Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:45
Pagina 1
r i c e r c a
so mmario PRIMA SETTIMANA
SECONDA SETTIMANA
L’UMORISMO DI DIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA
NELLA CHIESA E NELLA STORIA: LAICI OGGI
L’UMORISMO DI DIO NELLA STORIA DELLA SALVEZZA
NELLA CHIESA E NELLA STORIA: LAICI OGGI
Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale pag. 4
Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale pag. 43
QUALE UMORISMO NELLA BIBBIA?
NUOVA LAICITA’ E IMPEGNO NELLA SOCIETA’
di Rosanna Virgili pag. 7
di Savino Pezzotta pag. 47
LO SGUARDO SORRIDENTE DI DIO
ESSERE LAICI OGGI: UNA TESTIMONIANZA MONASTICA
di Dom Matteo Ferrari pag. 23
di Dom Giordano Remondi pag. 71
IMPARARE L’IRONIA DI DIO
L’ECCLESIOLOGIA POSTCONCILIARE
di Don Cesare Pagazzi pag. 28 di Serena Noceti pag. 75
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:45
Pagina 4
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
L’umorismo di Dio nella storia della salvezza Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale 1 “Quando il Signore ricondusse i prigionieri di Sion, ci sembrava di sognare. Allora la nostra bocca si aprì al sorriso, la nostra lingua si sciolse in canti di gioia”. È con questi versi del salmo 126 che vogliamo aprire la riflessione di questa settimana: spalancando la bocca e il cuore al sorriso, lieti di festeggiare i 50 anni delle settimane teologiche. Nel titolo della settimana teologica, l’Umorismo è legato al concetto di Salvezza, così da collocarlo immediatamente nelle categorie delle azioni salvifiche di Dio verso l’uomo, quelle azioni, cioè, che costituiscono la relazione filiale tra Creatore e creatura. Dio, allora, salva l’uomo ogni giorno da quei nemici della speranza che costituiscono un limite per l’uomo nel raggiungimento della gioia piena. In altre parole Dio salva l’uomo dal cattivo umore! Umore, ben inteso, va fatto risalire all’etimologia latina che lo inscrive nell’ universo semantico legato all’umidità, al bagnarsi e immergersi; da questa radice provengono anche termini come umano e umiltà che ci suggeriscono l’idea di umorismo inteso come stato affettivo, come slancio che nasce dalla persona umana verso il suo prossimo. Allo stesso tempo, attraverso l’esercizio dell’umorismo l’uomo riesce a ridere di se stesso, scoprendo i suoi difetti e i suoi limiti e affrontandoli con la formula del “ciononostante”, “tuttavia”: tendendo, cioè, al raggiungimento della virtù dell’umiltà. Parliamo, tuttavia, di un meccanismo comunicativo che rompe gli schemi logici della ragione avvicinandosi all’irrazionalità delle sensazioni: per questo parliamo di senso dello humour , come di un sesto senso
4 4>>
ricerca
che sfugge alle definizioni razionali. Umorismo, dunque, su se stessi e sugli altri, al fine di dissacrare le nostre angoscie e i nostri limiti. Tale concetto appare come estraneo alla natura divina, allora, perché parlare di umorismo di Dio?Siamo di fronte ad un Padre che prende a cuore le sorti della sua creatura, “immergendosi” nella dimensione umana, bagnandosi nella sua piccolezza e nella sua fragilità, creando un canale privilegiato di comunicazione con l’uomo fatto di brevi intuizioni, di visioni istantanee, di piccole ri-velazioni. Dio ci lascia intravedere, con forte humour, alcuni dettagli del suo disegno sulla nostra vita, per mostrarci qualcosa di più profondo delle nostre certezze che ci stupisce e che, ciononostante, riconosciamo come vero. E quanto ancora pretenderemo di guardare all’imperscrutabilità del suo progetto con logiche razionali e non con meccanismi dell’irrazionale? L’umorismo ci libera o ci mette in pericolo? Il rischio, una volta capaci di sorridere dei propri limiti, è quello di accontentarsi e di ristagnare nella propria limitatezza, nelle nostre poche e misere certezze. Dio, allora, ci sorprende irrompendo: ci spiazza e rilancia la posta in gioco spalancando tutte quelle porte che avevamo chiuso attenti ad una sola, attenti sul nostro progetto. Dio ci libera dall’angoscia della nostra finitezza, riducendo la sproporzione che esiste tra ciò che siamo e ciò che pretendiamo, inserendoci nel suo progetto di salvezza. 1 Con difficoltà riusciamo ad intravedere nella Chiesa di oggi quello slancio entusiasta che la ha animata nei primi secoli dopo Cristo: un progressi-
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
vo irrigidimento e una tendenza alla seriosità hanno portato alla stanchezza e al torpore degli animi. L’umorismo, nella storia della Chiesa è sempre stato tenuto a margine, pur sempre vivo nei grandi carismi dei santi e dei martiri, ma vittima di una logica pregiudiziale che vedeva in esso un nemico piuttosto che un alletao. Solo con il Concilio Vaticano II vediamo finalmente capovolta questa prospettiva del sacrificio e della sofferenza a favore di una lettura liberante e gioiosa dei testi sacri, alla ricerca dell’essenza del messaggio evangelico nella persona di Cristo. Un nuovo annuncio gioioso, dunque, che trova nell’enciclica di Paolo VI “Gaudete in Domino” un ulteriore rilancio ristabilendo un legame essenziale tra la liberazione dal peccato e dalla morte e il raggiungimento della gioia piena sulla terra non dimenticando “quel dovere promordiale dell’amore del prossimo, senza il quale sarebbe sconveniente parlare di gioia”. 1 L’Antico Testamento, che noi oggi leggiamo, accoglie in sé le influenze della tradizione ebraica, un monoteismo anti-idolatrico che, attraverso la pratica dell’umorismo arguto, elemento cardine e canale privilegiato nei racconti dei padri, smaschera tutte quelle possibili e rischiose idolatrie: in particolare il prendersi troppo sul serio, il non progettare la propria vita lontani dal disegno divino. L’ebraismo ha poi raccolto nel Talmud, quella tradizione orale di racconti e insegnamenti fondati su un impianto umoristico: la dialettica del Talmud, infatti, ha il fine di stimolare all’interpretazione della pro-
28-02-2007
8:45
Pagina 5
pria vita, rischiarandola sotto nuove luci che esulino il senso comune: “Il suo scopo è quello di esiliare l’arroganza delle certezze, di introdurre una dimensione imprevista che stimoli a creare una nuova forma di pensiero consapevole della propria preca1 rietà” . Nella storia del popolo d’Israele, “l’arroganza delle certezze” viene spesso combattuta da un intervento divino irrompente e dirompente. Così accade per Abramo a cui il Signore annuncia una discendenza numerosa a partire da suo figlio, “figlio del sorriso”: la nascita di Isacco è la grande burla di Dio ai ragionamenti, ai calcoli, alle possibilità puramente umane. Così Dio redarguisce il suo popolo tramite i gesti simbolici e apparentemente irrazionali dei profeti, attraverso questa continua tendenza nel sovvertire le logiche dell’uomo scegliendo l’ultimo dei figli in una società in cui forte era la tradizione della primogenitura; servendosi di Mosé, un balbuziente, per l’annuncio della promessa; stravolgendo la vita e la visione di Giona operando misericordia verso i nemici d’Israele della città di Ninive; e ancora, nel libro di Giobbe, in cui tutto l’impianto giuridico del popolo di Israele viene a crollare davanti ad un Dio che toglie al giusto e ricompensa il malvagio; infine il Qohèlet, testo apparentemente privo di humour, disseminato di realistico senso di desolazione e abbandono. Un Dio, quello del vecchio testamento, che già al momento della creazione dimostra un forte senso dell’umorismo creando un uomo libero a cui affida la custodia del mondo e delle sue creature da ammaestrare esercitando la sua libertà. Uomo
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
5 <<5
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
creatura, Abramo, Isacco, Mosè, Giacobbe, alla guida di un popolo allo sbando, perseguitato, esiliato, in schiavitù, completamente distante dalle incomprensibili logiche divine, ma fedele al patto di alleanza che Dio continua a rinnovare fino al canto di lode del Magnificat, in cui la Vergine esulta ad un Dio che stravolge gli schemi umani invertendo le categorie terrene, fino a farsi lui stesso uomo, partecipe dell’esperienza umana. 1 Accostandoci alla figura di Cristo e ai racconti evangelici ci risulta difficile scrollarci di dosso secoli di tradizione attenti a sottolineare solo gli aspetti più seriosi e moralistici delle opere di Gesù. Guardando alla sua vita, alle reazioni dei discepoli, allo spirito delle sue parole, restiamo affascinati dalla carica comunicativa data da un modo di esprimersi non lineare, non basato su algoritmi, ma piuttosto coinvolgente e partecipato. Perché Gesù non annuncia il suo messaggio salvifico in modo chiaro, lineare, con tanto di postulati teologici annessi? Le sue parole sono indirizzate agli ultimi, alla sua sequela non troviamo i leviti, ma pescatori ignoranti e analfabeti che scandalizzano le nostre orecchie con le loro reazioni così deliberatamente umane. “Ti rendo grazie Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascosto queste cose ai saggi a agli intelligenti e le hai rivelate ai semplici” (Lc 10, 21) Gesù, la Buona Novella, annunciato a sua volta ad una giovane Maria, nasce nella sperduta Betlemme e passa circa trent’anni della sua vita in una bottega da falegname: non è certo questa l’immagine del Messia atteso dal popolo di Israele. Non è certo
6 6>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 6
questo il Dio che l’uomo cerca: un Dio debole, ultimo tra gli ultimi, che mangia con i peccatori e si fa avvicinare dalle prostitute non rispettando le tradizioni. Quale modello di vita ci propone? “Storia di un fanciullo, di un artigiano, di uno scellerato ingiustamente condannato. E, per meraviglia, una sofferenza guardata da Dio, un’esistenza salvata, un giustiziato giustificato: la vita finora inesplosa scoppia in un riso pasquale.”2 L’umanità di Cirsto è piena: sono umane le sue debolezze e le sue sofferenze, umani i suoi rapporti di amicizia e quelli familiari, umano è il suo senso dell’umorismo con cui confeziona e colora le parabole. Umano e umile Gesù si fa modello raggiungibile e prossimo all’uomo che, assumendo lo sguardo di Cristo sulla sua vita può benedirla e riempirla di gioia. L’umorismo costituisce quel canale di intesa tra Dio creatore e la sua creatura che in Gesù trova il suo punto di contatto più alto, stabilendo un rapporto di amicizia e d’incontro. Dio per primo vuole incontrare l’uomo nel pieno rispetto della sua libertà. Forse è questa la pulce nell’orecchio che disturba la nostra coscienza e che non lascia partita facile ai nemici della gioia: qualunque sia il giudizio che abbiamo sulla nostra vita, nonostante il senso comune, Dio ne ha sempre uno più alto su di noi.
1 M. Ovadia, “L’ebreo che ride”, Einaudi, 1998, pag 34 2 E. Salmann, “Il Riso sofferto. Aclune postille teologiche sull’umorismo”, in Id., Presenza di Spirito, Messaggero 2000.
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:45
Pagina 7
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
Quale umorismo di Dio nella bibbia? di Rosanna Virgili*
1 Parlare di umorismo non significa semplicemente parlare di riso o di comicità. Nella concezione di Pirandello l’umorismo viene spiegato con il famoso esempio della “signora attempata”. Il fatto che quella, per mascherare le ingiurie dell’età, si truccasse e vestisse con esasperata eleganza diventa un fenomeno umoristico. In questa concezione, pertanto, è “umoristico” qualcosa che vorrebbe apparire in un modo, mentre, in realtà, è tutt’altro. Possiamo intendere l’umorismo come un autentico linguaggio “parabolico”, un linguaggio che viaggia, cioè, su un doppio registro di senso. Da una parte c’è un racconto di superficie allegro, leggero, dall’altra questo involucro esteriore fa da velo a qualcosa di opposto e nasconde un messaggio spesso tragico. Inteso così, l’umorismo sarebbe un linguaggio imprescindibile da una riflessione e da un approfondimento per cui l’umorista non è la persona irrazionale e spensierata, piuttosto una persona capace di fare una lettura tale della realtà che riesce a smascherarla. Lo sa bene Gesù quando usa le parabole: racconti fittizi per rivelare qualcosa di ulteriore. In questo criterio l’umorismo coinvolge inevitabilmente la tecnica dell’ironia per cui il riso nasce laddove si rivela qualcosa di inaspettato nella narrazione e che crea un attimo di stupore. Se assumiamo questo concetto di umorismo come un linguaggio di conoscenza che viaggia su due registri, possiamo sperare di trovare, allora, qualcosa nella letteratura biblica. Bisogna, dunque, uscire dall’accezione più popolare dell’umorismo come
“non senso”, freddura, stupidaggine, genere non presente nella Bibbia, perché in quei casi il linguaggio rimane, in ogni caso, univoco. Il Salmo 2, spesso citato quando si vuole argomentare dell’umorismo biblico, rappresenta Dio che ride: “Insorgono i re della terra e i principi congiurano insieme contro il Signore e contro il suo Messia: «Spezziamo le loro catene, gettiamo via i loro legami» Se ne ride chi abita i cieli. Li schernisce dall’alto il Signore”. (Sal 2,2-4). In realtà quel riso è più espressione di sarcasmo che di umorismo, perché Dio ride dei potenti, dei regnanti, degli idoli, dall’alto delle sua grandezza, a dimostrazione che la Sua potenza è superiore alla loro. Ci sono, poi, dei casi in cui Dio chiede delle cose tanto assurde ai suoi profeti, da indurre al riso. È il caso del profeta Ezechiele: Dio lo invita, dapprima, a prendere una spada affilata, usarla come rasoio e radersi i capelli e la barba. Poi, sempre per ordine di Dio, il pover’uomo deve prendere una bilancia e dividere i peli già tagliati. Dopo di che dovrà fare così: un terzo bruciarli sul fuoco in mezzo alla città, un terzo tagliarlo con la spada intorno alla città ed il restante terzo, disperderlo nel vento. Come se tutto questo non fosse abbastanza, Dio gli ordina, inoltre, di prendere una parte di questo ultimo terzo e di legarlo al suo mantello; quindi prendere un altro piccolo numero e bruciarlo finché da esso non si sprigioni il fuoco. Questi gesti, in apparenza comici e incomprensibili, sono, però, accompagnati da parole ben impegnative, che rendono loro una precisa forza simbolica. “Così dice il Signore: questa è Gerusalemme! Essa si
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
7 <<7
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
è ribellata con empietà alle mie leggi (…) Compirò in te i miei giudizi e disperderò ad ogni vento quel che resterà in te” (Ez 5,5.6.10). Quanto dovrà fare il profeta ai danni della sua barba ha la forza del segno che anticipa la caduta di Gerusalemme, l’incendio appeso alle sue mura e la dispersione del popolo nelle terre di esilio! C’è insomma poco da ridere... al contrario: quanto appare certo un po’ comico nasconde un livello simbolico affatto tragico. C’è, infine, un’altra storia che potrebbe suscitare il riso e che riguarda il profeta Eliseo, il quale era schernito dai bambini, a causa della sua calvizie. “Mentre egli camminava per strada uscirono dalla città alcuni ragazzetti che si burlarono di lui dicendo: «Vieni su, pelato, vieni su, calvo!». Egli si voltò, li guardò e li maledisse nel nome del Signore”. (2Re 2,23-24). Questo è un umorismo amaro, un modo di umiliare l’uomo di Dio e di metterlo alla berlina. Credo che questi episodi possano dare più un messaggio di volgarità che suscitare una sana ilarità. Un altro caso che viene indicato tra i testi da voi scelti come esempio di umorismo nella Bibbia è quello dello humor di Gesù. A mio parere non tutti gli esempi sono convincenti. L’episodio dell’emorroissa, registrato in Mc 5,25-34, viene letto come se Gesù stesse giocando a nascondino. È una interpretazione che lascia qualche perplessità, se si pensa alla sofferenza di quella donna affetta da un’emorragia da dodici anni. Di quel testo si fa spesso una lettura simbolica intendendo il numero degli anni della durata dell’emorragia come il popolo di Israele con le sue dodici tribù! Il sangue perduto indica l’assen-
8 8>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 8
za della generazione della vita e quella donna rappresenta Israele che attendeva il suo figlio, il suo Messia. Non vedo l’umorismo in questo episodio, vedo serietà e univocità. Nel presentarvi la mia tesi, allora, ho scelto di evitare queste due derive del riso, da una parte l’intendere l’umorismo come una forma di derisione o di sarcasmo dall’altra, e mi sono rivolta a quella che è una delle scienze che gli esegeti frequentano molto: la filologia. Una deontologia della parola, del suono, della musica, l’analisi dei tessuti di un testo. Partiamo, dunque, dalla parola “umorismo”. Nella lingua italiana “umorismo” è una radice che subisce un’alterazione prodotta dall’afformante ”ismo”. Tale aggiunta implica, solitamente, un’accezione negativa, perché assolutizza una parte del significante; la semantica della parola di base che qui sarebbe “umore” viene limitata nel sema “umorismo” che viene assolutizzato. Partiremo quindi dalla parolabase “umore”, passando per “umorale”, fino ad arrivare ad “umorismo”. L’umore, inteso come qualcosa di umido richiama dapprima l’acqua, ma poi, la nuvola e inoltre tutto ciò che è umido. Cosa si trova nella Bibbia di “umido”? Si trova molto. Passeremo quindi dall’aspetto meteorologico dell’umore, all’umore inteso come stato d’animo perchè c’è un direttissimo contatto. E vorrei offrirvi una silloge di testi in cui possiamo andare a trovare l’umore. 1 L’“umore” che si fa parola Il primo umore biblico è l’alito di Dio che da aria diventa parola, una prima forma di condensazione dell’alito di Dio. L’alito è il soffio della bocca di Dio in
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
cui troviamo la spinta creativa, la vita. Quello stesso soffio che su un grumo di polvere anima l’essere umano. La creatura, fatta di terra, viene bagnata e quindi resa plastica, mobile, duttile, vitale da questa umidità. L’aria poi diventa acqua e, quindi, le acque, da cui nasce il giardino di Eden (Gen 2), figlio di una unica fonte che si dirama in quattro grandi canali e avvolge e nutre tutto il mondo, i fiumi che erano a loro volta le fonti della vita del mondo conosciuto nella Bibbia. Tutto ciò è il segno che nulla più dell’acqua fosse l’umore di vita dell’Eden (cf. Gen 1-3). Dalle acque dell’Eden si passa, poi, in Genesi, alle acque del diluvio (cf. Gen 6-9). Ivi l’acqua non solo è umore di vita, ma, allo stesso tempo, anche di morte; è acqua di morte perché in essa annegano quasi tutte le creature viventi, ma anche acqua di salvezza, poiché su di essa può galleggiare l’Arca di Noè. Questo umore è la culla della vita della nuova era. In Genesi troviamo, inoltre, i racconti dei patriarchi in cui spesso si parla di pozzi. Ai pozzi si stipulano le alleanze. Nel capitolo 21 (cf. vv. 8-21) si parla del pozzo di Agar, la schiava di Sara, scacciata nel deserto da Abramo, insieme a suo figlio. Rimasti senz’acqua, Ismaele comincia a piangere e gridare e la madre, allora, schiacciata dal dolore, si mette ad una certa distanza dal figlio, per non vederlo morire. A quel punto, udendo il grido di Ismaele, scende dal cielo l’angelo di Dio che indica ad Agar l’esistenza di un pozzo. Così, proprio dall’acqua di quel pozzo troveranno un futuro i discendenti ismaeliti di Abramo, i nostri fratelli musulmani.
28-02-2007
8:45
Pagina 9
Nel presentarvi la mia tesi mi sono rivolta a quella che è una delle scienze che gli esegeti frequentano molto: la filologia. Una deontologia della parola, del suono, della musica, l’analisi dei tessuti di un testo 1 Acqua ed Alleanza: Le alleanze tra le tribù beduine si stipulano solitamente preso i pozzi, poiché l’acqua è la base della economia nomadica. Nei tempi biblici – ma purtroppo anche oggi! – si facevano le guerre per i pozzi. Noi pensiamo che i racconti biblici siano superati e datati, ma non lo sono per nulla, perché l’acqua è il vero oro dell’area palestinese. Un dato registrato in maniera chiara in Genesi: si parla del pozzo del giuramento tra Abramo a Abimelek (cf. Gen 21,25-27). Questo giuramento tra capi di gruppi nomadi era riferito alla condivisione dell’acqua del pozzo. Sempre presso i pozzi si combinavano anche i matrimoni (cf. Gen 24,9ss.; 29,1ss.), ed anche per questo l’acqua è simbolo della vita che può essere promossa e condivisa. Acqua e salvezza: Di umori vitali erano fatti i ventri delle donne ebree in Egitto le cui acque si rompevano facilmente. Ricordiamo la storia delle donne ebree che partorivano prima che le ostetriche egiziane “Sifra” e “Pua”, potessero intervenire ad uccidere i figli maschi, come il faraone aveva precettato (cf. Es 1,15-19).
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
9 <<9
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Dall’acqua del Nilo, su in un cestello di giunchi, viene salvato Mosè. Quel cestello, in ebraico tevà, sarà una nuova Arca della Salvezza della vita, al pari dell’arca di Noè (che si chiama con lo stesso vocabolo ebraico!). Mosè, infatti, salverà Israele dall’Egitto, dopo che egli stesso è stato salvato dall’acqua. Nelle acque del Nilo è simboleggiato anche l’umore vitale della figlia del faraone, che adotta Mosè. Un altro caso di umore salvifico è l’acqua rossa del Mar Rosso che è sta interpretata, simbolicamente, come il sangue del parto. Dalla metafora dell’acqua, dunque, si passa a quella del sangue come umore di vita (cf. Es 14). Seguendo il percorso del cammino nel deserto tracciato dal libro dell’Esodo si arriva, poi, alle acque di Mara (cf. Es 15,22-27). In quel luogo dove il popolo, appena imboccato il deserto, denuncia la sua sete, le acque c’erano, ma erano amare ed imbevibili. Allora Dio dà a Mosè un legno usando il quale potrà cambiare l’amarezza in dolcezza. In quel giorno Dio diede di sé il primo aggettivo, la prima rivelazione, il primo modo di farsi nominare, dopo il passaggio del Mar Rosso: troviamo il primo grande epiteto di Dio; “colui che ti guarisce” (cf. Es 15,26). Dio è medico, cioè colui che guarisce e si rivela, proprio sull’impatto con l’umore, cioè, con l’acqua. Questo è il Dio dell’Antico Testamento. Una verità che si prolunga fino al Secondo Testamento laddove Maria sarà guarita dalle sue acque amare, perché “concepì per opera dello Spirito Santo” (Mt 1,18): ovvero il dulces hospes animae, il guaritore dell’anima. Lo Spirito di Dio, il cui simbolo
10 10>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 10
principale è proprio l’acqua, impattando l’amara solitudine di un grembo vuoto di vergine, genera Gesù. 1 Umori come sensazioni Vorrei continuare il mio percorso, con la seconda tappa filologica della parola “umore”, in questo caso intesa come “sensazione”. Se colleghiamo queste ultime con quanto l’uomo avverte attraverso i cinque sensi, non vi è dubbio che il libro biblico dove più si parla di sensazioni sia il Cantico dei Cantici. Ivi le parole, infatti, sono davvero pochissime, mentre molto dicono le sensazioni. Queste ultime, nel Cantico, fanno le veci delle parole, esprimono, cioè, quanto sarebbe impossibile fare con le parole. L’udito: Il primo senso chiamato in causa nel Cantico è quello dell’udito, “una voce il mio amato” (Ct 2,8). Il termine ebraico per voce è qol che può essere anche tradotto come il “rumore”, intendendo con esso il rumore dei suoi passi, la voce dell’amato che sta arrivando. Le persone si distinguono dai rumori, dal ritmo con cui fanno una determinata azione. La voce è una grande categoria teologica nella Bibbia. Nel libro del Deuteronomio Dio non mostra il Suo volto, ma fa sentire la sua voce. Egli prima di farsi conoscere attraverso le parole si presenta come voce: “interroga pure i tempi antichi che furono prima di te: dal giorno in cui Dio creò l’uomo sulla terra e da una estremità del cielo all’altra vi fu mai cosa grande come questa e si udì mai cosa simile a questa? Che cioè un popolo abbia udito la voce di Dio parlare dal fuoco come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?” (Dt 4,32-33).
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Nel Cantico dei Cantici le parole sono davvero pochissime, mentre molto dicono le sensazioni. Queste ultime, nel Cantico, fanno le veci delle parole, esprimono, cioè, quanto sarebbe impossibile fare con le parole La sensazione che deriva dall’udito è veicolo di qualcosa di ulteriore, che supera una dimensione di superficie. Il primo canale, quindi, delle sensazioni, nel libro del Cantico, è appunto l’udito. L’olfatto: La storia di Giovanni Battista, raccontata nel primo capitolo del Vangelo di Luca, parla di un annuncio rivolto al sacerdote Zaccaria – futuro padre di Giovanni - che si trovava nel tempio di Gerusalemme e si occupava del ministero dell’incenso, cioè di farne esalare il profumo. Era un rito di particolare importanza, capace di commuovere facilmente il cuore di Dio, poiché il profumo con il suo veloce salire in alto, raggiunge prima di ogni altra offerta la sede di Dio. Spesso i profeti dicono che Dio gradisce il profumo dei sacrifici, altre volte, invece, che non lo gradisce per nulla. Il primo capitolo del libro di Isaia dice appunto: “I vostri sacrifici mi vengono a nausea!” (Is 1,11). In una delle immagini più antropomorfiche, vediamo un Dio che prova la nausea a causa di un profumo che dà fastidio, di un cattivo odore. Questa esperienza descrive, dunque, qualcosa di spirituale. Nel mondo semitico in generale, il corpo non è, infatti, assolutamente distinto dall’anima o dallo
28-02-2007
8:45
Pagina 11
spirito, anzi, è proprio il luogo in cui si vivono le relazioni più spirituali. Nel Cantico l’olfatto è utilizzato per parlare dell’incontro tra l’amato e l’amata, o, meglio, per prepararlo. Nella preparazione all’incontro c’è un tempo e uno spazio. Il tempo è la primavera, in cui tutti i profumi sono presenti e vanno a scatenare una specie di concerto, perché l’inverno è passato, è cessata la pioggia. “I fiori spuntano sulla terra, il tempo del cantare è vicino, la voce della tortora vaga per le campagne, distilla dolcezza il fico nei suoi frutti” (Ct 2,12-13). Il profumo del vento evoca la fragranza e la dolcezza del venti mediterranei, che portano la bella stagione e che sono citati come “l’aquilone e l’“austro”. Questi venti di primavera vengono, poi, posti come metafora del profumo dello sposo. Lo sposo si introduce proprio come la primavera, come un vento di aquilone. Il profumo causa l’attrazione che è il motore dell’incontro. Ma la fragranza dell’amato e dell’amata viene spiegata utilizzando anche l’aroma di tutti gli oli conosciuti: nardo, mirra, zafferano, canna aromatica, cannella, alberi di incenso. Un lungo elenco di piante aromatiche che sono solo indicative del profumo di lui o di lei. Perché il profumo di lei è la quinta essenza di ogni profumo! “ Nel mio giardino entravo, sorella mia e sposa e la mirra e ogni essenza ne rapivo” (Ct 5,1). Il vero giardino è il corpo di lei. Il luogo dell’incontro è, da una parte, il deserto, dall’altra il giardino. Lo spazio dell’incontro costituisce un metafora per la persona dell’amata che è un giardino chiuso, cioè un luogo profumato. L’odore di lui, paragonato a quello del vento, è l’odore del suo corpo, per cui la
11
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<11
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
La funzione della metafora è quella di porre un necessario velo, una distanza necessaria sull’impatto con l’altro, il segno del rispetto della sacralità della bellezza che c’è nell’altro sposa dice “Levati, aquilone, e tu, austro, vieni, soffia nel mio giardino, si effondano i suoi aromi” (Ct 4,16). La vista: Il terzo senso è la vista.“Chi è costei che sorge come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole?” (Ct 6,10). Qui i paragoni di lei con l’aurora e con gli astri esprimono un piacere estremo per la vista, la sensazione della bellezza. L’evocazione della luna e del sole proietta il paragone in un mondo primordiale dove la bellezza è luce e lei è bella come la luce! Un rimando che conduce ancora una volta nel contesto dei racconti biblici di creazione dove la luce compare come la prima creatura di Dio: “Dio disse: sia la luce e la luce fu” (Gen 1,3). Allo stesso tempo la parola luce ci spinge sull’avvento di Gesù che si affaccia nel mondo come la vera luce: “Veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo..” (Gv 1,9). Dunque la vista, come senso del corpo, prelude ad una capacità di visione ulteriore, spirituale. Se leggiamo il Cantico solo in superficie troveremo un canto profano, un canto che chiunque avesse un animo naturalmente nobile potrebbe scrivere, ma vedremo come poi davvero si passi dai messaggi condotti dagli umori e dalle sensazioni a qualcosa di ulteriore, e ci per-
12 12>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 12
metta, quindi, di rivelare qualcosa di invisibile, che resta dentro ciò che appare. La vista è abbagliata dalla bellezza: “come sei bella amica mia, come sei bella, gli occhi tuoi sono colombe” (Ct 4,1). Il paragone con le colombe non è affatto umoristico – come qualcuno pensa - vi troviamo, piuttosto, il segno di una estrema delicatezza, perfino una trasfigurazione, perché il senso della vista produce sensazioni più forti con l’utilizzo delle similitudini. C’è bisogno di cogliere dei paragoni per poter spiegare: simili a quella cosa sono gli occhi o i capelli o il sorriso. La funzione della metafora è quella di porre un necessario velo, una distanza necessaria sull’impatto con l’altro, il segno del rispetto della sacralità della bellezza che c’è nell’altro. “Le tue chiome come un gregge di capre, come un nastro di porpora le tue labbra, la tua bocca è soffusa di grazia” (Ct 4,1-2). Le descrizioni metaforiche della bellezza di lei o di lui sono copiose. La stranezza è che la sposa del cantico, in verità, non fosse bella! E su questo rilievo potremmo cogliere un umorismo pirandelliano nel libro. Lei stessa dice, infatti, di sé “sono nera, ma bella” (Ct 1,5) Le donne nere di pelle, abbronzate, erano le contadine, cioè le donne che lavoravano sotto il sole. Mentre le principesse erano bianche, perciò belle per definizione. Inoltre nella pelle scura la Bibbia contempla la discutibile inferiorità dei Camiti, preda della maledizione che grava sul loro progenitore Cam, figlio di Noè (cf. Gen 9,22ss.). Si deve dunque intendere che la sposa del Cantico non fosse affatto bella, ma fossero gli occhi di lui a vederla tale: la vista di chi la amava la rendeva
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
bella, la sensazione che lui provava, guardandola, si riversava su di lei come bellezza. Un simile tipo di sensazione visiva appare anche nella lettera agli Efesini al capitolo 5, dove Paolo parla di Gesù come dello sposo della Chiesa e dice che Gesù ha amato la Chiesa: “e ha dato se stesso per lei (…) per farsi comparire davanti la sua Chiesa tutta gloriosa, senza macchia e senza ruga” (Ef 5,25-27). La bellezza della Chiesa, nel testo paolino, non è, dunque, altro che ciò che deriva dall’amore di Gesù che si trasfonde in lei. In virtù del suo amore così pieno, Egli stesso può vederla oltre la sua concreta apparenza, tutta bella e senza rughe. La bellezza è, insomma, veicolata da questo terzo senso che è la vista. La sensazione che ne deriva non nasce dalla simmetria né dalla armonia delle forme, ma dalla tenerezza del cuore che guarda. Da essa deriva una visione assolutamente ulteriore, in cui il gusto della vista si unisce a quello dell’udito e dell’olfatto. Il gusto È un linguaggio intenso e delicato quello che presenta le sensazioni del quarto senso: “Il tuo palato è come vino squisito che scorre dritto verso il mio diletto” (Ct 7,10); “Mi hai condotto nella cella del vino e il suo vessillo su di me è amore. Sostenetemi con focacce di uva passa, rinfrancatemi con pomi perché io sono malata d’amore” (Ct 2,4-5). Nell’incontro dei due amanti c’è estasi, c’è una gioia assoluta dei sensi che viene assorbita ed espressa nel senso del gusto. Il tatto: Paradossalmente il senso meno coinvolto nel Cantico è il tatto: “Fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello. Ho aperto, allora, al
28-02-2007
8:45
Pagina 13
mio diletto, ma il mio diletto già se ne era andato, era scomparso. Io venni meno per la sua scomparsa. L’ho cercato, ma non l’ho trovato, l’ho chiamato, ma non mi ha risposto” (Ct 5,5-6). Il contatto fisico tra i due amanti dura un secondo. C’è una castità dello stesso amplesso. Possiamo concludere che tutte le sensazioni sono vissute con una piena castità. Esse non tendono a possedere l’amato o l’amata, ma a contemplarne la bellezza. Quale umorismo nel Cantico?: Il ritmo del libro del Cantico, veicolato dai cinque sensi che abbiamo analizzato, è affannoso e frenetico, perché i sensi sono spinte di attrazione che inducono alla ricerca della persona amata, senza permettere, però, di raggiungerla e catturarla per sempre. Questa constatazione ci conduce ad ipotizzare che nel libro ci sia dell’umorismo. Ma che tipo di umorismo? Procediamo per esclusione. Le metafore dei fiori e degli animali non risultano umoristiche e neppure il continuo rincorrersi dei due innamorati. Troviamo, invece, dell’umorismo “pirandelliano” nel fatto che nel libro si riveli il contrario di quanto si descrive in superficie. C’è una celebrazione assoluta dei cinque sensi, per cui gli stessi vengono utilizzati come unici strumenti della reciproca conoscenza. Ma di che tipo di conoscenza si tratta? L’accesso a ciò che si può udire, gustare, vedere, toccare, introduce a qualcosa che, paradossalmente, non può, in verità, essere posseduto, né toccato, né visto. La verità del Libro sta nell’adagio: “ho cercato ma non ho trovato”. Qualcosa che farebbe pensare ad una conclusione negativa, ma non è così. Attraverso il canale dei sensi i protagonisti del Cantico giungono ad
13
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<13
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
avere una conoscenza che supera gli stessi sensi, proprio quando ottiene una conoscenza sembra essere pervenuto al vuoto della conoscenza. Su questa linea interpretativa si pone la lettura di Guido Cernetti, traduttore e commentatore del Cantico. Egli propone, come immagine simbolica del poemetto, la ricerca dei due innamorati e la paragona all’interno del Santo dei Santo. Il libro nella sua rincorsa amorosa è “vuoto” come il Santo dei Santi, cuore della Dimora del Signore nel Tempio. La stanza del Cantico è vuota come il Santo dei Santi, ma quel vuoto significa Dio. Non è un vuoto negativo, ma pieno dello spazio di Dio, il luogo di Dio. Questo è l’ amore nel Cantico dei Cantici. In conclusione, quindi, secondo la lettura che abbiamo fatto sin qui, dobbiamo passare dalla parola “umore” alla parola “amore”. Gli umori che attraggono gli amanti del Cantico sono un velamento dell’amore, di quell’amore tipicamente biblico che non si può possedere. Anche l’amore consiste, infatti, di un “andare verso”, di uno protendersi sull’altro. Si tratta di una sorta di sospensione su uno spazio vuoto, una cavità, che rende possibile l’afflato amoroso. L’umorismo del Cantico si realizza quando le sensazioni, gli umori, si trasformano in armonie. E le sensazioni, allora, diventano sentimenti. L’armonia diventa sentimento quando c’è il legame con l’altro, cioè quando non si possiede niente: pensiamo al senso della verginità come purezza e completezza dell’amore. L’umorismo bello e serio del Cantico dei Cantici, sta nel velo che le numerose descrizioni delle sensazioni pongono per condurre a un superamento totale delle stesse, passando attraverso di
14 14>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 14
esse; per condurre al “vuoto”, all’incatturabile che c’è dentro. Chi fa esperienza autentica di un rapporto d’amore vive questo: l’impalpabilità di ciò che lo lega all’amato. L’umorismo del Cantico riposa, dunque, nel fatto che il libro nasconde sotto il suo velo di mera sensualità, un messaggio di altissima spiritualità. 1 “Umorale” Passando ad analizzare l’aggettivo “umorale” ci trasferiamo su di un piano psicologico. Si dice umorale di una persona che cambia facilmente stato d’animo e va dalla serenità alla tristezza, dall’allegria alla malinconia, per ragioni che appaiono apparentemente incomprensibili e inspiegabili. Non mancano casi del genere nella Bibbia. La tristezza di Saul: Un primo esempio che vorrei proporre è quello di Saul, primo Re d’Israele (cf. 1Sam 8ss). Saul è potente, è alto e bello, prescelto da Dio per regnare su Israele e, quindi, consacrato dal profeta ed acclamato dal popolo. Era Saul la persona cui Dio affidava il futuro del suo popolo. Con l’istituzione della monarchia Israele acquista un’identità più solida e forte. Siccome era stato Dio stesso a stabilire chi dovesse regnare, il re doveva farlo secondo i criteri dettati da Dio, sotto il controllo del profeta. Saul aveva, dunque, Dio dalla sua parte. Ciò nonostante i testi ci raccontano che, ad un certo punto, egli cadde in depressione! Che strano! Proprio il re, proprio l’uomo più potente in mezzo ai suoi fratelli, si ammala di malinconia: “Lo spirito del Signore si era ritirato da Saul ed egli veniva atterrito da uno
