra noi due aumenta, più diventa tutto complicato, anche esternare i
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propri sentimenti. Non so perché, ma è così. C’era già qualche chilometro di distanza fra noi anche prima di questi giorni d’apnea, ma quella sera stavo bene e mi sentivo che dovevo dirtelo ancora. Ma poi non l’ho fatto, devo averti parlato di San Giovanni, ti avrò detto qualcosa di stupido del tipo “Lo sai che San Giovanni è l’unico martire cristiano che si festeggia nel giorno del suo compleanno e non in quello della sua morte? Non è una cosa bella?” Che idiozia inutile. Quanto sappiamo essere stupidi alle volte: parliamo ore, giorni, anni, sempre e solo di cazzate e tralasciamo sempre le cose importanti, le cose “pesanti”, quello che a mio parere conta davvero. Avrei dovuto dirti “Ti amo Camilla, ti amo perché sei più bella persino del fuoco, più grande, più pericolosa e in confronto a te le fiamme e le vampe non mi fanno paura, non mi saprebbe fare più male.” E invece non te l’ho detto, tu eri lì, ne avevo l’opportunità e sono rimasto in silenzio a parlare di cazzate e adesso vorrei dirtelo, ma non posso, tu non ci sei. Riprendendo la narrazione degli eventi: -Per una persona innamorata un giorno è molto tempo.- rispondo al Losco: -Per uno come me è molto tempo quello che impiegano le palpebre per idratare le cornee. Ogni volta che lei è con me ed io devo sbattere gli occhi rinunciando per una minuscola frazione di secondo alla sua immagine, ebbene riesce a mancarmi. Quello per me è molto tempo, figuriamoci un mese! -Mi sembra esagerato. -Non lo è. Questa sua assenza mi fa scrivere, altrimenti vivrei, se lei fosse qua non ci sarebbero questi fogli. -Ho sempre pensato che per scrivere bisognasse vivere, avere esperienze… -Io scrivo perché ho vissuto, con lei ho vissuto.
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-Ma non hai detto che stavi scrivendo di questo paese, di quello che hai visto e che hai fatto qui in sua assenza? Non stai scrivendo la tua vita di adesso? -Io riesco a descrivere il mio stato attuale solo perché ricevo ancora l’influsso lontano della vita felice che avevo quando lei c’era. Se non avessi mai vissuto non potrei scrivere, mi pare ovvio. Ma questo non significa che adesso io stia vivendo. Vedi, per scrivere bisogna vivere e per vivere occorrono sentimenti. Nella mia situazione attuale non posso permettermi di avere sentimenti, perché gli unici che mi sarebbero concessi sono quelli negativi, sentimenti che non trascriverei mai a lei e che potrebbero portarmi una disperazione pericolosa. Per me stesso, s’intende. Così, per scrivere devo evocare i sentimenti di una vita passata, poi trasporli nel presente, descrivendo poi questo con le sensazioni positive di un tempo. Capisci? -No, è tutto ingarbugliato. -Fa niente. Fa niente. Non mi aspettavo certo che il Losco mi venisse dietro nel ragionamento, ma dialogare mi aiuta a schiarirmi le idee, continuerò: -E poi non è neanche esatto dire che io stia descrivendo la mia vita attuale: io la sto romanzando. Aggiungo e tolgo a mio piacimento dettagli, talvolta impercettibili, ma utili a compiere sul mio vissuto una metamorfosi letteraria. Fra poco trascriverò il dialogo che stiamo avendo adesso, ma non fedelmente, parola per parola, con tutte le pause, le esitazioni… Verrà rielaborato, subirà delle modifiche formali atte a renderlo più leggibile. -Capisco. Ma così non si stravolge la realtà? -Provaci tu a scrivere senza stravolgere un poco la realtà. Non credo ci sia mai riuscito nessuno al mondo ed io sono uno che ha letto molto. Scrivere è stravolgere la realtà, perché questa non si può che raccontare basandosi su una visione soggettiva
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di essa, non avendo accesso a quella oggettiva. Scrivere non potrà mai essere raccontare la realtà, dire la verità, poiché non esiste che la nostra realtà e la nostra verità e quelle, se proprio vogliamo raccontare qualcosa, possiamo limitarci a stendere sulla carta. -Ma allora a che serve scrivere? A che serve parlare, comunicare… se poi ogni cosa che diciamo è falsa per gli altri, poiché questi hanno una visione della realtà completamente diversa dalla nostra? -Non esagerare! Ci saranno pure delle cose in comune fra la tua visione del mondo e quella degli altri. Se le due realtà non coincidono perfettamente avranno pure dei punti di contatto. Questa panchina è verde. Concordi con me? -Sì, certo. Ma se io fossi daltonico… -Hai visto? Siamo già d’accordo su un punto. Se tu fossi daltonico dovresti prendere in considerazione la tua malattia e fidarti del mio giudizio. E poi non sono queste le cose importanti. Questa è solo una questione di forma. -Ah… E cosa importa? -Altre cose. Il contenuto ad esempio. Importa sempre più il contenuto della forma. In un libro l’importante è il messaggio che si vuol dare al lettore, non com’è scritto; quando manca il contenuto o viene stravolto bisogna preoccuparsi. -Pe… -Aspetta un attimo, scusa, finisco il ragionamento. Questo non vale mica solo per la letteratura. Vale per ogni cosa. I rapporti umani ad esempio! Il modo di esprimere le proprie affezioni verso gli altri può essere vario… ma ciò che conta è che queste affezioni esistano! -Quindi nelle tue lettere non dici la verità. -No. Non proprio la verità, ti ho detto che è impossibile. Non ho detto la verità quando ho scritto che “sopra un vicolo che da sulla piazza stanno sospesi da muro a muro diciannove
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archi di ferro che fanno da sostegno a un roseto rampicante”, perché non li ho contati. E allora me lo sono inventato, ho visto che erano meno di cinquanta e più di dieci e mi sono inventato un numero. Non posso dimostrare che la storia dell’Angelo coi Baffi e del dipinto nella Chiesetta dei Caduti sia vera e non frutto della mia immaginazione, tantomeno che ci sia una poesia scritta in romagnolo attaccata al muro. Ma il messaggio che si cela dietro alla vicenda, l’insegnamento che chiunque di noi debba inseguire i propri sogni, anche quelli che ritiene impossibili, stai sicuro che quello lo penso davvero, altrimenti non avrei mai scritto una cosa del genere. Il messaggio, il contenuto è sempre vero, non è mai una bugia. -Scusami sono un po’ perso, non sto capendo. -In sintesi: non ha importanza che i fatti raccontati siano accaduti realmente. L’importante è che siano accaduti dentro me; poco conta se alcune cose che ho scritto le ho fatte succedere per inoltrare un messaggio, ciò che conta è il messaggio in sé! Capito? -Sì, più o meno. -Se non hai capito fa lo stesso. Tanto non è neppure questo ciò che conta veramente. -E cosa conta? -La cosa più importante di tutte è l’essenziale. -L’essenziale? -Sì, l’essenziale. -Quello che è invisibile agli occhi? -Sì, nel Piccolo Principe si diceva così. È proprio la precisa verità. È davvero invisibile agli occhi. -Ma io non ho mai capito cosa intendesse. -“È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante”. -Ebbene?
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-L’essenziale è… molte cose… Ad esempio quel tempo, quei momenti che porti nel cuore e che nessuno potrà mai vedere con gli occhi, neanche se li scrivessi in mille forme diverse e inoltrando centinaia di messaggi, momenti durante i quali hai amato una persona e le hai concesso una parte preziosa e irreplicabile della tua esistenza. L’essenziale è il movente per cui si scrive e serpeggia in fondo ad ogni periodo abbracciando ogni lettera fra le sue spire e non lasciando mai il testo, fino alla fine. L’essenziale esce addirittura dal foglio, entra nella vita, perché dalla vita ha origine e alla vita è legato. L’essenziale è immodificabile, non può essere raccontato perché è una cosa che non si può dire a parole e perciò non si può mentire sull’essenziale. -E quale sarebbe questo essenziale per te? -Che io amo Camilla. Questo è l’essenziale. Il Losco è pensieroso. Mi domando cosa si stia chiedendo, anche se ne potrei averne una vaga idea. In ogni caso qualcosa mi dice che fra poco lo saprò. Provo a dar lui una mano, a venirgli incontro col ragionamento: -Capisci bene che, a fronte di tutto questo, la forma in cui si esprimono i messaggi e i vari concetti ha importanza relativa. -Ah. E quindi ciò che ci circonda… -Sì è solo la cornice di un quadro. Potrebbe non esserci stata nessuna notte in nessuna panchina davanti a nessun cinema, se non in un posto chiuso dentro me, a metà strada fra la mia mente e il mio cuore. Questa conversazione potrebbe non essere mai avvenuta, potrei averti creato a bella posta per farti portatore di un messaggio. Al posto tuo avrei potuto mettere la donna cannone o un netturbino o una giraffa alata, avrei potuto avere lo stesso colloquio con una cassetta della posta parlante. Tu non sei essenziale. -Quindi potrei anche non esistere?
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-È una possibilità. -Quale messaggio vorresti dare attraverso me? -Quale messaggio ho già dato, vorrai dire! Come fai a non essertene accorto? Sarà uno dei passaggi più importanti del libro, cazzo! Ho svelato l’essenziale! Ti sembra poco? -Bella scoperta! Lo sapevano già tutti che ami Camilla… Poi il Losco con gli occhi bruttissimi che le gli brillano di una luce bruttissima mi chiede: -Ma io esisto? -Ci tieni tanto a esistere? Guarda che non è una gran vita… -Cavolo sì che ci tengo! -Si sceglie sempre di esistere alla fine. Sebbene si sia così poco… -Poco è meglio di nulla. -Forse hai ragione. Però sappi che in nessun caso si può desiderare qualcosa senza farsi male. Se tu desideri l’esistenza… -Siamo qui per questo, per desiderare. -Tu non sei ancora da nessuna parte. Devo ancora decidere se farti esistere o meno. -Quindi in questo momento non esisto… -Diciamo 50/50; come il gatto di Schrödinger. -Chi? -Lascia perdere… -Su mi faccia reale! -… -Via, che le cambia?! -Del “tu” per favore! -…che ti cambia. -Non vorrei che a concederti di esistere mi dessi motivo di pentirmene. Sai, fino a questo punto, lo ammetto, tu non sei esistito e abbiamo ragionato con una testa sola, la mia. In questo momento sono troppo stanco per sostenere un vero dialogo.
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-Allora fammi esistere e poi vattene. Ho paura che quando te ne andrai io mi dissolverò dietro a un segno di punteggiatura forte. E invece voglio vivere! -Rivivresti ogni volta che qualcuno leggerà la nostra conversazione. -Voglio vivere anche fuori dalla conversazione! Se scrivere non è vita, essere scritto è ancora meno vita di scrivere! -Voglio, voglio, voglio, e va bene! Da questo momento sei una persona e non un personaggio. Ma io me ne vado a dormire adesso. -No aspetta, ho delle cose da chiederti! Salgo sulla Vespa e metto in moto. “Broooom!” fa la Vespa e allora il Losco grida. -Dai spara. Anche se so che me ne pentirò.- rispondo io: Cosa vuoi sapere ora che sei una persona e hai una tua indipendenza e non puoi più farmi domande utili all’espressione del mio pensiero? -Voglio sapere se Camilla esiste o anche lei è frutto della tua immaginazione. -Lei esiste. Lei esiste, cazzo, è più reale di te e me messi insieme!- mi incazzo subito. -Ah sì? E come puoi dimostrarlo? Dov’è adesso? -Beh non posso dimostrarlo ma… -Io continuo a non vederla. -Ma lei c’è. Da qualche parte c’è. -Ma dove? -Non lo so. -In quel posto dentro di te, fra la mente e il cuore. Ho notato (o ho creduto d notare) un accento sarcastico nelle parole del Losco. Mi pento di averlo fatto esistere. -Potrebbe tranquillamente essere una tua creazione. Magari Camilla è esistita ma ora ne coltivi solo il ricordo e scrivi lettere al suo fantasma.- incalza il Losco: -Potrebbe essere
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tranquillamente un’ossessione. -L’avevo detto che mi sarei pentito di averti fatto esistere. “Ossessione”, siamo arrivati a questa parola. Dopo pochi attimi di vita già mi parli di ossessione? Me l’hanno sempre detto “Sei ossessionato Richi”, “Sei ossessivo”, solo perché inseguivo amori non corrisposti, amori impossibili come piace chiamarli, solo perché parlavo con ammirazione di una ragazza che non mi ama. Scommetto che se questi discorsi potessi farli a lei, se l’avessi fra le mie braccia e le ripetessi le stesse identiche parole, nessuno direbbe mai che sono ossessionato, ma ci guardereste tutti con gli occhi a forma di cuore e direste cazzate del tipo “Come sono carini!” eccetera. Ma lei non c’è, non è qua e allora io sono ossessionato. L’amore non è ossessione solo con la presenza di un corpo, vero? Solo con la corrispondenza, vero? Il Losco dice ancora qualcosa, io rispondo qualcos’altro, ma non ha più importanza ormai. Il mio amore non sarà ossessione, ma il Losco, nel diventare realtà, mi ha fatto tornare alla realtà e al male che porta la tua assenza. Nel mezzo del discorso metto la prima e parto. Non sei un fantasma, solo non sei qui. Se tutti quelli che non sono qui fossero fantasmi non ci sarebbe più nessuno al mondo, no? È che mi faccio influenzare troppo dalle opinioni degli altri, do loro sempre troppo credito. Non sono ossessionato, che brutte parole tira fuori la gente. Io credo sia solo un periodo, uno stato d’animo passeggero; l’estate mi ha sempre reso più fragile. Solo mi chiedo quando passerà. Come passerà? E se in questa realtà non riuscissi mai più a trovare il modo per tornare a essere felice? Corro nella notte livida e senza fine ormai da ore nella
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speranza di raggiungere qualcosa che neppure riesco a scorgere, neppure so di che si tratta, né dove si trova, qualcosa che mi tirerebbe fuori da qui. Eppure so che ci sono cose che non hanno fine. L’inferno ad esempio. Questa notte? Non ne ho idea. Fino a ieri non avrei mai pensato di poter dubitare del sorgere del sole, ma tu dovresti vedere quanto nero c’è qui intorno. L’unico oggetto visibile è la linea di mezzeria che squarcia in due la strada. Quella e la luna dimenticavo la luna che squarcia in due l’universo gigantesca assassina tagliente rapace. Il resto è buio, buio accecante. È buio il cielo ha inghiottito le stelle e i pianeti. È buio il campo di grano buio il campo di girasoli l’aglieto, il meleto e gli altri terreni messi a raccolto e i boschi. Buio il Sasso Simone e gli altri monoliti del Montefeltro buio il monte Titano buie le torri di San Marino.
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(I palloncini svolazzano al vento ma è troppo buio, non riesco a vederli.) Buia la pianura bui i ristoranti sulla via Emilia bui i benzinai le lucciole i pali dell’alta tensione i marciapiedi invisibili sulla statale che porta a Rimini e ai suoi borghi interni e ai suoi ponti sul porto e alle sue spiagge buie. Buia Rimini e i suoi locali all’aperto chiusi come il Bagno Acquamarina con ombrelloni e sdraio accatastati al buio a lato di una passerella oggi rovente e piena di sabbia adesso fredda e buia e piena di sabbia perché fa vento e nessun bagnino ha mai lavorato di notte nessun bagnino ha mai spazzato passerelle di notte.
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Buio il mio cuore e come una passerella pieno di sabbia perché come ho già detto nessun bagnino spazza di notte e nel mio cuore è notte da infinite notti fa e fa vento da infinite tempeste fa e ad ogni modo non c’è mai stato nessun bagnino (per fortuna). Buio il Grand Hotel persino il Grand Hotel così bianco nel giorno ancora più bianco la sera di notte buio. Buie le stanze i letti i rumori buie le siepi nel giardino senza più colori. Buio il mare. Non l’ho mai visto scintillare ma mi hanno detto che scintilla nelle belle giornate di sole. Adesso è buio anzi è la cosa più buia di questa notte buia.
