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Dislivelli

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Ricerca e comunicazione sulla montagna

Testata giornalistica registrata presso il Tribunale di Torino il 21 aprile 2010. Direttore responsabile Maurizio Dematteis

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La Narrazione

sibile che sia qualcosa che appartiene solo ad alcuni, non di così condiviso.

Nel tuo libro “Le otto montagne”, e nel film che ne è scaturito, ci sono alcuni elementi-chiave, a mio avviso, che si ritrovano in qualche misura anche nell’opera e nell’etica di Rigoni Stern, o forse che proprio da lì provengono. Mi riferisco in particolare al tema della casa, a quello dell’amicizia, al rapporto padri-figli e, non ultimo, alla dialettica tra l’andare per il mondo, oltre i confini, e il restare o il ritornare a baita, tra le proprie montagne. Che cosa ne pensi?

La casa è il punto di partenza del mio romanzo: il primo nocciolo della storia è l’immagine dei due amici che ricostruiscono il rudere di una baita. Vivendo in montagna, la presenza dei ruderi, delle rovine di un mondo che non c’è più mi ha sempre colpito molto. Ho sempre sentito forte il significato di vivere in un luogo dove prima c’erano una cultura e una civiltà che ora non ci sono più e di cui le case vuote sono un segno evidente. I due amici della mia storia, Pietro e Bruno, ricostruiscono una casa in memoria non solo del padre di uno di loro ma anche di una società che è andata scomparendo. La casa è un elemento narrativo che ritrovo decisamente in Rigoni Stern, per esempio nel suo racconto “Le quattro case”. Una di queste, quella che a me piace di più, Mario racconta di averla disegnata quando era prigioniero nel lager, con un mozzicone di matita su un pezzo di carta; era la casa che sognava di costruirsi con le sue stesse mani, quando sarebbe tornato in Altipiano alla fine della guerra: una specie di tana, fatta di tronchi, in mezzo al bosco. Questa casa immaginata era diventata come un rifugio della mente per lui, uno spazio dove ripararsi da tutto quello che di brutto gli stava succedendo in quei mesi terribili. E io questa sua idea l’ho presa e messa in scena, direi, nella mia storia.

Questa dimensione mi sembra anche tipica della baita che Pietro e Bruno risistemano sui monti della Valle d’Aosta: una casa-rifugio, appartata in alto, che protegge e ripara ma che alla fine rischia anche di tagliare fuori dal mondo chi la abita… Sì, una casa che è anzitutto un monumento alla loro amicizia, come si vede molto bene nelle scene del film in cui loro da bambini giocano con i sassi e con i legni a costruire una diga nel torrente e poi da adulti lavorano insieme nel cantiere della baita, con gesti simili, usando sempre pietra e legno per rimettere su i muri, rifare il tetto. La baita è il rifugio della loro ritrovata amicizia ma alla fine diventa lo spazio della alienazione per Bruno, del rifiuto del mondo, della chiusura in se stesso. Io li ho vissuti tutti e due questi aspetti della montagna: il lato al sole, la montagna dove si coltivano l’amicizia e i rapporti con gli altri, e quello buio, della solitudine, della

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