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Passando ad “umorale” ci trasferiamo su di un piano psicologico. Una persona che cambia facilmente stato d’animo e va dalla serenità alla tristezza, dall’allegria alla malinconia, per ragioni che appaiono apparentemente incomprensibili e inspiegabili. Non mancano casi del genere nella Bibbia. spirito cattivo da parte del Signore. Allora i servi di Saul gli dissero: «vedi, un cattivo spirito sovraumano ti turba” (1Sam 16,14). Viene chiamato “cattivo spirito sovraumano” qualcuno che, nella mentalità biblica, era potente come un dio, il solo a potersi insinuare nella profondità dell’animo dell’uomo e turbarlo con la tristezza. Il racconto di questa malattia psichica e spirituale di Saul continua così: “Comandi il Signore nostro ai ministri che ci stanno intorno e noi cercheremo un uomo abile a suonare la cetra. Quando il sovrumano spirito cattivo ti investirà quegli metterà mano alla cetra e ti sentirai meglio” (1Sam 16,15-16). La dolcezza della musica avrebbe permesso al re di distrarsi e di non pensare a ciò che lo angustiava, a liberarsi da quella angoscia quasi in maniera in maniera magica, come accadrebbe oggi con i sedativi. Secondo i suoi ministri, insomma, Saul aveva bisogno di qualcosa che lo calmasse, di palliativi. Ed ecco che viene chiamato a corte Davide, già famoso nel circondario, come suonatore di cetra. Il seguito è inquietante: penetrato a Palazzo per scacciare la malinconia del re, in seguito Davide si sosti-
28-02-2007
8:45
Pagina 15
tuirà al re stesso! Un fatto piuttosto simbolico: accade, spesso, che ciò che sembra consolarci, come la musica ad esempio, alla fine si impossessi di noi e ci governi... Il palliativo diventa il padrone della nostra vita, così come Davide diventerà Re al posto di Saul! Qui c’è umorismo, perché la storia è un po’ caricaturale, oltre ad essere anche amara! Ma ancora una volta si tratta di un umorismo pirandelliano. La tristezza di Saul è descritta in maniera artistica, giocosa per il lettore, ma è il velo che nasconde un significato più profondo: la tragedia di Saul! Accade che egli, a un certo punto, non si fidi più di nessuno dei suoi collaboratori. Non si fida più di Samuele, il profeta, non si fida di suo figlio Gionata che è il suo braccio destro e si sostituisce al popolo in quanto pensa di poterlo governare senza ascoltare i suoi disagi, le sue esigenze e la sua volontà. Saul non si fida più neppure di Dio. Vorrebbe ricorrere alla stregoneria, alla magia. Tutto ciò fa di lui un uomo solo. Allora la tristezza, l’isolamento, fanno piombare su di lui una incurabile depressione. In questa storia c’è umorismo perché c’è velamento e contrapposizione di registri: Saul il re che in apparenza disponeva del favore e del servizio di Dio e del popolo, era, in realtà, un uomo assolutamente solo. Essendo alto e robusto egli appariva il tipo adatto per essere Re, ma era, in verità, un uomo debole, che trasformerà la sua fragilità in tirannia. Per questo il profeta Samuele sarà costretto, alla fine, ad ungere Davide al suo posto per governare Israele. L’euforia di Davide: Un altro caso di “umoralità” umoristica è il racconto della festa che fece il re Davide in occasione dell’entrata dell’Arca in Geru-
15
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<15
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
salemme (cf. 2Sam 6). In quel giorno specialissimo il re inaugura i festeggiamenti di rito lanciandosi nel vortice di una danza sfrenata, indossando un perizoma di lino. Agli occhi di chi lo guarda con distacco, senza considerare l’importanza sacrale del suo gesto, Davide sembra ridicolo. In realtà sta celebrando uno dei momenti più importanti della storia di Israele: quello dell’insediamento dell’Arca in Gerusalemme che consacrerà per sempre ad Adonai quella città. Nel racconto c’è dell’umorismo ed anche del sarcasmo, quest’ultimo è una forma amara di riso, diversa dall’umorismo. L’umorismo sta in questo: sotto la scena di Davide che balla in maniera sfrenata, che si lascia andare fino ad apparire esagerato, si intuisce la gioia profonda che dovesse provare il re per il fatto che il Signore risiedesse ormai con il suo popolo, nella Santa Città. Solo agli occhi di chi non comprende e non condivide il senso profondo di quella gioia la scena risulta spoglia, stupida e ridicola. L’umorismo non può prescindere dal consenso, dalla sintonia. Mentre l’Arca entrava in Gerusalemme Mikal – figlia di Saul e moglie di Davide - invece di partecipare alla festa e danzare con suo marito “guardò dalla finestra; vedendo il re che saltava e danzava dinanzi al Signore lo disprezzò in cuor suo” (2Sam 6,16). Nell’atteggiamento ritroso di Mikal, nel suo sguardo distante, leggiamo il giudizio di lei sul fare del re. Vedendo il Re Davide ballare, Mikal lo disprezza. Il dettaglio minimalista di quello sguardo dalla finestra, ci fa cogliere l’aspetto dell’ironia e del senso del ridicolo. Ma quanto appare di ridicolo agli occhi di Mikal non è affatto umoristico. Cosa può
16 16>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 16
trasformare un evento esternamente ridicolo in qualcosa di autenticamente umoristico? La sintonia tra chi guarda e chi è attore dell’evento. Non si può partecipare all’umorismo di un evento, se non c’è condivisione, se non c’è “complicità”, comunione di intenti tra coloro che vi partecipano, in un modo o nell’altro. Davide sarà il Re da cui discenderanno i futuri monarchi di Gerusalemme, Mikal, invece, non avrà più figli, da allora in poi. Chi non ride, chi non partecipa alla festa, condanna se stesso alla morte, si auto-esclude dalla vita. Il tipo di umorismo che abbiamo appena visto ci permette di operare un aggancio di esso con l’etica, con il codice dei valori. I valori derivano da un patto fra gli uomini, i quali stabiliscono il bene in alcuni comportamenti e il male in altri. Le stragi di bambini non ci fanno ridere: si tratta di violazione della vita, è una cosa univoca e in essa non può esserci umorismo, poiché lì si esce fuori da ogni metafora. La danza di Davide, pur essendo giocosa e divertente, contempla una moralità di fondo, un legame di valori di fondo. E chi non viveva questo legame – il caso della moglie - nonostante avesse un contratto di matrimonio con lui, rimaneva fuori dall’“umorismo” della festa in cui Davide “danzava con tutte le sue forze dinanzi al Signore” (2Sam 6,14). Per concludere: l’umorismo prevede un patto, una simpatia, una comunione di valori ed una sintonia spirituale. Acab, il capriccioso: Al capitolo 21 del Primo Libro dei Re, troviamo un altro caso di esperienza “umorale”: è quello del re Acab, marito della Cananea Gezabele, che desidera acquistare una vigna collo-
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
cata vicno a casa sua. Accade che il legittimo proprietario di quella vigna, di nome Nabot, si rifiutasse di accettare la proposta dicendo: “Mi guardi il Signore dal cederti l’eredità dei miei padri” (1Re 21,3). È una risposta più che comprensibile se si considera che nell’Israele antico la terra, la cui fruizione era di diritto divino, non poteva essere alienata ad altri. Per questo Nabot non cede all’idea del facile guadagno che sarebbe derivato dalle generose offerte venali del re. A questo punto, nel racconto, si registra la reazione del re Acab, fatta di un atteggiamento che può far ridere: sdegnato per le parole di Nabot il re torna a casa amareggiato, si stende sul letto, si gira dalla parte del muro e si rifiuta di prendere cibo. Anche i re fanno i capricci! È una scenetta che fa ridere, perché è formulata in maniera umoristica, ma fa anche capire come sotto il capriccio si nasconda l’arroganza e la prepotenza che il re scatenerà contro Nabot successivamente. La passione di Amnòn: Ed ecco un ultimo esempio di caso “umorale”: quello di Amnòn e sua sorella Tamar (2Sam 13). Il re Davide aveva più mogli che gli avevano dato dei figli. Il capitolo 13 del secondo Libro di Samuele racconta del primogenito di Davide, Amnòn, il quale si invaghisce di Tamar, sorella di Assalone e sua sorellastra, figlia di Davide ma non di sua madre. In preda alla passione Amnòn si finge malato a tal punto da costringere il re ad andarlo a trovare. Il padre, preoccupato, gli chiede il perché della sua malattia e Amnòn gli risponde che avrebbe mangiato solo nel momento in cui Tamar fosse venuta in camera sua, gli avesse preparato delle
28-02-2007
8:45
Pagina 17
C’è umorismo perché c’è velamento e contrapposizione di registri: Saul il re che disponeva del favore di Dio e del popolo, era, in realtà, un uomo solo. Essendo alto e robusto appariva adatto per essere Re, ma era, in verità, un uomo debole frittelle con le sue stesse mani e poi gliele avesse porte. La scena appare caricaturale, ma poi, a causa dell’evolversi della vicenda, verrà ad assumere una luce tragica. Quando, infatti, Tamar raggiunge il fratello per cucinargli le frittelle, ignara di quello che Amnòn, stesse covando nel cuore, lui la afferra e la violenta. Il giorno dopo, poi, ormai bruciato il desiderio, Amnòn la scaccerà e non vorrà più saperne di lei. Similmente al caso del re Acab anche in questo caso si tratta di un esempio in cui uno stato d’animo “umorale” può mascherare un desiderio di nuocere agli altri. In questi racconti c’è dell’umorismo, perché sono formulati in un modo lievemente caricaturale per cui alcuni elementi appaiono intenzionalmente esaltati, esagerati, resi quasi paradossali. Ma le simpatiche scenette domestiche diventano “umoristiche” specialmente quando, sotto l’apparente leggerezza rivelano la gravità e l’orrore dei fatti. 1 “Umorismo” Proviamo, ora, a tentare un definizione di umorismo per quanto concerne l’ambito biblico sinora visionato. Avvalendoci della concezione pirandelliana - che
17
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<17
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
abbiamo assunto all’inizio come possibile chiave di lettura - potremmo definire l’umorismo come un velamento letterario fatto da testi che creano un soggetto leggero e giocoso, od un soggetto caricaturale, con il fine non di far ridere semplicemente, ma di far trapelare, dallo stesso, una verità opposta e spesso pesante e drammatica. L’umorismo di Dio: Nella Bibbia, ci sono, inoltre, casi in cui si trova un Dio che si diverte alle spalle dell’uomo di fede. Dio usa questo suo umorismo in modi diversi. Talvolta Egli “gioca” a distruggere le sicurezze dell’uomo, attraverso le parole dei profeti. Un esempio è quello in cui Isaia deve lanciare invettive feroci e sarcastiche contro il culto ipocrita degli abitanti di Gerusalemme: “Quando venite a presentarvi a me, chi richiede da voi che venite a calpestare i miei atri? Smettete di presentare offerte inutili. L’incenso è un abominio per me ” (Is 1,12-13). Sembra una presa in giro! Proprio ciò che dovrebbe farGli estremo piacere - le azioni di culto - vengono denunciate da Dio stesso come azioni nauseanti e sgradevoli! Samuele: Un altro caso di umorismo di Dio, benché di tipo diverso, è quello che appare nella vocazione di Samuele (1Sam 3). Il racconto ha, all’inizio, un richiamo alla favola di “Al lupo, al lupo”, poiché Dio chiama per tre volte Samuele e Samuele, credendo che a chiamarlo fosse il sacerdote Eli, corre da lui dicendo: “Eccomi”! Ma Eli lo fa passare per matto e per tre volte gli risponde: “Non ti ho chiamato, figlio mio!”. Sembra un gioco in cui Dio si diverta facendo dispetto ad un ragazzo ingenuo ed inesperto (cf. 1Sam 3,4-8).
18 18>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 18
In realtà il racconto contiene una forte intento pedagogico. Subito dopo, scopriamo, infatti, che la storia rivela la non conoscenza della voce di Dio da parte di Samuele, per cui egli scambiava la Sua voce con quella di Eli, il sacerdote. Quello che sembrava un gioco si rivela un tirocinio con cui il ragazzo impara a riconoscere la voce di Dio. Alla fine del racconto, infatti, Samuele non si reca più dal sacerdote, quando la voce lo chiama, poiché sa rispondere direttamente al Signore. Elia: Un altro esempio in cui Dio sembra fare dispetti è quello della crisi del profeta Elia (cf. 1Re 19). Un profeta è chiamato a portare un messaggio, a svolgere un compito affidatogli da Dio, e il compito di Elia era quello di mostrare la potenza di Adonai – Dio di Israele - davanti ai profeti di Baal. Arriva anche per lui il momento in cui viene perseguitato e cade, allora, nella tentazione di mollare tutto e cambiare vita. Peraltro Elia, dopo aver sterminato con la spada i profeti di Baal sul monte Carmelo (cf 1Re 18,20ss.) viene minacciato di morte dalla regina Gezabele e, in preda alla paura, scappa a Bersabea (cf. 1Re 19,1ss.). Qui lascia il servo, si inoltra nel deserto e si siede all’ombra di un ginepro. Gli viene la tentazione di morire e si rivolge a Dio dicendo: “ Ora basta, Signore! Prendi la mia vita.. ” (1Re 19,4). In questa scena c’è un umorismo molto sottile, perché vediamo il profeta arrabbiato con il Signore per averlo lasciato in balìa del nemico. Sembra, addirittura, che Elia volesse quasi punire Dio, togliendogli la sua (di Elia) vita. Elia vorrebbe morire e per questo si corica sotto al ginepro, addormentandosi. Ma un angelo lo sveglia per farlo
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
mangiare e dargli le forze di mettersi in cammino per tornare al Monte di Dio, l’Oreb (cf. 1Re 19,5ss.). La storia contiene un umorismo non neutro o negativo, come quello di Pirandello, ma positivo, che porta verso una rivelazione che dà un plusvalore alle esperienze della vita. Mosè: Un altro caso di umorismo di Dio è quello che è destinato ad uomini speciali. Si tratta di esperienze attraverso le quali dovranno imparare ad essere liberi, persino da sé stessi. Possiamo prendere ad esempio Mosè. Questi conduce quello che era un gruppo anonimo di ebrei che risiedevano in Egitto, a diventare una autentica entità politica, dandogli una memoria ovvero un’identità; dandogli una legge. Il dono sinaitico della Legge, realizzato per mezzo di Mosè, crea le basi per poter dapprima conquistare, quindi abitare e governare una terra, un paese. La legge fornisce la sapienza, le regole di convivenza, quanto è indispensabile a promuovere la solidarietà di tutto il popolo che deve
28-02-2007
8:45
Pagina 19
costituirsi in una nazione. Ma Mosè non entrerà mai nella terra. Proprio colui che dà luce alla coscienza della nazione di Israele, rimarrà sul monte Nebo. In questo modo con questa specie di amara ironia della sorte, il più grande di tutti i profeti viene educato da Dio all’estrema libertà. Geremia: Un altro esempio di profeta con cui Dio sembra divertirsi è Geremia. C’è un testo in cui il profeta si lamenta con Dio dicendo: “Tu sei troppo giusto Signore (...) ma vorrei solo rivolgerti una parola sulla giustizia. Perché le cose degli empi prosperano?” (Ger 12,1). Con questa domanda così seria e sempre attuale, Geremia non si lamenta per sé, ma perché la prosperità dell’empio fa dilagare l’ingiustizia e inaridire la terra, perché con la sua ipocrisia l’empio si fa gioco anche di Dio. A questa domanda, però, Dio risponde in modo inaspettato: anziché rassicurare il suo profeta con qualche promessa di cambiamento per il futuro o altre cose del genere, Dio non risponde affatto alla sua contesta-
19
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<19
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
zione, al contrario, gli fa capire che la sua difficoltà di oggi non è nulla di fronte a quello che dovrà sopportare domani. Piuttosto che farlo sentire tranquillo e protetto, Dio insegna a Geremia ad entrare nel Suo mistero di salvezza, dove sono lecite e fors’anche dovute le domande, ma non possono essere pretese le risposte. In questo difficile umorismo sono in gioco la libertà di Dio e la libertà dell’uomo. La stanza del rispetto tra queste due libertà si chiama mistero: essa è vuota come quella dell’Amore nel Cantico dei Cantici. Dio ride con se stesso: C’è, infine, un altro tipo di umorismo di Dio: quello che Egli usa con sé stesso. Credo che sia, forse, l’unico caso in cui si possa usare appieno il termine “umorismo” per la Bibbia. Esso consiste nella libertà di cambiare idea, di cui pochi sono capaci! La durezza del cuore del faraone, ma anche la durezza della cervice di Israele, è causata, ad esempio, dalla rigidità nei confronti del cambiamento. Nel libro dell’Esodo Faraone si espone alla tragedia che gli deriverà dal non voler lasciar partire Israele (la morte dei promogeniti!), perché, nella sua sapienza, l’Egitto sapeva di non poter fare a meno degli immigrati, per costruire i suoi magazzini. E anche dopo le prime nove piaghe, Faraone non si rende conto che non è possibile tenere prigioniero un popolo per sempre, poiché prima o poi scoppierà, ciò nonostante non vuole cambiare strategia. Questa stessa “sapienza” verrà poi fatta propria da Israele. Capita che chi abbia subito la tirannide, piuttosto che ricavarne il giusto insegnamento e bandirla per sempre dal proprio orizzonte, si trovi a
20 20>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 20
Dio fa capire che la sua difficoltà di oggi non è nulla di fronte a quello che dovrà sopportare domani. Piuttosto che farlo sentire tranquillo e protetto, Dio insegna a Geremia ad entrare nel Suo mistero di salvezza, dove sono lecite e forse anche dovute le domande, ma non possono essere pretese le risposte riproporre il modello che ha vissuto. Chi ha subito il sopruso, si difende riproponendolo sui suoi subalterni e questa sarà spesso la durezza del popolo di Israele, una volta emancipatosi dall’Egitto. Come fa Dio a dare un contro-esempio? Mostrandosi libero di cambiare idea. Lo fa dopo l’episodio del vitello d’oro, quando decide di rompere l’alleanza appena stipulata (Es 32) e Mosè interviene facendogli cambiare idea. Ci sono altri esempi, come quello del libro di Amos, dove Dio ha deciso di mandare le cavallette a consumare la seconda fienagione, ovvero quella che dava sostentamento al popolo, visto che la prima veniva versata come tassa al re. E ancora una volta Dio cambia idea, dopo l’intervento del Suo profeta (cf. Am 7,1ss.). Due testi umoristici: Per concludere vorrei proporvi due testi che considero veramente umoristici, nei quali c’è, oltre alla solita linea sostanziale fin qui considerata, un aspetto formale piuttosto chiaro. Il primo è un testo che potrebbe essere paragonato ad una vignetta di satira politica: il cosiddetto Apologo di Iotam (Giudici 8). Si tratta di una parabola
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
costruita sulla metafora degli alberi. Inizia con la menzione di una teoria di alberi che si mettono in cammino per andare a ungere un Re su di loro. Dapprima si rivolgono all’ulivo e gli chiedono di regnare su di loro. Ma l’ulivo risponde che non vuole rinunciare a fare il suo olio, bene prezioso usato per onorare dei e uomini, per andare ad agitarsi sopra agli alberi. Successivamente viene interpellato il fico. Ma anche il fico declina dicendo che non avrebbe rinunciato alla dolcezza del suo frutto squisito per andare ad agitarsi sopra gli alberi. Poi è il turno della vite, ma anche lei dice che non avrebbe rinunciato al suo mosto che allieta uomini e dei, per andare ad agitarsi sopra agli alberi. Alla fine non resta agli alberi che rivolgersi al rovo e proprio lui è quello che acconsente a regnare sopra di loro. Non vi sembra un ottimo esempio di arguta satira biblica, sulla quale, magari, far riflettere anche i nostri politici odierni...? Sara e i suoi mariti: Una scena addirittura esilarante è quella contenuta nel volumetto di Tobia. Nonostante Sara avesse avuto sette mariti e fossero morti tutti durante la prima notte di nozze, l’incosciente Tobia - munito di ciò che aveva rinvenuto dentro al pesce – decide di sposarla (cf. Tb 6). Raguele – il padre di Sara - tace di fronte alla coraggiosa decisione del ragazzo, pur prevedendo con rammarico che egli sarebbe stato l’ultima vittima di quel demonio che insidiava la figlia. È proprio il comportamento di Raguele a fornirci un formidabile esempio di umorismo biblico. Mentre i due novelli sposi sono rinchiusi nella camera da letto, per consumare le nozze, Raguele intende cautelarsi
28-02-2007
8:45
Pagina 21
e va fuori a scavare la fossa per lo sventurato Tobia, pur con in cuore la speranza di non doverla usare il mattino seguente! (cf. 8,10ss.). Fortunatamente, per l’intervento di un angelo, Tobia non morirà e il demonio Asmodeo lascerà in pace Sara e i due saranno felici e contenti! Intanto, però, questa storia, che sembra una favola, ci ha dato l’occasione per fare una bella risata! Il paradosso, il sarcasmo e il cinismo: Negli ultimi esempi presentati abbiamo visto come l’umorismo in senso stretto e secondo l’accezione più comune, cioè come un racconto capace di suscitare il riso, sia, essenzialmente, fondato sul paradosso. Il paradosso è presente in un racconto che appare assurdo nella sostanza, reso con un linguaggio spiritoso ed allegro, capace di esorcizzare le brutture della vita. Affinché un testo possa dirsi umoristico deve avere una formulazione letteraria particolare che includa alcuni elementi essenziali da un punto di vista formale, come la lieve caricatura - non finalizzata allo scherno, ma all’ironia - la leggerezza del soggetto e il paradosso. Può essere umoristico un racconto assolutamente privo di motivi tragici. Esiste, però, un confine purtroppo sottile tra il concetto di umorismo e quello di sarcasmo o addirittura di cinismo. Dobbiamo individuare la discriminante nel momento in cui scompare la metafora, il velamento letterario che permette al racconto di dire qualcosa di altro e, allo stesso tempo, di “velarlo”. La metafora è un modo per rispettare la realtà: se parlo del tatto usando una metafora rispetto, ad esempio, il gesto “sacro” del toccare. Quando si esce dalla metafora e si “dis-vela” l’immagine, si
21
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<21
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
rientra nella realtà, e così essa diventa univoca, perciò desacralizzata. In questa direzione l’umorismo conferisce il senso religioso delle cose e delle relazioni. A tal proposito si pensi all’immagine del velo della sposa del Cantico che permette allo sposo di vedere solo uno “spicchio” della sua gota, ma, al tempo stesso gli permette il contatto con lei (Ct 4,3). La metafora e il senso religioso: L’umorismo finisce laddove finisce la metafora per cui c’è una forte analogia con il senso religioso, in virtù del quale l’uomo rispetta l’alterità in quanto sacralità, quindi il corpo dell’altro come metafora. Nella Bibbia un concetto basilare è la sacralità della vita e su questo concetto si fonda il rapporto tra gli esseri umani, perché l’altro mi dice la vita nella misura in cui mi rispetta, cioè pone tra me e sé la libertà. E allora quando il racconto ridiventa univoco finisce l’umorismo e ci si trova davanti ai due aspetti, ambedue limitati e solitari, del comico e del tragico. Uscire dalla metafora vuol dire manipolare la vita e la realtà, perdere il senso religioso della stessa ed anche abbandonarla a se stessa. Plausibilmente questo è un motivo all’origine del fatto che Gesù parlasse specialmente in parabole, tipica genere letterario evangelico, benché non inventato da Gesù. La formulazione della parabola presuppone un paragone tra due parti: la parte “fittizia” e quella che potremmo definire “esplicativa”. Se togliessimo una delle due parti non vedremmo né comprenderemmo mai nulla dell’altra. La parabola non consiste, infatti, soltanto del registro teologico, ma anche di quello concreto, reale. Dio è come il seminatore, non è il seminatore: deve rima-
22 22>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 22
nere il “come”. In questo linguaggio di Gesù si trova una traccia importante dell’umorismo di cui abbiamo sinora parlato. Ma nella vita del Figlio dell’uomo, purtroppo, c’è un tempo in cui si contrae la metafora ed allora appare la tragedia, come nei racconti della passione e morte. Il senso religioso pervade la Bibbia, ma la Bibbia è forata anche dai colpi di spada del ritorno alla univocità per cui l’uomo arriva a manipolare perfino Dio. Quando Dio dona il suo nome a Mosè lo fa con un enigma, perchè mentre mette il suo stesso essere nelle mani dell’uomo, vorrebbe impedirgli di manipolarlo e di abusarne (cf. Es 3,14). Il nome di Dio, nelle mani e nella bocca dell’uomo diventa etichetta per fare guerre sante, giurare menzogna e compiere violenza! In questo modo se si ride del successo ottenuto e della stupidità apparente di chi ci è cascato, si compie un atto di cinismo. L’amaro riso degli stolti toglie dignità alla storia, per cui cinismo e stupidità si coniugano a perfezione. Ha ragione D. Bonhoeffer quando afferma in Resistenza e resa: “Ben peggiore della malvagità è la stupidità”.
* docente di Sacra Scrittura presso l’Istituto Teologico Marchigiano di Ancona
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:45
Pagina 23
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
Lo sguardo sorridente di Dio di Dom Matteo Ferrari*
1 Di fronte ad un argomento di questo tipo si prova immediatamente un doppio sentimento. Innanzitutto un certo imbarazzo: quale via seguire per parlare dell’umorismo di Dio nella storia della salvezza? Contemporaneamente, però, si prova anche una certa attrazione per un tema così poco comune nella nostra riflessione biblica, teologica e spirituale. Certo non è facile affrontare una tematica di questo tipo nella Bibbia. Proviamo semplicemente a sottolineare alcuni aspetti della questione seguendo alcuni dei “sentieri” che si possono presentare davanti a noi.
1 Dio ride degli empi (alcuni salmi) Nelle scritture ebraiche la ricorrenza del verbo “ridere” qxf compare 37 volte e in soli tre casi nel Libro dei Salmi ha Dio per soggetto. Dalla ricorrenza di questo verbo sembra che il Dio della bibbia rida un po’ poco. Certo non si può partire da qui per ricavare un quadro soddisfacente ma non è tuttavia inutile soffermarci anche su questo aspetto parziale. Innanzitutto ci possiamo chiedere: ma di cosa o di chi ride Dio? Dalla ricorrenza del verbo “ridere” si direbbe che Dio ride solo degli empi. In alcuni casi il verbo qxf significa “prendersi gioco” (qal; hif) e quando si tratta di Dio i destinatari di questo suo atteggiamento sono gli empi, i malvagi, gli ingiusti. Ma vediamo i testi nei quali troviamo questo “sorriso” di Dio. Il primo testo nel quale si dice che Dio “ride” é un salmo. Si tratta del Salmo 2: “Colui che siede nei cieli riderà, il Signore si farà beffe di loro” (v. 4).
Il soggetto è YHWH (v. 2) che deride le genti e i re della terra che pensano di contrastare i suoi disegni e il regno del suo Messia. Il Re-Messia è il luogotenente di Dio, attraverso di lui il Signore provvede a portare avanti il suo “disegno” sulla storia e sull’umanità. La reazione di Dio nei confronti di coloro che tentano di ostacolare il Messia e congiurano contro di lui è innanzitutto un “sorriso di scherno”. In questo primo testo il sorriso di Dio mostra “l’ironia della storia, che sta ben salda nelle mani del Signore, sovrano del cielo e della terra” . Nel vangelo poi troviamo un episodio che rimanda a questo primo tratto dell’“umorismo di Dio”. Nel Vangelo di Marco e nel Vangelo di Matteo i capi dei giudei parlano della condanna di Gesù dicendo: “Non durante la festa, perché non succeda un tumulto di popolo” (Mc 14,2; cfr. Mt 26,5). Invece, nonostante i loro piani e “le loro trame”, tutto accadrà proprio durante la festa, la festa della Pasqua che è il luogo della celebrazione di tutte le opere di salvezza che Dio ha operato nella storia. Tutto sembra essere nelle mani degli uomini di potere, il Figlio di Dio fatto uomo, il Messia sembra essere nelle loro mani... ma in realtà tutto è saldamente nelle mani di Dio e nulla può contrapporsi alla sua opera di salvezza che in Gesù giunge al suo compimento. Dio “ride” di chi crede di poter contrastare la salvezza, il Regno di Dio che si realizza nella storia. Un secondo testo é rappresentato dal Salmo 37: “Il Signore ride di lui, perché vede arrivare il suo giorno” (v. 13). Questo salmo è un invito rivolto all’uomo giusto perché non lasci la via della giustizia, invidiando l’uomo
23
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<23
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Dio della bibbia pare ridere poco. Egli “prende estremamente sul serio” l’uomo e la creazione… ride solo di chi crede di poter andare contro la creazione e il suo “sogno” sull’umanità. Questo potrebbe essere un primo tratto dell’umorismo di Dio: il suo prendere sul serio l’uomo, tanto da “scommettere” su di lui empio. Qui il Signore ride dell’empio “perché vede arrivare il suo giorno”, cioè ha uno sguardo più ampio di coloro che vedono solo il presente. Dio guarda la vita dell’uomo, osserva la storia nella sua integrità... ne vede la fine e il fine. Per questo il suo sguardo posato sugli empi lo porta ancora una volta ad un “sorriso di scherno”... perché essi hanno una prospettiva limitata e credono che il loro piccolo mondo sia il tutto dell’esistenza. Il Nuovo Testamento chiamerà “beati/felici” proprio coloro che gli empi considerano sfortunati... miti, poveri, operatori di pace... Tutti questi, che agli occhi degli empi sono considerati dei falliti, Gesù li proclama “beati” già ora perché vivono una dimensione globale dell’esistenza che va al di là di uno sguardo parziale e limitato. Sempre nei salmi troviamo la terza ricorrenza del verbo “ridere”. Nel Salmo 59 si dice:“Ma tu, o Eterno, riderai di loro; ti farai beffe di tutte le nazioni” (v. 9). Questo salmo è la preghiera di un giusto che chiede a Dio di difenderlo contro la prepotenza degli empi che attentano alla sua vita (vv. 7-8). Nei v. 9-11
24 24>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 24
l’orante confessa la sua fiducia in Dio e afferma che il Signore è sua forza e sua difesa. Infatti l’atteggiamento di Dio nei confronti degli avversari empi è quello di un “sorriso di scherno”; e l’orante che pone in lui la sua fiducia ne è consapevole. Dio ride degli empi perché ha in mano una “vittoria sicura”. È interessante ciò che l’orante chiede al v. 12. Egli chiede al Signore di non far perire gli empi perché il popolo “non dimentichi”. Dio non deve far perire gli empi perché la loro stessa vita di peccato e le loro stesse parole malvagie saranno per loro punizione. È un tema che ricorre in altri passi delle Scritture: il peccato porta in se stesso la punizione. La punizione degli empi è già nella loro malvagità, il loro “inferno” è la loro stessa vita malvagia. Da queste tre sole ricorrenze ricaviamo che il Dio della bibbia pare ridere poco. Egli “prende estremamente sul serio” l’uomo e la creazione… ride solo di chi crede di poter andare contro la creazione e il suo “sogno” sull’umanità. Questo potrebbe essere un primo tratto dell’umorismo di Dio: il suo prendere sul serio l’uomo, tanto da “scommettere” su di lui, come avviene nel libro di Giobbe. In questo testo dell’Antico Testamento abbiamo un’altra sfumatura dell’umorismo di Dio, ma nel contesto di una “scommessa” sull’umanità. 1 Dio “sorride” di chi si crede perfetto (Giona…) Ma Dio non si prende gioco solo degli empi, non ride solo dello sguardo ristretto di chi cerca di opporsi al suo disegno sulla storia e sull’uomo. Dio ride anche della prospettiva angusta dell’uomo pio, di colui che si crede giusto. Uno dei casi più “simpatici” è quello
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
di Giona profeta. Giona è un “profeta strano”... fugge dalla Parola di Dio e va nella direzione opposta rispetto a ciò che il Signore gli aveva comandato. Dopo essere fuggito, e dopo aver vissuto l’esperienza, anch’essa non priva di una certa “ironia”, del ventre del grosso pesce, Giona infine cede alla parola di Dio e si reca a Ninive, la grande città, per predicare la conversione. Dopo la predicazione del profeta, ecco che i cittadini di Ninive si convertono: “Chissà che Dio non si ravveda e cambi, cosicché receda dall’ ardore della sua ira e non periamo!” (Gio 3,9). Dio allora, costatando la loro conversione, “ritorna” dai suoi propositi e perdona. Ma di fronte alla conversione dei niniviti e alla misericordia di Dio la reazione del profeta è di indignazione (4,1: ciò dispiacque molto a Giona)... e Giona sembra “fare i capricci”: “Non era forse questo il mio pensiero, quando ero ancora nel mio paese? Per questo io la prima volta ero fuggito a Tarsis, perché sapevo che tu sei un Dio pietoso e misericordioso, longanime e di molta grazia e che ti penti del male!” (Gio 4,2). Giona sapeva che la parola di condanna che Dio lo aveva inviato a portare era vera “ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta” (Gio 3,4) –, ma sapeva anche che nella parola di Dio esiste sempre la possibilità della conversione. E così infatti era accaduto. Una doppia conversione: quella dei niniviti, ma anche la “conversione” di Dio che ritorna sui suoi passi. Il comportamento di Giona è paradossale: un predicatore che si adira per il successo della sua predicazione. G. Von Rad, commentando la reazione di Giona la definisce “una mostruosità psicologico-religiosa” .
28-02-2007
8:45
Pagina 25
Le parole della Scrittura che Giona cita sono il “nome di Dio”, la rivelazione del suo volto in Es 34,6. Giona vorrebbe imporre a Dio una “immagine differente”. A lui “importano i propri pensieri, le proprie concezioni e i propri piani”. Giona ha paura della libertà di Dio. È un po’ quanto accade al patriarca Giacobbe nel libro della Genesi. Egli, nella sua lotta con Dio (Gn 32,23-33) – scena anche questa costellata di tratti umoristici – vorrebbe “possedere” il nome di Dio (Gn 32,30). Ma Questi non si lascia possedere, rifiuta di dire il suo nome, benedice Giacobbe e gli dona un nome nuovo, Israele. Giacobbe chiede il nome di Dio e Dio cam-
25
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<25
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
bia il nome di Giacobbe; egli aveva cercato per tutta la vita di carpire la benedizione del padre Isacco e ora riceve gratuitamente quella dell’uomo misterioso con il quale ha lottato durante la notte. Ma torniamo a Giona. Egli, preso dall’ira, esce dalla città e si apposta ad oriente per vedere cosa sarebbe accaduto alla città che il Signore aveva promesso di distruggere. Durante l’attesa il Signore fa crescere una pianta di ricino sopra Giona per ristorarlo dalla calura opprimente e proteggerlo dai raggi del sole. Un dettaglio interessante e alquanto ironico che aiuterà Giona a comprendere il comportamento di Dio per lui prima incomprensibile. Infatti, quando il mattino seguente spunta il sole, un verme, mandato da Dio, (Gio 4,7) rode la pianta di ricino ed essa si secca. Il Signore, poi manda un caldo vento d’oriente e il sole si fa opprimente per Giona. Egli reagisce disperandosi: “È meglio per me morire che vivere!” (Gio 4,8). Ma a questo punto Dio pone a Giona una domanda… quasi come se stesse parlando ad un “bambino capriccioso”… – forse perché così sono gli uomini che si credono migliori degli altri e li temono come avversari – e gli chiede: “È giusto che tu sia irritato per il ricino?” (Gio 4,9). E Giona risponde: “Sì, è giusto che io mi irriti fino a morirne!”. Il Signore, da questa battuta così umoristica, crea il collegamento con la situazione che il profeta vive: “Tu hai compassione del ricino, per il quale non hai faticato e che non hai fatto crescere; poiché in una notte è sorto e in una notte è finito! io non dovevo aver pietà della grande città di Ninive, nella quale ci sono più di centoventimila esseri umani che non distinguono la destra dalla sinistra e
26 26>>
ricerca
28-02-2007
8:45
Pagina 26
tanto bestiame?” (Gio 4,10-11). Attraverso questo “ironico” fatto dell’alberello di ricino Dio smaschera la “piccolezza” di Giona, la ristrettezza del suo sguardo. È la pedagogia di Dio nei confronti di Giona “espressa con fine umorismo”. Ed é paradossale, come sempre nelle scritture ebraiche, che Dio fatichi di più a convertire il credente Giona che i pagani abitanti di Ninive. Giona, il profeta mandato ad annunciare il castigo divino e ad invitare alla conversione una città pagana come Ninive, si comporta come un “bambino” geloso della misericordia di Dio... capriccioso si rivela anche nei confronti dell’alberello di ricino. Attraverso questa strana e simpatica figura, YHWH ride di chi si ritiene giusto e quasi giudica male la misericordia di Dio che si riversa soprattutto verso coloro che, pur nel peccato e nel limite, sanno riconoscersi bisognosi di lui, non artefici della loro salvezza, ma “gratuitamente” salvati dall’opera misericordiosa di un Dio compassionevole. Questo è un secondo tratto dell’umorismo di Dio. Il primo si rivolgeva verso gli empi, verso i lontani, verso coloro che si erano chiusi nella loro autosufficienza. Il secondo invece si rivolge a coloro che, potremmo dire, si sentono “troppo vicini”. Due sguardi ristretti: uno per la troppa lontananza, uno per eccessiva, o presunta tale, vicinanza. Tanto vicini da non accorgersi che lo sguardo di Dio è più ampio.