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V A bocca ammalata anche il miele è amaro. (Proverbio romagnolo)
Soanne, 11 agosto 2012, ore … : … L’aria di casa mi fa passare la paura. Per l’angoscia ci penserà il sonno fra qualche istante. Il faro della Vespa borbotta a colpi di pistone, giro di chiave e si spegne. Slego i palloncini colorati (non più colorati per via del fatto che in assenza di luce i colori non esistono) dalla sella e mi dirigo tentoni verso il cancello della villetta che poi è casa mia. Ricordo di aver lasciato accesa una luce in giardino per evitare di dovermi trovare a brancolare nel buio, ma qui è tutto spento! Torno sui miei passi, riaccendo la Vespa e punto il faro sul cancello. Raggiungo il cancello, lo apro, torno dalla Vespa, punto il faro sulla porta. Arrivo dalla porta, la apro, faccio per accendere la luce e… blackout! Ecco perché era tutto spento! Che vita… E adesso che faccio? Il fascio di luce del faro illumina la sala, proiettando ombre inquietanti dai mobili alle pareti fin sul soffitto. Non ho altra scelta, devo vincere la paura del buio, entrare, prendere le candele nella credenza… Eccola! Ecco una candela e i cerini… e la Vespa va giù di giri, il motore perde il ritmo e si spegne. Ed io non ci vedo ancora niente e sono rimasto al buio. -Ffffsscccch!- fa il cerino nell’accendersi. -…- risponde lo stoppino della candela nel prendere fuoco. Con il lumicino tremolante esco nella notte, parcheggio bene la Vespa e torno in casa chiudendo tutti i cancelli e le porte a 84
chiave. Ladri, assassini e mostri di vario genere sono rimasti fuori, all’angoscia, come ho già detto, ci penserà il sonno fra qualche istante. Bene, ci sono abbastanza candele da illuminare una cattedrale. Il piano di sotto è sistemato, ora manca solo quello di sopra. Che poi mi basta illuminare il bagno, la mia camera da letto anche se è scura fa lo stesso, tanto ci devo dormire e per quanto riguarda le altre stanze chi se ne frega, tanto non le uso. Salgo uno a uno tutti gli scalini di legno che portano di sopra. In cima alla scalinata lo specchio, io nello specchio che reggo una candela e che mi chiedo se magari non ci fosse stata in giro qualche torcia elettrica e come ho fatto a non averci pensato. Beh, il piano di sotto è ormai un luminarium di fiammelle allegre, non mi sento di smorzarle e poi non ho voglia di cercare in tutte le ante dei mobili e nei cassetti una torcia elettrica che magari neanche c’è, e chissà cosa c’è là dentro a quegli armadi fra le polo di ciniglia di mio nonno. Magari un nugolo di tarme, che schifo! Anche il bagno è fatto, due candele dallo specchio e una sul mobiletto davanti alla doccia. Una bella doccia mi ci vorrebbe proprio, adoro andare a letto pulito. Mio nonno ha costruito un bagno giù in cantina, io di solito uso quello. È molto accogliente, tutto in pietra e poi non c’è mai nessun parente fuori dalla porta che aspetta che tu esca; stai lì tranquillo e ti fai la tua doccia bollente, lunghissima, in tutta calma finché non ti si lessano le dita delle mani e allora quello vuol dire che devi uscire. Ci sono dei ragni nella doccia della cantina, perché nelle cantine ci sono i ragni, ma a me non danno fastidio, non mi fanno paura. Loro non si avvicinano a te perché per loro avvicinarsi all’acqua vorrebbe dire andare incontro a una
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brutta fine giù per il tubo di scarico, stanno appesi sul soffitto come tante stelle nere su un cielo di pietra, catturano le odiose zanzare e non mordono me, questo tipo di ragni non morde, sono quelli con le zampe lunghissime e il corpo piccolo piccolo. A uno di loro una volta avevo dato un nome che adesso non mi ricordo, solo che mia cugina gli aveva rotto una zampetta e io ci avevo scritto una poesia che non ricordo. Gli ha rotto una zampetta solo perché aveva paura di lui, mica gli aveva fatto qualcosa. C’è solo una cosa di cui ho paura: le scolopendre. E anche le scutigere che poi appartengono alla stessa famiglia. Mi fanno paura tutte quelle zampette che si muovono insieme con coordinazione perfetta e poi anche il fatto che sono velocissime e velenose e cristo che schifo! Però non ho niente contro di loro, se il male sta da qualche parte di certo non è dentro una scolopendra e io lo penso per via di un discorso veramente troppo lungo da fare in cui c’entra il Dante Alighieri e forse anche qualche filosofo greco… Ad ogni modo preferisco non incontrare scolopendre, tanto non penso che qualcuna di loro voglia incontrare me, e siamo tutti felici così. Per ovvie ragioni d’illuminazione mi farò la doccia qui nel bagno delle persone civili, quello della villa. Mi spoglio che l’acqua già scroscia perché deve essere già bella calda. Calda calda, perché se anche è estate qui la notte fa freddo. Entro. Mi capita spesso di parlare delle mie docce, non perché voglia far vedere che sono una persona pulita, che sono pulito spero si veda da sé, quanto perché è sotto la doccia che mi vengono le idee più illuminanti. Tipo ero qui che mi facevo la doccia e mi è venuta in mente la tua canzone! Prima la melodia e il più è fatto, poi le parole; adesso devo solo raggiungere uno strumento musicale per l’arrangiamento
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e ci siamo! Era tempo che volevo scrivere una canzone per te, solo che le canzoni sono come le ragazze, più ci corri dietro e più scappano veloci. Le canzoni non devi cercarle, arrivano da sole quando meno te lo aspetti, quando dormi o quando sei sotto la doccia o in altri momenti in cui sei rilassato e tu devi essere bravo ad afferrarle, tutto lì. La tua è arrivata stanotte e sarà senza dubbio la più bella canzone che abbia mai composto. Esco dalla doccia, mi asciugo di fretta perché poi altrimenti mi scappa di mente e poi è un peccato, dio è così bella! Na na na na naaaaa na naaa naaa naaa naaa… Il pigiama! Il pigiama del nonno enorme… eppure mio nonno è più piccolo di me. No, lascia stare, pensa alla canzone. Mi precipito giù per le scale, la sala è un sogno a lume di candela e i palloncini legati alla tavola armonica del pianoforte di ciliegio sfiorano il soffitto; ma dov’è una macchina fotografica quando serve?! Lascia perdere la fotografia e concentrati sulla canzone. Come faceva? Na na naa na, no, na na na na naaaaa, sì! Raggiungo il pianoforte. Il mio pianoforte non è mai scordato, non nel senso che non me lo dimentico mai, ogni tanto lo dimentico, ma di certo non scordo mai di accordarlo a scadenze regolari, per questo non è mai scordato. Mi fanno sempre una gran tristezza quei pianoforti che si vedono in giro tutti scordati, scordati perché scordati, nel senso di dimenticati. Mi fanno ricordare quanto ormai la gente tenga poco alla musica e alle altre poche cose degne d’attenzione. Bene, accordo di la maggiore e… La do# re mi fa# do# mi re do# si, poi la variazione la si do# re do# do# mi re do# si… Sì! Perfetto. Magari ti chiedi perché sentivo la necessità di scriverti una canzone. Beh, non dovresti. Ma ci pensi? Un amore senza musica. Un amore senza musica
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non credo si possa dire neppure amore, sarebbe qualcosa di cui vergognarsi. L’amore è musica al 90% penso, o qualcosa del genere, e un amore che si fonda solo sul restante misero 10% è qualcosa che non voglio neppure darmi la pena di pensare, una porcheria. Diffida sempre di un amore senza musica, Ninni. Per questo motivo ho cercato a tua insaputa per anni una qualche canzone che mi legasse a te ma, malgrado i miei sforzi, ho dovuto constatare che noi abbiamo gusti musicali decisamente diversi; a me non piace molto la tua musica e a te non piace la mia, così ho pensato che avrei dovuto scrivere di mio pugno almeno una canzone che piacesse a entrambi. Stanotte sto scrivendo una canzone per te. Certo, magari il testo è un po’ triste, forse questo non ti piacerà, però è così che mi sento adesso, non c’è niente di male a sentirsi tristi ogni tanto, prese a piccole dosi affezioni come la tristezza o la malinconia sono persino piacevoli. Forse non ti piacerebbe in ogni caso, hai gusti musicali che non sono mai riuscito a comprendere; magari dal momento che l’ho scritta io e l’ho scritta pensando a te riuscirai ad apprezzarla di più… Mentre ragiono su tutte ‘ste cose, a un tratto sento “BUM! BUM! BUMBUM!”, mi giro e vedo i palloncini, i miei meravigliosi palloncini colorati che scoppiano uno dopo l’altro. Hanno deciso di esplodere tutti insieme, sono inarrestabili “BUMBUMBUMBUM!BUM!”, la sala si riempie d’elio e la mia voce che cantava la tua canzone, si fa più acuta e stridula per via dell’elio che espirato fa vibrare le corde vocali in maniera strana. Quasi non riesco più a cantare dal ridere, una canzone così triste precipitata nel ridicolo, penso sia una cosa stupenda, devo interpretarlo come un segno a non prendermi mai troppo sul serio. Ora ogni volta che vorrò cantarla dovrò riempiere una stanza d’elio però… Poco male, ho fatto cose ben più pazzoidi.
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Il pianoforte di ciliegio e le candele in sala.
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Soanne, 11 agosto 2012, ore … : … Probabilmente le ore stanno crescendo, il cono d’ombra che la Terra proietta su se stessa e che noi chiamiamo notte scivolerà presto sull’emisfero occidentale e verrà chiamato night, oppure noche, o ancora noite, o in qualche lingua nativa americana prossima all’estinzione. La partitura della tua canzone riposa alla luce delle candele. Nell’aria suona altra musica adesso. Non la conosci, è un pezzo dei National, una rock band di Brooklyn, è uno di quei pezzi che ascolti quando vuoi farti del male. Nel ritornello fa “Hang your holiday rainbow lights in the garden/and I'll bring a nice icy drink to you” ma c’è anche un verso che dice “Darling, can you tie my string?” e mi ricorda di quella volta in Villa Imperiale, quando mi hai insegnato ad allacciarmi le scarpe. Se solo potessi salvarmi da tutto questo. Se solo qualcuno potesse salvarmi… Ma chi? Non mi basterebbe chiunque, serviresti tu. Preferisco la disperazione e la solitudine a chiunque. Tu no, tu non puoi me l’hai già detto una volta. Ma chi? È così difficile, essere me non ha né misura né pace, non ha compromessi. Ci sono solo le lotte eterne, dure, estenuanti o in alternativa la resa totale. E alla fine dovrò arrendermi, già lo so. Non varrà a nulla inseguire i miei sogni, non sarò fortunato come l’Angelo coi Baffi. In fondo quella è solo una favola… Mi guardo intorno e noto qualche candela smorzata. E se affrettassi il processo? Non intendo suicidarmi, tranquilla, sono contrario al suicidio per varie ragioni. Sto pensando un’altra morte, una di quelle morti che possono arrivare molto prima dell’ultima, quella del corpo. Sto pensando a un’eutanasia apatica, a iniettarmi litri e litri d’indifferenza
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nelle vene per disintossicarmi dal mio sangue troppo rosso, troppo incline ad avvelenarsi, sto pensando di sostituirlo con qualcosa di sintetico, qualcosa che non possa fare male. Certo, sarebbe morte, sarebbe rinunciare alla vita, a quello che mi fa sentire vivo. Sarebbe rinunciare a te. Ma se l’alternativa è questa, se la speranza non brilla ormai più di queste misere candele, se questo, tutto questo, è cosa che deve finire e finirà, perché non farlo finire adesso e risparmiarmi tutti i tormenti? L’anziana signora di Montebello ha ben da dire di tenermi l’amore che ho. Forse non immagina quanto pesa o quantomeno non lo ricorda più. Io ho tanta voglia di liberarmene in certi momenti… Solo che poi mi manca, mi manca troppo, mi manca sentirlo dentro, nel bene e nel male. Mi manchi tu, per liberarmene devo allontanarti, non potrei mai resistere, ogni volta che ci vedremmo cederei vergognosamente. Ci sono notti in cui non vorrei decidere, vorrei che quella morte mi cogliesse e basta. Notti terribili, di pianti e isterie e pensieri che ti fanno credere di essere pazzo, e frustrazioni e senso di fallimento e così via. Dovrebbe prendermi e basta in quei momenti, sarebbe l’unico modo. Ora che ci penso è successo che mi prendesse e che io riuscissi a dormire sereno. Ma quanto costa quella pace sterile, inutile, statica, quanto costa… Uno poi impara ad amare il suo dolore piuttosto che non amarti più, come dice quella canzone degli Afterhours dell’ultimo album, e a sentire questo amore come proprio. Anche se fa male. Sono queste cose che ti danno un’idea, per quanto vaga, di quanto possa essere grande un amore. Io so di gente che si è uccisa per amore o peggio si è lasciata uccidere dall’amore stesso. Ma queste sono altre storie, non la nostra, non aver
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paura. Irrequieto mi aggiro per casa. Studio tutto ciò che mi circonda minuziosamente: il camino spento in cui da piccolo mi divertivo a bruciare i giornali vecchi, il frigorifero carico di cibo, il miele dell’anziana signora di Montebello, il mio regalo per te. Chissà se farà la muffa prima di riuscire a dartelo… Passeggio in salotto per evitare il letto, quasi svengo dal sonno ma lo so che non riuscirei a dormire, che mi rigirerei fra le lenzuola vuote, circondato dal buio della stanza. L’ho già fatto troppe volte, so che finirei col bagnare il materasso di lacrime, mi metterei a piangere fino a dimenticare per cosa stavo piangendo, mi si mozzerebbe il respiro, impazzirei al pensiero che io sto sprecando la mia vita lontano da te. Non per colpa tua, tranquilla. Come ho già detto a Milo, tu non sei la causa dei miei mali. La mia vita è sempre stata un giardino sconfinato di ortiche. A furia di brancolarci dentro, a farmi pizzicare le gambe ad ogni passo, un giorno mi è capitato di trovarci, nascosto fra i rovi, un fiore bellissimo e quel fiore eri tu. Sono stato a lungo a guardarti crescere, volevo curarti al meglio e credimi ho fatto tutto quello che mi è stato possibile. L’ho fatto perché volevo fossi felice nel mio giardino. Sapevo bene che era un giardino di ortiche ma io non ne ho altro, non ho altro da offrire. L’ho fatto, lo ammetto, perché volevo guardarti e volevo che stessi con me, perché la mia vita era migliore quando c’eri tu, perché in mezzo a tutta quella terra dolorosa tu eri l’unica cosa bella e avevo piacere che stessi lì. Ma senza di te ci sono solo ortiche, anzi peggio, ortiche e il ricordo del fiore che aveva vinto la tristezza del mio giardino, qualcosa molto simile alla morte. Perché in fondo tu sei sempre stata questo per me, una valida e convincente alternativa alla resa, all’abbandono, alla tristezza. Tu per me
