L'angelo della notte, la via delle tenebre

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Brent Weeks L'ANGELO DELLA NOTTE

LA VIA DELLE TENEBRE (The Way of Shadows, 2008)


I personaggi e i fatti di quest'opera, esclusi quelli chiaramente noti a tutti, sono immaginari e qualunque somiglianza con persone reali, viventi o defunte, è puramente casuale Titolo originale: The Way of Shadows Copyright © 2008 by Brent Weeks Traduzione dall'inglese di Carmen Di Mario (capp. 1-19), Rosa Prencipe (capp. 20-Epilogo) Prima edizione: aprile 2010 © 2010 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-541-1767-9 www.newtoncompton.com Realizzazione a cura di Corpotre, Roma Stampato nell'aprile 2010 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)


VOLUME 002


A Kristi, confidente, compagna, migliore amica, sposa. Sono tutti per te.




Capitolo 1 Azoth si accovacciò nella viuzza e sentì la melma fredda insinuarglisi tra le dita nude dei piedi. Fissò l'angusto spazio sotto la parete, provando a farsi coraggio. Mancavano ancora alcune ore al sorgere del sole e la taverna era vuota. La maggior parte delle taverne della città aveva i pavimenti sporchi, ma questa parte dei Cunicoli era stata costruita su una zona paludosa e neanche gli ubriachi volevano bere con il fango fino alle caviglie, perciò la taverna era stata eretta su dei pali che la sollevavano di pochi centimetri dal terreno e pavimentata con resistenti canne di bambù. A volte delle monete cadevano tra le fessure e l'interstizio era troppo piccolo perché la maggior parte della gente provasse a riprenderle. I grandi della gang erano troppo grandi e i piccoli avevano troppa paura di cacciarsi nell'oscurità soffocante, infestata da ragni e scarafaggi e topi e dal perfido gatto maschio semiselvaggio del proprietario. La cosa peggiore era la pressione del bambù sulla schiena, che ti schiacciava ogni volta che qualcuno camminava di sopra. Per un anno quello era stato il posto preferito di Azoth, ma ormai non era più così piccolo. L'ultima volta era rimasto bloccato e aveva passato ore in preda al panico, finché non si era messo a piovere e il terreno si era ammorbidito sufficientemente da consentirgli di sgusciare fuori. Adesso c'era fango, la taverna sembrava deserta e Azoth aveva visto il gatto andare via. Era un buon momento. Inoltre, Ratto avrebbe riscosso le quote della gang il giorno seguente e Azoth non aveva neanche quattro spicci. Non ne aveva nemmeno uno, in verità, quindi non c'era molta scelta. Ratto non era comprensivo e non sapeva dosare la sua forza. Alcuni erano morti a causa delle sue percosse. Spinti da parte i cumuli di fango, Azoth si sdraiò sulla pancia. La terra umida inzuppò all'istante la sua sottile tunica già sudicia. Avrebbe dovuto lavorare in fretta. Era macilento e, se si fosse raffreddato, non avrebbe avuto molte possibilità di guarire. Affrettandosi nell'oscurità cominciò a cercare il metallico luccichio rivelatore. Un paio di lampade ancora accese nella taverna lasciavano filtrare la luce attraverso le fessure, illuminando il fango e l'acqua in strani rettangoli. La pesante nebbia della palude si


arrampicava sui raggi di luce per poi ricadere giù. Alcune ragnatele avvolsero il volto di Azoth e si ruppero, e lui sentì un formicolio dietro al collo. Si raggelò. No, era la sua immaginazione. Respirò lievemente. Vide qualcosa che luccicava e afferrò la prima moneta di rame. Scivolò verso la trave di pino spezzata sotto la quale era rimasto bloccato l'ultima volta e spalò via il fango finché l'acqua riempì la depressione. La fessura era ancora così stretta che dovette girare la testa di lato per cacciarsi lì sotto. Trattenendo il respiro e spingendo il volto nell'acqua viscida, cominciò a strisciare lentamente. La testa e le spalle passarono agevolmente, ma poi un pezzo di un ramo afferrò il retro della sua tunica, strappando la stoffa e conficcandoglisi nella schiena. Stava quasi per gridare e fu immediatamente contento di non averlo fatto. Attraverso un largo spazio tra le canne di bambù, Azoth vide un uomo seduto al bar che stava ancora bevendo. Nei Cunicoli dovevi giudicare le persone in fretta. Anche se avevi mani veloci come Azoth, quando rubavi ogni giorno, dovevi sempre mettere in conto l'eventualità di essere preso. Tutti i mercanti picchiavano i ratti delle gang che rubavano. Se volevano avere ancora qualche merce da vendere, dovevano farlo. Il trucco stava nello scegliere quelli che ti avrebbero schiaffeggiato per convincerti a non provarci più con la loro bancarella, la prossima volta; ce n'erano altri che ti avrebbero picchiato così malamente da non concederti una prossima volta. Azoth pensò di vedere qualcosa di gentile e triste e solitario in quella figura allampanata. Aveva circa trent'anni, una rada barba bionda e una grande spada sul fianco. «Come potete abbandonarmi?», sussurrò l'uomo così a bassa voce che Azoth riuscì a malapena a distinguere le parole. Teneva un boccale nella mano sinistra e nella destra cullava qualcosa che Azoth non riusciva a vedere. «Dopo tutti gli anni che vi ho servito, come potete abbandonarmi? È a causa di Vonda?». Azoth sentì un prurito sul polpaccio. Lo ignorò. Era soltanto di nuovo la sua immaginazione. Si toccò la schiena per liberare la tunica. Doveva trovare le sue monete e fuggire di lì. Qualcosa di pesante cadde sul pavimento sopra Azoth, schiacciandogli la faccia nell'acqua e togliendogli il respiro. Azoth ansimò e quasi inspirò acqua. «Perché, Durzo Blint, non manchi mai di sorprendere», disse il


peso su Azoth. Niente dell'uomo era visibile attraverso le fessure, tranne un pugnale. Questi doveva essere caduto dalle travi. «Ehi, va bene smascherare un bluff, ma avresti dovuto vedere Vonda quando ha capito che non stavi andando a salvarla. Maledizione, mi ha quasi spezzato il cuore». L'uomo allampanato si girò. La sua voce era lenta, rotta. «Ho ucciso sei uomini stanotte. Sei sicuro che vuoi che diventino sette?». Azoth lentamente realizzò ciò che stavano dicendo. L'uomo allampanato era il sicario Durzo Blint. Un sicario era come un assassino - nel modo in cui una tigre è come un gattino. Tra i sicari, Durzo Blint era indiscutibilmente il migliore. O almeno, come aveva detto il capo della gang di Azoth, le discussioni non duravano mai a lungo. E io ho pensato che Durzo Blint sembrasse gentile? Il polpaccio di Azoth prudeva di nuovo. Non era la sua immaginazione. C'era qualcosa che strisciava all'interno dei suoi pantaloni. Sembrava grande, ma non quanto uno scarafaggio. La paura di Azoth identificò il peso: un ragno bianco dei licosidi. Il suo veleno liquefaceva la carne in un cerchio che si diffondeva lentamente. In caso di morso, anche con un antidoto, il meglio che un adulto avrebbe potuto sperare sarebbe stato perdere un arto. Un ratto delle gang non sarebbe stato così fortunato. «Blint, sarai fortunato se non ti taglierai la testa dopo tutto quello che stai bevendo. Solo da quando ho cominciato a guardarti, hai preso...». «Otto boccali. E quattro prima di quelli». Azoth non si muoveva. Se avesse fatto uno scatto con entrambe le gambe per uccidere il ragno, l'acqua sarebbe schizzata e gli uomini avrebbero saputo che lui era lì. Anche se Durzo Blint era sembrato gentile, quella era una grande spada spaventosa e Azoth lo sapeva meglio degli adulti. «Stai bluffando», disse l'uomo, ma c'era paura nella sua voce. «Non sto bluffando», disse Durzo Blint. «Perché non inviti qui i tuoi amici?». Il ragno strisciò fino all'interno coscia di Azoth. Lui, tremando, sollevò la tunica e tirò la cintola dei pantaloni, creando un varco e pregando che il ragno strisciasse attraverso di esso. Sopra di lui, l'assassino portò due dita alle labbra e fischiò. Azoth


non vide Durzo muoversi, ma il fischio si concluse in un gorgoglio e, un momento dopo, il corpo dell'assassino ruzzolò sul pavimento. Ci furono grida non appena le porte anteriori e posteriori si spalancarono. Le assi si piegarono e saltarono. Concentrato per non urtare il ragno, Azoth non si muoveva, e non lo fece neanche quando un altro corpo cadde spingendo ancora un po' la faccia sott'acqua. Il ragno strisciò sul sedere di Azoth e poi sul suo pollice. Il ragazzo lo circondò lentamente con la mano così da riuscire a vederlo. Le sue paure erano fondate. Si trattava proprio di un ragno bianco dei licosidi; le zampe lunghe quanto il pollice di Azoth. Lo scagliò via in modo convulso e strofinò le dita, per essere sicuro di non essere stato morso. Raggiunse il pezzo di ramo che tratteneva la sua tunica e lo spezzò. Il suono fu amplificato dall'improvviso silenzio di sopra. Azoth non riusciva a vedere nessuno attraverso le fessure. A pochi centimetri di distanza qualcosa gocciolava dalle assi in una pozzanghera. Era troppo buio per vedere cosa fosse, ma non serviva troppa immaginazione per indovinare. Il silenzio era inquietante. Se qualcuno avesse camminato sul pavimento, lo stridere delle assi e il flettersi del bambù l'avrebbe annunciato. Tutto l'alterco era durato forse venti secondi e Azoth era sicuro che nessuno avesse lasciato la taverna. Si erano uccisi tutti l'un l'altro? Era intirizzito, e non solo per l'acqua. La morte non era una straniera nei Cunicoli, ma Azoth non aveva mai visto così tante persone morire così velocemente e così facilmente. Persino dovendo stare più attento del solito per via del ragno, in pochi minuti Azoth aveva raccolto sei monete di rame. Se fosse stato più audace, avrebbe depredato i corpi nella taverna, ma Azoth non riusciva a credere che Durzo Blint fosse morto. Forse era un demone, come dicevano gli altri ratti delle gang. Forse stava fuori, aspettando di uccidere Azoth per averlo spiato. Con il petto stretto dal timore, Azoth si voltò e si precipitò verso la sua buca. Sei monete di rame erano un buon bottino. Ne doveva soltanto quattro, quindi avrebbe potuto comprare del pane domani da dividere con Jarl e Bambola. Era a trenta centimetri dall'apertura quando qualcosa di luminoso gli balenò davanti al naso. Era così vicino che gli servì un momento per mettere a fuoco: l'enorme spada di Durzo Blint si era


conficcata nel fango attraverso il pavimento, e ostacolava la fuga di Azoth. Proprio sopra, dall'altra parte del pavimento, Durzo Blint bisbigliò: «Non parlare mai di questo. Intesi? Ho fatto cose peggiori che uccidere bambini». La spada scomparve e Azoth si precipitò nella notte. Non smise di correre per chilometri.


Capitolo 2 Quattro monete di rame! Quattro! Queste non sono quattro». Sul viso rosso di rabbia di Ratto, i brufoli spiccavano come punti bianchi sparpagliati. Afferrò la tunica logora e lo sollevò da terra. Azoth abbassò la testa. Non riusciva a guardare. «Questi sono quattro!», gridò Ratto sputacchiando. Appena la sua mano schiaffeggiò il volto di Jarl, Azoth realizzò che era una messinscena. Non le percosse - Ratto stava chiaramente picchiando Jarl -, ma lo stava colpendo con la mano aperta. In quel modo faceva più rumore. Ratto non prestava alcuna attenzione a Jarl. Guardava il resto della gang, godendo del loro timore. «Chi è il prossimo?», chiese Ratto, lasciando cadere Jarl. Azoth fece velocemente un passo avanti, per evitare che Ratto colpisse a calci il suo amico. A sedici anni, Ratto era già grande come un uomo e aveva del grasso, che lo rendeva unico tra i nati schiavi. Azoth offrì le sue quattro monete di rame. «Otto, schifoso», disse Ratto, prendendo le quattro monete dalla mano di Azoth. «Otto?» «Devi pagare anche per Bambola». Azoth si guardò intorno in cerca d'aiuto. Alcuni dei grandi si mossero e si guardarono l'un l'altro, ma nessuno proferì parola. «Lei è troppo piccola», disse Azoth. «I piccoli non pagano il dovuto finché non hanno otto anni». L'attenzione si spostò su Bambola, che era seduta nella viuzza sporca. Lei notò gli sguardi e si fece ancora più piccola, stringendosi in se stessa. Bambola era minuta, con occhi enormi, ma sotto il lereiume i suoi tratti erano fini e perfetti come il suo nome. «Io dico che ha otto anni, a meno che lei non dica il contrario». Ratto la guardò di sbieco. «Dillo, Bambola, dillo o picchierò il tuo amico». Gli occhi di Bambola si fecero ancora più grandi e Ratto rise. Azoth non protestò, non puntualizzò che Bambola era muta. Ratto lo sapeva. Tutti lo sapevano. Ma Ratto era il Pugno. Rispondeva soltanto a Ja'laliel, e Ja'laliel non era lì. Ratto trascinò Azoth vicino a sé e abbassò la voce. «Perché non ti unisci ai miei cari ragazzi, Azo? Non dovrai più pagare la tua quota».


Azoth provò a parlare, ma la sua gola era così stretta che squittì solamente. Ratto rise di nuovo e tutti si unirono a lui, alcuni godevano dell'umiliazione di Azoth, alcuni speravano soltanto di mettere Ratto di buonumore prima che arrivasse il loro turno. Un nero livore trafisse Azoth. Odiava Ratto, odiava la gang, odiava se stesso. Si schiarì la gola per provare di nuovo. Ratto cercò il suo sguardo e ammiccò. Era grosso, ma non era stupido. Sapeva fin dove poteva spingere Azoth. Sapeva che si sarebbe accartocciato di paura, proprio come tutti gli altri. Azoth sputò un batuffolo di impassibilità sul volto di Ratto. «Vai a farti fottere, Ratto Lardoso». Ci fu un'eternità di sbalordito silenzio. Il momento d'oro della vittoria. Ad Azoth sembrò di sentire le mascelle che cadevano. Il buon senso stava iniziando a riaffiorare, quando il pugno di Ratto lo colse sull'orecchio. Quando colpì il pavimento, il mondo si coprì di chiazze nere. Sbatté le palpebre verso Ratto, i cui capelli neri risplendevano come un'aureola, come se arginasse il sole di mezzogiorno, e seppe che stava per morire. «Ratto! Ratto, ho bisogno di te». Azoth si girò e vide Ja'laliel emergere dall'edificio della gang. La sua pelle pallida era imperlata di sudore, sebbene quel giorno non facesse caldo. Tossì in modo malsano. «Ratto! Ho detto adesso». Ratto si asciugò il viso e vedere la sua ira raffreddarsi così improvvisamente fu quasi più spaventoso che vedere la sua improvvisa stizza. Dopo essersi pulito la faccia, sorrise ad Azoth. Sorrise soltanto. «Hey-ho, Jay-Oh», disse Azoth. «Hey-ho, Azo», disse Jarl, unendosi ad Azoth e a Bambola. «Sai, sei quasi furbo come un'oca. Lo chiameranno Ratto Lardoso alle spalle per anni». «Voleva che diventassi una delle sue ragazze», disse Azoth. Erano appoggiati a una parete distante parecchi isolati, e si dividevano la pagnotta stantia che Azoth aveva comprato. Gli odori del forno, sebbene meno intensi poiché era tardi, coprivano almeno in parte la puzza degli scarichi, dell'immondizia in decomposizione accumulata sulle sponde del fiume e il morso rancido dell'urina e


delle teste delle concerie. Se l'architettura ceuriana era tutta pareti e schermi di bambù e di fibre di riso, l'architettura cenariana era più grossolana, più pesante, priva della studiata semplicità del modello ceuriano. Se l'architettura alitaeriana era tutta di granito e di pino, l'architettura cenariana era meno eccezionale, mancava della programmata durevolezza delle strutture alitaeriane. Se l'architettura di Ossein era caratterizzata da guglie ariose e archi elevati, l'architettura cenariana si elevava soltanto di un piano, in poche ville di nobili, nella parte orientale. Gli edifici cenariani erano tutti massicci e umidi, economici e bassi, specialmente nei Cunicoli. Un materiale che costava il doppio non veniva mai utilizzato, neanche se fosse durato quattro volte in più. I cenariani non pensavano a lungo termine perché non vivevano a lungo. I loro edifici spesso includevano bambù e fibre di riso, che crescevano entrambi nelle vicinanze, e pino e granito, che non erano troppo lontani, ma non esisteva alcuno stile cenariano. Il paese era stato conquistato troppe volte nei secoli per essere orgoglioso di qualcosa che non fosse la sopravvivenza. Nei Cunicoli non c'era neanche l'orgoglio. Azoth, con aria assente, divise la pagnotta in tre pezzi, poi aggrottò la fronte. Aveva fatto due pezzi uguali e il terzo più piccolo. Mise uno dei pezzi più grandi sulla sua gamba e porse l'altro a Bambola che lo seguiva come un'ombra. Stava per dare il pezzo piccolo a Jarl, quando vide sul volto di Bambola una smorfia di disapprovazione. Azoth sospirò e prese il pezzo piccolo per se stesso. Jarl non lo notò neppure. «Meglio una delle sue ragazze che morto», disse Jarl. «Non finirò come Bim». «Azo, quando Ja'laliel comprerà l'uniforme, Ratto sarà il nostro capo della gang. Tu hai undici anni. Ancora cinque anni prima di ottenere un'uniforme. Non ce la farai mai. Bim è fortunata confronto a te». «Quindi cosa devo fare, Jarl?». Di solito, questo era il momento che Azoth preferiva. Era con due persone di cui non doveva aver paura e stava mettendo a tacere la voce insistente della fame. Adesso il pane aveva il sapore della polvere. Fissò il negozio, senza far caso alla pescivendola che picchiava suo marito. Jarl sorrise, i suoi denti brillanti contrastavano con la pelle nera ladeshiana. «Sai tenere un segreto?».


Azoth guardò la strada da parte a parte e si chinò. Il rumoroso sgranocchiare del pane e lo schiocco delle labbra vicino a lui lo fermarono. «Be', io sì. Non sono così sicuro di Bambola». Si girarono entrambi verso dove lei era seduta, rosicchiando il bordo della pagnotta. La combinazione di briciole ed espressione minacciosa sul suo viso li fece ridere fragorosamente. Azoth frizionò la testolina bionda e quando lei continuò a guardare torva, la attirò a sé. Lei si dimenò, ma quando lui lasciò cadere il braccio, lei non scappò via. Guardava Jarl in attesa. Jarl sollevò la tunica e tolse uno straccio che aveva legato attorno al corpo come una fascia. «Non sarò come gli altri, Azo. Non ho nessuna intenzione di lasciare che la vita accada. Devo venirne fuori». Aprì la fascia. Stipate all'interno delle pieghe c'erano una dozzina di monete di rame, quattro d'argento, e, incredibilmente, due gunder d'oro. «Quattro anni. Per quattro anni ho risparmiato». Lasciò cadere ancora due monete di rame nella fascia. «Vuoi dire che tutte le volte che Ratto ti prendeva a schiaffi perché non avevi fatto il tuo dovere, tu avevi questa?». Jarl sorrise e, lentamente, Azoth comprese. Le percosse erano un piccolo prezzo da pagare per la speranza. Dopo un po', la maggior parte dei ratti delle gang si inaridivano e lasciavano che la vita li prendesse a schiaffi. Diventavano animali. O davano di matto, come aveva fatto Azoth quel giorno, e venivano uccisi. Guardando quel tesoro, una parte di Azoth era tentata di colpire Jarl, afferrare la fascia e correre via. Con quel denaro avrebbe potuto scappare, comprare dei vestiti per sostituire i suoi stracci e pagare per diventare apprendista, da qualche parte. Forse persino con Durzo Blint, come aveva detto così tante volte a Jarl e a Bambola. Poi vide Bambola. Sapeva come l'avrebbe guardato se avesse rubato quella fascia piena di vita. «Se qualcuno di noi deve uscire dai Cunicoli, sarai tu, Jarl. Te lo meriti. Hai un piano?» «Sempre», disse Jarl. Alzò lo sguardo, i suoi occhi castani lucidi. «Voglio che li prenda tu, Azo. Non appena scopriamo dove vive Durzo Blint, ti faremo scappare. Tutto chiaro?». Azoth guardò il mucchio di monete. Quattro anni. Dozzine di percosse. Non solo non sapeva se avrebbe dato così tanto per Jarl,


ma aveva anche pensato di rubarglielo. Non riuscì a trattenere lacrime ardenti. Si vergognava talmente tanto! Aveva anche paura. Paura di Ratto. Paura di Durzo Blint. Sempre paura. Ma se fosse scappato, avrebbe potuto aiutare Jarl. E Blint gli avrebbe insegnato a uccidere. Azoth alzò lo sguardo verso Jarl, non osando guardare Bambola per paura di cosa avrebbe trovato nei suoi grandi occhi castani. «Lo prendo». Sapeva chi avrebbe ucciso per primo.


Capitolo 3 Durzo Blint rasentò il muro della piccola proprietà mentre guardava passare la guardia. La guardia perfetta, pensò Durzo: un po' lenta, senza immaginazione e zelante. Contò trentanove passi, si fermò all'angolo, piantò la sua alabarda, si grattò la pancia sotto il suo gambeson, controllò in tutte le direzioni, poi proseguì. Trentacinque. Trentasei. Durzo scivolò fuori dall'ombra dell'uomo e si sistemò sul ciglio del passaggio pedonale. Si manteneva in equilibrio con la punta delle dita. Adesso. Cadde sull'erba proprio mentre la guardia colpiva l'impugnatura della sua alabarda sul legno del passaggio pedonale. Probabilmente la guardia non l'avrebbe sentito comunque, ma la paranoia crea perfezione nel mestiere del sicario. Il cortile era piccolo e la casa non molto più grande. Era stata costruita su modello ceuriano, con pareti di carta di riso traslucide. Un cipresso calvo e un cedro bianco formavano le porte e gli archi e il più economico pino locale era stato usato per la struttura e i pavimenti. Era spartana come tutte le case ceuriane e ciò si confaceva alla formazione militare del generale Agon e alla sua personalità ascetica. Più che altro si confaceva al suo budget. Nonostante i molti successi del generale, King Davin non lo aveva ricompensato bene - questo spiegava in parte l'arrivo del sicario. Durzo trovò una finestra aperta al secondo piano. La moglie del generale era sul letto, addormentata: non dormivano come i ceuriani su materassini intrecciati. Erano, tuttavia, abbastanza poveri e il materasso era imbottito di paglia piuttosto che di piume. La moglie del generale era una donna semplice, russava delicatamente ed era sdraiata più al centro che a un lato del letto. Le coperte sul lato verso il quale era rivolta erano state spostate. Il sicario scivolò nella stanza, usando il suo Talento per attutire il suono dei passi sul pavimento di legno duro. Curioso. Un rapido sguardo confermò che il generale non era venuto soltanto per una visita coniugale notturna. Condividevano la stanza. Forse era persino più povero di quanto la gente pensasse. Durzo aggrottò la fronte sotto la maschera. Era un dettaglio che non aveva bisogno di sapere. Tirò fuori il coltellino avvelenato e si avviò verso il letto. Lei non avrebbe sentito nulla.


Si fermò. La donna era girata verso le coperte spostate. Aveva dormito vicino a suo marito, prima che lui si alzasse. Non al lato opposto del letto, come una donna che aveva semplicemente assolto i suoi doveri coniugali. Era un matrimonio d'amore. Dopo l'assassinio, Aleine Gunder aveva pianificato di offrire al generale un rapido secondo matrimonio con una ricca nobildonna. Ma questo generale, che aveva sposato per amore una donna di basso rango, avrebbe reagito all'omicidio della moglie in modo decisamente differente rispetto a un uomo che si fosse sposato per ambizione. Che idiota. Il principe era così consumato dall'ambizione da pensare che lo fossero anche tutti gli altri. Il sicario rinfoderò il coltello e si avviò lungo il corridoio. Doveva scoprire dove stava il generale. Immediatamente. «Accidenti! Il re Davin sta morendo. Rimarrei sorpreso se gli restasse più di una settimana». Chiunque avesse parlato era molto vicino alla verità. Il sicario aveva dato al re l'ultima dose di veleno quella notte. All'alba sarebbe morto, lasciando il trono conteso tra un uomo forte e giusto e un altro debole e corrotto. Il Sa'kagé non era disinteressato all'esito. La voce proveniva dal salotto al piano di sotto. Il sicario si affrettò verso la fine del corridoio. La casa era così piccola che il salotto faceva anche da studio. Aveva una perfetta visuale dei due uomini. Il generale Brant Agon aveva una barba brizzolata, capelli tagliati cortissimi che non avevano bisogno di essere pettinati e un modo di muoversi a scatti, tenendo lo sguardo su tutto. Era magro e nerboruto e aveva le gambe leggermente curvate da una vita trascorsa a tenere le redini. L'uomo di fronte a lui era il duca Regnus Gyre. La poltrona dall'ampio schienale reclinato all'indietro cigolò quando l'uomo spostò il suo peso. Era enorme, sia alto che largo e un po' del suo volume era grasso. Piegava le dita inanellate sulla sua pancia. Per gli Angeli della Notte. Potrei ucciderli entrambi e mettere fine alle preoccupazioni dei Nove proprio adesso. «Ci stiamo ingannando, Brant?», chiese il duca Gyre.


Il generale non rispose immediatamente. «Mio signore...». «No, Brant. Ho bisogno della tua opinione come amico, non come vassallo». Durzo si portò furtivamente più vicino. Tirò lentamente fuori i coltelli da lanciare, maneggiandoli con prudenza per via delle lame avvelenate. «Se non facciamo nulla», disse il generale, «Aleine Gunder diventerà re. È un uomo debole, perfido e sleale. Il Sa'kagé possiede già i Cunicoli; le ronde del re non lasceranno nemmeno le strade principali e lei sa che le cose non possono che peggiorare. I Giochi Mortali fortificano il Sa'kagé. Aleine non ha la volontà o la propensione per opporsi al Sa'kagé adesso, mentre noi possiamo ancora estirparlo. Quindi ci stiamo ingannando pensando che voi sareste un re migliore? Niente affatto. E il trono è vostro di diritto». Blint accennò un sorriso. I signori del crimine, i Nove del Sa'kagé, condividevano ogni parola - ecco perché Blint si stava assicurando che Regnus Gyre non diventasse re. «E dal punto di vista della tattica? Possiamo farlo?» «Con un minimo spargimento di sangue. Il duca Wesseros è fuori dal paese. Il mio reggimento è in città. Gli uomini credono in voi, mio signore. Abbiamo bisogno di un re forte. Un buon re. Abbiamo bisogno di voi, Regnus». Il duca Gyre si guardò le mani. «E la famiglia di Aleine? Saranno parte del "minimo spargimento di sangue"?». La voce del generale era tranquilla. «Volete la verità? Sì. Anche se non lo ordinassimo, uno dei nostri uomini li ucciderebbe comunque per proteggervi, anche se significasse rischiare l'impiccagione. Essi credono in voi fino a questo punto». Il duca Gyre prese fiato. «Quindi la domanda è: il bene di molti in futuro ha più peso dell'assassinio di pochi adesso?». Da quando in qua ho di questi scrupoli? Durzo soffocò a stento l'irresistibile impulso di gettar via i pugnali. Un'improvvisa rabbia lo scosse. A cosa era dovuta? Era Regnus. Gli ricordava un altro re che aveva servito una volta. Un re che lo meritava. «Sta a voi rispondere, mio signore», disse il generale Agon. «Ma, se posso, è davvero così filosofica la domanda?» «Cosa vuoi dire?»


«Amate ancora Nalia, non è vero?». Nalia era la moglie di Aleine Gunder. Regnus sfoderò uno sguardo afflitto. «Sono stato fidanzato con lei per dieci anni, Brant. Siamo stati i primi amanti l'uno per l'altra». «Mio signore, vogliate scusarmi», disse il generale. «Non è mia...». «No, Brant. Non ne parlo mai. Che io decida se essere un uomo o un re, permettimi di farlo». Respirò profondamente. «Sono passati quindici anni da quando il padre di Nalia ruppe il nostro fidanzamento e fece sposare lei con quel cane di Aleine. Dovrei averlo superato. E l'ho fatto, tranne quando devo vederla con i suoi bambini e devo immaginarla condividere il letto con Aleine Gunder. L'unica gioia che mi ha dato il mio matrimonio è stato mio figlio Logan e faccio fatica a credere che il suo sia stato migliore». «Mio signore, data la natura involontaria dei rispettivi matrimoni, non potreste divorziare da Catrinna e sposare...». «No». Regnus scosse la testa. «Se i figli della regina vivranno, saranno sempre una minaccia per mio figlio, che decidessi di respingerli o di adottarli. Il figlio maggiore di Nalia ha quattordici anni - troppo grande per dimenticare che era destinato al trono». «La ragione è dalla vostra parte, mio signore, chissà che risposte impreviste a questi problemi non possano spuntare una volta che salirete al trono?». Regnus annuì infelice, sapendo ovviamente che centinaia o migliaia di vite erano nelle sue mani, ignorando tuttavia che c'era anche la sua. Se trama una ribellione, lo ucciderò ora, lo giuro sugli Angeli della Notte. Servo solo il Sa'kagé adesso. E me stesso. Sempre me stesso. «Che le generazioni non ancora nate possano perdonarmi», disse Regnus Gyre, le lacrime luccicavano nei suoi occhi. «Ma non commetterò un assassinio per ciò che potrebbe accadere, Brant. Non posso. Giurerò fedeltà». Il sicario fece scivolare i pugnali nelle loro guaine, ignorando i sentimenti gemelli di sollievo e disperazione che lo assalirono. È quella dannata donna. Mi ha rovinato. Ha rovinato tutto.


Blint vide l'agguato da quasi quaranta metri e camminò dritto verso le sue fauci. Mancava ancora un'ora al sorgere del sole e le uniche persone nelle strade tortuose dei Cunicoli erano mercanti che si erano addormentati dove non avrebbero dovuto, e che si affrettavano verso casa dalle loro mogli. La gang - dai glifi che aveva visto doveva essere il Dragone Nero - si nascondeva in un punto del vicolo da dove i ratti delle gang potevano saltar fuori per bloccare entrambe le estremità della strada e anche attaccare dai tetti bassi. Aveva finto un dolore al ginocchio destro e si era tirato il mantello attorno alle spalle e il cappuccio sul volto. Non appena aveva zoppicato fino al tranello, uno dei bambini più grandi, un grande, come lo chiamavano loro, era saltato nel vicolo davanti a lui e aveva fischiato, brandendo una sciabola arrugginita. I ratti delle gang avevano circondato il sicario. «Intelligente», disse Durzo. «Ti apposti prima dell'alba, quando gran parte degli altri gruppi sta ancora dormendo e puoi rapinare quei pochi calabraghe che hanno passato la notte fuori. Non vogliono spiegare alcun livido alle mogli quindi consegnano le loro monete senza fiatare. Non male. Di chi è stata l'idea?» «Di Azoth», disse un grande, indicando un punto dietro il sicario. «Sta' zitto, Roth!», disse il capo della gang. Il sicario guardò il ragazzino sul tetto. Reggeva un sasso sopra la testa, i suoi occhi blu pallidi attenti, pronti. Sembrava familiare. «Oh, adesso l'hai tradito», disse Durzo. «Sta' zitto anche tu!», disse il capo della gang, scuotendo la sciabola verso di lui. «Consegna il tuo portamonete o ti uccideremo». «Ja'laliel», disse un ratto nero, «li ha chiamati "calabraghe". Un mercante non avrebbe saputo che noi li chiamiamo così. È uno dei Sa'kagé». «Sta' zitto, Jarl! Abbiamo bisogno di questo». Ja'laliel tossì e sputò sangue. «Dacci solo il tuo...». «Non ho tempo per questo. Togliti di mezzo», disse Durzo. «Dammi...». Il sicario si lanciò in avanti, la sua mano sinistra torse il braccio di Ja'laliel e gli strappò la sciabola mentre il corpo ruotava. Il


gomito destro si schiantò contro la tempia del capo della gang, ma il colpo fu calibrato in modo da non uccidere. Lo scontro finì indietreggiarono.

nel

momento

in

cui

i

ratti

delle

gang

«Ho detto che non ho tempo per questo», disse Durzo. Buttò indietro il suo cappuccio. Sapeva che non c'era niente di speciale da guardare. Era un tipo allampanato dai lineamenti spigolosi, con capelli biondo scuro e una barba bionda a ciuffi su guance leggermente butterate. Ma avrebbe potuto avere tre teste a giudicare dal modo in cui i bambini si rannicchiarono. «Durzo Blint», mormorò Roth. I sassi caddero sul terreno. «Durzo Blint». Il nome passò tra i ratti come un'onda. Vide paura e soggezione nei loro occhi. Avevano appena provato ad aggredire una leggenda. Ammiccò. «Affila questa. Solo un dilettante lascia arrugginire la sua lama». Lanciò la sciabola in una grondaia raggrumata di liquami. Poi si diresse verso la banda. I ragazzini si sparpagliarono come se potesse ucciderli tutti. Azoth lo guardò allontanarsi a grandi passi tra le prime nebbie del mattino, scomparendo come molte altre speranze nell'inghiottitoio dei Cunicoli. Durzo Blint era tutto quello che Azoth non era. Era potente, pericoloso, sicuro, impavido. Era come un dio. Aveva guardato l'intera gang schierata contro di lui - persino i grandi come Roth, Ja'laliel e Ratto - e si era divertito. Divertito! Un giorno. Azoth giurò. Quasi non osava nemmeno formulare l'intero pensiero, per timore che Blint sentisse la sua impertinenza, ma tutto il suo corpo lo desiderava. Un giorno. Quando Blint fu abbastanza lontano da non notarlo, Azoth lo seguì.