1 Dio gioisce e danza davanti alla creazione C’è un altro aspetto dell’umorismo di Dio. Anche se non riguarda direttamente Dio, sono interessanti i
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
casi in cui il verbo “ridere” ha per soggetto la Sapienza personificata. Questa “figura intermedia”, infatti, rimanda a Dio, sta dalla parte di Dio. Il “sorriso” della sapienza può essere considerato il “sorriso” di Dio nei confronti dell’uomo e della creazione. Mentre quando Dio è soggetto del “ridere” la sfumatura appare sempre negativa, qui troviamo anche aspetti positivi... La Sapienza “danza” (Pr 8,30), si diverte davanti a Dio nel momento della creazione: “Io ero presso di lui come un architetto, ero ogni giorno la sua delizia, rallegrandomi ogni momento davanti a lui...“. La TOB dice che qui la Sapienza è “manifestazione amante e gioiosa della sua (di Dio) sollecitudine per i figli dell’uomo”. La Sapienza esprime in qualche modo il legame che c’è tra Dio e l’uomo... un legame espresso qui con il linguaggio della gioia, della danza e del riso. È un po’ come l’espressione di meraviglia e di gioia che troviamo nel libro della Genesi nella narrazione della creazione: “E Dio vide: Bello!” (Gn 1, 4.10.12.18.21.25.31). Espressione, quasi esclamazione di stupore del Creatore per la bellezza di quanto uscito dalle sue mani. La terza immagine dell’umorismo di Dio potrebbe condurci forse alla radice degli altri due lati dell’umorismo nella bibbia visti precedentemente. Dio è “umorista”, secondo la bibbia, per il rapporto che ha con la sua creazione e con l’umanità. Anche l’umorismo pungente dei salmi, lì dove si dice che Dio ride, l’umorismo più benevolo nei confronti di Giona profeta… nascono dall’atteggiamento di chi ha sul mondo e sull’umanità uno sguardo divino, uno sguardo ampio. È un umorismo che vuole
28-02-2007
8:45
Pagina 27
“smascherare” gli aspetti della vita dell’uomo nella sua relazione con Dio che il creatore vede lontani dal quel suo “progetto iniziale” che lo aveva fatto esclamare, come preso da un’ irrefrenabile gioia: “Bello!”. L’umorismo di Dio, visto da questo punto di vista, potrebbe essere descritto con quella espressione che abbiamo attribuito alla Sapienza… “manifestazione amante e gioiosa della sollecitudine di Dio per il figli dell’uomo”. Sono solo pochi tratti di una ricerca impegnativa che meriterebbe più tempo e approcci differenti. Ma forse anche questi pochi tratti ci possono aiutare a scorgere qualcosa di questo tema così difficile, ma anche così “attraente” del volto di Dio per le scritture ebraico-cristiane.
* Monaco Camaldolese
27
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<27
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:45
Pagina 28
l’Umorismo di Dio nella storia della salvezza
Imparare l’ironia di Dio di Don Cesare Pagazzi*
1 Vorrei iniziare raccontandovi un aneddoto. Quando studiavo, ho avuto come professore un docente straniero. Era appena arrivato a Roma, e fece il suo primo corso con me come studente. Ogni tanto lui si fermava durante la lezione, per un attimo di silenzio. Noi pensavamo che facesse così per favorire la ripresa, riprendere il respiro perché il corso era molto bello, ma anche difficile. Dopo diverse lezioni capimmo che quello era il silenzio dopo una barzelletta che ovviamente che nessuno aveva compreso. A quel punto ci siamo messi d’accordo e a turno quando iniziava il silenzio si rideva, chi da una parte chi dall’altra parte della classe, per togliersi dal disagio e soprattutto per togliere dal disagio il docente. Questo semplicemente per dire che l’umorismo è un’alchimia delicatissima, ed è una specie di sigillo di buona conoscenza. Noi non capivamo le barzellette del professore, semplicemente perché lui non conosceva noi, e noi non conoscevamo lui. Quindi l’umorismo potrebbe essere uno dei criteri attraverso il quale si coglie la qualità della conoscenza che si possiede dell’altra persona. Certo, se l’altra persona racconta una barzelletta grassa e così via, è possibile che ci si rida sopra anche se non la si conosce, ma vorrei vedervi ridere di fronte ad un cinese che racconta una barzelletta di quelle piccanti. Magari quello che è piccante per loro non è piccante per noi e nessuno di noi ride. Ecco, l’umorismo, diciamo il riso raffinato, di una persona, lo si coglie nella misura in cui si conosce l’altra persona. Allora interessante che voi abbiate scelto questo tema dell’umorismo di Dio, perché è un tema che da una
28 28>>
ricerca
parte può anche fare un po’ ridere, dall’altra però è un problema serissimo: se a noi, leggendo la Bibbia, ogni tanto non ci capita di sorridere, probabilmente non capiamo le battute di Dio. E se non capiamo le battute di Dio, probabilmente non abbiamo ancora una conoscenza di Lui tale da permetterci una conoscenza di Lui fine. Vorrei raccontarvi un’altra storia: c’era una volta una bambino ebreo che andò con il papà in sinagoga. A dire il vero il bambino stava un po’ fuori, stava con le donne. Il rabbino vide il bambino piccolo e gli disse: “Ti do un fiorino, se tu riesci a dirmi dove Dio c’è”. Il bambino con una prontezza di spirito notevole rispose al rabbino: ”E io ti do due fiorini se riesci a dirmi dove Dio non c’è”. Ecco, questo è un piccolo esempio di umorismo ebraico che si è nutrito della Scrittura. Un umorismo non grasso, molto raffinato. Magari anche con un tocco di tristezza (Dio si vede, Dio non si vede), ma di una prontezza di spirito folgorante ed ironica. “Ironica” è una parola chiave: c’è un cambio delle parti. Quello che doveva insegnare, il rabbì, è istruito da quello che doveva imparare, il bambino. C’è un notevole scambio di ruoli, che è uno dei nervi dell’umorismo nella Sacra Scrittura. Nel parlare di teologia, ritengo che non si debba mai staccarsi dalla Scrittura, per cui non si può sostenere che una lezione biblica raccoglie materiali grezzi, e il lavoro sistematico li purifica e raffina. Il compito del teologo è quello di cercare di capire come la pagina della Sacra Scrittura è riuscita a rendere il senso di una cosa, per esempio l’umorismo di Dio. Il compito del teologo, e nostro poiché riflettiamo sulla Scrittura, è
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
proprio quello di cercare di rendere lo stesso dinamismo della Scrittura, possibilmente con i termini e il senso di uomini e donne del XXI° secolo. Non è una riflessione staccata dalla Scrittura ma il tentativo di ripresentare il dinamismo stesso con cui la Scrittura rende, in questo caso, il senso dell’umorismo. Un primo esempio si trova nel capitolo 18 della Genesi. Abramo aveva un problema: l’erede. Abramo è ricco ma vecchio, ha una bella donna, che nei capitoli precedenti tutti vogliono (un re e anche un faraone), ma che è sterile. Per certi versi, il figlio è tutto perché è come una “resurrezione”. Quando io muoio, la mia vita, il mio sangue, la mia carne, la mia storia, e il cognome della mia famiglia, vanno avanti con la carne, con il sangue, con la storia con la vita del mio figlio. Senza figlio, tutto quello che faccio non avrebbe senso. Questo infatti era il lamento di Abramo: “Signore, tutto quanto io nella vita ho costruito e ho raccolto andrà a finire nelle mani di Eliezer di Damasco, nelle mani del mio maggiordomo. Che senso ha?”. E Dio gli rispose: “Tranquillo, verrà il momento in cui avrai il figlio”. Ma l’attesa di questo momento diventò molto lunga. Si calcola che Abramo aveva circa 75 anni quando uscì da Carran. Gli anni passavano, Abramo diventava sempre più vecchio, e la Bibbia è molto realistica nel sottolineare che a Sara erano finite le mestruazioni, diventando sterile. E Dio continua a dire “Da Sara avrai, da Sara avrai”. Abramo, per cautelarsi, trovò una specie di scorciatoia. Giacque con Agar, la schiava di sua moglie, con lei ebbe un figlio, Ismaele, che venne adottato
28-02-2007
8:46
Pagina 29
da Sara risolvendo il problema dell’erede. Interessante questa reazione di Abramo: di fronte alla morte, si cercano sempre scappatoie. Perché il figlio è nello stesso tempo il grande senso della prodigalità della propria vita, dell’essere a tal punto viventi da riuscire a dare la vita a qualcun altro, ma è anche il senso della morte che incombe su di noi. Tutti noi, quando siamo di fronte alla morte, cerchiamo sempre delle scappatoie, proprio come Abramo. Ma Dio aveva altri progetti: “No, non sarà Ismaele il figlio della benedizione. Sarà un nato da Sara”. Come ben saprete, un giorno, Dio apparve ad Abramo, presentandosi sotto la forma di tre stranieri. Abramo lavorò alacremente per dare una degna ospitalità a Dio e mentre stavano mangiando insieme, Dio disse: “È arrivato il momento, fra un anno tu avrai un figlio”. Sara era dietro la tenda e stava ascoltando. Lei era una figlia di Eva, che significa vita, e come ogni donna è molto più vicina al mistero della vita. Sapeva come “funziona”. Sapeva come la vita viene trasmessa e viene resa. Per cui rise di Dio, e rise portando delle motivazioni: suo marito era vecchio (anche se la Bibbia, non senza ironia, dice che anche dopo la morte di Sara ebbe altri figli, quindi era un vecchio molto vivace), lei era “avvizzita” e quindi la morte trionfava già sulla loro coppia. Eva/Sara sapeva come funziona la vita, per cui alle sue orecchie, l’affermazione di Dio era ridicola. Vi ricorderete che fra Dio e Sara iniziò un battibecco proprio sul ridere. Sara sosteneva di non aver riso mentre Dio le diceva di averla vista ridere. Ricorrendo ad un detto popolare, potremmo riassumere questo rapido scambio con “ride bene chi ride
29
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<29
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 30
Noi ci troviamo proprio a questo livello. Accettiamo “di testa” che Gesù è risorto, però quando si tratta di vedere quello che è realistico, diciamo che è ridicolo che un uomo cammini sulle acque. E non è ridicolo che un morto risorga?
ultimo”. Questo è il tocco ironico e umoristico di Dio che emerge da questo testo. Infatti il figlio nacque, e gli fu messo il nome Isacco che significa “Dio ride” o anche “Sorriso di Dio”. Era come dire a Sara: “Vedi che chi ride bene è quello che ride per ultimo?”. Emerge da questo testo un discorso sul riso, un discorso anche umoristico che Dio fa a Sara, in una delle questioni più importanti della vita, che è quella della vita stessa. Si tratta proprio dell’umorismo di Dio, del sorriso o del riso di Dio, nella questione del possibile o dell’impossibile. Le cose impossibili sono quelle che maggiormente ci colpiscono e ci fanno ridere. Le cose assolutamente normali, feriali, ordinarie, molto più spesso ci fanno lavorare, non ridere; invece se una cosa esula dal normale, se una cosa è sopra o sotto al normale, ci può far ridere. Prima ci ha fatto ridere, almeno un poco, la barzelletta del bambino ebreo e del rabbì proprio perché non era una cosa normale: il rabbì insegna, il bambino impara. Ci ha colpito non solo la bellezza e la finezza dell’affermazione del bambino, ma ci ha fatto ridere il fatto che il rabbì, che nell’immaginario collettivo è molto loquace, è stato azzittito da colui che invece doveva imparare. Cosa che ci sembra normalmente impossibile. In questo testo emerge la questione del ridere o non ridere, del ridicolo e dell’allegria, innescati nella questione del possibile o dell’impossibile. Insomma il riso sarcastico di Sara è il giudizio sull’impossibilità che una donna sterile, ormai anziana, abbia un figlio. Per cui Sara, di fronte a questa impossibilità, ride e prende sarcasticamente in giro chi pensa il contrario.
30 30>>
ricerca
Qualche tempo fa, in un testo dal titolo “Estetica razionale” di un filosofo italiano, Maurizio Ferraris che insegna estetica a Torino, lessi questo incipit: “Se davvero Cristo è risorto, tutto è possibile”. Vi confesso che sono contento in ogni caso che sia stata detta questa frase, ma anche che sono un pochino dispiaciuto del fatto che l’abbia detta un filosofo e non un teologo, che l’abbia detta un noncredente anziché un fedele. Perché quell’uomo ha capito davvero la portata del possibile e dell’impossibile. Sara pare essere una donna credente o almeno una donna che segue un uomo credente. Quando questo uomo, a 75 anni, vuole lasciare la patria dicendo “andiamo perché qualcuno mi ha detto di andare da un’altra parte”, Sara innamorata di Abramo e forse anche del Dio di Abramo, lo segue. E finché Dio fa uscire suo marito dalla terra, lo fa pellegrinare nel deserto, lei rimane seria. Ma quando questo Dio si azzarda a toccare le regole della vita, allora fa ridere. Questa è la faccenda di Sara: quando Dio inizia a legiferare sulla vita è ridicolo perché ciò che noi consideriamo ridicolo è ciò che consideriamo impossibile. È ridicolo che chi mi pugnala è mio amico e che per di più io dopo debba offrirgli l’altra spalla. È ridicolo non vendicarsi, al pari di quanto lo è pensare che una sterile abbia un bambino. Il ridicolo fa emergere in noi ciò che crediamo possibile e impossibile: è una cartina tornasole. Quindi ciò di cui noi ridiamo è un grande criterio che ci viene offerto per capire la nostra anima. La questione è che noi crediamo nel Dio dell’impossibile: il Dio che fa nascere un bambino a una sterile, e che addirittu-
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
ra in un Salmo fa dire all’ orante: “la sterile ha partorito 7 volte, la ricca di figli è sfiorita”. Il Dio che fa vincere il perdente: il crocifisso è il vincitore. Cesare, Tiberio ed Erode sono i perdenti. Sovente negli anni 60 -70 questa la logica dell’impossibile era possibile trovarla anche in testi di esegesi. Commentando magari l’ episodio di Gesù che cammina sulle acque, l’esegeta cristiano diceva “è impossibile che un uomo cammini sulle acque. Assolutamente ridicolo. È un midrash, è un commento teologico simbolico usato dalla prima comunità cristiana. L’ acqua è simbolo della vita e della morte (poiché non controllabile) e quindi è stato creato questo fatto per indicare ai primi cristiani che Gesù è più forte della morte”. Il fatto da sottolineare è che si può ragionevolmente presupporre che queste persone credevano che un uomo fosse risorto. È più facile che un uomo risorga o che cammini sulle acque? Noi ci troviamo proprio a questo livello. Accettiamo “di testa” che Gesù è risorto, però quando si tratta di vedere quello che è realistico, diciamo che è ridicolo che un uomo cammini sulle acque. E non è ridicolo che un morto risorga? Questo pezzo della Bibbia su Sara e sullo scambio di sorrisi fra lei e Dio, ci dice fino a che punto noi abbiamo trasferito nella forma della nostra vita – ecco la grande provocazione ai cristiani fatta da Ferraris – la conseguenza conoscitiva della resurrezione di Gesù, del più grande “Ride bene chi ride ultimo” fatto dal Signore. Di fatto ha riscritto ciò che per noi è possibile ed impossibile rendendo questo scambio di sorrisi fondamentalmente indicativo riguardo al nostro credere o meno alla resurrezione di Gesù. Se consideria-
28-02-2007
8:46
Pagina 31
mo Dio un’entità troppo astratta per poterla invocare con la preghiera quando abbiamo problemi, probabilmente noi non crediamo nella resurrezione di Gesù. Anche se magari tutte le domeniche con convinzione diciamo “… e il terzo giorno è risuscitato secondo le scritture…”. Pronunciamo quella frase senza crederci e ridiamo sopra a queste cose. L’umorismo di Dio ha sempre un che di difficile e per certi versi di triste. Ci sono due tipi di tristezza, dice San Paolo: la tristezza malvagia, che viene dal peccato, che avvelena l’anima e che le toglie il buon umore, e una tristezza paradossalmente fisiologica perché produce la conversione, produce questo riso finale che sarà e di Dio e dell’uomo. L’umorismo di Dio - e il riso cristiano – non sono l’alternativa alla tristezza ma è uno stato che prima attraversa una catastrofe, nel senso letterale del termine, un ribaltamento. Già prima abbiamo visto alcuni ribaltamenti: il bambino cioè l’alunno che impara dal maestro, il maestro che impara dall’alunno, la sterile che partorisce, la ricca di figli che sfiorisce, il crocefisso che è il vincitore, il re che è deposto. Pare che per poter ridere davvero alla fine, fino alla fine, si debba accettare una sorta di catastrofe, una sorta di ribaltamento, che non ci lascerà più come prima. E questo è proprio ciò che ci permette di credere possibile ciò che fino a un secondo prima noi ritenevamo impossibile. Ovviamente non è sostenibile affermare che la Bibbia è piena di umorismo perché i cristiani sono sempre contenti. San Francesco ha scritto il Cantico delle Creature nel momento più difficile della sua vita, quando ormai vedeva sfaldarsi l’ordine che egli aveva creato, la
31
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<31
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 32
Per ridere fino alla fine, per ridere ultimo e quindi ridere bene, si deve passare la catastrofe, il ribaltamento. Lo scambio fra possibile e impossibile. Potremmo vedere un pezzo di umorismo di Dio letto in questo senso in tutti i miracoli del Signore.
fraternità che aveva costituito. Quando tutto sta crollando, San Francesco compone il Cantico delle Creature, che coglie il sorriso di tutto il mondo. Ci sono quindi due risultati ottenuti da questa prima episodio biblico sull’umorismo. Innanzitutto ciò di cui ridiamo, ci serve per capire cosa noi riteniamo possibile o impossibile, ed è una prova molto raffinata della nostra fede o meno nella risurrezione di Gesù. Bisogna stare attenti perché questo tema è molto più pericoloso di quanto si possa pensare, e se facciamo attenzione a quanto noi ridiamo, potremmo mostrarci a noi stessi come fedeli, o come non credenti nella risurrezione di Gesù, che è la cosa più ridicola di questo mondo. Infatti i primi cristiani di questo mondo venivano scherniti dai loro avversari pagani che sostenevano l’impossibilità dell’evento. Lo stesso sarcasmo che ha provato San Paolo all’areopago ad Atene. Dovremmo imparare a capire quando utilizziamo il riso sarcastico di Sara, e di che cosa ridiamo perché è ciò che ritengo impossibile. Ma non solo: questo riso può far emergere anche la presunzione di chi sa come funziona la vita. Sara ride di un riso presuntuoso. Conosce i meccanismi del concepimento, per cui può permettersi di ridere quando si presenta un’eccezione alla sua conoscenza. Il secondo punto ci ricorda che per ridere fino alla fine, per ridere ultimo e quindi ridere bene, si deve passare la catastrofe, il ribaltamento. Lo scambio fra possibile e impossibile. Potremmo vedere un pezzo di umorismo di Dio letto in questo senso in tutti i miracoli del Signore. Il faraone che viene battuto da un gruppo potremmo dire quasi di zingari, che gli sfuggono dai confini dell’Egitto sotto
32 32>>
ricerca
al naso. Un piccolo popolo, Israele, che diventa ad un certo punto una potenza mediorientale. Un pastore che invece che trattenersi ed essere al sicuro con le 99 pecore va in cerca della centesima che non trova più e intanto lascia le altre. Tutti i miracoli di Gesù hanno un che di umoristico: impossibile che ad una donna, tra l’altro già vedova, gli venga restituito il figlio che era morto, impossibile che da cinque panini salti fuori tutto quel cibo che non finiva più, impossibile. Insomma, la prima grande battuta di Dio è il miracolo. Non riesce a ridere secondo Dio chi non riesce a credere nei miracoli. E i miracoli non sono l’eccezione alla regola naturale, al creato, perché la creazione è il primo miracolo. È impossibile che dal nulla venga tutto ciò che esiste. Si può dire che la prima parola di Dio è stata una battuta, una battuta perché qualcuno potesse ridere. Ma purtroppo noi non capiamo la battuta di Dio e restiamo muti, e la tristezza cattiva lentamente prende posto in noi. Mi permetto di suggerirvi la lettura di altro testo della Sacra Scrittura. È forse l’esempio più alto dell’Antico Testamento dell’auto-ironia, cioè l’ironia che permette di riportare la persona, in questo caso se stesso - chi fa ironia -, al centro di un cerchio. Si tratta del meraviglioso libro di Qoelet, purtroppo spesso presentato come una specie di epicureismo biblico visto la descrizione della percezione della morte imminente, dietro le spalle: “Non perdere tempo, datti da fare e non se ne parla più!”. Qoelet è una teologia raffinatissima e una teologia auto-ironica. Qoelet è un re – di fatto è Salomone - ed è un re che ha provato tutto; ha detto: “Io non mi sono
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
risparmiato niente, i miei occhi non si sono risparmiati niente, il mio desiderio di piacere non si è risparmiato niente, io ho provato tutto”. E dice anche “Io ho conosciuto tutto”. Insomma dice, “Io sono il più saggio!” La questione è che, a un certo punto, si accorge - non ci aveva mai pensato - che muore, muore come gli altri e il suo destino sarà proprio uguale a quello di colui che nella vita non ha provato niente, al più ignorante e al più imbecille di tutta l’esistenza. E sembra domandarsi: “Scusa, ma che cosa vale la vita se io devo morire come quello?”. “Che cosa vale la mia vita se sono come tutti gli altri, che cosa vale la mia vita se sarò dimenticato come tutti i morti?”. Potremmo dire che Qoelet qui cade in una crisi depressiva terribile e la dichiara proprio così: “Mi dà noia la vita, mi fa schifo la vita!”. Ma, a un certo punto, Qoelet fa questa gigantesca scoperta che è elementare. Per tre volte - e ritorna come una specie di ritornello nel suo libro – dice: “Il mangiare e il bere sono doni di Dio”. Qoelet è un testo di auto-elucubrazione. Anche lui è portato lentamente a vivere queste esperienze fondamentali della vita dove c’è la sua giusta posizione e dove c’è già dentro tutto, anche la possibilità di credere che Dio dà il cibo a suo tempo. Grande testo Qoelet! 1 L’umorismo di Dio come ironia diventa un antidoto contro la prima grande tentazione della storia dell’umanità. La prima tentazione che Adamo ed Eva subirono - a dire la verità la subì solo Eva - non fu: “Prendi la mela!”, non fu: “Guarda che Dio è un infingardo, un invidioso che non vuole che voi mangiate di questi frutti”. La prima tentazione è molto
28-02-2007
8:46
Pagina 33
più sottile e più raffinata. Potremmo sintetizzarla: “Senti un po’, Eva, ma è vero che Dio ha detto che voi non dovete mangiare di nessun albero del giardino?”. Queste sono le prime parole del serpente! Il tentativo del diavolo è quello della semplificazione. Tutto o niente. O bianco o nero. Quello che gli psicologi chiamano splitting, che è il tipico giudizio dei bambini: “Il mio papà è il più bravo di tutti! Il mio papà è il peggiore di tutti! Questo gioco è il più bello di tutti, questo gioco fa schifo!”. La prima tentazione del diavolo è proprio questa: “Mi sa che Dio non vuole che voi mangiate di nessun albero del Paradiso”. E qui Eva è molto brava perché non cade in trappola e diventa maestra della distinzione. Dice: “No. Di due alberi ci ha detto che non possiamo mangiare, degli altri invece ci ha detto che possiamo mangiare”. La semplificazione è una forma di idolatria, di assolutizzazione che ci impedisce di cogliere l’altro aspetto, l’altra prospettiva, l’altra faccia della realtà. Questa parola “altro”, “diverso” evoca un pensiero degli ultimi due secoli, un pensiero che è anche un po’ di moda, il pensiero della differenza, dell’alterità, a cominciare da Hegel, per il quale l’alterità, la differenza, abita in Dio; quindi, l’alterità non è una cosa cattiva perché addirittura è divina, abita in Dio. Per cui il fatto che io non sia uguale all’altro, non è una prova che noi siamo esseri finiti e che le nostre differenze dovranno essere cancellate per raggiungere l’unità perfetta che è Dio; no, perché Dio è abitato dalla differenza; quindi, la differenza tra me e lui, me e lei è una cosa buona. E così grandi altri pensatori del ventesimo secolo con sfumature diverse, Heidegger, Lèvinas,
33
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
ricerca
<<33
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 34
Questa parola “altro”, “diverso” evoca il pensiero della differenza, dell’alterità, a cominciare da Hegel, per il quale la differenza, abita in Dio; quindi, l’alterità non è una cosa cattiva perché addirittura è divina e la differenza tra me e lui, me e lei è una cosa buona
Derrida hanno pensato a questo valore buono dell’alterità, della differenza, contro ogni pensiero totale, olistico, semplificato, che ha paura dell’altro, del diverso, e così via. Onestamente bisogna anche riconoscere che se questa è stata una grande scoperta del pensiero, o una grande riscoperta del pensiero degli ultimi secoli, è altrettanto vero che se ne è fatta ultimamente una grande retorica e forse si è dimenticata la grammatica prima con la quale noi possiamo parlare proprio della differenza, dell’alterità. Prima della differenza tra me e lui, tra me e lei, c’è la differenza tra me e me, cose che magari Freud ha detto in una certa maniera, Ricoeur ha preso e sviluppato in un’altra maniera, per esempio, in un bellissimo testo: “Sè come altro”. Prima della differenza tra me e una cosa, me e un’altra persona, un altra lingua, un altra cultura, io sono abitato dalla differenza. Il corpo che sono io - ahimè!- non l’ho scelto io. Magari avrei voluto parlare tedesco e invece mi sono trovato a parlare italiano. Avrei voluto nascere in quella famiglia e invece mi sono trovato in questa. Con tale mamma, tale papà e tale fratello. Avrei voluto avere un altro nome, o darmi il nome e invece mi sono trovato questo nome, che mi piaccia o no, è il mio. Questo volto. Insomma, gran parte di me non dipende da me. E noi ci siamo accorti della differenza tra me e me, soprattutto - forse ce ne accorgeremo per tutta la vita - nell’adolescenza, quando magari appunto io mi guardavo allo specchio e io non ero come volevo essere. Come se io fossi un altro. La faccenda dell’alterità abita proprio dentro me stesso. Per cui è tentazione e violenza ciò che noi
34 34>>
ricerca
facciamo con un pensiero semplificante, assolutizzante. Ci facciamo violenza perchè facciamo violenza soprattutto a noi stessi così some siamo. In che maniera l’ironia, l’umorismo di Dio può correggere questo? La vediamo prima accennando a un testo, un libro dell’AT e poi vedendo la struttura ironica, auto-ironica in questo caso, della Bibbia. Anche perché uno è capace di fare davvero ironia, quando è capace di fare auto-ironia, e vedremo come la Scrittura è capace di fare ironia perché è capace di fare auto-ironia. Prendiamo un testo, il meraviglioso romanzetto che è il libro di Rut. Rut è stato scritto in un momento particolarmente difficile della storia di Israele. Israele era appena tornato dal grande esilio, Israele aveva ottenuto una specie di favore dei Persiani che erano la potenza di allora. I Persiani dicevano che era meglio avere un alleato nella terra di Israele che un nemico in casa. Perciò restituisce la terra a Israele e la possibilità di costruire il tempio e così via. E in questo periodo vengono scritti due libri, Neemia e Esdra, due campioni della fede di Israele, e due campioni della purezza della fede di Israele. Che cosa era successo? Alcuni Israeliti, ritornati in terra santa, dopo l’esilio, magari avevano la moglie babilonese, o magari avevano la moglie assira. O, gli Israeliti che non erano andati in esilio, le persone poco importanti, che per 50 anni erano stati senza re, senza sacerdoti, senza profeti, si erano sposati con le cananee. Neemia e Esdra dicono: “Adesso basta, ragazzi!” E molti sono costretti a lasciare la moglie assira, babilonese, cananea. È uno strappo, una violenza, in forza della purezza: “Siamo santi
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
soltanto noi e santo è soltanto Israele, tutto ciò che è diverso, contamina anche quella cosa sacrosanta che è il matrimonio!” Tra l’altro, Adamo ed Eva non erano israeliti eppure il matrimonio tra Adamo ed Eva è cosa santissima. Allora, in questo periodo di grande crisi di identità, perché in genere la semplificazione nasce quando c’è una crisi di identità, di identità che si sente debole e di paura, viene scritto questo bellissimo libro di Rut. C’è una famiglia di israeliti, composta da papà, mamma e due figli, che devono emigrare in terra di Moab, nemica da sempre di Israele fin dall’uscita dall’Egitto; devono emigrare a causa di una terribile carestia che ha colpito Israele. Purtroppo questa famiglia è molto sfortunata: muore il marito, muoiono i due figli che tra l’altro erano sposati, le due ragazze rimangono vedove. Quindi rimangono tre donne: Noemi, la bellissima Rut e poi Orba. Rut e Noemi ritornano in terra di Israele. Rut va a spigolare per mantenersi e per mantenere la suocera, incontra un lontano parente della suocera, che naturalmente si innamora di Rut e la sposa. Rut diventa ricca. Noemi diventa lei pure ricca. Alla fine, nasce un bambino, che è poi il bisnonno di Davide: all’origine del grande re che ha reso grandissimo Israele, sta una straniera, sta una nemica, sta una che tu non avresti mai considerato proprio perché era nemica, straniera, impura, non credente! Guardate come questo testo scritto proprio in quel momento particolare della storia di Israele ironizza la teologia di Esdra e di Neemia: la storia con Dio può attraversare sentieri un poco più complicati e può attraversare addirittura territori nemici di Dio!
28-02-2007
8:46
Pagina 35
Secondo esempio. Veniamo al NT. Cominciamo con l’inizio del Vangelo di Luca, 1,1-4: Poiché molti hanno posto mano a stendere un racconto degli avvenimenti successi tra di noi, come ce li hanno trasmessi coloro che furono testimoni fin da principio e divennero maestri della parola, così ho deciso anch’io di fare ricerche accurate su ogni circostanza, fin dagli inizi e di scrivere per te un resoconto ordinato, o illustre Teofilo. Luca vuole dire tutto di Gesù, fin dagli inizi, ogni circostanza, e dire tutto in maniera molto ordinata. Così inizia il terzo Vangelo. Luca ha una bella pretesa! Andiamo alla fine del Vangelo di Giovanni. Giovanni ha due conclusioni. La prima conclusione è alla fine del capitolo 20. Dice così Giovanni: Molti altri segni fece Gesù in presenza dei suoi discepoli, ma non sono stati scritti in questo libro. Questi sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome. Guardate come cambia il tono di Giovanni rispetto a Luca. Luca dice: “Io ti ho scritto adesso tutte le circostanze, con un racconto ordinato sin dall’inizio”. E Giovanni dice: “No, guarda, ti ho scritto qualcosa, il necessario, il sufficiente, perché tu creda che Gesù è il Figlio di Dio, e perché, credendo, tu abbia la vita”. Insomma fa una scelta redazionale. La scelta di Luca è quella di scrivere tutto; la scelta di Giovanni è quella di scrivere il necessario. Invece di scrivere un libro di 500 pagine, scrive un libro di 50 pagine. Ma poi Giovanni fa un’altra conclusione che è la conclusione del quarto Vangelo, è la conclusione di tutti i Vangeli. Questo è il sigillo che chiude il
35
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
<<35
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 36
Questa realtà dell’auto-ironia della Scrittura è una realtà assolutamente liberante perché ci impedisce di cedere alla tentazione diabolica secondo la quale, per esempio, noi dobbiamo essere sempre a una certa altezza, o sempre a un certo tono. Se non sono sereno, la mia fede è in crisi. Se la mia fede è in crisi, vuol dire che non amo Dio; se non amo Dio, non credo, sono finito
Vangelo quadriforme. Sentite: Questo è il discepolo che rende testimonianza su questi fatti e li ha scritti; e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera. Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù, che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a reggere i libri che si dovrebbero scrivere. In questa maniera, con molta finezza, un po’ di umorismo e di ironia, Giovanni rivela l’eccessiva ambizione di Luca. Luca ha questa pretesa: “Ti dico tutto di Gesù!”. Giovanni dice: “Non si può dire tutto di Gesù”. La cosa interessante è che chi ha messo insieme questi quattro testi non ha cancellato questa ultima frase che fa fare una pessima figura a Luca, ma l’ha tenuta; e anche questo è Vangelo, cioè una buona notizia, che uno abbia una pretesa più alta e per certi versi semplificata (dire tutto di Gesù, quindi nessun altro può dire ancora, perché io ho detto tutto) e Giovanni che dice: “Ce ne sarebbe ancora fino all’infinito da dire”. È una buona notizia questa di Giovanni che corregge Luca, perché dà spazio a tutti gli altri Vangeli che sono – chiaro, non con questo valore canonico - tutte le vite di tutti gli uomini e di tutte le donne che seguono Gesù. Ed evita in fondo la semplificazione, l’assolutizzazione di un unico modo di vedere Gesù. Guardate anche soltanto questi fatti: i Vangeli sono quattro e non uno. E uno ironizza l’altro. E poi guardate questo fatto che è di una banalità estrema ma di una profondità teologica altrettanto grande: noi chiamiamo questo testo “Bibbia”. Anche questa è una semplificazione! Che cos’è la Bibbia? Un libro?
36 36>>
ricerca
Sono più di 70! Questa è una biblioteca, non un libro! Una biblioteca fatta di più di 70 libri, diversi, che dicono sempre la stessa cosa: Dio, il suo amore per il mondo, il mondo che cerca di amare Dio. Dicono sempre e solo la stessa cosa. Ma la cosa significativa è che sono tutti libri diversi. Troviamo un epopea come l’Esodo, un catalogo di norme come il Levitico , il resoconto di un censimento come Numeri: pagine e pagine di numeri e di nomi. Le battaglie e il catasto in Giosuè. Poi troviamo anche dei manuali scolastici, sapienziali, troviamo anche delle raccolte di poesie, troveremo dei testi che potremmo dire filosofici, dei libri di storia, troviamo anche le Apocalissi, e poi questo genere letterario tra lo storico e il teologico che sono i Vangeli, poi troviamo le Lettere, poi l’Apocalisse. Tutte cose diverse. Libri che potrebbero essere di festa, che potrebbero esaltarci, e libri che potrebbero deprimerci. Eppure uno necessario all’altro. Questa diversità di approcci e di testi che compone questa biblioteca che parla di un’unica cosa, la relazione con Dio, è la struttura auto-ironica della Sacra Scrittura che impedisce che una, un testo dica tutto di Dio, che impedisce che una esperienza fedele dica tutto di Dio. C’è che incontra Dio nel dolore; un altro lo può incontrare nella gioia e tutti e due avete incontrato Dio e tutti e due siete necessari per parlare dell’incontro con Dio. Questa auto-ironia della Scrittura contro la semplificazione è l’antidoto contro l’idolatria, che è quella terribile tentazione per la quale, anche una immagine giusta che abbiamo di Dio, diventi l’unica, semplificata, assoluta, per cui uno
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
che non la vede come me, non vede Dio. Cerchiamo di cogliere il sorriso della Scrittura. Quando, per esempio, il Vangelo di Giovanni ci dice: “Gesù è l’agnello”. Poco più avanti dice: “Gesù è il pastore”. O è la pecora che si fa guidare, o è il pastore che guida le pecore! No, tutti e due! È la pecora e il pastore? Gesù è la pecora e il pastore; e nel libro dell’Apocalisse addirittura queste immagini che sembrano contraddirsi vengono messe insieme: l’agnello sarà il loro pastore. Questa realtà dell’auto-ironia della Scrittura è una realtà assolutamente liberante perché ci impedisce di cedere alla tentazione diabolica secondo la quale, per esempio, noi dobbiamo essere sempre a una certa altezza, o sempre a un certo tono. Se non sono sereno, la mia fede è in crisi. Se la mia fede è in crisi, vuol dire che non amo Dio; se non amo Dio, non credo, sono finito. Non credi in Dio soltanto quando vedi bello tutto. Anche perché se vedi bello tutto probabilmente è perché stai semplificando. E non vedi Dio soltanto quando vedi dolore ovunque anche perché se vedi tutto dolore stai già semplificando! 1 Vi consiglio di leggere un testo umoristico,un grande testo di sapienza cristiana scritto da Lewis, dal titolo “Le lettere di Berlicche”. Berlicche è un diavolo avanzato nella carriera infernale che invia queste lettere di consiglio a suo nipote Malacoda, che è un diavolo incipiente. È la raccolta dell’epistolario di Berlicche. Due lettere voglio consigliarvi! Dal gusto ironico finissimo. In una lettera Berlicche dice a Malacoda: “Fai in modo che il tuo assistito
28-02-2007
8:46
Pagina 37
pensi sempre a cose straordinariamente grandi, o magari straordinariamente basse (come carità, droga, sesso, alcool - ma anche la carità va benissimo! -), ma fa in modo che non pensi mai alle cose ovvie”. Qoelet ed Elia erano due di quelli. Non pensare alle cose ovvie, normali, quelle cose che ci rimettono alle nostre giuste misure. In questo senso, il diavolo consiglia a Malacoda di far sì che il suo assistito non abbia per niente uno sguardo ironico né auto-ironico: “Fai in modo che prenda sé stesso sempre sul serio, sia quando pensa alla mistica sia quando pensa alle cose brutte, ma sempre sul serio, che non pensi mai alle cose ovvie, alle cose normali”. Secondo consiglio: “Fai in modo che il tuo assistito non si accorga mai di una di queste cose ovvie che è l’oscillazione del vivente”. Cosa vorrà dire? Che c’è il giorno dove ci muoviamo e c’è anche la notte dove restiamo fermi. Dove c’è buio. C’è l’inverno dove si è magari più tristi, c’è la primavera dove siamo più pimpanti. C’è il giorno in cui sono più contento, il giorno in cui sono più triste, c’è il giorno in cui sono intuitivo, c’è il giorno in cui non capisco nulla. La vita è così. Si allarga e si restringe. Come la pulsazione di un cuore. Ecco, Berlicche dice: “Fai in modo che non si accorga che è normale; fai in modo che lo percepisca come una colpa, sia quando è un po’ troppo in forma, sia quando è un po’ troppo giù. Fai in modo che non sia accorga che l’essere bianco e l’essere nero fanno parte di un’unica pulsazione. Fai in modo che non si accorga che magari anche il matrimonio con una moabita, anche se è una straniera, anche se è una nemi-
37
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
<<37
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
ca, può essere una strada dove incontrare Dio. Fai in modo che non si accorga che Dio ha detto: “Di questi due non mangiare, ma di questo mangia!”. Ecco la splendida sintesi dell’itinerario fin qui percorso: l’ironia, l’auto-ironia, il tentativo di superare l’assolutizzazione dei dettagli, che ne fa prendere troppo sul serio alcuni, crea una visione distorta. Questo può essere anche un dettaglio della vita, un dettaglio di per sé anche positivo. Lo studio è ovviamente una cosa positiva, ma se questo diviene esasperazione del dettaglio, acquisisce un significato ovviamente negativo; anche la professione è una cosa positiva, così come la relazione affettiva è una cosa sacrosanta e ancora il cibo, è cosa sacrosanta; ma se a queste cose non si attribuisce il giusto valore, diventa ipertrofico. Se non si impara ad ironizzare, a saper prendere in giro, a saper circoscrivere le cose all’interno di un ambito, si corre il rischio di rendere idolo tutto ciò che ci appartiene. Un a riflessione a mio avviso assai calzante, diceva: “Ma la catastrofe che a volte ci colpisce, è un ribaltamento causato da Dio o causato da noi?”. E questa è appunto la domanda per definizione più complessa, perché mostra uno di quegli intrecci che rendono misteriosa la storia. Se pensiamo alla storia di Israele, alle sue catastrofi, sono divenute come occasioni per Dio. Israele è stato infedele? Israele è stato esiliato? Israele è stato mandato in Babilonia? Il tempio è stato distrutto? Ma quella è stata la grande occasione culturale, l’occasione di fede, l’occasione teologica utile a scoprire o riscoprire Dio presente nel grande tempio della creazione. E il tempio di Gerusalemme è il promemoria del
38 38>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 38
grande tempio che è la creazione. Tra l’altro l’arca di Noé, che salva la creazione, ha in proporzione le stesse misure del tempio di Gerusalemme. E questi testi sono stati scritti probabilmente proprio quando Israele non aveva più il tempio. Per cui la grande distruzione del tempio che Israele si era procurato a causa del proprio peccato, diventa agli occhi di Dio anche l’occasione per una crescita dello sguardo di fede di Israele. Questo intreccio tra peccato dell’uomo e occasione di Dio, oppure tra riuscita dell’uomo e grazia di Dio, è uno degli intrecci più difficili da sciogliere, che potrà comprendersi soltanto alla fine dei tempi. Quindi, stare lì proprio a vedere fino a quando la catastrofe è il risultato del mio peccato o quando la catastrofe è indotta o prodotta o favorita da Dio, non è possibile. Riguardo l’esistenza o meno di un “post-umorismo”, che può essere magari anche una sorta di pace, di pace raggiunta. Cedo che questa dipenda dalla comprensione che si ha della pace e da quella di umorismo. Credo che l’umorismo nasca anche da una visione pacificata delle persone e delle cose. Cioè, la visione di una persona che mi consente di cogliere anche il limite di quella stessa persona, ma attraverso una visione così serena al punto che il mio giudizio non diventi mai sarcastico né pregiudiziale, favorevole nei riguardi di quella persona. Ma l’assenza di sarcasmo, quindi l’assenza di invidia e la presunzione di favore nei riguardi delle situazioni, delle cose, delle persone, sono direttamente proporzionali alla mia pace. Credo quindi che proprio il santo, proprio perché più pacificato, sereno, abbia anche una visione più umoristica della storia e così via. Non dimenti-
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
chiamoci però che non ci sarà mai questa pace perfetta che permetterebbe poi questo superamento, diciamo, dell’aldilà, dell’umorismo e così via. Ce lo ricorda, anche con un tocco di ironia, di umorismo, l’autore della lettera agli Ebrei al capitolo secondo, quando, dopo una grande introduzione molto solenne, dove dice che il Cristo finalmente è stato consacrato sommo sacerdote da Dio con la sua Pasqua, e adesso è alla destra di Dio, in una visione trionfale, tutto è posto ai suoi piedi. Dice l’autore, al momento non ci accorgiamo che tutto sia sottoposto sotto i suoi piedi. E questa è la sensazione che ci fa vivere la Chiesa tutti gli anni nel tempo di Avvento. Il tempo di Avvento è la memoria del fatto che Dio mantiene le promesse. Ha detto: “Guarda che io nasco, come uno di voi!”, “Io arrivo, come uno di voi!”. E infatti è arrivato. Memorizzando quella promessa credo nella promessa che ha fatto ancora: “Verrò di nuovo e scioglierò il rotolo”. Noi siamo in questo tempo, in questo tempo dove, appunto, anche la verità detta
28-02-2007
8:46
Pagina 39
ha anche un po’ il sapore pungente dell’ironia, ha anche il sapore di ciò che fa male. Attraverso un testo biblico, il libro di Tobia, davvero avvincente e interessante, scopriamo che Dio conosce sé stesso, e come tutte le cose, riconosce sé attraverso alcuni dettagli, dettagli meravigliosi. Ripercorrendo brevemente la storia: Tobi, (non Tobia), è un uomo sacrosantamente giusto. Vive in esilio con la moglie e il figlio Tobia conservando, nonostante l’esilio, la propria giustizia di ebreo. È un uomo fedele, mostra la propria fedeltà soprattutto nell’attenzione al povero, e in particolare a quella massima espressione della povertà, che è il cadavere. E manifesta questa attenzione dando dignità attraverso la sepoltura, ai cadaveri che venivano abbandonati per strada. Lui, la notte in segreto, li recuperava, onorandoli e seppellendoli. Verrà scoperto dall’autorità assira e condotto in esilio. In seguito verrà riabilitato. Riabilitato festeggia. Pranza, ma il figlio gli dice: “Guarda che c’è il cadavere di un nostro fratello che è stato ucciso là nella piazza, e nessuno lo seppellisce”. Lui lascia la festa, lascia il pranzo, va a seppellire il cadavere e poi non ha più voglia di far festa. Piange, si mette a ridosso di un muretto e si addormenta. Quando si sveglia, una rondinella, o un uccellino, fa la cacca nei suoi occhi e gli brucia gli occhi. Questo uomo si amareggia, si ammala e diviene sospettoso, malvagio. La moglie lo dileggia, dice: “Questa qui è la tua giustizia! Guarda tutto il bene che hai fatto! Hai messo nei guai la nostra famiglia e adesso hai messo nei guai te stesso, sei un cieco!”. Frustrato da tutta questa situazione, Tobia decide di morire. Chiede al Signo-
39
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
<<39
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 40
Credo che l’umorismo nasca anche da una visione pacificata delle persone e delle cose. Cioè, la visione di una persona che mi consente di cogliere anche il limite di quella stessa persona, ma attraverso una visione così serena al punto che il mio giudizio non diventi mai sarcastico né pregiudiziale, favorevole nei riguardi di quella persona
re: “Fammi morire!”. Nello stesso tempo, in un’altra zona, nella Media, una giovane donna fa al Signore la medesima richiesta. Questa giovane donna, di nome Sara, bellissima, si era sposata sette volte. Tutte le volte che giaceva con il marito la prima notte, un diavolo, Asmodeo, invidioso della sua felicità, faceva morire il marito. Per cui questa donna non riusciva a consumare il matrimonio a causa dell’invidia del diavolo. Lei riprende una sua serva, e la serva la maledice:“Tu hai già ucciso sette uomini, che tu non possa avere più un uomo, che tu non possa avere figli! Vuoi uccidere anche me?”. Così la donna pensa al suicidio, poi pensa al papà e dice: “Ma se io mi suicido gli avveleno la vecchiaia”. E allora, la stessa preghiera: “Signore, fammi morire!”. Nello stesso istante, queste due preghiere fatte da due posti diversi, da due situazioni diverse, arrivano a Dio e Dio manda l’angelo Raffaele (“Dio guarisce”) per guarire dalla cecità il Tobi e per guarire da quella terribile malattia causata da Asmodeo, Sara. E qui comincia tutta la storia. Tobi, che aveva depositato una piccola fortuna in Media, dice al figlio di recuperarla prima della loro morte. Però bisognava trovare una guida perché il cammino era difficile, e la strada pericolosa. Il figlio di Tobi, fuori dalla casa trova un giovanotto, normale ai suoi occhi, che sta passando di lì, l’angelo Raffaele, che significa “Dio guarisce, medicina di Dio, Dio porta la salute”. I due si mettono a parlare e Tobia, il figlio di Tobi dice: “Guarda, sto cercando una guida che mi porti in Media”. L’angelo Raffaele, che tra l’altro si fa chiamare Azaria, si offre come esperto, facendosi portare da Tobi, che gli domanda se era disposto ad
40 40>>
ricerca
accompagnare Tobia e quale fosse il suo vero nome. Rispose: “Sono Azaria, figlio di Anania il grande, uno dei tuoi fratelli”. Gli disse allora: “Sii benvenuto e in buona salute, o fratello. Non avertene a male, o fratello, se ho voluto sapere la verità sulla tua famiglia. Tu dunque sei mio parente, di bella e buona discendenza. Conoscevo Anania e Nathan, i due figli di Semeia il grande, venivano da me a Gerusalemme e lì facevano adorazione insieme con me. I tuoi fratelli sono brava gente, tu sei di buona radice, sii benvenuto”. E poi continuò: “Ti darò una dracma al giorno, oltre a quello che occorre a te e a mio figlio insieme. Fa’ dunque il viaggio con mio figlio, poi ti darò ancora di più”. Gli disse: “Farò il viaggio con lui, non temere. Partiremo sani e sani ritorneremo, perché la strada è sicura”. Tobi gli disse: “Sia con te la benedizione, o fratello”. Si rivolse poi la figlio e gli disse: “Prepara quanto occorre per il viaggio, parti con tuo fratello. Dio che è nei Cieli vi conservi sani fin là e vi restituisca a me sani e salvi. Il suo angelo vi accompagni con la sua protezione, o figliuolo”. E poi, più avanti, Tobi assicura la moglie, che naturalmente è disperata perché il figlio unico parte. Tobi dice: “Non stare in pensiero, nostro figlio farà buon viaggio e tornerà in buona salute da noi. I tuoi occhi lo vedranno il giorno in cui tornerà sano e salvo da te. Non stare in pensiero, non temere per loro, o sorella. Un buon angelo infatti lo accompagnerà. Riuscirà bene il suo viaggio e tornerà sano e salvo”. Quindi cessò di piangere. Il lettore sa che Azaria non è Azaria, ma è l’angelo Raffaele. Tobi non lo sa e Tobi fa una figura ridicola. Ridicola perché, intanto, vuole sapere se davvero
prima settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Azaria è di buona famiglia. E non si rende conto che sta parlando a Dio: “Ma dimmi un po’, sarai mica di cattiva gente o sei di buona gente, dimmi il tuo nome, dimmi chi sei, dimmi da dove vieni!”. Semmai era proprio Dio che doveva dire: “Dimmi il tuo nome, dimmi chi sei, dimmi da dove vieni. Vediamo se sei tu di buona famiglia!”. E poi, più avanti, ancora, il buon Tobi fa una pessima figura: “Io ti auguro, auguro a te Azaria, auguro a mio figlio, che il Signore vi conduca sani e salvi, che il Signore vi mantenga in buona salute!”. Guardate, un malato che augura la salute a chi invece è il detentore della salute. Un malato che augura: “Il Signore ti protegga, ti conservi sano!” e non si rende conto che lui è malato e che lì c’è la salute. E poi: “Guarda che ho pregato perché Dio vi accompagni con un angelo buono!” e non si accorge che l’angelo a dire il vero è già lì, prima ancora che lui abbia pregato, nascosto. Mi viene in mente, un bellissimo quadro del Caravaggio “L’incredulità di Tommaso”. Raffigura un Gesù meraviglioso, dietro cui stanno alcuni discepoli e poi c’è Tommaso che punta il dito; Gesù prende la mano di Tommaso e la guida. Lì c’è un intreccio ironico meraviglioso. Tommaso dice: “Vediamo se questo qui è vivo davvero”. Ma Gesù prende la mano di Tommaso, quasi come un medico prende il polso per sentire il polso di una persona. Tommaso è convinto di dire: “Vediamo se questo qui è vivo” e non si accorge che invece è Gesù che sente il polso e dice: “Sentiamo se questo qui è vivo o no”. La stessa cosa capita a Tobi. Un malato che dice: “Che tu stia in salute!”. Un peccatore, di fatto, che dice a Dio: “Vediamo se sei di buona famiglia!”. Un orante,
28-02-2007
8:46
Pagina 41
un credente, che dice: “Stai tranquillo, la mia preghiera è efficace, ho pregato che vi mandi un angelo!” e non si rende conto che la preghiera è stata già esaudita prima ancora di essere stata pronunciata. Come se Dio giocasse a nascondino e stesse ridendo alla vista della persona lo sta cercando dappertutto, ma lui si è nascosto così bene che è lì vicino, ma non riesce a vederlo. Il lettore del capitolo 5 di Tobia è nella stessa, potremmo dire, posizione di Dio. Sa la figuraccia che sta facendo Tobi, ride della figuraccia che sta facendo Tobi e si diverte di questo gioco di Dio. Potremmo dire che Dio si diverte, questo fa parte anche proprio un po’ del suo umorismo, anche giocando. Il nascondino vive di una dinamica molto sottile. Da una parte, chi si nasconde deve nascondersi benissimo. Dall’altra parte però, non deve nascondersi a tal punto da essere introvabile, altrimenti il gioco non funziona. Il nascondino vive di questo delicatissimo equilibrio: non devo farmi trovare, se no non c’è più il gioco; ma devo farmi prima o poi trovare, se no non c’è più il gioco. E in questo caso, appunto, Dio mostra il suo buon umore perché si presenta come uno che gioca. Credo che il gioco sia una delle esperienze più alte, una delle visioni della vita più raffinate che noi uomini e donne possiamo avere. E tra l’altro, una delle visioni della vita più originarie. Il primo approccio che abbiamo con la vita, fuori dal grembo di nostra madre, è appunto l’approccio dei sensi e dei bisogni: noi tocchiamo il mondo, siamo toccati dal mondo, prendiamo il latte, prendiamo da mangiare e da bere dal mondo, questa è la nostra prima visione del mondo; ma una delle primissime visioni del
41
l’umorismo di Dio nella storia della salvezza
<<41
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
mondo è considerare il mondo come un’enorme stanza di giochi. E al bambino basta un niente per divertirsi. Al bambino basta un niente per giocare. Magari possiamo regalargli il gioco più sofisticato di questo mondo, il bambino non lo degnerà neanche di uno sguardo e andrà a prendere il suo peluche ormai tutto spelacchiato, e giocherà fino alla nostra noia con quel peluche. Il gioco, dicevo, è una delle più grandi rivelazioni della qualità della vita. Potremmo dire che ha alcune caratteristiche: innanzitutto è una visione per certi versi anti-economica della vita; qui economia, però, intesa nel senso deteriore del termine: perché almeno noi fossimo economi! Cioè, almeno noi facessimo bene i conti della nostra vita! Se noi sapessimo fare bene i conti della nostra vita, insegna a contare i nostri giorni, giungeremmo alla sapienza del cuore. Ahimé, noi non siamo economi. Il gioco è anti-economico perché è una perdita di tempo. È anti-economico perché è una perdita di energie. Tant’è che una persona seria, una persona che si prende troppo sul serio, che ha scarsa auto-ironia e umorismo, dice: “Guarda che io non sono mica qui a giocare! Io non ho mica tempo da perdere!”. O se capisco che per me questa cosa è seria: “Oh, guarda che qui non è mica un gioco!”. Ad avere tempo da perdere è chi ha una visione lussuosa della vita, uno che sa giocare sa sprecare bene il tempo. La vita è un lusso e il lusso, che è uno dei fenomeni più belli della vita: ognuno di noi deve da una parte o dall’altra avere un po’ di lusso, un po’ fa bene, è doveroso. Allora, può permettersi il lusso di giocare colui che ha della vita una visione ricca: il tempo è tanto, il
42 42>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 42
tempo mi è stato regalato, ne ho in abbondanza, e posso permettermi il lusso di perderlo. La mia vitalità è così forte che posso permettermi il lusso di sprecarla. La fecondità gode della stessa cosa. Io gioco il “gioco dell’amore”, dell’amore fecondo, perché la mia vita è talmente viva che posso permettermi il lusso di perderne un po’. La Bibbia fa a volte questo paragone di due alberi: c’è un tamerisco nella steppa. Poverino, lui vive nel deserto, acqua non ce n’è, caldo dell’Iran, e allora cosa pensa di fare? Foglioline piccole, rametti secchi. Insomma, il tamerisco è una pianta che gioca al risparmio proprio perché la sua vita è poverissima. Mentre l’altra pianta con la quale viene paragonata (da Geremia), è una pianta piantata lungo i corsi d’acqua. Quella continua a produrre foglie, foglie grosse, frutti grossi, perché ha acqua a sufficienza per alimentarli. E anche nel momento della siccità le sue radici sono così profonde che riesce a toccare quel poco d’acqua che è rimasta sotto il greto del fiume. Per cui questa pianta è una pinta sprecona, generosa, prodigale, che può permettersi foglie e frutti a non finire proprio perché la vita gli scorre abbondante nelle vene. Insomma, può permettersi lo spreco del gioco, lo spreco di tempo e di energie del gioco, uno che ha una visione ricca della propria vita. La vita è un dono “sovrabbondante”, che mi è stato dato, che mi è garantito non da me, e che posso permettermi il lusso di sprecare.
* Teologo, Assistente del Gruppo Fuci di Lodi (testo non rivisto dall’autore)
prima settimana teologica Camaldoli 2007
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 43
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
Nella Chiesa e nella storia: laici oggi Relazione introduttiva a cura della Presidenza nazionale
1 “Con il nome di laici si intende l’insieme dei cristiani ad esclusione dei membri dell’ordine sacro e dello stato religioso sancito dalla Chiesa, i fedeli cioè, che dopo essere stati incorporati a Cristo col Battesimo e costituiti popolo di Dio e, nella loro misura, resi partecipi dell’ufficio sacerdotale, profetico e regale di Cristo, per la loro parte compiono, nella Chiesa e nel mondo, la missione propria di tutto il popolo cristiano.” 1 1 È con questa definizione che il Concilio Vaticano II, raccogliendo i frutti di una lunga stagione di rinnovamento e tracciando un’autentica svolta nel dibattito teologico sul laicato, individua l’insieme dei laici nel Popolo di Dio, mistero di comunione, che, unito dalla stessa fede, speranza e carità cammina nella storia verso la definitiva patria celeste. La nuova coscienza di Chiesa emersa dall’assise conciliare è indispensabile premessa ad ogni riflessione sul tema della laicità, luce per la sua comprensione: è l’immagine di una Chiesa che, animata dall’incessante azione dello Spirito e profondamente consapevole della propria dimensione sacramentale, sa essere segno, strumento, germe e inizio di salvezza e di liberazione nel cammino verso il pieno compimento del Regno. La collocazione del capitolo sui laici all’interno della Lumen Gentium, sta a sottolineare come protagonisti della azione ecclesiale non sono solo i pastori o i singoli fedeli, ma l’intero popolo di Dio cui spetta il compito di soggetto attivo, corresponsabile e solidale nell’attuazione della missione, unica, ma incarnata in maniera differenziata e organica dai diversi carismi
donati dallo Spirito, vissuta nella storia concreta, condivisa con tutti gli uomini. Seguendo l’insegnamento del Concilio, avere coscienza di essere protagonista della comunità ecclesiale è la prima nota che qualifica nel profondo l’essere fedeli laici. “Avere coscienza di essere Chiesa significa ben più che la coscienza di appartenere alla Chiesa. Essa è coscienza di essere soggetto attivo della Chiesa cioè soggetto sul quale posa la responsabilità di crescere e di far crescere la Chiesa in ciò che costituisce la sua vocazione quale sacramento di “intima comunione con Dio” [...] Ma al tempo stesso significa avere coscienza di essere soggetto attivo nel modo proprio della specifica posizione che qualifica la presenza di ciascuno nella Chiesa, cioè nel rispetto della legge della diversità attraverso la quale pesa sul singolo soggetto la responsabilità di portare a possibile pienezza la missione della Chiesa quale “sacramento di universale salvezza”.2 Nella analisi della varietà di modi con cui questa coscienza si incarna e nella definizione stessa di fedele laico non possiamo ignorare che una delle maggiori difficoltà ha natura terminologica. Se infatti per lungo tempo nella riflessione teologica ed ecclesiologica ha pesato la concezione che si aveva di fedele laico come colui “non ordinato” o “non chierico”, ancora oggi risulta inevitabile il coinvolgimento nella discussione dell’accezione che diamo a parole quali “mondo”oppure “sacerdozio”. La stessa distinzione tra i termini “laico, laicità e laicato” risulta ostica nonostante la frequenza con la quale tali parole sono adoperate. E parte della
43
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<43
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
ragione di ciò sta nel fatto che la definizione di fedele laico può essere colta da diverse prospettive, non reciprocamente escludenti: attraverso la comprensione profonda della dignità battesimale e al tempo stesso con la descrizione delle peculiarità che nel secolo ha il fedele laico, oppure enucleando le funzioni proprie del laicato nella Chiesa e il rapporto che lega l’articolazione dei vari ministeri e carismi nell’unità. Tentare di tenere presenti, prima ancora che analizzare queste diverse e dinamiche angolazioni, è uno dei compiti che ci spetta nella riflessione. La descrizione del fedele laico si colloca inoltre nel contesto di un concreto tessuto di relazioni: egli è rapportato a Cristo, nella Chiesa e nel Mondo, nel suo essere e nel suo agire. Nel suo essere in quanto mediante il Battesimo egli è stato incorporato a Cristo e costituito popolo di Dio: l’unzione battesimale, l’ontologia di grazia, rende tutti sale della terra e luce del mondo pur nella diversità di carismi e dei ministeri suscitati dall’unico spirito.3 “Quantunque alcuni per volontà di Cristo sono costituiti dottori e dispensatori dei misteri e pastori per gli altri, tuttavia vige fra tutti una vera uguaglianza riguardo alla dignità e all’azione comune a tutti i fedeli nell’edificare il corpo di Cristo”.4 Nel suo agire in quanto tutti i fedeli, laici o ordinati, esercitano la funzione sacerdotale, regale e profetica di Cristo ricevuta nel battesimo: nella partecipazione alla vittoria regale di Cristo sulla morte, nell’esercizio del sacerdozio dell’offerta a Cristo delle gioie e delle sofferenze della vita di ogni giorno che culmina nella eucaristia celebrata in unione con il ministro ordinato, nella ric-
44 44>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 44
chezza profetica della testimonianza della vita che il laico nutre all’ascolto della Parola e che fornisce negli ambienti più disparati. Non potremo poi non considerare che questo esercizio di laicità può avere pieno significato, prima ancora che fecondo sviluppo, soltanto in una Chiesa nella giusta posizione nella realtà temporale che vive: non più una Chiesa accanto al mondo ma una Chiesa nel mondo, non una concorrente delle realtà temporali ma lievito e fermento in esse, una Chiesa in cui tutti i battezzati sono corresponsabili nel processo di mediazione tra salvezza e storia, capaci di coniugare la fedeltà all’impegno di fede con il dono del servizio lì dove lo Spirito chiama ciascuno a contribuire, quasi dall’interno a modo di fermento alla santificazione del mondo mediante l’esercizio del proprio ufficio5 sotto la guida dello spirito evangelico, per far sì che la storia del mondo e la storia della salvezza, di cui la Chiesa è in “Cristo sacramento, segno e strumento” si integrino. 1 La riscoperta, alla luce del Vangelo e con l’aiuto della teologia e della ecclesiologia, della ricchezza e bellezza della comune vocazione a cercare il regno di Dio trattando le realtà temporali e ordinandole secondo Dio, rischia di rimanere, per quanto affascinante e importante essa è, non esauriente, un nobile sogno, se non prendiamo in considerazione le forme nelle quali l’essere laici si incarna . Dobbiamo cioè “individuare le strade concrete perché la splendida teoria del laicato espressa dal concilio possa diventare autentica prassi ecclesiale” 6.
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
La nostra riflessione passa allora, inevitabilmente, sia attraverso l’analisi della stagione vissuta dal laicato nell’età post-conciliare fino ai giorni nostri sia attraverso i vari tipi di azione che ci sono richiesti per impegnarci come soggetti attivi del popolo di Dio. Dopo il Concilio la Chiesa ha potuto sperimentare un periodo di energico risveglio dell’attività dei laici, che già avevano contribuito con le loro attese e speranze a creare il clima fecondo del Concilio stesso. Sappiamo bene però che in questa rinnovata e vivace stagione di responsabilità, che brilla specialmente nella appassionata testimonianza di vita di molti laici impegnati nella vita civile e politica del paese e in vari campi della vita pubblica, si è insinuato un vizio: i laici si sono cioè per la maggior parte ritrovati quasi imbrigliati nella pastorale strutturata, si è dato così tanto spazio all’aspetto funzionale del laico all’interno delle attività coordinate della Chiesa che la sua vocazione è finita con il coincidere con quella di un operatore pastorale, sostenitore della vita parrocchiale, collaboratore del ministro ordinato, non riuscendo a tradursi invece in uno stile di vita e di azione. E all’entusiasmo si è mescolata la delusione o la stanchezza per una
28-02-2007
8:46
Pagina 45
sempre minore partecipazione e soggettività attiva che questo ha comportato. La medesima delusione che ha contribuito a creare il terreno fertile per l’esplosione dell’esperienza dei movimenti ecclesiali e nuove comunità. La loro presenza è una caratteristica che va analizzata per comprendere il periodo che noi, laici oggi, stiamo vivendo. Le profonde contraddizioni, le reciproche estraneità, la polverizzazione del laicato in una miriadi di organizzazioni. L’approfondire tutto ciò può spingerci a trovare la soluzione per ridare autenticità e consapevolezza al nostro essere laici, soggetto unico che riesce a mantenere la propria pluralità di espressione: in che modo si può oggi conciliare l’unità della chiamata alla santificazione universale di tutti i soggetti in comunione nella Chiesa con le forme poliedriche in cui i ministeri e carismi si esprimono? Dentro questa domanda è contenuto forse anche il problema dell’importanza che la voce dei laici riceve da parte della gerarchia: non possiamo ignorare quanto attuale e delicato sia questo aspetto intraecclesiale riguardo al quale il magistero conciliare non è ancora pienamente maturato in forme di sincero dialogo ed effettiva corresponsabilità. E al tempo
45
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<45
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
stesso ciò ha un riverbero nella percezione da parte della Chiesa e dei problemi e delle sfide attuali, grandi e piccole. Infine vorremmo affrontare un aspetto che sentiamo particolarmente nostro: la formazione all’essere laici. È ovvio che senza di essa pensare a fedeli laici coraggiosi e coscienti dell’essere Chiesa è pura illusione. Si tratta essenzialmente di compiere uno sforzo personale di crescita, fatto di preghiera e di silenzio, come l’esperienza spirituale di Camaldoli ci insegna, ma anche, di conseguire, con l’aiuto a maturare secondo le esigenze vocazionali dato dai ministri ordinati, una solida formazione che non separi mai e nemmeno contrapponga il nostro ruolo di laici nella comunità ecclesiale alla presenza attiva nel mondo. Una formazione che ci educhi alla testimonianza visibile dei valori tipicamente cristiani quali sono quelli di una fede che si fa serena fiducia e gioia di speranza, pratica di virtù che il mondo non conosce, nei vasti campi nei quali si dispiega la nostra azione, oggi l’università, domani il lavoro, la famiglia, in tutte le forme della ministerialità ecclesiale che possono diventare luoghi e strumenti di comunione vivendo e promuovendo lo slancio missionario proprio di tutta la Chiesa. Una formazione che ci faccia consapevoli della dignità di battezzati divenuti «creature nuove»; dell’esigenza di crescere, nell’intelligenza e nell’esperienza della fede, come christifideles, ossia come veri discepoli del Signore in ogni contesto sociale, culturale e politico; che ci faccia essere cristiani che sono nel mondo quello che è l’anima nel corpo: l’anima che si trova in tutte le membra del corpo.7
46 46>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 46
Perché sappiamo che non esiste altra vita di fede se non quella immersa nella storia, nelle sue sofferenze, gioie e contraddizioni, in quel grande campo in cui si manifesta in maniere innumerevoli l’azione di Dio e si situa la responsabilità storica di ognuno e la sua obbedienza creativa all’annuncio evangelico.8 L’evidente complessità dei problemi del contesto storico che viviamo potrebbe facilmente scoraggiarci; invece deve essere essa stessa a spingerci a ricercare con sapienza ed entusiasmo risposte adeguate alla domanda di giustizia sociale, libertà, solidarietà e pace che il mondo grida. La nostra laicità si gioca qui e siamo certi che “Colui che ha iniziato in noi quest’opera buona, la porterà a compimento” (Fil 1,6).
1 Lumen Gentium, 31 2 Giuseppe Lazzati, Per una nuova maturità del laicato, Ed. Ave, p. 23 3 Cfr Bruno Forte, Laicato e laicità, Ed. Marietti 4 Lumen Gentium, 32 5 Lumen Gentium, 31 6 Christifideles Laici, 2 7 Dalla Lettera a Diogneto, 6 8 Cfr Enzo Bianchi, La differenza cristiana, Ed. Einaudi
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 47
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
Nuova laicità e impegno nella società di Savino Pezzotta*
1 Un percorso Il tema che mi è stato proposto non è semplice e mi crea qualche difficoltà. Qualche giorno dopo aver accettato l’invito mi sono posto molte domande e soprattutto ho dovuto fare i conti con il fatto che ho riflettuto pochissimo sul tema. In pratica, nel corso della mia vita e, soprattutto, nell’impegno sociale e sindacale, la principale attenzione è stata quella di mantenere il riferimento alla fede, di come potevo essere cristiano in un ambito d’azione, come quello sindacale, che per sua natura si svolge in un ambito secolarizzato e laico. La Cisl, pur essendo generata da ferventi cattolici come Pastore e Romani, nonostante il suo radicamento sociale sia quello cattolico e la cultura che l’ispira è certamente influenza e conformata dalla Dottrina Sociale della Chiesa, nasce come sindacato laico e aconfessionale. Ed ha sempre considerato se stessa come il “sindacato nuovo”, realizzando una cesura con la stessa esperienza gloriosa e interessante del sindacalismo bianco prefascista. Questa impostazione laica e aconfessionale gli ha consentito di aggregare persone , lavoratrici e lavoratori, oltre che dirigenti di altre matrici culturali , le quali hanno potuto avvicinarsi al pensiero sociale cristiano in maniera originale e a noi cristiani di recepire quei valori umani e quella cultura umanistica propria del riformismo sindacale di matrice laica. Questa scelta ha educato i cristiani militanti del sindacato nuovo, a vivere la fede in modo laico e i nostri amici non credenti a vivere la laicità senza cadere nella tentazione, presente nei movimenti
sindacali europei ed italiani, del laicismo. Per questo in Italia, dal secondo dopoguerra , non ci sono più stati sindacalisti cristiani, ma dei cristiani che facevano i sindacalisti. Questo è uno dei grandi meriti che la Cisl può rivendicare sia nei confronti del mondo cattolico da cui origina, sia nei confronti degli altri sindacati e delle stesse formazioni politiche. Inoltre abbiamo tenuto la Chiesa fuori dalle scelte sindacali, assumendocene la piena responsabilità. Come cristiani che avevano scelto l’impegno nel sindacato siamo anche stati molto esigenti nei confronti della comunità ecclesiale. Nasce da qui la mia difficoltà a definire teoricamente quella che è stata soprattutto una esperienza di vita, un modo di fare che poggiava molto sulla responsabilità personale. L’incontro con la Cisl e un impegno che si è protratto per un bel po’ di anni, mi ha formato a un modo di essere cristiano che non era molto usuale nel nostro mondo. In parte vi ha contribuito anche il mio giovanile impegno nella Democrazia Cristiana, la quale aveva si una aggettivazione molto chiara che richiamava l’ispirazione religiosa, ma aveva anche, sulla base dell’insegnamento di Sturzo, di De Gasperi e Moro una forte impronta laica. Sul mio modo di essere cristiano impegnato in politica ha avuto una certa influenza il pensiero di un grande democratico popolare come Giuseppe Donati. Oggi si parla poco di questa figura indomita, di questo cristiano deciso e coraggioso, di questo oppositore radicale al fascismo, di questo democratico convinto, ma ho sempre considerato una fortuna aver potuto, nella mia gioventù, incrociare i suoi
47
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<47
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
L’impegno era ed è per una società umana, libera dalle oppressioni, dallo sfruttamento, democratica e civile. Solo in un periodo particolare della mia vita ho pensato che potesse esistere una società giusta, ma il clima di fine anno ’60 e inizio ’70 era un poco particolare scritti.Essendo cresciuto in quest’ambiente e con queste letture, alle quelli aggiungerei quelle di Maritain e Mounier, non sono mai riuscito a pensare che si potesse realizzare una società cristiana. L’impegno era ed è per una società umana, libera dalle oppressioni, dallo sfruttamento, democratica e civile. Solo in un periodo particolare della mia vita ho pensato che potesse esistere una società giusta, ma il clima di fine anno ’60 e inizio ’70 era un poco particolare. Il mio obiettivo era e resta quello di una società decente, in cui nessuno possa sentirsi discriminato per la sua pelle, per il lavoro che fa, per il sesso, per la religione. L’umanizzazione della società è un percorso lungo, difficile, pieno di contraddizioni e di conflitti e che richiede un impegno quotidiano capace declinarsi giorno dopo giorno fino alla fine dei giorni che sono stati donati. A questa visione realistica della società, del suo sviluppo e dell’impegno socio-politico ha sicuramente contribuito l’ispirazione di fede che educa e ci fa conoscere i limiti dell’umano, che ci evidenzia le
48 48>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 48
idolatrie e che tiene aperta la prospettiva della speranza e che ci rende liberi nei confronti d’ogni ideologia. Per onestà devo anche confessare che molte volte, per noi credenti impegnati socialmente e politicamente, mantenere questa separazione tra la speranza e l’ideologia della società giusta non è sempre stato facile. Da questo punto di vista la “lettera a Pipetta” di don Milani è stata per molti di noi un documento molto significativo e orientativo. A volte siamo portati a confondere le verità della fede, della rivelazione, come verità sociale. È la tentazione dell’integrismo che sempre affiora in chi è impegnato. Credo che anche oggi il tema verso quale società tendere e che cosa possiamo definire come indecente sia ancora di grande attualità. Ed è su questo che i credenti laici sono chiamati ad impegnarsi con decisione e passione. Abbiamo resistito alle tentazioni dell’ideologia che ci proponeva il “sol dell’avvenire” e un compimento della storia in un futuro radioso e senza conflitti, senza povertà, e con una scienza capace di sconfiggere tutte le malattie e soprattutto la fuga dal dolore e dalla morte. Il sogno del moderno Prometeo si è scontrato con la realtà delle cose. Il fatto più inquietante è che la fine dell’universo ideologica non ha corrisposto con l’assunzione del limite che sta dentro la realtà e che ogni giorno chiede di essere superato, con l’assunzione delle debolezze dell’uomo: la fine del sogno non ci ha svegliati e aperto gli occhi, ma ci ha introdotti in una visione pessimistica che ci presenta il futuro come il luogo delle minacce, delle incognite
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
ed è una sorta di escatologia negativa: inquinamento e degrado ambientale, disuguaglianze sociali, crisi economiche, pandemie, terrorismo e guerre. Queste sono tutte cose con le quali dobbiamo fare i conti, ma la realtà presenta anche altri aspetti positivi e sappiamo che forse oggi per la prima volta nella storia dell’umanità vi è un’abbondanza di risorse economiche, scientifiche, tecniche e umane che se ben governate e distribuite potrebbero risolvere parte delle contraddizioni presenti. 1 Il cambiamento dei valori Poi è vero che dobbiamo fare i conti con una nuova ideologia che ci presenta il mercato come luogo ultimo di verità, con una società in cui sembra che la sola domanda che conta davvero è: “Come si opera per l’umano all’interno di uno spazio che sembra essere popolato solo da soggetti economici?”. Ci rendiamo conto che questa impostazione genera la religione del consumare, che ormai non è più solo un fatto economico, ma è espressione di una realtà che ha avvolto nella nebbia il mondo dei valori. Il consumismo e la finanziarizzazione stanno sicuramente producendo una rovesciamento dei valori. L’idea del fare, del produrre, del creare è divenuto secondario rispetto al valore immateriale della rendita finanziaria e del bene da consumare. C’è un trasferimento simbolico che trasforma i riferimenti valoriali e di senso e che incide sulla dimensione spirituale delle persone che sono chiamate più a rappresentarsi che ad essere. Noi dobbiamo prendere coscienza di questi processi complessi senza rassegnazione, pessimismo o
28-02-2007
8:46
Pagina 49
catastrofismo, ma per contribuire ad una nuova fondazione di una nuova prospettiva di futuro. In questi mesi ci siamo tutti arrovellati a discutere di laicità e di laicismo, a proporre distinzioni varie, ma io sono convito che il tema vero per noi laici cristiani che operiamo nel mondo e che di questo mondo siamo appassionati perché interessati alla sorte dell’uomo è quello di come rendiamo testimonianza della nostra fede e alla speranza che è in noi. In questi ultimi anni siamo divenuti sempre più consapevoli di vivere dentro un forte processo evolutivo e di profondi cambiamenti economici, sociali e politici, ma anche e soprattutto culturali. Il timore che alberga permanentemente dentro di noi, non è solo quello legato ai cambiamenti sociali che la globalizzazione sta provocando, ma credo che vi sia un malessere quasi metafisico che si interroga se questo progresso non ci porti verso il vuoto. A fronte di questi interrogativi ci sono persone che sembrano preoccuparsi solo dell’Occidente, della fine della sua cultura e dei suoi valori che sarebbero messi in forse dalle spinte dell’immigrazione, della multiculturalità e dal relativismo. Ed è in questo contesto che noi cristiani siamo chiamati ad affermare una nuova idea di laicità, perché non si può operare nel mondo se questa idea non viene chiarita. Credo che per prima cosa si debba uscire dall’idea di laicità che si è affermata nel corso dell’ottocento e del novecento che era esclusivamente basata sulla separazione tra il civile e il religioso. Questo criterio andava bene in una situazione di cristianità, non credo valga allo stesso modo oggi. Anzi esige di essere ripensato in profondità, proprio perché
49
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<49
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
siamo usciti dalla cristianità e attraversando la secolarizzazione e siamo approdati su nuovi lidi contrassegnati dal pluralismo religioso ed etico. Il pluralismo va assunto come un elemento costitutivo delle attuali società complesse, esso richiede la capacità di coglierlo nella sua stessa complessità e nella sua capacità di trasformare le forme della relazione sociale e politica, poiché richiede il riconoscimento di mentalità e culture altre e pertanto, esige una nuova capacità di dialogo che si realizza dentro e non con un fuori. Non basta più il tradizionale concetto di tolleranza. Nelle società complesse come la nostra, il pluralismo pone comunque l’esigenza di individuare nuove strade per costruire percorsi di convivenza tra culture, tradizioni e mentalità diverse, con gli evidenti riflessi anche sul piano giuridico e istituzionale. Proprio ciò richiama un nodo essenziale al ruolo della religione, credo non basti più limitarci a discutere o a definire i rapporti tra Chiesa e Stato, quali istituzioni che operano entrambe sul piano culturale e normativo. La laicità resta valore positivo e condiviso, ma non deve essere assunto come atteggiamento di netta separazione. Oggi l’ambito civile e sociale è attraversato da nuove istanze religiose che non possono essere ridotte esclusivamente all’ambito delle scelte individuali. La religione ha oggi un ruolo sociale che deve essere riconosciuto, poiché quando questo non avviene si da la stura al risorgere di fondamentalismi e integralismi. Molte volte mi pongo la domanda e me la pongo partendo da un’idea positiva e ricca di laicità: se la
50 50>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 50
nostra società dovesse, malauguratamente, diventare post-cristiana o post-cattolica, come alcuni laicisti nostrani auspicano, potrebbe conservare la sua laicità? Quali potrebbero essere gli effetti culturali, sociali e politici cui sarebbe sottoposta la società italiana che è stata plasmata nel corso dei secoli dalla presenza cristiana? Se si vuole difendere in modo compiuto la laicità il rapporto con l’eredità cristiana rimane essenziale. Per queste ragioni i cristiani devono essere in prima fila nel contribuire a definire i tratti di nuova laicità. Non possiamo stare sempre in difesa come se avessimo solo privilegi da difendere, quando invece siamo interessati cristiani ad una laicità vigilante e accogliente. Dobbiamo veramente impegnarci nella difesa della libertà di coscienza, per contribuire ad una convivenza sociale pacifica tra le componenti della società, opponendoci ad ogni forma d’integralismo e fondamentalismo, senza mai dimenticare che mentre lo Stato può essere radicalmente laico e anche laicista, la società non lo è mai. C’è stata a suo tempo una critica perché i cristiani avevano chiesto che nel trattato costituzionale dell’Unione Europea ci fosse un richiamo alle radici cristiane. Questo non era un atteggiamento integralista come certi laicisti l’hanno voluto interpretare, ma un richiamo alle radici appartiene alla verità storica e sono memoria di ciò che una società è. Operare per definire “una nuova laicità” è utile anche per rinnovare il senso d’appartenenza alla Chiesa. Non mi piace quando si dice “non possiamo non dirci cristiani” o si parla del cristianesimo come una sorta di “religione civile”. Dobbiamo dire con
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 51
Il pluralismo va assunto come un elemento costitutivo delle attuali società complesse. Richiede il riconoscimento di mentalità e culture altre e pertanto esige una nuova capacità di dialogo che si realizza dentro e non con un fuori. Non basta più il tradizionale concetto di tolleranza
chiarezza che per noi il cristianesimo non è una cultura: è la fede nel Dio vivente e non possiamo fare finta che Dio non esista. Noi siamo convinti di agire sotto gli occhi amorevoli di Dio. Ma forse quello che veramente si vuole e che non viva in questo contesto un riferimento vitale al Vangelo, alla sua proposta profetica. Abbiamo vissuto l’esperienza del Concilio come esperienza forte e coinvolgente, molti di noi hanno trovato nelle sue indicazioni la conferma d’esperienze che con fatica si conducevano. Poi, con il passare degli anni, questo spirito sembra essersi un poco indebolito e non è diventato un modo nuovo di vivere la nostra dimensione di Chiesa. Tutto questo è stato condizionato dai forti mutamenti che hanno attraversato la società italiana. Proviamo a pensare che cosa ha significato il ‘68 e gli anni delle grandi lotte operaie e della contestazione. Un clima sociale in profonda ebollizione che attraverserà anche la comunità cristiana: pensiamo al dissenso cattolico, alle comunità di base, alle scelte delle Acli, ma anche all’influenza di persone come Balducci, La Valle, Turoldo e tanti altri e a riviste come Testimonianze, Quest’Italia, Settegiorni ecc. Una stagione piena di fermenti, di tensioni, di passioni e d’ingenuità. Sono anche gli anni del rinnovamento liturgico e della scoperta per molti di noi della Parola e della lettura della Bibbia. Un vitalismo pieno - e non poteva essere altrimenti- di forti e profonde contraddizioni. Eravamo convinti che si potesse aprire una stagione nuova, ed invece siamo impattati con il terrorismo, con i processi di trasformazione economica e con un sistema politico che
non cambiava, non si innovava. La stessa Chiesa fatica a mettersi al passo con i cambiamenti che molte volte avverte come negativi. Sono anche gli anni della crisi dell’associazionismo cattolico e del suo riposizionamento. Si è vista crescere una sorta di frammentazione e molti, nello sforzo di una ricerca, si sono orientati verso i movimenti più vari. Non credo che questo sia stato un male, anzi è stata la risposta ad un’esigenza, ad una voglia di partecipazione e di comunione che non si aprivano. Ma fuori dell’esperienza del movimenti, del rinnovamento delle associazioni o delle parrocchie il senso di appartenenza alla Chiesa sembra essersi indebolito. Si fa fatica a considerarsi “uomini e donne di Chiesa”, anzi finiamo sempre di più per identificare come uomini di Chiesa i nostri preti e i nostri vescovi. Sono convinto che la lezione del Concilio abbia continuato ad alimentare e ci abbia aiutato ad elaborare criteri di discernimento rispetto alle nuove situazioni che dovevamo affrontare come laici. Proviamo per un attimo a pensare che cosa ha significato la fine dell’unità politica dei cattolici attorno alla Dc. L’unità di cattolici in politica cui oggi si guarda con sufficienza ha avuto un senso ed un merito storico, con Sturzo quello di inserire i cattolici nella vita politica e con De Gasperi quello di difendere ed affermare la democrazia di tutti. Oggi è facile parlarne, ma per un certo periodo il nostro mondo e in particolare i ceti più popolari hanno vissuto questo fatto con sofferenza e con un certo smarrimento, per fortuna si potevano utilizzare le distinzioni, le intuizioni e le indicazioni conciliari come quelle contenute nella “Gaudium et Spes”.