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sei stata vita, sei stata capace di farmi vivere ed io sono felice di aver vissuto. Come potrei odiarti per la tua assenza? So che potresti facilmente pensarlo adesso. Io non ti ho mai dato per scontata, sapevo che un giorno avresti potuto essere lontana e se sto male adesso è solo perché non ci si prepara mai abbastanza per questi momenti. Come potrei odiare qualcuno cui devo tante cose belle e cui voglio tanto bene? Io non ti odio, Ninni, non ti odierò mai, non pensarlo neppure per sbaglio. Non ti odio e sarei in grado di vincere qualsiasi cosa, di affrontare qualsiasi situazione pur di continuare ad amarti, pur di non perderti; persino lasciarti andare. Senza neppure accorgermene mi sono steso a letto. Dalle persiane trapelano lievi le prime luci dell’aurora. Dovresti vederla in queste campagne, scendere sui prati e sulle valli e tingere di rosa la scura notte, stringere nel colore gli alberi, le chiese, i filari di vite e poi il mio cuore, nel farmi sentire come tutto passa, il giorno, il sonno degli uccelli, il refrigerio delle ore di buio che cedono all’incedere del sole. Io mi ritrovo a premere le piume del mio letto e insonne penso al giorno solitario ormai trascorso, penso agli amori senza musica, ai pianoforti scordati e alle altre varie miserie che riflettono chiaramente la loro scarsa essenza sul mondo; penso ai ragni e alle scolopendre che non vedono l’ora di prendere spazio dentro me, dentro alla mia anima o qualsiasi altra cosa ci sia in me di sensibile ai patemi e alle affezioni; penso a tutta la tenebra presa la notte passata, ai discorsi del Losco, alla sua paura di essere solo una mia invenzione, alla mia paura di essere ossessionato; penso a San Giovanni Battista morto decollato e patrono dei condannati a morte, penso che ogni cosa nasconde un lato oscuro: tu, la luna, la rocca di Montebello. Penso che in fondo mi piacciono i lati oscuri, il
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buio mi da senso di pace e da Dostoevskij a Foscolo ho notato che la cosa è condivisa. Penso ad Azzurrina e un po’ mi viene da piangere e da sperare che i fantasmi non esistano, perché credo che nulla sia più triste dell’essere un fantasma. Penso a Milo Della Vedova, penso alle sue iniziali amaranto sulla camicia azzurra “MDV” e mi rimandano a quel verso di Montale che fa “Spesso il male di vivere ho incontrato.” Io l’ho incontrato, tanto tempo fa. L’ho salutato di sfuggita, ma quando ho fatto per andarmene lui si è messo a seguirmi, a starmi appresso, non mi mollava mai. Poi sei arrivata tu. Penso a te, Ninni, penso al mare, penso ai tuoi occhi sulla spiaggia di Rimini, i tuoi occhi che sorridono sempre anche quando sei triste, penso che adesso mi addormenterò e li incontrerò nei miei sogni. Non è una possibilità, ma una cosa che accadrà di certo perché, come dicevo prima nella lettera delle nove e mezza, i sogni sono l’arma più efficace per straniarsi dalla dolorosa realtà e farci vivere, anche se solo illusoriamente e in maniera fugace, all’interno dei nostri desideri. Mi basta solo pensare intensamente a cosa vorrei e il sogno provvederà al resto! Vorrei vincessi le distanze fra noi, arrivassi qui e mi portassi via. Vorrei che mi portassi via, vorrei viaggiare insieme a te, non importa dove, purché sia via, lontano da qui. Potremmo tornare a Barcellona insieme e perderci fra le meraviglie e i mostri di Parc Guell, fra i locali e le spiagge della Barceloneta, oppure puntare verso nord, tornare nei posti dove son stato senza te e spiegarti di come tutto sia cambiato, raccontarti di com’erano le lame di Toledo, le piazze di Madrid e le vie di Pamplona infestate dai tori. Vorrei tornare a Valencia, insieme a te. Vorrei mostrarti il
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barrio gotico e le architetture fantastiche di Santiago Calatrava; vorrei mi raccontassi gli archi e i contrappesi e i tiranti e tutte le altre cose architettoniche che a me sfuggono o che non conosco. Vorrei tornassimo a Roma, vorrei illudermi ancora che quei momenti di felicità siano destinati a durare per sempre e in fondo se sono accaduti ed io posso rievocarli in qualsiasi momento, quando ne ho bisogno, posso credere siano davvero per sempre; ma riviverli sarebbe tutta un’altra cosa, questo è fuori discussione. Vorrei tornare a Firenze nel giorno più bello della mia vita, quando finalmente mi sono detto innamorato di te, ammettendolo a me stesso. Vorrei prestare più attenzione a cosa diceva l’audioguida in Santa Maria Novella, ma probabilmente torneresti ancora una volta a distrarmi con la tua semplice presenza; vorrei fare la coda per salire sulla cupola di Santa Maria del Fiore e guardare i tetti di Firenze al tramonto e fregarmene se è una cosa banale, se certa gente potrebbe dire che è banale, sarebbe comunque bellissimo ed io mi sentirei bene. Vorrei non dover correre per le sale degli Uffizi perché stanno per chiudere e vedere di sfuggita due veneri e una manciata di caravaggi; i quadri sono fatti per incantartici davanti, per sentire dentro qualcosa che va oltre i commenti dei libri di testo scolastici, qualcosa che cambia da persona a persona, qualcosa che rientra in quella categorie di cose che non si possono dire a parole, ma solo sentire. Vorrei che non fossi troppo stanca per andare fino in Ponte Vecchio, vorrei avere il coraggio per dirti “Ti amo” sull’Arno, dirti che questo momento non tornerà mai più, ed è proprio per questo che è tanto bello e tanto simile a te: è raro e irreplicabile, proprio come la curva che la tua bocca imprime sulle guance quando sorridi, il colore dei tuoi capelli, la forma delle tue mani e delle altre parti del tuo
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corpo che tutte insieme formano la tua stupenda persona. E ancora viaggiare e raggiungere Londra e i suoi metrò e bere insieme a te il migliore assenzio di Parigi per i boulevard alle pendici di Montmartre, aspettare altre albe, su altre città che non ci hanno mai visto insieme e non sanno la verità su noi due, non sanno quanto ti amo. Oppure potremmo andare a spasso per Genova, la nostra città, come abbiamo già fatto tante volte e sarebbe bello spaventarci nei saloni delle villette chiuse della riviera ligure, entrare di soppiatto nelle ville cinquecentesche delle antiche e nobili famiglie genovesi, sotto un cielo triste color zafferano o salire sulla nostra gru, la gigantesca gru che ti facevo vedere quando passavamo dal porto per andare al cinema e che poi ho scoperto si vede anche da casa mia, da lì guardare il golfo e le bufere di gabbiani e interrogarci se il loro verso sia un modo per comunicare o un continuo grido di terrore per via delle altezze vertiginose alle quali sono costretti a vivere. Vorrei venire con te ovunque tu vada. Per me non cambia niente, dal mare al deserto qualsiasi cosa mi va bene, purché ci sia anche tu. Potremmo perderci fra le miserie dell’Europa dell’est, passare indenni le cortine di ferro, ammirare il crollo ideologico dell’Unione Sovietica, in luoghi fuori dal tempo, viaggiare scortati fino in Polonia, a Varsavia, a Treblinka, lungo notti dei cristalli, per vedere se quest’olocausto c’è stato davvero. Vorrei perdermi nel Mondo Nuovo, viaggiare l’America di stato in stato per scoprire se è proprio come nei film e secondo me è così, dev’essere così. Vorrei vedere le origini di questo mondo, così antico e feroce, vorrei ci perdessimo nel Borneo, nelle foreste vergini africane e fra le oscurità precolombiane per poi scendere giù nella desolazione della Terra del Fuoco e ancora oltre, alla conquista dei ghiacci.
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O forse, più semplicemente, mi piacerebbe tornare sul Mare del Nord, rivedere Amsterdam, Haarlem, sfilare insieme a te fra le vetrine dei quartieri a luci rosse e rifiutare con gentilezza le proposte della prostituzione legalizzata. Poi salpare, magari attraversare in barca a vela il Mar Baltico, raggiungere quelle terre di cui non si sa poi molto, la Svezia, la Norvegia, l’Islanda… e passando in volo il Regno Unito, finalmente approdare a spiagge a te più congeniali, fra il rum di Cuba e la cachaça brasiliana; magari spingerci ancora oltre, oltre l’oceano e i paradisi hawaiani, raggiungere l’Oriente e le Indie in maniera molto più efficace di Colombo. Vorrei con te vedere le luci al neon di Tokyo e le altre megalopoli giapponesi, i templi buddisti cinesi e quelli indiani, per poi arrivare qui, a questa stanza, passando dal Medio Oriente, in perenne conflitto coi nostri cuori, ormai troppo agitati per tornare a casa. Anche se, mi ripeto, il luogo non è importante. Importante sarà restare in silenzio al suono della tua voce, sai quanto mi piace la tua voce... quando è bassa, so che non è salutare, ma mi piace ancora di più! Importante sarà parlare, parlarti pur restando muti, dimenticando il tempo troppo veloce, convincendoti che l’oggi potrebbe restare oggi, senza un domani e che il domani potrebbe tendere all’infinito, perché un sogno non è solo un sogno, ma un luogo dove tutto è possibile, e dirti che adesso è tempo, è tempo che sia tempo. “Tempo per cosa?” mi chiederai. “Tempo di cominciare a sognare.”
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VI È tempo che la pietra accetti di fiorire. (Paul Celan)
Soanne, …, … : … Che fine ha fatto il tempo? La luna in cielo è un cerchio morbido, gli spigoli crudeli di qualche ora fa sono scomparsi. Ore o giorni? Che giorno è oggi. Presumo che nei sogni l’orologio non si dia la pena di girare consuetamente e spetti a noi adattarci. Qualche attimo fa sei arrivata. Ti aspettavo, sai? Sì che lo sai... Tutto sembrava sospeso per un istante… …una specie di musica, o meglio, qualcosa che assomigliava a musica e poi… …poi qualcosa come… una luce creava le ombre degli oggetti intorno a me… …le muoveva a suo piacimento, a destra e a sinistra, allungandole… …eri tu. Eri vestita di bianco e colori, come quando ti ho conosciuta, non come negli ultimi tempi che indossi abiti neri perché sei sempre in divisa da lavoro, dici. Vero, ma è vero anche che hai iniziato a comprarli, a usare il nero, mentre una volta lo evitavi come la peste. La peste nera appunto. Non eri più bella di quello che realmente sei. Ti avrei pure immaginato più bella, ma sinceramente mi è impossibile immaginare qualcosa più bello di te, e mi vanto di avere una 98
certa fantasia, sia chiaro. Bionda senza averne l’aria, proprio come sei tu, i tuoi occhi erano i tuoi occhi, i tuoi capelli lunghi erano i tuoi capelli lunghi, la forma dei fianchi, la pancia, le gambe, le mani, solo che era tutto un po’ più luminoso ed io ti ho detto: -Ciao Ninni! Potresti farti un po’ meno luminosa? Sai, ho le pupille aperte dal buio, devo ancora abituarmi… mi fanno male gli occhi. -Ciao Ri!- mi hai risposto: -Mi farò meno luminosa fra un attimo; non ho scelto io la luce, è stata la luce a scegliere me. Ma se ne andrà a breve, tranquillo, deve solo sciogliersi dal mio corpo per illuminare questo mondo buio in cui hai vissuto fino a questo momento. E mentre dicevi così la luce si staccava da te, spalancava le finestre e gli scuri e usciva dalla stanza, avvolgendo la campagna d’intorno, gli orti, le rare case, le foreste e i ruscelli. Non era giorno ma notte luminosa, così difficile da immaginare se non la si vede. Il cielo era sempre scuro, ma meno scuro, e le piante emanavano una luce del tutto inedita, la tua luce. C’erano riflessi viola e verdi sui prati e i campi brillavano screziati di porpora, come affollati da migliaia di lanterne cinesi tremolanti, desideri che non diventeranno realtà. -Alzati dal letto su!- mi hai detto senza troppi indugi. Non un fiato e mi alzo, scoprendo d’essere già vestito per uscire. -Quando hai cominciato ad andare a letto vestito? -Io proprio non lo so. Credevo d’essermi messo il pigiama. Ti scappa da ridere ed io sono un po’ agitato. Sono sempre agitato quando ti rivedo dopo una settimana d’assenza magari, ma non mi era mai capitato di rivederti dopo così tanto. Sono parecchio agitato quindi.
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-Dai usciamo, andiamo a fare una passeggiata.- mi dici ed io in fondo non aspettavo altro. Fuori dalla porta di casa mia, nel giardino, nella campagna incantata illuminata dalla tua luce. Il plenilunio è ben visibile oltre la staccionata. -Oltre la staccionata?- mi chiedi. -Il mondo intero, Ni. Dove vorresti andare? -Vorrei mi portassi in un luogo speciale, un posto che conosci solo tu. -E New York? Vienna? Il Cairo? -Non m’interessano. Vorrei che mi facessi vedere qualcosa di te che non conosco. Vorrei mi portassi in un posto in cui sei già stato molte volte e dove non siamo stati mai insieme. Ci penso un po’ su. -Laggiù in fondo all’ultimo campo di grano visibile c’è un bosco in cui da piccolo giocavo all’esploratore, il Bosco delle Querce. -Intendevo proprio qualcosa del genere! Vorrei andare nel bosco dove giocavi da piccolo. Vorrei che rivivessimo ancora quelle avventure… -Ma non siamo troppo grandi per essere piccoli? -Non si è mai troppo grandi. Passeggiamo nel giardino, oltrepassando le altalene che mio nonno ha appeso sul ramo di un albero per far giocare le mie cugine; entriamo nella strada e nei campi pieni di tarassachi fluorescenti. -Ti è piaciuto quello che ho scritto finora, Ni? -Sì, ma dovevi proprio metterci tutte quelle nostalgie? -La nostalgia serve per ricordarci da dove veniamo e come siamo arrivati fin qua. E poi senza nostalgia non avrei potuto evocare i sentimenti dei bei momenti passati e scriverne, senza nostalgia non saremmo neppure nel sogno adesso.