Capitolo 4 I teppisti che sorvegliavano la stanza sotterranea dei Nove rivolsero a Durzo uno sguardo acido. Erano gemelli e due dei più grandi uomini del Sa'kagé. Ognuno aveva un fulmine tatuato lungo la fronte. «Armi?», disse uno. «Lefty», disse Durzo in segno di saluto, togliendo la spada, tre pugnali, i dardi legati al polso e un numero imprecisato di piccole palline di vetro dall'altro braccio. «Io sono Lefty», disse l'altro, dando un'energica pacca a Blint. «Ti preoccupi?», chiese Durzo. «Entrambi sappiamo che se volessi uccidere qualcuno lì dentro potrei farlo, con o senza armi». Lefty arrossì. «Perché non conficco questa bella spada...». «Quello che Lefty intende è che tu fingi di non essere una minaccia e noi fingeremo di aver avuto la situazione sotto controllo», disse Bernerd. «È soltanto una formalità, Blint. Come chiedere a qualcuno come sta quando non t'interessa». «Io non chiedo». «Mi dispiace per Vonda», disse Bernerd. Durzo si fermò di colpo, una lancia rigirata nel ventre. «Veramente», disse il gigante. Manteneva la porta aperta. Lanciò un'occhiata verso suo fratello. Una parte di Durzo sapeva che avrebbe dovuto dire qualcosa di sferzante, intimidatorio o divertente, ma la sua lingua era di piombo. «Uhm, Mastro Blint?», disse Bernerd. Riprendendosi, Durzo si avviò verso la sala senza alzare gli occhi. Era un posto concepito per ispirare paura. Scavata nel vetro nero, una piattaforma sovrastava la stanza. Nove sedie erano sulla piattaforma. Una decima sedia era sopra di loro come un trono. C'era soltanto nudo pavimento di fronte alle sedie. Coloro che i Nove inquisivano sarebbero stati in piedi. La stanza era un rettangolo stretto, ma profondo. Il soffitto era così alto che scompariva nell'oscurità. Dava agli interpellati la sensazione di essere interrogati all'inferno. Il fatto che le sedie, le pareti e perfino il pavimento fossero scolpiti con piccoli gargoyle, draghi e persone, tutti urlanti, non contribuiva certo a mitigare


l'effetto. Ma Durzo entrò con semplice familiarità. La notte non lo terrorizzava. Le ombre diedero il benvenuto ai suoi occhi, non gli nascosero nulla. Almeno quanto mi è concesso vedere. I Nove indossavano i loro cappucci, tranne Momma K, sebbene la maggior parte sapesse che non c'era alcun motivo di nascondere le loro identità a Durzo. Sopra di loro, lo Shinga, Pon Dradin, sedeva sul suo trono. Era calmo e silenzioso come al solito. «Sshei riuscito a uccidere la moglie?», chiese Corbin Fishill. Era affascinante, un bell'uomo con una reputazione di crudeltà, specialmente verso i bambini delle gang che dirigeva. La risata che il suo difetto di pronuncia avrebbe potuto provocare si inaridiva all'istante davanti al livore sempre presente sul suo volto. «Le cose non sono come ve le aspettavate», disse Durzo. Fece brevemente il suo resoconto. Il re sarebbe morto presto e gli uomini che il Sa'kagé temeva gli succedessero non avrebbero rivendicato il loro diritto. Ciò lasciava il trono a Aleine Gunder, che era troppo debole per poter interferire con il Sa'kagé. «Suggerirei», disse Durzo, «di far promuovere al principe il generale Agon a lord generale. Agon impedirebbe al principe di consolidare il suo potere e se Khalidor dovesse fare qualsiasi mossa...». Il minuscolo maestro ex schiavo lo interruppe. «Prendiamo atto della vostra... rimostranza contro Khalidor, Mastro Blint, ma non vogliamo sprecare il nostro capitale politico per qualche generale». «Non dobbiamo», disse Momma K. La Signora dei Piaceri era ancora bella, sebbene fossero passati anni da quando era la più celebrata cortigiana della città. «Possiamo ottenere quello che vogliamo, fingendo che l'abbia chiesto qualcun altro». Tutti si fermarono e ascoltarono. «Il principe voleva corrompere il generale con un matrimonio politico. Quindi noi gli diremo che il prezzo di Agon è invece una nomina politica. Il generale non lo saprà mai ed è improbabile che il principe lo chieda». «E questo ci dà il potere di riaprire la questione della schiavitù», disse il maestro schiavo. «Che io sia maledetto se diventiamo di nuovo schiavisti», disse un altro. Era un uomo grande, tendenzialmente grasso, con mascelle pesanti, occhi piccoli e pugni pieni di cicatrici che si


addicevano al maestro dei teppisti del Sa'kagé. «Quella conversshazione può aspettare. Non c'è bisogno che Blint sia qui per questo», disse Corbin Fishill. Voltò i suoi occhi dalle palpebre pesanti verso Blint. «Non hai ucciso stanotte». Lasciò l'affermazione sospesa, disadorna. Durzo lo guardò, rifiutando di raccogliere la provocazione. «Riessci ancora a farlo?». Le parole erano inutili con un uomo come Corbin Fishill. Parlava il linguaggio della carne. Durzo camminò verso di lui. Corbin non batté ciglio, non si scansò quando Durzo avanzò verso la piattaforma, sebbene parecchi dei Nove fossero palesemente nervosi. Sotto i pantaloni di velluto di Fishill, Blint poteva vedere la massa di muscoli. Corbin tirò un calcio al volto di Durzo, ma Durzo si era già spostato. Conficcò profondamente un ago nel polpaccio di Corbin e fece un passo indietro. Una campanella suonò e, un momento più tardi, Bernerd e Lefty fecero irruzione nella stanza. Blint incrociò le braccia e non fece nessun movimento per difendersi. Blint era alto, ma asciutto, tutto muscoli e tendini. Lefty caricò come un cavallo da guerra. Durzo tese entrambe le mani, rilassato, ma quando Lefty sbatté contro di lui, accadde l'impossibile. Invece di travolgere l'uomo più piccolo, Lefty perse istantaneamente lo slancio. Il suo volto si fermò per primo, quando il suo naso incontrò la mano aperta di Durzo. Il resto continuò ad avanzare. Il corpo si sollevò parallelo al terreno, poi si schiantò sul pavimento di pietra. «Ssstop!», gridò Corbin Fishill. Bernerd accorse e sbandò fermandosi di fronte a Durzo, e poi s'inginocchiò vicino a suo fratello. Lefty stava gemendo, il sangue che sgorgava dal naso andava a riempire la bocca di un topo inciso sul pavimento di roccia. Corbin trasse l'ago fuori dal suo polpaccio con una smorfia. «Che cosss'è?» «Vuoi sapere se posso ancora uccidere?». Durzo mise una piccola fiala davanti al teppista. «Se quell'ago fosse avvelenato, questo è l'antidoto. Ma se non lo è, l'antidoto ti ucciderebbe. Bevilo


oppure non farlo». «Bevilo, Corbin», disse Pon Dradin. Era la prima volta che lo Shinga parlava da quando Blint era entrato. «Sai, Blint, saresti un sicario più bravo se non sapessi di essere il migliore. Lo sei, ma prendi ancora ordini da me. La prossima volta che tocchi uno dei miei Nove ci saranno delle conseguenze. Adesso va' al diavolo». Il tunnel sembrava strano. Azoth era stato in altri tunnel prima e, anche se non era proprio a suo agio muovendosi a tentoni nell'oscurità nauseante, poteva farlo ancora. Questo tunnel era partito come qualsiasi altro: accidentato, tortuoso e certamente buio. Ma appena s'immergeva più profondamente nella terra, le pareti diventavano più dritte, il pavimento più liscio. Questo tunnel era importante. Ma era diverso, non strano. Ciò che era strano era un passo di fronte ad Azoth. Si rannicchiò sui calcagni, riposando, pensando. Non si sedette. Ci si siede soltanto quando sai che non c'è nulla da cui dover scappare via. Non riusciva a odorare niente di diverso, sebbene l'aria lì sotto fosse pesante e densa come polenta. Se strizzava gli occhi, pensava di poter vedere qualcosa, ma era quasi sicuro che dipendesse solo da quel gesto. Tese di nuovo la mano. L'aria era più fredda proprio lì? Poi fu sicuro di sentire l'aria spostarsi. Subito la paura lo attraversò. Blint era passato di là venti minuti prima. Non aveva portato una torcia. Azoth non ci aveva pensato allora. Adesso ricordava le storie. Un piccolo soffio di aria aspra s'infranse sulla sua guancia. Azoth si mise quasi a correre, ma non sapeva quale fosse il percorso più sicuro. Non aveva modo di difendersi. Il Pugno teneva tutte le armi. Un altro soffio sfiorò l'altra guancia. Odora. Come d'aglio? «Ci sono segreti in questo mondo, ragazzino», disse una voce. «Segreti come allarmi magici e l'identità dei Nove. Se fai un altro passo, troverai uno di questi segreti. Poi due bei teppisti con l'ordine di uccidere gli intrusi ti troveranno». «Mastro Blint?». Azoth perlustrava l'oscurità. «La prossima volta che segui un uomo, non essere così furtivo. Attiri l'attenzione».


Qualsiasi cosa significasse, non sembrava bella. «Mastro Blint?». Sentì in fondo al tunnel una risata che si allontanava. Azoth sobbalzò, sentendo la sua speranza svanire con l'affievolirsi della risata. Corse in fondo, nel buio. «Aspetta!». Non ci fu risposta. Azoth corse più velocemente. Inciampò in una pietra e cadde, sbucciandosi le ginocchia e le mani sul pavimento. «Mastro Blint, aspetti! Ho bisogno di lavorare come apprendista con lei. Mastro Blint, per favore!». La voce parlò proprio sopra di lui, sebbene, quando guardò, Azoth non riuscì a vedere nulla. «Non prendo apprendisti. Vai a casa, ragazzino». «Ma io sono diverso! Io farò qualsiasi cosa! Io ho i soldi!». Non ci fu risposta. Blint era andato via. Il silenzio faceva male, pulsava insieme ai tagli sulle ginocchia e i palmi di Azoth. Ma non ci si poteva fare nulla. Voleva piangere, ma piangere era roba da bambini. Azoth tornò indietro verso il territorio del Dragone Nero alle prime luci dell'alba. I Cunicoli si stavano scrollando di dosso il loro assopimento ubriaco. I fornai erano in piedi e gli apprendisti dei fabbri stavano iniziando ad avviare la fucina, ma i ratti delle gang, le prostitute, i teppisti e i ladruncoli erano andati a dormire e i ladri, i truffatori, la gente senza scrupoli e il resto di coloro che lavoravano alla luce del giorno erano ancora addormentati. Di solito, gli odori dei Cunicoli gli erano familiari. C'era l'odore penetrante dei cortili del bestiame sui più immediati odori dei rifiuti umani, che migravano attraverso ampie grondaie in ogni strada per andare a intorbidire ulteriormente il fiume Plith, la vegetazione imputridita dei bassifondi e le acque stagnanti del fiume lento, l'odore meno aspro dell'oceano quando soffiava una brezza fortunata, il fetore dei mendicanti appisolati che non si lavavano mai, che potevano attaccare un ratto senza nessuna ragione se non quella della loro ira verso il mondo. Per la prima volta per Azoth, piuttosto che casa, gli odori indicavano schifo. Rifiuto e disperazione erano i vapori che si sollevavano da ogni rovina fatiscente e da ogni ammasso di merda dei Cunicoli. Qui il mulino abbandonato, una volta usato per trebbiare il riso, non era solo un edificio vuoto dove la gang poteva dormire. Era un segno. I mulini sulla costa occidentale sarebbero stati saccheggiati da chiunque così disperato da affrontare tutti i teppisti che i


proprietari dei mulini avessero assunto. Era tutto immondizia e rifiuto e Azoth ne faceva parte. Quando giunse alla sede della gang, Azoth annuì alla vigilanza e scivolò dentro senza alcun tentativo di azione furtiva. Nella gang era normale che i bambini si alzassero la notte per pisciare, quindi nessuno avrebbe pensato che fosse stato fuori. Se avesse provato a intrufolarsi, avrebbe attirato l'attenzione. Forse "furtivo" significava quello. Sdraiandosi al suo solito posto vicino alla finestra, scivolò tra Bambola e Jarl. Era freddo lì, ma il pavimento era liscio e non c'erano molte schegge. Diede un colpetto di gomito al suo amico. «Jay-Oh, sai cosa significa "furtivo"?». Ma Jarl rotolò via, grugnendo. Azoth gli diede di nuovo un colpetto, ma Jarl non si mosse. Una notte lunga, credo. Come tutti i ratti delle gang, Azoth, Jarl e Bambola dormivano vicini l'un l'altro per il tepore. Di solito Bambola si metteva nel mezzo, perché era piccola e aveva più freddo, ma quella notte Jarl e Bambola non erano sdraiati l'uno vicino all'altra. Bambola si avvicinò ad Azoth e gli avvolse le braccia intorno al corpo, stringendolo stretto. Azoth fu contento di quel tepore. Una preoccupazione rosicchiava in fondo alla sua mente come un ratto, ma era troppo stanco. Si addormentò.


Capitolo 5 L’incubo iniziò quando Azoth si svegliò. «Buongiorno», disse Ratto. «Come sta la mia piccola merda di canale di scolo preferita?». Il godimento sul suo volto fece capire chiaramente ad Azoth che qualcosa non andava. Roth e Leporino stavano ai lati di Ratto, e parevano sul punto di scoppiare dall'eccitazione. Bambola era sparita. Jarl era sparito. Ja'laliel non si vedeva da nessuna parte. Sbattendo le palpebre verso la luce del sole che si riversava attraverso il tetto a pezzi della sede della gang, Azoth se ne stava in piedi e provava a orientarsi. Il resto della gang era sparito, o al lavoro o a frugare tra i rifiuti, o avevano solo deciso che quello era un buon momento per stare fuori. Quindi avevano visto Ratto entrare. Roth era vicino alla porta sul retro, e Leporino stava dietro Ratto, nel caso in cui Azoth avesse deciso di tentare la fuga attraverso la porta d'entrata o una finestra. «Dov'eri la scorsa notte?» «Dovevo pisciare». «Una pisciata lunga. Ti sei perso il divertimento». Quando Ratto parlava così, con una voce totalmente piatta, priva di qualunque turbamento, Azoth sentiva una paura troppo profonda per tremare. Conosceva la violenza. Aveva visto marinai assassinati, aveva visto prostitute con cicatrici fresche, un suo amico era morto per le botte di un venditore. La crudeltà girava in lungo e in largo nei Cunicoli, stringendo le mani alla povertà e alla rabbia. Ma lo sguardo spento negli occhi di Ratto ne faceva un mostro più di quanto non lo fosse Leporino. Leporino era nato senza parte di un labbro. Ratto era nato senza coscienza. «Cosa hai fatto?», chiese Azoth. «Roth?», Ratto fece un cenno con il mento al grande. Roth aprì la porta, disse «Che bravo ragazzo», come se parlasse a un cane e afferrò qualcosa. La trascinò dentro e Azoth vide che era Jarl. Le sue labbra erano spaccate, gli occhi entrambi neri e così gonfi che riusciva a malapena a vedere attraverso le fessure. Gli mancavano i denti e aveva del sangue incrostato sul volto. I capelli


erano stati tirati così forte che il cuoio capelluto sanguinava. Indossava un vestito. Azoth sentì caldo e un freddo formicolio sulla pelle, un afflusso di sangue sul viso. Non poteva mostrare a Ratto debolezza. Non poteva muoversi. Si voltò per non vomitare. Dietro di lui Jarl emise un piccolo mugolio. «Azo, per favore. Azo non voltarmi le spalle. Non volevo...». Ratto lo colpì sul volto. Jarl cadde a terra e non si mosse. «Jarl è mio adesso», disse Ratto. «Pensa che combatterà ogni notte e lo farà. Per un po'». Ratto sorrise. «Ma lo annienterò. Il tempo è dalla mia parte». «Io ti ucciderò. Lo giuro», disse Azoth. «Oh, sei l'apprendista di Mastro Blint, adesso?». Ratto sorrise quando Azoth guardò Jarl, sentendosi tradito. Jarl rivolse il viso a terra, scuoteva le spalle come se piangesse sommessamente. «Jarl ci ha detto tutto a tal proposito, tra Roth e Davi, mi pare. Ma sono confuso. Se Mastro Blint ti ha preso come apprendista, perché sei qui, Azo? Sei tornato per uccidermi?». Le lacrime di Jarl si calmarono e il ragazzo si girò, aggrappato alla speranza. Non c'era niente da dire. «Non mi prenderebbe», ammise Azoth. Jarl si accasciò. «Tutti sanno che non prende apprendisti, stupido», disse Ratto. «Quindi ecco l'accordo, Azo. Non so cosa hai fatto per lui, ma Ja'laliel mi ha ordinato di non toccarti e non lo farò. Ma prima o poi, questa sarà la mia gang». «Prima, penso», disse Roth. Sollevò le sopracciglia rivolto ad Azoth. «Ho grandi progetti per il Dragone Nero, Azo, e non ti permetterò di ostacolarmi», disse Ratto. «Cosa vuoi da me?». La voce di Azoth venne fuori debole e acuta. «Voglio che tu sia un eroe. Voglio che tutti quelli che non osano tenermi testa da soli guardino te e incomincino a sperare. E poi distruggerò tutto quello che hai fatto. Distruggerò tutto ciò che ami. Ti distruggerò completamente in modo che nessuno mai mi disobbedirà di nuovo. Quindi fai del tuo meglio, fai del tuo peggio,


non fare nulla. Vinco in ogni caso. Vinco sempre». Azoth non pagò il dovuto il giorno seguente. Sperò che Ratto lo colpisse. Solo una volta e sarebbe caduto dal piedistallo, sarebbe stato solo un altro ratto della gang. Ma Ratto non lo colpì. Si infuriò e imprecò, con gli occhi che sorridevano, e disse ad Azoth di portare il doppio la volta seguente. Naturalmente, Azoth non portò nulla. Si limitò a tendere una mano vuota, come se fosse pronto al peggio. Non importava. Ratto si infuriò, lo accusò di disobbedienza e non lo sfiorò con un dito. E così fu, ogni giorno. Gradualmente, Azoth tornò al lavoro e cominciò ad accumulare monete di rame da mettere nel sacco di Jarl. Furono giorni terribili: Ratto non permetteva a Jarl di parlare con Azoth e, dopo un po', Azoth pensò che Jarl non volesse nemmeno parlargli. Il Jarl che conosceva stava scomparendo lentamente. La situazione non migliorò neppure quando smisero di fargli indossare il vestito. Di notte era peggio. Ratto prendeva Jarl ogni notte quando il resto della gang fingeva di non sentire. Azoth e Bambola si stringevano l'un l'altra nel silenzio poi punteggiato da sommessi lamenti, Azoth si sdraiava di schiena per lunghe ore, tramando una minuziosa vendetta che non avrebbe mai messo in pratica. Abbandonò ogni prudenza, maledicendo direttamente Ratto, mettendo in dubbio ogni suo ordine e difendendo chiunque picchiasse. Ratto, di contro, imprecava, ma sempre con quel lieve sorriso negli occhi. I piccoli e i perdenti nella gang cominciarono a rimettersi ad Azoth e a guardarlo con occhi pieni di venerazione. Azoth poté sentire che la gang aveva raggiunto un punto critico il giorno in cui due grandi gli portarono il pranzo e si sedettero con lui sulla veranda. Fu una rivelazione. Non avrebbe mai creduto che qualcuno dei grandi l'avrebbe seguito. Perché avrebbero dovuto? Lui non era nulla. Fu allora che vide il suo errore. Non aveva fatto progetti per quando i grandi si sarebbero uniti a lui. Dall'altra parte del cortile, Ja'laliel sedeva, afflitto, tossendo sangue con aria disperata. Sono così stupido. Ratto aspettava questo. Aveva fatto in modo che Azoth diventasse un eroe. Gliel'aveva perfino detto. Non sarebbe stata una sommossa, ma un'epurazione. «Padre, per favore, non andare». Logan Gyre teneva il destriero


di suo padre, ignorando il freddo prima dell'alba e trattenendo le lacrime. «No, lascia», disse il duca Gyre a Wendel North, il suo maggiordomo, che stava dirigendo i domestici con cassepanche piene di vestiti del duca. «Ma voglio un migliaio di mantelli di lana da spedire entro una settimana. Utilizza i nostri fondi e non chiedere la restituzione. Non voglio dare al re il pretesto per dire di no». Strinse dietro la schiena le mani guantate. «Non so in che stato sono le scuderie delle guarnigioni, ma mi piacerebbe sapere da Havermere quanti cavalli possono mandare prima dell'inverno». «Già fatto, milord». Da ogni lato, i domestici andavano e venivano, caricando i carri che avrebbero viaggiato verso nord con provviste e rifornimenti. Un centinaio di cavalieri di Gyre stava facendo i preparativi dell'ultimo minuto, controllando le selle, i cavalli e le armi. I domestici che erano sul punto di lasciare le loro famiglie dicevano affrettati arrivederci. Il duca Gyre si girò verso Logan, e solo vedere suo padre con la cotta di maglia portò lacrime d'orgoglio e di paura negli occhi di Logan. «Figlio, hai dodici anni». «Posso combattere. Persino Mastro Vorden maneggio una spada bene quasi quanto i soldati».

ammette

che

«Logan, non è perché non credo nelle tue capacità che ti sto facendo restare. È perché ci credo. Il fatto è che tua madre ha bisogno di te qui più di quanto ne abbia io tra le montagne». «Ma io voglio venire con te». «E io vorrei non partire affatto. Questo non ha niente a che fare con ciò che vogliamo». «Jasin ha detto che Niner sta cercando di metterti in difficoltà. Ha detto che è un insulto per un duca ricevere una zona di comando così piccola». Non menzionò le altre cose che aveva detto Jasin. Logan non si considerava irascibile, ma nei tre mesi da quando re Davin era morto e Aleine Gunder aveva preso il titolo di Aleine IX - noto con condiscendenza come Niner -Logan si era ritrovato coinvolto in una mezza dozzina di combattimenti. «E cosa pensi, figliolo?»


«Penso che tu non abbia paura di nessuno». «Quindi Jasin ha detto che ho paura, non è vero? È per questo che ti sei fatto quei lividi sulle nocche?». Logan improvvisamente sorrise. Era alto come suo padre e, se ancora non aveva la mole di Regnus Gyre, il loro maestro delle guardie Ren Vorden diceva che era solo questione di tempo. Quando Logan combatteva con altri ragazzi, non perdeva. «Figliolo, non fare errori. Comandare la guarnigione a Screaming Winds è un'offesa, ma è meglio dell'esilio o della morte. Se resto, il re alla fine mi darà o l'uno o l'altra. Ogni estate, verrai a fare addestramento con i miei uomini, ma ho bisogno di te anche qui. Per metà anno sarai i miei occhi e orecchie a Cenaria. Tua madre...». S'interruppe e guardò oltre Logan. «Pensa che tuo padre sia uno sciocco», disse Catrinna Gyre, giungendo improvvisamente dietro di loro. Era nata in un'altra famiglia di duchi, i Graesin, e ne aveva ereditato gli occhi verdi, i lineamenti minuti e il carattere. Nonostante fosse presto, indossava uno splendido vestito di seta verde con i bordi di ermellino, i suoi capelli erano lucenti. «Regnus, se sali su quel cavallo, non voglio vederti mai più tornare». «Catrinna, non ricominceremo a parlarne». «Quello sciacallo ti scaglierà contro la mia famiglia, lo sai. Distruggerà te, distruggerà loro - vincerà in ogni caso». «Questa è la tua famiglia, Catrinna. E io ho preso la mia decisione». Nella voce del duca Gyre c'era una nota imperiosa che fece desiderare a Logan di rimpicciolire per non essere notato. «Quali delle tue meretrici stai portando con te?» «Non prendo nessuna delle cameriere, Catrinna, sebbene sia difficile sostituire alcune di loro. Le lascio qui in rispetto per il tuo...». «Quanto pensi che sia stupida? Troverai lì le tue sgualdrine». «Catrinna. Va' dentro. Adesso!». Lei obbedì e il duca Gyre la guardò andare. Parlò senza girarsi verso Logan. «Tua madre... ci sono cose che condividerò con te quando sarai più grande. Per adesso, mi aspetto che la onori, ma sarai lord Gyre quando me ne andrò». Gli occhi di Logan si fecero enormi.


Suo padre gli diede una pacca sulla spalla. «Ciò non significa che salterai le tue lezioni. Wendel ti insegnerà tutto quello che hai bisogno di sapere. Scommetto che ne capisce più di me su come dirigere le nostre terre. Mi aspettano quattro giorni di viaggio. Tu hai una mente sottile, figliolo, ed è per questo che devi restare. Questa città è un covo di vipere. Ci distruggerebbero. Tua madre ha intuito tutto questo e ciò è stato parte dei suoi guai. Sto rischiando con te, Logan. Speravo di non doverlo fare, ma tu sei l'unico pezzo che mi è rimasto da giocare. Sorprendili. Sii più furbo, migliore, più audace e più veloce di quanto chiunque si aspetti. Per me non è facile darti questa responsabilità, ma devo farlo. Conto su di te. Casa Gyre conta su di te. Tutti i nostri servitori e vassalli contano su di te e, forse, anche il regno stesso». Il duca Gyre oscillò sul suo enorme destriero bianco. «Ti voglio bene, figliolo. Ma non mi deludere».


Capitolo 6 L’oscurità era vicina e fredda come l'abbraccio di un morto. Azoth si accovacciò contro la parete della viuzza, sperando che il vento della notte coprisse il suono martellante del suo cuore. Il quinto grande che si era unito a lui aveva rubato un coltello dal deposito segreto di Ratto e Azoth strinse il metallo sottile così forte che si ferì la mano. Non c'era ancora alcun movimento nella viuzza. Azoth conficcò la lama nella sporcizia del vicolo e mise le mani sotto le ascelle per tenerle calde. Avrebbe potuto non succedere nulla per ore. Non importava. Stava rimanendo a corto di opportunità. Aveva perso troppo tempo nel mentre. Ratto non era stupido. Era crudele, ma aveva dei piani. Azoth no. Si era dibattuto nella paura per tre mesi. Quando avrebbe potuto pianificare. Il Pugno aveva dichiarato le sue intenzioni. Ciò rendeva il tutto abbastanza facile. Azoth sapeva parte di quello che stava organizzando; tutto quello che doveva fare era ricostruire il piano. Adesso, come pensava, poteva sentirsi tutt'uno con Ratto, calarsi nei suoi panni e nella sua testa. Un'epurazione non è abbastanza. Un'epurazione mi darà sicurezza per un paio d'anni. Altri capi delle gang hanno ucciso per mantenere il loro potere. Uccidere non mi renderà diverso. Azoth lavorò sull'idea. Ratto non aveva piccole ambizioni. Ratto aveva represso il suo livore per tre mesi. Perché avrebbe dovuto farlo per tre mesi? Distruzione. Ecco la conclusione a cui era giunto. Ratto l'avrebbe distrutto in un modo spettacolare. Avrebbe saziato la sua crudeltà e accresciuto il suo potere. Avrebbe fatto qualcosa di così orribile che Azoth sarebbe diventato una storia che i gruppi avrebbero raccontato. Avrebbe potuto persino non ucciderlo, e lasciarlo mutilato in qualche modo terrificante così che tutti quelli che incontravano Azoth avrebbero temuto Ratto di più. Ci fu un fruscio nella viuzza e Azoth s'irrigidì. Lentamente, molto lentamente tirò fuori il coltello. Il vicolo era stretto, gli edifici incurvati così vicini che un adulto poteva toccare entrambe le pareti contemporaneamente. Azoth l'aveva scelto per questa ragione. Non avrebbe lasciato scivolare dietro di lui la sua preda. Ma adesso le


pareti sembravano malevole, tendevano dita affamate l'una verso l'altra, chiudendo fuori le stelle mentre tentavano di afferrarlo. Il vento mormorava sui tetti, raccontando storie di omicidio. Azoth sentì di nuovo il fruscio e si rilassò. Un vecchio topo ferito emerse da sotto un mucchio di assi putrescenti e annusò. Azoth rimase immobile quando il topo avanzò ondeggiando verso di lui. Gli annusò i piedi nudi, diede loro un colpetto con il naso bagnato e, non sentendo pericolo, si mosse in avanti per nutrirsi. Proprio quando il topo si mosse per mordere, Azoth gli affondò la lama dietro l'orecchio e nel terreno sottostante. Si scosse, ma non squittì. Lui ritirò il ferro sottile, soddisfatto della propria circospezione. Controllò di nuovo la viuzza. Ancora niente. Quindi qual è il mio punto debole? Cosa farei per distruggere me, se fossi Ratto? Qualcosa gli solleticò il collo e Azoth la spazzò via. Maledetti insetti. Insetti? Si gela qui. La sua mano giunse dal collo calda e appiccicosa. Azoth si voltò e attaccò, ma la lama gli sfuggì di mano roteando via, poiché qualcosa lo aveva colpito al polso. Durzo Blint si accovacciò sui calcagni, a meno di trenta centimetri di distanza. Non parlava. Lo fissava soltanto, con i suoi occhi più freddi della notte. Ci fu una lunga pausa mentre si guardavano l'un l'altro senza dire neanche una parola. «Ha visto il topo», disse Azoth. Un sopracciglio sollevato. «Mi avete tagliato dove io ho tagliato lui. Mi avete dimostrato che siete molto meglio di me come io sono meglio del topo». Un accenno di sorriso. «Sei uno strano piccolo ratto. Così furbo, così stupido». Azoth guardò il coltello - ora magicamente nella mano di Durzo e provò vergogna. Era stupido. Cosa aveva pensato? Aveva intenzione di minacciare un sicario? Ma disse: «Ho intenzione di diventare il vostro apprendista». La mano aperta di Blint gli sbatté sul viso mandandolo a gambe all'aria sulla parete. Azoth si graffiò il volto contro la roccia e cadde a terra pesantemente.


Quando si voltò, Blint era su di lui. «Dammi una ragione per cui non dovrei ucciderti», disse Blint. Bambola. Lei non era solo la risposta alla domanda di Blint, lei era il punto debole di Azoth. Lei era dove Ratto avrebbe colpito. Un'ondata di nausea s'impadronì di Azoth. Prima Jarl e adesso Bambola. «Dovreste», disse Azoth. Blint sollevò di nuovo un sopracciglio. «Siete il miglior sicario della città, ma non siete l'unico. E se non volete che io sia il vostro apprendista e non mi uccidete, farò addestramento con Hu Gibbet o Scarred Wrable. Passerò la mia vita ad allenarmi in attesa della mia occasione con voi. Aspetterò fino a quando penserete che abbia dimenticato questo giorno. Aspetterò fino a quando penserete che era solo la minaccia di uno stupido ratto della gang. Quando sarò un maestro, vi nasconderete nell'ombra per un po'. Ma dopo averlo fatto per una dozzina di volte e aver visto che non sono lì, non lo farete più, e allora comparirò. Non importa se in quel momento mi ucciderete. Do la mia vita per la vostra». Gli occhi di Durzo si mossero a malapena per assumere un'espressione da pericolosamente divertita a semplicemente pericolosa. Ma Azoth non li vedeva neppure attraverso le lacrime che colmavano i suoi occhi. Vide solo lo sguardo vuoto negli occhi di Jarl e immaginò di vederlo negli occhi di Bambola. Immaginò le sue urla se Ratto fosse arrivato e l'avesse presa ogni notte. Avrebbe urlato silenziosamente per le prime settimane, forse lottato - morso e graffiato per un po' -, e poi non avrebbe urlato più, non avrebbe lottato affatto. Ci sarebbe stato solo il grugnito e i suoni della carne e il piacere di Ratto. Proprio come con Jarl. «La tua vita è così vuota, ragazzo?». Lo sarà se dici di no. «Voglio essere come voi». «Nessuno vuole essere come me». Blint estrasse un'enorme spada nera e con il taglio sfiorò la gola di Azoth. In quel momento ad Azoth non importava che la lama bevesse il sangue della sua vita. La morte sarebbe stata più piacevole che guardare Bambola sparire davanti ai suoi occhi. «Ti piace far male alla gente?» «No, signore».


«Mai ucciso qualcuno?» «No». «Allora perché mi stai facendo perdere tempo?». Cosa non andava in lui? Intendeva veramente quello? Non poteva essere. «Ho sentito che non vi piace. Che non pensate sia una cosa buona», disse Azoth. «Chi te l'ha detto?» «Momma K. Ha detto che c'è differenza tra voi e alcuni altri». Blint aggrottò le sopracciglia. Tirò fuori uno spicchio d'aglio da un marsupio e se lo gettò in bocca. Rinfoderò la spada masticando. «Va bene, ragazzo. Vuoi diventare ricco?». Azoth annuì. «Sei svelto. Ma riesci a capire a cosa stanno pensando gli obiettivi che dovrai colpire e puoi ricordare cinquanta cose in una volta? Hai mani buone?». Annuì, annuì, annuì. «Diventa una giocatore d'azzardo». Durzo rise. Azoth no. Guardava i suoi piedi. «Non voglio più aver paura». «Ja'laliel ti picchia?» «Ja'laliel è niente». «Quindi chi è?», chiese Blint. «Il nostro Pugno, Ratto». Perché era così difficile dire il suo nome? «Ti picchia?» «A meno che tu... a meno che tu non fai delle cose con lui». Suonò debole e Blint non disse nulla, quindi Azoth aggiunse: «Non permetterò a nessuno di picchiarmi di nuovo. Mai più». Blint continuò a guardare dietro Azoth, dandogli il tempo di trattenere le lacrime. La luna piena immergeva la città in una luce dorata. «La vecchia puttana può essere bellissima», disse. «Nonostante tutto». Azoth seguì lo sguardo fisso di Blint, ma non c'era nessun altro in vista. La nebbia argentata si alzava dal caldo letame dei cortili del bestiame e avvolgeva i vecchi acquedotti rotti. Nell'oscurità, Azoth non riusciva a vedere l'Uomo Sanguinante di recente scarabocchiato sul Dragone Nero della sua gang, ma sapeva che era lì. La sua gang stava perdendo continuamente territorio da quando Ja'laliel si era ammalato.


«Signore?», disse Azoth. «Questa città non ha cultura, ma cultura di strada. Gli edifici sono di mattoni in una strada, di intonaco e argilla nella successiva e di bambù in un'altra ancora. Titoli alitaeriani, vestiti callaeani, musiche di arpe di Sethi e di lire di Lodricari - le dannate risaie rubate a Ceura. Ma finché non la tocchi o non la guardi troppo da vicino, a volte è bellissima». Azoth pensò di aver capito. Si doveva essere prudenti con quello che si toccava e si calpestava nei Cunicoli. Sulle strade c'erano schizzi di vomito e di altri fluidi corporei, e i fuochi alimentati da sterco e i vapori unti che salivano dai tini di sego costantemente bollenti coprivano tutto con una lucentezza grassa e fuligginosa. Ma non aveva risposta. Non era neanche sicuro che Blint stesse parlando con lui. «Sei vicino, ragazzo. Ma non prendo mai apprendisti e non prenderò te». Blint fece una pausa facendo oziosamente girare la lama da dito a dito. «A meno che tu non faccia qualcosa che non puoi fare». La speranza esplose in un impeto di vita nel petto di Azoth per la prima volta dopo mesi. «Farò qualsiasi cosa», disse. «Devi farlo da solo. Nessun altro deve saperlo. Devi elaborare come, quando e dove. Tutto da solo». «Cosa devo fare?», chiese Azoth. Riusciva a sentire gli Angeli della Notte arrotolare le dita attorno al suo stomaco. Come sapeva ciò che Blint era sul punto di dire? Blint prese il topo morto e lo gettò ad Azoth. «Proprio questo. Uccidi il tuo Ratto e portami la prova. Hai una settimana».


Capitolo 7 Solon Tofusin portò il ronzino a Sidlin Way tra le residenze sfarzose e ammassate delle grandi famiglie di Cenaria. Molte case avevano meno di una decina d'anni. Altre erano più vecchie, ma erano state risistemate di recente. Gli edifici lungo la strada erano qualitativamente differenti dal resto dell'architettura cenariana. Questi erano stati fatti da coloro che speravano che i loro soldi potessero comprare la cultura. Erano tutti vistosi, nel tentativo di rivaleggiare con quelli dei vicini con il loro design esotico: alcuni esprimevano le fantasie dei costruttori delle guglie di Ladeshian, altri erano cupole del piacere dei Friaki o più accurate e articolate regge alitaeriane o imitazioni in scala perfetta dei famosi palazzi estivi ceuriani. C'era perfino quello che Solon pensava di aver riconosciuto da un dipinto come il tempio a bulbo degli Ymmuri, completo di bandiere della preghiera. Denaro di schiavi, pensò. Non era la schiavitù a sconvolgerlo. Sulla sua isola la schiavitù era cosa comune. Ma non come era stato lì. Queste residenze erano state costruite su scontri tra combattenti e venditori di spazi per bambini. Era fuori dal suo percorso, ma aveva camminato nei Cunicoli per vedere la metà silenziosa della sua nuova città. Lo squallore di lì rendeva tutta questa ricchezza oscena. Era stanco. Sebbene non fosse alto, era grosso. Grosso lo stomaco e, grazie a Dio, ancora più grosso il petto e le spalle. Il ronzino era un buon cavallo, ma non era un destriero e doveva farlo camminare tanto spesso quanto lo cavalcava. Le vaste tenute gli si aprivano davanti, differenziate dalle altre non tanto per la dimensione degli edifici quanto per la quantità di terreno dentro le mura. Lì dove le residenze erano ammassate fianco a fianco, le tenute si estendevano disordinatamente. Le guardie presiedevano recinzioni di solido legno piuttosto che recinti intrecciati - recinzioni costruite tempo prima per difesa, non per decorazione. La recinzione della prima tenuta sosteneva la trota di Jadwin intarsiata in una lamina d'oro. Attraverso una delle porte, vide un sontuoso giardino riempito di statue, alcune in marmo, alcune ricoperte di oro battuto. Non c'è da stupirsi che abbiano una dozzina di guardie. Tutte le guardie erano professioniste e di poco


lontane dall'ideale di bellezza, il che dava credibilità alle dicerie sulla duchessa. Solon fu più che felice di oltrepassare la tenuta di Jadwin. Era un bell'uomo con la pelle olivastra, gli occhi neri e i capelli ancora neri come una notte inaccessibile alle ombre grigie dell'alba. Condividere una casa con una vorace duchessa il cui marito partiva in frequenti e lunghe missioni era un guaio di cui non aveva bisogno. Non che non ne troverò altri dove sto andando. Dorian, amico mio, spero sia stato un colpo di genio. Non voleva considerare l'altra possibilità. «Sono Solon Tofusin. Sono qui per vedere lord Gyre», disse Solon quando arrivò di fronte all'entrata della tenuta di Gyre. «Il duca?», chiese la guardia. Spinse indietro l'elmo e si grattò la fronte. È un sempliciotto. «Sì, il duca Gyre». Parlò lentamente e con più enfasi di quanta ne fosse necessaria, ma era stanco. «È un vero peccato», disse la guardia. Solon aspettò, ma l'uomo non entrò nei particolari. Non un sempliciotto, un idiota. «Lord Gyre è andato via?» «Naaaa». Quindi ecco cos'è. Avrei dovuto capirlo dai suoi capelli rossi. Solon disse: «So che dopo millenni di assalti, i ceuriani più furbi si sono trasferiti nell'entroterra, lasciando i vostri antenati sulla costa, e comprendo che quando i pirati di Seth hanno assalito il vostro villaggio hanno portato via tutte le donne decenti - lasciando di nuovo i vostri antenati -, quindi non è colpa vostra se siete sia stupidi che brutti. Ma potresti tentare di spiegarmi come lord Gyre è sia andato via che rimasto qui? Puoi usare parole semplici». In modo perverso, l'uomo sembrava soddisfatto. «Nessun segno sulla tua pelle, nessun anello sul tuo volto, non parli neanche come un pesce. E sei anche troppo grasso per essere un pesce. Fammi indovinare, ti hanno offerto al mare ma gli dei marini non ti avrebbero preso e quando sei finito sulla spiaggia, sei stato allevato da una troll che ti ha preso per uno della sua specie». «Era cieca», disse Solon e, quando l'uomo rise, decise che gli piaceva. «Il duca Gyre è partito stamattina. Non tornerà», disse la guardia.


«Non tornerà? Intendi, per sempre?» «Non sta a me parlarne. Ma no, non per sempre, se va come credo. É andato a comandare la guarnigione a Screaming Winds». «Ma hai detto che lord Gyre non è andato via», disse Solon. «Il duca ha nominato suo figlio lord Gyre fino al suo ritorno». «Che non avverrà mai». «Sei svelto per essere un pesce. Suo figlio Logan è lord Gyre». Male. Solon non riusciva a ricordare se Dorian aveva detto "duca" Gyre o "lord" Gyre. Solon non aveva neanche considerato che ci potessero essere due capi della Casa Gyre. Se la profezia era sul duca Gyre, doveva montare subito a cavallo. Ma se era su suo figlio, Solon avrebbe lasciato il suo incarico proprio nel momento in cui aveva più bisogno di lui. «Potrei parlare con lord Gyre?» «Sai usare quell'arma?», chiese la guardia. «Se no, io suggerirei di nasconderla». «Scusami?» «Non dire che non ti ho avvertito. Vieni con me». L'uomo chiamò un'altra guardia in cima alle mura, che giunse a sorvegliare la recinzione mentre il ceurano conduceva Solon nella tenuta. Uno stalliere prese il ronzino e Solon tenne la spada. Non poté fare a meno di restare impressionato. La tenuta Gyre aveva una stabilità, la deliberata serietà di una antica famiglia. L'acanto cresceva all'interno delle mura e fuori, su un terreno rosso che Solon sapeva essere stato portato lì proprio per quello scopo. Le piante spinose non erano state scelte solo per tenere i mendicanti o i ladri lontani dalle mura, si ricollegavano anche alla nobiltà alitaeriana. La stessa residenza era scoraggiante, tutta pietra pesante e vasti archi e porte spesse che potevano resistere a una macchina d'assedio. L'unico compromesso che la bellezza aveva fatto con la forza erano le rose rosse rampicanti che incorniciavano ogni porta e ogni finestra al pian terreno. Sullo sfondo di pietra nera e finestre con sbarre di ferro, la loro perfetta tinta rossa era impressionante. Solon non prestò attenzione al tintinnio delle armi finché la guardia non oltrepassò l'entrata della residenza e si diresse verso il retro dell'edificio. Qui, sullo sfondo di una vista che, attraverso il


Plith, dava sul castello di Cenaria, parecchie guardie stavano guardando due uomini, infagottati nell'armatura di addestramento, che si affrontavano. L'uomo più piccolo si ritraeva, indietreggiando quando i colpi dell'uomo più grosso colpivano il suo scudo con un rumore sordo. L'uomo più piccolo inciampò e il suo avversario gli si precipitò addosso come un toro, abbattendolo con lo scudo come un montone. L'uomo sollevò la spada, ma il colpo successivo la fece volare via e quello dopo ancora fece suonare il suo elmo come una campana. Logan Gyre si strappò via l'elmo e rise, aiutando la guardia a rimettersi in piedi. Il cuore di Solon sprofondò. Questo era lord Gyre? Un bambino in un corpo gigante, un lattante grasso anche in viso. Non poteva avere più di quattordici anni, forse meno. Solon immaginò Dorian che rideva. Sapeva che non gli piacevano i bambini. La guardia ceuriana fece un passo in avanti e parlò a lord Gyre. «Salve», disse il lord, voltandosi verso Solon. «Marcus mi ha detto che credete di essere uno spadaccino. È vero?». Solon guardò il Ceuriano che gli rispose con un sorriso compiaciuto. Il suo nome è Marcus? Persino i nomi in questo paese erano un pasticcio. Con poca considerazione per le origini della gente, i nomi alitaeriani come Marcus o Lucienne si mescolavano liberamente con nomi lodricari come Rodo o Daydra, nomi ceuriani come Hideo o Shizumi e normali nomi cenariani come Aleine o Felene. Tra i pochi nomi che la gente non avrebbe mai dato ai propri figli, c'erano quelli degli schiavi comuni nei Cunicoli, come Cicatrice o Leporino. «Lo sono, lord Gyre. Ma speravo di scambiare con voi qualche parola, non colpi». Se parto adesso, io e la mia vecchia giumenta possiamo arrivare alla guarnigione in sei, forse sette giorni. «Parleremo, allora - dopo l'incontro. Marcus, procuragli un'armatura da addestramento». L'uomo sembrò lieto di farlo e Solon notò che le guardie amavano questo giovane lord come se fosse figlio loro. E ridevano troppo facilmente e lo accontentavano. Era diventato improvvisamente il Gyre e gli uomini erano ancora ipnotizzati dalla novità dell'idea. «Non ne ho bisogno», disse Solon. Il ridacchiare finì e gli uomini lo guardarono. «Volete battervi senza armatura?», chiese Logan.


«Non voglio battermi affatto, ma se è la vostra volontà, acconsentirò - ma non combatterò con una spada da addestramento». L'uomo gongolò al pensiero di vedere questo basso Sethi combattere contro il loro gigante, senza armatura. Solo Marcus e pochi altri sembravano preoccupati. Con la pesante armatura che indossava Logan, il rischio di essere colpito era minimo, persino con una spada tagliente. Ma il pericolo c'era. Nei suoi occhi, Solon vide che anche Logan lo sapeva. Improvvisamente pensò che non avrebbe dovuto essere così sfacciato con qualcuno di cui non sapeva nulla, qualcuno che poteva ben desiderare il suo male. Logan guardò di nuovo la corporatura tarchiata di Solon. «Milord», disse Marcus «forse sarebbe meglio se...». «Siamo d'accordo», disse Logan a Solon. Indossò l'elmo e bloccò la visiera. Liberò la spada e disse: «Sono pronto quando lo siete voi». Prima che Logan potesse reagire, Solon conficcò le dita nella visiera del ragazzo e afferrò la protezione nasale. Tirò Logan in avanti e lo girò. Il ragazzo sbatté al suolo con un grugnito. Solon estrasse un coltello dalla cintura di Logan e lo puntò all'occhio del ragazzo, il suo ginocchio era appoggiato al lato dell'elmetto di Logan, per mantenerlo fermo. «Vi arrendete?», chiese Solon. I respiri del ragazzo erano concitati. «Mi arrendo». Solon lo liberò e si alzò, spazzolandosi i pantaloni per togliere la polvere. Non offrì a lord Gyre il suo aiuto per alzarsi. Gli uomini stavano in silenzio. Parecchi avevano estratto le spade, ma nessuno avanzò. Era ovvio che se Solon avesse voluto uccidere Logan, l'avrebbe fatto prima. Senza dubbio stavano pensando alla reazione del duca Gyre se fosse successa una cosa del genere. «Siete un ragazzo stupido, lord Gyre», disse Solon. «Un buffone che si comporta così davanti a uomini a cui potreste un giorno dover chiedere di morire per voi». Ha detto duca Gyre, di certo Dorian ha detto duca Gyre. Ma mi ha mandato qui. Sicuramente mi avrebbe mandato direttamente alla guarnigione se si fosse riferito al duca. La profezia non era su di me. Dorian non avrebbe potuto sapere che sarei stato assalito, che sarei arrivato in città così tardi. No?


Logan si tolse l'elmo; aveva il viso rosso, ma non permise all'imbarazzo di trasformarsi in rabbia. Disse: «Io, io me lo merito. E ho meritato quello che mi avete appena fatto. O peggio. Le mie scuse. È un misero ospite chi assale i suoi visitatori». «Sapete che perdono di proposito, vero?». Logan sembrava prostrato. Gettò uno sguardo all'uomo contro cui si stava battendo quando era arrivato Solon, e si fissò i piedi. Poi, come facendo uno sforzo di volontà, sollevò gli occhi verso quelli di Solon. «Vedo che dite il vero. Anche se saperlo mi disonora, vi ringrazio». Adesso i suoi uomini sembravano vergognarsi. Lo avevano lasciato vincere perché lo amavano e ora avevano fatto vergognare il loro lord. Non erano solo addolorati, erano infelici. Come può questo ragazzo ottenere una tale lealtà? È solo la lealtà verso suo padre? Guardando Logan rivolgersi a ognuno degli uomini, a turno - fissandoli affinché ciascuno incontrasse il suo sguardo e poi lo distogliesse -, Solon ne dubitava. Logan lasciò che il silenzio addolorato si assestasse e crescesse. «Fra sei mesi», disse Logan, rivolgendosi ai suoi uomini, «presterò servizio nella guarnigione di mio padre. Non sarò al sicuro al castello. Combatterò, così come molti di voi. Ma dal momento che pensate che combattere sia un divertimento, molto bene. Vi divertirete combattendo fino a mezzanotte. Tutti voi. Domani inizieremo l'addestramento. E mi aspetto che siate qui un'ora prima dell'alba. Chiaro?» «Sì, signore!». Logan si voltò verso Solon. «Scusate per questo, Mastro Tofusin. Per tutto questo. Per favore chiamatemi Logan. Resterete per cena, di certo, ma posso anche far preparare ai servitori una stanza per voi?» «Sì», disse Solon. «Penso che lo gradirei».


Capitolo 8 Ogni volta che Vurdmeister Neph Dada incontrava Ratto era in un posto diverso. Camere in locande, rimesse di barche, panifici, parchi nella parte orientale, e viuzze cieche nei Cunicoli. Da quando Neph aveva capito che Ratto aveva paura del buio, si assicurava che s'incontrassero sempre di notte. Quella notte Neph guardò Ratto e le sue guardie del corpo entrare nel minuscolo, vecchio, sovraffollato cimitero. Non era così buio come Neph aveva sperato; le taverne, le bische e i bordelli erano ammassati a poco più di venti metri di distanza. Ratto non mandò subito via le guardie del corpo. Come molte zone dei Cunicoli, il cimitero era a circa trenta centimetri sul livello dell'acqua. I Conigli, com'erano chiamati i nativi dei Cunicoli, seppellivano i loro morti direttamente nel fango. Se avevano denaro, erigevano sarcofagi sul terreno, ma alcuni immigrati ignoranti avevano seppellito i morti in bare, dopo questa o quella rissa, anni prima, e il terreno si era gonfiato perché le bare lottavano per galleggiare in superficie. Parecchie si erano rotte e aperte, e i loro contenuti erano stati divorati da cani selvaggi. Ratto e le sue guardie del corpo sembravano annichiliti dalla paura. «Andiamo avanti», disse alla fine Ratto ai suoi grandi, raccogliendo con nonchalance un teschio e lanciandolo a uno di loro. Il ragazzo fece velocemente un passo indietro e il teschio, fragile per l'età o per la malattia, s'infranse su una pietra. «Ciao, ragazzo», stridette Neph nell'orecchio di Ratto. Ratto sussultò e Neph mostrò il suo sorriso sdentato e i suoi lunghi, radi capelli bianchi che scendevano in una sporca cascata sulle sue spalle. Neph era così vicino che il ragazzo fece un passo indietro. «Cosa vuoi? Perché sono qui?», chiese Ratto. «Ah, petulanza e filosofia, tutto in uno». Neph si trascinò più vicino. Era cresciuto a Lodricar, a est di Khalidor. I Lodricari pensavano che gli uomini che si allontanavano tanto da non riuscire a odorarne il respiro stavano nascondendo qualcosa. I mercanti di Cenaria che trattavano con i Lodricari se ne lamentavano continuamente, ma avevano cura di restare abbastanza vicini quando erano in gioco le monete dei Lodricari. Neph tuttavia non stava vicino per ragioni culturali. Non viveva più


a Lodricar da mezzo secolo. Stava vicino perché gli piaceva vedere il disagio di Ratto. «Ah!», disse Neph, esalando una folata di aria marcia sul volto di Ratto. «Cosa?», disse Ratto, provando a non indietreggiare. «Non ho ancora perso le speranze con te, splendido uomo stupido. A volte riesci a imparare malgrado te stesso. Ma non è per questo che sono qui. E neanche tu. I tuoi nemici sono schierati, ma non ancora organizzati». «Come lo sai?» «So più di quanto pensi, Ratto Lardoso». Neph rise di nuovo e la saliva volò sul volto di Ratto. A Neph sembrò che Ratto stesse per colpirlo. C'era una ragione se era diventato il primo Pugno. Ma di certo non aveva mai picchiato Neph. Il vecchio sapeva di sembrare gracile, ma un Vurdmeister aveva altre difese. «Sai quanti ragazzi ha generato tuo padre?», chiese Neph. Ratto si guardò intorno come se Neph non avesse già controllato che non ci fosse nessuno a spiarli. Il ragazzo era disperatamente stupido. Stupido, ma capace di astuzia e del tutto spietato. Inoltre, Neph non aveva molte scelte. Quando era arrivato a Cenaria, gli erano stati affidati quattro ragazzi. Quello più promettente aveva mangiato della carne cattiva nel primo anno, ed era morto prima che Neph si accorgesse che era malato. Quella settimana il secondo era stato ucciso in una lotta per il territorio tra gang. Quindi a Neph rimanevano solo due ragazzi. «Sua Santità ha generato centotrentadue ragazzi l'ultima volta che ho contato. Gran parte di loro mancavano del Talento, e furono selezionati e uccisi. Tu sei uno dei quarantatré che sono il suo seme. Te l'ho detto prima. Quello che non ti ho detto è che a ognuno di voi è stato dato un compito, una prova che dimostri a vostro padre la vostra utilità. Se la superi, un giorno potresti diventare un Re Divino tu stesso. Riesci a indovinare quale sia il tuo compito?». Gli occhietti di Ratto brillarono in preda a visioni di opulento splendore. Neph gli diede uno schiaffo. «Il tuo compito, ragazzo». Ratto si sfregò la guancia, tremando di rabbia. «Diventare Shinga», disse pacatamente. Bene, il ragazzo aveva aspirazioni più alte di quanto Neph


avesse ipotizzato. Buono. «Sua Santità ha dichiarato che Cenaria cadrà, come cadranno tutte le terre del Sud. Il Sa'kagé è l'unico vero potere a Cenaria, quindi, sì, diventerai Shinga. Poi darai a tuo padre Cenaria e tutto quello che contiene - o, più probabilmente, fallirai e morirai e lo farà uno dei tuoi fratelli». «Ci sono altri in città?», chiese Ratto. «Tuo padre è un dio, ma i suoi strumenti sono uomini, pertanto falliscono. Sua Santità pianifica di conseguenza. Adesso mio piccolo in-attesa-di-fallimento, qual è il tuo brillante piano da mettere in pratica contro Azoth?». La rabbia montò negli occhi di Ratto ancora una volta, ma lui la controllò. Una parola di Neph, e Ratto sarebbe stato un cadavere in più che galleggiava nel Plith al mattino, e lo sapevano entrambi. In verità, Neph lo stava testando. La crudeltà era la più grande risorsa di Ratto - Neph aveva visto la sua sete di sangue intimorire ragazzi più grandi che avrebbero potuto ucciderlo -, ma era priva di valore se non riusciva a controllarla. Ratto disse: «Ucciderò Azoth. Lo farò sanguinare come un...». «Ciò che non puoi fare è ucciderlo. Se lo fai, sarà dimenticato; un altro prenderà il suo posto. Deve vivere sfigurato, in modo che tutto il mondo possa vederlo». «Lo batterò davanti a tutti. Gli romperò le mani e...». «Che succede se le sue lucertole accorrono a difenderlo?» «Loro, loro non lo farebbero. Hanno troppa paura». «Diversamente da altri ragazzi che conosco», disse Neph, «Azoth non è stupido. Sapeva cosa avrebbe significato portare dalla sua parte i grandi. Potrebbe persino averlo progettato per tutto questo tempo. La prima cosa che si aspetterà è che tu ti spaventi e provi a batterlo. E quindi avrà un piano per questa eventualità». Neph guardava Ratto mentre realizzava che avrebbe veramente potuto perdere il controllo della gang. Se perdeva la gang, avrebbe perso la vita. «Ma tu hai un piano», disse Ratto. «Un modo in cui posso distruggerlo, non è vero?» «E potrei persino condividerlo», disse Neph. Stava arrivando. Azoth riusciva a sentirlo, dal momento che era


sdraiato sul pavimento, circondato dalle sue lucertole, dalla sua gang. Sua. Quindici piccoli e cinque grandi. Metà dei piccoli del Dragone Nero e un quarto dei grandi erano suoi, adesso. Dormivano in pace intorno a lui, forse persino Badger, che si supponeva facesse solo finta di dormire. Azoth non dormiva da quattro giorni. La notte che era tornato a casa dopo aver parlato con Blint, e tutte le notti seguenti, era rimasto sveglio, tramando, dubitando, eccitato all'idea di una vita senza Ratto. E la luce nascente del giorno aveva sciolto i suoi piani con la nebbia. Aveva chiamato quelli che stavano con lui "lucertole" per gioco - di certo non erano draghi -, ma i bambini avevano preso il nome con orgoglio, sordi alla disperazione dell'etichetta. Durante il giorno, agiva, dava ordini, addestrava le sue patetiche lucertole, faceva qualsiasi cosa per tenere la mente lontana dal pensiero di uccidere Ratto. Quanto avrebbe aspettato Ratto? Il tempo per un'epurazione era adesso. Tutti aspettavano di vedere cosa avrebbe fatto. Se non agiva, e presto, i suoi fedeli avrebbero iniziato a dubitare di lui e avrebbe perso la gang in un istante. Azoth aveva persino ordinato a tre dei piccoli, di cui si fidava di più, di sorvegliare Bambola in ogni momento. Poi aveva dubitato di se stesso. Non era un buon uso delle sue risorse. Aveva bisogno di quei piccoli per avere informazioni: ascoltare gli altri della gang, cercare gli altri gruppi per vedere di unirsi a loro. Inoltre, cosa avrebbero potuto fare tre piccoli contro tutti i grandi di Ratto? I bambini che avevano rispettivamente otto, dieci e undici anni non erano in grado di fermare quelli di Ratto di quindici, sedici anni. Aveva finito per assegnare alla sua protezione due dei grandi, che si erano uniti a lui per primi, e l'aveva tenuta vicina durante ogni ora di veglia. Stava perdendo colpi, però. Le notti senza sonno si facevano sentire. La sua mente era un caos. Era solo questione di tempo prima che commettesse uno stupido errore. E tutto questo perché non aveva il fegato per uccidere Ratto. Poteva farlo quella notte. Sarebbe stato facile, veramente. Ratto era andato via prima di mezzanotte con due grandi, ma al ritorno, si sarebbe addormentato all'istante. Il bastardo non aveva mai problemi a dormire. Azoth aveva la lama. Aveva persino un vero coltello che uno dei grandi aveva rubato. Tutto quello che doveva fare era andare verso Ratto e pugnalarlo. Ovunque nello stomaco avrebbe funzionato. Anche se i draghi di Ratto fossero stati


abbastanza leali da portarlo da un guaritore, avrebbero certamente preso tutto il suo denaro. Quale guaritore avrebbe lavorato gratis per un ratto della gang? Tutto quello che Azoth doveva fare era aspettare cinque minuti dopo che Ratto fosse rientrato, poi alzarsi per andare a pisciare. Nel tragitto di ritorno l'avrebbe ucciso. Era l'unico modo, Bambola sarebbe stata per sempre al sicuro. Sapeva cosa significasse diventare un sicario. Sarebbe cambiato tutto. I sicari erano coltelli nel buio. Azoth avrebbe imparato a lottare, a uccidere. Non avrebbe soltanto imparato, l'avrebbe fatto. Blint si sarebbe aspettato che uccidesse. La cosa gli dava fastidio come uno sguardo di Bambola, che non contava veramente fino a quando non incontrava i suoi occhi. Ma non pensava molto ai particolari dell'omicidio. Restava aggrappato a quell'immagine di Durzo Blint che rideva della gang intera. Durzo Blint che rideva di Ratto e del suo piccolo esercito. Durzo Blint, impavido. Durzo Blint, come Azoth avrebbe potuto essere. Blint l'avrebbe portato via. Azoth non avrebbe condotto il Dragone Nero. Non avrebbe neanche condotto le sue lucertole. Ma non voleva farlo. Non voleva che i piccoli lo guardassero come se fosse il loro padre, che i grandi che lo sovrastavano vedessero in lui uno che sapeva quello che stava facendo. Non riusciva nemmeno a tenersi al sicuro. Questa era tutta una montatura. Lui era un impostore. Lui l'aveva ideata e loro non se ne accorgevano nemmeno. Il suono inconfondibile della porta d'ingresso spostata da una parte annunciò il ritorno di Ratto. Azoth era così spaventato che avrebbe pianto se non avesse detto a Badger di restare sveglio. Non poteva piangere davanti ai suoi grandi. Era sicuro che Ratto sarebbe andato da lui, che avrebbe ordinato ai grandi di sollevarlo e portarlo via verso qualche orribile punizione che avrebbe fatto sembrare quella di Jarl più leggera. Ma, come al solito, Ratto si fece largo nel suo harem, si sdraiò e si addormentò dopo pochi secondi. Un sicario non avrebbe pianto. Azoth provò a calmare il respiro, provò ad ascoltare per sentire se pure le guardie del corpo di Ratto erano addormentate. I sicari non avevano paura. Erano assassini. Gli altri avevano paura di loro. Tutti nel Sa'kagé avevano paura di loro. Se mi sdraio qui e provo a dormire di nuovo, potrei farlo senza che succeda nulla, per un'altra notte o un'altra settimana, ma Ratto


mi avrà. Distruggerà tutto. Azoth aveva visto lo sguardo nei suoi occhi. Sapeva che Ratto lo avrebbe distrutto e non credeva che sarebbe passata un'altra settimana prima che lo facesse. Sarà così, o lo ucciderò prima io. Nella sua mente, Azoth vide se stesso come un eroe uscito dal racconto di un bardo: avrebbe restituito a Jarl il suo denaro, avrebbe dato a Ja'laliel abbastanza per comprare l'uniforme, tutti nella gang che lo avrebbero amato per aver ucciso Ratto, e Bambola avrebbe parlato per la prima volta, con un'ardente approvazione negli occhi che gli diceva quanto coraggioso fosse stato. Era stupido e lui non poteva permettersi la stupidità. Doveva pisciare. Azoth si alzò arrabbiato e uscì dalla porta sul retro. Le guardie del corpo di Ratto non si mossero nel sonno neanche quando passò vicino a loro. L'aria della notte era fredda e puzzolente. Azoth aveva speso gran parte del denaro raccolto per nutrire le sue lucertole. Oggi aveva comprato pesce. Ai piccoli sempre affamati erano toccati gli intestini, li avevano mangiati ed erano stati male. Mentre la sua urina scendeva ad arco nella viuzza, pensò che avrebbe dovuto avere qualcuno di guardia. Un'altra delle sue leggerezze. Sentì un suono strascicato da dentro e si girò, allacciandosi i calzoni. Guardò nell'oscurità, ma non vide nulla. Stava perdendo colpi: saltava a ogni rumore, pur sapendo che c'erano una sessantina di ratti delle gang nella casa, che dormivano, che si lamentavano delle pance vuote e che rotolavano sui loro vicini. Improvvisamente, sorrise e toccò la lama. Ci potevano essere un centinaio di cose che non sapeva e ancora un migliaio che non poteva controllare, ma sapeva che cosa doveva fare adesso. Ratto doveva morire; era così semplice. Cosa sarebbe successo ad Azoth dopo averlo fatto non importava neanche. Che lo ringraziassero o lo ammazzassero, lui doveva uccidere Ratto. Doveva ucciderlo prima che Ratto andasse da Bambola. Doveva ucciderlo adesso. E con ciò, la decisione fu presa. Azoth entrò reggendo la lama lungo il polso. Ratto probabilmente dormiva circondato dal suo harem. Sarebbe stato solo a due passi dal tragitto di Azoth. Azoth avrebbe finto di inciampare, in caso i grandi fossero stati a guardare, e poi avrebbe conficcato la lama nello stomaco di Ratto. L'avrebbe pugnalato più e più volte finché Ratto non fosse morto, o


fino a morire lui stesso. Azoth era sul punto di attaccare quando notò lo spazio in cui era solito dormire. Badger era sdraiato sulla schiena nell'oscurità, una linea sottile tracciata sul suo collo, nera sulla pelle bianca. Gli occhi erano aperti, ma non si muoveva. Lo spazio di Bambola era vuoto. Non c'era più, e neanche Ratto.


Capitolo 9 Giaceva nell'oscurità, troppo stordito per piangere. Persino nel suo improvviso, cieco, stato di shock, Azoth sapeva che i grandi di Ratto non potevano essere addormentati. Era ciò che stavano aspettando. Azoth si era allontanato a malapena per un minuto e loro avevano preso Bambola. Non gli sarebbe stato di alcun vantaggio svegliare l'intera gang. Nell'oscurità e nella confusione non avrebbe mai saputo con precisione quale dei grandi di Ratto si era mosso. E cosa avrebbe fatto se l'avesse saputo? Anche se avesse saputo chi si era avvicinato a Bambola, non avrebbe saputo dove erano andati. Anche se avesse saputo dove erano andati, cosa avrebbe fatto? Giaceva nell'oscurità, inciampando tra i pensieri, fissando il soffitto ricurvo. Li aveva sentiti. Si maledisse per sempre. Aveva sentito quel rumore e non era neanche andato a vedere. Giaceva nell'oscurità, sfinito. Passarono le ore. Il sole spuntò. I ratti delle gang si alzarono e lui continuò a fissare il soffitto ricurvo, aspettando che gli crollasse addosso come tutto il resto. Non avrebbe potuto muoversi, neanche se avesse voluto. Giaceva nella luce. I bambini strillavano, i piccoli lo tiravano, urlando qualcosa. Qualcosa su Badger. Domande. Erano tutte parole. Le parole erano vento. Qualcuno lo scosse, ma era altrove. Non molto tempo dopo si risvegliò. C'era un solo suono che avrebbe potuto portarlo fuori dalla sua trance: la risata di Ratto. Un formicolio gli percorse la pelle e Azoth si alzò a sedere. Aveva ancora la lama. C'era del sangue secco sul pavimento, ma Azoth lo vide a malapena. Era in piedi e cominciò a camminare verso la porta. La terribile risata risuonò di nuovo e Azoth corse. Appena oltrepassata la porta, con la coda dell'occhio vide l'ombra del telaio allungarsi e scattò in avanti. Fu veloce come il ragno intrappolatore che aveva visto una volta e altrettanto efficace. Sbatté contro l'ombra come se avesse colpito un muro. La sua testa rimbombò quando venne tirato indietro nell'oscurità profonda tra l'edificio della gang e la rovina lì accanto. «Così entusiasta di morire, piccolo?».


Azoth non riusciva a scuotere la testa, non riusciva a scuoterla liberamente. L'ombra teneva una mano come ferro sul suo volto. Lentamente realizzò che era Mastro Blint. «Cinque giorni, ragazzo. Hai avuto cinque giorni per ucciderlo». Stava bisbigliando all'orecchio di Azoth. Il ragazzo riusciva a sentire l'accenno di aglio e cipolle che aleggiava nel suo respiro. Di fronte a loro Ratto stava parlando con la gang, rideva e li faceva divertire. Alcune delle lucertole di Azoth erano lì, ridevano anche loro, sperando di passare inosservate di fronte a Ratto. Quindi è iniziata. Qualsiasi cosa Azoth avesse realizzato stava già andando in pezzi. Il resto delle lucertole era andato via. Senza dubbio sarebbero tornati strisciando più tardi per vedere quello che era successo. Azoth non poteva neanche avercela con loro per questo. Nei Cunicoli si faceva quello che si poteva per sopravvivere. Non era stata una loro mancanza, ma un suo errore. Blint aveva ragione: i grandi ai lati di Ratto erano pronti. Ratto stesso era pronto. Se Azoth avesse attaccato, sarebbe morto. O peggio. Tutto il tempo passato a pianificare e non aveva fatto nulla. Avrebbe meritato quella morte. «Calmo adesso, ragazzo?», chiese Blint. «Bene. Perché ho intenzione di mostrarti cosa comporta la tua esitazione». Solon fu annunciato a cena da un vecchio con la schiena curva e un'uniforme elegantemente adornata con una treccia dorata e il falco bianco di Gyre, che s'innalzava su uno sfondo nero, e che nei secoli era diventato a stento riconoscibile come il girfalco che era. Un falco nordico. E non di Khalidor o persino di Lodricar, i girfalchi si trovavano solo nel Freeze. Quindi i Gyre difficilmente sono più nativi di Cenaria di quanto lo sia io. La cena fu servita nel grande salone, una strana scelta agli occhi di Solon. Non che il salone non fosse imponente - lo era troppo. Doveva essere grande quanto il salone del castello di Cenaria, adornato con tappezzeria, stendardi, scudi di nemici morti molto tempo fa, tele enormi, statue in marmo e lamina d'oro e un dipinto sul soffitto che rappresentava una scena dall'Alkestia. Al centro di tale grandezza, il tavolo era ridotto all'insignificanza, sebbene fosse lungo più di undici metri. «Lord Solon Tofusin, della Casa Tofusin, Windseekers della Casa Reale Bra'aden dell'Impero dell'Isola di Seth», annunciò il vecchio. Solon era lieto che l'uomo avesse saputo o scovato i titoli


appropriati, anche se Seth poteva a stento definirsi un impero a quei tempi. Solon avanzò per salutare lady Gyre. Era una donna attraente, maestosa, con occhi verde scuro e la pelle olivastra e i lineamenti delicati di Casa Graesin. Sebbene avesse una figura ammirevole, era vestita in modo modesto in base agli standard cenariani: la scollatura alta, l'orlo che le arrivava quasi alle caviglie, la veste grigia aderente ma non stretta. «I miei omaggi, mia signora», disse Solon, facendo il tipico saluto sethi a mano aperta. «Che il sole possa sorridere su di voi e tutte le tempeste sorprendervi nel porto». Era un po' troppo, ma la cena di tre persone in un salone così grande richiedeva una certa atmosfera. Lei sembrava annoiata, neanche si preoccupò di rispondergli. Si accomodarono e i servitori portarono la prima portata: zuppa di anatra all'arancia con finocchio. «Mio figlio mi ha avvertito di quello che siete, ma parlate abbastanza bene, e avete ritenuto opportuno non mettere metallo sul viso. E indossate vestiti. Sono piuttosto compiaciuta». Evidentemente la buona duchessa aveva sentito della fortuna di suo figlio nel combattimento con Solon, e non apprezzava che fosse stato umiliato. «É vero, dunque?», chiese Logan. Era a un estremo del tavolo, sua madre all'altro e Solon sfortunatamente al centro. «È vero che i Sethi vanno nudi sulle loro navi?» «Logan», disse bruscamente Catrinna Gyre. «No. Se posso, lady Gyre, è un comune equivoco. La nostra isola divide la corrente più calda del Great Sea, perciò fa abbastanza caldo persino in inverno. In estate è quasi insopportabile. Ecco perché non indossiamo vestiti o abiti pesanti come fa la gente qui, non siamo privi di pudore». «Pudore? Chiamate le donne che scorrazzano sulle barche mezze nude pudiche?», chiese lady Gyre. Logan sembrò incantato all'idea. «Non tutte sono pudiche, certo. Ma per noi, i petti sono erotici quasi allo stesso modo dei colli. Potrebbe essere piacevole baciarli, ma non c'è ragione per...». «State esagerando!», disse lady Gyre. «D'altra parte, una donna che mostra le caviglie sta ovviamente sperando di non andare sotto coperta da sola. Senza dubbio, lady Gyre», sollevò un sopracciglio e finse di guardarle le caviglie,


sebbene fossero troppo lontane e nascoste dal tavolo, «le donne sethi penserebbero che siete piuttosto sfacciata». Il volto di Catrinna Gyre impallidì. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, però, Logan rise. «Le caviglie? Le caviglie? Questo è così... stupido!». Emise un fischio. «Che belle caviglie, madre». Rise di nuovo. Un domestico arrivò con la seconda portata, ma Solon non lo vide neanche appoggiarla. Perché faccio questo? Non sarebbe stata la prima volta che la sua lingua tagliente gli procurava seri guai. «Vedo che la vostra mancanza di rispetto non si è limitata a colpire lord Gyre», disse la duchessa. Adesso lui è lord Gyre. Quindi, gli uomini non erano stupidi; non stavano trattando Logan come un bambino; probabilmente è stata lei a ordinare loro di non colpire Logan. «Madre, non è stato mai irrispettoso verso di me. E non intendeva nemmeno essere irrispettoso verso di te». Logan guardò sua madre e poi Solon e trovò sguardi di pietra su entrambi. «Non è così, lord Tofusin?» «Milady», disse Solon, «una volta mio padre mi ha detto che non ci sono lord nei campi d'addestramento perché non ci sono lord sui campi di battaglia». «Sciocchezze», disse lei. «Un lord vero è sempre un lord. In Cenaria noi lo capiamo questo». «Madre, lui intende dire che le spade nemiche feriscono i nobili almeno quanto feriscono i contadini». Lady Gyre ignorò suo figlio e disse. «Ma che cos'è che volete da noi, Mastro Tofusin?». Era una cosa scortese da chiedere a un ospite, almeno quanto lo era il rivolgersi a lui come a un uomo non nobile. Solon aveva contato sulla cortesia dei Gyre per guadagnare abbastanza tempo da elaborare una strategia. Aveva pensato di poter guardare e aspettare, consumare i pasti con i Gyre e prendersi una quindicina di giorni o un mese prima di annunciare il suo piano. Pensava che il ragazzo avrebbe potuto piacergli, ma questa donna, dio! Sarebbe stato meglio finire con la seduttrice di Jadwin. «Madre, non pensi di essere un po'...». Lei non guardò neppure suo figlio; sollevò solo il palmo verso di


lui e fissò Solon, senza battere ciglio. Quindi ecco com'è. Logan non era solo suo figlio. Sebbene fosse solo un ragazzo, Logan era il signore di Catrinna Gyre. In quel gesto sprezzante, Solon lesse la storia della famiglia. Lei sollevò la mano e suo figlio, ancora troppo giovane, ancora troppo inesperto, tacque come un bravo figliolo, piuttosto che punirla da bravo lord. In quel disprezzo e nel disprezzo con cui lei lo aveva salutato, Solon vide la ragione per cui il duca Gyre aveva nominato suo figlio lord Gyre in sua assenza. Il duca non poteva fidarsi di sua moglie per governare. «Sto aspettando», disse lady Gyre. Il gelo nella sua voce gli fece prendere una decisione. A Solon non piacevano i bambini, ma detestava i tiranni. Maledetto te, Dorian. «Sono venuto per fare da consigliere a lord Gyre», disse, sorridendo calorosamente. «Ah! Assolutamente no». «Madre», disse Logan, un accenno di durezza entrò nella sua voce. «No. Mai», disse lei. «In verità Mastro Tofusin, mi piacerebbe che vi congedaste». «Madre». «Immediatamente», disse lei. Solon non si mosse, si limitò a tenere il coltello e la forchetta a due rebbi - era contento di ricordare le usanze di Cenariani -sul suo piatto, deciso a non muoversi. «Quando avete intenzione di permettere a lord comportarsi come il suo ruolo richiede?», le chiese.

Gyre

di

«Quando sarà pronto. Quando sarà più grande. E non mi farò interrogare da un barbaro sethi che...». «É questo che il duca vi ha ordinato quando ha nominato suo figlio lord in sua assenza? Di lasciare Logan al comando quando fosse pronto? Mio padre una volta mi disse che la ritardata obbedienza è disobbedienza a tutti gli effetti». «Guardie!», chiamò. «Accidenti, madre! Smettila!». Logan si alzò così bruscamente che la sua sedia fece fracasso sul pavimento dietro di lui.


Le guardie erano a metà strada dalla sedia di Solon. Improvvisamente sembrarono indifesi. Si guardarono l'un l'altro e rallentarono, tentando di avvicinarsi silenziosamente, ma invano, dato che la loro cotta di maglia tintinnava a ogni passo. «Parleremo di questo più tardi», disse Catrinna Gyre. «Tallan, Bran, accompagnate quest'uomo fuori di qui. Adesso». «Io sono il Gyre! Non toccatelo», gridò Logan. Le guardie si fermarono. Gli occhi di Catrinna lanciavano lampi di furore. «Come osi mettere in discussione la mia autorità? Critichi tua madre di fronte a uno straniero? Sei uno scandalo, Logan Gyre. Disonori la tua famiglia. Tuo padre ha fatto un errore terribile a fidarsi di te». Solon si sentì male e Logan anche peggio. Era scosso, improvvisamente tremante, sull'orlo di un collasso. Il serpente. Distrugge ciò che deve proteggere. Manda in frantumi la fiducia di suo figlio. Logan guardò Tallan e Bran. Gli uomini apparivano meschini mentre erano testimoni dell'umiliazione di Logan. Logan indietreggiò, sembrò sgonfiarsi. Devo fare qualcosa. «Mio lord Gyre», disse Solon, alzandosi in piedi e attirando tutti gli sguardi. «Sono terribilmente dispiaciuto. Non desidero abusare della vostra ospitalità. L'ultima cosa che voglio è essere motivo di scontro nella vostra famiglia, e difatti, ho perso il controllo e ho parlato troppo francamente a vostra madre. Non sono abituato a... stemperare la verità per adattarla alla sensibilità cenariana. Lady Gyre, mi scuso per ogni offesa che potrei aver arrecato a voi o al vostro lord. Lord Gyre, mi scuso se ritenete che vi abbia trattato con leggerezza e certamente mi accomiaterò, se me lo concedete». Un lieve inflessione sul se me lo concedete. Logan fu più diretto. «Non lo farò». «Mio signore?». Solon dipinse confusione sul suo viso. «Ho trovato troppe regole e non abbastanza verità in questa casa, lord Tofusin», disse Logan. «Non avete fatto nulla per offendermi. Mi piacerebbe se restaste. E sono sicuro che mia madre farà tutto ciò che è in suo potere per farvi sentire il benvenuto». «Logan Gyre, non vorrai...», disse Catrinna Gyre.


«Uomini!», disse forte Logan alle guardie per bloccarla. «Lady Gyre è stanca e agitata. Accompagnatela nelle sue stanze. Apprezzerei se uno di voi vigilasse la sua porta stanotte, in caso avesse bisogno di qualcosa. Mangeremo nella solita sala domattina». A Solon piacque. Logan aveva appena relegato sua madre nelle sue stanze e messo una guardia alla sua porta per trattenerla fino al mattino, tutto senza darle alcuna possibilità di protesta. Questo ragazzo sarà formidabile. Lo sarà? Già lo è. E io mi sono appena legato a lui. Non era un pensiero confortante. Non aveva neanche deciso di restare. In realtà, mezz'ora prima, aveva deciso di non decidere per parecchie settimane. Adesso era di Logan. Sapevi che questo sarebbe successo, Dorian? Dorian non credeva alle coincidenze. Ma Solon non aveva mai avuto la fede del suo amico. Ora, fede o non fede, era impegnato. Ciò gli fece sentire una stretta al collo, come se avesse indossato un collare da schiavo di due taglie più piccolo. Il resto di una cena eccellente trascorse in silenzio. Solon chiese congedo dal suo lord e andò a cercare l'osteria più vicina che servisse vino sethi.


Capitolo 10 Aveva la faccia distrutta. Azoth una volta aveva visto un uomo colpito in viso da un cavallo. Era morto ansimando tra denti rotti e sangue. Il volto di Bambola era peggio. Azoth distolse lo sguardo, ma Durzo lo afferrò per i capelli e lo fece girare. «Guarda, maledetto. Questo è quello che hai fatto, ragazzo. Questo è quello che ottieni se esiti. Quando io dico uccidi, tu uccidi. Non domani, non cinque giorni dopo. Tu uccidi in quel secondo. Senza esitare. Senza dubbi. Senza ripensarci. Obbedienza. Comprendi? Lo so meglio di te. Tu non sai niente. Tu non sei niente. Questo è quello che sei. Tu sei debolezza. Tu sei feccia. Tu sei il sangue che gorgoglia nel naso di quella ragazzina». Ad Azoth esplosero i singhiozzi in gola. Si dimenò e provò a voltarsi, ma la presa di Durzo era d'acciaio. «No! Guarda! Questo è ciò che hai fatto. È colpa tua! Il tuo fallimento! L'ha fatto il tuo morto. Un morto non dovrebbe far nulla. Un morto è morto. Non cinque giorni da adesso - un morto è morto appena accetti il contratto. Capisci?». Azoth rigettò e Durzo, che teneva ancora i suoi capelli, lo scostò perché il suo vomito non schizzasse su Bambola. Quando ebbe finito, Durzo lo rigirò e lo lasciò andare. Ma Azoth voltò la testa, senza neanche pulirsi il vomito dalle labbra. Guardò Bambola. Non sarebbe durata a lungo. Ogni respiro le costava fatica. Il sangue sgorgava, gocciolava, grondava, scivolava nelle lenzuola, sul pavimento. La fissò finché il suo volto non scomparve, finché vide soltanto angoli e curve rossi dove una volta c'era quel bel viso da bambola. Gli angoli rossi diventarono incandescenti e si impressero nella sua memoria, marchiandolo. Rimase perfettamente immobile, così le cicatrici nella sua mente avrebbero ricreato un'immagine perfetta di quello che aveva fatto, sarebbero state simili alle lacerazioni sul volto di lei. Durzo non proferì parola. Non aveva importanza. Lui non aveva importanza. Azoth non aveva importanza. Tutto quello che importava era la piccola sanguinante che giaceva su lenzuola insanguinate. Sentì qualcosa dentro che collassava, qualcosa che spremeva il respiro fuori dal suo corpo. Una parte di lui era


contenta; una parte di lui si rallegrava poiché si sentiva fatto a pezzi, consolidato nell'insignificanza, nell'oblio. Era questo quello che meritava. Ma poi si fermò. Batté le ciglia e notò che non c'erano lacrime nei suoi occhi. Non sarebbe stato fatto a pezzi. Qualcosa in lui rifiutava di essere fatto a pezzi. Si voltò verso Durzo. «Se la salvate sarò vostro. Per sempre». «Non capisci, ragazzo. Hai già fallito. Inoltre, sta morendo. Non c'è niente che puoi fare. È senza valore, adesso. Una ragazza sulla strada vale esattamente ciò che può ottenere prostituendosi. Salvare la sua vita non è clemenza. Non ti ringrazierebbe per questo». «Vi troverò quando lui sarà morto», disse Azoth. «Hai già fallito». «Mi avete dato una settimana. Sono passati soltanto cinque giorni». Durzo scosse la testa. «Per gli Angeli della Notte. E sia. Ma se vieni senza una prova, ti finirò». Azoth non rispose. Stava già andando via. Non stava morendo velocemente, ma stava certamente morendo. Durzo non poteva fare a meno di provare una certa distaccata rabbia professionale. Era stato un lavoro negligente, crudele. Dalle orribili ferite sul suo volto, era ovvio che l'intenzione non era stata quella di ucciderla, ma di farla vivere con cicatrici orrende che l'avrebbero costretta a vergognarsi per sempre. Invece, stava morendo, esalando la sua vita attraverso un naso rotto sanguinante. Non c'era niente che potesse fare per lei, d'altronde. Era evidente. Aveva ucciso entrambi i grandi che avevano avuto il compito di sorvegliarla dopo il macello, ma sospettò che nessuno di loro fosse il responsabile. Erano sembrati entrambi un po' troppo impressionati da tutta quella malvagità. Una parte di Durzo, che aveva ancora un frammento di decenza, voleva andare a uccidere immediatamente il pazzo che aveva fatto questo, ma si era curato prima della piccola. Giaceva su un basso lettino in una delle piccole case sicure che Durzo possedeva nei Cunicoli. La pulì come meglio poteva. Sapeva molto sulla conservazione della vita: l'aveva imparato come aveva


imparato a uccidere. Era solo questione di approcciare il confine tra la vita e la morte da lati opposti. Gli fu immediatamente chiaro che non poteva fare niente per quelle ferite. Era stata presa a calci e aveva emorragie interne. Questo l'avrebbe uccisa anche se non avesse perso sangue dal volto. «La vita è vuota», le disse calmo. «La vita è senza valore, senza significato. La vita è dolore e sofferenza. Ti risparmierei se ti lasciassi morire. Sarai brutta adesso. Rideranno di te. Ti fisseranno. Ti indicheranno. Rabbrividiranno. Udrai per caso i loro ragionamenti. Conoscerai la loro egoistica pietà. Susciterai curiosità, orrore. La tua vita non vale niente, adesso». Non aveva scelta. Doveva lasciarla morire. Era solo gentile. Non giusto, forse, ma gentile. Non giusto. Il pensiero lo rodeva e la bruttezza e il sangue, l'ansimare di Bambola, lo rodevano. Forse aveva bisogno di salvarla. Per il ragazzo. Forse lei lo avrebbe spronato. Momma K aveva detto che Azoth sapeva essere fin troppo gentile. Forse da questo Azoth avrebbe imparato ad agire prima, ad agire velocemente, a uccidere chiunque lo minacciasse. Il ragazzo aveva già aspettato troppo a lungo. Era un rischio in ogni caso. Il ragazzo si era promesso a Durzo se lui l'avesse salvata, ma cosa avrebbe fatto il ragazzo con questa storpia intorno? Sarebbe stata il ricordo vivente del suo fallimento. Durzo non poteva permettere ad Azoth di distruggersi per una ragazza. Non l'avrebbe permesso. L'ansimare lo fece decidere. Non l'avrebbe uccisa lui stesso, e non era così vigliacco da correre via e lasciarla morire da sola. Bene. Avrebbe fatto il possibile per salvarla. Se fosse morta, non sarebbe stata colpa sua. Se fosse vissuta, avrebbe trattato con Azoth. Ma chi diavolo avrebbe potuto salvarla? Solon fissava la posa del suo sesto bicchiere di - per essere indulgente - schifoso rosso sethi. Qualsiasi vinaio onesto dell'isola si sarebbe vergognato di servire una tale immondizia persino per festeggiare la maggiore età del nipote meno preferito. E la posa? Il bicchiere ne era pieno per metà. Qualcuno doveva dire al locandiere che quel vino non era destinato a invecchiare. Si supponeva fosse servito entro un anno. Al massimo. Kaede non l'avrebbe sopportato.


Così lo disse al locandiere. E capì dallo sguardo sul volto dell'uomo che gliel'aveva già detto. Almeno due volte. Bene, al diavolo. Stava pagando un bel po' di denaro per un vino cattivo, e aveva continuato nella speranza che, dopo qualche bicchiere, non avrebbe più notato quanto fosse schifoso. Si sbagliava. Ogni bicchiere lo rendeva solo un po' più irritabile per la scarsa qualità. Perché qualcuno aveva trasportato un vino cattivo lungo tutto il Great Sea? Ne traevano veramente profitto? Appena mise giù un'altra moneta, realizzò che era dagli sciocchi nostalgici come lui che traevano profitto. Il pensiero lo rese malinconico. O forse era il vino. Un giorno avrebbe dovuto convincere lord Gyre a investire nei vini di Seth. Crollò ulteriormente sulla sua sedia e fece un cenno per avere un altro bicchiere, ignorando i pochi altri clienti e il locandiere annoiato. Questo era veramente un imperdonabile esercizio di autocommiserazione, che avrebbe severamente criticato se avesse visto Logan Gyre concedersi qualcosa di così infantile. Ma aveva viaggiato così a lungo e per che cosa? Ricordò il sorriso di Dorian, quel piccolo risolino birichino che piaceva tanto alle ragazze. «Il regno è nelle tue mani, Solon». «Cosa m'importa di Cenaria? È lontana mezzo mondo!». «Non ho detto che il regno era Cenaria, vero?». Di nuovo quel dannato risolino. Poi si affievolì. «Solon, sai che non ti chiederei questo se ci fosse un qualsiasi altro modo...». «Non vedi tutto. Ci deve essere un altro modo. Almeno dimmi cosa dovrei fare. Dorian, tu sai cosa lascerei. Sai quanto questo mi costerà». «Lo so», disse Dorian, i suoi tratti aristocratici mostravano il dolore che un grande lord poteva sentire quando mandava i suoi uomini verso la morte, per raggiungere qualche obiettivo necessario. «Ha bisogno di te, Solon...». I ricordi di Solon furono bruscamente interrotti dalla punta di una lama contro la sua schiena. Sedeva dritto come un fuso, versando la posa del suo settimo bicchiere sul tavolo. «Basta, amico», disse una voce bassa nel suo orecchio. «So cosa sei e ho bisogno che tu venga con me». «Altrimenti?», disse Solon, brillo. Chi poteva sapere che era lì? «Sì. Altrimenti». Divertito.


«Altrimenti cosa? Hai intenzione di uccidermi di fronte a cinque testimoni?», chiese Solon. Raramente beveva più di due bicchieri di vino per volta. Era troppo debole per questo. Chi diavolo era quest'uomo? «Pensavo fossi più furbo», disse l'uomo. «Se so cosa sei e nonostante questo ti minaccio, pensi mi manchi la volontà di ucciderti?». Aveva Solon lì. «E cosa dovrebbe fermarmi...». II pugnale spinse di nuovo contro la spina dorsale. «La conversazione è finita. Sei stato avvelenato. Fai quello che dico e ti darò l'antidoto. Questo risponde al resto delle tue domande?» «Veramente...». «Saprai di essere stato veramente avvelenato perché ora il collo e le ascelle inizieranno a pruderti». «Uh-huh. La radice di Ariamu?», chiese Solon, provando a pensare. Lo stava ingannando? Perché avrebbe dovuto ingannarlo? «Più poche altre cose. Ultimo avvertimento». La spalla cominciò a prudergli. Maledizione. Avrebbe potuto contrastare gli effetti della sola radice di Ariamu, ma questo... «Cosa vuoi?» «Dirigiti fuori. Non voltarti, non dire nulla». Solon camminò verso la porta, quasi tremando. L'uomo aveva detto «cosa sei» non «chi sei». Avrebbe potuto riferirsi al suo essere sethi, ma il suo commento seguente smentiva questa ipotesi. I Sethi potevano essere più o meno famosi per molte cose, ma a torto o a ragione, l'intelligenza non era tra queste. Era appena giunto in strada quando sentì il pugnale colpire di nuovo. Una mano estrasse la sua spada dal fodero. «Non è necessario», disse Solon. Era la sua immaginazione o il collo gli prudeva realmente? «Mostrami cosa vuoi». L'avvelenatore lo portò sul retro dell'edificio dove stavano aspettando due cavalli. Insieme cavalcarono a sud e poi attraverso il Vanden Bridge. Furono inghiottiti dai Cunicoli e, sebbene Solon non pensasse che l'uomo stesse facendo giri a vuoto per fargli perdere l'orientamento, di fatto lo perse. Maledetto vino. Alla fine, si fermarono, tra molte, di fronte a una minuscola catapecchia. Smontò da cavallo in modo malsicuro e seguì l'uomo


dentro. L'avvelenatore indossava abiti scuri e un voluminoso mantello grigio-nero con il cappuccio tirato su. Tutto quello che Solon riusciva a vedere era che era alto, ovviamente atletico e probabilmente magro. L'uomo fece un cenno verso la porta e Solon fece un passo in avanti. L'odore di sangue lo colpì all'istante. Una ragazzina giaceva su un letto basso, respirava a malapena, sanguinava a malapena, il suo volto completamente devastato. Solon si voltò. «Sta morendo. Non c'è niente che io possa fare». «Ho fatto quello che ho potuto», disse l'uomo. «Ora fai quello che fai tu. Ho lasciato tutti gli strumenti di cui potresti aver bisogno». «Qualsiasi cosa tu pensi io sia, ti sbagli. Io non sono un guaritore!». «Lei muore, tu muori». Solon sentì il peso dello sguardo dell'uomo su di lui. Poi l'avvelenatore si voltò e se ne andò. Solon guardò la porta chiusa e sentì salire la disperazione come onde gemelle di oscurità che arrivavano da un lato e dall'altro. Poi si riscosse. Abbastanza. Era stanco, ancora ubriaco, avvelenato, in preda al prurito e non era mai stato molto bravo a guarire, tanto per cominciare. Dorian aveva detto che qualcuno qui aveva bisogno di lui, no? Quindi certamente Solon non poteva ancora morire. A meno che, certo, Solon non avesse dovuto unicamente far sì che Logan affrontasse sua madre. Bene. È questo il problema con una profezia, no? Non puoi mai sapere. Solon s'inginocchiò vicino alla ragazzina e cominciò a lavorare.


Capitolo 1 1 Momma K accavallò distrattamente le gambe in modo provocante come solo una cortigiana esperta poteva fare. Alcune persone avevano l'abitudine di essere irrequiete. Momma K aveva l'abitudine di sedurre. Con una linea che la maggior parte delle sue ragazze poteva soltanto invidiare, avrebbe potuto passare per trentenne, ma Momma K non si vergognava della sua età. Aveva dato una grande festa per il suo quarantesimo compleanno. Pochi tra quelli che le avevano detto che faceva sfigurare le sue cortigiane avevano mentito, poiché Gwinvere Kirena era stata la cortigiana di un'epoca. Durzo sapeva di una dozzina di duelli combattuti per lei, e di molti lord che le si erano proposti, ma Gwinvere Kirena non si sarebbe legata a nessuno. Conosceva troppo bene tutti gli uomini con cui aveva a che fare. «Ti ha veramente fatto innervosire, questo Azoth. Non è vero?», disse Momma K. «No». «Bugiardo». Momma K sorrise, labbra rosse e denti perfetti. «Da cosa lo hai capito?», chiese Durzo, non realmente interessato. Era nervoso, però. Le cose erano precipitate improvvisamente fuori controllo. «Stavi fissando i miei seni. Mi guardi come una donna solo quando sei troppo distratto per mantenere alta la guardia». Sorrise di nuovo. «Non preoccuparti - penso che sia dolce». «Non ti fermi mai?» «Sei un uomo più semplice di quanto ti piace pensare, Durzo Blint. Hai soltanto tre rifugi quando il mondo ti sommerge. Vuoi che ti dica quali sono, mio grande e forte sicario?» «È questo il genere di cose di cui parli con i clienti?». Era un colpo basso. Inoltre, era il genere di commento che una puttana riceveva abbastanza spesso, per cui lei era ben corazzata contro cose del genere. Non batté ciglio. «No», disse lei. «Ma c'era un barone, piuttosto pateticamente dotato, a cui piaceva avermi, fingendo che fossi la sua balia e quando disobbediva io avrei...».


«Risparmiamelo». Fu un peccato farla fermare, ma sarebbe andata avanti per dieci minuti senza saltare un singolo dettaglio. «Allora cosa vuoi, Durzo? Ti stai fissando di nuovo le mani». Si stava fissando le mani. Gwinvere poteva creare più problemi che vantaggi, ma i suoi consigli erano sempre buoni. Era la persona più intuitiva che conoscesse ed era di gran lunga più intelligente di lui. «Voglio sapere cosa fare, Gwinvere». Dopo un lungo momento di silenzio, alzò lo sguardo dalle sue mani. «Riguardo al ragazzo?» «Non penso lo abbia dentro di lui». Quando Azoth svoltò l'angolo, Ratto sedeva sulla veranda retrostante il cumulo di macerie che la gang chiamava casa. Il cuore di Azoth si fermò alla vista del minaccioso ragazzo. Ratto era solo, lo stava aspettando. Roteava una corta spada. A ogni giro macchie di ruggine si alternavano al riflesso della luna calante sull'acciaio. In quel momento di distrazione, il volto di Ratto sembrava mutevole come l'acciaio che faceva ruotare: un momento il mostro che Azoth aveva sempre conosciuto, quello successivo un bambino cresciuto troppo, spaventato. Azoth si trascinò in avanti, più confuso e impaurito che rassicurato da quello sprazzo di umanità. Aveva visto troppo. Venne avanti attraverso il fetore della viuzza che l'intera gang usava come gabinetto. Non gli importava neanche dove metteva i piedi. Era assente. Quando guardò in alto, Roth era lì, quel crudele risolino familiare sulle labbra, la spada arrugginita che puntava alla gola di Azoth. «Fermati», disse Ratto. Azoth sussultò. «Ratto», disse e deglutì. «Non venire più vicino», disse Ratto. «Hai una lama. Dammela». Azoth era sul punto di piangere. Prese la lama dalla cintura e gliela porse, dalla parte del manico. «Prego», disse. «Non voglio morire. Scusami. Farò qualsiasi cosa tu voglia. Solo non farmi male». Ratto prese la lama.


«Gli concedo che è intelligente», disse Durzo. «Ma serve più che intelligenza. Tu l'hai visto con tutti gli altri ratti delle gang. Ha quel...?». Schioccò le dita, incapace di trovare la parola. «La maggior parte di loro li vedo solo in inverno. Dormono per strada nel resto dell'anno. Do loro un tetto, Durzo, non una casa». «Ma l'hai visto». «L'ho visto». Lei non l'avrebbe mai dimenticato. «Gwinvere, è furbo?». Ratto infilò la lama nella cintura e perquisì Azoth. Non trovò altre armi. La sua paura si dissolse e lasciò solo esaltazione. «Non farti del male?», chiese. Diede ad Azoth un manrovescio. Era quasi ridicolo. Azoth praticamente volò per la forza del colpo. Cadde disteso nel sudiciume e si alzò lentamente, le mani e le ginocchia sanguinavano. É così piccolo! Come ho mai potuto temerlo? Gli occhi di Azoth sanguinavano terrore. Stava piangendo, emetteva piccoli mugolii nell'oscurità. Ratto disse: «Dovrò farti male, Azoth. Mi ci hai costretto. Non volevo che andasse così. Ti volevo con me». Era tutto troppo facile. Azoth era tornato alla gang già distrutto. A Ratto non era piaciuto. Voleva fare qualcosa per suggellare l'umiliazione di Azoth. Fece un passo avanti e gli afferrò i capelli. Lo tirò fino alle sue ginocchia, godendo delle piccole grida di dolore del ragazzo. Era debitore a Neph per quanto stava per fare. A Ratto non piacevano particolarmente i ragazzi più delle ragazze. Non vedeva molta differenza. Ma Ratto non avrebbe mai pensato a questo come un'arma, se Neph non gli avesse detto quanto fosse devastante per lo spirito di una persona essere presi con la forza. Era diventato uno dei passatempi preferiti di Ratto. Chiunque poteva spaventare una ragazza, ma i ragazzi nella gang lo temevano più di chiunque altro. Guardavano Bim o Weese o Pod o Jarl e si scioglievano. E più lo faceva, più si fomentava. Soltanto guardare Azoth adesso, in ginocchio, con gli occhi sgranati dalla paura, faceva fremere i suoi lombi. Non c'era nulla come guardare il fuoco della sfida divampare alto e poi, immediatamente o dopo


molte notti, morire, avvampare nuovamente e morire per sempre. «Un sicario deve perdere se stesso», disse Durzo. «No, abbandonare se stesso. Per essere un assassino perfetto, deve indossare la pelle perfetta per ogni omicidio. Gwinvere, mi capisci, non è vero?». Lei accavallò di nuovo le sue lunghe gambe. «La comprensione è quella che distingue le cortigiane dalle puttane. Mi infilo sotto la pelle di ogni uomo che attraversa le mie porte. Se conosco un uomo, so come farlo contento. So come manipolarlo affinché provi a comprare il mio amore e a diventare competitivo con gli altri che tentano di fare lo stesso, ma senza diventare geloso di loro». «Un sicario deve conoscere i suoi morti così», disse Durzo. «E tu non pensi che Azoth possa farlo?» «Oh no. Penso possa», disse Durzo. «Ma dopo aver conosciuto un uomo o una donna così - dopo aver indossato la loro pelle per un po', non puoi fare altro che amarli...». «Ma non è vero amore», disse Gwinvere pacatamente. «...e quando li ami, è il momento in cui il sicario deve uccidere». «Ed è quello che Azoth non riesce a fare». «È troppo tenero». «Persino adesso, persino dopo quello che è successo alla sua amica?» «Persino adesso». «Avevi ragione», disse Azoth tra le lacrime. Alzò lo sguardo verso Ratto che incombeva su di lui, il chiaro di luna gli gettava addosso la sua ombra. «Sapevo cosa volevi e lo volevo anch'io. Solo... non potevo. Ma adesso sono pronto». Ratto guardò verso di lui, la debole luce del sospetto sbocciò nei suoi occhi. «Ho trovato un posto speciale per noi...». Azoth si fermò. «Ma non importa, possiamo farlo qui. Dovremo farlo qui». Gli occhi di Ratto erano duri, ma indecifrabili. Azoth si alzò lentamente, reggendosi ai fianchi di Ratto. «Facciamolo qui. Lasciamo che l'intera gang ci senta. Lasciamo che tutti sappiano».


Tutto il suo corpo tremava e non c'era modo di nasconderlo. La repulsione lo attraversava come un fulmine, ma mantenne un'espressione speranzosa, fingendo che il tremore fosse una pura, ingenua incertezza. Non posso. Non posso. Lascerò che ti uccida. Qualsiasi cosa tranne... Se avesse pensato, se avesse considerato qualcos'altro per un altro secondo, sarebbe stato perso. Azoth portò una mano tremante fino alla guancia di Ratto, si sollevò sulle punte e lo baciò. «No», disse Ratto, dandogli uno schiaffo. «Lo facciamo a modo mio». «Per svolgere questa attività, un uomo non deve dar valore a nulla, deve sacrificare...». Durzo si azzittì. «Tutto?», chiese Gwinvere. «Come hai fatto tu, così bene? Mia sorella potrebbe avere qualcosa da dire su questo». «Vonda è morta perché non l'ho fatto», disse Durzo. Non avrebbe incontrato lo sguardo di Gwinvere. Fuori dalla finestra, la notte stava appena cominciando ad abbandonare la sua presa sulla città. Guardando Durzo, il suo volto duro, butterato, che risplendeva di giallo dispiacere alla luce della lampada, Gwinvere si ammorbidì. «Quindi ti eri innamorato, Durzo. Neanche i sicari sono immuni. L'amore è pazzia». «L'amore è fallimento. Ho perso tutto perché ho fallito». «E cosa farai se Azoth fallisce?», chiese Gwinvere. «Lo lascerò morire. O lo ucciderò». «Hai bisogno di lui», disse lei dolcemente. «Mi hai detto tu stesso che ti chiamerà un ka'kari». Prima che Durzo potesse dire qualsiasi cosa, bussarono alla porta. «Entra», disse Momma K. Una delle cameriere di Gwinvere, ovviamente anche lei un'ex cortigiana ormai troppo vecchia per il bordello, si affacciò sulla porta. «C'è un ragazzo che vuole vedervi, milady. Il suo nome è Azoth». «Fallo accomodare», disse Gwinvere.


Durzo la guardò. «Cosa diavolo ci fa qui?» «Non lo so». Gwinvere era divertita. «Penso che se è il genere di ragazzo che puoi trasformare in un sicario, non può non avere alcune risorse». «Maledizione, l'ho lasciato meno di tre ore fa», disse Durzo. «Quindi?» «Quindi gli ho detto che l'avrei ucciso se l'avessi visto senza una prova. Tu sai che non riesco a fare minacce vane». Durzo sospirò. «Potresti aver ragione, ma è fuori dal mio controllo». «Non è qui per te, Durzo. È qui per vedere me. Quindi perché non fai la tua cosa della piccola ombra e scompari?» «La cosa della piccola ombra?» «Adesso, Durzo». La porta si aprì e un ragazzo sanguinante, miserabile, venne fatto accomodare. Ma anche percosso com'era, Gwinvere l'avrebbe scelto tra migliaia di ratti delle gang. Questo ratto delle gang aveva fuoco negli occhi. Se ne stava dritto, sebbene il suo volto fosse scorticato, e dalla sua bocca e dal naso colasse sangue. Lui la guardò impassibile, ma era troppo giovane o abbastanza furbo da guardare i suoi occhi piuttosto che il suo décolleté. «Vedi più degli altri, non è vero», disse Momma K. Non era una domanda. Lui non annuì nemmeno. Era troppo giovane per canzonare la tendenza di quella donna ad asserire domande, quindi c'era qualcos'altro in quello scialbo sguardo fisso che le stava rivolgendo. Di certo. «E hai visto qualcosa di terribile». Azoth la guardò con occhi grandi, tremando. Era un'immagine della nuda innocenza che moriva ogni giorno nei Cunicoli. Le agitava qualcosa dentro che lei aveva pensato morto da tempo. Anche senza una parola, lei sapeva di poter offrire al ragazzo le braccia di una madre, l'abbraccio di una madre, un posto sicuro. Poteva dare un rifugio anche a questo figlio dei Cunicoli che forse non era stato mai abbracciato in vita sua. Uno sguardo dolce, un tocco sulla guancia, una parola e sarebbe crollato tra le sue braccia a piangere. E cosa farà Durzo? Vonda era morta solo da tre mesi. Aveva perso più di un'amante e Gwinvere non sapeva se si fosse mai


ripreso. Capirà che le lacrime di Azoth non lo rendono debole? Volendo essere onesta con se stessa, Gwinvere sapeva che tenere Azoth tra le braccia non sarebbe stato giusto per Azoth. Non riusciva a ricordare l'ultima volta che aveva accolto qualcuno che non aveva pagato per il privilegio. E cosa farà Durzo se vede adesso l’amore vero? Diventerà più umano o dirà a se stesso che Azoth è troppo debole e lo ucciderà piuttosto che ammettere che ha bisogno di lui? Ci mise solo un secondo per studiare il ragazzo e ponderare le sue opzioni. C'era troppo in gioco. Non poteva farlo. «Quindi, Azoth», chiese lei, incrociando le braccia sotto il seno, «chi hai ucciso?». Il sangue colò sul volto di Azoth. Sbatté le palpebre non appena la paura liberò i suoi occhi dalle lacrime che minacciavano di uscire. «Primo omicidio, per giunta», disse Momma K. «Bravo». «Non so di cosa state parlando», disse Azoth molto in fretta. «So riconoscere un assassino». La sua voce era tagliente. «Quindi chi hai ucciso?» «Ho bisogno di parlare con Durzo Blint. Per favore. Dov'è?» «Proprio qui», disse Blint, dietro di Azoth. Azoth sussultò. «E dal momento che mi hai trovato», continuò Blint, «è meglio che qualcuno sia morto». «Lui...». Azoth guardò Momma K, ovviamente chiedendosi se poteva parlare davanti a lei. «Sì». «Dov'è il corpo?», domandò Blint. «É... è nel fiume». «Quindi non c'è nessuna prova. Comodo». «Ecco la vostra prova», gridò Azoth, improvvisamente furioso. Lanciò a Durzo ciò che teneva in mano. Durzo lo afferrò al volo. «E questa sarebbe una prova?», chiese Durzo. Aprì la mano e Momma K vide che aveva un orecchio sanguinante. «Io lo chiamo un orecchio. Sai se un uomo muore perdendo un orecchio, Gwin?». Momma K disse: «Non mettermi in mezzo, Durzo Blint». «Posso mostrarvi il corpo», disse Azoth. «Hai detto che è nel fiume».


«Lo è». Durzo esitò. «Maledizione Durzo. Vai», disse Momma K. «Glielo devi». Il sole era già all'orizzonte quando arrivarono alla rimessa delle barche. Durzo entrò da solo e venne fuori dieci minuti dopo, srotolando una manica bagnata. Non guardò verso Azoth quando chiese: «Figliolo, era nudo. Ha...». «Gli ho messo il cappio intorno al piede prima, prima che potesse... l'ho ucciso prima». In tono freddo e distaccato, Azoth gli disse tutto. La notte stava sfumando come un brutto sogno e nel ricordare quello che aveva fatto non riusciva a crederci. Doveva essere stato qualcun altro. Quando ebbe raccontato la storia, Blint lo guardò in un modo in cui nessuno lo aveva mai guardato prima. Avrebbe potuto essere pietà. Azoth non lo sapeva. Non aveva mai visto la pietà prima. «Bambola ce l'ha fatta?», chiese Azoth. Durzo gli mise le mani sulle spalle e lo guardò negli occhi. «Non lo so. Sembrava grave. Ho preso la persona migliore che avrei potuto trovare per provare a salvarla. Ragazzo». Blint distolse lo sguardo, sbattendo le palpebre. «Ho intenzione di darti un'altra possibilità». «Un'altra prova?». Le spalle di Azoth si accasciarono. La sua voce era piatta, svuotata. Non riuscì nemmeno a risparmiare l'energia per quell'affronto. «Non potete. Ho fatto tutto quello che avete detto». «Basta prove. Ti sto dando una possibilità in più per riconsiderare la tua scelta. Hai fatto tutto quello che ho chiesto. Ma questa non è la vita che vuoi. Vuoi andar via dalla strada? Ti darò una borsa piena d'argento e ti farò fare l'apprendista di un fabbricatore di frecce o di un erborista nella parte orientale. Ma se vieni con me, rinunci a tutto per questa scelta. Una volta che farai questo lavoro, non sarai mai più lo stesso. Sarai solo. Sarai diverso. Sempre. E non è questo il peggio. Non sto cercando di spaventarti. Be', forse sì. Ma non sto esagerando. Non ti sto mentendo. Il peggio, ragazzo, è questo: le relazioni sono funi. L'amore è un cappio. Se vieni con me, devi giurare di rinunciare all'amore. Sai cosa significa?». Azoth scosse la testa.


«Significa che puoi fotterti quante donne vuoi, ma non potrai mai amarne una. Non ti permetterò di rovinarti dietro a una ragazza». La voce di Durzo si riempì di violenza. Le sue mani erano aggrappate alle spalle di Azoth, i suoi occhi, occhi di predatore. «Capisci?» «E a proposito di Bambola?», chiese Azoth. Doveva essere stanco. Sapeva, ancora prima di finire la domanda, che menzionarla era stato un errore. «Hai dieci, undici anni? Pensi di amarla?» «No». Troppo tardi. «Ti farò sapere se vive, ma se vieni con me, Azoth, non parlerai mai più con lei. Capisci? Se diventi l'apprendista di un fabbricatore di frecce o di un erborista puoi vederla quanto vuoi. Per favore, ragazzo. Ascoltami. Questa potrebbe essere la tua ultima chance per la felicità». Felicità? Io voglio solo non aver più paura. Blint non aveva paura. La gente aveva paura di lui. Sussurravano il suo nome con sgomento. «Seguimi adesso», disse Blint «e, per gli Angeli della Notte, tu appartieni a me. Una volta che iniziamo diventi un sicario o muori. Il Sa'kagé non può permettersi di fare in altro modo. Oppure resti e ti porterò dal tuo nuovo maestro». Blint era in piedi e si strofinava le mani sempre umide come per chiudere la questione. Si girò bruscamente e avanzò a grandi passi verso le ombre di una viuzza. Uscendo dalla nicchia, Azoth guardò la strada verso la casa della gang, distante un centinaio di metri. Forse non era necessario andare con Blint adesso. Aveva ucciso Ratto. Forse poteva tornare indietro e tutto sarebbe stato a posto. Tornare indietro a cosa? Sono ancora troppo piccolo per essere il capo della gang. Ja'laliel sta morendo. Jarl e Bambola erano entrambi mutilati. Non ci sarebbe stato nessun'accoglienza da eroe per Azoth. Roth o qualche altro grande avrebbe preso il controllo della gang e Azoth avrebbe avuto di nuovo paura, come se niente fosse successo. Ma lui mi aveva promesso un apprendistato! Sì, l'aveva promesso, ma tutti sapevano che non ci si fidava degli adulti.


Era ancora confuso a proposito di Blint. Non era sembrato giusto il modo in cui aveva parlato di Bambola, ma proprio adesso Azoth aveva visto qualcosa nel sicario. C'era qualcosa in lui che dimostrava interesse. C'era qualcosa nell'assassino leggendario che voleva il meglio per Azoth. Azoth non credeva che Bambola non valesse più niente solo perché non era più carina. Non sapeva se sarebbe riuscito a uccidere di nuovo. Non sapeva cosa Blint gli avrebbe fatto e perché. Ma qualunque cosa fosse quello che aveva visto nel sicario, era di gran lunga più prezioso per Azoth di tutti i suoi dubbi. In fondo alla strada, Jarl fece un passo fuori dalla casa della gang. Vide Azoth e, persino da quella distanza, Azoth lo vide sorridere, denti bianchi brillanti sulla pelle ladeshiana. Dal sangue sulla veranda del retro e dall'assenza di Ratto, dovevano aver indovinato che era morto. Jarl ondeggiò e cominciò ad affrettarsi verso Azoth nella luce del sole abbagliante. Azoth voltò la schiena al suo miglior amico e si avviò verso l'abbraccio delle ombre.


Capitolo 12 «Benvenuto a casa». La voce di Mastro Blint era velata di sarcasmo, ma Azoth non lo sentì. La parola casa era magica. Lui non aveva mai avuto una casa. La casa di Durzo Blint era rintanata dentro i Cunicoli al di sotto delle rovine di un vecchio tempio. Azoth osservava tutto con manifesta meraviglia. Dal di fuori sembrava che non ci fosse nulla lì, ma Blint aveva parecchie stanze - nessuna di esse piccola. «Imparerai a lottare qui», disse Blint, chiudendo, aprendo e richiudendo ciascuno dei tre chiavistelli alla porta. La camera era ampia e profonda e molto ben attrezzata: vari bersagli, imbottiture riempite di paglia, e ogni genere di arma d'addestramento, travi sospese sul pavimento, strani treppiedi con appendici in legno, cavi, corde, ganci e scale. «E imparerai a usare queste». Blint indicò le armi allineate sul muro, tutte visibilmente contornate da vernice bianca. Ce n'erano di ogni dimensione e forma, da pugnali a punta singola a enormi mannaie. Lame dritte o ricurve o a doppia punta, con una o due impugnature, in diversi colori e modelli. Spade con uncini, dentellature e ardiglioni. Poi c'erano mazze, correggiati, asce, martelli da guerra, clave, verghe, azze, falci, lance, fionde, frecce, garrote, archi corti, archi lunghi, balestre. La stanza successiva era altrettanto stupefacente. Travestimenti e attrezzature erano allineati sul muro, tutto maniacalmente distinto. Ma qui c'erano anche tavole ricoperte di libri e ampolle. I libri era pieni di segnalibri. Su un tavolo immenso c'erano barattoli pieni di semi, fiori, foglie, funghi, liquidi e polveri. «Questi sono gli ingredienti base per la maggior parte dei veleni del mondo. Non appena Momma K ti insegnerà a leggere, studierai e memorizzerai gran parte di quello che c'è in questi libri. L'avvelenamento è un'arte. La imparerai perfettamente». «Sì, signore». «Fra un paio d'anni, quando il tuo Talento si sarà intensificato, t'insegnerò a usare la magia». «La magia?». Azoth era più impensierito dalla seconda. «Pensi che ti abbia preso per il tuo aspetto? La magia è


essenziale per quello che facciamo noi. Non c'è il Talento, non c'è il sicario». Azoth cominciò a barcollare, ma prima che potesse crollare, Mastro Blint lo afferrò per la tunica stracciata e lo diresse nella stanza successiva. C'era solo un pagliericcio ma Blint non lo depose su di esso, lo portò invece vicino a un piccolo camino. «I primi omicidi sono difficili», disse Blint. Sembrava che parlasse da lontano. «Qualche volta, questa settimana, probabilmente piangerai. Fallo quando non ci sono». «Non piangerò», promise Azoth. «Sicuro. Ora dormi». «La vita è vuota. Quando prendiamo una vita, non portiamo via niente di valore. I sicari sono assassini. É questo ciò che facciamo. É tutto quello che siamo. Non ci sono poeti in un'attività amara», disse Blint. Doveva essere uscito mentre Azoth dormiva, perché il ragazzino adesso stringeva in pugno una spada piccola abbastanza per un undicenne, sentendosi goffo. «Adesso attaccami», disse Blint. «Che cosa?». Blint sbatté il lato della propria spada sulla testa di Azoth. «Io comando. Tu obbedisci. Senza esitazioni. Chiaro?» «Sì, signore». Azoth si mise in piedi e sollevò la spada. Si sfregò la testa. «Attacca», disse Blint. Azoth lo fece, selvaggiamente. Blint deviava i suoi colpi o si muoveva da un lato così Azoth cadeva per la forza delle sue stesse oscillazioni. Nel contempo, Blint parlava. «Non stai facendo arte, stai facendo cadaveri. Un morto è un morto». Parava in fretta e la lama di Azoth schizzò sul pavimento. «Prendila». Blint camminava dietro Azoth e lo spronava di nuovo. «Non giocare con i tuoi omicidi. Non cercare il colpo perfetto, la bellissima conclusione. Ferisci qualcuno venti volte e lascialo crollare per dissanguamento - poi finiscilo. Non stare a pensare alla bellezza. Non stai facendo arte, stai facendo cadaveri». E così le lezioni continuarono, azione fisica con un continuo e


incessante monologo, ogni lezione riassumeva, dimostrava e riassumeva di nuovo. Nello studio: «Non assaggiare mai la morte. Ogni ampolla, ogni barattolo qui è morte. Se stai lavorando con la morte, avrai polveri, impasti e unguenti sulle mani. Non leccare mai la morte sulle tue dita. Non toccare mai con la morte i tuoi occhi. Ti laverai le mani con questa soluzione alcolica e poi con quest'acqua, sempre nella bacinella che viene usata solo per questo scopo e che verrà svuotata solo dove ti mostrerò io. Non assaggiare mai la morte». Per strada: «Abbraccia le ombre... Respira il silenzio... Sii comune, sii invisibile... Marca l'uomo... Conosci ogni via di fuga...». Quando faceva errori, Blint non urlava. Se Azoth non bloccava in modo corretto, la spada di legno per l'addestramento si schiantava sul suo stinco. Se non riusciva a ripetere le lezioni del giorno e svilupparne qualcuna richiesta da Blint, gli venivano dati degli scapaccioni per ognuna che dimenticava. Era tutto equo. Era tutto giusto, ma Azoth non si rilassava mai. Se sbagliava troppo, Mastro Blint così spassionatamente come lo schiaffeggiava, avrebbe potuto ucciderlo. Sarebbe bastato che Blint tirasse un colpo basso. Azoth non avrebbe nemmeno saputo che aveva sbagliato finché non si fosse trovato morente. Più di una volta fu tentato di abbandonare. Ma non lo fece, più di una volta avrebbe voluto uccidere Blint. Ma provare avrebbe significato la morte. Più di una volta avrebbe desiderato piangere. Ma aveva promesso di non farlo - e non lo fece. «Momma K, chi è Vonda?», chiese Azoth. Dopo le sue lezioni di lettura, lei prendeva una tazza di ootai prima di iniziare con la politica, la storia e l'etichetta di corte. Dopo aver fatto pratica con Blint tutta la mattina, studiava con lei durante il pomeriggio. Era esausto e dolorante tutto il tempo, ma di notte faceva lunghi sonni ristoratori e si svegliava caldo, non con i brividi. I tormenti e la debolezza debilitante della fame erano solo un ricordo. Non si lamentava rimandarlo indietro.

mai.

Momma K non rispose argomento molto delicato».

Se

lo

faceva,

immediatamente.

«Significa che non me lo direte?»

avrebbero «Questo

potuto è

un


«Significa che non vorrei. Ma lo farò perché potresti aver bisogno di saperlo, e l'uomo che dovrebbe dirtelo non lo farà». Chiuse gli occhi per un momento e quando proseguì la sua voce era lieve. «Vonda era l'amante di Durzo. Durzo aveva un tesoro e il Re Divino di Khalidor lo voleva. Ricordi cosa ti ho insegnato a proposito di Khalidor?». Azoth annuì. Momma K aprì gli occhi e sollevò le sopracciglia. Lui fece una smorfia, poi recitò: «Khalidor è il nostro vicino del Nord. Hanno sempre detto che Cenaria e gran parte del Midcyru è loro, ma non possono prenderselo perché il duca Gyre e i suoi uomini sorvegliano Screaming Winds». «Il passo di Screaming Winds è altamente difendibile», suggerì Momma K. «E il bottino?». Quando Azoth la guardò attonito, lei disse: «Khalidor potrebbe aggirare le montagne, ma non lo fa perché...». «Perché non ne vale veramente la pena e il Sa'kagé gestisce tutto». «Cenaria è corrotta, la tesoreria è vuota, i Ceuriani ci fanno irruzione da sud - e il Lae'knaught tiene le nostre terre orientali, e loro odiano i Khalidoriani persino più di quanto odiano gran parte dei maghi. Quindi sì, non vale la pena conquistarci». «Non è quello che ho detto io?» «Avevi ragione, ma non per i motivi giusti», disse lei. Sorseggiò di nuovo il suo ootai e Azoth pensò che avesse dimenticato la sua domanda iniziale o che sperasse l'avesse fatto lui. Poi lei disse: «Per ottenere il tesoro di Durzo il Re Divino rapì Vonda e propose uno scambio: il tesoro per la vita di Vonda. Durzo decise che il suo tesoro era più importante, quindi la lasciò morire. Ma successe qualcosa e Durzo perse anche il suo tesoro. Quindi Vonda morì comunque inutilmente». «Siete furiosa con lui», disse Azoth. La voce di Momma K non ebbe alcuna inflessione e i suoi occhi erano spenti. «Era un grande tesoro, Azoth. Se fossi stata Durzo, forse avrei fatto lo stesso, tranne per una cosa...». Distolse lo sguardo. «Vonda era mia sorella minore».


Capitolo 13 Solon afferrò la punta dell'alabarda con la sua lunga spada e la spostò da parte, poi intervenne e colpì con un calcio uno degli uomini di Logan allo stomaco. Pochi anni prima quel colpo avrebbe raggiunto l'elmo dell'uomo. Suppose di dover essere grato anche solo per essere riuscito a colpire le guardie di Gyre, ma questo derivava dal fatto di avere come migliori amici un profeta e un Maestro di Spada di Secondo Grado. Feir avrebbe qualcosa da dire su quanto sono diventato grasso. E lento. «Mio signore», disse Wendel North, avvicinandosi agli uomini che combattevano. Logan lasciò uri incontro che stava perdendo e Solon lo seguì. Il maggiordomo lanciò a Solon uno sguardo scialbo, ma non protestò per la sua presenza. «Milord, vostra madre è appena tornata». «Oh? Dov'era, Wendel, uh, intendo, Mastro North?», chiese Logan. Con gli uomini andava meglio, ma agire da lord con un uomo che probabilmente solo poche settimane prima aveva il compito di sculacciarlo era troppo per Logan. Solon non si permetteva di sorridere, però. Lasciando a lady Gyre il compito di minare l'autorità di Logan. Lui non avrebbe partecipato. «Ha parlato con la regina». «Perché?» «Avanza una richiesta per la tutela». «Che cosa?», chiese Solon. «Sta chiedendo alla corona di nominarla duchessa fino al ritorno del duca, o finché il mio signore non raggiungerà la maggiore età che, in questo paese, Mastro Tofusin è ventun anni». «Ma noi abbiamo le lettere di mio padre che nominano me», disse Logan. «Il re non può interferire con le nomine di una casa a meno che non ci sia un colpevole di tradimento». Wendel North si tirò su nervosamente gli occhiali sul naso. «Questo non è del tutto vero, milord». Solon si girò verso le guardie che stavano iniziando ad abbandonare la lotta e si avvicinò. «Tornate lì, cani!». Si precipitarono a obbedire.


«Il re può nominare un tutore per un lord minorenne se il lord precedente di quella casa non ha lasciato le disposizioni necessarie», disse Wendel. «La situazione è questa: vostro padre ha lasciato due copie della lettera in cui vi nomina lord in sua assenza. Ne ha data una a vostra madre e l'altra a me. Appena ho sentito dov'era andata lady Catrinna, ho controllato la mia copia, che ho conservato sotto chiave. Non c'è più. Perdonatemi, lord Gyre». Il maggiordomo arrossì. «Giuro che non c'entro. Pensavo di avere l'unica chiave». «Cosa ha detto la regina?», chiese Solon. Wendel sbatté le palpebre. Come Solon aveva immaginato, Wendel sapeva ma non voleva che Solon capisse quanto fosse estesa la sua rete di occhi e orecchie. Dopo un momento il maggiordomo disse: «La questione sarebbe stata affrontata correttamente e con facilità, ma il re non lascia che la regina prenda alcuna decisione senza di lui. Le ha interrotte mentre stavano parlando. Ha detto che avrebbe considerato la questione. Scusatemi. Non so cosa questo significhi». «Ho paura di saperlo io», disse Solon. «Cosa significa?», chiese Logan. «Chi è l'avvocato della vostra famiglia?» «Ho chiesto prima io», disse Logan. «Ragazzo!». «Il conte Rimbold Drake», disse Logan, imbronciandosi un po'. «Significa che abbiamo bisogno di parlare con il conte Drake. Adesso». «Devo mettere le scarpe?», chiese Azoth. Non gli piacevano le scarpe. Non riuscivi a sentire il terreno per sapere quanto fosse scivoloso, e stringevano. «Nooo, andremo a far visita al conte Drake con te che indossi una tunica da aristocratico e a piedi scalzi». «Veramente?» «No». Tutte le volte che Azoth aveva provato invidia per i figli dei mercanti e dei lord ai mercati, non aveva mai pensato a quanto fossero scomodi i loro vestiti. Ma Durzo era il suo maestro adesso e


si era già stufato di aspettare che Azoth si preparasse, quindi il ragazzo tenne la bocca chiusa. Non era da molto l'apprendista di Durzo e temeva ancora che il sicario lo avrebbe cacciato via. Percorsero il Vanden Bridge verso la sponda orientale. Per Azoth fu una rivelazione. Non aveva neanche mai provato ad attraversare il ponte, e non aveva creduto ai ratti delle gang che dichiaravano di averlo fatto dietro le guardie. Sulla sponda orientale del fiume non c'erano rovine, non c'erano affatto edifici vuoti. Non c'erano mendicanti per le strade. Odorava in modo diverso, straniero, alieno. Azoth non riusciva a sentire la puzza di letame dei cortili del bestiame. Persino i canali di scolo erano diversi. Ce n'era solo uno ogni tre strade e nessuno nelle vie principali. La gente non gettava sbobbe e liquami fuori dalla finestra, li lasciava accumulare fino al momento di eliminarli. Allora li trasportava alla terza strada e li scaricava lì affinché defluissero in canali di pietra nelle strade di ciottoli, in modo che persino quelle strade fossero sicure per camminare. La cosa più allarmante, tuttavia, era l'odore delle persone. Gli nomini non puzzavano di sudore e del loro lavoro. Quando Passava una donna, profumava leggermente piuttosto che emanare penetranti odori stantii di sudore e sesso mischiati. Quando Azoth chiese spiegazioni a Durzo, il sicario disse: «Stai per essere oberato di lavoro, non è vero?». Superarono un edificio enorme da cui si levava del vapore. Uomini e donne scintillanti emergevano con acconciature perfette. Azoth non chiese neppure. «È un bagno pubblico», disse Blint. «Un'altra importazione ceuriana. L'unica differenza è che qui gli uomini e le donne fanno il bagno separati, tranne da Momma K, naturalmente». La proprietaria del Tipsy Tart salutò Blint come Mastro Tulii. Lui le rispose con un accento e un atteggiamento senza nerbo e ordinò che la sua carrozza fosse portata lì. Una volta in viaggio, Azoth chiese: «Dove stiamo andando? Chi è il conte Drake? » «È un vecchio amico, un nobile che deve lavorare per vivere. É un avvocato». Vedendo che Azoth era confuso, Mastro Blint aggiunse: «Un avvocato è un uomo che fa legalmente cose peggiori di quelle commesse dalla maggior parte dei truffatori fuori legge. Ma è un brav'uomo. Mi aiuterà a renderti utile». «Maestro?», chiese Azoth. «Come sta Bambola?»


«Lei non è più un tuo problema. Non devi chiedere di nuovo di lei». Le strade si riempirono in un minuto. «Ha un aspetto pessimo, ma vivrà». Non disse più una parola finché non vennero fatti accomodare nella minuscola tenuta del conte. Il conte Drake era un uomo di circa quarant’anni dall'aspetto cordiale. Aveva un pincenez infilato nel taschino della casacca e zoppicò leggermente mentre chiudeva la porta dietro di loro e prendeva posto dietro una scrivania sommersa da un'alta pila di documenti. «Non avrei mai pensato che avresti preso un apprendista, Durzo. Infatti, mi sembra di ricordare che avessi giurato di non farlo - e che l'avessi giurato a lungo termine». «E credo ancora a ogni parola che ho detto», disse Durzo burbero. «Ah, o sei tremendamente astuto o tutto questo non ha senso, amico mio». Il conte Drake sorrise, però, e ad Azoth sembrò un sorriso vero, senza malizia o calcolo. A dispetto di se stesso, anche Durzo sorrise. «Hanno sentito la tua mancanza, Rimbold». «Davvero? Non mi ero accorto che qualcuno mi desse la caccia da qualche tempo». Durzo rise e Azoth quasi cadde dalla sedia. Non avrebbe mai pensato che un sicario fosse capace di ridere. «Ho bisogno del tuo aiuto», disse Durzo. «Tutto quello che ho è tuo, Durzo». «Voglio una nuova identità per questo ragazzo». «Cosa hai in mente?», chiese il conte Drake, guardando Azoth curiosamente. «Un nobile di un certo tipo, relativamente povero. Il genere che viene invitato in società, ma che non attira l'attenzione». «Hmm», disse il conte Drake. «Il terzo figlio di un barone, quindi. Sarà dell'alta nobiltà, ma nessuno di importante. Aspetta. Un barone orientale. I miei cugini di secondo grado vivono a due giorni di viaggio da Havermere, e la maggior parte delle loro terre sono state confiscate dal Lae'knaught, quindi se vuoi un'identità inaccessibile, potremmo renderlo uno Stern». «Faremo così».


«Il nome?», chiese il conte Drake ad Azoth. «Azoth», disse il ragazzino. «Non il tuo vero nome, figliolo», disse il conte. «Il tuo nuovo nome». «Kylar», disse Durzo. Il conte tirò fuori un pezzo di carta bianca e si mise il pince-nez. «Come vuoi che si scriva? K-y-l-e-r? K-i-l-e-r?». Durzo fece lo spelling e l'avvocato lo scrisse. Il conte Drake sorrise. «Un vecchio gioco di parole Jaerano?» «Mi conosci», disse Durzo. «No, Durzo. Penso che nessuno ti conosca. É un po' minaccioso, non credi?» «Si confà alla vita». Per la centesima volta, Azoth non si sentì semplicemente un bambino, ma un estraneo. Sembrava che dappertutto ci fossero segreti che non poteva conoscere, misteri che non poteva penetrare. Adesso non si trattava soltanto di conversazioni bisbigliate con Momma K su qualcosa chiamato Ka'kari, o sulla politica del Sa'kagé, o su intrighi di corte, o magia, o creature immaginarie dal Freeze che Durzo riteneva esistessero, o altre che riteneva inesistenti, o riferimenti a dei e angeli che Blint non gli avrebbe spiegato neanche quando glielo avesse domandato. Adesso si trattava del suo nome. Azoth era sul punto di chiedere una spiegazione, ma stavano già parlando di altre cose. Il conte disse: «Quando ti serve questo e quanto deve essere solido?» «Solido. Prima è meglio è». «Come pensavo», disse il conte. «Lavorerò bene e, a meno che i veri Stern non vengano qui, non lo saprà mai nessuno. Di certo, a te rimane ancora un problema piuttosto significativo. Devi addestrarlo a essere un nobile». «Oh, no, non lo farò». «Di certo tu...». Il conte si interruppe. Schioccò la lingua. «Capisco». Regolò il suo pince-nez e guardò Azoth. «Quando lo prenderò con me?» «Fra pochi mesi, se vive così a lungo. Ci sono prima cose che devo insegnargli io». Durzo guardò fuori dalla finestra. «Chi è


quello?» «Ah», disse il conte Drake, «È il giovane lord Logan Gyre. Un giovane uomo che un giorno diventerà un bel duca». «No, il Sethi». «Non lo so. Non l'ho mai visto prima. Sembra un consigliere». Durzo imprecò. Afferrò la mano di Azoth e praticamente lo trascinò fuori dalla porta. «Sei pronto a obbedire?», domandò Durzo. Azoth annuì in fretta. «Vedi quel ragazzo?» «Lo chiamate ragazzo?», chiese Azoth. Il giovane uomo che il conte aveva chiamato Logan Gyre indossava un mantello verde bordato di nero, stivali di elegante pelle nera, lucidati fino a farli brillare, una tunica di cotone e una spada. Era a venti passi dalla porta e un inserviente lo stava facendo accomodare. Il suo volto sembrava giovane, ma la sua corporatura lo faceva apparire molto più grande di Azoth. Era enorme, più alto di quanto Azoth sarebbe mai potuto diventare, e più grosso di chiunque conoscesse, e non sembrava grasso. Laddove Azoth si sentiva goffo e impacciato nei suoi vestiti, Logan appariva a suo agio, sicuro, bello, un signore. Soltanto guardarlo faceva sentire Azoth trasandato. «Inizia un combattimento con lui. Distrai il Sethi finché non riesco a uscire». «Logan!», gridò una ragazza dal piano superiore. «Serah!», chiamò Logan, guardando in alto. Azoth guardò verso Mastro Blint, ma era andato via. Non c'era tempo di dire nulla. Non importava se aveva capito o no. C'erano misteri che non gli era ancora permesso capire. Poteva soltanto agire o aspettare, obbedire o disobbedire. Il maggiordomo aprì la porta e Azoth si nascose dietro l'angolo, fuori dal campo visivo. Come Logan entrò e guardò verso le scale, con un sorriso che gli incurvava le labbra, Azoth girò l'angolo. Si scontrarono e Azoth cadde a terra di schiena. Logan quasi inciampò sopra di lui non appena Azoth rotolò su un lato e prese il piede di Logan nello stomaco. «Oof!». Logan si afferrò alla ringhiera. «Le mie scuse...». «Voi scimmia lardosa!». Azoth barcollò sui suoi piedi, tenendosi lo stomaco. «Maldestra merda di fogna...». Si fermò quando


realizzò che tutte le parolacce che conosceva l'avrebbero bollato come proveniente dai Cunicoli. «Non...», disse Logan. «Cosa sta succedendo?», chiese la ragazza da sopra le scale. Logan guardò su, uno sguardo colpevole lampeggiava sul suo volto. Azoth gli diede un cazzotto sul naso. La testa di Logan dondolò indietro. «Logan!», gridò il Sethi. Ma l'espressione mite di Logan era sparita. Il suo volto era una maschera, intensa, ma non furiosa. Afferrò il mantello di Azoth e lo gettò sul pavimento. Azoth si allarmò; tirava cazzotti alla cieca, gridando, i suoi pugni sbucciavano le guance e il mento di Logan. «Logan!». «Smettila!», gridò Logan in faccia ad Azoth. «Smettila!». Azoth diventò pazzo e l'intensità dello sguardo di Logan lampeggiò di furia. Mosse le mani e con una inchiodò Azoth sul pavimento, poi con l'altra gli tirò un pugno nello stomaco una volta, due. L'aria schizzava via dai polmoni di Azoth. Poi un pugno della dimensione di una slitta gli appiattì il naso, accecandolo con lacrime istantanee e dolore. Tra grida lontane, sentì se stesso rapidamente e - poco dopo - volare.

roteare

sempre

più

Il volto di Azoth sbatté contro legno duro e il mondo lampeggiò luminoso.


Capitolo 14 Logan aveva insistito per andare al piano di sopra e aiutare la contessa a prendersi cura del giovane Kylar Stern. Era mortificato, e non solo perché si era arrabbiato di fronte alla graziosa figlia del conte Drake. Per Solon erano stati dieci secondi altamente istruttivi. Il conte Drake e Solon furono lasciati soli. Il conte lo portò nel suo ufficio. «Perché non vi sedete?», disse, prendendo la sua sedia dietro la scrivania. «Da dove venite, Mastro Tofusin?». Era cortesia o una trappola. Solon ridacchiò. «È la prima volta che mi fanno questa domanda». Fece dei gesti verso se stesso, come per dire basta guardare la mia pelle. Il conte disse: «Non vedo anelli di clan, o cicatrici che ne indichino la rimozione». «Be', non tutti i Sethi indossano gli anelli». «Avevo la netta sensazione che lo facessero», disse il conte Drake. «Che significa questo? Cosa cercate?» «Sono curioso di sapere chi siete veramente, Mastro Tofusin. Logan Gyre non è solo un giovane uomo raffinato che io considero quasi come un figlio, è anche improvvisamente il lord di uno dei casati più potenti della nostra terra. Non vi ho mai visto né ho sentito parlare di voi, e improvvisamente siete il suo consigliere? È strano. Non m'importa che siate un Sethi - se lo siete -, ma ho passato del tempo a Hokkai e Tawgathu e i soli Sethi che non forano le loro guance sono gli esuli privati del clan e della famiglia. Ma se siete un esule, dovreste avere le cicatrici degli anelli staccati, e non ne avete nessuna». «La vostra conoscenza della nostra cultura è ammirevole, ma incompleta. Io sono un membro di Casa Tofusin, Windseekers Casa Reale. L'incarico di mio padre era a Sho'cendi». «Un ambasciatore presso i maghi rossi?» «Sì. Sho'cendi accetta studenti da tutto il mondo. Poiché io non avevo talento magico, ho ricevuto la mia istruzione tra i mercanti e i nobili, che non sono così tolleranti. Non avere gli anelli rendeva la


vita un po' più facile. C'è qualcosa in più a questo proposito, ma non penso che il resto della mia storia siano affari vostri». «È sufficiente». «Cosa vi ha portato a Seth?», chiese Solon. «La schiavitù», disse il conte. «Prima di entrare a far parte del movimento che ha definitivamente messo fine alla schiavitù qui sette anni fa, pensavo che un cammino più moderato potesse funzionare. Sono andato a Hokkai per vedere se potevo imparare come rendere migliori le vite degli schiavi». Dalle dimensioni della sua casa - che era molto piccola per un nobile, persino per un conte - Solon capiva che il conte Drake non era stato uno degli schiavisti che si sentivano colpevoli della ritrovata ricchezza. Doveva essere stato da sempre un vero crociato. «È totalmente diverso a Seth», disse Solon. «L'Anno della Gioia cambia tutto». «Sì, ho avanzato l'idea qui, ho fatto in modo che la legge fosse emanata, ma il Sa'kagé l'ha immediatamente alterata. Invece di liberare ogni schiavo il settimo anno, gli schiavi dovevano essere liberati dopo sette anni dall'inizio del contratto. Il Sa'kagé dichiarava che era più semplice, che sarebbe stato ridicolo comprare uno schiavo il sesto anno e tenerlo per un solo mese o una settimana. Certamente in pratica il Sa'kagé tenne dei registri, quindi mentre nel tuo paese nel settimo anno si festeggia poiché ogni schiavo viene liberato, qui gli anni passavano e gli schiavi non venivano mai liberati. Divennero schiavi a vita. Venivano picchiati, flagellati, impiegati nei Giochi Mortali, i loro bambini mandati in orfanotrofio». «Ho sentito cose terribili in proposito», disse Solon. «Li creò il Sa'kagé, dicendo che sarebbero stati posti dove i figli delle prostitute avrebbero potuto essere redenti. Schiavi, certo, ma redenti. Suonava bene, ma ci diede posti come la House of Mercy. Scusate, non dovrei andare avanti. Fu un periodo buio. Quel ragazzo scenderà mai?» «Forse dovremmo iniziare», disse Solon. «Non penso che la questione possa aspettare e dal modo in cui Logan guardava sua figlia, direi che hanno un bel po' di cui parlare». Il conte ridacchiò. «Mi state mettendo alla prova?»


«Il duca Gyre lo sa?» «Sì. Io e lui siamo amici. Regnus è restio a voler controllare i flirt di Logan, date le circostanze del suo matrimonio». «Non le conosco. Potete illuminarmi?» «Non spetta a me. Comunque a Logan e Serah passerà. Qual è il problema?» «Catrinna Gyre». «Attento», disse il conte. «Il duca vi diede le lettere che dichiaravano suo figlio lord Gyre in sua assenza?» «Ne parlò, ma dovette partire in fretta. Disse che le avrebbe portate il suo maggiordomo». «Lady Gyre ha rubato le lettere e le ha distrutte. Poi è andata dalla regina». «Da chi è andata?». Il conte si meravigliò. «È inusuale?» «Non nutrono simpatia l'una per l'altra. Cosa è successo?», chiese il conte Drake. «Lady Gyre ha chiesto la tutela di Logan. Il re le ha udite per caso. È entrato e ha detto che l'avrebbe preso in considerazione. Cosa significa?». Il conte Drake si tolse il suo pince-nez e si sfregò il setto nasale. «Significa che se agisce in fretta, può nominare un tutore per Logan». «Catrinna Gyre si abbasserà a tanto?», chiese Solon. Il conte sospirò. «Legalmente il re può mettere al posto di Logan chiunque sia legato a lui, il che significa qualsiasi membro della nobiltà. E una volta che avrà scelto un tutore, neanche Regnus sarà in grado di revocare la nomina. Catrinna ha appena consegnato Casa Gyre al re». «Ma voi siete l'avvocato del duca Gyre - e lui vi ha comunicato le sue volontà. Non ha alcun peso questo?», chiese Solon. «Se il re fosse interessato alla verità, sì. Ora come ora, per salvare i Gyre, avremmo bisogno della pergamena della famiglia Gyre, del sigillo ufficiale del duca, e di una sconsiderata disponibilità


a falsificare un documento di Stato. Il re darà udienza tra mezz'ora. Suppongo questo sia il primo punto all'ordine del giorno. Non c'è tempo». Solon si schiarì la gola e tirò fuori un rotolo di pergamena pesante e un grande sigillo. Il conte Drake sorrise e gli strappò di mano la pergamena. «Improvvisamente mi piacete, Mastro Tofusin». «Wendel North mi ha aiutato con le parole», disse Solon. «Ho pensato di lasciare a voi la firma e il sigillo». Il conte Drake rovistò nella sua scrivania, trovò una lettera del duca, e la mise sul mandato di tutela. Con colpi veloci e sicuri falsificò la firma del duca in modo impeccabile. Il conte Drake sollevò lo sguardo con aria colpevole e disse: «Chiamiamolo soltanto l'artefatto di una gioventù sprecata». Solon fece gocciolare la ceralacca sulla pergamena: «Per la gioventù sprecata». «La prossima volta ti sposterai», disse Blint mentre Azoth si lamentava tornando cosciente. «Non penso mi muoverò mai più. Mi sento come se qualcuno mi avesse scagliato la testa contro un muro». Blint rise, era la seconda volta che Azoth lo sentiva farlo di recente. Era seduto sul bordo del letto di Azoth. «Hai fatto un buon lavoro. Hanno pensato che fossi imbarazzato perché ti hanno fatto cadere davanti alla figlia di Drake, quindi hanno deciso che fosse un'innocua roba da ragazzi. Il giovane lord Gyre era mortificato per averti colpito - sembra un gigante veramente molto amichevole, non si arrabbia mai. Il fatto che tu sei un quarto della sua stazza e che Serah era furiosa con lui aiuta. Sono rimasti tutti piuttosto impressionati». «Impressionati? È stupido». «Nel loro mondo il combattere ha delle regole, significa rischiare imbarazzo e dolore e, alla peggio, il tuo aspetto se ti ritrovi con un naso rotto o una sfortunata cicatrice. Non significa morire o uccidere. Nel loro mondo puoi lottare con un uomo e poi diventargli amico. Infatti tu farai in modo che Logan diventi tuo amico, perché con un uomo come lui puoi soltanto venirne fuori come un grande amico o un terribile nemico. Lo capisci, Kylar? Lavoreremo presto


sulla tua nuova identità». «Sì, signore. Signore, perché non avete permesso che Mastro Tofusin vi vedesse? É il motivo per cui mi avete fatto combattere con Logan, non è vero? Per essere una distrazione?» «Solon Tofusin è un mago. La maggior parte dei maghi - maschi - non può dire se hai il Talento soltanto guardandoti. D'altro canto la maggior parte delle maghe - maghi donne - può farlo. Ci sono modi per nascondersi ai loro occhi che ti insegnerò più avanti, ma non avevo il tempo di farlo e non avevo voglia di salire al piano di sopra e saltare fuori dalla finestra». Azoth era confuso. «Ma non si comporta come un mago». «E come lo sai?», chiese Durzo. «Uh...». Azoth non pensava che dire "non è come i maghi nelle storie" avrebbe fatto piacere a Durzo. «La verità è che», disse Durzo, «Solon non ha detto a Logan o a qualcun altro che è un mago, e tu non lo dirai a nessuno. Quando conosci i segreti di un uomo, hai potere su di lui. Il segreto di un uomo è la sua debolezza. Ogni uomo ha una debolezza, non importa...». La voce di Mastro Blint si interruppe, i suoi occhi improvvisamente lontani, spenti. Si alzò e se ne andò senza una parola. Azoth chiuse gli occhi, confuso. Si interrogava sul suo nuovo maestro. Si interrogava sulla gang. Si domandava se Ja'laliel avesse comprato l'uniforme. Si domandava cosa stesse facendo Jarl. Più di tutto, si domandava di Bambola. «Hey-ho, Azo». «Hey-ho, Jay-Oh», disse Azoth. Anche se diede alle parole la stessa intonazione di sempre, Azoth sentì una parte di se stesso morire. Questa era verosimilmente una delle ultime uscite come Azoth. Presto sarebbe diventato Kylar. Avrebbe camminato in modo diverso, parlato in modo diverso. Non avrebbe mai più fatto visita ai suoi vecchi vicini nei Cunicoli. Ma adesso vide che il mondo di Azoth stava già morendo, che non si sarebbe mai più legato di nuovo a Jarl. Non aveva niente a che fare con le bugie che avrebbe detto Kylar, e aveva tutto a che fare con Ratto. Era diverso adesso. Lo sarebbe sempre stato. Azoth e Jarl si guardarono per un lungo momento nella stanza


comune della casa di Momma K. Era quasi mezzanotte e i ratti delle gang sarebbero stati presto cacciati via dalla casa. Erano i benvenuti nella sala tutto il giorno, ma gli era permesso dormire lì solo in inverno, e poi solo se obbedivano alle sue regole: non dovevano lottare, rubare, andare da nessuna parte tranne che in cucina e nella stanza comune, e non dovevano disturbare gli adulti che le facevano visita. Qualsiasi ratto che infrangeva le regole faceva sì che l'intera gang venisse bandita dalla casa di Momma K per l'inverno. Di solito era una sentenza di morte per il colpevole, perché significava che tutta la gang avrebbe dormito nelle fogne per stare al caldo, e l'avrebbero ucciso per questo. Ciononostante, il posto era sempre affollato. C'erano un caminetto e un pavimento coperto di morbidi tappeti buoni per dormire. Quei tappeti, una volta puliti, adesso erano macchiati dei loro corpi schifosi. Nonostante il danno, Momma K non si infuriò mai con loro - e, ogni pochi mesi, apparivano nuovi tappeti. C'erano sedie resistenti su cui i ratti delle gang erano autorizzati a sedersi, giocattoli, bambole e pile di giochi con cui potevano divertirsi. A volte Momma K portava loro perfino delle sorprese. Scommettevano, si vantavano e spettegolavano liberamente con chiunque fosse lì, persino con bambini fuori della loro gang. Era l'unico posto in cui i ratti delle gang erano autorizzati ad assomigliare a bambini. Era l'unico posto sicuro che conoscevano. Tornarci ora sembrava diverso. Quello che era apparso fino a poco tempo prima un posto lussuoso adesso era soltanto una stanza scialba con arredamenti scialbi e giocattoli semplici, perché i ratti delle gang avrebbero rovinato qualsiasi cosa pregiata. Avrebbero macchiato tutto e rotto ciò che c'era di delicato, non per malizia, ma per ignoranza. Il posto era lo stesso; era Azoth che era cambiato. Azoth - o Kylar, chiunque lui fosse - si meravigliò del fetore dei ratti delle gang. Non si odoravano? Non provavano vergogna o era solo lui che la provava nel vedere quello che era stato? Come faceva sempre dopo la sua lezione di lettura con Momma K, Azoth aveva cercato Jarl. Ma adesso che erano faccia a faccia, nessuno dei due riusciva a trovare qualcosa da dire. «Ho bisogno del tuo aiuto», disse alla fine Azoth. Non c'era modo di nascondere cosa voleva. Non era lì per far visita a un amico. Era lì per svolgere un lavoro. «Il mio aiuto?»


«Ho bisogno di sapere cosa è successo a Bambola. Dov'è? E ho bisogno di sapere cosa è successo con le gang». «Suppongo tu non lo sappia». «No». Le gang non facevano parte della sua vita, adesso. Niente era com'era prima. «Il tuo maestro ti picchia?», chiese Jarl, guardando gli occhi pesti di Azoth. «Mi vedi così perché ho lottato. Sì, mi picchia, ma non come...». Azoth si interruppe. «Non come Ratto?» «Come sta?», disse Azoth, provando a simulare. «Perché non me lo dici tu? Tu sei quello che l'ha ucciso». Azoth aprì la bocca, ma vedendo due piccoli nel salotto di Momma K si fermò. «Blint ti ha fatto uccidere Ratto per vedere se riuscivi a farlo, non è vero?», chiese Jarl, a voce bassa. «No. Sei pazzo?». Nella sua testa riusciva a sentire l'eco della voce di Mastro Blint durante il loro addestramento: «Le parole vengono fuori. Le parole vengono sempre fuori». Il dolore riempì gli occhi di Jarl e non disse niente per un bel po'. «Non dovrei insistere, Azoth. Ti chiedo scusa. Dovrei solo ringraziarti. Ratto... mi ha incasinato di brutto. Sono così confuso. Lo odiavo, ma a volte... quando Ratto è scomparso e ti ho visto andar via con Blint...». Jarl sbatté rapidamente le palpebre e fissò lontano. «A volte ti odio. Mi hai lasciato senza nessuno. Ma questo non è giusto. Non hai fatto niente di sbagliato. Solo Ratto... e io». Azoth non sapeva cosa dire. Jarl sbatté di nuovo le palpebre furiosamente. «Zitto Jarl. Zitto». Asciugò le lacrime dai suoi occhi con i pugni. «Di cosa hai bisogno?». C'era qualcosa che Azoth doveva dire, lo sapeva. Qualche rassicurazione la doveva dare, ma non sapeva quale. Jarl era stato suo amico - era suo amico, o no? -, ma era cambiato. Azoth era cambiato. Si supponeva fosse Kylar adesso, ma invece era solo un impostore a cavallo tra due mondi che provava a trovare un appiglio quando questi cadevano in pezzi. A qualunque cosa il cataclisma chiamato Ratto avesse lasciato Azoth aggrappato, una


cosa era certa. Si era aperto un baratro tra lui e Jarl, e Azoth aveva paura anche solo ad avvicinarsi, non capiva cosa fosse, non sapeva nulla, tranne che lo faceva sentire sporco e spaventato. Jarl gli stava concedendo di ricostruire i ponti che erano crollati rispondendo alla sua semplice domanda - una domanda semplice a cui si poteva rispondere semplicemente, un problema che potevano veramente risolvere. «Bambola», disse Azoth. Si sentì sollevato allontanandosi da quello che una volta era suo amico e colpevole di sentirsi sollevato. «Oh», disse Jarl. «Sai che è stata...?» «È tutto a posto adesso?» «È viva. Ma non so se ce la farà. Si sono divertiti con lei. Senza te intorno lei non è più come prima. Ho condiviso il mio cibo con lei, ma la gang sta cadendo a pezzi. Le cose vanno troppo male. Non abbiamo abbastanza cibo». La gang, non la nostra gang. Azoth mantenne un'espressione impassibile, rifiutò di mostrare quanto gli faceva male. Non avrebbe dovuto soffrire. Lui era quello che voleva uscirne, era quello che era andato via, ma questo ancora lo faceva sentire vuoto. Sarai solo. Sarai diverso. Sempre. «Ja'laliel è quasi morto; è venuto fuori che Ratto aveva rubato il suo denaro per l'uniforme. E adesso loro hanno perso la zona portuale che è in mano all'Uomo di Fuoco e altri si stanno avvicinando». «Loro?». Il volto di Jarl si contorse in una smorfia. «Se non lo sai, mi hanno gettato fuori dal Dragone Nero. Ci hanno gettato tutti fuori. Non volevano bastardi e amanti di Ratto, hanno detto». «Non hai una gang?», chiese Azoth. Era un disastro. I ratti delle gang senza una gang erano facile preda per chiunque. Era un miracolo che Jarl fosse rimasto vivo da quando era stato espulso. Che avesse avuto cibo da dividere con Bambola era sorprendente, e che desiderasse farlo era umiliante. «Alcuni di noi si sono riuniti per un po'. Ci chiamano i Buggers. Ho intenzione di provare a unirmi a Pugno Due nella parte nord. Voci dicono che potrebbero presto ottenere il mercato su Durdun»,


disse Jarl. Così era Jarl. Aveva sempre un piano. «Vogliono prendere anche Bambola?». A rispondere fu un silenzio colpevole. «Ho chiesto. L'ho fatto, Azoth. Ma non vogliono. Se tu...». La bocca di Jarl si aprì per dire di più, poi si chiuse. «Non ho intenzione di insistere, Jarl. Ti ho cercato per restituirti questa». Azoth sollevò la tunica e scartò la fascia piena di monete. La porse a Jarl. «Azoth, questa - questa è due volte più pesante di com'era». «Mi prenderò cura di Bambola. Dammi un paio di settimane. Puoi prenderti cura di lei per questo periodo?». Gli occhi di Jarl si erano riempiti di lacrime e Azoth aveva paura che l'avrebbero fatto anche i suoi. Si chiamavano l'un l'altro Jarl e Azoth adesso, non Jay-Oh e Azo. Azoth disse: «Ho intenzione di dire a Momma K quanto sei intelligente e vedere se ha un lavoro per te. Sai, se le cose non si risolvono con Pugno Due». «Faresti questo per me?» «Sicuro, Jay-Oh». «Azo?», disse Jarl. «Sì?». Jarl esitò, deglutì. «Spero solo...». «Anch'io, Jarl. Anch'io».


Capitolo 15 Il prezzo della disobbedienza è la morte. Quelle parole continuavano a risuonare nella testa di Azoth ogni giorno da quando programmava la sua disobbedienza. L'addestramento era brutalmente duro, ma non brutale. Nelle gang un Pugno poteva picchiarti di proposito e fare un errore che ti lasciava storpio per sempre. Mastro Blint non faceva mai errori. Azoth soffriva esattamente quanto voleva Blint. Di solito, troppo. E allora? Azoth aveva due pasti al giorno. Poteva mangiare quanto voleva e Blint evitava l'indolenzimento dei muscoli con l'allenamento quotidiano. All'inizio era tutto imprecazioni e botte. Azoth non riusciva a fare niente bene. Ma le imprecazioni erano soltanto aria e le botte erano soltanto un dolore momentaneo. Blint non avrebbe mai storpiato Azoth e, se avesse deciso di ucciderlo, non c'era comunque nulla che Azoth avrebbe potuto fare per fermarlo. Era la cosa più vicina alla sicurezza che avesse mai conosciuto. Dopo settimane, realizzò che gli piaceva l'addestramento. L'allenamento, le esercitazioni con le armi senza punta, le corse a ostacoli, persino le tradizioni erboristiche. Imparare a leggere con Momma K era dura. E allora? Due ore al giorno di frustrazione non erano niente. La vita di Azoth era bella. In un mese capì che aveva talento. Non era ovvio, e se non fosse stato così in sintonia con ogni umore e reazione di Mastro Blint non l'avrebbe mai notato, ma ogni tanto vedeva un leggero sguardo di sorpresa poiché padroneggiava una nuova abilità più velocemente di quanto Mastro Blint si aspettasse. Questo lo faceva studiare più duramente, sperando di vedere quello sguardo non una volta alla settimana, ma una volta al giorno. Per quanto la riguardava, Momma K gli faceva decifrare scarabocchi più a lungo di quanto lui potesse immaginare. Lei aveva un modo particolare di sorridere e di dire proprio la cosa giusta che lo coinvolgeva durante le lezioni. Le parole erano potere, diceva lei. Le parole erano un'altra spada per l'uomo che le maneggiava bene. E lui ne avrebbe avuto bisogno se il mondo doveva credere che fosse Kylar Stern, così Momma K lavorava con


lui sulla sua nuova identità, interrogandolo con domande che avrebbero potuto porgli altri nobili, aiutandolo a inventarsi storie innocue sul crescere nella Cenaria orientale e insegnandogli i rudimenti dell'etichetta. Gli disse che il conte Drake gli avrebbe insegnato il resto una volta che fosse andato a vivere con la sua famiglia. Quando Azoth avrebbe varcato la porta dei Drake, disse lei, da quel momento sarebbe stato per sempre Kylar. Blint l'avrebbe addestrato in un rifugio sulla sponda orientale. Momma K l'avrebbe incontrato in una delle sue case sulla sponda orientale. Soltanto quando avesse cominciato ad accompagnare Blint negli incarichi sarebbe tornato nei Cunicoli. Azoth lavorò duramente per lei e senza lamentarsi, tranne una volta quando fu disgustato dalla sua stessa stupidità e gettò un libro dall'altra parte della stanza. Lavorò nell'inferno del malcontento di Momma K per una settimana, finché non le portò dei fiori che aveva rubato e lei lo perdonò. Aveva dato a Jarl molti soldi per prendersi cura di Bambola, ma Jarl non sarebbe stato capace di darle semplicemente i soldi; qualcuno li avrebbe rubati. La cosa peggiore era che lei era sola. Muta e con un volto orribilmente sfigurato, non si sarebbe neanche fatta qualche amico. «Il prezzo della disobbedienza è la morte», aveva detto Mastro glint. E lui gli aveva vietato di rivedere Bambola. Per sempre. Momma K disse ad Azoth che Mastro Blint sarebbe giunto alla fine a volergli bene e a fidarsi di lui, ma che quando diceva simili cose, Azoth per il momento doveva prenderle come legge. Questo rendeva Azoth speranzoso - fino a che lei precisò: la legge della strada, che era immutabile e onnipotente; non la patetica legge del re. Era un peccato, perché Azoth doveva vedere Bambola un'ultima volta. Quando ebbe questa opportunità, non fu per sua propria astuzia. Mastro Blint aveva un lavoro, quindi semplicemente lasciò Azoth per conto suo. Lasciò anche una lista di faccende, ma Azoth sapeva che se si fosse affrettato, poteva finirle tutte e avere ancora parecchie ore prima di dover incontrare Momma K per la sua lezione di lettura. Si gettò nel lavoro con furore. Spolverò la stanza delle armi, arrampicandosi su una scala per raggiungere le fila di armi più alte e l'attrezzatura fuori dalla sua portata. Controllò e pulì le armi in


legno per l'allenamento. Oliò e pulì le armi che Mastro Blint aveva usato di recente. Utilizzò un tipo di olio diverso per i bersagli in pelle e per i manichini che Mastro Blint gli faceva attaccare per ore. Controllò le cuciture su quelli che Mastro Blint stesso aveva preso a calci e, trovando parecchi strappi, li ricucì. Non era molto bravo con l'ago, ma Mastro Blint tollerava un lavoro meno che perfetto in questo - se non in altre cose. Spazzò il pavimento e, come sempre, non gettò la sporcizia fuori in strada, ma la raccolse in un piccolo cestino. Mastro Blint non voleva che lasciasse il rifugio. Mai, a meno che fosse sotto ordini diretti. Si ritrovò a pulire uno dei pugnali di Blint una seconda volta. Era una lunga lama sottile con una minuscola filigrana in oro. Per caso o per l'età, l'oro era sottile nelle scanalature, così il sangue si era raccolto in ogni stretta incisione della filigrana - Blint aveva usato questa lama di recente e doveva aver avuto fretta di rinfoderarla. Quindi Azoth usò la punta di un altro raffinato Pugnale per rimuovere il sangue. Avrebbe dovuto mettere a bagno la lama in acqua e poi strofinarla vigorosamente, ma questa era la sua ultima faccenda. C'erano ancora tre ore prima di dover andare da Momma K. Se avesse dovuto occuparsi delle faccende fino ad allora, non sarebbe stata colpa sua se non fosse uscito. «Cosa succede se non fai nulla?», gli aveva chiesto Blint. «Nulla. Ci sono un prezzo e una libertà terribile in questo, ragazzo. Ricordalo». Mastro Blint si riferiva al fatto di fare la propria mossa su una vittima quando le cose sembravano rischiose, ma Azoth riusciva a sentire il fardello di quelle parole adesso. Se faccio qualcosa, qual è la cosa peggiore che può capitare? Mastro Blint mi uccide. Non era una bella prospettiva. Le probabilità erano basse, però. A differenza degli altri sicari che potevano passare le loro vite intere nei Cunicoli, Mastro Blint prendeva incarichi soltanto da persone che potevano permettersi i suoi prezzi. Ciò di solito significava nobili. Di conseguenza sempre lato orientale. Quindi sarebbe stato nella parte opposta della città rispetto ad Azoth. La peggiore ipotesi se non faccio nulla? Bambola muore. Mise giù il pugnale con una smorfia. Trovare Bambola era più facile a dirsi che a farsi. La gang del Dragone Nero aveva cessato di esistere. Azoth andò nel loro


vecchio territorio e trovò che era stato inghiottito da Mano Rossa, Uomo di Fuoco e Coltello Selvaggio. I vecchi Dragoni Neri scarabocchiati sugli edifici e gli acquedotti stavano già scomparendo. Aveva con sé un paio di pugnali, ma non intendeva usarli. Una volta fu fermato da alcuni Uomini di Fuoco, ma uno dei grandi era stato una delle sue lucertole. Il ragazzo disse poche parole agli altri che stavano per derubare Azoth e scivolarono via. La lucertola non gli disse mai una parola. Attraversò il loro vecchio territorio una mezza dozzina di volte ma non trovò mai Bambola. Una volta pensò di vedere Corbin Fishill, qualcuno che aveva sempre saputo essere importante e che adesso sapeva - glielo aveva detto Mastro Blint - essere uno dei Nove. Ma tutti i ratti delle gang che vide si tennero a distanza. Il tempo stava finendo quando Azoth alla fine pensò al vecchio panificio. Bambola era lì, da sola. Era di schiena e, per un momento, Azoth si fermò, spaventato all'idea di attirare la sua attenzione. Poi lei si voltò. Il sadismo di Ratto era evidente. Un mese non era stato lungo abbastanza per guarire le sue ferite. Era stato lungo abbastanza soltanto per mostrare sia l'aspetto del suo volto nelle ultime settimane sia quello che avrebbe avuto per il resto della sua vita. Ratto l'aveva prima picchiata, picchiata fino alla sottomissione o all'incoscienza. Poi aveva usato un coltello sul suo volto. Un taglio profondo univa l'angolo dell'occhio sinistro all'angolo della bocca. Era stato suturato con una dozzina di minuscoli punti, ma la cicatrice avrebbe sollevato per sempre l'angolo della bocca di Bambola in un innaturale ghigno. Sull'altra guancia aveva un ampio taglio a forma di X che s'intonava con una X più piccola che le attraversava le labbra. Mangiare, sorridere, imbronciarsi - muovere la bocca per lei doveva essere assolutamente atroce. Un occhio era ancora gonfio e Azoth non era sicuro che sarebbe tornato a vedere. Il resto delle ferite sembrava destinato a scomparire. Una crosta sulla fronte, un livido nero che stava diventando giallo intorno all'altro occhio e un naso che probabilmente era stato rimesso a posto poiché Azoth era sicuro che Ratto l'aveva rotto. Tutto sommato, il suo volto era, e si supponeva dovesse essere, una dimostrazione di crudeltà. Ratto voleva che chiunque guardasse Bambola sapesse che non aveva avuto soltanto un incidente. Voleva che tutti sapessero che quello era stato fatto volutamente. Per un momento Azoth sperò che la morte di Ratto


fosse stata persino più orribile. Poi il tempo sembrò incominciare a scorrere di nuovo. Stava fissando Bambola, che fissava il volto del suo amico con manifesto orrore. I suoi occhi, che erano stati così pieni di sorpresa e di improvvisa speranza, si colmarono di lacrime. Si coprì e si voltò, piangendo silenziosamente, scuotendo le spalle sottili. Azoth si sedette accanto a lei. «Sono venuto prima che ho potuto. Ho un maestro adesso e ho dovuto disobbedirgli per essere qui, ma non potevo lasciarti. Le cose sono andate male, eh?». Lei cominciò a singhiozzare. Lui riusciva soltanto a immaginare i nomi con cui dovevano averla chiamata. A volte voleva uccidere quelli dei Cunicoli. Come avevano potuto divertirsi con Bambola? Come avevano potuto ferirla? Era un miracolo che fosse ancora viva. Un miracolo, e Jarl. Jarl doveva aver rischiato la sua vita una dozzina di volte. Azoth si avvicinò e la tirò a sé. Lei si voltò e si aggrappò a lui come se le lacrime la stessero sciogliendo. Lui la teneva e piangeva. Il tempo passava. Azoth si sentiva come se fosse stato prosciugato. Non era sicuro di quanto l'avesse tenuta tra le braccia, ma sapeva che era stato troppo a lungo. «Ho buone notizie», le disse. Lei guardò verso di lui con quei grandi occhi marroni. «Vieni con me», disse. Bambola lo seguì fuori dai Cunicoli, al di là del Vanden Bridge e dal conte Drake. I suoi occhi si spalancarono quando videro la casa del conte e ancora di più quando il vecchio maggiordomo aprì la porta ad Azoth e li fece accomodare. Il conte Drake era nel suo studio. Si alzò e li fece entrare, in qualche modo non si manifestò sorpresa davanti al terribile volto di Bambola. Lui era una persona migliore di Azoth. «Azoth ti ha detto perché sei qui, signorina?», chiese il conte. Il nome era una scelta voluta, notò Azoth. Bambola era parte della vita di Azoth - non sarebbe stata parte di quella di Kylar. Lei non avrebbe conosciuto il suo nuovo nome. Bambola scosse la testa timidamente, aggrappandosi ad Azoth. «Abbiamo trovato una famiglia per te, Bambola», disse il conte Drake. «Vogliono che tu vada da loro e sia la loro figlia. Si


prenderanno cura di te. Non dovrai mai più dormire in strada. Prestano servizio in una casa qui, nella parte orientale. Se non vuoi, non dovrai mai più tornare nei Cunicoli». Certo, era tutto un po' più intricato di così. Il conte Drake conosceva la famiglia da qualche tempo. Avevano preso negli anni altri orfani nati schiavi, ma non potevano permettersi di crescerne un altro. Quindi Azoth aveva giurato che avrebbe provveduto a lei con i suoi salari, che già erano generosi e che Mastro Blint gli aveva detto sarebbero aumentati, quando lui fosse diventato più utile. Il conte Drake non era stato entusiasta di avere un segreto nei confronti di Mastro Blint, ma dopo che Azoth gli aveva spiegato cosa era successo, aveva voluto aiutarlo. Bambola si aggrappò ad Azoth, non comprendendo o non credendo a quello che il conte aveva appena detto. Il conte Drake era in piedi. «Be', sono sicuro che ci sono alcune cose che desideri dirle, e io ho bisogno di predisporre la carrozza, con permesso». Li lasciò soli e Bambola guardò Azoth con una muta accusa negli occhi. «Non sei mai stata muta», disse lui. Lei gli strinse forte la mano. «Il mio padrone mi ha ordinato di non vederti. Oggi è l'ultima volta che ci vediamo». Lei strattonò la sua mano, il volto aggressivo. «Sì, per sempre», disse lui. «Non voglio che sia così, ma mi ucciderà se scopre che l'ho sfidato fino a questo punto. Scusami. Per favore, non essere arrabbiata con me». Lei stava piangendo di nuovo e non c'era nulla che lui potesse fare. «Devo andare adesso. Potrebbe tornare in qualsiasi momento. Scusami». Strappò gli occhi da lei e fece un passo verso la porta. «Non lasciarmi». Quella voce gli conficcò una lancia di ghiaccio nella schiena. Si voltò, incredulo. Era la voce di una ragazzina, esattamente quello che ci si sarebbe aspettati se non si fosse saputo che Bambola era muta. «Per

favore»,

disse

Bambola.

Era

una

bella

voce,

che


contrastava con la maschera tumefatta che Ratto le aveva lasciato al posto del volto. Gli occhi di Azoth si riempirono di nuovo di lacrime e corse fuori dalla porta... Dritto contro qualcuno alto e magro e possente come se fosse stato tagliato da solida roccia. Azoth cadde sul sedere e fissò in alto con orrore. Il volto di Mastro Blint era viola di rabbia. «Come hai osato?», gridò. «Dopo tutto quello che ho fatto per te, mi sfidi? Ho appena ucciso uno dei Nove e tu cosa fai? Te ne vai in giro lì dove ho commesso l'omicidio per due ore, così tutti sapranno che l'apprendista di Blint era lì. Potrei aver perso tutto!». Travolse Azoth sul pavimento come se fosse un micetto e lo colpì. La tunica del ragazzo si strappò nella mano di Blint, quando il ragazzo cadde indietro per la forza del colpo. Ma Blint venne avanti e questa volta il suo pugno s'infranse contro la mascella di Azoth. Il volto di Azoth rimbalzò sul pavimento del conte e a stento vide Bambola lanciarsi su Mastro Blint, quando l'enorme spada nera uscì dal fodero. «Non fatele male!», gridò Azoth. Insensatamente si gettò su Blint e afferrò la lama della Retribution, ma Blint era una forza della natura. Non rallentò nemmeno quando tirò su Bambola e la depositò all'ingresso. Chiuse la porta a chiave, l'aprì e la richiuse in una rapida successione. Poi tornò indietro verso Azoth, ma qualsiasi cosa stesse per dire gli morì sulle labbra. La grande spada nera era ancora bloccata nelle mani di Azoth, che aveva tagliato fino all'osso. Solo che ora non era nera. La lama risplendeva blu. Un fuoco blu incandescente circondava la mano di Azoth, bruciando freddo tra le sue dita tagliate, diffondendosi sulla lama... «No, quella no! É mia!», urlò Blint. Gettò la spada da parte come se fosse una vipera, lontano da entrambi. Se prima nei suoi occhi c'era furore, adesso si trasformò in una rabbia assoluta e irragionevole. Azoth non vide neanche il primo colpo. Non seppe neanche come raggiunse di nuovo il pavimento. Qualcosa di bagnato e appiccicoso gli impediva la visuale. Poi il mondo sparì pian piano sotto pesanti colpi ripetuti e lampi di luce e dolore e il respiro tagliente all'aglio di Mastro Blint e il gridare distante e il battere su una porta che sembrava sempre più


lontano.


Capitolo 16 Durzo fissava la schiumosa birra scura come se contenesse risposte. Non era così e lui aveva una scelta da fare. La solita forzata allegria del bordello volteggiava intorno a lui, ma nessuno, maschio o femmina, lo disturbava. Forse perché Retribution era sguainata sul tavolo davanti a lui. Forse era unicamente per l'espressione sul suo volto. Non fatele male!, aveva urlato Azoth. Come se Durzo avesse potuto assassinare una bambina di sette anni. Quale genere di mostro il ragazzo pensava che fosse? Poi ricordò di aver picchiato il ragazzo, di aver pestato spontaneamente quella carne urlante di bambino, colpendola fino all'incoscienza prima che il conte Drake abbattesse la porta e lo afferrasse. Aveva quasi ucciso persino il conte Drake, era stato così selvaggio. Il conte lo aveva fissato con un tale sguardo - maledetto il conte Drake e i suoi maledetti occhi santi. Il blu incandescente. Maledetto. Maledetta tutta la magia. In quel lampo di blu su Retribution aveva visto morire la sua speranza. La speranza stava morendo da quando era morta Vonda, ma quel blu era una porta che sbattendo si chiudeva per sempre. Significava che Azoth valeva più di Durzo, come se tutti gli anni di servizio di Durzo non fossero serviti a niente. Il ragazzo prendeva da lui tutto ciò che lo rendeva speciale. Cosa rimaneva a Durzo Blint? Ceneri. Ceneri e sangue e niente più. Improvvisamente la spada Retribution davanti a lui sembrò una presa in giro. Retribution? Dare alla gente quello che merita? Se facessi davvero questo, mi spingerei quella dannata spada in gola. L'ultima volta che si era sentito così prossimo alla pazzia era stato quando era morta Vonda, quattro mesi e sei giorni prima. Sospirando, fece girare la birra nel bicchiere, ma non bevve. Per quello ci sarebbe stato tempo in seguito. E poi, dopo aver preso la sua decisione, avrebbe avuto bisogno di bere qualcosa. Di bere dodici bicchieri, non importava cosa decideva. Aveva bevuto molto con Vonda. Aveva fatto arrabbiare sua sorella. Naturalmente, l'intera relazione aveva fatto arrabbiare Momma K. Lei aveva vietato a Durzo di vedere la sua piccola, innocente sorellina. Lei aveva vietato a Vonda di vedere il sicario.


Momma K, così intelligente in altre faccende, aveva incoraggiato la loro relazione più di chiunque altro. Circondata da carne facile, che lui pagasse o meno, la sorellina di Gwinvere fu improvvisamente intrigante. Lui voleva sapere se la sua virginale ritrosia era una messinscena. Lo era. Era rimasto deluso, ma non lo aveva dato a vedere. Era ipocrisia, comunque, e lei era piena di altri misteri. Vonda non lo trattava sempre bene, ma almeno non lo temeva. Lui pensava che non lo capisse abbastanza da essere spaventata. Sembrava limitarsi a scorrere lungo la superficie della vita mentre altri dovevano tuffarsi nelle profondità più putride. Durzo non l'aveva compresa e questo l'aveva incantato. Dopo l'inizio della loro relazione, lui avrebbe potuto tenerla segreta. Ci sarebbe riuscito; conosceva abbastanza bene Gwinvere da poter tenere le cose nascoste per anni. Nonostante l'intuito di Gwinvere, Durzo sapeva come essere impenetrabile. Ma non era successo. Vonda l'aveva detto alla sorella. Probabilmente lo aveva fatto subito, se Durzo la conosceva un po'. Sarebbe potuto essere un gesto insensibile, ma Vonda non sapeva ciò che stava facendo. «Falla finita adesso, Durzo Blint», gli aveva detto Gwinvere, in modo abbastanza calmo. «Lei ti distruggerà. Amo mia sorella, ma lei sarà la tua rovina». Erano state solo parole. Parole per fare a modo suo, come sempre. Nonostante tutto il suo potere, ciò che la faceva infuriare era non poter gestire le vite di quelli che voleva realmente. Aveva ragione, naturalmente. Forse non nel senso che intendeva lei, ma aveva ragione. Gwinvere l'aveva sempre compreso più di qualsiasi altra, e lui aveva compreso lei. Erano l'uno lo specchio dell'altra. Gwinvere Kirena sarebbe stata perfetta per lui - se lui avesse potuto amare ciò che vedeva nello specchio. Perché sto pensando a questo? È tutta vecchia merda. È tutto finito. C'era una scelta da fare: crescere il ragazzo e sperare o ucciderlo adesso? Speranza. Giusto. La speranza è costituita dalle menzogne che diciamo a noi stessi sul futuro. Prima aveva sperato. Aveva osato sognare una vita diversa, ma quando era giunto il momento... «Sembri pensieroso, Gaelan Starfire», disse un bardo ladeshiano, sedendosi dall'altra parte rispetto a Durzo, e senza aspettare di essere interpellato.


«Sto decidendo chi uccidere. Chiamami ancora così e salterai in cima alla lista, Aristarchos». Il bardo sorrise con la sicurezza di un uomo che sa di avere denti bianchi perfetti che risaltano su un bel volto. Per un Angelo della Notte. «Siamo terribilmente curiosi di sapere ciò che è accaduto negli ultimi mesi». «Tu e il tuo gruppo potete andare all'inferno», disse Durzo. «Penso che ti piaccia tutta questa attenzione, Durzo Blint. Se ci volessi morti, saremmo morti. O sei veramente legato a questo codice del castigo? È oggetto di un considerevole dibattito in società». «Litigate ancora sulle stesse questioni, eh? Non avete tutti qualcosa di meglio da fare? Parlare parlare parlare. Perché non fate qualcosa di produttivo per una volta?» «Ci stiamo provando, Durzo. Infatti è il motivo per cui sono qui. Voglio aiutarti». «Che gentile». «L'hai perso, non è vero?», chiese Aristarchos. «L'hai perso o ti ha abbandonato? Le pietre scelgono davvero i loro maestri?». Durzo notò che stava di nuovo facendo passare il coltello tra un dito e l'altro. Non era per intimidire il Ladeshiano - che abbastanza lodevolmente non gli diede neanche un'occhiata -, teneva soltanto le sue mani occupate. Non era nulla. Si fermò. «Ecco perché non sono mai stato amico di nessuno di voi, Aristarchos: non so se il vostro piccolo circolo è stato mai interessato a me o se è soltanto interessato al mio potere. Una volta mi ero quasi convinto a condividere qualcuno dei miei misteri, ma ho realizzato che quello che condivido con uno di voi lo condivido con tutti. Quindi dimmi, perché dare ai miei nemici un tale potere?» «É questo che siamo diventati?», chiese Aristarchos. «Nemici? Perché allora non ci elimini dalla faccia della terra? Sei l'unico all'altezza di un tale compito». «Non uccido senza una causa. La paura non è abbastanza per motivarmi. Potrebbe essere oltre la tua comprensione, ma posso conservare il potere senza usarlo». Aristarchos si accarezzò il mento. «Quindi sei un uomo migliore


di quanto molti temessero. Adesso capisco perché sei stato scelto per primo». Aristarchos si alzò. «Sappi questo, Durzo Blint. Sono lontano da casa e non ho i mezzi che potrei desiderare, ma se tu farai appello a me, ti darò l'aiuto che posso. E sapere che hai soltanto considerato la causa sarà per me una spiegazione sufficiente. Buona giornata». L'uomo uscì dal bordello, sorridendo e strizzando l'occhio alle puttane, che sembravano deluse di perdere un affare. Indossava il suo fascino come una maschera, osservò Durzo. Le maschere cambiano, ma i mascherati restano gli stessi, non e vero? Durzo aveva vissuto con quell'inutile umanità per così tanto tempo, che vedeva il marciume in tutti i cuori. Sapeva che il marciume era lì; su questo aveva ragione. Il marciume e l'oscurità erano persino nel cuore di Rimbold Drake. Ma Drake non agiva da quell'oscurità, vero? No. Quel mascherato - magari solo lui - era cambiato. La paura non basta a motivarmi, aveva detto - mentre pianificava di uccidere un bambino. Che genere di mostro sono? Era in trappola adesso. Sinceramente e disperatamente. Aveva appena ucciso Corbin Fishill. La morte dell'uomo era stata autorizzata dallo Shinga e dal resto dei Nove. Corbin aveva diretto le gang come se fosse a Khalidor, mettendole le une contro le altre, incoraggiando una guerra aperta tra di loro e non facendo assolutamente nulla per regolare la brutalità al loro interno. I Khalidoriani agivano così credendo che il migliore sarebbe poi emerso in modo naturale. Ma il Sa'kagé voleva membri, non mostri. Ancora peggio, essi ora avevano la prova che Corbin aveva realmente lavorato per Khalidor. Questo era imperdonabile. Non prendere il lavoro, ma prenderlo senza riferirlo al resto dei Nove. La lealtà si doveva prima al Sa'kagé. L'omicidio era stato autorizzato e commesso. Questo non significava che gli amici di Corbin l'avrebbero accettato. Durzo aveva già ucciso altri membri dei Nove prima, ma era sempre stato maniacalmente attento a non lasciare alcuna traccia. In questa occasione Azoth se n'era andato in giro per ore per i luoghi dell'omicidio, un po' prima che il lavoro fosse svolto e molto dopo. Diverse persone sapevano o supponevano che Durzo avesse preso Azoth come suo apprendista, quindi non potevano non collegarli. Era un lavoro negligente e da principianti, avrebbero detto. Forse


Durzo Blint stava perdendo colpi. Essere il migliore lo rendeva un bersaglio. Se avesse mostrato debolezza, avrebbe dato a ogni sicario di second'ordine la speranza di poter avanzare. Azoth non poteva saperlo, certo. Ancora non sapeva così tante cose. Ma in quel lampo di luce blu dalla lama di Retribution, Durzo aveva visto la propria morte. Se lasciava vivere il ragazzo, Durzo sarebbe morto. Prima o poi. Ed eccola lì. L'economia divina. Per qualcuno che vive, qualcun altro deve morire. Durzo Blint prese la sua decisone e cominciò a bere. «Mastro Blint non è venuto a vedere come sto». «No», disse Momma K. «Sono quattro giorni. Avevi detto che non era più arrabbiato», disse Azoth, stringendo i pugni. Pensava di avere le mani ferite, ma stavano bene. Molte altre parti del corpo gli facevano male, quindi non aveva soltanto immaginato di essere picchiato, ma le sue mani stavano bene. «Tre giorni. E non è arrabbiato. Bevi questo». «No. Non voglio più quella roba. Mi fa sentire peggio». Si pentì di quelle parole appena le disse. Le sopracciglia di Momma K si alzarono e i suoi occhi diventarono freddi. Persino rannicchiati sotto calde coperte in una camera degli ospiti della sua casa, quando i suoi occhi diventavano gelidi, non c'era nulla che potesse farti sentire caldo. «Bambino, lascia che ti racconti una storia. Hai mai sentito parlare del Serpente di Haran?». Azoth scosse la testa. «Il serpente ha sette teste, ma ogni volta che ne tagli una, al suo posto ne crescono due». «Veramente? C'è veramente una cosa del genere?» «No. Ad Haran immaginario».

lo

chiamano

il

Serpente

di

Ladesh.

È

«Allora perché mi hai detto questo?», chiese Azoth. «Stai diventando volutamente ottuso?». Quando lui non rispose, lei disse: «Se mi lascerai finire, vedrai che la storia è un'analogia.


Le analogie sono le bugie che dicono gli adulti». «Perché?». Stare immobile a letto rendeva Azoth petulante. «Perché si dicono bugie? Perché sono utili. Adesso bevi la tua medicina e poi chiudi la bocca», disse Momma K. Azoth sapeva che stava esagerando, perciò non chiese più nulla. Bevve il denso infuso al sapore di menta e anice. «Proprio adesso il Sa'kagé ha il suo Serpente di Haran, Azoth... Kylar. Conosci Corbin Fishill?». Azoth annuì. Corbin era l'uomo bello, imponente che era andato a volte a parlare con Ja'laliel. «Corbin era uno dei Nove. Dirigeva le gang dei bambini». «Era?». Azoth quasi squittì. Non sapeva che Corbin fosse importante, men che meno che fosse così importante. «Durzo l'ha ucciso tre giorni fa. Quando i ricoveri dei bambini furono chiusi, il Sa'kagé ebbe l'opportunità di allevare letteralmente il proprio esercito. Ma Corbin permise o incoraggiò la guerra tra gang che annientò i nati schiavi. Ed era una spia. Il Sa'kagé pensava fosse una spia ceuriana, ma adesso pensano che prendesse soldi da Khalidor. I Khalidoriani lo pagavano in oro ceuriano, probabilmente nell'eventualità che fosse stato scoperto e poi perché così non avrebbe iniziato a spendere immediatamente il denaro e ad attirare l'attenzione su di sé. Adesso che Corbin è morto, si è cercato tra le sue cose ma, sfortunatamente, non è stata trovata nessuna risposta chiara. Se era Khalidoriano, era molto più pericoloso di quanto pensassimo, e il Sa'kagé avrebbe dovuto prenderlo e torturarlo fino a saperlo per certo, ma al momento, pensavano fosse più importante dare un esempio concreto di cosa succede a quelli che amministrano male le imprese del Sa'kagé. Il problema adesso è più grande. Non pensiamo che Corbin abbia avuto quel ruolo abbastanza a lungo da alimentare nelle gang una qualunque forma di lealtà nei confronti di Khalidor - ai ratti della strada non importa molto da dove vengono i loro pasti -, ma il fatto che Khalidor possa lavorare al reclutamento delle gang ci dice che hanno piani a lungo termine». «Come sai che non era semplicemente la persona più facile da infiltrare nel Sa'kagé?».


Momma K sorrise. «Non lo sappiamo. Khalidor sta reprimendo alcune ribellioni proprio adesso e le cose non stanno andando bene per loro. Ma il Re Divino si è guadagnato la reputazione di uomo che agisce per vincere e la mia ipotesi è che possano passare anni prima che si senta pronto a marciare a sud, ma quando sarà il momento vuole che Cenaria cada al primo colpo. Se controlla il Sa'kagé, prendere la città sarà facile. Il nostro problema è che se è stato capace di infiltrare un uomo in una posizione così alta come Corbin, allora potrebbero essercene a dozzine. Le altre teste del serpente potrebbero mostrarsi in ogni momento. Qualunque uomo di nostra fiducia potrebbe lavorare per Khalidor». «Perché questo è un tuo problema?», chiese Azoth. «È un mio problema perché io sono uno dei Nove, Kylar. Sono la Signora dei Piaceri». La bocca di Azoth si spalancò per la sorpresa. Sempre, prima di quella rivelazione, il Sa'kagé gli era apparso come qualcosa di pericoloso, enorme e distante. Supponeva che i conti tornassero tutti sapevano che Momma K era stata una puttana e che era ricca -, ma non ci aveva mai pensato. Essere la Signora dei Piaceri significava che Momma K controllava tutta la prostituzione a Cenaria. Tutti quelli che esercitavano il commercio del piacere rispondevano sostanzialmente a lei. La donna sorrise. «A parte doveri più... faticosi, le mie ragazze tengono anche le orecchie aperte. Ti stupiresti di quanto loquaci possano essere gli uomini di fronte a quella che pensano sia soltanto una stupida puttana. Io sono responsabile delle spie del Sa'kagé. Ho bisogno di sapere cosa sta facendo Khalidor. Se non lo so io, non lo sa il Sa'kagé, e se noi non lo sappiamo il paese potrebbe cadere. Credimi, non vogliamo Garoth Ursuul come nostro re». «Perché mi stai dicendo tutto questo?», disse Azoth. «Io non sono nessuno». «Azoth non era nessuno. Tu sei sul punto di diventare Kylar Stern», disse lei. «E penso che tu sia più intelligente di quanto ti riconosca Durzo. Te lo sto dicendo perché abbiamo bisogno che tu sia dalla nostra parte. Azoth è stato stupido ad andarsene ni giro l'altro giorno, e questo potrebbe costare la vita a te o a Durzo. Ma se tu avessi saputo cosa stava succedendo, non saresti andato lì. Hai fatto la cosa sbagliata, ma Durzo non avrebbe dovuto picchiarti


perché hai mostrato iniziativa. Infatti, sono sicura che è dispiaciuto per averti picchiato, anche se non si scuserà mai. Non è un uomo che ammette di aver avuto torto. Noi abbiamo bisogno che tu sia più che un apprendista, Kylar. Abbiamo bisogno di te come alleato. Sei pronto per questo?». Azoth - Kylar - annuì lentamente. «Cosa vuoi che faccia?».


Capitolo 17 Kylar provò a guardare estasiato le cose giuste, quando venne fatto entrare nella tenuta dei Gyre. Azoth, gli aveva detto Momma K, avrebbe fissato come un allocco qualsiasi cosa grande o d'oro. Il baronetto Kylar Stern avrebbe ammirato soltanto le cose grandi e d'oro - e le opere d'arte. Logan lo aveva invitato per scusarsi di averlo colpito, e il primo incarico di Kylar per il Sa'kagé era assicurarsi che diventassero amici. Il maggiordomo lo accompagnò da un altro uomo vestito con abiti più sontuosi - Kylar lo salutò quasi come il duca Gyre prima di realizzare che doveva essere il ciambellano della famiglia. Il ciambellano lo accolse in un vasto ingresso con doppia scalinata che si arrampicava su tre piani accanto a un'enorme statua di marmo che ritraeva due uomini, gemelli, che si affrontavano in battaglia: ognuno vedeva la stessa apertura nella difesa dell'altro, ognuno si scagliava all'attacco. Era una delle statue più famose al mondo, aveva detto Momma K a Kylar: la Rovina dei gemelli Grasq. Secondo la storia, aveva detto Momma K, i gemelli Grasq erano pesantemente armati e durante una lunga battaglia ognuno aveva perso la sottile tunica che all'epoca era tutto ciò che gli uomini indossavano sulla cotta di maglia e che li identificava se erano separati dai loro portabandiera. Si erano uccisi tra di loro, sebbene ognuno avesse evitato l'altro nelle battaglie precedenti. Nella rappresentazione, gli uomini erano nudi, eccetto che per lo scudo e la spada. Per la disposizione dello scudo, ognuno aveva potuto vedere il volto dell'altro solo mentre sferrava il colpo mortale. Il ciambellano condusse Kylar su per le scale e attraverso una lunga ala della tenuta. Il corridoio era più ampio della gran parte delle viuzze nei Cunicoli. Entrambi i lati erano affollati di busti di marmo e di dipinti di uomini che parlavano, che combattevano, che afferravano donne, di ritratti di famiglie, di donne in lutto, di conseguenze delle battaglie e mostri orribili che traboccavano dagli spazi nel terreno. Ogni quadro era incorniciato da una pesante lamina d'oro. Gran parte di essi era grande. Camminando dietro il ciambellano, Kylar poteva ammirare quanto voleva, e lo fece. Poi si fermarono davanti a una grande porta. Il ciambellano diede dei colpetti con il bastone e la aprì su una biblioteca con dozzine di mensole in file ordinate e con le pareti ricoperte di libri e rotoli fino


a un'altezza di due piani. «Mio signore, il baronetto Kylar Stern». Logan Gyre si alzò da un tavolo su cui c'era una pergamena aperta. «Kylar! Stavo proprio finendo - ho preso in prestito questo rotolo da - oh, non importa. Benvenuto!». «Grazie per avermi invitato, duca Gyre; la vostra tenuta è bellissima. La statua dei gemelli Grasq toglie il respiro». Lo stava recitando nel modo in cui Momma K gli aveva insegnato, ma adesso lo pensava veramente. «Per favore, Logan. Siete troppo gentile. Vi piace davvero?», chiese Logan. Il "siete troppo gentile" lo tradì. Logan stava provando a essere adulto con la stessa difficoltà di Kylar. Kylar era nervoso perché era un impostore, ma anche il "duca" Logan si sentiva così. Il titolo era troppo grande e troppo nuovo per lui perché riuscisse a simulare in modo convincente di sentirsi a suo agio. Così Kylar rispose sinceramente: «Davvero, penso sia sorprendente. Mi auguro soltanto che non fossero nudi». Logan scoppiò a ridere. «Lo so! Il più delle volte io non lo noto più, ma ogni tanto mi affaccio dalla porta e... ci sono due enormi uomini nudi nella mia casa. A causa dei miei nuovi incarichi sto incontrando tutti i servitori e gli amici di mio padre. Veramente è un'occasione per le signore che mi presentano le loro figlie sperando che m'innamori pazzamente. Stavo salutando una donna e sua figlia, non farò nomi, ma sono donne bellissime e molto perbene, molto modeste. Dunque io sono piuttosto alto, giusto? Ed entrambe devono rivolgere lo sguardo veramente in alto per guardarmi negli occhi; mentre parlo e sono nel mezzo di una storia, la mamma comincia a ridere nervosamente e la figlia guarda affascinata, allora inizio a chiedermi se ho qualcosa nei capelli o nell'orecchio, perché entrambe continuano a guardare in quella direzione». «Oh, no», disse Kylar, ridendo. «Lancio un'occhiata oltre la mia spalla e c'è... be', lì, tre volte la dimensione reale, in marmo... i genitali. E allora capiscono che mi sono accorto che hanno guardato oltre la mia spalla per tutto il tempo, e realizzo che è la prima volta che la figlia vede un uomo nudo - e dimentico completamente quale storia stessi loro raccontando».


Risero insieme, Kylar disperatamente grato a Logan per aver dato abbastanza contesto da fargli capire il significato di "genitali". Tutti i nobili parlavano così? Che cosa sarebbe accaduto se la volta successiva Logan avesse fatto una battuta senza il contesto? Logan indicò sulla parete della biblioteca il ritratto di un uomo calvo dalle mascelle squadrate vestito in uno stile sconosciuto. «Devo ringraziare lui per quello. Il mio bis-bis-bisnonno, amante dell'arte». Kylar sorrise compiaciuto, ma si sentì come se fosse stato schiaffeggiato. Logan sapeva cose sul suo bis-bis-bisnonno. Kylar non sapeva neanche chi fosse suo padre. C'era silenzio e Kylar sapeva che riempirlo spettava a lui. «Io, uh, ho sentito che i gemelli Grasq combatterono qualcosa come sei battaglie l'uno contro l'altro». «Conoscete la loro storia?», chiese Logan. «Non la conoscono molte persone della nostra età». In ritardo Kylar realizzò il rischio di presentarsi come un amante di storie a questo uomo che amava i libri - e poteva davvero leggerli. «A me piacciono veramente le storie antiche», disse Kylar, «ma i miei genitori non vogliono che "perda il mio tempo riempiendomi la testa di storie"». «Davvero vi piacciono le storie? Aleine fa sempre finta di russare quando parlo di storia». Aleine? Oh, Aleine Gunder, il principe Aleine Gunder X. Il mondo di Logan era veramente diverso. «Guardate questo», indicò a Kylar il tavolo. «Qui, leggete questa parte». Ne sarei felice, se sapessi leggere. Il cuore di Kylar si fermò. Il suo travestimento era ancora così fragile. «Mi sembra di essere con i miei precettori», disse, vacillando. «Non voglio leggere per un'ora, mentre voi vi girate i pollici. Perché non mi riassumete le parti belle?» «Mi accorgo di aver monopolizzato la conversazione», disse Logan, improvvisamente impacciato. «E alquanto sgarbato». Kylar scrollò le spalle. «Non penso che siate sgarbato. É una storia nuova o cosa?». Gli occhi di Logan si accesero e Kylar seppe che era salvo. «No, è la fine del Ciclo di Alkestia, appena prima che cadano i Sette Regni. Mio padre mi ha fatto studiare i grandi comandanti del passato. In questo caso, Jorsin Alkestes, naturalmente. Quando


erano sotto assedio a Black Barrow, il suo braccio destro, Ezra il Folle - be', non era ancora Black Barrow ed Ezra non sarebbe andato a nascondersi nel Bosco di Ezra per altri cinquant'anni o giù di lì - comunque, Ezra è forse da sempre il miglior mago, dopo l'imperatore Jorsin Alkestes stesso. Sono sotto assedio in quello che è adesso Black Barrow ed Ezra comincia a fare la roba più sorprendente: i martelli di guerra di Oren Razin; fuoco e trappole luminose che possono usare persino i soldati privi del Talento; Curoch, la spada del potere; Iures, il bastone della legge; e poi questi sei artefatti magici, i ka'kari. Ognuno di essi sembra una palla splendente, ma i Sei Campioni possono stringerne uno e questo si scioglie e copre i loro interi corpi come una seconda pelle, e dà loro potere oltre il loro elemento. Arikus Daadrul ottiene questa pelle di argentato metallo liquido che lo rende resistente alle lame. Corvaer Blackwell diventa Corvaer il Rosso, il maestro del fuoco. Trace Arvagulania da brutta che era, diventata la donna più bella dell'epoca. Oren Razin ottiene il potere della terra, pesa quasi mezza tonnellata e muta la sua pelle in pietra. Irenaea Blochwei ottiene il potere di tutto ciò che è verde e che cresce. Shrad Marden ottiene il potere dell'acqua e può succhiare proprio quel liquido dal sangue di un uomo. La cosa che mi ha sempre incuriosito è che Jorsin Alkestes era un grande comandante. Mise insieme così tanta gente di talento, e molti di loro erano difficili ed egoisti e lui li fece collaborare ed essi andavano d'accordo. Ma alla fine insulta uno dei suoi migliori amici, Acaelus Thorne, e dà invece un ka'kari a Shrad Marden, che non gli piaceva neppure. Conosci Acaelus Thorne?» «Ho sentito questo nome», rispose Kylar. Era vero. A volte i ratti delle gang si radunavano attorno a una finestra di una delle taverne quando faceva visita un bardo, ma riuscivano soltanto a sentire brandelli di storie. «Acaelus era questo eccezionale combattente, ma un nobile sciocco. Senza astuzia. Odiava le menzogne, la politica, la magia, ma bastava mettergli una spada in mano e sarebbe andato ad assalire una forza nemica da solo se avesse dovuto farlo. Era così pazzo e così bravo che i suoi uomini l'avrebbero seguito ovunque. Ma per lui l'onore era tutto e vedere uomini meno degni davanti a lui era un immenso insulto. Fu quell'insulto che portò Acaelus a tradire Jorsin. Come ha potuto mancargli di rispetto Jorsin? Doveva sapere che lo stava offendendo».


«Cosa ne pensate?», chiese Kylar. Logan si passò una mano tra i capelli. «Forse tutto si spiega con qualcosa di noioso: c'era una guerra in corso ed erano tutti esausti e affamati e non pensavano lucidamente, e Jorsin fece solo un errore». «Quindi questo cosa vi insegna sull'essere un comandante?», chiese Kylar. Logan sembrava abbastanza?»

perplesso.

«Mangia

verdure

e

dormi

«Che ne pensate invece di "tratta bene i tuoi subalterni altrimenti ti prenderanno a calci nel sedere"?», suggerì Kylar. « Mi state chiedendo di combattere, baronetto Stern? “ «Vostra esaltata duchezza, sarà mio piacere ridimensionarvi».


Capitolo 18 Kylar entrò nel rifugio, eccitato per la vittoria. Aveva fatto tre tocchi contro i due di Logan. Logan aveva combattuto meglio, ma come Momma K aveva detto a Kylar, era cresciuto di trenta centimetri nell'ultimo anno e non si era ancora adattato alla sua nuova altezza. «Non solo sono diventato amico di Logan Gyre», disse Kylar, «l'ho anche battuto nel combattimento». Durzo non alzò nemmeno lo sguardo dal calcinatore. Alzò la fiamma sotto il piatto di rame. «Bene. Adesso non combattere mai più con lui. Dammi quello». Ferito, Kylar prese un recipiente da sotto i tubi vorticosi dell'alambicco e glielo diede. Durzo versò la densa miscela blu nell'apparecchio. Per il momento, stava lì, fermo. Incominciarono a formarsi piccole bolle e poco dopo la miscela stava rapidamente bollendo. «Perché no?», chiese Kylar. «Prendi le sbobbe, ragazzo». Kylar afferrò la ciotola della sbobba del maiale e la portò sul tavolo. «Combattiamo in modo diverso rispetto a quello che qualsiasi Maestro di Spada in questa città insegna. Se combatti con Logan, adotterai il suo stile basato sui libri e diventerai un combattente senza valore o rivelerai che hai avuto un'educazione completamente diversa». Kylar guardò torvo il calcinatore. Il suo maestro aveva ragione, certo, e anche se non l'avesse avuta, la sua parola era legge. La miscela blu adesso era diventata una polvere blu scuro. Durzo sollevò il piatto di rame dalla fiamma con una spessa imbottitura di lana e raschiò la polvere nella scodella della sbobba. Afferrò un altro piatto di rame, vi versò molta miscela blu e la pose sul fuoco, mettendo con un guantone pesante il primo da parte a raffreddare. «Maestro, voi sapete perché Jorsin Alkestes avrebbe insultato il suo migliore amico non dandogli un ka'kari?» «Forse aveva fatto troppe domande». «Logan ha detto che Acaelus Thorne era il più onorevole degli amici di Jorsin, ma lo tradì e ciò portò alla caduta dei Sette Regni», disse Kylar.


«La maggior parte delle persone non sono abbastanza forti per il nostro credo, Kylar, così si affidano a illusioni confortanti, come gli dei, o la Giustizia o la sostanziale bontà dell'uomo. Queste illusioni falliscono in guerra. La guerra rovina gli uomini. È probabilmente quello che è accaduto ad Acaelus». «Siete sicuro?», chiese Kylar. La versione di Logan era così diversa. «Sicuro?», chiese Blint, sprezzante. «Non sono sicuro di quello che i nobili fecero qui sette anni fa quando posero fine alla schiavitù. Come si potrebbe essere sicuri di cosa successe centinaia di anni fa così lontano? Porta questo al maiale». Kylar prese le sbobbe e le portò al maiale che avevano acquistato di recente per gli esperimenti di Mastro Blint. Mentre ritornava, vide Blint che lo fissava, come sul punto di dire qualcosa. Poi ci fu una piccola fiammata non appena il fuoco saltò dal piatto di rame dietro Mastro Blint. Prima che Kylar potesse sussultare, Blint si girò. Una mano invisibile si allungò dalle sue mani e afferrò il piatto di metallo direttamente dal fuoco e lo pose sul tavolo. Poi la mano sparì. Accadde così in fretta, che Kylar fu certo di averlo immaginato. Il piatto fumava e quella che sarebbe dovuta essere polvere blu era adesso una crosta nera. Una crosta nera che Kylar senza dubbio avrebbe presto raschiato finché il rame non fosse tornato a splendere. Blint imprecò. «Vedi, ti ritrovi coinvolto dal passato e diventi inutile nel presente. Dai, vediamo se quel maiale puzzolente è ancora vivo. Poi abbiamo bisogno di fare qualcosa ai tuoi capelli». Il maiale era morto e dopo la quantità di veleno che aveva ingerito, non era prudente mangiarlo, così Kylar passò mezza giornata a tagliarlo in pezzi e a bruciarlo. Dopodiché Mastro Blint lo fece spogliare fino alla vita e gli sfregò un impasto acre nei capelli. Gli bruciava il cuoio capelluto e Blint glielo fece tenere per un'ora. Ma quando alla fine sciacquò i capelli, Blint gli mostrò il suo riflesso allo specchio e a malapena si riconobbe. I suoi capelli erano biondo chiaro. «Ringrazia soltanto che sei giovane, altrimenti avrei dovuto spalmartelo anche sulle sopracciglia», disse Blint. «Adesso vestiti. I vestiti di Azoth. Il personaggio Azoth». «Vengo con voi? Per un incarico?»


«Vestiti». «Capisco perché la tubercolosi apparente costi novecento gunder. Sono sicuro che dobbiate fare avvelenamenti multipli per imitare la malattia», disse il nobile. «Ma centocinquanta per un apparente suicidio? Ridicolo. Pugnalate il vostro uomo e mettetegli il coltello in mano». «Che ne dice se iniziamo daccapo?», disse calmo Mastro Blint. «Voi parlerete come se fossi il miglior sicario della città e io parlerò come se ci fosse una possibilità da questa parte dell'inferno che io accetti l'incarico». La tensione era palpabile nella stanza al piano superiore della locanda. Il lord Generale Brant Agon non era contento, ma prese fiato, si passò una mano tra i capelli grigi e disse: «Perché fingere un suicidio costa centocinquanta monete d'oro?» «Un suicidio architettato per bene richiede mesi», disse Mastro Blint. «Dipende dalla storia della persona da uccidere. Se devo colpire uno notoriamente malinconico, i tempi possono essere ridotti a sei settimane. Se ha provato a suicidarsi prima, potrebbe bastare addirittura una settimana. Riesco nel mio intento in un modo o nell'altro e somministro intrugli speciali». Azoth cercava di prestare attenzione, ma indossare di nuovo i suoi vecchi abiti faceva infrangere le illusioni delle ultime settimane. Kylar era sparito - e non perché Azoth stesse eseguendo gli ordini fingendo di essere Azoth. Kylar era stato una maschera che gli aveva dato sicurezza. Aveva giocato con Logan e aveva giocato con Azoth per un po', ma la maschera era caduta. Lui era Azoth. Era debole. Non capiva cosa stesse facendo lì, o perché, ed era spaventato. Blint continuava, lanciandogli qualche occhiata di tanto in tanto. «Il nostro obiettivo diventa depresso, introverso, sospettoso. I sintomi peggiorano gradualmente. Poi forse muore il suo animale preferito. Il bersaglio è già irascibile e paranoico e presto colpisce i suoi amici. Gli amici che gli fanno visita - almeno quelli che prendono ristoro - diventano irritabili mentre sono con lui. Litigano. Smettono di andare a trovarlo. A volte il bersaglio scrive lui stesso il biglietto. A volte commette lui stesso il suicidio, anche se io lo controllo da vicino per essere sicuro che scelga un metodo appropriato all'effetto desiderato. Quando un suicidio avviene al


momento giusto, nessuno pensa a nient'altro che a un suicidio. La famiglia stessa nasconderà i dettagli e diffonderà qualche piccola prova». «Per la barba dell'Alto Re, è possibile una cosa del genere?», chiese il lord generale. «Possibile? Sì. Difficile? Molto. Serve un numero considerevole di veleni mescolati attentamente - sapete che ognuno reagisce in modo diverso ai veleni? - e un'enorme quantità del mio tempo. Se è necessario un biglietto contraffatto, verranno analizzati la corrispondenza e i diari del bersaglio cosicché non solo la calligrafia, ma anche lo stile e perfino alcune scelte del lessico siano identici». Durzo sorrise come un lupo. «L'assassinio è un'arte, milord, e io sono l'artista più esperto della città». «Quanti uomini avete ucciso?», chiese il lord generale. «Basta dire che non sono mai in ozio». L'uomo si trastullava con la barba e continuava a guardare il volantino che Mastro Blint gli aveva dato, ovviamente turbato. «Potrei chiedervi degli altri metodi, Mastro Blint?», disse, improvvisamente rispettoso. «Preferisco che vi informiate soltanto sulle morti che state seriamente considerando», disse Mastro Blint. «Perché?» «Considero i segreti molto importanti. Quindi non mi piace che si discuta della mia metodologia. E, per essere onesto, sapere troppo tende a spaventare quelli che mi assumono. Avevo un cliente qualche tempo fa che era molto orgoglioso delle sue difese. Mi chiese come avrei onorato un contratto con lui. Mi irritò e glielo dissi. Poi provò ad assumere un altro sicario per uccidermi. Fu respinto da tutti i professionisti di Cenaria. Finì con l'assumere un dilettante». «Vi considerate una leggenda», pizzicandosi il volto sottile.

disse

il

lord

generale,

Certo che Durzo Blint era una leggenda! Chi l'avrebbe assunto se non lo avessero saputo? Allo stesso tempo, sentire Mastro Blint parlare della sua attività con un nobile - con qualcuno come il conte Drake - era strano. Era come se i due mondi di Azoth fossero scomodamente vicini l'uno all'altro, e lui riuscisse a sentire la


soggezione del nobile in se stesso. Nella gang, Durzo Blint era considerato una leggenda perché aveva potere, perché la gente aveva paura di lui e lui non aveva mai paura di nessuno. Questo era ciò che aveva portato Azoth da lui. Ma questo nobile provava soggezione per ragioni diverse. Per lui, Durzo Blint era una creatura della notte. Era un uomo che poteva arrivare a violare le cose che lui amava. Minava tutto quello che il lord generale pensava fosse sicuro. L'uomo non sembrava spaventato; sembrava disgustato. «Non sto insinuando che terrorizzo ogni sicario in città». Mastro Blint sorrise. «Il fatto è che noi professionisti siamo un gruppo, se non compatto, sicuramente piccolo. Siamo colleghi, alcuni di noi persino amici. Il secondo sicario da cui quell'uomo andò fu Scarred Wrable...». «Ho sentito parlare di lui», disse Brant Agon. «In apparenza il secondo miglior assassino in città». «Sicario», corresse Blint. «É un mio amico. Mi ha detto cosa stava facendo questo cliente. In fondo - be', se una metafora militare con voi funziona meglio - sarebbe stato come provare una piccola incursione in una città che se lo aspettava, invece di una città ignara. Nel secondo caso poteva funzionare, nel primo era un suicidio». «Capisco», disse il lord generale. Fece una pausa per un momento, apparentemente sorpreso dal fatto che Mastro Blint sapeva chi fosse, poi improvvisamente sorrise. «E anche voi siete un tattico». «Cosa intendete?» «Non avete avuto molti contratti rescissi da quando avete iniziato a raccontare quella storia, vero?». Mastro Blint sorrise ampiamente. Questi erano due uomini, vide Azoth, che si capivano l'un l'altro. «Neanche uno. Dopotutto la diplomazia è un prolungamento della guerra», disse Blint. «Noi di solito diciamo che la guerra è un prolungamento della diplomazia», disse Brant Agon. «Ma penso di essere d'accordo con voi. Una volta mi sono trovato con pochi uomini e costretto a tenere una posizione contro il Lae'knaught per due giorni in attesa di rinforzi. Avevo alcuni prigionieri, quindi li misi in una posizione vulnerabile e dissi alle loro guardie che avremmo ricevuto rinforzi


all'alba. Durante il combattimento facemmo in modo che i prigionieri riuscissero a liberarsi e a riferire queste notizie ai loro superiori. L'esercito del Lae'knaught era così scoraggiato che esitò fino a quando non ricevemmo effettivamente rinforzi. Quella scelta salvò le nostre vite. Il che ci porta di nuovo alla nostra questione», disse il lord generale. «Ho bisogno di una soluzione che non è in questa vostra lista. Ho paura di non essere stato completamente sincero con voi, Mastro Blint», disse il lord generale. «Sono qui per il re». Il volto di Mastro Blint diventò improvvisamente privo di emozioni. «Capisco che dicendovi questo potremmo perdere l'uomo che mi ha dato il vostro nome. Ma il re ritiene che valga la pena di rischiare la vita di questo contatto e quella di uno dei suoi uomini-cioè io». «Non avete fatto nulla di insensato come circondare l'edificio con soldati, non è vero?», chiese Mastro Blint. «Niente del genere. Sono qui da solo». «Allora avete fatto la scelta giusta oggi». «Più di una. Abbiamo scelto voi, Mastro Blint. E io ho scelto di essere onesto con voi e spero che lo apprezzerete. Come sapete, il re è ricco, ma non politicamente o militarmente forte. É un boccone amaro, ma non è una novità. I nostri re non sono stati forti per centinaia di anni. Aleine Gunder spera di cambiare questo stato di cose. Ma oltre alle lotte interne, di cui senza dubbio voi conoscete più di quanto a me interessi sapere, il re è venuto recentemente a conoscenza di alcuni complotti piuttosto subdoli per sottrarre grandi somme di denaro non solo al tesoro, ma - con mille macchinazioni - anche a quasi ogni nobiluomo del paese. L'idea è, pensiamo, ridurre Cenaria a una tale povertà da renderci incapaci di mantenere un esercito». «Sembra un mucchio di denaro da rubare senza nessuno che lo noti», disse Mastro Blint. «Il ministro del Tesoro lo ha notato - in fondo è il suo lavoro. Ma nessun altro se ne è accorto, ancora. Lo schema non è ancora evidente. Il complotto maturerà tra sei o dieci anni. Gli uomini sono stati piazzati in posizioni chiave e ancora non hanno fatto niente di strano. C'è di più, molto di più, ma non avete bisogno di saperlo». «Cosa ho bisogno di sapere?», chiese Blint, con gli occhi


pesantemente chiusi. «Ho fatto qualche ricerca su di voi, Mastro Blint», disse il lord generale. «Anche se le informazioni che vi riguardano sono difficili da trovare. Tutti sanno che il Sa'kagé ha un potere enorme qui. La gente fuori dal paese lo sa. Khalidor lo sa. Il re ha bisogno di voi per più di una dozzina di incarichi, nell'arco di anni. Alcuni implicano semplici assassinii, alcuni implicano informazioni da scoprire e alcuni non implicheranno affatto uccidere, ma essere semplicemente visti. Il Re Divino Ursuul deve credere che il Sa'kagé e i suoi elementi siano nostri alleati». «Volete che diventi una spia». «Non... esattamente». «E suppongo mi concedereste il perdono per tutto quello che ho fatto?», chiese Mastro Blint. «Sono autorizzato a offrirvelo». Mastro Blint se ne stava in piedi, ridendo. «No, lord generale. Buona giornata». «Ho paura di non poter accettare un no come risposta. Il re l'ha vietato». «Spero che non stiate minacciando la mia vita», disse Mastro Blint. «Per prima cosa», disse il lord generale, guardando Azoth per la prima volta, «uccideremo il ragazzo».


Capitolo 19 Mastro Blint scrollò le spalle. «Poi?» «E uccideremo la vostra amante. Credo che il suo nome sia Vonda». «Potete uccidere quella baldracca. Ma credo che vi creerà qualche problema, considerando che è morta da quattro mesi». Il lord generale non fece neanche una pausa. «E uccideremo questa "Momma" Kirena che sembra essere la vostra unica amica. Poi verremo da voi. Non vorrei che andasse così, ma questo è quello che offre il re». «State facendo due errori», disse Mastro Blint. «Primo, state presumendo che dia alle vite degli altri più valore che alla mia. Come potete, sapendo quello che faccio, credere una cosa del genere? Secondo, state presumendo che dia un valore alla mia vita». «Per favore, cercate di capire. Sto eseguendo gli ordini. Personalmente, non vorrei avere a che fare con voi», disse il lord generale. «Penso che non si addica alla dignità di un re assumere criminali. Penso sia immorale e sciocco mettere denaro nelle vostre tasche piuttosto che incatenarvi i polsi. Vi trovo ripugnante. Una carcassa umana che somiglia a malapena a quello che una volta deve essere stato un uomo. Ma il re ha deciso che abbiamo bisogno di un mercenario come voi. Sono un soldato. Sono stato mandato per prendervi e non fallirò». «E state facendo un errore tattico», disse Mastro Blint. «Il re potrebbe uccidere il mio apprendista, la mia amica e persino me, ma come minimo avrà perso il suo lord generale. Un misero scambio». «Non penso considererebbe la mia morte una così grande perdita», disse il lord generale. «Ah, l'avete immaginato, non è vero?», chiese Blint. «Forse questa è la prima volta che mi vedete, Brant Agon, ma non è la prima volta che io vedo voi». Il lord generale sembrò confuso. «Quindi mi avete già visto. Come metà della gente in città».


«Vostra moglie occupa ancora il vostro lato del letto? Dolce, non è vero? Ancora indossa quella squallida camicia da notte con le margherite ricamate sull'orlo? La amate davvero, non è così?». Il lord Generale Agon si sentì raggelare. «Mi chiamate ripugnante?», chiese Durzo. «Mi dovete la vita!». «Che cosa?» «Vi siete mai chiesto perché avete ricevuto una promozione invece che un coltello nella schiena?». Dai suoi occhi persino Azoth avrebbe capito che l'aveva fatto. «Ero a casa vostra la notte in cui morì re Davin, quando voi e Regnus Gyre v'incontraste. Dovevo uccidere vostra moglie come ammonimento. Più tardi il principe vi avrebbe offerto un matrimonio migliore con una giovane nobildonna che sarebbe stata capace di darvi dei figli. E io ero stato autorizzato a uccidere sia voi che Regnus in caso aveste tramato tradimento. Vi ho risparmiato e io non vengo pagato a meno che non lasci cadaveri. Non mi aspetto la vostra gratitudine, lord generale, ma chiedo il vostro rispetto!». Il volto del lord generale Agon diventò grigio. «Voi... voi avete detto ad Aleine che il mio prezzo era la promozione. Lui ha pensato di corrompermi con una promozione piuttosto che con una moglie». Azoth poteva vederlo ripercorrere mentalmente i commenti che doveva aver sentito negli ultimi quattro mesi, mentre diventava sempre più debole. «Perché?» «Voi siete il generale illustre, l'eroe della vecchia guerra. Ditemelo voi». Durzo sogghignò. «Avere me come responsabile dell'esercito avrebbe diviso i nemici del Sa'kagé. Avrebbe impedito al re di mettere qualcuno di cui poteva fidarsi come responsabile militare. Voi bastardi avete gente ovunque, non è vero?» «Io? Io sono solo un mercenario. Sono solo la carcassa di un essere umano». Il volto del generale era ancora grigio, ma la sua schiena non si curvò mai di un centimetro. «Voi mi avete... voi mi avete dato molto a cui pensare, Mastro Blint. Sebbene io creda ancora che gli omicidi che avete commesso meritino l'impiccagione, ho disonorato voi e me con le mie parole affrettate. Mi scuso. Le mie scuse, tuttavia, non hanno effetto sulla determinazione del re che voi lo


serviate. Io...». «Andate fuori», disse Mastro Blint. «Andate fuori. Se riconsidererete le vostre minacce, sarò qui per qualche altro minuto». Il generale si alzò e, guardando attentamente Mastro Blint, si diresse verso la porta. La aprì e non distolse lo sguardo da Mastro Blint finché non chiuse la porta dietro di sé. Azoth sentì l'eco dei suoi passi giù all'ingresso. Mastro Blint fissò la porta e si allontanò dal tavolo. Invece di rilassarsi adesso che il generale era andato via, era teso. Tutto in lui parlava di potenziale azione. Sembrava una mangusta che aspettava di colpire un serpente. «Allontanati dalla porta, Azoth», disse. «Vai vicino alla finestra». Non c'era spazio per l'esitazione. Azoth aveva imparato quella lezione. Non doveva capire; doveva soltanto obbedire. Sentì un fragore per le scale e un forte imprecare. Azoth stava vicino alla finestra e guardava Mastro Blint, ma il volto butterato dell'uomo non tradiva nulla. Pochi attimi dopo, la porta venne spalancata. Il lord generale entrò con impeto, la spada sguainata. «Cosa avete fatto?», ruggì. Le sue ginocchia si curvarono e l'uomo si aggrappò pesantemente al telaio della porta per non cadere. Mastro Blint non disse nulla. Il generale batté le palpebre e provò a raddrizzarsi, ma uno spasmo attraversò il suo corpo non appena il suo stomaco ebbe un crampo. Passò, e lui disse «Come?» «Ho messo un veleno che entra in circolo a seguito del semplice contatto con il chiavistello della porta», disse Mastro Blint. «Passa direttamente attraverso la pelle». «Ma se noi avessimo raggiunto un accordo...», disse il lord generale. «Avrei aperto la porta per voi. Se aveste indossato i guanti, sarei ricorso ad altri piani. Adesso voglio che ascoltiate molto attentamente. Il re è un bambino incompetente, infido, sboccato, perciò ho intenzione di dirlo molto chiaramente. Sono un sicario di prim'ordine. Lui è un re di second'ordine. Non lavorerò per lui. Se volete, potete assumermi voi stesso: ucciderò il re, ma non


ucciderò per lui. E non c'è nessun modo in cui lui o voi possiate fare pressione su di me. So che non ci crederà, perché Aleine Gunder è il tipo di uomo che crede di poter ottenere tutto quello che vuole. Quindi, ecco cosa farò perché ci creda. Mastro Blint se ne stava in piedi. «Primo, ho intenzione di lasciargli un messaggio stanotte al castello. Secondo, indagherete su che cosa è accaduto al conte Yosar Glin. È lui il cliente che mi ha tradito. Terzo, c'è quello che è già accaduto a voi. E quarto - sedetevi, Agon, e mettete via la spada. È offensiva». Il lord generale Agon si lasciò cadere su una sedia. La lunga spada gli cadde dalle mani. Sembrava non avere la forza di raccoglierla. Ciononostante, i suoi occhi erano ancora nitidi e stava ascoltando ogni parola che Mastro Blint proferiva. «Lord Generale, non m'importa chi uccide. So che avete circondato questa locanda, che ci sono uomini con balestre che puntano le finestre di questa stanza. Di loro non mi importa. E, cosa che conta ancora di più, le minacce del re non importano. Non sarò il cagnolino di nessuno. Servo chi voglio, quando voglio e non lavorerò mai per Aleine Gunder. Azoth, vieni qui». Azoth andò dal suo maestro, chiedendosi perché Blint avesse usato il suo nome. Si posizionò davanti a Mastro Blint, che gli appoggiò le mani sulle spalle, e voltò il viso verso il generale Agon. «Azoth è il mio migliore apprendista. È agile, è intelligente. Impara le cose al volo. Lavora instancabilmente. Azoth, di' al generale cosa hai imparato sulla vita». Senza esitazione, Azoth disse: «La vita è vuota. La vita è senza significato. Quando prendiamo una vita, non portiamo via nulla di valore. I sicari sono assassini. È questo ciò che facciamo. È tutto quello che siamo. Non ci sono poeti in un'attività amara». «Lord Generale», disse Blint, «siete con me?» «Sono con voi», disse il generale, i suoi occhi infuriavano di rabbia. La voca di Mastro Blint era ghiaccio. «Allora sappiate questo: ucciderei il mio apprendista prima di lasciarvelo usare contro di me». Il generale sobbalzò bruscamente sulla sua sedia, come scioccato. Fissava Azoth. Azoth seguì il suo sguardo fino al proprio petto.


Parecchi centimetri di acciaio insanguinato sporgevano da lui. Azoth li vide e sentì una scomoda, prepotente, dilagante sensazione dalla schiena fino al centro del suo corpo. Sembrava fredda, poi calda, poi dolorosa. Batté lentamente le palpebre e tornò a guardare il generale, i cui occhi erano pieni di orrore. Azoth guardò l'acciaio. Riconobbe quella lama. L'aveva pulita il giorno in cui era andato a cercare Bambola. Sperava che Mastro Blint almeno la strofinasse prima di riportarla ad Azoth per pulirla. Aveva una filigrana sulla lama che tratteneva il sangue se si lasciava che si seccasse lì. Azoth aveva dovuto usare la punta di uno stiletto per rimuoverlo. C'erano volute ore. Poi Azoth notò la posizione del pugnale. Con quell'angolazione sul petto di un bambino avrebbe reciso un grande vaso del cuore. Se era così, sarebbe morto non appena il pugnale fosse stato estratto. Ci sarebbe stato molto sangue. Sarebbe morto in pochi secondi. Il corpo di Azoth sobbalzò quando il pugnale scomparve. Era vagamente consapevole delle sue ginocchia che si piegavano. Crollò su un fianco e sentì qualcosa di tiepido traboccare dal suo petto. Le assi di legno del pavimento lo respinsero spietatamente appena crollò su di esse. Giaceva con il volto verso l'alto. Mastro Blint aveva un pugnale in mano e diceva qualcosa. Mastro Blint mi ha appena pugnalato? Azoth non riusciva a crederlo. Cosa aveva fatto? Pensava che Mastro Blint fosse contento di lui. Doveva essere a causa di Bambola. Doveva essere ancora furioso per quello. Gli era sembrato che le cose andassero così bene. C'era una luce bianco-dorata ovunque. E lui era caldo. Così caldo.


Capitolo 20 «Vostra Maestà, per favore!». Re Aleine Gunder IX si lasciò cadere pesantemente sul trono. «Brant, è un solo uomo. Uno!». Si lanciò in un fiume di scurrilità. «Mi fareste mandare via la mia famiglia per paura di un solo uomo?» «Vostra Maestà», disse il lord generale Brant Agon. «La definizione di "uomo" potrebbe non addirsi a Durzo Blint. Comprendo le implicazioni...». «Certamente! Sapete le chiacchiere che nasceranno se mando via la mia famiglia da un momento all'altro?». Il re imprecò di nuovo, senza rendersene conto. «So cosa dicono di me. Lo so! Non darò motivo di parlare a vanvera, Brant». «Vostra Maestà, questo assassino non è dedito a minacce oziose. Per l'amore di tutto ciò che è sacro, ha assassinato il proprio apprendista a scopo dimostrativo!». «Un impostore. Avanti, generale. Eravate drogato. Non sapevate cosa stesse succedendo ». . «Era il mio corpo a stare male, non la mia mente. So quello che ho visto». Il re aspirò rumorosamente, poi arricciò le labbra avvertendo il lieve odore di zolfo nell'aria. «Dannazione! Quegli idioti sono *n grado di far funzionare qualcosa?». Uno dei condotti che portava l'aria calda dal Crepaccio dell'isola di Vos, a nord del castello, si era nuovamente guastato. Non apprezza quanto gli ingegneri ci facciano risparmiare ogni anno riscaldando l'intero castello con i tubi inseriti nella roccia. Non gli interessa che le turbine che girano con i venti del crepaccio gli diano la potenza di duecento mulini. Sentire l'odore dello zolfo una volta ogni quindici giorni, questo lo fa infuriare. Agon si chiese quale divinità cenaria avesse offeso per meritarsi un re del genere. Avrebbe dovuto convincere Regnus Gyre. Avrebbe dovuto dirglielo più chiaramente. Avrebbe dovuto mentirgli su quello che sarebbe successo ai figli avuti da Nalia con Aleine. Avrebbe potuto servire Regnus con fierezza. Con fierezza e onore.


«E va bene, forse l'avete visto uccidere un ragazzo», continuò il re. «A chi importa?». A te dovrebbe. A Regnus sarebbe importato. «Era sicuramente un qualche topo di fogna preso allo scopo di impressionarvi». «Con tutto il dovuto rispetto, sire, vi sbagliate. Ho avuto a che fare con uomini formidabili. Ho affrontato Dorgan Dunwal in un duello. Ho combattuto i lancieri lae'knaught di lord Graeblan. Ho...». «Sì, sì. Un migliaio di dannate battaglie dagli stramaledetti tempi di mio padre. Davvero notevole», disse il re. «Ma non avete mai imparato niente su come si governa, no?». Il generale Agon si irrigidì. «Non come voi, Vostra Maestà». «Be', se lo aveste fatto, generale, sapreste che non si può danneggiare la propria reputazione». Si lanciò in nuove imprecazioni. «Fuggire dal mio castello in piena notte!». Non c'era niente da fare con quell'uomo. Il re umiliava Agon quando avrebbe dovuto vergognarsi di se stesso. Eppure Agon gli aveva giurato fedeltà e aveva deciso, tanto tempo prima, che, un giuramento misurava il valore dell'uomo che lo faceva. Era come il suo matrimonio: non si sarebbe rimangiato la promessa semplicemente perché sua moglie non aveva potuto dargli dei figli. Ma i giuramenti valevano quando il proprio re aveva tramato per toglierti la vita? E non in un'onorevole battaglia, ma di notte, per mezzo della lama di un assassino? Quello però era successo prima che Agon gli giurasse fedeltà. Oramai aveva giurato, non importava che - avesse saputo a quel tempo quello che sapeva ora - avrebbe scelto di morire piuttosto che servire Aleine Gunder IX. «Vostra Maestà, posso almeno avere il permesso di tenere un'esercitazione per le mie guardie questa sera e di includere il vostro mago? Il capitano ha l'abitudine di fare cose del genere senza preavviso per tenere gli uomini sempre pronti». Anche se mi chiedo perché dovrei preservare la tua testa vuota. «Oh, andate all'inferno, generale. Voi e la vostra dannata paranoia. Va bene. Fate come vi pare». Il generale Agon si voltò per uscire dalla sala del trono. Anche il predecessore del re, Davin, era stato una zucca vuota. Ma ne era consapevole e delegava ai suoi consiglieri.


Aleine X, il figlio dell'attuale re, aveva solo quattordici anni, ma si dimostrava promettente. Sembrava aver ereditato un po' dell'intelligenza di sua madre, per lo meno. Se il figlio fosse grande abbastanza da prendere il potere, forse non ostacolerei quest'assassino. Per Dio, forse sarei io ad assoldarlo. Il generale Agon scosse la testa. Quello era tradimento e non poteva aver posto nella mente di un generale. Fergund Sa'fasti era stato nominato per servire Cenaria più per il suo acume politico che per il suo Talento. La verità era che si era a stento meritato la veste azzurra. Ma le sue doti, se non il suo Talento, gli erano state di grande utilità a Cenaria. Il re era stupido e sciocco, ma ci si poteva lavorare, se non si badava all'irascibilità e al turpiloquio. