UNA FRAGILE SPERANZA di Ludovico Criacci «L’INDIFFERENZA PUÒ PROVOCARE LA MORTE». Così, insulsamente, titolava l’articolo di cronaca che avevo letto il giorno dopo su un giornale locale, e si riferiva proprio a lei. Avrà avuto più o meno quarant’anni quella donna. Alta, magra, abbastanza carina. La vedevo spesso sostare vicino ad un bar nei pressi di casa mia, ad orari precisi. Alle 13,30 oppure alle 18,00. Sempre parca nel suo abbigliamento non perfettamente intonato con la stagione, ma composta nel portamento. Qualche giorno fa mi si avvicina con passo leggero, resta lì assorta, un borsellino tra le mani. La guardo e mi dà l’idea di una donna sola. È già passata l’ora di pranzo, ho molta fame, mentre lei non sembra preoccuparsi di un pasto da preparare e nemmeno di compiti da assolvere. Il suo sguardo è un po’ imbarazzato, come se avesse timore di chiedermi qualcosa. Poi invece, lentamente, folgorata da un residuo di coraggio, mi si avvicina e dice: «Signore scusami, ho bisogno di fare una telefonata, ma non ho un cellulare, puoi prestarmi il tuo per qualche secondo?». Quella precisazione mi predispone favorevolmente nei suoi confronti, per cui acconsento: «Prego, fa’ pure!». Dopo aver finito la sua brevissima telefonata, mi ringrazia e si lascia andare a un semplice sfogo: «Mi chiamo Monica, ho 36 anni. Da qualche tempo frequento questa zona perché ho dei parenti che abitano da queste parti. Sono contenta di venirli a trovare. Pure tu abiti qui?».
«Sì, abito al secondo piano di quel palazzo giallo dietro di te, con le finestre color marrone». «Ti vedo spesso uscire da questo bar, ci vieni sempre?». «Perché tutte queste domande, hai bisogno di qualcosa?». Basta chiederle questo per vederle illuminarsi il viso e accennarmi a qualcosa che forse le rodeva dentro: «No, grazie, quando sono a casa non mi è facile parlare, mi sento un’estranea. Mio padre non ha mai tempo per me, mia madre invece pensa soltanto alle sue fisime. Quando decisi di interrompere gli studi a sedici anni perché mi sentivo sola e incompresa, mi sono addirittura sembrati contenti. Per loro forse era più importante risparmiare che educare. Parlo solo con mio figlio, con il quale ho un buon rapporto, anche se spesso litighiamo». Il suo parlare mi colpisce, evoca in me ricordi e immagini fotografiche per certi versi sovrapponibili. Non mi sento estraneo al suo dolore, la sua amarezza mi è familiare. Prendo alcune monete dalla tasca dei pantaloni ma lei non mi tende la mano, non una parola. Temo di aver commesso un errore di valutazione, quel suo gesto mi restituisce l’idea che la realtà non fosse quella che io avevo immaginato, come se fosse irrilevante. Accenna ad allontanarsi, si volta e mi ringrazia: «Mi ha fatto bene parlarti». Un brivido mi attraversa la pelle e mi scuote da un certo torpore. È ormai passata l’ora di pranzo, e ripensando a quelle parole e a quello sguardo languido, non ho più fame. La mia mente e il mio corpo sono sazi di commozione. Mi è sembrato di fiutare la primavera in quella persona. La seguo con gli occhi fino a che la vedo svoltare dietro una casa. Peccato, Monica ha colorato la mia giornata grigia, penso. Decido allora di passeggiare sperando di incontrarla di nuovo, o almeno di cercare, negli occhi di quelli che incrocio, qualsiasi cosa possa
continuare a scaldarmi dentro. Mi rallegro osservando la faccia di un bambino in passeggino che si lecca le dita sorridendo, una donna bella e ben vestita che attraversa la strada spargendo intorno il suo buon profumo Shalimar di Guerlain, che riconosco subito. Persino la parolaccia rivolta dall’impaziente automobilista al semaforo rosso, e che lo costringe a fermarsi, mi mette di buon umore. Oggi sembra essere la mia giornata, sto bene: Ah, come sarebbe bello poter vivere sempre di emozioni così semplici, ma vere! Entro in un bar e consumo un caffè. Do un’occhiata al giornale cercando di guadagnare tempo in attesa che aprano i negozi. Ci sono parti del mondo in cui non chiudono mai, nemmeno di notte. Ma qui non è così. È già pomeriggio, m’incammino lentamente per una via del centro e osservo le vetrine, coloratissime con i loro abiti autunnali. Vedo gente che si raduna davanti ai negozi per fare acquisti, ma i più desistono. Tantissimi saldi, pochissimi soldi, questo è il messaggio che mi proviene dagli occhi smarriti della gente. Noto sguardi disorientati, quasi il segno di un mondo che, se per alcuni prosegue indifferente il suo cammino, per altri invece perde valore. È il sintomo evidente non soltanto di una crisi importante, ma anche di una disparità sociale ed economica molto accentuata, in cui spesso è l’uomo comune ad uscire nobilitato e ad adottare le strategie più rassicuranti per tracciare i profili umani delle differenze in campo. Si consola pensando all’idea di una buona cena con gli amici o in famiglia, di un buon film al cinema, a quei precetti nostrani che odorano di tradizione come il ragù di carne la domenica. Proprio in questi momenti di difficoltà ritroviamo il meglio di noi stessi, prevale quel genuino e naturale senso di mutuo soccorso, quell’istinto olfattivo e animalesco che ci fa riconoscere come appartenenti allo stesso branco. Intanto penso ancora a Monica, e ancora un brivido mi
attraversa la pelle. Ho bisogno di alimentare le mie certezze, di credere nella sua autenticità, di convincermi che Monica non abbia mentito per ragioni diverse o lontane dalla mia orbita emotiva. Le false emozioni ci uccidono dentro e ci aprono il cuore come una scatoletta di tonno cui non v’è traccia di olio. È per questo che inseguiamo i sogni o le speranze, abbiamo bisogno di cibo per nutrire l’anima, e le buone emozioni mi sembrano un’ottima portata per apprezzarne il gusto. Ed è sempre per questo che ci sono giorni in cui si avverte il bisogno di pensare a qualcosa o qualcuno che possa placare il senso vertiginoso di certi momenti tristi e opachi. Ieri ho pensato a mio padre, che ha saputo regalarmi emozioni contrapposte, un miscuglio di amore e disamore. Il suo ricordo era così vicino che mi è sembrato vivo dentro di me. Ripenso a una vigilia di Natale di diversi anni fa. Avevamo litigato il giorno prima per un problema che riguardava un viaggio con amici. Mi aveva redarguito davanti a loro negandomi il suo permesso e il suo sostegno economico. Ci rimasi malissimo. La sera di quella vigilia mi presentai a cena di proposito con molto ritardo e senza giustificazioni. I parenti erano tutti lì intorno alla tavola imbandita che aspettavano impazienti me, ma non mi curai del loro disappunto. Volevo vendicarmi con mio padre, procurargli un dispiacere forte. Lui accusò il colpo, si mostrò freddo e impassibile, evitò di guardarmi. Poi però, nel corso della cena, al cospetto dei tanti invitati, ad un certo punto venne dritto verso di me e mi servì l’arrosto per primo: «Questo è per te, Ludovico caro!». Fu un gesto premeditato che sapeva di perdono e di scuse, e scaldò il mio cuore. Nel tempo ne sono seguiti altri, anche contrastanti. L’ultima volta che ci siamo parlati, non ricordo di cosa abbiamo parlato. Lo abbiamo
fatto per riscattare un passato fatto di tanti silenzi. Discorso interrotto, purtroppo. Forse semplicemente rimandato. Poi è volato in cielo lasciandomi le sue ali, la sua semplicità. Ora lui è in cielo, ed io combatto con quelle ali i fantasmi della terra. All’improvviso questo mio sotterraneo tumulto di amarcord s’interrompe. Vedo Monica seduta su una panchina, assorta nei suoi pensieri. Cerco di sintetizzare le impressioni ricavate dal primo incontro e, bandendo in me ogni traccia di malinconia, vengo sopraffatto dall’idea di starle vicino, di ringraziarla, di regalarle un po’di quell’umanità che le è mancata e che non le è affatto estranea. Quell’umanità che ho colto a piene mani dai suoi occhi espressivi; una luce che brillava come fari nella notte tra le sue ciglia e che avevano illuminato il mio buio. Mi avvicino alle sue spalle, la chiamo: «Monica!»… ma lei non risponde. Forse starà dormendo, penso. Ha la testa poggiata sullo schienale della panchina, il suo colorito è bianco e smunto come il colore del giubbottino che indossa. L’unica nota di colore è una macchia scura sulla sua gonna gialla, forse di caffè. Mi è sembrata diversa da come l’ho vista prima. Ho preferito non svegliarla. La guardo mentre mi allontano, scrollando rassegnato le spalle. Decido di rimandare il mio incontro con lei a un’altra occasione. Non percorro molta strada quando da lontano scorgo un movimento che desta in me preoccupazione. Un ambulanza del 118 con la sirena accesa giunge nel posto in cui l’ho lasciata, mentre una folla numerosa si è già radunata intorno a quella panchina. Adagiano lei sulla barella, parlano di codice rosso e, senza nessun altro commento, la trasportano d’urgenza in ospedale. Noto lo sguardo allibito delle persone presenti,
in alcuni – quelli che la conoscevano bene – gli occhi si riempiono di lacrime di commozione, in altri invece solo di molto sconforto. «Poverina!» diceva qualcuno, «la colpa è dei suoi genitori». La sua vita era ben nota a tutti, tranne a me, e ne parlavano come di una persona fragile e sfortunata. Tantissime volte aveva confidato ad alcuni che meditava l’ora del suo riscatto, una rivincita nei confronti di quella vita che le aveva negato molto spesso il sorriso, lasciandola a contare solo sulla sua dignità e voglia di lavorare. Un percorso molto duro, il suo, che l’aveva avvicinata alla droga. La sua puntualità svizzera negli orari – alle 13,30 e alle 18,00 – da altro non dipendeva che da appuntamenti fissi presso un laboratorio di medicina dove le somministravano il metadone e la restituivano alla vita schematica e difficile di ogni giorno. Chissà quante volte avrà pregato, chissà quante volte smorfie di dolore avranno rigato e disegnato il suo viso fino a farla sentire un angolo morto nello specchietto retrovisore della società pensavo, La solitudine non è soltanto dei numeri primi, come titola un libro, ma soprattutto di chi non riesce ad affermare i suoi propositi per limiti o contrarietà. È difficile lottare contro le incomprensioni e le avversità, se le ostilità o l’assuefazione a certi comportamenti freddi e distaccati provengono dalle persone a cui vuoi bene e di cui ti fidi incondizionatamente. L’episodio di Monica mi aveva turbato non poco, specie perché, sensibile come sono, propendo per quel senso divino e di giustizia che dovrebbe regolare le vite umane. Quello che le era capitato non mi sembrava assolutamente giusto. Punto! Ed è così che quella sera ero io ad aver bisogno di calore, di comprensione, di qualsiasi cosa potesse esorcizzare quel senso di abbandono e solitudine che spesso mi riaffiora e che quella triste vicenda mi aveva scatenato dentro.
Telefono ad alcuni amici con la precisa intenzione di dimenticare. Una serata in pizzeria avrebbe sicuramente costituito un buon viatico per alleggerire la tensione, mitigare la pena. Dopo poco mi ritrovo seduto ad un tavolo davanti ad una bella pizza all’ortolana (la mia preferita) ed una deliziosa bionda, che non è una bella ragazza, ma una birra. Stenta a decollare, la serata, provo un senso di colpa a divertirmi mentre Monica soffre in qualche ospedale. Poi però, la tristezza cede il passo all’effimero, e la serata esplode roboante come il motore di una Ferrari. Stappare una bottiglia di champagne sarebbe stato il giusto epilogo. Non ci sono pit stop fino a notte inoltrata, tranne l’unico, quando ritorno a casa per dormire. O meglio, penso di dormire, ma in realtà ricomincio a pensare a lei. Nemmeno le lenzuola profumate di Coccolino riescono a donarmi quella sensazione soporifera di cui ho bisogno. Il pensiero di Monica vince la partita sul sonno almeno 2 a 0. Spero almeno nei tempi supplementari, o di addormentarmi in zona Cesarini, sono a letto da ottantanove minuti – più o meno. Saranno le 4 del mattino quando il sonno mi coglie, ed io con docilità mi lascio andare senza opporre resistenza. Dopo poche ore mi risveglio. L’alba di un nuovo giorno è sempre bella grazie a quei piccoli rituali che sono il sale della vita e che ci riconciliano con il mondo. Penso a quella luce tenue che filtra dalle persiane, l’acqua che scorre nel lavandino facendo clu… clu… clu mentre aspetto che diventi calda, al ritmo rap di una canzone di Jovanotti alla radio, che mi abitua a pensare in maniera cadenzata, così leggo le notizie del tiggì al piccì o sul vucì mentre faccio pipì, succede ogni dì, nessuno che sia lì, e assaporo il buondì, e dico solo sì, al borbottio gradevole della moka che sbuffa emettendo note confuse e profumate che fanno co… co… co… co…, in attesa che l’aroma si diffonda
per le stanze. Una liturgia quotidiana che commuove e restituisce alla vita integro e combattivo. Perché un buon caffè significa buona vita, augurio di buona giornata. Il ricordo di lei si è nel frattempo un po’ attenuato. Malgrado ciò mi chiedo se sia andato qualcuno a farle compagnia in ospedale. Decido di farle visita, di parteciparle la mia vicinanza, ma al contempo ignoro dove l’abbiano ricoverata. Breve colazione e via per la città. L’idea di farmi una passeggiata incalza dentro di me ed io l’assecondo. Mi dirigo tranquillo verso il centro con passo da mezzofondista. Camminare mi rilassa enormemente, mi distrae. A volte quando lo faccio desidero smarrire la strada delle certezze per esplorare nuovi percorsi e provare nuove sensazioni ed emozioni. Godere di una luce diversa del sole per capire se anch’essa riscalda. Desiderare tutto ciò per poi scoprire che il calore che scalda il cuore lo abbiamo già dentro di noi, e si ravviva quando le persone cui vogliamo bene se ne accorgono. Chissà se Monica se n’era accorta che una fetta di cuore me lo aveva scaldato, rimugino, quando ormai, giunto nei pressi dell’ospedale, nello sconforto e sgomento più assoluto, leggo un manifesto affisso sul cancello d’entrata: «Ieri, alle ore 20,00, munita dei conforti religiosi, si è spenta l’esistenza di Monica F., di anni 36». Un forte tremore scuote il mio corpo mentre impallidisco. Il silenzio piomba su di me, mentre un vociare di persone commenta l’accaduto. Sono sorpresi quanto me, come si può rimanere inermi di fronte ad una giovane vita stroncata così amaramente? Penso al figlio e al suo dolore. Mi avvicino al manifesto e per un po’ rimango a fissarlo. Il silenzio si protrae ancora un po’ fino, a quando non è frantumato dalla sirena di un auto della polizia che fa segno di spostarci. Le ultime tracce dell’incertezza e del mio spaesamento svaniscono, mi convinco che l’uomo è meglio che non
tenti di vaticinare il suo destino, perché le nostre preghiere non sempre vengono esaudite nel modo che vogliamo, ed è proprio per questo che rimaniamo delusi. Mi sento in colpa, inadeguato a questa triste circostanza. Chissà se, pensandola di più, avrei commosso Dio fino a fargli differire il suo provvedimento ad una data lontanissima nel tempo. Ma Dio, si sa, non ha oppositori, è l’unico che regna e governa e, quando decide una tal cosa, non ci sono emendamenti che possano modificare le sue leggi divine. Sorprende come un casuale incontro tra due persone che non si conoscono possa trasformarsi per uno dei due in occasione di grande riflessione e turbamento. Ho tratto degli utili insegnamenti di vita e di stile dal suo amorevole comportamento. Ha saputo esibire la sua straordinaria semplicità, la sua bellezza d’animo, in cui dovrebbe specchiarsi la mediocrità di tante altre persone. Un monito verso coloro che annegano nella banalità delle loro azioni, nella vacuità dei loro ideali, evitando che la morte affolli le panchine e testimoni la dissolutezza di alcuni costumi e l’incapacità di recuperare i giusti valori, cui si contrappone un bisogno inaudito di calore e umanità, spesso negato dall’ostinata indifferenza degli altri.