51
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<51
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Ma è solo con il Convegno di Palermo che si sancirà con chiarezza la fine dell’unità politica dei cattolici. Va tenuto presente che una certa nostalgia si è mantenuta e che ancora oggi molti di noi fanno fatica a prendere atto che il bipolarismo della rappresentanza politica chiede anche ai cattolici un ripensamento del loro rapporto con la politica. Oggi siamo più liberi, non abbiamo l’urgenza di operare per la democrazia per tutti che è ormai un dato consolidato, anche se va riconosciuto che i laici cattolici per questo obiettivo hanno speso molto. Ed è questa libertà che ci obbliga a ripensare il tema della presenza e del ruolo dei laici nella Chiesa e nella società civile.
Come passare dalla “teoria sul laicato” alla “prassi ecclesiale”? Quale attenzione porre sulla formazione dei laici, anche attraverso una pastorale incentrata sull’agire “libero e responsabile”, per favorire l’inizio di una nuova stagione del laicato cattolico? Quali prospettive verso il Convegno Ecclesiale di Verona? 1 La moltitudine individualizzata Appare sempre più evidente che il ruolo dei laici assume rilievo nella Chiesa in stretto rapporto alla loro presenza nel mondo. I due aspetti sono tra loro inscindibilmente legati e pertanto devono essere ripuntualizzati e rilanciati. Da qui l’esigenza per i laici di una nuova fase d’impegno nella Chiesa, nel sociale, nel lavoro e in politica, capace di costituire una risposta ai problemi del nostro tempo. Per fare questo dobbiamo pren-
52 52>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 52
dere atto delle grandi trasformazioni che la nostra società sta subendo, che l’epoca della massificazione organizzata è finita e con essa si è indebolito il ruolo e la funzione delle forme della rappresentanza. Siamo entrati nella società dell’individuo “moltitudinario”, ovvero di un insieme numeroso di singoli individui, non accomunati da esperienze e scelte condivise. Si sono despazializzati i luoghi dell’incontro, del lavoro, del vivere insieme. Oggi non ci si ritrova più nei vecchi luoghi, ma ci si incontra facilmente ai supermercati, alle stazioni, agli aeroporti, agli stadi, sulle autostrade, sulle spiagge estive... La frammentazione, flessibilizzazione, disarticolazione e individualizzazione del lavoro da una parte e l’affermarsi di una sorta di paneconomicismo dall’altra, ha rafforzato le tendenze verso un individualismo fortemente proteso alla propria autoreferenzialità, alla ricerca del massimo guadagno, alla soddisfazione del proprio piacere, ad un’idea profondamente materialistica della vita. Questo processo ha influenze anche l’interno della Chiesa, dove i laici hanno finito per contare di meno e la Chiesa ha spinto la gerarchia ad usare maggiormente i mass media e le istituzioni. Ma vorrei andare oltre le questioni interne alla Chiesa e domandarmi, senza avere, purtroppo, ancora una risposta, quali effetti può avere sulla nostra idea di popolo l’affermarsi di una società segnata dalla cosiddetta moltitudine, cioè di una massa di individui? Non rischiamo di sembrare arcaici quando proponiamo l’idea di popolo, in una società che non sa più questo cosa questo significhi?
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 53
Oggi, come cristiani, siamo posti di fronte ad una responsabilità vera che è quella di come annunciamo il Vangelo; ci sono delle opportunità inedite che non possiamo lasciarci sfuggire se non vogliamo che la nostra fede sia strumentalizzata e utilizzata. Ma per ridire con forza e coraggio la nostra fede, per fare questo, servono dei laici formati e attenti capaci in primo luogo di vivere una spiritualità cristocentrica
Con l’agitarsi, il frantumarsi, lo scomporsi e il ricomporsi dell’universo della moltitudine individualizzata, dobbiamo imparare a fare i conti e decidere come ci stiamo dentro. Sono del parere che il compito storico che si pone oggi ai cristiani sia quello di come e in che modo partecipare con gli altri, ed alla pari degli altri, a ritrovare un senso ed un orizzonte al vivere personale e sociale che la frammentazione dell’individualismo multitudinario ha messo in movimento. Questo processo influenza ed è influenzato dalle continue trasformazioni dell’economia, del lavoro, della ricchezza e della stratificazione sociale. Siamo entrati nella schumpeteriana fase della distruzione creatrice che ogni giorno ci obbliga, senza soluzione di continuità, a fare i conti con processi nuovi che richiedono un profondo e costante riposizionamento di temi come la giustizia sociale, l’uguaglianza e la libertà. Qui i cristiani sono chiamati ad esprimere con forza e con creatività la loro ispirazione evangelica e comunitaria per ritrovare un giusto equilibrio tra libertà e giustizia, ma anche di inventare nuove forme per l’annuncio della “bella notizia “ del Vangelo. 1 Da laici Paola Bignardi, in un bellissimo libretto pubblicato recentemente dalla editrice AVE: “Esiste ancora il laicato?”, indica dei percorsi per una nuova soggettività del laicato che incentra su cinque aspetti: spiritualità, comunicazione, corresponsabilità, convergenza. Un’impostazione molto chiara e condivisibile. Una ripresa di soggettività del laicato è oggi essenziale per rispondere ad un’esigenza di fondo che è
quello dell’evangelizzazione e della reidentificazione dell’essere cristiani oggi in Italia. Credo che oggi, come cristiani, siamo posti di fronte ad una responsabilità vera che è quella di come annunciamo il Vangelo; ci sono delle opportunità inedite che non possiamo lasciarci sfuggire se non vogliamo che la nostra fede sia strumentalizzata e utilizzata. Ma per ridire con forza e coraggio la nostra fede, per fare questo servono dei laici formati e attenti capaci in primo luogo di vivere una spiritualità cristocentrica. Mai come oggi gli uomini vivono un conflitto tra un presente che non vorrebbero si esaurisse e un futuro che appare sempre più incerto. Ci si muove con profonda inquietudine verso un futuro caratterizzato da un’organizzazione economica che sembra sfuggire ad ogni controllo, che indebolisce l’idea di democrazia e che crea nuovi poteri, nuovi strumenti di condizionamento e che utilizza in questa sua avanzata di dominio e di controllo la tecnica, la comunicazione e l’informazione. Sono in campo oggi tutte le possibilità di distruggere l’umanità e il creato, ma anche, come dicevo poc’anzi, di risolvere problemi ritenuti fino ad ieri impossibili. È in questo contesto segnato da forti e inedite contraddizioni che si concretizza il nostro essere uomini della speranza. La speranza per vivere e radicarsi ha bisogno di un volto e noi sappiamo che questo è il volto del Cristo risorto, è Lui che dirige il mio, il nostro futuro e quello del mondo. La prima cosa che si deve fare è costruire e vivere una spiritualità della speranza. Dobbiamo sforzarci ad essere segno e manifestazione nel mondo e tra
53
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<53
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 54
una Chiesa che vive delle gioie e delle speranze degli uomini non si può realizzare se i laici non portano nella Chiesa la ricchezza della vita e delle esperienze umane. Pur avendo presente e non essendo indifferenti verso la “questione politica”, dobbiamo però convincerci che il sociale è per noi il luogo privilegiato dell’impegno.
gli individui che si accalcano in una corsa senza fine, della gioia che vive in noi. I cristiani musoni, i flagellanti che sembrano avere sulle spalle il mondo, che lanciano anatemi e fanno i moralisti non servono più, semmai c’è stato un tempo in cui sono serviti. Dobbiamo essere lieti e contenti di essere qui, in questo mondo. Quando ero bambino mia nonna mi faceva recitare le preghiere del mattino e si iniziava con il ringraziamento: “Ti ringrazio mio Dio di avermi creato, redento e fatto cristiano, conservato in questa notte...” Eravamo poveri, ci mancavano molte delle cose che oggi abbiamo, eppure si esprimeva la gioia di essere nel mondo. Credo che questo sia l’atteggiamento che dobbiamo assumere e il fondamento di una vera spiritualità laicale: contenti di essere creati. 1 Essere Chiesa Questa spiritualità della lietezza e della contentezza ci deve spingere ad essere Chiesa che annuncia il Vangelo e che pertanto cerca di vivere una dimensione di comunione e d’essere generatrice di relazioni umane, d’incontro, di perdono, di cooperazione, di mutuo aiuto e d’impegno per il bene comune. Nella consapevolezza, come dice la Gaudium et Spes, che: “le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore”. Ma questa Chiesa che vive delle gioie e delle speranze degli uomini non si può realizzare se i laici
54 54>>
ricerca
non portano nella Chiesa la ricchezza della vita e delle esperienze umane. Pur avendo presente e non essendo indifferenti verso la “questione politica” che ho prima richiamato e che i cattolici italiani stanno vivendo con molte difficoltà, dobbiamo però convincerci che il sociale è per noi il luogo privilegiato dell’impegno. Con questo non intendo affatto sminuire o disdegnare l’attenzione verso ciò che si muove, si agita e si presenta sul terreno politico ed istituzionale, ma individuare un approccio nuovo alla politica. I cristiani oggi prima di tutto devono compiere le “opere di misericordia corporale e spirituale”, per usare un’espressione tratta dai miei ricordi catechistici di tanti anni fa. Solo se parto dai bisogni delle persone, dalle loro domande, dalle loro esigenze materiali e spirituali posso affrontare i temi della politica e del Paese. Abbiamo affermato che oggi in Italia il compito principale dei laici cristiani è quello di “Comunicare il Vangelo in un mondo che cambia”. Il nostro radicarci nel sociale vuole rispondere all’esigenza e all’urgenza dell’evangelizzazione o come dice il titolo del Convegno di Verona essere “Testimoni di Gesù risorto, speranza del mondo”. Sappiamo, tramite la Tradizione cattolica, che l’annuncio del Vangelo non può mai essere separato dalle opere e queste oggi, a mio parere, si esercitano nella realtà sociale dove occorre essere presenti con le parole, i gesti e un fare che evidenzi la potenzialità del Vangelo e della Dottrina Sociale che da esso promana. Ecco perché questo nostro stare in “rete” e fare “opere” è importante e può produrre
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
frutti di rinnovamento ecclesiale, sociale e una nuova missionarietà. Per fare questo occorre che le varie aggregazioni ecclesiali movimenti o associazione recuperino un forte spirito ecclesiale. Non è più il tempo dei confini, ma degli incontri, dello stare insieme. Il tentativo che si sta facendo con Retinopera va in questa direzione e può produrre, indirettamente, processi di cambiamento nella politica, soprattutto se mantiene questa dimensione sociale e se accentua la sua caratterizzazione di “ecclesialità”, intesa, quest’ultima, come capacità di vivere nella Chiesa la comunione tra le varie vocazioni e carismi. Tra le ragioni che militano a favore di questo “stare insieme” tra associazioni e movimenti possiamo sicuramente mettere la necessità di confrontarsi e stare dentro da cristiani nella transizione sociale, economica, politica e culturale, comunemente definita “post-industriale” e “post-moderna”, che sta mutando in profondità i modi di vivere e di pensare delle persone e in particolare delle giovani generazioni. Una situazione inedita per un Paese d’antica tradizione e cultura cristiana e che ogni giorno rende manifesta la difficoltà della comunicazione della nostra fede. C’e’ oggi, per noi cristiani che viviamo in Italia, l’esigenza, che oserei definire primordiale, di come annunciare il Vangelo che ci dovrebbe spingere ad uscire dai nostri recinti e individuare risposte valide alle inquietudini, alle incertezze e a quelle “passioni tristi” che sembrano attraversare e dominare la nostra società. La svolta antropologica che e’ sotto i nostri occhi sta determinando una trasformazione della vita
28-02-2007
8:46
Pagina 55
sociale e la conduce su lidi pluralistici, secolarizzanti e policentrici, dove, come ci insegna il Santo Padre Benedetto XVI, sembrano determinarsi esiti relativisti ed edonisti. Di cui il virus portatore è a mio parere nel moderno paneconomicismo, che tutto vorrebbe misurare sul piano del vendere e comprare e che coinvolge il valore stesso della vita. Sono temi che ci inquietano, ma dei quali non possiamo ne dobbiamo avere paura, anzi ci devono spingere sul terreno di una testimonianza concreta e propositiva e non difensiva. Dobbiamo essere nel mondo. In questo contesto siamo chiamati ad operare in un nuovo spirito di comunione fraterna. La fraternità non e’ mai omogeneizzazione, ma riconoscimento di una paternità e di una famigliarità condivisa delle differenti vocazioni. 1 Per una presenza laicale La nostra e’ dunque una proposta di una nuova presenza cristiana nel vivo della società italiana, ci collochiamo là dove i processi avvengono. La dobbiamo costruire con pazienza, attenzione e con il coraggio dello “stare insieme” nelle nostre diversità puntando ad una presenza attiva e militante nella società. Nel renderci conto dei nostri limiti e delle nostre debolezze, possiamo, se insieme lo vogliamo, essere un luogo d’innovazione e di proposta per la nostra Chiesa e per la missionarietà cui essa è oggi chiamata, qui in Italia. In questa nuova situazione sociale ed ecclesiale in cui sembra essere venuta meno la corrispondenza tra comunità cristiana e luogo civile, possiamo
55
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<55
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
veramente contribuire a ridisegnare le forme e i modi della presenza ecclesiale, ed evitare che ognuno di noi si chiuda nel proprio ambito generando, indirettamente, una visione “ federalista “ di Chiesa. Il nostro obiettivo e’ pertanto quello di contribuire insieme alla maturazione di una fede adulta, pensata, vissuta. Se le cose che sono venuto dicendo hanno un minimo di fondamento e di condivisione, allora occorre che si apra nella Comunità cristiana una nuova epoca e un nuovo percorso. 1 Il Convegno di Verona Senza assegnare più di quanto è nella possibilità e nella realtà, il Convegno di Verona rappresenta un appuntamento molto importante. Eviterei di caricarlo d’aspettative riformatrici perché potremmo creare delle delusioni. Il Convegno di Verona non è un qualche cosa di estemporaneo, nato per caso e all’improvviso. Esso si colloca all’interno delle indicazioni Conciliari e nella scelta della Chiesa Italiana di predisporre all’inizio d’ogni decennio il “piano Pastorale” che ha come obiettivo di fondo: a) un programma d’evangelizzazione che si fonda sull’annuncio germinativo del Vangelo; b) un programma d’evangelizzazione
56 56>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 56
che si rivolge all’interno della Chiesa e che ristimola i credenti all’esperienza della fede e dei sacramenti e della comunione, ma li rimotiva nel loro impegno nella società e nella città dell’uomo. Il Piano Pastorale, sfocia a metà del decennio nel Convegno Ecclesiale Nazionale. Queste precisazioni servono per dare una giusta e corretta collocazione al Convegno senza appesantirlo d’aspettative che non potrà dare. È comunque un evento perché si tratta di un convenire di un riunirsi di Chiesa e pertanto porta con sé un tratto della Pentecoste così come è descritta negli Atti degli Apostoli. Un convenire per pregare, riflettere, discutere e manifestare al Paese e a tutti noi, quei contenuti di promozione umana che emergano da una Chiesa che riflette sulla Parola e sulla condizione delle donne e degli uomini che vivono in Italia. La grande novità è, a mio parere, la centralità che ha assunto la parola “speranza”, cioè la possibilità di guardare al futuro attraverso il Cristo Risorto verso un umanesimo della Speranza. Credo che sia stato significativo che i Vescovi abbiano scelto la Prima lettera di Pietro, come testo biblico di preparazione al Convegno. Un testo che ha il suo punto centrale nel versetto: “adorate il Signore, Cristo, nei
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
vostri cuori, pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi “. Un messaggio che suona d’incoraggiamento alla comunità e invito pressante alla testimonianza cristiana. La Prima lettera di Pietro, come sappiamo, è indirizzata alle comunità cristiane che vivono tra i pagani, che hanno scarso peso politico e sociale e che si sentono emarginate. Una situazione di confine, di marginalità in cui i credenti devono avere coscienza d’essere cristiani e di appartenere alla Chiesa. Non voglio fare paragoni con la nostra situazione. I cristiani in Italia non sono certo marginali, possono contare su un substrato culturale impregnato da secoli di cristianesimo, ma devono fare i conti con i profondi cambiamenti e con tensioni che vorrebbero marginalizzarli. È vero che i cristiani non sono maggioranza, ma oggi in Italia chi può dirsi maggioranza? In questa situazione riflettere e pregare su questo testo biblico ci può aiutare a recuperare maggio forza spirituale, ad essere coscienti del carattere eccezionale della comunità cristiana e di come vivere da cristiani nella società in cui viviamo. Vorrei, senza pretesa, richiamare alcuni versetti di questa Lettera: “Rigenerati... per una speranza viva”, “Senza vederlo credete in Lui”, “Amatevi intensamente”, “Crescete verso la salvezza”, “Comportatevi come uomini liberi”, “Siate tutti concordi”, “Adorate il Signore, Cristo nei vostri cuori”, “Rallegratevi”. Se ne potrebbero citare altri, ma ho voluto richiamare questi perché mi sembra diano una chiara indicazione sul come comportarci. Il Convegno ha una chiara impronta missionaria:
28-02-2007
8:46
Pagina 57
“Sarete miei testimoni”. Il tema della missione si pone con urgenza, anche se occorre evitare che esso sia ridotto a proselitismo o a tensioni di “riconquista”. Va invece rafforzata l’impostazione testimoniale e degli stili di vita che questa richiede. Per questo deve avere uno sguardo attento alla comunità degli uomini, alle italiane, agli italiani e alle persone che vivono in questo Paese. La Chiesa che si propone come servizio e annuncio di speranza, perché crede nel futuro e che pratica la carità non piegandosi sul presente, sulla compassione, ma producendo speranza. Ecco perché l’articolazione negli ambiti è molto significativa. Sono campi che riguardano l’esistenza, il vivere, il convivere che altro non è che affettività, lavoro e festa, fragilità, tradizione e cittadinanza se non le cifre della vita attuale. È stato affermato che questa impostazione è un cambiamento di paradigma nelle forme d’annuncio. La fede si misura con la realtà del vivere e con il vivente per quello che esso è. È una grande sfida per i laici cristiani che vengono così sollecitati in prima persona e che devono giocare un ruolo da protagonisti. Non possiamo però pensare che tutto si esaurisca a Verona e nei documenti che da Convegno usciranno. Il problema è come ci si rimette in cammino, di come si procederà nel futuro e di come potremo sperimentare, da laici, una forte esperienza di comunione per l’evangelizzazione. Non siamo all’anno zero, sono già in campo delle esperienze e tentativi di implementazione che ci fanno ben sperare, bisogna però che si faccia uno sforzo ulteriore. Dentro le metamorfosi che stanno trasformando la
57
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<57
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
nostra società e che pongono a noi cristiani molte domande, dobbiamo anche rilevare che si sono molti segni di speranza, soprattutto a livello territoriale. Sta maturando una nuova coscienza di fede e un nuovo modo di interpretare la fede che coinvolge, anche se in molti casi in forma embrionale, le esperienze personali e comunitarie e che dà un senso alla vita, all’impegno e che aiuta a vivere con serenità i problemi della quotidianità. Dobbiamo cogliere questi segni e valorizzarli proprio perché siamo sul terreno di una fede-testimonianza che tende a realizzare una stretta relazione tra salvezza e storia umana. Si tratta di una fede che si nutre della Parola di Dio, che vive i segni della grazia, ma anche di valori umani. Siamo tante volte troppo attenti alla politica ecclesiale, a cosa fanno i Vescovi e al loro rapporto con la politica e alle questioni dei rapporti interni alla Chiesa, che ci sfugge che nelle nostre comunità stanno emergendo esperienze di fede che non diventano ideologiche, ne si rifugiano nell’utopia o nell’intimismo. Mi sorprende positivamente il fatto che in questa nostra società così tesa al successo, alla ricchezza e al potere – almeno così cercano di rappresentarcela i mezzi di comunicazione sociale -, ci siamo persone e cristiani che fanno la scelta dei poveri. Il povero, lo sappiamo, è la verifica costante del nostro essere Chiesa e se questa attenzione permane vuol affermare che molte cose sono ancora oggi possibili e che la speranza, pur essendo virtù piccina, non è assente. È da qui che possiamo costruire nuovi percorsi, i laici cristiani devono pertanto diventare sempre più protagonisti, soprattutto
58 58>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 58
a livello locale, e vivere il loro impegno secondo un nuovo stile di comunione e partecipazione sia nel sociale che nella comunità ecclesiale. Più profezia nella Chiesa e più capacità di mediazione nella società civile potrebbe essere lo stile di un nuovo impegno dei laici cristiani. 1 Che fare? Per finire, alcune indicazioni di percorso su cui riflettere e lavorare: 1) Contribuire allo spirito di comunione nella Chiesa particolare, promuovendo momenti d’incontro e di dialogo dei laici impegnati nelle associazioni e nei movimenti, con l’obiettivo di promuovere la conoscenza, l’accettazione e la cooperazione in modo da approfondire le implicazioni della condizione laicale e della sua missione nella Chiesa e nella società; 2) Generare momenti di formazione (umana, spirituale, culturale e dottrinale con particolare attenzione alla Dottrina sociale) comuni tra associazioni e movimenti; 3) Sviluppare o partecipare alla realizzazione di progetti di intervento concreto in ambito sociale sui temi del lavoro, dell’economia sociale, del volontariato, delle attività di cura, di lotta e prevenzione delle emarginazioni, di contrasto della povertà, della scuola, della solidarietà internazionale e della famiglia. 4) Contribuire attraverso un intreccio d’interventi formativi e d’azione concreta alla creazione di classe dirigente che si possa impegnare nel sociale, nella politica e nell’economia. Ultima annotazione, siamo tutti convinti che oggi di fronte alla “povertà” della politica, ci sia bisogno di
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 59
La Repubblica, nel suo essere “Res publica”, è responsabile della costruzione d’un processo di valorizzazione sociale del lavoro, delle competenze e delle pari opportunità che permettano a tutti di svolgere un lavoro. Competenze e accesso al mercato sono le nuove forme d’uguaglianza da perseguire, perché, solo attraverso il lavoro, l’uomo riesce a collocarsi al centro d’un sistema di relazioni che diventano parte integrante il percorso di realizzazione personale e di costruzione d’un bene comune, in grado di costruire anche il senso dell’interesse particolare. una cultura politica cristianamente ispirata, che in autonomia, sia in grado di spendersi in campo amministrativo e politico, ma credo che ci sia bisogno anche di una cultura economica che aiuti a decifrare, interpretare e processi economici che stanno cambiando il mondo. Noi cattolici siamo molto attenti al sociale e al politico, abbiamo difficoltà, ritrosie e pudori strani su temi dell’economia. L’idea che il denaro sia qualche cosa di sporco, che il mercato sia il luogo dello sfruttamento, che la concorrenza sia moralmente discutibile, è ancora dentro il nostro subconscio collettivo. Poi, magari, si usa il danaro con una certa disinvoltura. Resto convinto che invece che serva anche a noi cristiani avere una buona cultura economica, soprattutto oggi. In questa ricerca ci sorregge la memoria vivente tramite la Chiesa dell’esperienza dell’inizio del cristianesimo, quando i cristiani si ritrovavano in piccoli gruppi prevalentemente nelle case e fu la loro testimonianza personale a portare nel mondo il Vangelo.
Il lavoro, come luogo di espressione del genio laicale, permette la penetrazione del messaggio cristiano? Quali opportunità e quali rischi pone il mondo del lavoro all’annuncio fedele e credibile del Vangelo oggi? Quanta importanza hanno avuto a tal fine i cambiamenti degli ultimi anni? 1 La questione sociale come questione antropologica Oggi la questione sociale è essenzialmente antropologica, pertanto se fino ad ieri il tema del lavoro era
pensato come un elemento dell’economia e della giustizia distributiva, al presente bisogna cercare di collocarlo su un versante che lo veda all’interno della dimensione umana. L’attenzione alla persona umana diviene, allora, substrato per qualcosa di nuovo, da costruire partendo da una lettura della tradizione sociale. Il nuovo da costruire sull’antico è per me, venendo al tema “lavoro”, l’art. 1 della Costituzione italiana: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”. Potremmo affermare che seguendo l’impostazione umanista della nostra Costituzione si debba rifiutare sia la visione collettivista che quella individualista di matrice liberale, mettendo la persona al centro, il lavoro, pertanto, non va inteso come una merce, ma come volano d’inclusione sociale e pari opportunità. Innanzi ai profondi cambiamenti che stanno investendo il lavoro in tutte le sue articolazioni dal lavoro subordinato, ai nuovi lavori economicamente dipendenti, all’espandersi del lavoro individuale, ma anche alle trasformazioni cui è investita l’attività imprenditoriale e professionale, se come scriveva La Pira “La Costituzione deve essere il luogo dove l’eguaglianza, la libertà, la proprietà siano per tutti una realtà e non soltanto un nome, non sarebbe fuori luogo aprire un nuovo discorso sul lavoro e sul significato che esso può ancora avere per significare l’attività umana sia nel suo agire trasformativo, organizzativo e relazionale e nel costituire i criteri della cittadinanza, anche perché oggi il lavoro è svolto da tante persone che non sono nate e cresciute nel nostro Paese. Ma vorrei proporre un altro parallelismo; qualche
59
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<59
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
anno prima l’Assemblea Costituente, siamo nel 1941, Papa Pio XII, con il radiomessaggio per i 50 anni della Rerum Novarum (documento che vede la luce con il titolo I sommi postulati morali di un retto e sano ordinamento democratico. Radiomessaggio natalizio “Benignitas et humanitas”), aveva chiarito definitivamente: “All’uomo, come tale, che, lungi dall’essere l’oggetto e un elemento passivo della vita sociale, ne è invece, e deve esserne e rimanerne, il soggetto, il fondamento e il fine” il lavoro serve per costruire la propria identità sino al punto d’essere “necessario e personale”. È un diritto, scrive il Papa, “imposto e concesso all’individuo in primo appello dalla natura, e non già dalla società”. Tale diritto: ”Rientra nell’ufficio dello Stato” che interviene ”nel campo e nella divisione e nella distribuzione del lavoro”. La Repubblica, nel suo essere “Res publica”, è responsabile, quindi, della costruzione d’un processo di valorizzazione sociale del lavoro, delle competenze e delle pari opportunità che permettano a tutti di svolgere un lavoro. Competenze e accesso al mercato sono le nuove forme d’uguaglianza da perseguire, perché, solo attraverso il lavoro, l’uomo riesce a collocarsi al centro d’un sistema di relazioni che diventano parte integrante il percorso di realizzazione personale e di costruzione d’un bene comune, in grado di costruire anche il senso dell’interesse particolare. Scriverà Mounier, in proposito: “La persona non è l’essere, è movimento d’essere verso l’essere, e non è consistente che nell’essere cui aspira”. Proprio perché il Lavoro è sottoposto a profondi
60 60>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 60
cambiamenti che si pongono una serie d’interrogativi sulla sua natura e sul come queste trasformazioni incidono e mutano la vita delle persone e la stratificazione della società. A nessuno sfugge che siamo immersi in una serie di processi e di profonde metamorfosi che stanno cambiando l’idea, la forma e l’organizzazione sociale del lavoro. Con l’avvento della rivoluzione industriale, il lavoro è diventato progressivamente l’elemento centrale dell’integrazione sociale, della realizzazione personale ed ha costituito il criterio di base dell’accesso alla cittadinanza sociale. 1 La fine dell’egemonia del lavoro industriale Oggi, il lavoro industriale non esercita più quell’egemonia che lo aveva costituito segno e misura di tutti i lavori. Infatti, non possiamo più parlare di lavoro, ma di lavori. Al lavoro stabile della fabbrica, dell’ufficio pubblico, del lavoro agricolo, si è aggiunto quello mobile, frammentato e la flessibilità sembra essere il segno del lavoro nuovo. Questi cambiamenti non avvengono per caso, né sono il frutto di una mente perversa, sono il risultato di un’evoluzione che sta modificando il modo d’essere e di fare del capitalismo e dell’economia. Molti di noi hanno in mente un capitalismo che non c’è più, quello che operava sul lungo termine. Il nuovo capitalismo e la novella economia, sotto lo stimolo delle moderne tecnologie e della sempre maggiore interdipendenza dei mercati a livello globale, opera sul breve termine. In questa situazione segnata da una nuova divisione internazionale del lavoro, da una concorrenza sempre più agguerrita, da livelli di
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 61
Ragionare sulle nuove forme del lavoro significa non limitarsi solo ai temi della regolazione contrattuale, normativa e retributiva, che è importante, ma andare più in profondità e uscire dallo schema dell’adattabilità della domanda sull’offerta, per valutare le implicazioni sociali e culturali che si stanno determinando
competitività sempre più alti, da una grande mobilità del capitale e della finanza, l’obiettivo di un’impresa economica non è più solo quello di produrre merci e profitti, ma di aumentare velocemente il valore finanziario, per fare tutto questo serve un nuovo modello organizzativo e una diversa organizzazione del lavoro. 1 Il mito della flessibilità L’insieme di questi fattori ha cambiato il mercato del lavoro e il rapporto tra domanda e offerta e ha preso corpo il “mito della flessibilità”, sono crescite nuove forme di lavoro e il confine tra le forme “atipiche” e quelle “tipiche” si è fatto in termini quantitativi sempre meno stretto. Negli ultimi anni anche nel nostro Paese il lavoro flessibile e mobile è cresciuto in maniera costante, e sempre di più bisogna fare i conti con questa realtà. Lo dobbiamo fare in modo critico nel senso di una valutazione sempre aperta e non conclusiva, cercando di cogliere le ricadute che si determinano sui sistemi di relazione sociale. Ragionare sulle nuove forme del lavoro significa non limitarsi solo ai temi della regolazione contrattuale, normativa e retributiva, che è importante, ma andare più in profondità e uscire dallo schema dell’adattabilità della domanda sull’offerta, per valutare le implicazioni sociali e culturali che si stanno determinando. La molteplicità delle forme di lavoro, la frammentazione e le flessibilità vanno ben interpretate e governate per evitare che producano disuguaglianze e una polarizzazione tra le persone che possiedono competenze, saperi, conoscenze, professionalità e pertanto in grado di muoversi den-
tro le nuove mobilità sociali, e la massa di persone obbligata a lavori di bassa qualità, a tempo parziale, con debole contenuto professionale e con scarse possibilità di mobilità sociale e con il rischio di stare sempre sul confine con la precarietà o il lavoro sommerso. Questa divaricazione tra lavoratori non può essere compensata solo sul piano economico perché finirebbe per stabilizzare le disuguaglianze sociali e d’opportunità. Il lavoro sta cambiando sostanza, e la figura del lavoratore s’individualizza e si fa molteplice: diversi ruoli, differenti rapporti contrattuali, varie attività svolte in difformi posti di lavoro. Accanto ai dipendenti (che sono in calo ma che rappresentano ancora una fetta consistente di lavoratori), sono compresenti gli indipendenti, i parasubordinati, i semiautonomi. Il divario tra fasce deboli e forti si è fatto più intrecciato e produce situazioni sociali inedite. Nello stesso tempo crescono nuove forme di vulnerabilità, fragilità e d’anomia personale che lasciano spazio ad una concezione lavorativa priva di riferimenti e solidarietà collettive. I lavoratori diventano sempre meno “classe”. sempre meno “popolo” e sempre più moltitudine: un insieme di singolarità messe al lavoro. La struttura sociale viene destrutturata e messa in movimento, con il rischio che il lavoro e il sociale siano sussunti nell’economico e perdano ogni significato di senso e di valore umano. Altro elemento di grande novità è rappresentato dai flussi di immigrazione ed il costituirsi di un vero e proprio mercato parallelo. Si tratta di un equilibrio difficile, destinato ad essere messo in discussione, poiché l’iniziale disponibilità espressa da molti
61
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<61
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 62
Il lavoro appare, oggi, come il luogo delle forti polarizzazioni: non costruisce la società e le relazioni, ma, al contrario, sembra alimentarsi da essa e a destrutturarne i legami, creando nuove barriere
immigrati a svolgere impieghi selettivamente rifiutati dalla manodopera autoctona, rischia di venir meno al crescere della stabilizzazione sul territorio e dell’integrazione nella società ospite .Tra gli effetti prodotti da queste dinamiche vi sarebbe il prodursi di un effetto di spiazzamento dei lavoratori italiani, specie per quelli appartenenti ai segmenti più deboli e meno qualificati. Mancanza di lavoro e bassi livelli salariali (in particolare nei servizi a carattere relazionale, come i servizi alla famiglia e agli anziani, nonostante un forte aumento della domanda) sono elementi che rendono difficile il processo d’inclusione sociale, non più soltanto per i cittadini stranieri. Questa fenomenologia del lavoro pone molte domande: è possibile creare un riferimento in cui la moltitudine trova uno spazio comune? Come può ricomporre la frammentazione? Entro quali spazi di relazioni sociali si colloca il lavoro flessibile. Gli immigrati e in particolare quelli stabilizzati, devono chiudersi nelle loro comunità etniche? Ci rassegniamo a vivere una società dai legami sociali sempre più deboli e segata da un eccesso di competizione sociale? 1 Un nuovo umanesimo In questa prospettiva occorre, se realmente si vuole costruire un nuovo umanesimo, cercare di andare oltre i pensieri ideologici ed economicismi che si sono costruiti attorno al lavoro e che nella sostanza lo hanno ridotto a pura merce - forza lavoro - da scambiare sul mercato. È vero che ognuno di noi legge, interpreta e agisce attraverso una “visione
62 62>>
ricerca
del mondo” che è sempre “preformativa” dei giudizi che formuliamo, altra cosa è l’ideologia che sempre si presenta come un a priori che trasforma un’ipotesi sulla realtà in una “idea” dalla quale si può desumere e conoscere quindi in anticipo, il dispiegarsi delle situazioni; è chiaro che se si riduce il lavoro a merce lo si economicizza e lo si sottrae alla sua dimensione umana. Certamente, si devono fare i conti con il mercato e con il mercato del lavoro, ma un conto è immergervisi, altro è starci dentro con una proiezione che guarda oltre e che, pertanto, opera per creare le condizioni di una riappropriazione umana del lavoro. Sembra evidente che le riflessioni avanzate sono il frutto di una passione di un’antropologia precisa, un’ispirazione che, a fatica, riconosciamo nei mutamenti in atto. Il lavoro appare, oggi, come il luogo delle forti polarizzazioni: non costruisce la società e le relazioni, ma, al contrario, sembra alimentarsi da essa e a destrutturarne i legami, creando nuove barriere. Più compiutamente affermerei che l’ingresso in quella che viene ormai comunemente definita la “società dei lavori”, traccia uno scenario di pluralizzazione sia sotto il profilo professionale e settoriale, sia dal punto di vista della prestazione e della tutela. S’indebolisce il “compromesso fordista” di una divisione del lavoro basata su una dimensione classista, in cui agli uni era garantita la dimensione proprietaria e decisionale con la profittabilità economica, agli altri una subordinazione mitigata e compensata da un’attività a tempo pieno e indeterminato, garantito e stabile, definito nelle mansioni, nelle competenze
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
e nella formazione necessarie per eseguirlo. In epoca moderna, tale tipo di lavoro funzionava sostanzialmente come “istituzione regolatrice” in grado di stabilire la posizione sociale dell’individuo, condizionarne il livello di sicurezza e protezione sociale, garantendo l’accesso ai servizi, la capacità di consumo e persino il godimento dei diritti di cittadinanza. Il passaggio alla società post-fordista segna, invece, una profonda metamorfosi nel campo decisionale, con i processi di finanziarizzazione e di diffusione dell’azionariato che cambia i titoli della proprietà e pertanto il compromesso tra decisionismo proprietario e subordinazione è messo in discussione, per effetto della presenza di nuovi soggetti che sono più interessati alla crescita del valore, che alla stabilizzazione sociale. In questo contesto la correlazione, un tempo garantita, tra lavoro stabile, inserimento relazionale solido, integrazione sociale e cittadinanza è messa in movimento. Le nuove tecnologie, la divisione internazionale del lavoro, le esigenze competitive, le nuove modalità organizzative e il crescere della soggettività personale e delle torsioni individualistiche irrompono e determinano una situazioni di forte vivacità. Inoltre, si indeboliscono, anche per effetto del sorgere di una nuova organizzazione sociale che, sulla scia delle trasformazioni dell’organizzazione produttiva e del lavoro, riarticola oltre che i luoghi del lavoro - con un passaggio dalla fabbrica al territorio, dal lavoro di massa ad uno più articolato, flessibile, mobile e, spesso, sempre più individualizzato -, i dispositivi di protezione sociale.
28-02-2007
8:46
Pagina 63
1 Il lavoro dipendente Per il lavoratore economicamente dipendente – alcuni elementi di dipendenza oggi non riguardano più e solo il lavoro subordinato, ma stanno investendo il lavoro autonomo, l’artigianato e anche larghe fasce di imprenditorialità -, diventa più difficile progettare nel lungo periodo non solo i propri percorsi lavorativi, ma la stessa vita individuale e familiare; muta la posizione del lavoro, e non solo quello dipendente, nella società e nella biografia dei soggetti, con esiti ambivalenti e non scontati. Da un lato si registrano la professionalizzazione della struttura imprenditiva e occupazionale (crescono le attività produttive, terziarie e lavorative ad alto contenuto di conoscenza ed autonomia), dall’altra l’estendersi di lavori a basso contenuto professionale. Inoltre, per rimanere all’interno del lavoro dipendente in senso stretto, l’innalzamento del livello di qualificazione richiesto per l’accesso al mercato del lavoro, il miglioramento della qualità di molti mestieri diventa sempre più esigente e nello stesso tempo vediamo anche il sorgere di nuove linee di stratificazione sociale che tendono a segmentare il mercato verso il basso. Per le componenti dell’offerta di lavoro più forti e qualificate, in particolare, l’impiego flessibile diventa un canale selettivo d’inserimento occupazionale, e, a volte, persino uno strumento d’autonomia e d’espressione delle proprie preferenze; ma per altri, più deboli, si trasforma, al contrario, in un destino in eludibile e penalizzante. Il rischio principale è che l’accentuarsi di questa discontinuità si riveli troppo faticosa per la vita delle persone, generando effetti preoccupanti
63
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<63
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 64
Non possiamo più dire ai nostri figli che il loro futuro sarà un poco peggiore del nostro. Il principio di responsabilità che dovrebbe guidare la politica e tutte le forme della rappresentanza si può costruire se si abbandonano i corporativismi e gli interessi a piccolo termine, se il nostro sguardo si sposta dall’oggi al domani
su famiglia, socializzazione e relazioni personali. E questo, soprattutto, nelle città dove più fragili sono le reti parentali, amicali e di sostegno. Ecco come i profondi mutamenti del lavoro, vera sottolineatura della natura sociale della Repubblica (si parla di clausola di socialità), e le nostre disattenzioni al concreto reale, rischiano di non farci vedere il sorgere di nuove discriminazioni e subordinazioni tra ceti sociali. Come cercavo di rilevare poc’anzi, i mutamenti non avvengono per caso, sono il risultato di un’evoluzione che sta modificando il modo d’essere e di fare del capitalismo. Molti hanno ancora in mente un capitalismo che non c’è più: quello che operava sul lungo termine. Oggi si opera nel breve perché è cambiata la concorrenza, perché il livello di competitività si è fatto più elevato e duro, perché è profondamente cambiato il rapporto tra economia reale e finanza. Ne deriva una modificazione molto profonda del capitalismo stesso, che se, per funzionare, ha bisogno di cambiare i luoghi del potere decisionale, il modello organizzativo e l’organizzazione del lavoro, allora è necessario che si avanzino una serie d’analisi e di valutazioni, con uno scandaglio profondo sulle contraddizioni sociali ed economiche dei nuovi modelli di sviluppo. Compete a noi, più di altri, andare ad esaminare questo modello e vedere come interviene sulla dimensione umana! Ma per costruire un umanesimo nuovo, tutto questo, sono convinto, ancora non basta! C’è la necessità di un impegno sociale e politico forte, di una valorizzazione delle reti, del fare, del creare elemen-
64 64>>
ricerca
ti che tengano insieme la gente: è un impegno impellente. È qui che si pone il tema attuale di quale democrazia economica. Essa non può essere solo quella degli organismi di controllo, delle autorità, delle liberalizzazioni e della concorrenza, tutte cose necessarie, utili ed indispensabili, ma occorre, anche su questo terreno, che si vada oltre, in direzione della partecipazione di un diffuso azionariato popolare che non sia solo relegato al possesso e alla remuneratività delle azioni, ma possa partecipare alle scelte e agli orientamenti. Serve un modello contrattuale sempre più radicato nella dimensione territoriale e aziendale. La democrazia economica intesa come possibilità di fondare un nuovo umanesimo del lavoro e una nuova cittadinanza, non è compito che possa affrontare solo il sindacato. Oltretutto, va tenuto presente, che questo è un tema che non appartiene storicamente all’insieme del sindacalismo italiano, esso è stato posto con chiarezza dal sindacalismo bianco prefascista, dalla Cil ed è carsicamente arrivato dentro la Cisl e in alcune altre componenti riformiste del sindacato laico. Ecco perché la questione di quale democrazia economica non può stare solo in capo al sindacalismo. C’è bisogno anche di un’attività socio-economica più diffusa che sia in grado di creare forme e modelli concreti ed efficaci di economia partecipata come l’impresa no profit, quella cooperativa e associata e nuove forme di mutualità. Si tratta di creare un ambiente pubblico che sia in grado di pensare alle forme dell’intraprendere, dell’attività economi-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
ca in modo pluralista e uscire dalla contrapposizione tra pubblico e privato, tra capitale e lavoro. C’è bisogno, quindi, anche di politica e della sua capacità di fare progetto, di affrontare i temi della quotidianità con lo sguardo rivolto al futuro. Sono questi i due temi a cui necessariamente la politica deve sottostare: l’agire sull’oggi come investimento per il futuro. Il venire meno di un modello non presenta nulla di drammatico e dentro i processi sempre evolutivi del cammino umano e del dispiegarsi storico, quello cui siamo chiamati ad evitare e che il nuovo modello finisca per determinarsi solo attraverso la presenza bruta degli interessi dell’economia e della tecnica. Il futuro è, a mio parere, la dimensione vera dell’agire e della proposta politica, gli altri soggetti e le altre forze non possono che proporci un futuro come prolungamento del presente, ma non è questa la prospettiva di un nuovo umanesimo. Sappiamo bene che il progresso dell’umanità è inarrestabile e costante, ma proprio perché lo sappiamo che appare quanto mai necessario un controllo che deve essere esterno all’economia, alla scienza ed alla tecnica e che deve essere esercitato a garanzia della dignità della persona. Le possibilità d’intervento e di manipolazione dei poteri dell’economia e della finanza congiunti agli strumenti della comunicazione hanno raggiunto ambiti un’estensione un tempo impensabile e hanno mostrato che si possono produrre effetti e conseguenze non controllabili e con gravi danni per la collettività, pensiamo agli scandali finanziari, che possono durare nel tempo. I problemi che questi nostri tempi evidenzia-
28-02-2007
8:46
Pagina 65
no richiedono un profondo ripensamento dell’intervento politico sulle questioni economiche, non tutto si può lasciare alla “spontaneità “ del mercato. 1 Il principio di responsabilità Mi rendo conto che in quest’epoca segnata dalla globalizzazione, dall’interdipendenza delle economie e da livelli altissimi di competitività, le decisioni politiche in materia economica non sono né facili ne scontate negli effetti, per questo esigono di essere prese solo dopo aver preparato il terreno adeguato sul quale fondarle. Il diritto e l’etica si trovano ad affrontare e dirimere questioni fino ad ora inedite e non sembrano al momento essere dotati degli strumenti necessari per svolgere al meglio il compito al quale sono chiamati: sarebbe arbitrario e scorretto proporre una soluzione giuridica prima di aver elaborato quella etica. Va dunque assunto il principio di responsabilità, inteso non solo come responsabilità verso i contemporanei, ma come obbligo di lasciare alle nuove generazioni un mondo migliore di quello che abbiamo trovato. Se questa è la prospettiva non possiamo più dire ai nostri figli che il loro futuro sarà un poco peggiore del nostro. Il principio di responsabilità che dovrebbe guidare la politica e tutte le forme della rappresentanza si può costruire se si abbandonano i corporativismi e gli interessi a piccolo termine, se il nostro sguardo si sposta dall’oggi al domani. Una prospettiva che si può costruire partendo dall’assunto che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, in altre parole sul fare costruttivo delle persone verso il bene comune ed io identifico il bene
65
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<65
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
comune con quello delle nuove generazioni. Per capire come muta la società, per capire quali siano gli elementi nuovi che dobbiamo introdurre, bisogna ripartire da un concetto largo ed estensivo di lavoro, inteso nella sua veridicità costitutiva della capacità dell’umano di agire, trasformare, modificare, far crescere e di partecipazione al bene comune. Il lavoro, dunque, assunto come simbolo dell’agire trasformativo, creativo, manipolativo dell’uomo e pertanto capace di ricreare un modello di società in cui la dignità della persona, la dignità dell‘uomo, sia una dignità grande. Sono questi i passaggi obbligati per arginare la crescita delle disuguaglianze; per tornare a parlare d’un recupero d’umanesimo! Solo così saremo in grado di generare un nuovo in cui l’uomo con le sue potenzialità e limiti, tornerà ad essere punto di riferimento dell’intera realtà. Queste riflessioni ci consegnano un compito difficile: “Fare coesione” fra differenti identità sociali, cul-
66 66>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 66
turali. I soggetti politici, sociali, associativi e religiosi che operano nelle nostre comunità locali, devono puntare su un piano di ricomposizione comunitaria, che sia capace di ridefinire una coscienza sociale, di relazione, di luogo, di solidarietà e d’uguaglianza, favorendo forme di mutualità, d’amicizia, azioni di cura e produrre un nuovo modello di comunità, di fiducia e di solidarietà, capitalizzando esperienze come quelle del volontariato, dell’autoorganizzazione e delle imprese del terzo settore. Si tratta di rilanciare un dibattito attorno al lavoro e alla convivenza sociale in grado di affrontare le problematiche di natura antropologica e di senso. In pratica, occorre essere consapevoli che c’è oggi una nuova questione sociale che chiede di ridefinire e ripristinare il valore del lavoro come fonte di relazione e partecipazione all’interno dell’obiettivo più generale di una nuova civiltà del lavoro. Un tempo non molto lontano abbiamo pensato che bisognava andare verso la Classe operaia e abbia-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
mo vissuto dentro la Chiesa l’esperienza interessate dei preti operai. Nel tempo della moltitudine andare verso il lavoro significa andare nel territorio, è questo il tempo di ripensare anche il ruolo delle parrocchie. 1 Il ruolo dei cristiani e delle loro associazioni In questa situazione il ruolo dei cristiani e delle loro associazioni è importante perché sono portatori di due elementi di fondo: un’idea comunitaria del vivere e la speranza nel futuro. Ed è partendo da questi due criteri che occorre lavorare, da cristiani, ad un modello d’economia sociale che produca ricchezza, lavoro e benessere per tutti e soprattutto garantisca i più deboli. Per realizzare quest’obiettivo abbiamo bisogno, però, di un pensiero politico-culturale che, nascendo da una chiara proposta antropologica, cerchi di proporre un’articolata visione della società e dello Stato. In questa direzione una rinnovata presenza politica e sociale potrebbe apparire come la capacità profonda di cogliere l’esperienza umana in tutte le sue sfumature soprattutto quelle che registrano una situazione di crisi, di disorientamento e d’inadeguatezza nel trovare risposte ad interrogativi presenti. Avere un’idea prospettica per i cattolici, nella vita della “polis”, significa recuperare una storia, essere qualcuno, non solo accumulare un patrimonio, ma maturare identità collettive in perenne relazione le une con le altre. Abbiamo bisogno di una proposta cultural-politica avente come base un’antropologia e una tensione etica, fondata su un chiaro ed esplicito sistema di valori ispirati dalla fede cristiana e
28-02-2007
8:46
Pagina 67
dalla tradizione che essa ha generato proponendo una rinnovata elaborazione che si confronta con il dato storico e sa però vivere in essa con un proprio progetto. Come abbiamo visto, utilizzando come filtro interpretativo e illustrativo la situazione del lavoro, il Paese è cambiato e sta cambiando, sono mutati i costumi e la stratificazione sociale, germinano nuove culture e diverse antropologie, ma è proprio la pluralizzazione della realtà e la sua complessificazione a farci ritenere che metodo e ispirazione ideale continuano ad essere necessari. Noi possiamo attingere ad un pensiero che essendo tale può e deve essere capace di evolvere, adeguarsi senza smarrire l’orizzonte. Oggi lo svuotamento del lavoro passa attraverso il suo svuotamento di senso e questo genera ricadute sul modo con cui si lavora, si esercita la professione ed il mestiere. C’è un compito molto laico che i cristiani possono mettere in campo e riguarda proprio quello di ridare senso e significato al lavoro. Questo potrebbe aiutare anche il sindacato ad ampliare la sua azione, sempre utile e necessaria, dal miglioramento delle condizioni e della produttività del lavoro, verso elementi di significazione e di sviluppo, dentro il lavoro, di un progetto di vita personale e sociale. Da più parti si discute molto sugli effetti che i nuovi lavori hanno sulla vita sociale, economica e professionale, mentre è scarsa l’attenzione al rapporto lavoro/partecipazione e a quello tra subordinazione e libertà. Non è assolutamente vero che il superamento dell’organizzazione del lavoro di tipo taylori-
67
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<67
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
stico ha eliminato le forme dell’alienazione, le ha solo modificate. Un’attenzione maggiore alla questione dell’organizzazione attuale del lavoro e alla sua nuova divisione e articolazione, ci aiuterebbe anche a verificare come all’interno dell’attuale capitalismo dominato da forti processi di finanziarizzazione, il tema della partecipazione può essere giocato sia all’interno delle imprese che all’esterno. Penso anche che un rilancio della partecipazione del lavoro può praticato anche dentro la dimensione sociale, attraverso la germinazione e gemmazione di nuove sperimentazioni economiche in cui, soprattutto i giovani, potrebbero giocare e rischiare in termini di creatività, professionalità e capacità imprenditoriale. In particolare penso all’area del no profit, della cooperazione, della mutualità e delle forme associate d’economia. Il tema che pongo è quello di quale senso dare al lavoro, un tema caro alla riflessione della Dottrina sociale della Chiesa che va ripreso con attenzione e forza e che trova nel tema della festa e della domenica il suo punto più alto e significativo. È la festa e la domenica che da senso al lavoro, senza la domenica il lavoro perde il suo significato più profondo. Il tema del senso del lavoro oltre che avere una sua centralità nel tema della festa domenicale, può essere ricollocato sul terreno, di cui tutti parlano con tanta retorica, della centralità che la risorsa umana sta assumendo nella nuova economia, soprattutto in quella della conoscenza. Affermare questa centralità è utile se tutto il discorso non si riduce nell’ambito di un utilitarismo pragmatico,
68 68>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 68
legato solo alle esigenze dell’economia e delle incipienti trasformazioni tecno-scientifiche del produrre e della divisione del lavoro. Dare centralità alla risorsa umana significa, a mio modesto parere, valorizzare la dimensione umana del lavoro. Il lavoro assunto come elemento di liberazione, come possibilità di crescita personale societaria e non limitarsi alle pur importanti questioni delle condizioni di lavoro, di sicurezza, di produttività, d’occupabilità. Su questi temi non bisogna abbassare la guardia, ma se vogliamo pensare al futuro essi vanno inquadrati in un discorso più ampio. Il lavoro deve tornare ad alimentare i sogni e le speranze di tutti, soprattutto dei giovani. Non possiamo rassegnarci all’idea che a pochi sarà consentito un lavoro professionalmente soddisfacente ed alla maggioranza un lavoro banale ed insignificante. La necessità è un lavoro dignitoso e gratificante per tutti. Il lavoro per sua natura sarà sempre legato alla fatica e in parte ad una naturale sofferenza, proprio per queste ragioni ha sempre più bisogno di ragioni di senso. Ridare senso e significato al lavoro umano sul piano personale, sociale e morale e spirituale, significa recuperare il senso storico dell’impegno trasformatore dell’uomo, o, per dirla da cristiano, di cooperatore al disegno della creazione. Ed è chiaro che dal come si pensa e si vive il lavoro discende anche il modo con cui si organizza la società e il vivere comune. Sul piano della pastorale è altrettanto importante avere innanzitutto un progetto pastorale/culturale capace di essere, in quest’ambito, convincente e significativo; costruito sul recupero di un’antropolo-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 69
Il lavoro appartiene alla condizione originaria dell’uomo: esso è nel progetto del Creatore, benedizione e non maledizione
gia chiara e di quella storicità che è fondamentale per sostenere e accompagnare l’originalità dell’esperienza. Bisogna rispondere alla necessità e l’urgenza di riproporre la Dottrina sociale della Chiesa; perchè emerga, in modo particolare, che l’oggi che stiamo vivendo è un momento storico segnato da profondi e radicali cambiamenti durante i quali un confronto con la complessità che ci circonda esige strumenti e bussole sempre più sensibili per riscoprire i punti di riferimento a livello esistenziale, economico e politico, cui dobbiamo ispirarci. Ma non basta. Bisogna recuperare il lavoro anche come esperienza comunitaria, favorire la partecipazione alle scelte, ri-motivata dal principio di responsabilità, proporre, poi, una nuova valorizzazione della soggettività, in una logica di rispetto della persona che vuol dire riconoscerla per ciò che è in sé (e non solo per quello che il mercato si aspetta che sia), e nelle interdipendenze che la legano in solidarietà con gli altri. Sviluppare, infine, le capacità di lettura del sistema socio-economico e politico alla luce della Parola, della storia e dei mutamenti reali. Vanno abbandonate le prudenti nostalgie del come eravamo, per iniziare a dire come vogliamo essere e pertanto contribuire a ridefinire il concetto attuale di “società attiva”, di partecipazione, di impegno politico e sociale. Tutti questo si deve collocare: a) Nella logica dell’amore, come ci chiede Papa Benedetto XVI, che cambia la prospettiva dell’agire sociale e politico, correndo il rischio, se necessario, di diventare inattuali, ingenui e apolitici. Molte volte questo nostro modo di porci è visto, anche nei nostri
ambienti, come debolezza, come fuga, come rinuncia. Ma non è così: alla fine del percorso si raccoglieranno i frutti della fedeltà dimostrata, perché, in ogni caso, è la dimensione dell’amore che anima, da’ vita, rende significante l’operare dell’uomo. Agire secondo la logica dell’amore significa, inoltre, assumere delle responsabilità ben precise nei confronti della collettività, significa dire con chiarezza che ogni diritto esige un’obbligazione, un dovere di compensazione e che ogni ricchezza ha bisogno di una re-distribuzione e che i beni si possono e si devono condividere. b) Nell’innovare l’attuale impostazione della pastorale, ancora troppo modulata su vecchi modelli. L’attuale mercato del lavoro è, infatti, un’istituzione meta-economica complessa in grado di cogliere, indirizzare, ma anche soddisfare esigenze personali, modalità culturali e produce esigenze e appetiti di tipo nuovo che non sempre, soprattutto nei giovani, sono legate esclusivamente a necessità reddituali. Una risposta di senso, può valere più di quanto non immaginiamo! c) Nel ribadire, in modo nuovo, che il lavoro appartiene alla condizione originaria dell’uomo: esso è nel progetto del Creatore, benedizione e non maledizione. Va onorato attraverso la creazione di condizioni decorose e considerato lo strumento principale contro la miseria e la povertà. Non va idolatrato. In questo senso il coronamento del lavoro non è la ricchezza ma il riposo. Un riposo che non va confuso con l’ozio ma assunto come idea di libertà. Il sabato, ad esempio, è, come ci ricorda il Compendio della DSC, istituito a difesa del povero. Innanzi a
69
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<69
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
quest’affermazione sono rimasto stupito, perché ho sempre pensato che il riposo servisse al lavoro. Invece è il riposo del sabato a generare e segnare la funzione liberatoria del lavoro dalle degenerazioni. Leggendo questo passaggio ho capito meglio il perché delle battaglie sindacali per il riposo festivo, per le ferie e la giornata delle otto ore. Ma anche l’esigenza sociale della festa. d) Formando operatori pastorali non solo sacerdoti, ma laici. Negli ultimi anni ci siamo soffermati molto sulla formazione alla politica, dando quasi per scontato che si vivesse in una situazione di cristianità. Credo che non sia più così e che oggi vi è per noi cristiani l’esigenza assoluta dell’evangelizzazione del nostro Paese, soprattutto tra le nuove generazioni, perché siamo consapevoli che la fragilità, che è il tratto caratterizzante questo “tempo dell’incertezza”, attende risposte! e) Convincendoci, poi, che la missionarietà negli ambiti e nelle situazioni di vita, va sempre più specializzata al contesto culturale, all’ambito territoriale, più che al luogo di lavoro. Dobbiamo, avviandomi a finire: - Superare la contrapposizione annuncio “kerigmatico”/ testimonianza “nei gesti concreti”; perché, separati, questi metodi sono meno efficaci. - Trasformare il lavoro in pastorale, eliminando recinti e favorendo una testimonianza unitaria di vita e fede per la costruzione della “città dell’uomo” cui Lazzati ci richiama. - Lavorare insieme per recuperare e declinare i principi “trasversali” della Dottrina Sociale: - Il principio della persona nella sua globalità ed uni-
70 70>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 70
versalità; - Il principio della destinazione universale dei beni; - Il principio della socialità (solidarietà, sussidiarietà e bene comune); - Il principio del pluralismo sociale; - Il principio della società politica e della società mondiale; - Il principio dell’organicità e della democrazia integrale; - Il principio dell’animazione etica e culturale. Evidenziandone non tanto la distanza, e il conseguente stato di frustrazione, tra quanto proclamato e quanto applicato ma, invece, cercando di leggerli e applicarli nella realtà: sono, infatti, principi molto più vivi di quanto non sembri agli addetti ai lavori. Soltanto ridimensionando la frammentarietà delle esperienze con un nuovo slancio missionario saremo capaci di ricomporre gli sforzi guardando, insieme, al futuro.
*Presidente della Fondazione del Sud e presidente del Consiglio Italiano Rifugiati (testo non rivisto dall’autore)
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 71
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
Essere laici oggi: una testimonianza monastica di Dom Giordano Remondi*
1 Siccome desidero restare nei limiti della testimonianza, non mi metterò a discutere le varie facce del prisma “laici-laicato-laicità”, come hanno fatto Savino Pezzotta e Serena Noceti. Mi sento tranquillo tra queste due sponde, e perciò la vostra serata con i monaci la faccio partire da ciò che mi aveva colpito quasi una trentina d’anni fa quando lessi la “Regola di san Benedetto”, la regola che fin dal VI secolo orienta la vita monastica, e questo avviene anche a Camaldoli, dove poi ci sono le Costituzioni particolari che l’adattano al nostro tempo, come in ogni altro monastero dell’Ordine di san Benedetto. Cap. 60 - I sacerdoti che chiedono di vivere in monastero. Se qualcuno che appartiene all’ordine sacerdotale chiede di essere ammesso in monastero, non si abbia fretta ad acconsentirglielo; se continua a insistere in questa richiesta, sappia che dovrà osservare tutta la disciplina della Regola; e che non gli verrà mitigato alcun punto. Non pretenda assolutamente nulla, sapendo di essere soggetto alla disciplina regolare; e anzi dia a tutti esempio di umiltà. Cap. 62 - I sacerdoti del monastero. Chi sarà ordinato, si guardi dalla vanagloria e dalla superbia; né ardisca far nulla se non ciò che gli è chiesto dall’abate, sapendo di dover essere soggetto molto più degli altri alla disciplina regolare. Né col pretesto del sacerdozio dimentichi l’obbedienza alla Regola e la disciplina, ma progredisca sempre più in Dio. Forse a prima vista qualcuno si sta chiedendo: ma come mai per parlare dei laici, parte dai preti? Bene, la mia esperienza mi ha fatto partire proprio
da qui: da dove viene tale diffidenza della Regola verso i sacerdoti? Da dove nasce l’insistenza sull’umiltà del sacerdote e sull’assenza di privilegi dello stato sacerdotale? Per rispondere, sono necessarie alcuni informazioni sintetiche sull’epoca in cui sono stati scritti questi capitoli. Siamo nella prima metà del VI secolo, in un’Italia centrale che aveva visto più modelli monastici a cui San Benedetto tentava di dare una forma unitaria, pur con la tutela delle differenze. La Chiesa in Italia aveva ormai superato la caduta dell’impero d’Occidente (476); il governo di Bisanzio-Costantinopoli lasciava ancora una certa autonomia alle discese germaniche: infatti per trent’anni – fino al 530, quando è pronta la regola benedettina (in coincidenza con la fondazione di Montecassino) – ci fu la presenza benefica degli Ostrogoti di Teodorico che avevano legato bene le due culture, romana e germanica. Ma se questo funzionava sul piano civile, andava meno bene sul piano dell’immagine di Dio e della immagine della dignità sacerdotale. Perché? Perché si erano saldati gli aspetti troppo mondani di entrambe le culture: l’attenzione esagerata alla carriera (il cursus honorum imperiale romano) e la richiesta di privilegi, tipica nei Germani eredi della visione castale indo-iranica. Se una tale investitura sacrale veniva accettata dai fedeli, per i monaci invece ciò faceva problema. Infatti la tradizione monastica fin dalle origini nel terzo secolo, leggendo a fondo il Nuovo Testamento, aveva preso le distanze dalla cultura ellenistica che esagerava l’importanza della gerarchia e dei suoi poteri teocratici. I più ostili erano gli asceti del deserto, sensi-
71
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<71
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
bili alla marginalità. Comunque i monasteri, i cenobi, ai quali si rifà Benedetto per la sua riforma, si sentivano parte della Chiesa tutta, non una piccola chiesa, o peggio una setta di puri e fanatici. Forse avete già intuito dove voglio condurre la mia sommaria ricostruzione storica, resasi necessaria per inquadrare la diffidenza di san Benedetto verso i preti del suo tempo. Benedetto li vedeva in difficoltà più degli altri a vivere l’umiltà su cui insiste in modo mirabile e discreto nel cap. 7 con la famosa scala dai dodici gradini. Non è per polemica che lo faceva, né tanto meno mi diverto a farlo io oggi che vivo in un altro contesto, per certi aspetti opposto (tra l’altro sono anche prete...). Intendeva ricordare a tutti quanti da quale sorgente nasceva il monachesimo cristiano. I monaci erano riconosciuti come comunità di discepoli celibi (o di discepole vergini) che si separavano dagli altri per vivere una forma di vita penitenziale. Questo nell’aspetto visibile, ma il fine spirituale era quello di ricordare a tutti la chiamata di seguire il Signore nell’attesa della piena comunione eterna. Centrale è la grazia preveniente di Dio che, siccome muove a conversione nell’ascolto della sua parola, richiede forme umili di vita comune, incarnate nel presente in cui si attende la pienezza. Il fatto poi di stare insieme nella preghiera – per rispecchiarsi nella carità di Dio – e nel lavoro – per essere autosufficienti –, richiedeva un fratello superiore (o una sorella) nello spirito di una certa corresponsabilità, tradotta anche in norme letterali. Questa è una struttura, è vero, di relativa subordinazione, ma sempre dentro una radicale uguaglianza,
72 72>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 72
quella che è donata ad ognuno dai sacramenti della iniziazione (battesimo-cresima-eucaristia). E da questa fonte nasceva la disponibilità ad incorporare il servizio sacerdotale , da esercitare sia verso i membri interni sia verso gli altri fedeli della Chiesa. Con la nostra terminologia odierna siamo in tanti monaci che rileggiamo tale esperienza come scelta laicale, ovvero una scelta che fa nascere una fraternità di cristiani tratti dal popolo di Dio (laòs in greco), una fraternità laica dunque nel suo senso più originario: una fraternità vissuta nel nome del Signore da uomini e donne comuni. In quel tempo non si consideravano gli unici spirituali, come avverrà invece già un secolo dopo San Benedetto. Per fortuna oggi, di solito, nessuno pensa più di avere il monopolio dello Spirito, dopo il fermento delle varie riforme conciliari da quarant’anni in qua. Il tentativo era quello di tenere in equilibrio le due categorie, spirituale e materiale, mentre, poi, invece, prevarrà il dualismo che svaluta la terra. Si formerà, purtroppo, un cortocircuito potente: chi si impegna nel mondo resta un pover’uomo del popolo, appunto un laico più o meno degno, mentre chi lo fa nella Chiesa cerca invece la santità (clero e monaci, poi gli altri ordini dal 1200…). Un mentalità che tuttavia non è ancora morta! E così anche l’intuizione del lavoro non sarà ovunque valorizzata, perché nascerà la categoria di monaci conversi delegati al lavoro, mentre gli altri sono i monaci coristi, quelli che erano educati a cantare in coro. Trionferà la mentalità piramidale per cui il clero guarderà ai monaci coristi come modello. Ma stiamo già entrando nell’Alto Medioevo.
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Un ultimo punto: la visione di Chiesa che mi ispira oggi per sradicare la mania della superiorità di una categoria sull’altra in cui siamo ancora intrappolati. Mi rifugio nel Nuovo Testamento, che è la nostra bussola anche se non risolve tutti i problemi. Sul modo di fare Chiesa gli scrittori ispirati furono costretti a correre ai ripari perché si faceva fatica a seguire Cristo-diacono, cioè Cristo-servo. Infatti anche nelle chiese c’era sempre qualcuno che faceva scoppiare certi conflitti per questo vizio di considerarsi superiore, un vizio davvero inguaribile senza la grazia di Cristo. E nel passo che ora leggerò si dice che Cristo provvede a donare lui stesso le persone per formare il suo corpo, la Chiesa. Il brano
28-02-2007
8:46
Pagina 73
è tratto dalla lettera di san Paolo agli Efesini, cap. 4,11-16: È Cristo che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo.… Vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni
73
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<73
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità. I doni sono persone: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri. Lo sono in vista di un’opera ministeriale che in greco significa “opera diaconale”. Il fine è quello di raggiungere il grande scopo della comunione: essere edificati nella carità mediante l’apporto di ognuno, che, evidentemente, non è richiesto nella logica contrattuale del diritto-dovere, ma in quella di una chiamata battesimale-crismale alla corresponsabilità per diventare una Chiesa eucaristica (per dirla con una felice espressione di Giuseppe Dossetti). La Chiesa è ancora riconosciuta “corpo di Cristo”, come nel famoso apologo paolino del cap. 12 della 1 Corinti; un corpo unito in Cristo grazie alla sinfonia di carismi dello Spirito, non ad un’uniformità livellatrice di tipo militare o ad un’organizzazione sociale, senza per questo essere identica alla famiglia. La comunità è un corpo organico in cui il compito dei ministri ordinati è proprio quello di favorire l’esercizio della diaconia di ognuno. Allora nella Chiesa ogni fedele è chiamato al servizio dell’altro, certamente con responsabilità diverse, che poi il ministro ordinato ha l’incarico di tenere unito. Per evitare cristallizzazioni, non è opportuno insistere troppo sui sostantivi legati ad una visione giuridica: laico, clero, religiosi (termine questo che è meglio di “consacrati”, un doppione dell’unica consacrazione battesimale-crismale). Deve rimanere chiaro che la Chiesa è una comunione diaconale, nella quale qualcuno opera più verso il mondo – un incarico senza delega –, qualcuno più verso i fedeli
74 74>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 74
tutti, ma sempre mantenendo un’attenzione “pastorale” comune, su cui, è chiaro, con un incarico suo vigila il ministro ordinato (che per i monaci è il priore). Concludo con una domanda e una risposta telegrafica sui monaci. In questa visione ecclesiale, le comunità monastiche hanno un loro incarico specifico, anche senza delega in bianco? O meglio, ricevono dal Signore una chiamata ad un servizio, una diaconia, pur senza fare una supplenza? Fare vita comune pregando, lavorano e ospitando, per ricordare a tutti che quell’amore che ci ha già salvato sulla croce continua ad essere tra noi, è risorto per accompagnarci alla piena comunione eterna che attendiamo vigilanti in ogni tempo.
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
*Monaco Camaldolese
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 75
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
Identità e missione dei laici nell’orizzonte del Regno di Dio di Serena Noceti*
1 I laici, “caso serio” della difficile stagione postconciliare La ricerca di un’intelligenza critica sulla condizione dei laici nella chiesa deve essere sviluppata oggi prima di tutto come riflessione sull’ “identità”, compresa in senso dinamico, in rapporto alla “missione” specifica: il tema dell’identità rinvia e include la questione della presenza attiva dei laici e della loro azione. Il tema è particolarmente delicato e significativo, non solo in se stesso, come mostra la storia della spiritualità e della teologia, ma soprattutto in rapporto alla attuale situazione ecclesiale. Se una ricognizione seppur rapida della storia del cristianesimo e della storia della chiesa fa percepire come il nodo dell’identità dei laici sia una variabile dipendente dall’interpretazione del rapporto chiesa-mondo, utile per determinare l’autocoscienza di chiesa in senso stretto, questa interazione tra “identità dei laici” e “identità di chiesa” è oggi particolarmente significativa, soprattutto per la chiesa italiana, che sta vivendo un momento delicato di passaggio. Il tema è delicato per la società italiana che si sta interrogando sulla laicità dello Stato e sul tema della possibile forma di laicità della chiesa, come anche sulla laicità dei cristiani. È la stessa società italiana che auspica e chiede ai credenti di riflettere su cosa voglia dire essere laici, quale possa essere l’apporto specifico di laicità che viene dai cristiani, o meglio dai cristiani cattolici e dai cristiani della Riforma, che su questo tema già da anni hanno riflettuto e proposto un contributo significativo. La questione dell’identità e della missione dei laici costituisce allora un vero “caso serio” del post-concilio, secondo l’accezione con cui H. U. von Balthasar
usava Ernstfall, nel sottotitolo della sua opera Cordula: ovverosia il caso serio, nel significato cioè di “caso grave e difficile”, e insieme nel senso di “elemento essenziale”, di prospettiva che permette di verificare il reale significato di un evento: se il “caso serio” viene compromesso o svuotato è la verità dell’evento che viene - in questo caso, in parte – meno. Parlare di laici nel postconcilio e parlarne come “caso serio” vuol dire allora ricordare che si tratta di un caso grave, soprattutto perché tocca il volto complessivo di Chiesa, e di un caso difficile, dal momento che la riflessione teologica su questo punto non è ancora pienamente risolta, laddove balza agli occhi la giustapposizione di prospettive, spesso molto diverse le une dalle altre. Un “caso grave e difficile”, perché affrontarlo comporta decostruire una serie di elementi che vengono considerati assolutamente ovvi, ma che non lo sono assolutamente se letti alla luce del divenire storico della chiesa. Sarà quindi necessario offrire alcuni spunti di riflessione sulla storia delle idee di laicato e di laici che il cristianesimo ha vissuto e proposto, per individuare quelle tradizioni che diamo come immutabili e che invece sono assolutamente transeunte e recenti. Una autentica riflessione critica sulla questione non può prescindere dal precisare quali siano gli snodi di tale evoluzione. Riflettere sui laici è porre “una cartina di tornasole” della effettiva recezione del Concilio Vaticano II, evidente anche a chi si ponga davanti all’attuale dibattito sulla laicità, dove differenti posizioni, che si rifanno tutte al Concilio Vaticano II, appaiono però a prima vista quasi inconciliabili l’una con l’altra. La nostra riflessione porrà al centro prima di tutto il Concilio
75
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<75
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Vaticano II e i suoi documenti e successivamente si concentrerà sugli sviluppi postconciliari e sui dibattiti ancora oggi aperti. 1 Alcune puntualizzazioni sull’impostazione della riflessione Alcune precisazioni sul piano del linguaggio permettono di delimitare il campo di ricerca e di definire in modo più puntuale la posizione assunta. Non parlerò di “laicato”, in senso astratto, e non parlerò di “laico” al singolare, ma parlerò di “laici”, sempre al plurale, perchè il plurale è un elemento costitutivo dell’identità laicale. Cercherò poi di non usare mai il termine “problema” o “questione” che ritengo limitanti in ordine alla trattazione del tema “laici”. Non affronterò specificamente il tema della laicità, su cui la FUCI si soffermerà nella prossima Scuola di formazione. Userò quindi il termine “laico” nel senso ecclesiale ed ecclesiologico, senza riferirmi al significato “culturale” della parola, laddove nell’agorà sociale e politica si confrontano le motivazioni e le posizioni di chi si definisce non credente e di chi prende posizione direttamente ed espressamente a partire dalla sua fede esplicita. Cercherò però di offrirvi alcune indicazioni sulla visione conciliare dei rapporti chiesamondo e chiesa-storia e alcuni spunti sulla presenza-azione dei cristiani nel mondo e nella storia, che possa costituire un aiuto per il successivo percorso formativo. Non partirò neanche da una definizione previa di chi sia il laico (neanche da quella suggerita dal Codice di Diritto Canonico), perché sarà proprio il percorso nel suo insieme che offrirà una descrizione con carattere definitorio.
76 76>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 76
A differenza di altri teologi, non farò riferimento al Nuovo Testamento, perché la questione specificamente legata ai laici non è direttamente affrontata nei testi biblici, ma partirò dal momento in cui il termine “laico” appare, cioè dalla lettera di Clemente Romano ai Corinti (96-98). L’interesse del Nuovo Testamento va alla condizione del cristiano in quanto tale ed – eventualmente – alla determinazione dello specifico del ministro ordinato; l’ottica complessiva è quella della affermazione innovativa di una uguale dignità riconosciuta a tutti i credenti. È bene tenere presente il fatto che il Nuovo Testamento presenta una molteplicità di forme di esercizio dell’unica missione, di organizzazione e di strutturazione delle comunità cristiane. Sarà inoltre importante cogliere dal Nuovo Testamento come vada pensato il rapporto tra chiesa e storia, in particolare secondo la visione che ne dà la teologia lucana e Apocalisse. Sono i testi dai quali emerge una teologia della storia, poi recuperata dal Vaticano II e rielaborata nell’oggi della nostra storia. 1 La storia di una identità negata Una seppur rapida ricognizione della storia della chiesa e dell’ecclesiologia costituisce il portale da attraversare per poter elaborare una teologia dell’essere laici oggi. Un tale approccio permette di cogliere quali siano di “luoghi comuni”, le “ovvietà” che agiscono nel subconscio di molti e che è necessario smascherare perché frutto di interpretazioni storicamente e culturalmente determinate e oggi non più sostenibili. Una lettura critica della storia permette di evitare processi di sacralizzazione delle forme rice-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
vute dal passato e di eludere tentativi di ritorno e di appello a una tradizione che ha visto numerose evoluzioni e cambiamenti nel corso dei secoli. Così pure accogliere la lezione della storia permette di capire quali siano le questioni in gioco e gli elementi necessari per elaborare una proposta sistematica, che non neghi la storia, che valorizzi l’eredità di secoli ricevuta, ma anche sappia distinguere ciò che è immutabile da ciò che è transeunte. Due registri andranno tenuti sempre analizzati: il modo con cui è pensato il rapporto tra la Chiesa e la storia; la modalità con cui viene compresa e riconosciuta la soggettualità dei membri e le relazioni che sussistono tra loro. Il tema dei laici si pone sempre all’incrocio tra queste due prospettive e di esse vive. Che cosa è avvenuto tra il 96-98 d.C., quando è apparso il termine “laico”, e il XX secolo? Come (e perché) si è passati da chiesa che vedeva tutti i cristiani come soggetti di un processo di evangelizzazione allargato e diffuso – come era nel Nuovo Testamento - a una situazione di marginalizzazione effettiva dei laici, quale si è data per lunghi secoli? Perché la storia del cristianesimo è storia di marginalizzazione e di oblio dei laici? Perché due millenni di “identità negata”? Possiamo individuare alcune svolte, alcuni tornanti, nei quali si coglie l’evoluzione dei modelli di interpretazione della missione della chiesa e delle relazioni intra-ecclesiali che si ripercuotono sui laici. Il primo momento di svolta è databile tra il quarto e il sesto secolo. È il momento in cui il cristianesimo diventa un fenomeno di massa; si delinea una “simbiosi con la società temporale” (Congar) e la perdita della caratteristica dimensione escatologica: essere
28-02-2007
8:46
Pagina 77
soggetti sociali e essere cristiani viene progressivamente a coincidere in questi due secoli. alla precedente contrapposizione tra i credenti in Cristo e il mondo si sostituisce progressivamente una distinzione intraecclesiale tra due diversi gruppi di cristiani: i monaci, considerati come i veri spirituali, e i laici, impegnati nel mondo. Alla sovraesaltazione dei primi si accompagna una diminuita considerazione di coloro che vivono le loro relazioni abituali nella società, nel mondo del lavoro, nella famiglia secondo legami di sangue. In questo stesso periodo avviene anche una nuova forma di istituzionalizzazione di chiesa, con l’evangelizzazione delle campagne e la strutturazione di parrocchie rurali. Si diffonde in questa fase anche una visione fortemente sacrale del ministro ordinato. Sempre più si sviluppa l’idea che il ministro ordinato sia sacerdote, cioè mediatore tra Dio e l’uomo, con un conseguente indebolimento e perdita dell’idea di “sacerdozio comune”, vissuto nella vita quotidiana nel dono di sé agli altri per amore. Si fa sempre più strada l’idea, tradizionale nelle altre religioni, di una distinzione netta tra sacro e profano, tempi sacri e tempi profani, luoghi sacri e luoghi profani, persone sacre e persone profane. Anche se i laici in questo periodo sono ancora attivi e offrono un contributo specifico alla vita della chiesa (l’imperatore che convoca i concili, i grandi maestri di dottrina laici, la partecipazione dei laici alla designazione dei vescovi, la presenza nei concili e nei sinodi locali di una componente laicale), si iniziano a percepire i primi fattori di marginalizzazione. Una seconda fase è quella della chiesa medievale, incentrata intorno a una visione piramidale della
77
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<77
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
società e della realtà ecclesiale, nella quale i laici, che esercitano attività considerate profane secondo un pronunciato dualismo sacro-mondano, sono collocati all’ultimo gradino di una scala gerarchica che vede al primo posto i monaci, allorché viene assunto come criterio di sistematizzazione la possibilità di perfezione spirituale, oppure il clero, quando si sceglie di privilegiare l’esercizio della autorità. Sono famose le parole di Graziano nelle Decretali che sentenzia: «Ci sono due tipi di cristiani (duo genera christianorum). Il primo, in quanto incaricato di un servizio divino e dedito alla contemplazione e all’orazione, è conveniente che stia lontano da ogni tumulto delle cose temporali. Di esso fanno parte i chierici e coloro che sono dedicati a Dio e cioè i religiosi (conversi). [.....] L’altro tipo di cristiani è costituito dai laici, dal greco laós, che in latino significa popolo. A costoro è permesso possedere beni temporali, ma solo per l’uso. Non c’è nulla di più meschino che disprezzare Dio per la ricchezza. A costoro è concesso sposarsi, coltivare la terra, giudicare tra uomo e uomo, trattare cause in tribunale, deporre offerte sull’altare, pagare le decime: così potranno salvarsi, se però eviteranno il vizio e faranno del bene». Questo non esclude che si diano anche in questa fase forme di protagonismo laicale: il movimento francescano, nella sua fase fondativia; i movimenti spirituali e pauperistici di riforma (valdesi, umiliati, catari, patarini), dove uomini e donne chiedono spazi per l’evangelizzazione e la
78 78>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 78
partecipazione ecclesiale attiva. Questi movimenti e desideri partecipativi trovano nella Riforma protestante e in Lutero un momento fecondo di recezione. E questa è la terza fase da evidenziare. Rileggendo la Prima Lettera di Pietro, da ottimo esegeta quale era, Lutero evidenzia la chiamata di tutti i cristiani al sacerdozio, un sacerdozio nella vita. Su questa base vengono poi ripensate le relazioni intracclesiali e lo stesso ministero del pastore. La risposta del Concilio di Trento, in chiave sostanzialmente contrappositiva, come sappiamo, sarà evidenziare il potere sacro detenuto dai soli sacerdoti, in rapporto a una ecclesiologia di forte impronta sacramentale e di altrettanto forte centralità data al principio eucaristico. I laici sono coloro a cui «non è affidata alcuna parte nelle funzioni ecclesiali», come sosterrà il Bellarmino; “laico” diventa sinonimo di fatto di “non appartenente” e “non competente”, soggetto passivo, minorenne, esposto all’influsso negativo del mondo. Anche in questo periodo rimangono alcuni spazi nei quali i laici possono esercitare una propria funzione specifica di catechesi e di assistenza (compagnie, scuole, confraternite, servizi di assistenza), anche se tali apporti – essenziali per la formazione dei singoli - non sono influenti in ordine alla configurazione complessiva di chiesa, né in rapporto agli orientamenti del corpo ecclesiale. L’ecclesiologia post-tridentina ci consegna una visio-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 79
L’ecclesiologia post-tridentina ci consegna una visione della realtà che contrappone due sfere nettamente separate, da un lato la chiesa, dall’altro il mondo, a cui corrispondono due gruppi di cristiani: lo stato clericale e il laicato. La situazione rimarrà sostanzialmente immutata fino alla fine dell’Ottocento
ne della realtà che contrappone due sfere nettamente separata, da un lato la chiesa, dall’altro il mondo, a cui corrispondono due gruppi di cristiani: lo stato clericale (e quello monastico ad esso assimilato) e il laicato. La situazione rimarrà sostanzialmente immutata fino alla fine dell’Ottocento, allorché la coscienza che il mondo operaio si sta progressivamente staccando dalla vita ecclesiale spinge a una diversa considerazione dei laici e della loro esperienza di fede. Leone XIII chiama i laici a un nuovo coinvolgimento, quali mediatori tra due mondi lontani: “ponti tra la chiesa e il mondo”. I laici sono ancora un soggetto ecclesialmente povero, dipendente dal clero e dalla gerarchia, che offre le indicazioni per agire in quel mondo in cui questa non può direttamente agire, ma il loro apporto comincia ad essere riconosciuto e ritenuto necessario per la mediazione di un’offerta di salvezza ad un’umanità ormai lontana dalla fede. All’inizio del XX secolo il laico è chiamato, su mandato della gerarchia, a immergersi nella storia per incarnare quanto definito di principio dal clero; l’azione laicale viene pensata nell’orizzonte di uno spirituale che discende e si incarna nel materiale-temporale. Per quanto riguarda l’azione nel mondo temporale da cristiani, il singolo è responsabile in prima persona, senza un coinvolgimento della realtà ecclesiale. La vera svolta è rintracciabile nella teologia degli anni ’30-’50 del Novecento, a cui si accompagna un cambiamento di tipo pastorale: si diffondono associazioni laicali che propongono percorsi formativi (Azione Cattolica) e si diffonde la necessità di formare la coscienza dei laici perché possano assumere
con autonomia e responsabilità il compito loro proprio. È il tempo della “teologia del laicato”: si comincia a pensare in modo autonomo il tema dei laici, soprattutto sulla base della vocazione battesimale, come avviene in particolare nell’opera cardine di questo periodo, gli Jalons pour une théologie du laïcat di Y.M. Congar. Anche se la definizione di laico è in negativo («il laico non è un chierico, né un monaco»), anche se l’analogatum princeps è il ministro ordinato o la vita religiosa, anche se le identità sono definite in base ai campi di azione (laico: temporale, gerarchia: spirituale = chiesa), viene riconosciuta finalmente la soggettualità dei laici e il fatto che essi sono portatori di una specifica forma di soggettività cristiana, non negabile, non sopprimibile, non dimenticabile. «Essere laico significa andare incontro con tutte le risorse che sono in noi all’avventura di quella ricerca della giustizia e verità di cui ci sentiamo affamati e che è la sostanza stessa della storia umana». 1 Nuovi scenari: il Concilio Vaticano II Alle soglie del Vaticano II la teologia del laicato è funzionale a un’intenzionalità di riscatto dalla subordinazione, rimane legata a un’impalcatura concettuale incentrata sull’idea di cristianità, con una netta separazione tra chiesa e società, sacro e profano, Regno e mondo, e condotta come capitolo di un’ecclesiologia societaria delineata intorno alla determinazione di chi sia detentore di potere e autorità. Sarà il Concilio a operare una vera svolta, una rivoluzione copernicana del modello ecclesiologico complessivo all’interno del quale si darà una riflessione innovativa sull’essere laici. Il Vaticano II è il primo concilio della storia
79
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<79
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
della Chiesa che dedica un documento, Apostolicam Actuositatem, alla vocazione e missione dei laici. Il tema è frequentemente avvicinato nei testi conciliari (14 documenti conciliari su 16) anche se il concilio non matura una idea organica ed univoca della questione. Sono compresenti nei documenti del Vaticano II più teologie del laicato, sostanzialmente riconducibili a due grandi filoni interpretativi: un primo blocco che comprende Apostolicam Actuositatem e il quarto capitolo di Lumen Gentiumi; un secondo individuabile nel secondo capitolo di Lumen Gentium e in Gaudium et Spes. La prima posizione assunta (Apostolicam Actuositatem e quarto cap. di Lumen Gentium) ripresenta sostanzialmente la teologia del laicato degli anni ’50, nell’orizzonte di una ecclesiologia che appare più “datata”. Il proprium dei laici è colto, come mostra Lumen Gentium 31, nell’indole secolare: «Per loro vocazione, è proprio dei laici cercare il Regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio». Apostolicam Actuositatem 7 puntualizza ulteriormente: «È compito di tutta la chiesa lavorare affinché gli uomini siano resi capaci di ben costruire tutto l’ordine temporale e di ordinarlo a Dio per mezzo di Cristo. Spetta ai pastori enunciare con chiarezza i principi circa il fine della creazione e l’uso del mondo, dare aiuti morali e spirituali affinché l’ordine temporale venga instaurato in Cristo. Bisogna che i laici assumano l’instaurazione dell’ordine temporale come compito proprio ed in esso, guidati dalla luce del vangelo e dal pensiero della chiesa e mossi da carità cristiana, operino direttamente e in modo concreto». È ancora ben evidente in questo testo la
80 80>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 80
separazione tra due sfere - il temporale e lo spirituale, la chiesa e la società, il Regno e il mondo -, anche se prezioso è il riconoscimento, dopo secoli di oblio, della soggettualità laicale: i laici hanno il compito di manifestare l’immanenza e storicità del cristianesimo traducendo l’ideale cristiano nella mutevolezza delle condizioni storiche. Ma è l’orizzonte ecclesiologico complessivo che è sostanzialmente povero, per il tipo di missione che concepisce e per la debolezza dei processi comunicativi unidirezionali che presente. Il laico, per quanto responsabile e competente, è sempre pensato come destinatario di un annuncio che deve ricevere dall’altro che è il clero. Al laico spetta un compito applicativo, non di discernimento che possa aprire ulteriori piste all’identità ecclesiale. Apostolicam Actuositatem in particolare rimane un testo in cui tutto si gioca in una dinamica tra ad intra e ad extra, dentro e fuori la Chiesa. La seconda prospettiva (secondo capitolo di Lumen Gentium e Gaudium et Spes) è davvero innovativa se confrontata alla visione del II millennio, nuova nella riscoperta e riacquisizione consapevole dell’eredità neotestamentaria. In questi testi non si parla esplicitamente di laici, ma essi costituiscono il fondamento teologico per una riflessione nuova sui laici come soggetti co-costituenti, cioè costituenti insieme, la chiesa. La chiave di volta della riflessione è data da una nuova comprensione del Regno di Dio, con un superamento dell’ottica individualistica e ultraterrena e un recupero della chiave escatologico-apocalittica della signoria di Dio che irrompe nella storia per donarle compimento, e una nuova articolazione della triade Regno di Dio–mondo–chiesa. Al primo posto è
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 81
Il secondo capitolo di Lumen gentium aggiunge a questa visione un dato qualificante: il recupero del sacerdozio comune, da vivere come culto a Dio nel dono di se stessi agli altri, nella professione, nelle relazioni amicali e di coppia, nelle scelte politiche e nelle scelte economiche. Sono tutti atti di un culto, di un esercizio di un sacerdozio che si vive, prima ancora che nei sacramenti, nella realtà di vita
colto il Regno di Dio, come Regno di pace, di fraternità, giustizia e riconciliazione (GS 39), intima comunione con Dio e unità del genere umano (LG 1); esso avviene non solo nella Chiesa, ma nella storia dell’umanità intera. Il mondo è il luogo di storicizzazione della signoria di Dio e di pienezza di vita per tutti gli uomini; il Regno si realizza, laddove gli uomini nella loro coscienza e nelle loro relazioni, vivono secondo giustizia, pace, fraternità. Questi sono i segni del Regno: comunione con Dio e comunione e armonia tra gli uomini. La chiesa non è più pensata come sfera giustapposta al mondo, posta davanti al mondo, ma è chiesa nel mondo, è quella parte dell’umanità che ha accolto la venuta del Regno nella professione di fede in Gesù. La chiesa di Gaudium et spes è una Chiesa che si sa tutta relativa al Regno e tutta relativa al mondo, nel quale esercita la sua missione, sapendo però che il Regno avviene anche al di fuori dei confini della chiesa empirica. È una Chiesa che sa di essere transeunte, provvisoria all’interno di questa storia, seppur dotata di una missione unica in rapporto alla crescita del Regno nella storia. La chiesa è quel popolo che assume con consapevolezza la missione di annunciare il Regno di Dio, sapendo che non è ancora venuto; quel popolo che assume la missione di anticipare le logiche del Regno, non solo nella vita sacramentale ma anche in una vita di comunione e di relazione tra credenti che è significativo segno e strumento perchè ogni uomo possa sentirsi interpellato da questo annuncio. È una chiesa che è consapevole del dovere e della responsabilità di portare l’annuncio di Gesù, che è cosciente della ricchezza della sua vita sacramentale, quale memo-
ria del Cristo Risorto e anticipo della comunione piena con Dio nel regno compiuto, che conosce l’importanza della vita comunitaria quale primo segno visibile della venuta del Regno nell’amore. Il secondo capitolo di Lumen gentium (che precede i capitoli sulla gerarchia e i laici) aggiunge a questa visione un dato qualificante: il recupero del sacerdozio comune, da vivere come mostra Rom 12,1-2 come culto a Dio nel dono di se stessi agli altri, nella professione, nelle relazioni amicali e di coppia, nelle scelte politiche e nelle scelte economiche. Sono tutti atti di un culto, di un esercizio di un sacerdozio che si vive, prima ancora che nei sacramenti, nella realtà di vita. Accanto a questo Lumen gentium 10-12 presenterà anche il munera regale e profetico dei cristiani e del popolo di Dio nel suo insieme, sulla base del dono battesimale. Viene mostrata così l’identità di un popolo in cui tutti sono soggetti attivi e in cui tutti godono di un uguale dignità; anche per i laici, finalmente, c’è uno spazio definito di presenza e partecipazione; sono soggetti, che insieme ai ministri ordinati costituiscono chiesa. Essi non hanno bisogno per annunciare il vangelo, che è stato loro affidato in quanto cristiani, di un mandato o di una delega di poteri da parte della gerarchia e neanche di norme puntuali su come applicare il dettato evangelico alla storia, anche se il magistero ha una funzione specifica in ordine al garantire l’apostolicità del messaggio cristiano. Laici e ministri ordinati sono - insieme popolo sacerdotale, popolo messianico che ha come fine il regno di Dio; chi non considera la parola, la presenza e l’azione dei laici come costitutiva della realtà ecclesiale, dimentica una parte essenziale ed
81
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<81
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
è nell’impossibilità di definire che cosa effettivamente sia il popolo sacerdotale. Per altro, la maggior parte dei cristiani sono laici e, anche se ciò appare un ovvio che non vale la pena pensare, questo fatto va ribadito e ne va colta l’implicazione ultima, anche sul piano teoretico. La questione dei laici non è solo una problematica intra-ecclesiale, come Apostolicam Actuositatem aveva implicitamente detto nel momento in cui contrapponeva un “ad intra” a un “ad extra”, ponendo per altro la chiesa empirica come punto di riferimento ed effettuando una indebita concentrazione ecclesiocentrica della questione: non sono a tema solo le relazioni tra ministri ordinati e laici, non è solo confronto tra due sfere di azione e di competenza. La riflessione sui laici è veramente un “caso serio”; da essa dipende la forma ecclesiae che vogliamo esista nella storia, da essa deriva la figura di visione di chiesa che pensiamo possa meglio servire il Regno che viene nel mondo. Il Concilio si conclude però lasciando aperta la questione e giustapposte due ecclesiologie: è qui che si colloca la radice dei problemi che oggi affrontiamo in Italia dibattendo di laicità. 1 La recezione post-conciliare Abitualmente si pensa il dopoconcilio nella logica dell’applicazione del dettato dei documenti prodotti; vorrei invece usare il concetto di “recezione” nella prospettiva elaborata da Y.M. Congar, J.M.R. Tillard, G. Routhier, nel senso di “fase di assimilazione delle decisioni assembleari da parte della chiesa come comunità di credenti oltre che come insieme di strutture organizzative”. La recezione è il processo collet-
82 82>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 82
tivo, lento e complesso, mediante il quale le chiese locali (e la universa ecclesia) accolgono e assimilano decisioni e prospettive definite dai documenti, riconoscendovi la Tradizione apostolica e una particolare ricchezza in ordine alle necessità storiche del momento; un processo perciò di costituzione di chiesa che viene sviluppato a partire dall’accoglimento dei grandi elementi che vengono da un concilio sia attraverso i documenti sia attraverso l’evento conciliare nel suo insieme, che vengono riconosciuti come portatori di tradizione e che contemporaneamente sono riconosciuti come un bene necessario per l’identità di chiesa. La ricezione è quindi un processo auto-costitutivo di chiesa che si confronta con l’evento conciliare e pensa al suo volto, si ristruttura, si riforma a partire da questo eventi. Non è la semplice ricezione dei documenti ma è porsi nella strada che il concilio ha aperto, per essere prosecutori dei padri che lo hanno elaborato. Quindi è una fase di ricostruzione di chiesa alla luce dell’evento conciliare. Tutto questo risulta particolarmente importante per il tema dell’essere laici, perché davanti alla compresenza di due ecclesiologie non risolte, giustapposte l’una all’altra, davanti ad alcune intuizioni che sono rimaste nella sfera dell’implicito, è necessaria una fase di espressione o ri-espressione. Trasformazioni culturali che sono avvenute, nuovi elementi e nuove prospettive emerse spingono ad avvicinarsi ai documenti del concilio non solo come a realtà da applicare pedissequamente, ma come a testi che richiedono e sollecitano una interpretazione necessaria. Questo fatto diventa evidente, ad esempio, nel caso delle donne: il Concilio affronta la questione con
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
un rapido accenno in GS 29 al sessismo e con un messaggio finale alle donne di stampo subordinazionista. I quarant’anni che ci separano dal Concilio sono stati per le donne laiche nella chiesa un momento di grande fioritura, possibile proprio perché si è dato nelle chiese e nella coscienza delle donne un processo di ricezione effettiva, che ha permesso di esplicitare l’implicito e sviluppare percorsi reali di soggettualità delle donne. Sono stati fattori di sviluppo culturale ed economico, sul piano sociale, che hanno trasformato sensibilmente la condizione delle donne, e movimenti di pensiero femminista che hanno prodotto o per lo meno favorito anche nella chiesa una nuova comprensione dell’essere donne cristiane e dell’essere chiesa di uomini e donne, uguali in dignità, partecipi della stessa missione. La fase di recezione è un momento determinante per una teologia dei laici nuova. Sono distinguibili diversi periodi nel post-concilio e anche la riflessione sui laici ha attraversato queste differenti fasi. Il primo momento è quello della grande contestazione e del vasto movimento di riforma che si inaugura proprio all’indomani della chiusura del concilio, l’8 dicembre del 1965; c’è un grande desiderio e una profonda ricerca di nuove esperienze ecclesiali, che si sposa con il movimento di partecipazione popolare e di radicale trasformazione culturale che è il ‘68. È la stagione in cui si sviluppa una forte ministerialità allargata. Nella chiesa italiana il fenomeno più evidente è il grande movimento di rinnovamento catechistico; in altri paesi europei i laici cominciano ad avere ruolo nell’impostazione pastorale: in Germania, Austria ed Olanda appare la figura del referente
28-02-2007
8:46
Pagina 83
pastorale o della referente pastorale, cioè coloro che coordinano la vita delle comunità parrocchiali ed animano i percorsi di formazione di laici e laiche. La riforma liturgica e la possibilità di accedere alla fonti dell’esperienza di fede (la Scrittura, la tradizione, le fonti patristiche) trasformano in profondità il volto delle comunità cristiane. In questo periodo, per circa venti anni dopo il concilio, non vengono pubblicati studi rilevanti sulla teologia dei laici o legati a questo tema. Escono però una serie di contributi che offrono una nuova prospettiva su che cosa voglia dire essere chiesa, in rapporto all’essenza comunionale e ministeriale del popolo di Dio (Congar) e in ordine alla struttura carismatica della chiesa stessa (Küng). Un ulteriore contributo viene dalla lettura funzionalistico-ecclesiologica dei ministeri elaborata da E. Schilebeeckx, dall’apporto delle teologie della prassi, in particolare di Metz, con la sua nuova teologia politica, e dalla teologia latinoamericana della liberazione. Sono opere che non dedicano capitoli specifici alla teologia del laicato, ma offrono gli elementi base, che permetteranno poi una riflessione nuova sui laici. Il dibattito teologico sui laici riprende, e passiamo alla seconda fase, alla metà degli anni ‘80; l’annuncio di un sinodo specifico sulla vocazione e la missione dei laici nella chiesa e nel mondo, per il 1987, “stura le polveri” per la discussione. Vengono pubblicati – in particolare in Italia - una serie di studi sull’argomento e si apre un dibattito serrato nella chiesa italiana intorno a tre diverse posizioni, che per certi aspetti ripropongono i filoni interpretativi già presenti nel dibattito conciliare, ampliandone le implicazioni. Un primo gruppo, che vede al centro il “magister”
83
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<83
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 84
i laici hanno qualcosa di specifico da offrire per delineare la realtà e l’identità ecclesiale e vanno perciò sottoposte a verifica critica le relazioni intraecclesiali e le modalità di esercizio della missione di chiesa nel suo complesso per cogliere cosa i laici apportino alla vita e alla missione di chiesa. Viene proposto e motivato su questa base un significativo spostamento dalla teologia del laicato alla teologia della laicità di chiesa
Lazzati, si rifà ad Apostolicam Actuositatem e all’idea – inaugurata dalla teologia del laicato nel preconcilio - di un proprium dei laici identificato nell’indole secolare e nella missione di ordinare le cose del mondo tramite Dio: «Ci sono uomini battezzati, membri della chiesa, che sono chiamati ad attendere alla costruzione della chiesa e all’evangelizzazione, i ministri ordinati, ci sono poi altri uomini membri della chiesa chiamati ad attendere, da cristiani, alla costruzione della città dell’uomo». Questo non esclude che i laici abbiano un’azione all’interno della realtà ecclesiale ma essa è secondaria rispetto all’indole propria, che è nell’ordinare le cose del mondo a Dio. La seconda prospettiva è quella formulata dalla “scuola teologica di Milano”, da Pino Colombo, Gianni Ambrosio, oggi Marco Vergottini, sintetizzabile nell’espressione “il laico è un cristiano e basta”. Sulla base della visione del cristiano e della chiesa del secondo capitolo di Lumen Gentium si tratta di “inverare la figura del laico” nella figura del cristiano, di prendere congedo dallo stesso termine “laico” per parlare unicamente di “christifideles”, di riferirsi alla vocazione cristiana tout court. L’interrogativo sullo specifico laicale è considerato questione da affrontarsi sul solo piano pastorale, senza che alla domanda sia riconosciuta rilevanza teologica e teoretica. Ma è solo un problema pratico? Perché la maggioranza dei cristiani sono laici? Una terza ipotesi interpretativa è stata elaborata da Bruno Forte, Severino Dianich, e sostenuta in parte da Giacomo Canobbio. Secondo questi autori i laici hanno qualcosa di specifico da offrire per delineare la realtà e l’identità ecclesiale e vanno perciò sottoposte
84 84>>
ricerca
a verifica critica le relazioni intraecclesiali e le modalità di esercizio della missione di chiesa nel suo complesso per cogliere cosa i laici apportino alla vita e alla missione di chiesa. Viene proposto e motivato su questa base un significativo spostamento dalla teologia del laicato alla teologia della laicità di chiesa. Il dibattito, molto acceso e vivace, tra questi tre orientamenti occuperà due anni della vita della chiesa italiana, fino alla celebrazione del sinodo dei vescovi del 1987. Già durante il dibattito tra i vescovi presenti emerge una propensione per la “linea Lazzati” e si suggerisce di riprendere LG 31 quale prospettiva capace di dire lo specifico laicale. L’esortazione postsinodale Christifideles Laici conferma autorevolmente questa scelta: viene riaffermato che l’indole peculiare dei laici è legata alla secolarità, da intendersi «teologicamente e non solo sociologicamente» (CFL 4), anche se si colgono alcuni correttivi dovuti alla sottolineatura decisa della radice battesimale dell’identità dei laici e il riferimento alla fondazione cristologica della identità di ogni cristiano (CFL 15), nella prospettiva del cap. II di Lumen Gentium. Il riconoscimento della uguale dignità di tutti i cristiani si coniuga con la riaffermazione dello specifico degli “stati di vita”. La vera novità del documento è rintracciabile nella ampia trattazione dedicata ai movimenti e associazioni laicali, fenomeno che per il suo sviluppo rapido e diffuso segna la vita ecclesiale degli anni ‘80 e ‘90 (CFL 29ss), la cui finalità è quella di «partecipare responsabilmente alla missione della chiesa di portare il vangelo di Cristo come fonte si speranza per l’uomo e di rinnovamento per la società». Privilegiare l’attenzione ai movimenti come luogo di forma-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
zione e di apostolato dei laici comporta mettere in primo piano i legami con la chiesa universale, laddove le associazioni laicali tradizionali privilegiavano in maniera evidente il rapporto con la chiesa locale (AC, AGESCI, FUCI) e il radicamento nel territorio, come diventerà evidente negli anni ‘90. Più in generale il pontificato di Giovanni Paolo II appoggerà dinamiche di diffusione di carismi, spiritualità, forme di appartenenza segnate da un tratto universalistico: la diffusione di movimenti internazionali e la stessa organizzazione delle Giornate mondiali della gioventù accentueranno e alimenteranno una lettura della realtà ecclesiale a partire dall‘universale, dalla comunione di tutti i cristiani con il papa, e conseguentemente un centralismo romano crescente. È da segnalare, infine, un documento abbastanza recente, Ecclesia de mysterio, del 1997, il cui sottotitolo in italiano recita “sulla collaborazione dei laici alla vita e alla missione della chiesa”. Sottolineare la dinamica della “collaborazione” è di per sé marginalizzare altri due termini intorno ai quali è stata pensata dopo il Concilio la soggettualità dei laici: “cooperazione” e “corresponsabilità”. Così pure il documento chiede di ricorrere con “parsimonia” e attenzione all’espressione “assemblea celebrante”, che la riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II, sulla base del recupero del sacerdozio comune, ha proposto quale soggetto collettivo da recuperare. L’appello alla cautela nel documento del 1997 è forse il tentativo di limitare la forza rivoluzionaria della partecipazione dei laici nella vita ecclesiale e di toccare la grande novità di riconoscersi come un’assemblea celebrante presieduta dal ministro ordinato?
28-02-2007
8:46
Pagina 85
1 Una proposta teologica Voglio tentare di formulare la mia proposta teologica a partire da quanto affermato in Gaudium et Spes sul rapporto Regno di Dio – mondo - chiesa e dalla visione della soggettualità ecclesiale presentata nel secondo capitolo di Lumen Gentium, nella linea della recezione post-conciliare offerta dalla teologia politica di J.B. Metz (Sulla teologia del mondo) e dalla lettura funzionalistico-ecclesiologica dei ministeri di E. Schillebeeckx e del “secondo” Congar di Comunione e ministeri ecclesiali. Il retroterra neotestamentario su cui si fonderà il mio argomentare è dato da due testi capitali per la visione ecclesiologica delle prime comunità cristiane - Ef 4,1-16; 1Pt 2,4-10 – testi abbastanza tardi, ascrivibili all’esperienza e alla riflessione di fede della seconda generazione cristiana, quella che ha dovuto affrontare il nodo del ritardo della parusia e la problematica di vivere i processi di istituzionalizzazione del soggetto ecclesiale. La finalità propria della missione ecclesiale e lo statuto di popolo sacerdotale vengono decantati in questi due testi in rapporto alla stessa ministerialità complessiva di chiesa. La proposta teoretica nasce dalla posizione data dalla mia stessa condizione esistenziale, di donna laica teologa; la svolta ermeneutica in filosofia e teologia ci ha edotti sul fatto che l’autore è sempre predeterminato dalla sua identità e status e affronta l’oggetto della sua ricerca a partire da pre-comprensioni che non devono essere sottovalutate, in nome di un sapere neutro e astorico. Il Vaticano II consegna ai laici cristiani una possibilità “inedita” o meglio un recupero di una capacità negata: quella di pensarsi e
85
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<85
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 86
Per il cristiano non esiste più una realtà sacra ed una profana, un tempo sacro ed uno profano, un'azione sacra ed una profana, perché tutto è segnato già per azione di Cristo dalla santità di Dio
autodefinirsi quali soggetti ecclesiali. Se nei primi secoli, infatti, molti teologi erano laici (Giustino, Tertulliano, Origene, Prudenzio, Boezio, Cassiodoro), per tutto il secondo millennio di fatto i laici non sono stati ritenuti capaci di parola autorevole nella chiesa. La “parola teologica” in senso stretto è stata loro preclusa; solo ora, dopo lunghi secoli, i laici hanno di nuovo spazi e strumenti per elaborare teologia, anche a livello accademico. La riflessione sull’essere laici non è più condotta solo da ministri ordinati, ma da coloro che vivono questa forma di soggettualità ecclesiale. I laici non sono più “definiti da altri”, sulla base di paradigmi e di analogatum princeps propri del ministero ordinato o della condizione monastica. La lettura critica della storia dell’ecclesiologia ha mostrato che la teologia del laicato è sempre stata una variabile dipendente dalla visione del rapporto chiesa-mondo e dalla autocomprensione dei ministri ordinati quanto alla loro missione specifica. È necessario quindi individuare un nuovo punto prospettico, dal quale parlare di laici e pensare a una ridefinizione delle relazioni ecclesiali. Il Vaticano II offre tale prospettiva da un lato con una revisione ecclesiologica complessiva che tocca l’imprescindibile rapporto della chiesa con il mondo, al quale l’identità e missione del laicato necessariamente rimanda, dall’altro con una riconsiderazione del modo di pensare le relazioni interne, a partire dall’idea di popolo di Dio, di cui i laici sono soggetti co-costituenti. 1 Laici in un popolo sacerdotale In particolare la coscienza di essere popolo tutto sacerdotale è stata alimentata, prima e dopo il Con-
86 86>>
ricerca
cilio, da una vasta messe di studi biblici e patristici, dal movimento liturgico e dal dialogo ecumenico, che hanno permesso di cogliere che il termine “sacerdote” nel Nuovo Testamento non viene mai usato per indicare la funzione e l’azione dei ministri ordinati, dei responsabili della comunità cristiana, comunque essi vengano definiti; si tratti di episcopi, presbiteri, diaconi, profeti, apostoli, mai il loro ruolo è definito a partire da una terminologia o da una azione che abbia carattere sacerdotale. In positivo, il termine “sacerdote” viene usato per Cristo, nell’interpretazione che la comunità cristiana dà della sua morte e del mistero pasquale nella Lettera agli Ebrei, nel confronto con la figura del sommo sacerdote e del rito di espiazione da lui compiuto una volta all’anno, per il perdono dei peccati del popolo, e viene utilizzato per i cristiani. Come recita Ap 1,5; 5,10: «ha fatto di noi un regno e sacerdoti». Tutti i cristiani – personalmente e come corpo ecclesiale - vengono indicati come “regno e sacerdoti” quale frutto dell’azione redentrice di Cristo. Se poi consideriamo come l’azione sacerdotale dei cristiani sia realizzata, come quella di Cristo e in unità con lui, nella vita quotidiana, nel dono di sé agli altri per amore, come culto a Dio, possiamo cogliere che il sacerdozio di cui si parla non ha a che fare con riti, templi, atti cultuali di un “sacro”, contrapposto al profano e separato da esso, quali altre forme religiose hanno mostrato adobrato, praticato. Si tratta di un “sacerdozio dell’esistenza”, “sacerdozio dei fatti” della vita, prima ancora di un “sacerdozio dei riti” che vede in ogni caso tutti i cristiani quali soggetti in una assemblea di popolo tutta celebrante. Il dare i propri corpi come sacrificio santo
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
e gradito a Dio, come culto spirituale di Rom 12,1-2 e il culto “in spirito e verità” di Gv 4 costituiscono la sostanza del sacerdozio dei cristiani, coloro che nella fede aderiscono a Gesù di Nazareth, il “laico” messia, appartenente alla tribù di Giuda e non di Levi, colui che ha vissuto e compiuto il suo sacerdozio nella sua morte fuori delle porte della città santa e nell’entrare dopo la sua morte nel santuario del cielo, alla destra del Padre. Un atto cultuale che non sembra avere niente di “sacro”, secondo i parametri di un religioso tradizionalmente accettato: la morte di un condannato secondo la legge romana dopo essere stato consegnato alle autorità di occupazione dai sacerdoti e i responsabili del popolo per una trasgressione grave della Legge di Israele, che lo rendeva maledetto da Dio. La fede cristiana legge in questo evento, di adesione piena alla volontà di Dio per la salvezza dell’uomo, compiuto dal Cristo, l’inaugurarsi di un nuovo sacerdozio: l’adorazione di Dio in spirito e verità, nella vita quotidiana, nel dono di noi stessi. Il sacerdozio è un culto a Dio nella vita, esistenza che include anche momenti celebrativi della comunità raccolta, come anche tempi di preghiera personale, di lode, di contemplazione e di invocazione di Dio. Viene così consegnata ai cristiani una prospettiva radicalmente
28-02-2007
8:46
Pagina 87
nuova rispetto alle altre esperienze religiose e rispetto alla stessa esperienza religiosa di Israele. Questo fatto porta con sé alcune implicazioni: l’abolizione dell’idea di un sacro e di un profano quali sfere contrapposte, separate della vita; l’irriducibilità al solo momento rituale dell‘esperienza religiosa per i cristiani. Per il cristiano non esiste più una realtà sacra ed una profana, un tempo sacro ed uno profano, un’azione sacra ed una profana, perché tutto è segnato già per azione di Cristo dalla santità di Dio e tutto è sacro e tutto è profano, se vogliamo continuare ad usare queste categorie che però ormai non hanno alcun significato per l’autocomprensione dei cristiani nella loro definizione dell’esperienza di fede. Una sottolineatura di questo elemento mi appare necessaria, anche oggi, dal momento che la tradizione cristiana dopo il IV-V sec. sembra essersi sviluppata di nuovo come esperienza religiosa a partire dalle (superate) categorie del sacro/profano e aver perso l’idea innovativa e realmente trasformante della santità di Dio. Il Dio Santo, il “tre volte santo”, rende i cristiani compartecipi della sua santità; per questo il culto a Dio si allarga alla vita intera e non può essere ridotto al momento del culto, neanche al momento della sola celebrazione eucaristica che si
87
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<87
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
inserisce all’interno di una vita tutta sacerdotale, che il popolo sacerdotale esplica in tutti gli ambiti dell’esistenza umana. Questa riacquisizione di prospettiva permette di cogliere la forza innovativa della parole di Origene: «Voi siete un popolo sacerdotale e di conseguenza voi avete accesso al santuario, ognuno di noi ha in se stesso il suo olocausto ed è lui stesso che accende il fuoco sull’altare. Dunque se io rinuncio a ciò che posseggo, porto la mia croce e seguo Cristo io offro il mio olocausto sull’altare di Dio, se io abbandono il mio corpo alle fiamme ed apprendo la carità, se acquisto la gloria del martirio, io offro me stesso in olocausto sull’altare di Dio, se amo i miei fratelli al punto di dare la mia vita per loro, se combatto fino alla morte per la giustizia e per la verità io offro il mio olocausto sull’altare di Dio, è in questo modo che io esercito il mio sacerdozio». O le analoghe espressioni di Ambrogio, quando scriveva «tutti i figli della chiesa sono sacerdoti, noi tutti infatti siamo consacrati per essere sacerdozio santo in quanto offriamo noi stessi a Dio come sacrifici spirituali», in cui non è in gioco uno “spirituale” contrapposto al “materiale”, come la nostra logica binaria ha affermato per anni; lo spirituale è il sacrificio compiuto sotto l’azione dello Spirito, per opera dello Spirito di Dio, dello Spirito Santo. Il sacerdozio santo viene quindi compiuto dai cristiani in tutti gli ambiti dell’esistenza, nelle relazioni di coppia, amicali, genitoriali, nel lavoro, nelle scelte che attengono alla politica e all’economia, nelle attività pastorali e nel volontariato. Tutti i credenti in Cristo, per la professione di fede e la celebrazione dei sacramenti di iniziazione cristiana,
88 88>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 88
sono soggetti co-costituenti un popolo tutto sacerdotale. Come si esprime la Prima Lettera di Pietro (2,410): «Stringendovi a lui, pietra viva, rigettata dagli uomini, ma scelta e preziosa davanti a Dio, anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo. […] Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdozio regale, la nazione santa, il popolo che Dio si è acquistato perché proclami le opere meravigliose di lui che vi ha chiamato dalle tenebre alla sua ammirabile luce; voi, che un tempo eravate non-popolo, ora invece siete il popolo di Dio; voi, un tempo esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia». Non si dà quindi solo una considerazione del sacerdozio come tratto che specifica l’identità del singolo cristiano, ma è in gioco anche una dimensione collettiva, di identità e di esercizio del sacerdozio. La Chiesa è popolo sacerdotale ed esercita il suo sacerdozio come funzione collettiva, come mostra la duplice ricorrenza del lemma greco “ierateuma” (sacerdozio), un termine costruito con il suffisso “ma” che indica una funzione legata ad un soggetto collettivo. Non c’è più nel cristianesimo una classe sacerdotale a cui è deputata la gestione del sacro di cui tutti gli altri credenti sono fruitori passivi, ma c’è un popolo tutto sacerdotale. Non abbiamo più un ordo con funzione di mediazione tra i credenti e Dio, ma un popolo che esercita una mediazione Dio ed il mondo, inteso nel senso di chi ancora non aderisce all’annuncio che Dio ha dato in Cristo, mediazione compiuta attraverso l’annuncio dal vangelo e una vita vissuta come culto quotidiano. Non possiamo
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 89
Tutti i credenti in Cristo, per la professione di fede e la celebrazione dei sacramenti di iniziazione cristiana, sono soggetti co-costituenti un popolo tutto sacerdotale
pensare a vescovi, presbiteri e diaconi come intermediari tra Dio e il popolo cristiano, perché tutti siamo parte di un popolo sacerdotale ed esercitiamo il nostro servizio, come singoli e come popolo, tra Dio, il suo Regno, e quella parte dell’umanità che non ha ancora accolto il Vangelo. La mediazione tra Dio e il mondo è stata primariamente realizzata in Cristo, vero e fedele sommo sacerdote, e -in lui ed attraverso di lui- viene compiuta nel popolo, che nella vita quotidiana, superando il dualismo sacro-profano, glorifica Dio nel dono di sé e nell’annuncio della fede a tutti. 1 Laici soggetti co-costituenti la chiesa Come formulare quindi una nuova proposta interpretativa della identità laicale? Non è percorribile la strada per cui al laico compete la relazione con il mondo ed alla gerarchia con il sacro. Non è pensabile neppure sostenere quella linea teologica, che si era andata affermando da Leone XIII, che vede il laico come ponte tra chiesa e mondo, come santificatore di ciò che sta nel mondo, di ciò che ancora non è spirituale, è profano. Non è sostenibile completamente neanche la proposta della scuola di Milano, che chiede di eliminare il concetto di “laico” per ricondurlo al “cristiano e basta” e alla considerazione delle relazioni intra-ecclesiali sul piano pastorale tra ministri ordinati e laici; a mio parere va riconosciuto, infatti, il valore teoretico della domanda sull’essere laici. Nell’orizzonte della considerazione della missione del popolo sacerdotale tratteggiata da 1Pt 2,4-10, vorrei cercare di cogliere lo specifico dei laici e il senso del-
l’essere laici sulla base del rapporto Regno di Dio – mondo – chiesa delineato in Gaudium et Spes e sulla base della configurazione delle relazioni ecclesiali definita dal secondo capitolo di Lumen gentium. Ritengo, infatti, che la presenza di laici abbia qualcosa di essenziale da dire sulla stessa identità, essenza e forma ecclesiale. La chiesa è un popolo sacerdotale, che ha come missione l’annuncio e il servizio alla manifestazione e alla crescita del regno di Dio nella storia, missione messianica, di cui è investito il corpo ecclesiale nel suo insieme e nei suoi singoli membri, missione che viene realizzata secondo una molteplicità di vie (AA 2), plurali perché attinenti alle contingenze storiche che determinano la vicenda umana di ogni credente. La via da percorrere per una teologia dell’essere laici è quella dell’elaborazione di un processo di identità nella differenziazione correlata che contempli le distinzioni formali-funzionali tra i componenti della chiesa nell’orizzonte delle complesse relazioni Regno di Dio-mondo-chiesa. Vanno pensati insieme identità/missione dei laici e dei ministri ordinati e ministerialità di chiesa, senza partire da uno stato ecclesiale che assurga ad analogatum princeps, senza partire dal “noto” (ministero) e definire i laici per negazione, senza partire dal porre distinzione a priori su chi sia laico e chi ministro sulla base della distinzione contrappositiva di campi di esercizio di ruoli (in primis mondo e chiesa), dal momento che una tale differenziazione non chiarisce di per sé chi sia il soggetto che attribuisce a sé e agli altri campi di azione specifica. Il dato di partenza è quindi il riconoscimento reale di
89
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<89
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
una chiesa che è parte del mondo, partecipe delle vicende dell’umanità laddove il Regno di Dio si manifesta e si realizza, per azione dello Spirito, anche al di fuori dei confini della chiesa stessa. Una chiesa che è cosciente di vivere come corpo articolato secondo una differenziazione dei soggetti costituenti, che correla gli uni agli altri e che impedisce di vivere la propria missione gli uni in maniera isolata dagli altri. Dobbiamo pensare e definire contemporaneamente l’azione ministeriale degli uni e degli altri, a partire dalla determinazione della specifica relazionalità dei ministri ordinati e dei laici. Dopo il Vaticano II diventa imprescindibile tentare di comprendere le interrelazioni strutturali tra i diversi soggetti ecclesiali, soggetti di un dire ecclesiale, di un dirsi specifico, di un dire l’altro e dirsi con l’altro. Solo la sinergia di azione specifica e comune e di determinazione reciproca possono definire il soggetto collettivo chiesa, la sua missione e la sua forma, ma allo stesso tempo il primum logico da investigare è il modo in cui il soggetto collettivo chiesa esercita la sua missione, per poi cogliere come le diverse componenti attive (in quanto ministri ordinati e in quanto laici) agiscono in ordine alla missione comune. La realizzazione del Regno di Dio si compie per l’azione creatrice e innovatrice dello Spirito santo, che opera nella coscienza di credenti e di non-credenti e guida verso la piena consumazione escatologica le vicende di una storia che ha come soggetto l’umanità intera, i popoli, le culture, di tutti i tempi e luoghi. In un modo proprio la chiesa, per la fede in Gesù il cristo, si adopera per un consapevole raggiungimento di tale traguardo, sia come soggetto
90 90>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 90
collettivo (in una sinergia di azione trasformatrice e segno anticipatore in relazioni comunionali e liberatrici), sia grazie all’azione diretta delle sue componenti che -consapevoli del venire del Regno nella storia- ne favoriscono la manifestazione, promuovendo la comunione con Dio e l’unità della famiglia umana, lavorando per la giustizia e la pace, adoperandosi per un mondo del lavoro giusto, per una strutturazione delle relazioni economiche nel mercato giuste, rispettose della vita e della dignità di ogni persona, combattendo ogni opera di disumanizzazione e di negazione dell’umano. Tutti i cristiani, ministri e laici, perciò animati da una coscienza formata dalla Parola, rinnovati dai sacramenti celebrati, nella loro esistenza individuale, direttamente - in quanto parte dell’umanità e insieme della chiesa, “da cristiani” e “in quanto cristiani” agiscono con questo orizzonte di senso. La politica e l’economia, il mondo del lavoro, la convivenza civile e la promozione umana, le relazioni umane primarie li vedono tutti soggetti - siano essi ministri ordinati o laici - per la fede cristiana, come servi del Regno di Dio. Davanti al vasto insieme di coloro che non conoscono il vangelo sono tutti soggetti di una professione di fede/testimonianza che nell’allargare il numero dei cristiani ricerca l’adesione consapevole e anticipatrice al Regno. I cristiani singoli annunciano il vangelo nei contesti di vita nei quali si trovano ad essere posti: la famiglia, il condominio, l’università, la chiesa, il luogo di lavoro e del tempo libero, perché l’annuncio a coloro che non sono cristiani compete ai cristiani, a tutti i cristiani. Il cristiano deve mantenere memoria di Gesù attraverso l’annuncio continuo ed esplicito della
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 91
Gli uni (i laici) sono tesi al divenire della chiesa attraverso e nel divenire storico, gli altri (i ministri) sono orientati al mantenimento dinamico dell’identità di questo soggetto, nella dinamica di un’apostolicità insieme fondativa ed escatologica
salvezza attraverso la venuta del Cristo. Allo stesso tempo tutti i cristiani contribuiscono al diffondersi della signoria di Dio indirettamente in quanto parte di un soggetto collettivo che esiste proprio per la presenza co-costituente dei suoi membri. La chiesa, come insieme, serve il Regno perché è segno leggibile, della comunione con Dio e dell’unità del genere umano che costituiscono l’essenza del Regno di Dio. Solo un soggetto collettivo, nel quale sono presenti relazioni tra più soggetti, può, infatti, esercitare questa funzione. I cristiani, partecipando alla vita ecclesiale, contribuiscono a questo formando il corpo collettivo e aiutandolo a vivere secondo una forma visibile che sia sempre più significativo segno del regno di Dio, della sua logica comunionale, partecipativa, di giustizia. All’interno di quest’unico corpo, sacerdotale e carismatico, si dà una differenziazione di soggetti e di modalità di esercizio in ordine all’esistenza e funzionalità del soggetto collettivo in quanto tale. I ministri ordinati, che garantiscono l’apostolicità dell’annuncio che fa essere la chiesa “chiesa di Gesù”, come mostrano At 20 e le Lettere pastorali, risultano orientati primariamente a un servizio al Regno di Dio attraverso il servizio alla sua mediazione ecclesiale in quanto corpo collettivo sussistente attraverso i secoli, sul fondamento dell’esperienza apostolica. I laici compiono per il corpo collettivo della Chiesa servizi di qualità diversa, anche se necessari, per contribuire alla sua esistenza e all’adempimento del suo compito. Gli uni (i laici) sono tesi al divenire della chiesa attraverso e nel divenire storico, gli altri (i ministri) sono orientati al mantenimento dinamico dell’identi-
tà di questo soggetto, nella dinamica di un’apostolicità insieme fondativa ed escatologica. È su questo piano, che prende in considerazione gli apporti di ciascuno alla costituzione del soggetto collettivo, che si dà una differenziazione laici-ministri ordinati, laddove cioè si prendono in considerazione le logiche costitutive e storiche di questo soggetto collettivo. I ministri ordinati devono garantire l’apostolicità della chiesa e per questo motivo presiedono la comunità e la sua eucaristia, quale momento massimamente rivelativo e attuativo di comunione ecclesiale. I laici garantiscono al corpo ecclesiale l’elemento di un divenire di chiesa attraverso il divenire nella storia. I “laici”, perciò, sono cristiani, ma non possono essere definiti “cristiani e basta” perché lo sono in una modalità propria rispetto a quanti nella chiesa sono ministri ordinati. L’identità dei laici, infatti, non può esaurirsi in un rapporto “esclusivo” e “univoco” con la comunità cristiana, ma primariamente essi richiamano - per la loro persona prima ancora che per la loro azione - alla venuta del Regno di Dio nella storia umana, a cui la chiesa guarda per definire se stessa. I laici sono quella parte della chiesa che «richiama la figura simbolica dell’estroversione della chiesa» (S. Dianich), che richiama la chiesa intera al fatto che essa esiste “per il mondo” (Bonhoeffer) secondo una logica di pro-esistenza. I laici richiamano per il loro stesso esserci il corpo ecclesiale al fatto che non può chiudersi nei suoi confini, non può pensare di esaurire in sé mondo e storia, dal momento che il regno non avviene solo all’interno delle “frontiere” ecclesiali. I laici richiamano il fatti che la chiesa è “nella polis”
91
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<91
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
e “per la polis”, contribuendo a spezzare la logica di una “privatizzazione” del cristianesimo. La domanda-chiave non verterà allora sullo “specifico” del laico, ma su quali siano le relazioni “proprie” del laico e quali siano quelle proprie del ministro ordinato, in rapporto all’umanità e a quella parte di umanità che è la chiesa. Si partirà in questo modo dalla visione globale (quella del soggetto collettivo) e si investigheranno le relazioni che lo fanno essere (la relazione con il mondo e le relazioni intraecclesiali). Questo permetterà di superare la codificazione della figura gregoriana di chiesa, ratificata e perpetuata da Trento, che teorizzava, dopo la perdita del polo “mondo”, un sistema di dipendenza dal potere sacrale-clericale, determinante per l’essenza del corpo ecclesiale, senza che ci fosse più uno spazio reale per i laici se non come destinatari passivi di quanto affermato e deciso da un corpo docente e autoritario, senza che la presenza dei laici determinasse un ripensamento per la definizione ecclesiale (dal momento che il polo relazionale a loro più direttamente correlato - il mondo - era escluso o marginalizzato). Questa nuova coscienza di chiesa, inaugurata dal Vaticano II comporta chiaramente una ridefinizione della forma e dei processi di vita ecclesiale, in modo che i laici siano posti in condizione di contribuire a formulare il messaggio escatologico di Gesù tenendo presenti le condizioni della nostra società. L’azione di evangelizzazione e le attività svolte per l’esistenza ecclesiale promosse da laici sono quindi azioni poste da un soggetto battezzato che non ha bisogno di un’ulteriore delega ecclesiastica né di una celebra-
92 92>>
ricerca
28-02-2007
8:46
Pagina 92
zione di investitura per essere e realizzare la sua identità cristiana secondo queste prospettive. Nel caso del laico/a sarà la storia personale (l’intreccio relazionale che costituisce lo spazio del suo essere) a determinare spazi e forme operative del suo essere credente. Un tale agire, pur costitutivo per la persona, per il soggetto chiesa, per la missione ecclesiale, pur necessario come mediazione per la manifestazione e crescita del Regno, non si configurerà secondo i canoni della istituzionalizzazione, ma si darà nella storia e nella chiesa secondo una varietà infinita, in plurale costitutivo e irriducibile a una tipologia di “laico” univocamente predeterminabile. In qualsiasi forma questo venga attuato ogni laico e laica richiama tutti e sempre al “campo” basilare della missione comune, il mondo, perché «Dio ha assegnato (ai cristiani) un posto così sublime e a essi non è lecito abbandonarlo» (A Diogneto, VI, 10). 1 Implicazioni e questioni aperte di questa nuova visione dei laicii Il testo di Ef 4,1-16, uno dei testi base dell’ecclesiologia neotstamentaria, permette di cogliere le implicazioni – anche pastorali – della visione ora delineata, soprattutto in rapporto al binomio costitutivo “unità-pluralità”, realtà entrambe originarie, in un darsi contemporaneo di edificazione nella comunione attraverso una diversità di soggetti, ministeri, carismi, operazioni. Come scrive l’autore di Efesini: «Cercate di conservare l’unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti. A ciascuno di noi, tuttavia, è stata data la grazia secondo la misura del dono di Cristo. [...] È lui che ha stabilito alcuni come apostoli, altri come profeti, altri come evangelisti, altri come pastori e maestri, per rendere idonei i fratelli a compiere il ministero, al fine di edificare il corpo di Cristo, finché arriviamo tutti all’unità della fede e della conoscenza del Figlio di Dio, allo stato di uomo perfetto, nella misura che conviene alla piena maturità di Cristo. […] Al contrario, vivendo secondo la verità nella carità, cerchiamo di crescere in ogni cosa verso di lui, che è il capo, Cristo, dal quale tutto il corpo, ben compaginato e connesso, mediante la collaborazione di ogni giuntura, secondo l’energia propria di ogni membro, riceve forza per crescere in modo da edificare se stesso nella carità». La chiesa vive intorno a queste due grandi leggi: un’attenzione permanente all’unità (visibile) e la manifestazione della koinonia interiore attraverso forme e strutture di pluralità, che tutelino la diversità costitutiva. Comunione e pluralità di doni sono entrambi frutto dello Spirito. Il brano richiama alla diaconia di tutti, resa possibile e autentica dal servizio di alcuni, che esercitano un ministero legato alla Parola: apostoli, profeti, evangelisti, pastori e maestri garantiscono la radicazione nella fede apostolica di un annuncio e di una diakonia che vede tutti i cristiani come soggetti, coinvolti in un processo di edificazione ecclesiale mai concluso. Il concilio Vaticano II, in particolare nelle sue Costituzioni, “riconquista” e fa propria nell’oggi della storia
28-02-2007
8:46
Pagina 93
la visione ecclesiologica neotestamentaria e la riconsegna alle chiese perché divenga prassi comune a tutte e fondamento per una riconfigurazione di chiesa. A quaranta anni dal Concilio, proprio a partire dal disagio che molti laici vivono nella chiesa e di un dibattito ancora aperto su come vivere il rapporto con il mondo e la storia, di cui lo scontro acceso sui temi della laicità è testimone oggi in Italia, dobbiamo valutare quanto sia cambiata effettivamente l’autocoscienza dei laici e della chiesa nel complesso sul nodo “laicato”. C’è convergenza di identità tra l’ecclesiologia del Vaticano II e l’ecclesiologia che viviamo? C’è una nuova gestione della prassi pastorale? Cosa è stato recepito di quanto il Concilio ha detto di innovativo sui laici? Sicuramente alcune realtà sono cambiate; pensiamo ad esempio alla liturgia, all’essere assemblea celebrante, a forme di partecipazione ecclesiale come i consigli pastorali, i sinodi diocesani, le consulte dei laici. Vi sono però alcuni nodi aperti, che non possiamo trascurare, come anche prassi consolidate che escludono i laici, che non riconoscono la loro parola e azione per la costituzione ecclesiale e la realizzazione della missione messianica, che devono essere necessariamente superate. Ne individuo ed evidenzio tre, che collegano strettamente il [non-]riconoscimento pieno dei laici al volto di chiesa (incompiuta): il non riconoscimento del sensus fidei/fidelium, la mancata promozione di una sinodalità ordinaria, l’assenza di processi di una ermeneutica della fede da parte della comunità cristiana. Una delle maggiori e più profonde novità del concilio è stato la visione del rapporto “chiesa-storia”, come
93
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<93
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 94
La chiesa, che qui è presentata è una chiesa consapevole di essere parte di una storia che attende il pieno compimento della parola di Dio, che sa di essere sotto il segno del “non ancora”, chiamata perciò a una crescita incessante resa possibile dall’apporto di tre sue componenti: i vescovi, i teologi, i credenti tutti con la loro intelligenza profonda delle cose spirituali e delle parole trasmesse. La chiesa cresce perché c'è una comunicazione nella fede tra tutti i credenti
si evince ad esempio dalla stessa riflessione sul concetto di Traditio proposta da Dei verbum, 8: «la chiesa nella sua dottrina, nella sua vita, nel suo culto perpetua e trasmette a tutte le generazioni ciò che essa è, tutto ciò che essa crede. Questa tradizione trae origine dagli apostoli, progredisce nella chiesa sotto l’assistenza dello Spirito Santo e si sviluppa di generazione in generazione, infatti la comprensione tanto delle cose quanto delle parole trasmesse, cresce con la riflessione e lo studio dei credenti i quali meditano queste cose in cuor loro, con la profonda intelligenza della cose spirituali che essi sperimentano, con la predicazione di coloro i quali con la successione episcopale hanno ricevuto un carisma certo di verità, la chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza dell’identità divina finché in essa giungano a compimento le parole di Dio». Questa parola ci presenta la traditio/paràdosis quale linfa vitale, che si trasmette di persona in persona, da comunità a comunità, da generazione a generazione, come una realtà profondamente dinamica. La chiesa, che qui è presentata è una chiesa consapevole di essere parte di una storia che attende il pieno compimento della parola di Dio, che sa di essere sotto il segno del “non ancora”, chiamata perciò a una crescita incessante resa possibile dall’apporto di tre sue componenti: i vescovi, i teologi, i credenti tutti con la loro intelligenza profonda delle cose spirituali e delle parole trasmesse. La chiesa cresce perché c’è una comunicazione nella fede tra tutti i credenti, che alla luce del vangelo, nell’oggi della storia, riflettono per comprendere in modo sempre nuovo il Vangelo del Cristo (GS 44) e si interrogano su come proporlo. Ma se
94 94>>
ricerca
guardiamo alla vita delle nostre chiese locali e delle nostre comunità sono pochi gli spazi e le strutture che garantiscono l’attuarsi di queste forme comunicative pluridirezionali, che mettano effettivamente in gioco questa possibilità di dialogo tra cristiani e che più specificamente permettano ai laici di partecipare al discernimento comunitario e di offrire il loro specifico apporto sul versante dell’estroversione. La chiesa non vive solo perché c’è una comunicazione della fede tra chi è credente e chi non è credente, ma vive anche di una comunicazione della fede tra i credenti, il cui oggetto è la sempre rinnovata comprensione (riespressione, ritraduzione) dell’evangelo, data con un duplice scopo: la formazione della coscienza di fede dei singoli credenti e insieme la costituzione del soggetto ecclesiale (collettivo) nella storia intorno a un vangelo compreso con sempre maggiore profondità grazie alle intuizioni/percezioni di tutti i credenti. La mancanza di canali adeguati per ascoltare il sensus fidei dei cristiani è a mio parere particolarmente grave per due motivi: si rimane ancorati all’idea di una comunicazione unidirezionale tra chi sa o chi ha un ruolo a chi non sa (il laico per statuto, in primis), superata dal Vaticano II, e non si riconosce il laico come soggetto competente e dotato di una competenza propria necessaria per la determinare il volto ecclesiale. Anche se si è riflettuto sul tema della soggettualità dei laici, se se ne afferma la imprescindibilità per il divenire ecclesiale, non ci si è sufficientemente interrogati sulle dinamiche comunicative, rendendo di fatto ogni asserzione su questo punto “sterile”. I laici non vengono ascoltati dai vescovi (o dai presbiteri) prima di prendere posizioni pubbliche su
seconda settimana teologica Camaldoli 2006
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
questioni che riguardano la chiesa nel suo complesso, anche se i laici sono proprio coloro che dovrebbero aiutare la comunità intera a cogliere le sfide che vengono da una storia, per altro già segnata per i cristiani dall’azione dello Spirito di Dio. Non si crede davvero che «la riflessione e lo studio dei credenti, i quali le meditano in cuor loro le cose spirituali» (tutti i credenti: i bambini, gli anziani, gli uomini e le donne, gli asiatici, gli africani, gli europei...) siano ciò che fa crescere la Traditio, perché non ci si adopera a creare le pre-condizioni strutturali e istituzionali perché questo divenga prassi ordinaria nella chiesa. I laici sono allora davvero il “caso serio” della recezione post-conciliare, perché permettono di cogliere dove si sia interrotta la “riforma conciliare”. Se la novità di Sacrosanctum Concilium ha trovato una riforma liturgica corrispondente, che ha veicolato una nuova idea di chiesa a chi prende parte alla liturgia, la novità ecclesiologica – per quanto attiene alle relazioni intraecclesiali – non ha visto un’analoga, vasta e organica riforma di strutture, di “riti” e abitudini comunitarie. Proprio perché si tratta di un dinamismo complessivo che tocca tutta la realtà di chiesa, non mi sembra di poter ridurre la questione a “senato dei laici”, su base di rappresentanza, per altro in un momento di crisi della rappresentanza e della delega a livello sociale e politico; si tratta di strutturare in forma nuova le normali relazioni ecclesiali a tutti i livelli, dalla parrocchia alla chiesa locale, alla comunione di chiese locali che è l’universa ecclesia, secondo una forma sinodale di chiesa, in cui ci sia spazio per la ricerca comune, in cui ci si adopera per accogliere i contributi specifici
28-02-2007
8:46
Pagina 95
che vengono dallo sguardo e dall’azione dei laici, in cui ci si dota di strumenti adeguati per il discernimento comunitario, dove si adottano procedure di orientamento e di “espressione” del parere dell’assemblea adeguate alla coscienza comunionale e di soggettualità dei cristiani che si affermano nel concilio. Potrebbe essere utile fare tesoro delle procedure di “decisione per consenso” adottate dal Consiglio Ecumenico delle Chiese, nella recente assemblea di Porto Alegre (febbraio 2006). Le decisioni non vengono prese a colpi di voto di maggioranza (modello parlamentare classico), ma con un metodo nuovo che opera per una progressiva maturazione del consenso, attraverso la valorizzazione delle obiezioni e dei dubbi e la ridefinizione dei testi resa possibile dall’apporto di tutti, fino a mantenere anche nella formulazione finale, in nota, la memoria di chi dissente e delle sue motivazioni. Anche se il parere dei laici è sempre consultivo e mai deliberativo, perché un vescovo non scrive le sue lettere pastorali dopo aver ascoltato sull’argomento ciò che i cristiani della sua diocesi (preti, diaconi, laici) hanno da dire? L’ecclesiologo tedesco M. Kehl, in Dove va la chiesa?, arriva ad affermare che su questo punto si gioca il futuro della chiesa cattolica. Analoghe affermazioni troviamo in G. Lafont e nel suo Immaginare la chiesa cattolica. Il sogno di una “chiesa sinodale”, di una chiesa che vive secondo una coscienza, una forma, e processi di sinodalità permanente (di confronto e di decisione sulla base della fede espressa e condivisa, da tutti coloro che compongono la chiesa e che la fanno crescere con la loro perceptio delle cose spirituali) include il riconoscersi come “chiesa del consenso” (non
95
nella Chiesa e nella storia: laici oggi
<<95
Ricerca_fuci_1/2_DEF:Ricerca_fuci_ott_DEF
28-02-2007
8:46
Pagina 96
Il sogno di una “chiesa sinodale”, di una chiesa che vive secondo una coscienza, una forma, e processi di sinodalità permanente, include il riconoscersi come “chiesa del consenso”: «La totalità dei cristiani, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo di Dio, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale» tanto “dell’assenso”) nella quale l’affermazione di LG 12 - uno dei testi più misconosciuti del Concilio - sul sensus fidei che segna tutto il popolo di Dio trova adeguati momenti e strumenti per essere non solo affermata ma vissuta: «La totalità dei cristiani, avendo l’unzione che viene dal Santo, non può sbagliarsi nel credere e manifesta questa sua proprietà mediante il senso soprannaturale della fede di tutto il popolo di Dio, quando dai vescovi fino agli ultimi fedeli laici, mostra l’universale suo consenso in cose di fede e di morale». In ogni caso il tema del “potere” e sul suo esercizio nella chiesa deve essere riaffrontato dalla teologia e dal magistero. Non è forse giunto il tempo di riflettere sul potere di giurisdizione e sul suo rapporto con la potestà d’ordine? Ci sono spazi per cogliere una “potestas” dei laici? Possono esserci spazi nei quali i giuristi, i giuristi laici di domani e di oggi, potrebbero offrire delle suggestioni significative anche al contesto ecclesiale. La figura di comunità-nella-comunicazione giocherà molto della sua qualità nella sua capacità di definirsi come comunità ermeneutica, comunità che vive della reintepretazione continua della esperienza fondativa, sulla base della norma normans della Scrittura, nel flusso della paradosis, e insieme spinta dal contesto storico. Una comunità fondata su “apostoli e profeti”, secondo l’espressione di Ef 2,20-21: apostoli, perché sia garantita (dal ministero ordinato) nella successione delle generazioni la radicazione sull’evento fondativo perché la chiesa sia chiesa di Gesù; profeti, perché siano presenti e ascoltate le voci di coloro che sanno leggere la storia umana alla luce di Dio e del compiersi della sua promessa, le
96 96>>
ricerca
voci di chi apre le strade del rinnovamento e dell’intuizione dell’oltre. Due implicazioni sono connesse con l’idea di una chiesa quale comunità ermeneutica: il riferimento continuo che tutti i membri devono avere alla Parola di Dio, in un fecondo rapporto tra testo – contesto – lettore; riconoscere – senza mai sminuire - l’apporto specifico del magistero e il ruolo dei vescovi per la vita della comunità cristiana, nel suo dire la fede e interpretare il vangelo del Regno. La tensione – e l’equilibrio da ricercare - sta quindi nel vivere come “fraternitas christiana” nella quale l’esercizio della funzione autorevole nel dire la fede non è limitata al magistero clericale, ma coinvolge attivamente tutti i cristiani, senza deleghe in bianco al magistero di compiti e ruoli che non sono propriamente o immediatamente suoi. Il ministro ordinato non può sostituirsi alla fatica della ricerca comune a partire dalla parola del popolo di Dio, non può assorbire in sé ogni parola (come se fosse l’unico soggetto); il magistero non crea nulla, non riceve da Dio nuove rivelazioni, non può imporre ai credenti il dovere del consenso se non per ciò che è rivelato da Dio o essenzialmente correlato alla rivelazione. Il magistero, pur postulando l’obbedienza e il consenso dei fedeli, non può ritenersi così autonomo dal corpo ecclesiale da potersi pensare privo della recezione e del consenso della chiesa. L’atmosfera nella quale la fede respira è sempre quella della comunione, per cui tutto viene dalla comunione ecclesiale e tutto vi deve ritornare. Non è necessario che quella del magistero sia la prima (in senso cronologico) e l’unica parola della chiesa, anzi una proposta che veda una priorità cro-
seconda settimana teologica Camaldoli 2006