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-Capisco.- ed io so che tu capisci veramente, non come gli altri che ti dicono “capisco” ma in realtà non hanno capito niente. Nel chiarore della notte magica raggiungiamo le soglie del Bosco delle Querce, una selva profonda e oscura, qualcosa che neanche la tua luce può illuminare. -Ecco, questo è il Bosco delle Querce.- ti dico arrivati davanti all’imponente muro vegetale che ne delimita i confini. -E tu giocavi qua dentro da piccolo? Ma non è pericoloso per un bambino? -Mica ci andavo da solo! Mio papà mi accompagnava sempre e anche mio nonno a volte. -Beh, sarà meglio fare un po’ di luce. Mi sbagliavo. È bastato un tuo gesto, il movimento della tua mano in direzione delle fronde, per vedere i bagliori che affollavano i campi fino a un attimo prima lasciare questi alla tenebra per appendersi ai rami più alti degli alberi. Camminiamo in un tempio naturale vasto come la notte e la luce, perché di notte e di luce è formato: di me e di te. Non c’è un altro suono oltre a quello dei nostri passi, ci guardiamo intorno curiosi. Tu non sei mai stata qui ed io nemmeno, quantomeno non con questa atmosfera. Questa atmosfera, la tua luce, cambia tutto; è sempre stato così. Ogni albero è una quercia. Ogni quercia ha un cuore di legno. Ogni cuore di legno è scheggiato. Ogni scheggia è illuminata dai mille bagliori del tuo corpo; credo preferiscano il sangue alla clorofilla (come tutte le schegge sono solite preferire, del resto) e nel cercare di pungerci si librano nell’aria stordite dai raggi che emanano i rami. È una pioggia di aghi di quercia (benché la quercia sia
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un albero latifoglie) che non può farci del male perché siamo fatti di materiale onirico; entrando a contatto con la tua luce s’indora creando quell’atmosfera vaga e magica che sono solito trovare unicamente nei miei sogni e nei dipinti di William Turner. Tu mi chiedi se le piante fanno sempre così. Io ti rispondo che comincio a non essere sicuro di trovarmi ancora nel Bosco delle Querce in cui giocavo da bambino. -Ovunque siamo, è bellissimo qui. Grazie per avermici portata.- mi dici ruotando su te stessa senza mai distogliere lo sguardo dalla volta silvestre. -Questo non è niente Ninni, solo l’anticamera del sogno! -Ah sì? -Certo! Questo è solo il primo cerchio del meraviglioso inferno che grava dentro me. Non verremo mica fermarci qua, spero. C’è ben altro più in fondo. -Cosa? Cosa c’è? -Dai non insistere! Sai quanto è difficile per me non rovinarti le sorprese. -Dimmi almeno se fa paura. Avrò paura? -Nnnoo…- rispondo titubante, ma a quanto pare è sufficiente per farti risolvere. -Allora andiamo!- mi dici, e mentre camminiamo in direzione della Casa dei Fantasmi le luci si sciolgono dai nodi del legno e ci seguono per rischiarare il sentiero altrimenti avvolto nel buio. Ci seguiranno sempre, ovunque andremo, perciò non ne parlerò più. Lungo il Sentiero delle More vuoi fermarti a mangiare qualcosa. Lamenti di avere fame proprio come succedeva nella realtà, come sulle scalinate del Tribunale di Firenze dietro Piazza della Signoria. Ricordo che allora mangiammo una pizza, in un ristorante non lontano, ma qui ci sono solo more,
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dovremo accontentarci. Nessuno eccetto te passa per i sentieri dei miei sogni, perciò anche le more più accessibili non sono state ancora raccolte e non saremo costretti a spingerci sui rovi per afferrare le più grandi e succose. Ad oggi sei la persona che ho sognato di più. -Evita quelle rosse, Ni. -Non sono mica nata ieri! Lo so bene. Mi pento di non aver trascritto tutti i sogni che ho fatto in cui c’eri, la maggior parte di questi li ho dimenticati. Certo non dimenticherò mai quello del parrucchiere notturno, dell’oceano d’asfalto, del palazzo carminio, dei trampolieri mascherati, del letto orientale, della danza degli eunuchi, del posacenere e della rosa del deserto e tu distesa a letto nel tuo vestito ricamato di bronzo… Come finisce la storia lo sai, ti ho raccontato questo sogno dettagliatamente rubandoti un’ora di vita, ma almeno questo è servito a non dimenticarlo come gli altri. Come finisce la storia lo sai, ma non è importante, questo è un altro sogno, solo un altro sogno. Hai mangiato tutte le more a portata di mano e hai le labbra blu. Le pulisco con una manica del mio maglione. Mi piacciono le tue labbra, mi piacciono color albicocca, blu mi ricordavano quelle di Ofelia nel quadro di un pittore di cui ho scordato il nome. Ofelia quella morta annegata, non so se hai presente di chi parlo. In ogni caso non ne sei sazia. -Tienimi per i fianchi- mi dici: -voglio raggiungere quelle che stanno più in alto. -Ma così rischi di finire nei rovi! -Non se mi tieni tu. -E se dovessi lasciarti? -So che non lo farai.
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So che non lo farò. Ti afferro la vita e ti sporgi sulle spine cattive dalle quali nascono i frutti buonissimi delle more. Penso che pure quelli dell’amore, e delle cose dolci in generale, nascano spesso fra le spine, nei momenti dolorosi e che forse è proprio questo motivo, proprio per questo contrasto che noi li sentiamo più dolci, forse ancor più di quello che sono realmente. Ti allunghi oltre ogni limite, ora sembra che nessuna mora possa più sfuggirti. Ne fai una bella manciata. Torni da me e le assaggiamo. -Hai ragione! Sono davvero più dolci!- mi dici. -Come fai a sapere cosa stavo pensando? -Siamo nel tuo sogno, ricordi? Qui ogni cosa parla di te. Potremmo addirittura smettere di parlare ed io capirei esattamente quello che vuoi dirmi. Anzi, se mi concentrassi solo sul tuo pensiero capirei anche quello che mi vuoi tacere, capirei molto di più. -Non ce n’è bisogno. Io non potrei mai tacerti nulla, ho sempre avuto bisogno di dirti tutto quello che mi succedeva ed essere sincero. Ho sempre voluto che mi conoscessi. Poi sei stata tu a insegnarmi quanto sia importante dire sempre la verità, specialmente alle persone a alle quali si vuol bene… -Davvero? Mi hai sempre detto tutto? Mi hai sempre detto la verità? Ne sei proprio sicuro? -Sì. -Allora vuol dire che hai la memoria corta. L’aria si fa più cupa. La luce si affievolisce e le ombre delle querce si stagliano lunghissime sul sentiero per raggiungere il mio corpo. -Dai Ninni, non dire così. So di non essere stato perfetto, ma non mi sembra il momento adatto per parlare di questo. Si rischia di rovinare tutto. -Potevi non tirare fuori l’argomento.
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-Non penso mai alle volte in cui sono stato in torto con te. Sono ricordi troppo dolorosi, tendo a rimuoverli. Per questo ho detto di essere sempre stato onesto e sincero. -In ogni caso è acqua passata. Mi sorridi come non ti ho mai visto sorridermi prima e il mondo intorno si fa nuovamente luminoso. -Sì credo proprio sia acqua passata.- dico, mentre scopro di non averti ancora lasciato i fianchi. Il sentiero prosegue fiancheggiato dai rovi. Conto 222 passi prima di scorgere la Casa dei Fantasmi sulla nostra sinistra, in un punto dove la vegetazione sembra infittirsi; ma in realtà si dirada, è solo un effetto ottico dovuto a una diminuzione di luce in quel luogo. Io non ricordo se la Casa dei Fantasmi c’è sempre stata, anche quando venivo in questo bosco da piccolo per giocare, ma di certo l’ho sognata così tante volte da convincermi della sua esistenza alla fine. E se tu vai nel Bosco delle Querce, non questo, quello che sta nella realtà, nel punto in cui la colloco idealmente, in cui l’ho sognata, non vedrai altro che erba e alberi e cespugli di lavanda. Ma qui, nel Bosco delle Querce che sta dentro me, i fantasmi hanno sempre preteso un loro spazio; così li ho confinati qui. Se c’è una cosa che non manca dentro me sono i fantasmi. -Ti va di entrare?- ti chiedo. -Certo! Le vecchie case abbandonate sono ancora in piedi in modo che la gente ci possa andare dentro, le tengono lì apposta. Non c’è altra spiegazione, altrimenti le abbatterebbero. E a quel punto noi dove andremmo a spaventarci quando ne abbiamo voglia? Tu mi risponderai “Al cinema! A vedere i film horror!”, ma per noi gente di città è più facile: qui il cinema più vicino, il
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Gambrinus appunto, ha un solo film in programmazione e, per abbracciare il maggior numero di utenze, quasi mai è un horror. Ci si deve dunque arrangiare con quel che si ha, con la fantasia e l’immaginazione, ed io evidentemente l’ho fatto, quantomeno quand’ero bambino, inventandomi questa casa in legno, una catapecchia a dirla tutta, sperduta in mezzo al bosco, con la sua veranda tetra che avrò senz’altro rubato a qualche splatter americano e il suo piano sopraelevato con due finestre in facciata e le sue scale scricchiolanti. Saliamo i pochi gradini che ci dividono dalla veranda; la porta, manco a dirlo, si spalanca da sé. Nella buia anticamera ti stringi a me, facevi così quando al cinema avevi paura. Io, d’altra parte, non riesco a guardarmi attorno, non riesco a togliermi le mani dagli occhi e così brancoliamo come due ciechi nel deserto. -Guidami tu, Ninni. -Non è facile, ho paura. Metti che c’è qualche vagabondo violento che abita qui… -Nei miei sogni? Ne dubito. -Metti che c’è! -Va bene, allora facciamo che da quelli ti proteggo io, basta che tu mi protegga dai fantasmi e dai mostri. -Ma come faccio a proteggerti dai fantasmi? A parte che non ne ho ancora visto mezzo qua dentro. -Io è un bel po’ che non vedo più niente di niente. -Dai Ri, togliti quelle mani dagli occhi. Non hai più sette anni e comunque qui non ci sono fantasmi. Mi hai convinto, non posso non fidarmi di te. Lentamente mi apro uno spiraglio di luce fra le dita. Siamo arrivati nel salotto e l’ambiente intorno è davvero tetro: ragnatele grandi come lenzuoli, vecchi lampadari esplosi, quadri senza tela… Una polvere grigio bluastra ricopre ogni cosa tingendola del suo colore: i mobili, le finestre, la carta da
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parati, te… Ancora stretta al mio braccio sinistro non mi guardi, sei troppo impegnata a far guizzare lo sguardo in giro per la stanza, ma vedo distintamente le tue mani pallide, quasi incorporee e i tuoi capelli d’un biondo sbiadito. Pochissimo colore su di te e polvere grigia. Non ho neppure il tempo di spaventarmi. Mi guardi, dici qualcosa che io non riesco a sentire, non so se sei tu a parlare sempre più flebilmente o se sono io ad aver chiuso le orecchie per la paura, sta di fatto che… -Dio, Ninni, i tuoi occhi! Che fine hanno fatto i tuoi occhi?! -Come sarebbe a dire? Sono sempre qui, nelle mie orbite. -Sì, ma sono bianchi! Bianchi come la nebbia, i tuoi occhi sono pieni di nebbia, Ni! -Cosa dici?! -Sì, dove c’erano le iridi e le pupille, adesso non c’è più niente! Sei diventata un fantasma! Non sono spaventato, ma ho paura. Ho paura che potresti non tornare più come prima. Ho paura che tu possa non tornare più. Riuscirei ad amarti lo stesso? Beh, credo di sì. Ma quanto può essere giusto e sano amare un fantasma? -Io non sono un fantasma!- ribatti piccata. -Guarda! Guardati le mani… A questo punto devo dar ragione al Losco. -A chi? -No, nessuno, un tizio che ho incontrato stanotte, prima di incontrare te… Nella realtà. -Quale realtà? -La realtà vera. -Perché esiste una realtà finta? Questa sarebbe la realtà finta? -Beh, credo sia così. -Invece ti sbagli. Anche questa realtà è vera. Anzi, è ancora più vera di quanto accade nella realtà che tu dici vera, perché qui hanno sede immagini, situazioni, pulsioni e istinti che
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derivano direttamente dai tuoi sentimenti e che non sono stati filtrati dalla coscienza. Niente è più vero di ciò che vedrai qui. -Me lo sta dicendo il fantasma di Camilla. Come può essere vero quello che sta accadendo? -Io non sono un fantasma. Io sono Camilla e sono reale. Sei tu che mi vedi, mi senti adesso come un fantasma, perché credi sia lontana. -No, tu sei la proiezione onirica di un concetto espressomi da un bruttissimo bigliettaio del Montefeltro: “Camilla non esiste più se non nella tua testa, di lei non è rimasto che il suo fantasma.” -Ma Richi, questo non è vero. Io esisto, io sono reale… Sei tu che ti fai influenzare dalle idee degli altri, per questo mi vedi così. Non c’è niente di strano nelle mie mani, sono le mie mani, quelle che tu amavi tanto accarezzare, le mie mani alle quali hai regalato tanti anelli… Perché ti fidi di tutti, dai retta a tutti, ma non riesci a fidarti di me? -Perché non sei reale! È come quando giravamo per i mobilifici e i negozi d’arredamento per cercare il materasso per il tuo letto e tutti ci scambiavano per fidanzati. Sembrava così ma non era vero, così come tu sembri Camilla ma non sei vera. Fosse la vera Camilla a dirmi queste cose ci crederei pure, ma non è… Neppure faccio in tempo a finire la frase: i terremoti non aspettano. La vecchia casa prende a ondeggiare, io devo portarti via. Afferro il tuo fantasma per la mano, o almeno ci provo. Il mio corpo ormai ti trapassa, stai diventando bianca, luminosa come quando ti ho incontrato. E sento che questo terremoto non passerà senza portarsi via te, questo bosco e tutto il mondo che abbiamo creato insieme: mi sveglierò. La tua voce (non so nemmeno più da dove provenga) prova un’ultima supplica: -Non capisci? Come puoi lasciare che
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siano gli altri a decidere per te cos’è reale e cosa no? Sei tu a scegliere, Richi. Usa i sentimenti per decidere, sono amici onesti e sinceri, dicono sempre la verità. Faccio un tentativo disperato. Provo a portare alla mente i momenti in cui c’eri, in cui eri con me con tutto il corpo, i momenti di silenzio, di studio, di contatto, i momenti in cui restavo a guardarti per ore come per riempirmi gli occhi il più possibile della tua immagine perché ne avrei poi avuto bisogno, avrei avuto la necessità di riportarti alla memoria il più precisamente possibile. Provo a portare alle mani quella sensazione di pace e tempesta che si scatenava in me quando toccavo la pelle morbida della tua pancia, della schiena. Oggi m’imbarazza un po’ scriverti cose del genere, mi sento stupido ripensando agli abissi che si sono creati fra noi. Ma io in quel momento ero in contatto diretto con la cosa più bella del mondo, “sto toccando la cosa più bella del mondo”, ecco cosa pensavo. Ecco cosa penso adesso nel cercare di afferrare la tua mano bianca, inconsistente. E a furia di pensarlo l’afferro davvero. -Hai visto?- mi dici: -È bastato crederci, è bastato fidarsi e lottare e alla fine sei riuscito a prendere di nuovo la mia mano. -Ci sono riuscito perché ho ripensato ai bei momenti passati quando tu eri con me, quando tu eri reale. Non sono certo persuaso che tu lo sia anche in un sogno. La terra smette di tremare, il terremoto non è valso a far crollare la Casa dei Fantasmi. Resta in piedi e noi l’abbandoniamo senza esserci ancora lasciati la mano. Non so se essere contento che esista ancora una Casa dei Fantasmi. Certo serve a contenere tutte le delusioni del mio passato, tutto ciò che ho amato e perso, ma che non ho avuto il cuore di cancellare; tutto ciò che non ha più spazio nella realtà, ma che mi sarebbe mancato troppo eliminare definitivamente. Così nascono i fantasmi. Sarebbe bello non
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doverci privare di nessuna delle persone alle quali abbiamo voluto bene. Ma le persone scappano, Dio solo sa perché… Scappano sempre. Per poco non diventavi anche tu un fantasma stanotte; ma il peggio è passato, sono riuscito a salvarti, almeno per il momento
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La Casa dei Fantasmi come la ricordo nei miei sogni.
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VII Come accade per i fiori, nessun profumo è come il mio; la parte migliore di me resta al mio interno. Seguendo il mio esempio, coloro i quali in questo mondo vorrebbero sorgere e brillare, dovrebbero cercare la propria eccellenza interiore per vincere. (Charles Leland)
…, …, … : … Non posso più dire di trovarmi a Soanne. Forse il mio corpo si trova lì, addormentato, scomposto, disperato e solo, ma il mio Es, come lo chiamerebbe Freud, la parte patetica e sentimentale in cui credo ognuno di noi debba identificarsi, ebbene questa parte è qui. Dove? Non ne ho la minima idea. In un posto dentro me suppongo; ma posti dentro me ce ne sono così tanti che sembrano infiniti, non saprei davvero dire quale di preciso. In fondo non conta neanche più, ciò che conta è che ci sia anche tu, ancora tu, la tua immagine onirica quantomeno, la tua idea. -Io non sono un’idea. Io sono reale.- continui a ripetermi. Io non rispondo neanche più. Ti accarezzo i capelli, il viso, le mani, ora le sento di nuovo. Non m’importa se esagero, non riesco a fermarmi per la frenesia. Quando ne avrai abbastanza ti ritrarrai da te e spero mi perdonerai se non sono riuscito a darmi freno. Seguiamo a passeggiare sul Sentiero delle More e tu mi dici: -Vorrei fare un giro in Vespa adesso. -Un giro in Vespa? Ma chissà dov’è la Vespa… neanche so dove siamo noi figuriamoci se riesco a pensare dove può essere la Vespa.
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-Siamo in un sogno e la Vespa comparirà ovunque tu la immaginerai! Quasi non fai in tempo a finire la frase, da un cespuglio di pitosforo vedo spuntare un parafango argentato. È la mia Vespa! Ecco, il pitosforo è un’altra cosa che mi ricorda te, il profumo del pitosforo per l’esattezza. Casa tua ne è circondata, le vie d’intorno non fioriscono d’altro d’estate. Fosti tu a farmelo notare in una serata di sole, di ritorno da una qualche gita in riviera, mi pare. Sì, dev’essere stata per forza estate, altrimenti non avrei potuto sentirne l’odore, associarlo a quello dei pini marittimi e volare, in questo sogno, insieme a te in una pineta a me nota. -Perché ci hai portati qui?- mi chiedi. -Non… Non l’ho fatto apposta, credimi. Siamo tornati ancora più indietro, qui avevo quattro anni, quando ero in questa pineta avevo quattro anni, ti rendi conto?! Mi sento bene e tu lo sai, lo senti, per questo sorridi. -Ma dove siamo, Ri? -Siamo in Sardegna ed io ho quattro anni. Da quella parte c’è casa nostra. Ti piacerebbe un sacco, è un villaggio stupendo che ricorda molto quelli di Santorini, nelle Cicladi: strutture semplici, primitive, terrazze, scale in cotto, tutto rigorosamente bianco. Dovresti vedere come si staglia nel blu del cielo estivo, dovresti proprio vederlo Ninni, dovresti vederlo coi tuoi occhi. Così poi io potrei vedere i tuoi occhi che lo vedono e a quel punto il blu del cielo non si staglierebbe più sopra niente. Il blu dei tuoi occhi che guardano la mia infanzia avrebbe la forza di oscurare il cielo d’estate. -Dai, smettila…- mi rimproveri ridendo e si vede che ti piacciono le mie parole. -Sarebbe stato bellissimo se ci fossi sempre stata; sarebbe bellissimo se ci fossi sempre.
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Io ti amo e tu lo sai. Si vede da come pieghi la testa da un lato, si vede dalla dolcezza che usi nel guardarmi. -Io ci sono sempre stata, Ri. Io ci sono sempre. -Non è vero, Ni… Ci sono stati momenti in cui avevo bisogno di te e tu non c’eri. Io non te ne farò mai una colpa, mi sento abbastanza cosciente da capire che… Insomma, neppure adesso ci sei ed io sto rischiando di perdere il mio amore per questo. -Io sono qua. Non mi vedi? Sono qui con te, ti sto parlando. -Non è la stessa cosa. -Ma come fai a non accorgerti che ci sono sempre? Anche nei momenti peggiori, sono lì con te. Pensaci, Richi: quand’è stata l’ultima volta che mi hai sognato? -Che domande: ieri notte. -E la prima volta? Te la ricordi? -Eh, no… Io ti sogno da sempre, mi pare. Ti sogno da quando ero piccolo, da quando ho iniziato a sognare, credo. -Ecco, appunto. Tu già sognavi di me quand’eri qui in Sardegna e avevi quattro anni. Capisci? -Sì, ma nei momenti di veglia? Nella realtà? Tu non c’eri. -Ma sì, ma sì che c’ero. Ci sono sempre Ri. Sai cosa c’è oltre la pineta?- mi chiedi indicando gli alberi. -Sì, certo che lo so. -E quindi? Forse non è la prova più lampante che io ci sono sempre e che ci sono sempre stata? Ho un moto di pianto. Non so perché, non sono triste… è commozione. Oltre la pineta c’è il mare. Solo adesso capisco perché da bambino mi piaceva tanto guardarlo ore dalla spiaggia, ore prima di entrarci dentro e cosa cercavo fra le onde e la schiuma. Cercavo i tuoi occhi Ninni, gli occhi del mare. E probabilmente ero ancora più bravo a trovarli, i bambini sono più bravi in queste cose; solo una volta trovatoli potevo tuffarmi dentro te. Tu ci sei sempre
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stata, ero io che ancora non ti conoscevo. Ritorniamo sul Sentiero delle More, lo percorriamo adesso sfrecciando in Vespa ed io mi chiedo se all’interno dei sogni sia obbligatorio l’uso del casco oppure no. “Non è possibile farsi male in un sogno”, mi risolvo, “il casco è inutile.” Sfilano sul nostro fianco sinistro querce colossali le cui fronde quasi sembrano perdersi nel blu scuro del cielo, desiderose di toccare le stelle. -Sono gli alberi più alti del mondo questi?- mi chiedi. -Non ne ho idea. Di certo sono i più alti di questo mondo, poiché io non ne ho mai visti di più alti nella realtà. -Ah, capisco. Quindi non ne sai immaginare di più alti? -Beh sì, saprei farlo. Ma che motivo ne avrei? Questo non sono abbastanza alti per te? -Oh, sì sì. Era così per dire… -Beh, se non sono abbastanza alti, sappi che questi in particolare, questi che stiamo passando adesso, non saranno i più alti che vedrai stanotte. -Ah sì? Ce ne sono di più alti? -Dai non farmi parlare ancora! Sai quanto sia facile per me rovinare le sorprese! -Ah sarà una sorpresa! Scusa, allora non ne parliamo più. Il sentiero a un tratto s’interrompe, sfocia dentro a una radura pettinata dal vento, alle cui soglie parcheggio la Vespa. I tuoi capelli hanno riflessi argentati sotto la luce della luna, gli stessi riflessi che bagnano il prato ondeggiante ed io penso che in fondo ci sta, perché i fili d’erba sono i capelli della Terra. Al centro del prato sta un albero morto, scheletrico, solitario. Non è una quercia, sembra più l’albero degli impiccati di quel film western americano del ’59 dal titolo appunto L’Albero degli Impiccati, oppure quello di Sleepy Hollow o ancora
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quello di Nightmare Before Christmas, il film di animazione che non volevi vedere a casa mia perché dicevi che da piccola non ti piacevano questi film per bambini dalle atmosfere nere e cupe, però poi l’abbiamo visto e ti è piaciuto un sacco. Anche perché era un film che ho scelto io e quindi non poteva essere brutto. Insomma, quest’albero al centro della radura è abbastanza spaventoso, morto e secco al punto giusto, e mio nonno una volta mi ha detto che nelle notti di luna ci vanno le streghe a fare i sabba, perciò è di sicuro un noce. Non sto parlando del sabba durante il quale le streghe invocano il Diavolo e mangiano i bambini e fanno orge violente con gli animali, le streghe di queste parti non fanno niente del genere. Il sabba che fanno qui è un rito neopagano dove tutte le streghe dei dintorni s’incontrano fra loro, con Diana, la dea con la quale è identificata la luna e, sì, Lucifero, ma qui non è il dio infernale, piuttosto il dio della luce. La maggior parte di loro proviene dalla Toscana. Si radunano sotto quest’albero in notti come questa e cominciano a officiare i loro riti magici e danzano e cantano e creano un legame fortissimo con la natura e con le sue divinità. Una mattina ne ho vista una, ho visto una strega. Davvero, giuro! Non stavo sognando, ero nella realtà e sono sceso fino a questa parte di bosco. Si dev’essere attardata nel risvegliarsi dopo il sabba e così le altre l’hanno abbandonata. Solitaria si aggirava per la radura accarezzando i fili d’erba alti e robusti e tirandosi su la gonna del vestito bianco. Ah, non ti ho detto che qui le streghe sono sempre vestite di bianco. E non sono brutte col cappello e i bitorzoli e il nasone, sono bellissime, sembrano quasi delle vestali o delle sacerdotesse di Venere, delle statue greche insomma. I panneggi le coprono interamente, portano fiori tra i capelli e hanno la
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pelle delle braccia e del viso bianca, liscissima, perfetta, perché possono uscire solo di notte. Quando mi ha visto è subito scappata via, non possono essere viste dagli uomini, sono tipo le ninfe della mitologia greca, appena ti scoprono spiarle si danno alla fuga e guai rincorrerle, si potrebbero trasformare in qualche pianta tipo Clizia o Dafne o, peggio, trasformare te. -Ma cosa fanno durante il sabba, oltre a cantare e ballare?- mi chiedi, mentre già stiamo attraversando la radura diretti verso l’Albero delle Streghe. -Beh, io non ne ho idea. Ho iniziato a leggere l’Aradia ma non l’ho mai finito e non ricordo.- L’Aradia è il Vangelo delle Streghe, scritto a Firenze nel 1886 da uno studioso americano che si chiamava Charles Leland: -Se vuoi stanotte possiamo scoprirlo insieme. Guarda laggiù. Dalla macchia vegetale del bosco che affaccia sulla radura, un muoversi di stoffa ha attirato la mia attenzione. Una strega avanza fra gli steli con aria assorta e con una tregenda al seguito. Sono così numerose che ho difficoltà a contarle, saranno poco meno di un centinaio, tutte vestite di bianco, stupende. Si distinguono fra loro solo dal tipo di fiori che portano tra i capelli. Arrivate al centro della radura si siedono tutte in cerchio attorno all’albero, un cerchio grandissimo; tutte tranne una, quella che guidava il corteo, che resta in piedi e comincia a parlare in una lingua stranissima che ricorda molto il greco. -Seguimi, stai giù bassa, non facciamoci vedere mentre ci avviciniamo.- ti dico e uno a fianco all’altra strisciamo fino a raggiungere una strega che compone il cerchio. Adesso si tengono tutte per mano e continuano con la cerimonia cantando sempre in quella lingua assurda. Faccio per allungare la mia, voglio toccarne una, voglio chiedere, saperne di più sul rituale, ma tu mi fermi il braccio.
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L’Albero delle Streghe.
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-Sei matto?- mi dici: -Non interromperai mica un sabba per toglierti una curiosità. Non si fanno queste cose, non è rispettoso. Devi aspettare che finiscano. Hai ragione, a volte non rifletto bene sul da farsi. Seguiamo interessati il canto finché non s’interrompe e le streghe si alzano. Pochi gesti con le braccia da parte della gran sacerdotessa e una musica si diffonde nell’aria, qualcosa a me inedito ma allo stesso tempo familiare. Ricorda l’Adagio di Albinoni, ma ha anche qualcosa del Trillo del Diavolo di Tartini e in alcuni tratti della Patetica di Beethoven. Capisco ben presto che a suonare non sono strumenti, ma gli elementi naturali. Il vento passando per i tronchi cavi degli alberi e delle canne produce un suono molto simile a quello dei legni a fiato, i fili di ragno sfregati dai crini d’erba intrecciati diffondono note di violino e contrabbasso ed altri archi a seconda dello spessore delle ragnatele. E così via: i timpani, gli ottoni, sono tutti perfettamente simulati dalla natura che spande la sua musica nell’aria. Le streghe prendono a ballare intorno all’albero e noi restiamo acquattati nell’erba a osservare la loro danza sinuosa, chiedendoci che significato abbia, dove vogliano andare a parare. A un tratto, uscite da un volteggio, scuotono le teste lasciando cadere in terra i fiori che le coronavano; questi, appena toccato il suolo, danno frutto, germogliano a nuova vita facendo esplodere la radura di decine di colori, dal bianco del giglio e dell’ipomea all’orchidea nera, dal viola delle campanule e delle genziane al rosso dei papaveri e delle gerbere, passando per tulipani e margherite. Le streghe smettono di ballare. È notte, indiscutibilmente, eppure la radura fiorita è completamente schiusa, le corolle emanano profumi intensissimi; l’aria si fa pesante, ma non è spiacevole.
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Sto per chiederti per quale motivo, secondo te, i fiori si comportano come se fossimo in pieno giorno, se è per influsso di non so quale magia o altro, quando noto che qualcuno ci sta osservando. Accanto a noi, infatti, sono cresciuti un mucchio di girasoli e mi accorgo che tutti rivolgono il capolino (così si chiama il fiore del girasole) verso di noi. Di questo devono essersi accorte anche le streghe: -Alzatevi pure e venite da me, al centro del cerchio.- fa la strega che sta al centro del cerchio. Comincia a prendermi la paura. Saranno pure streghe buone, ma sono pur sempre streghe e noi le stavamo spiando. Possono trasformarci in qualche animale schifoso! Oddio, diventerò certo una scolopendra! Poi mi ricordo che è soltanto un sogno e mi tranquillizzo. Entriamo in silenzio nel cerchio di streghe. Al nostro passaggio i girasoli ruotano e a me va di fare un esperimento: -Vai avanti tu Ni, devo vedere una cosa.- ti dico. Proprio come sospettavo. Tu avanzi in direzione dell’albero e i girasoli si disinteressano di me. Sei tu quella che seguono con lo sguardo… Non mi sorprende, conosco già bene la tua natura e adesso capisco anche per quale motivo i fiori sono aperti anche a quest’ora della notte. Anche tu te ne accorgi, per questo ti giri verso di me e ridi. Vorrei dirti quanto ti amo, adesso, qui, ma ci sono davvero troppe persone. È una cosa privata, non amo dare spettacolo, lo terrò per me. -Non aver paura, vieni qui.- insiste la capo strega rivolgendosi a me. -No, non è che ho paura, è che dovevo vedere una cosa. Arrivo, arrivo. Con uno scatto sono di nuovo al tuo fianco e oramai il centro del cerchio è raggiunto.
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-Camilla, Riccardo, io mi chiamo Selene… -Ah, allora non sei una strega! Sei proprio la dea… -Riccardo! La signora stava parlando, non fare il maleducato! Non interrompere!- mi rimproveri e come al solito hai ragione. -Sì, sono la dea del plenilunio e queste non sono streghe, sono le mie sacerdotesse. -A me sembrano proprio streghe.- ti dico a bassa voce. Non ammetterei mai che mi sono sbagliato, neanche fosse una dea a farmelo notare. -In questa notte- continua Selene: -ci siamo riunite sotto il noce perché sapevamo che sareste arrivati. -E perché mai avreste dovuto darvi tanta pena?- chiedo a Selene. -Abbiamo visto da una posizione privilegiata lo svolgersi dei fatti e crediamo meritiate di vivere un amore. Un amore vero, intendo, diciamo… condiviso! -Quali fatti?- chiedi a Selene. -Tutto, Camilla, tutto quello che è successo dal giorno in cui vi siete conosciuti a questo e anche prima, quando tu non esistevi ancora per lui e già credeva in te, credeva saresti arrivata, senza conoscerti, aspettando che entrassi nella sua vita. Questo ragazzo ti ama davvero, di un amore grande come questa notte. -E quale sarebbe questa posizione privilegiata dalla quale mi avete spiato? -Che domande, Riccardo… Da qui, da questo luogo dentro di te che puoi visitare solamente attraverso i tuoi sogni. Dal tuo cuore, Riccardo. -E quindi sapete tutto di me? -Tutto. Sappiamo che meriti un amore così grande. È già tutto pronto per la cerimonia. Selene batte le mani e le sacerdotesse cominciano a muoversi
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freneticamente. Di fiore in fiore passano frugando dentro le corolle, strappando petali e gambi; una scena straziante. -Ferme!- grido: -Cosa state facendo?! Non si rovinano così i giardini dei miei sogni! Selene si muove verso me e mi sussurra all’orecchio in modo che tu non possa sentire: -Oh, non possono fermarsi. È necessario raccogliere gli estratti dei fiori per sintetizzare il filtro d’amore. Lo faremo bere a Camilla, sappiamo tutti che… Beh, non si può mica sempre inseguire in amore, ti meriti una pausa, meriti di essere finalmente corrisposto. A queste parole inorridisco. E poi dicevano di non essere streghe! Certo, sacerdotesse della luna che preparano filtri d’amore… Io le chiamo streghe! Quasi peggio di mangiare bambini e fare orge con Satana. Ti prendo per mano e ti trascino via dal cerchio, dobbiamo andarcene da questa radura. -Che fai Richi? Non restiamo per la cerimonia?- mi chiedi ed io neanche ho l’attenzione per risponderti tanto sono incazzato. Non c’è tempo dobbiamo andarcene da qui. La strega Selene grida: -Dove fuggi, Riccardo?! Non puoi fuggire, questo è quello che vuole il tuo cuore! -Di che sta parlando? Cosa sta succedendo? -Ninni, ora pensa a camminare, te lo spiegherò più tardi, quando saremo al sicuro. …, …, … : … Siamo ormai lontani dalla radura e dall’Albero delle Streghe. Il Sentiero delle More s’interrompe un poco per lasciar modo a un ruscello di scorrere e sfociare in un piccolo lago nel mezzo del bosco con tanto di ninfee tipo quelle di Monet. Persino il ponticello di legno che collega una sponda dello
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specchio d’acqua all’altra, e che dovremo percorrere per continuare ad addentrarci nel bosco, assomiglia a quello di un famoso quadro del pittore parigino e, ora che ci penso, è facile che lo sia dal momento che questo è il mio sogno e non può che fare riferimento a immagini dentro me, figure che già conosco. Ed io conosco Monet. Le uniche differenze stanno negli alberi (nel quadro erano salici piangenti, mentre qui sono sempre, rigorosamente querce), nel fatto che qui sia notte, mentre nel dipinto è giorno, e nella presenza dei bagliori usciti dal tuo corpo nel primo momento in cui ti ho vista e che persistono nello stallare sui rami e fra i cespugli. Siamo saliti sul ponticello e adesso stiamo seduti con le gambe penzoloni sull’acqua. Tu guardi giù triste ed io ce la metto tutta per far sbollire la rabbia. -Non mi volevi sposare?- mi chiedi con voce strozzata. -Ninni, ma certo che ti volevo sposare. Ti sposerei ogni giorno che Dio manda in terra. Ma non così. -A me piaceva molto. C’erano i fiori, la dea della luna, le sacerdotesse bellissime. -Non più belle di te. -E piantala! Sorridi ed io trovo una nuova pace. Posso finalmente iniziare a parlarti. -Non è che non ti volessi sposare. È che… Tu non hai idea di cosa stava succedendo, vero? -No. -Beh, sappi che le str… le sacerdotesse stavano raccogliendo gli ingredienti per un filtro d’amore da farti bere affinché t’innamorassi di me. Io semplicemente non ero d’accordo, non volevo ti avvelenassero per farmi amare e ho reagito così, scappando. -Ma se io avessi voluto essere avvelenata? -L’amore, il vero amore non è veleno, Ninni. Io non mi sono
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mai dovuto avvelenare per amarti… L’amore deve nascere dentro noi spontaneamente, senza essere aiutato da droghe, senza sotterfugi o inganni, senza bugie. Se tu avessi bevuto quel filtro mi avresti amato forse, ma io avrei sempre saputo che il tuo amore non derivava da te, non era nato da un sentimento spontaneo, ma da un incantesimo. Esattamente come succede nella realtà quando gli uomini ricchi, belli o di successo si accaparrano le ragazze migliori e poi magari queste dicono di amarli, senza neanche conoscerli veramente, conoscerli dentro intendo. Eppure conoscono molto bene i loro soldi, il loro fascino, il loro carisma e quelli amano, non loro, non loro per come sono veramente, le loro fragilità, le parti vulnerabili che ognuno di noi cerca di nascondere agli altri. E lo capisci perché quando questi si rammolliscono, quando diventano delle schiappe, queste ragazze li abbandonano il più delle volte. E allora dov’era l’amore? Se il filtro delle streghe fosse svanito fra qualche anno, dove sarebbe il tuo amore? A me non interessa quel genere d’amore, a me interessa solo quello che dura per sempre. Tu non avresti amato me, in quel modo, tu avresti amato il filtro, uno fra i tanti innumerevoli inganni d’amore che l’uomo ha avuto la bassezza d’inventare. -Ma il tuo cuore dice tutto il contrario e l’ha detto anche Selene, “Non puoi fuggire da quello che vuole il tuo cuore.” Nel tuo subconscio volevi che lo bevessi. -Forse è vero, il mio cuore vorrebbe che mi amassi. Ma io non ho solo un cuore, ho anche il dono della ragione. E forse ad alcuni uomini basta avere una donna che faccia finta di amarli, forse riescono a illudersi che quello sia amore vero, ma io non ci riesco, ho il difetto di essere troppo onesto con me stesso. Io preferisco non essere amato che essere amato in apparenza, nonostante sappia che non ho le qualità necessarie per far nascere dentro te quel sentimento. Tu non mi amerai
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mai, nonostante sia una realtà terribile a me sta bene perché, essendo vera, resta in ogni caso la migliore delle realtà possibili. Sbuffi spazientita. Raccogli un sasso, ti alzi in piedi e lo fai rimbalzare sulla superficie dell’acqua, proprio come faceva il personaggio di Amélie in quel film francese che abbiamo visto insieme a casa mia, Le Fabuleux Destin d'Amélie Poulain di Jean-Pierre Jeunet. Penso di aver preso questa immagine proprio da lì. -Riccardo, ancora con questa realtà vera e realtà falsa. Non esiste la realtà, lo vuoi capire? -Sarà, ma a me serve ancora crederlo. Sai, io nella realtà ci vivo e se andassi a dire in giro quello che sostieni tu probabilmente mi prenderebbero per matto, comincerebbero a escludermi dal contesto sociale. -Beh, allora tu non dirlo in giro. Tu sappilo e basta: questa realtà è vera tanto quanto quella in cui vivi tu quando sei sveglio. Potevi farci sposare, non ci sarebbe stato bisogno di nessun filtro d’amore. Io ti amo già, Ri. Un’ondata di luce travolge il bosco, congelandolo in una stasi perfetta e illuminandolo più della luce del giorno, come in una fotografia sovraesposta. L’acqua interrompe il suo corso, ghiacciata. Il sasso che hai lanciato è a metà del suo terzo rimbalzo, immobilizzato a mezz’aria. Poi, come se qualcuno avesse ripristinato la corrente di un vecchio giradischi, la realtà in cui siamo immersi riprende a girare, accelerando pian piano, suonando dapprima stonata, poi sempre meno, fino a raggiungere i 33 giri al minuto e l’armonia. Il mio cuore riprende a battere a pieno regime. Per un attimo ho perso di vista il fatto che quella che mi stava parlando fosse solo la tua proiezione onirica e ho avuto una scarica di serotonina davvero forte. La serotonina, se già non lo sapessi,
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è una sostanza che il nostro organismo produce autonomamente e che regola il buonumore. È ciò che, chimicamente parlando, ci fa sentire felici, insomma. Chi è carente di serotonina è quindi una persona incline alla tristezza, alla depressione ed io credo che spesso venga a mancare nel mio organismo. Per questo adesso sono in stato di shock e fatico a parlare. -Non so cosa dire.- riesco a balbettare. -Pensaci un po’ su e vedrai che qualcosa ti viene. Aspetta, ti aiuto io: “Non sei reale, non sei Camilla…” -Dai, non mi fare il verso! Resta che non sei reale e questo direi che ne è la dimostrazione più eclatante. La vera Camilla non mi direbbe mai una cosa del genere. -Tu credi? Lo pensi veramente? -Sì, non ho dubbi. Guadagniamo l’altra riva del laghetto e senza neanche bisogno che ci si dica niente è partita la gara a chi fa rimbalzare pietre piatte sul ciglio dell’acqua. Siamo impegnati a competere su più fronti. -Mettiamo che tu abbia ragione. Mettiamo che io non sia reale e che esista solo nel tuo sogno, quindi che io non sia Camilla, ma una parte di te: perché avresti voluto che l’immagine di Camilla ti dicesse “Ti amo”? -Beh, come ha detto Selene e come hai ripetuto tu, il mio cuore vorrebbe che mi amassi. Soffre di continuo la tua lontananza, soprattutto quella sentimentale. Più passa il tempo più io ti voglio bene, dovrebbe succedere il contrario ma non succede. Più passa il tempo più sento il tuo volermi bene affievolirsi e crescere la paura che possa sparire. Il divario fra noi due aumenta, è naturale che il mio cuore ne sia distrutto, è comprensibile che cerchi una qualche rivalsa nei sogni. -E qui la trova! Quando prima ho detto di amarti non hai forse sentito le tue viscere sciogliersi o un sussulto di gioia o
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qualcosa del genere? Il tuo cuore non si è forse fermato, riposato, illuminato, felice per un attimo, prima che la ragione tornasse a dirti che non era vero ciò che dicevo, che era un’illusione? Ecco, quello era vero, a fermarsi è stato il tuo cuore, il tuo vero cuore, l’unico che hai. Come puoi essere così sicuro di ciò che è reale e di ciò che non lo è? Noi non sappiamo cosa sia reale, Richi, quindi tutto può esserlo. Tu lo sai qual è l’unica cosa che possiamo fare per discernere ciò che è reale da ciò che non lo è? -No, non lo so. -E tu ti vorresti spacciare per un lettore di Schopenhauer?- mi chiedi ridacchiando. -Non mi prendere in giro! Ti ricordo che se stai per dire qualcosa d’intelligente è grazie a me che te la faccio dire nel mio sogno! -Vorresti dire che non sarei in grado di dire cose intelligenti se tu non me le mettessi in bocca? Ti devo ricordare che un giorno leggerò il romanzo che stai scrivendo. Stai attento, eh. -No, no, volevo semplicemente dire che in questo preciso istante tu parli per voce mia. Poi è chiaro che nella tua testa ci sono concetti e riflessioni altrettanto intuitivi e interessanti… -Va beh, sì, risparmiamela. Comunque stavo dicendo, è semplice distinguere ciò che è reale da ciò che non lo è. Schopenhauer diceva che l’uomo è la misura del mondo, quindi tu devi essere misura della realtà: è reale ciò che senti come reale. Nient’altro. Cosa senti come reale Ri? -Sento che tu non sei reale. -Ne sei proprio sicuro? Eppure se dicessi di amarti tu sbatteresti lì per terra. Quello l’hai sentito, vero? Sto per cedere. Continuerai a incalzarmi finché io non mi arrenderò ai miei sentimenti. So benissimo che è il mio cuore a parlarmi attraverso te. Io credo davvero che l’unica cosa che si può dire reale al mondo siano i nostri sentimenti. Io ti amo
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Ninni, questo è vero e reale, lo so, come so che vorrei amarti finché avrò fiato in corpo e anche oltre se mi sarà concesso, che tu sia una persona, un’idea o un fantasma. Questa è una delle poche certezze che ho, una delle poche cose che sento reale: il mio amore per te. Eppure, utilizzando un’altra parte di me, la ragione appunto, so che questo è un sogno, so che non sto parlando con te, ma con me stesso; perché tu non sei così, tu non sei qui. Ciò che dice la tua immagine sono solo pretesti per sentirmi felice, spunti di rincuoramento; è autoconvincimento, una questione di sopravvivenza: lo so che basterebbe ancora un attimo di dolore percepito a causa della tua assenza e potrebbe davvero spezzarmisi il cuore per sempre, potrei morire dentro, perdere il mio amore, la mia vita. E allora cerco di correre ai ripari inventandomi il sogno in cui tu arrivi e mi salvi la vita dicendomi “Ti amo”. Ma tutto questo non è vero, non può essere vero. -Ah, continui con tutto questo “è vero, non è vero”?- fai scocciata. -Come scusa? -Dimentichi sempre che riesco a leggere i tuoi pensieri. La guerra di salti sull’acqua è finita. Hai vinto tu, è arrivato il momento di stipulare i trattati di pace. Io mi metto seduto sull’erba, allungo le gambe e appoggio la schiena al tronco di una quercia. Tu mi vieni appresso, sdraiandoti in terra e posando la testa sulle mie gambe. Ti accarezzo i capelli come facevo una volta; mi viene da piangere e da pensare a quanto è svantaggioso essere così emotivi e sensibili. Certo, si vive più intensamente, ma se la nostra vita è costellata di dolori e insuccessi risulta obbiettivamente una fregatura. -Lo sai dove siamo, Ri?- mi interroghi con una ritrovata dolcezza nella voce.
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-Sì, nel mio sogno, Ninni. -No, più precisamente. Dove siamo? -In un posto all’interno del mio cuore? -Siamo nel posto in cui hai deciso di salvarmi, Richi. -Tu non hai nessun bisogno di essere salvata da me. -Hai frainteso. Siamo nel posto in cui hai deciso di salvare la mia idea, il tuo amore per me. Tu non hai bisogno di me per non morire. Il tuo amore è grande e di certo non finirà con me. Tu non vuoi salvare te stesso. Tu vuoi salvare la mia immagine. E nulla è più reale di questo giardino incantato che ha creato il tuo amore, il tuo disinteressato amore nei miei confronti. Se capissi questo, capiresti che qui ha sede anche la ragione. Sei stato tu, nel sogno, a usare la ragione per portarmi via dalle streghe. Questo posto è tanto dentro al tuo cuore quanto dentro la tua mente; riesci a vederlo? E tu con mente e cuore mi ami, con razionalità e irrazionalità, lo dimostra che quasi non ti preoccupi adesso, all’interno del sogno, del mio amore nei tuoi confronti. Per te è marginale che io ti corrisponda o meno, perché, usando la ragione, sai che amore è qualcosa che esula dalla tua felicità. Per te l’importante è che io sia felice. E in fondo questo vuol dire amare una persona, vuol dire pretendere la sua felicità, anche a discapito della propria; certo se io ti amassi ti farebbe piacere, ti renderebbe tutto più facile, non saresti costretto a scrivermi romanzi, ma ciò che più conta è che tu possa continuare a esercitare il tuo amore nei miei confronti. Io la vedo così, tu vedila un po’ come ti piace. Ti guardo guardarmi. Tu parli di parole ma io non sento più nulla, non ho più voglia di capire, ho solo voglia di guardarti. Abbiamo imbastito un discorso che non si spegnerà più, so che ci seguirà fino al risveglio, ma voglio fare una pausa e guardarti, solamente guardarti. Il mondo intorno, il bosco che
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ho creato io non lo vedo più. Esiste ancora? Non lo so. Ti guardo guardarmi e più niente conta.
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VIII Se un sogno si attacca come una colla all’anima tutto diventa vero, tu invece no. (Afterhours)
…, …, …:… Il bosco esiste ancora e il sogno non aspetta certo noi. Fra non molto mi sveglierò, tornerò nella realtà e di tutto questo non rimarrà che un ricordo, se va bene. Ci alziamo e prendiamo a camminare nell’ultimo tratto del Sentiero delle More. La vegetazione si fa sempre più rada, passo dopo passo, finché a un certo punto, oltre le querce... -Cosa c’è oltre le querce?- mi chiedi. -Non c’è niente oltre le querce, Ni. -Perché? -Non lo so. Forse è una parte del sogno che non mi sono dato la pena di creare; forse il momento del risveglio è vicino e piano piano questa realtà sta scomparendo… Non so. Del Bosco delle Querce non è rimasta che una strada, praticamente un viale alberato tipo quelli che fanno da ingresso a tanti casolari romagnoli. Tolto questo, sopra, sotto, intorno a noi non c’è che il vuoto. Riesci a immaginare il vuoto? Io non ci riesco, davvero. Non è una cosa che puoi vedere o toccare. Non è una cosa punto. Eppure è qui, a pochi passi. È più una percezione, un sentimento, come una vertigine. Mi dici che hai paura di farti mangiare dal vuoto, ma tu non devi averne, non c’è niente dentro me che potrebbe farti del male. -Cosa c’è in fondo al viale?- mi chiedi. 131
-C’è la Grande Quercia, un albero colossale che ho amato tanto da bambino. È la più alta fra le querce di questo bosco, ha un tronco così largo che non riusciremmo ad abbracciarlo neanche se ci provassimo insieme, tenendoci la mano. -Ed è anche moto alta? -Eh… Lo era. Purtroppo una notte d’inverno, durante una tempesta, un fulmine l’ha squarciata in due, facendone crollare gran parte della chioma. Adesso è un albero morto. Ricordo che mio nonno mi chiamò a Genova apposta per dirmelo e io piangevo al telefono. Ho pianto tutto il giorno, mi sembrava di aver perso qualcosa d’importante… Per me la Grande Quercia è sempre stata il simbolo del periodo più bello della mia vita. -Quale periodo? -La mia infanzia. Mi vengono i brividi a parlarne, è una cosa che mi tocca. Nessuno pensa che si possano amare cose come gli alberi o le stagioni o i fili di ragno dei campi, ma io ricordo distintamente di essere stato felice quando giocavo sotto la Grande Quercia, felice di una felicità autentica, una felicità senza ricordo della tristezza. E quando mio nonno mi ha detto che era morta, che non c’era più, io mi sono sentito perduto. La fase più felice della vita stava volgendo al termine e un futuro incerto si delineava vago all’orizzonte, un futuro affollato da migliaia di pensieri e domande e incertezze, dubbi… -Sai, ho sempre avuto parecchie difficoltà a staccarmi dalle cose che amo, alberi o persone che siano. Non sono bravo a prendere le misure, a rispettare le distanze e quando i miei punti d’appoggio vengono improvvisamente a mancare, in un secondo mi ritrovo per terra e mi faccio un gran male. -È quello che è successo con me? -Precisamente. Io mi sono abituato ad averti sempre accanto
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negli ultimi tempi. Razionalmente sapevo che non sarebbe stato per sempre… ma vallo a spiegare al mio cuore! Non conosce nessuna ragione, non impara niente, è solo buono a sperare, farsi illusioni, soffrire e via discorrendo. -Però ti permette anche di vivere sentimenti eccezionali, fuori dal comune. -Il mio amore non ha niente di eccezionale. Tu me l’hai sempre detto ed io non ci volevo credere. Avevo bisogno di distinguermi in qualcosa, tutto qua, di combattere le mie battaglie con armi non convenzionali, perché di queste ero provvisto, e anche un po’ per questa mia fissazione di anelare continuamente a essere diverso da tutto il resto. Mi sento diverso da tutto il resto. Ma resta che il mio amore non è dissimile da tutti gli altri: cerca corrispondenza, l’abbiamo appena visto, siamo appena dovuti scappare da una tregenda di streghe; mi fa sentire geloso, possessivo, e invece credo che amare una persona sia soprattutto desiderare la sua felicità, anche se questa prescinde dal suo stare con noi o con qualcun altro. Quello sarebbe un amore eccezionale, ma non è ciò che sento io. Il mio amore non sa accontentarsi, esige sempre di più e fa i capricci se non ottiene. Finisce, il mio amore finisce; l’ho già visto finire, anche quando ero sicuro che sarebbe durato per sempre… Di lontano la sagoma della Grande Quercia comincia a disegnarsi sullo sfondo sbiadito del nulla. -…e poi non credo neanche si possa chiamare amore il mio; forse si dice amore solo quella cosa che riguarda due persone innamorate l’una dell’altra e che le unisce. -Ma smettila!- mi dici un po’ piccata: -Se il tuo non è amore allora l’amore che cos’è? -Ne ho sentito tante sull’amore… Alcune le ho ritenute
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accettabili, ma non davano molto spazio alle speranze. “L’amore non esiste”, “è un’illusione passeggera”, “un inganno naturale” e via discorrendo. Altre invece, sebbene portatrici di aspettative più rosee, mi sembravano poco plausibili, finte, superficiali, semplicistiche. Così ho dovuto farmi una mia idea sull’amore, svuotare la mente e il cuore da tutte quelle frasi ad effetto e aforismi e sovrastrutture varie e chiedermi “Cos’è l’amore?” -Ebbene? -L’amore è stare insieme d’agosto. -Tutto qua? -Tutto qua. -E come fai a sapere che è vero? -Facile, l’ho visto in un sogno e tutto ciò che si vede nei sogni è vero. -Quale sogno? -Questo, questo qua in cui siamo. Finalmente raggiungiamo la Grande Quercia. Non è ancora caduto nessun fulmine qui! Il tronco è ancora intatto e le chiome altissime e verdi! Nel silenzio si può persino sentirla respirare profondamente. -È davvero enorme!- mi dici. -Pensa che era proprio così prima del temporale, non ho esagerato a farla così grande. -È bellissima Richi, davvero. -Grazie. La chioma forma un grande ombrello spiovente fino a terra. Scostando i rami entriamo nel grande abbraccio verde e da dentro non sentiamo più il vuoto premerci l’anima, ci sentiamo al sicuro, protetti.
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Ci sono radici che formano ponti e strade, il tronco è disseminato di scale naturali utili a trasportarci verso le fronde più alte. Non c’è neppure bisogno di decidere il da farsi, un gesto d’intesa e cominciamo a salire, tenendoci stretti: ho paura che tu possa cadere giù. Siamo quasi a metà della scalata, in uno di quei tratti dove già si usa dire “Non guardare di sotto!”, quando mi chiedi una cosa che mi lascia di sasso. -Pensavo… Tu credi ancora nell’amore Richi? Voglio dire, se, come hai detto prima, ritieni plausibile una frase come “L’amore non esiste” vuol dire che una parte di te non ci crede più. Beh, questa è un’ottima domanda, indubbiamente. Rispondere non è facile, ma io ci provo comunque. -Ho creduto nell’amore; ho voluto crederci con tutto me stesso, avevo bisogno di credere in qualcosa. Avevo diciotto anni quando ho deciso di dare all’amore una possibilità e non è un caso che fosse proprio quello il tempo in cui ci siamo conosciuti. Ci fermiamo a riposare in un’insenatura del tronco. Siamo stanchi ed io per rispondere a una domanda del genere ho bisogno di sedermi e parlare con tranquillità perché ti assicuro che non è facile. -Non sono state le persone a deludermi- proseguo: -ma l’amore stesso. Io ho sempre pensato che in amore contassero i sentimenti, le premure, le attenzioni e che per ricevere amore dalle persone bisognasse anzitutto darne, concedere totalmente se stessi. Immaginavo che solo così si potesse ottenere un amore vero, sincero, estraneo a qualsiasi ricatto o strategia volta ad altri fini. Ma col tempo ho imparato che le cose
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stavano diversamente. L’amore è quella cosa che più si da e meno si riceve e viceversa. Ho visto innamorati preparare piani d’attacco strategici contro le stesse persone che sostenevano di amare e ricevere valide risposte difensive; ho visto battaglie e guerre fra amanti, mentre l’amore dovrebbe essere un posto dove la paura sia di fare male, non di farsi male o farselo fare; ho visto ragazzi e ragazzi misurare con squadra e compasso i lineamenti dei corpi che si dimenavano a tempo di musica nelle discoteche e fondare storie d’amore lunghe anni e anni su quella scelta puramente estetica; ho visto cuori quadrati come calcolatrici scientifiche perdersi in calcoli che non dovrebbero contare, e chiamare “amore” il risultato di quelle operazioni; ho visto cuori a forma di bilancia soppesare portafogli e carte di credito ammiccando a quelli più pesanti e lo diresti mai che ci sono ragazze che se hai una casa troppo grande o un portafoglio troppo pieno con te non ci vengono? Io le ho viste, giuro che le ho viste. Ho visto il mio amore perdersi dietro a gelosie, delusioni e assenze, l’ho visto finire per questioni formali, l’ho visto come non avrei mai voluto vederlo. A quel punto mi sono chiesto esattamente quello che mi hai chiesto tu un attimo fa: “Tu credi ancora nell’amore, Richi?” Razionalmente no, penso che se i sentimenti in amore hanno così poca voce in capitolo e se nessun amore si basa unicamente su di essi, allora l’amore dev’essere una cosa inventata per addolcire qualcos’altro di ben più basso e vergognoso. Tuttavia… -…tuttavia l’altra parte di te, quella irrazionale, sa che senza amore e senza le belle speranze che l’amore porta, la vita varrebbe molto meno e sarebbe molto più triste e cupa; sarebbe come un quadro cubista: senza prospettive. -Precisamente. Per questo motivo sono così legato a te. Il mio amore per te ha radici che affondano direttamente in quel tempo in cui io all’amore credevo davvero, con tutto me
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stesso. Io quando sono con te mi sento ancora innamorato e ho il terrore che dopo di te, viste le conclusioni in merito maturate, non mi sarà mai più concesso amare nessun altro. Scende su noi un silenzio strano. Non per imbarazzo o perché non sappiamo cosa dire, adesso siamo entrambi chiusi in noi stessi, soli a pensare. Io so che tu capisci perfettamente quello che ti ho appena detto, tanto che forse non era neppure necessario spiegarlo così lungamente. C’è un accenno di tristezza sul tuo viso. L’ho provocato io? Non importa, voglio essere io a toglierlo. Mi avvicino a te e comincio a parlarti: -Non bisogna mai disperare, Ninni, a tutte queste cose c’è una cura, c’è una medicina. -E quale sarebbe? -Beh, cambia da persona a persona. Io ho te, ad esempio, mi basta guardarti e capisco che tutti questi discorsi si perdono nell’irrilevanza. Tu sei più grande di qualsiasi altra cosa. Io ho te e mi considero una persona davvero fortunata e voglio pensare che ci sarai sempre e che io potrò sempre vedere, intravedere, ricordare o, perché no, vivere e rivivere il mio grande amore, quello che ha trovato posto dentro te. E non importa a quante ragazze mi legherò, dove andrò a vivere o a morire, tu avrai il mio amore più vero, quello in cui credevo prima di rimanerne deluso. Perché in fondo non sono stato deluso dal mio amore per te, in fondo non si è ancora spento, nonostante queste notti tragiche stiano provando a soffocarlo con tutte le loro forze. Abbiamo ripreso a camminare verso la cima, quasi riesco a scorgere la luce del sole ormai prossimo a sorgere e a porre fine a questa notte infinita. -Ma questo sei tu Richi. Io chi ho? A chi posso dare il mio amore se nemmeno lo scorgo più?- mi chiedi, quando ormai abbiamo raggiunto la cima della pianta.
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…, …, … : … Un’esplosione di luce nelle nostre pupille dilatate le fa bruciare come braci. Ancora accecato ti prendo la mano. -Vieni.- bisbiglio: -Ho un regalo per te. Una fessura in un grande ramo scintilla di un bagliore ancor più forte di quello del sole. Infilo una mano al suo interno e quando la tiro fuori, questa stringe un barattolo di miele del tutto simile a quello che mi aveva regalato la vecchina a Montebello. Anzi, a guardarlo bene sembra proprio lo stesso barattolo, con la sola eccezione che adesso sull’etichetta, allora bianca, campeggia una scritta in corsivo: Miele di calabrone -Qui dentro c’è il mio amore, Ninni. Non sarà molto pregiato, forse avrà un cattivo sapore, non penso dopotutto che sia velenoso, comunque vorrei darlo a te perché tu possa usarlo con qualcuno che pensi lo meriti, qualcuno che ti ami e che tu vuoi corrispondere, qualcuno che ti dovrà trattare sempre bene e che non ti faccia mai mancare nulla, qualcuno di cui potrei essere davvero invidioso, perché voglio che, in questo e in ogni altro aspetto della tua esistenza, tu fugga sempre dall'accontentarti e dal compromesso. Non fidarti mai di chi ti suggerisce di cercare la felicità nelle piccole cose. La felicità delle piccole cose va bene forse per le piccole persone, non per te, che sei grande, che sei la mia felicità e non hai mai avuto misura, nel bene e nel male; il mio amore per te non è mai stato piccolo, neppure appena nato. Adesso è tuo, non potrei pensare a qualcuno di più adatto cui darlo.- ti dico porgendoti il barattolo. -Io non posso prenderlo Richi. Appartiene a te, è troppo personale, troppo prezioso. 138
-Non ti preoccupare, se non lo dessi a te rischierei di perderlo un giorno o l’altro. Preferisco invece saperlo in buone mani, mi fido ciecamente di te.- ti rassicuro mentre tu prendi il miele: -Vedilo come un favore che fai a me: io lo so che tu non ne hai alcun bisogno, io so che dentro di te c’è già un amore immenso fatto con il polline dei fiori più dolci del mondo. Forse non lo trovi più, ma sono certo che c’è, lo so perché l’ho visto mille volte, perché ti conosco ormai troppo bene e una persona come te non può non essere incline all’amore. Come a voler confermare le mie parole, ti getti fra le mie braccia. -Ti amo Camilla.- questa volta non ho esitato neppure per un secondo a dirtelo, usando il tuo nome per intero, il suo amato suono più musicale di qualsiasi canzone mai scritta e che tu non vuoi mai che si usi perché dici che ti da l’impressione che a chiamarti col tuo nome per intero si sia arrabbiati con te. Ci sciogliamo dall’abbraccio. -Perché mi ami, Riccardo?- mi chiedi giustamente: -Prima hai detto che le persone fondano il proprio amore su calcoli e misure e bilanci che sono estranei al sentimento. Quando ti sei innamorato di me, io non nutrivo nessun sentimento nei tuoi confronti. E allora cosa ti ha fatto innamorare? -Non sono diverso da tutto il resto, ho già detto. Io non posso dire con certezza che se tu non mi fossi piaciuta subito all’esterno io mi sarei avvicinato a te. La verità è che eri bella come l’ultimo giorno di scuola, bella come la festa di paese la domenica, bella come l’estate quand’ero bambino, credo che sia stato quello a destare il mio interesse iniziale. Anche se logicamente a farmi innamorare sono stati altri aspetti di te. -Ad esempio? -Ad esempio questo, tutto questo che ci circonda. Questo sogno credo sia tanto in me quanto in te, questo sole e i suoi
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raggi, la sua luce che illumina ogni cosa, anche il vuoto. Intorno a noi sono tornate a colorarsi le campagne e il cielo respira azzurro senza tuttavia nascondere le profondità sperdute dell’universo solcato da comete e altri corpi celesti. -Io so che queste e altre meraviglie hanno spazio nel tuo cuore.- riprendo: -Non mi posso sbagliare, se non avessi visto quanta bellezza avevi dentro, se mi fossi fermato a quella esteriore, non avrei mai potuto amarti ed essere felice con te: la felicità non passa attraverso la materia. Sorridi e abbassi gli occhi, ma io ho altro da dirti. Non è l’unica cosa che mi ha fatto innamorare di te, non è l’unica cosa che avevamo in comune, sto per raccontarti di tutto il resto, quando ti vedo sbadigliare stanca e capisco che ci siamo detti troppe parole oggi. Avevo un gran bisogno di parlarti, d’altronde è più di un mese che non ti vedo e negli altri sogni in cui t’incontro sei spesso sfuggevole. Ad esempio ieri notte ti ho sognata: ero a Genova nella mia camera e sentivo la risacca sbattere contro la mia finestra. Eri tu. Ho aperto le ante e la città non esisteva più, una distesa d’acqua l’aveva sommersa e quella distesa portava i tuoi occhi, gli occhi del mare. Ma come avrei potuto parlarti? Sono rimasto a guardarti fino all’alba, senza una parola, spiando i pesci guizzare sulla tua schiena e pensando alla tua infinità, delineata da est a ovest dal limite dell’orizzonte. Anche adesso ti guardo addormentata nel mattino. Ancora pochi attimi e, con il risveglio, questo mondo si dissolverà, non rimarrà più niente del sogno… forse un ricordo vago… …indistinto da quelli di altri sogni che hanno affollato l’animo in tanti sonni d’altre… ...notti.
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La campagna dalla cima della Grande Quercia. 141 Â
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Ti guardo addormentarti… …, …, … : … …nel dormiveglia mi parli. -Richi? -Dimmi, Ni. -Cosa c’è oltre la Grande Quercia? -Oltre la Grande Quercia c’è il Baratro Bianco. -Cos’è il Baratro Bianco? -È il futuro, Ninni. -Com’è fatto? -Non si sa, si riesce appena a intravedere. Il bosco finisce e poi… un salto vertiginoso, profondissimo… si perde fra nuvole basse, bianche… -È come il vuoto che ci circondava prima? Mi faceva una gran paura… -No, non è vuoto. Dentro il Baratro Bianco c’è qualcosa, solo che non si vede ancora. È come coperto dalla nebbia. -Mi fa paura lo stesso. Potrebbe essere qualcosa di terribile. -Fa paura anche a me. Io spero non ci sia nulla di brutto. Persone come noi si meritano di stare bene e di trovare solo cose belle una volta diradatasi la nebbia. -Richi? -Dimmi, Ni. -Dove vanno a finire i sogni al risveglio? -Non lo so. -E i colori dell’arcobaleno dopo la pioggia? -Non lo so Ninni.- rispondo fra le lacrime. Non voglio che te ne vada, vorrei restare qui nel sogno con te. Per sempre. -Sapessi quante volte mi sono chiesto cose del genere…-
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cerco di risponderti non facendomi sentir piangere: -Riesco anche a trovare qualche risposta di tanto in tanto, pensandoci, ma queste danno luogo ad altre domande e così via, finché un giorno ti ritrovi alla fine e scopri di aver passato tutto il tuo tempo a farti questioni cretine sulla vita, invece di viverla. Vivere è l’unica cosa intelligente da farsi. Vivi Ninni, ti prego, vivi, semplicemente vivi; rifletti, sì, pensa a lungo alle cose, ma non ti curare di nulla che non sia essenziale. Non preoccuparti dei sogni e dei colori dell’arcobaleno: usando unicamente il pensiero non riusciremo mai a scoprire dove finiscono i giorni e le morte stagioni e cosa ci sia in fondo al Baratro Bianco, sono cose che si scoprono semplicemente vivendole, smettendo di averne paura. Dobbiamo smettere di avere paura, credo che in definitiva sia questo l’unico modo per crescere, l’unico modo per essere felici. Io parlo ma tu non mi ascolti più. Dormi, finalmente riposi stremata da questo viaggio nel Bosco delle Querce che comincia a dissolversi, a ritornare al nulla dal quale proviene e dove tutto va a finire. Dormi, neanche il fragore di un tuono potrebbe mai svegliarti, neanche il mio respiro forte o lo scoppiare di una guerra, perché sei vita, guerra e tempesta. Dormi, come quando ti disegnavo dormire in macchina, sul vetro del finestrino posteriore appannato dalla pioggia che si allontanava per lasciare spazio al sole di un nuovo mattino. Dormivi sulle pagine dei tuoi libri di scuola, mentre il cielo si colorava delle prime luci dell’alba, dormivi nel cinema vuoto, con il film ormai finito, e la luce in sala non valeva a svegliarti: la luce è inutile, sembra buio su di te.
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Dormi, io ti lascerò dormire, ma non potrai farlo a lungo se vorrai fare dei tuoi sogni la realtà. Occorrerà svegliarsi, Ninni, scendere dal letto, lanciarsi in strada e vivere. Forse neanche lo sai ma io l’ho imparato grazie a te.
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Epilogo Una volta il grande maestro taoista Zhuāngzǐ sognò di essere una farfalla, una farfalla che svolazzava qua e là spensierata e che non sapeva di essere Zhuāngzǐ. Improvvisamente si svegliò ed ecco che era di nuovo Zhuāngzǐ, ma adesso non sapeva più se era l’uomo che aveva sognato di essere una farfalla oppure se era la farfalla che stava sognando di essere un uomo. (Zhuāngzǐ)
Genova, 11 agosto 2012, ore 9.34 Dormi. Un raggio di sole si divincola dalle strette maglie della persiana che il vento genovese ha chiuso nella notte. Vuole baciarti. Come dargli torto? Sei bellissima. E sei reale. Ti svegli. Negli occhi hai le briciole di un sogno che non riesci a ricordare. Eppure lo senti, senti che c’è stato. Ancora non lo ricordi, mentre i tuoi capelli biondi restano sparpagliati sul cuscino. Dentro di te c’è così tanto amore che non riesci ancora a discernere, nel risveglio, il sogno dalla realtà e ancora ami, non sai cosa o chi. Ami e basta, è un sentimento senza volto, ma è un sentimento e sei stata proprio tu a dire, nel sogno, essere reale. Dentro di te c’è così tanto amore da rifare il mondo intero, in fondo. Ti alzi. Oggi sarà una giornata dura; lo sono tutte. Ti leghi i capelli con una matita. I tuoi capelli diventano un po’ più chiari d’estate e la tua pelle scura. Non diventi più bella, 145
insisto a dire che non è possibile. Sei sempre stata tu, anche nel sogno. Hai provato a dirmelo in tutti i modi, io non ho voluto crederci. Adesso mi devo arrendere: sei reale. Ti siedi. Al tavolo della colazione ci sono i dolci che ha fatto mamma, la crostata e la torta di mele. Prepari il tè. Non bevi mai tè d’estate, ti fa caldo, ma stamattina ne hai proprio voglia, non te ne spieghi il motivo. Il sogno comincia a delinearsi nella tua memoria, lo ricostruisci alla meglio ma non riesci a ricordarne i dettagli, le parole… C’era un ragazzo… Ti ricordi di me. Ma non c’è tempo da perdere, la giornata deve iniziare. Ti vesti. Sarai a tuo agio nel costume da bagno nuovo? Non puoi ancora saperlo, non ha molto senso domandarselo. Bisogna viverlo… e altri elementi del sogno ti saltano in mente. È tutta una questione di libere associazioni: fra non molto vedrai i cespugli di pitosforo che circondano casa tua e ricorderai di un’estate passata che non hai mai vissuto. Se non nel sogno. Scendi le scale. Hai portato la borsa da mare, le creme e tutto il necessario. Accendi il motorino, parti e già sfrecci veloce per le strade della tua grande città, in ritardo all’appuntamento coi tuoi amici. Non sono gli unici ad aspettarti in spiaggia. Il sole, infatti, è ancora impegnato a baciarti, trascurando tutti gli altri bagnanti, le foglie sugli alberi e i pannelli fotovoltaici. Per non dare nell’occhio l’hai nascosto in borsa fra le altre cose; lo tirerai fuori al momento opportuno.
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Arrivi in spiaggia. La sabbia è fredda senza te, i tuoi amici e le tue amiche ti chiedono dov’eri finita. Non puoi dir loro che stavi sognando, non a tutti quantomeno, e così, invece di rispondere alle loro domande, tiri fuori il sole dalla borsa e lo piazzi in cielo, a dissipare le nuvole. La spiaggia adesso viene bruciata dalla luce e da un calore luminoso. I bambini ridono e giocano con le onde. Ti scontrano perché non si rendono conto che ci sei anche tu; i bambini vivono in una realtà a sé stante, diversa dalla nostra, una realtà in cui non siamo contemplati. Tu hai un pensiero fisso in testa che non riesci a scrollarti di dosso. Il pensiero del tuo sogno, adesso nitido nella tua mente. Provi a condividerlo con qualcuno. Avvicini la tua amica più cara e le racconti tutto, sperando che possa dare una qualche spiegazione a un sogno tanto assurdo. Le racconti di aver sognato un ragazzo innamorato di te, Rimini, i paesi del Montefeltro, e il Bosco delle Querce. Gli racconti del miele del calabrone, della Casa dei Fantasmi, dei mangiafuoco e di tutto il resto, mentre lei ti guarda seria ascoltandoti attentamente. -Conosci questo ragazzo?- ti chiede alla fine. -No, non lo conosco.- rispondi sicura. -Sai come si chiama? -Non lo so. Nel sogno lo sapevo ma l’ho scordato. -Lo amavi? -No, no… Voglio dire, come si fa ad amare un sogno? Ti alzi dalla sabbia un po’ delusa e un po’ stranita. Raggiungi il mare, grande, infinitamente grande, immisurabile. Altri dettagli del sogno alla tua memoria, decidi di trascurarli. Domani non ti ricorderai neppure di aver sognato,
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domani nei tuoi pensieri un altro sogno prenderà il posto di quello della notte scorsa che verrà dimenticato come il freddo d’estate. Guardi il mare. Con gli occhi cerchi i suoi occhi, come in uno specchio li trovi subito: ti è bastato guardare dritto davanti a te. E mentre i tuoi occhi guardano il mare, questo non sembra poi così grande, sembra anzi un minuscolo atomo sperduto nel loro immenso blu.
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Note Opere letterarie contenute (esplicitamente o implicitamente) nel racconto. -Oceano Mare di Alessandro Baricco -Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare -Il piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry -I fiori del male di Charles Baudelaire, in particolare la poesia Corrispondenze -L’interpretazione dei sogni di Sigmund Freud -Senso di Camillo Boito (mi raccomando, “Bòito”, non “Boìto” come dicevi tu!) -Amleto di William Shakespeare -Cyrano de Bergerac di Rostand -Il giovane Holden di J.D. Salinger -Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello -I paradisi artificiali di Charles Baudelaire -Le avventure di Pinocchio di Carlo Collodi -Operette morali di Giacomo Leopardi -Romeo e Giulietta di William Shakespeare -Canti di Giacomo Leopardi, in particolare l’idillio La sera al dì di festa Canzoni contenute (esplicitamente o implicitamente) nel racconto. Cerchio con le matite colorate le più importanti. -Bianca, Afterhours -A me piace lei, Dente -Nuova luce, Verdena -Gospel, National -E sei così bella, Ivan Graziani
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-La guerra dei pastelli a cera, L’officina della camomilla -Fiore di maggio, Fabio Concato (anche se è sdolcinata persino per me) -Se ti tagliassero a pezzetti, Fabrizio De André -Renoir, Francesco De Gregori -Sfiorisci bel fiore, Enzo Iannacci -Per te che non ho conosciuto, Perturbazione -Vorrei, Francesco Guccini -Senza di te, Gazebo Penguins -La presunta santità di Irene, Dente -I pariolini di diciott’anni, I cani -Caramelpop, Verdena -Firenze (canzone triste), Ivan Graziani -Il cielo in una stanza, Gino Paoli -Nostro anche se ci fa male, Afterhours -Da Varese a quel paese, Dente -Il turbamento della gelosia, Il teatro degli orrori -Invitami per un tè, L’orso -NYC, Interpol -Un fiore per coltello, L’officina della camomilla -L’infinita gioia di Henry Bahus, Verdena -Padania, Afterhours -Zucchero di squalo, L’officina della camomilla -Wes Anderson, I cani -Una guerra fredda, Le luci della centrale elettrica -Bellezza, Marlene Kuntz -Nuotando nell’aria, Marlene Kuntz -Le foglie sui miei vestiti sono il sangue del parco, L’officina della camomilla -L’Orizzonte di KD, Francesco Guccini -Fabbricando case, Rino Gaetano -Vivere e morire a Treviso, Il teatro degli orrori -Mina, Verdena
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-La presunta cecità di Irene, Dente -Grattacielo, Verdena -Caterina, Francesco De Gregori -Sapore di sale, Gino Paoli -La bicicletta, L’officina della camomilla -Il mio ruolo, Afterhours -Paolina, Ivan Graziani -La mia promessa (in paradiso), Marlene Kuntz -Saldati, Dente -Replay, Samuele Bersani -Tu e me, Verdena -Slow Show, National -Agosto, Perturbazione -Avere ventanni, L’orso -Le mie pareti fluorescenti di Nord Africa, L’officina della camomilla -Castelli per aria, Verdena -Giugno dov’eri, Perturbazione -True love waits, Radiohead -Sfiorivano le viole, Rino Gaetano -Belli capelli, Francesco De Gregori -I tuoi occhi sono pieni di sale, Rino Gaetano -Cometa Superga, L’officina della camomilla -40 secondi di niente, Verdena -Chiedimi se sono felice, Samuele Bersani -La lira di Narciso, Marlene Kuntz -Svefn-g-englar, Sigur Rós -Amore ai tempi dell’IKEA, Lo Stato Sociale -Pop, Lo Stato Sociale -Baby we’ll be fine, National -Cuore di Pietra, Dente -Io ti aspetto, Il teatro degli orrori -Autogrill, Francesco Guccini
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-Innocent when you dream, Tom Waits -Il mondo prima, Tre allegri ragazzi morti -Spaccacuore, Samuele Bersani -Una canzone arresa, Marlene Kuntz -Il principe in bicicletta, Tre allegri ragazzi morti -Elefante, Verdena -La provincia non è bella da fotografare, L’officina della camomilla -Solo un grande sasso parte I, Verdena -Solo un grande sasso parte II, Verdena -Cleo, Ivan Graziani -The new, Interpol -Lei disse (un mondo del tutto differente), Verdena -Dream dream dream, Everly Brothers -Infinità, Marlene Kuntz Collage. Forse non capirai mai: tu distrai le mie parole… Prendi la macchina e tirami via da sotto il tavolo… e portami nel cinema più lontano… a vedere il cielo questa notte anche se è nuvolo… il finestrino è un film horror ma nel cruscotto ci sono i giochi del giornale… il mio amore alla fine è un labirinto di specchi del luna park… di profilo sembri Monica Vitti… sei troppo bianca per restare mano nella mano con te stessa… sei il colore che non ho e non catturerò… dentro di te c’è così tanto amore da rifare il mondo intero… è certo un brivido averti qui con me…con il tuo walkman verde acqua e un fiore per coltello… dietro di te fa sempre brutto tempo… qui non c’è più calma, settembre ci porterà via con sé… un luminarium fra noi, distanti più di sempre… mi piacerebbe, sai, sentirti piangere anche una lacrima per pochi attimi… dietro di te fa solo brutto tempo…
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Il frigorifero è pieno di denti di leone, di quadri con le piante e fette di limone… la voglia di trentino e la fottuta scomparsa del mio gatto… e non è facile, dovresti credermi, sentirti qui con me perché tu non ci sei… ma io ascolto solo musica orrenda, ribalto i poeti e salto la cena, ma soprattutto non ho voglia di vedere nessuno… sei partita e chi lo sa se torni… ma io ti aspetto, sai? Io ti aspetto… con la faccia sulla sedia… senza utilità… riempirò la bottiglietta da mezzo litro di vino bianco e zucchero di squalo… senza di te… a pensare… gli aerei stanno al cielo come le navi al mare… ogni singola lacrima è una piccola ruga di più sulla pelle… per te che non scorderò mai… Tu con le tue magliette di lupo… capelli d’oro… parli come un architetto e un professore di chimica… perché al posto del cuore hai una calcolatrice… piena di nuvole nere della tua ultima estate… perché al posto del cuore hai il veleno che aveva in gola Napoleone… e sei sempre in ritardo come me… per restare… all’acquario… con due granite di mela… In un film distorto ormai… Genova scarabocchiata a penna sulla tua caviglia… i film impegnati li lascio a te, io preferisco saltare la sera sui tappeti elastici… mentre canti le battaglie di Federico Fiumani… se c’è una cosa che è immorale è la banalità… è questo che mi manca e mi provoca… io vado a costruire un’astronave… per scappare via dall’amore rovinoso… giugno, dov’eri?... scomparso… ed ora, qui, nessun profumo sa di te… una notte d’angoscia non può che diventare una carezza su quel dolce profilo di persona per bene che sei… meglio non dir nulla e far parlar l’amore… getto le ultime molecole contro di te… cantavi parole leggere… dammi quello che vuoi, io quel che posso… sei così bella… vorrei cantare il canto delle tue mani… e noi cerchiamo la bellezza ovunque… più grande di me, inutile insistere… se la mia pelle è in fumo, la tua soffoca…
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Difficile capirsi ormai… tu distrai le mie parole… vivo nel caos… subito la notte è qui, chiudi le malinconie… in un mondo che, sai, non si placherà mai.
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Indice
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p.9 Capitolo I p.34 Capitolo II p.52 Capitolo III p.63 Capitolo IV p.84 Capitolo V p.97 Capitolo VI p.111 Capitolo VII p.130 Capitolo VIII p.144 Epilogo
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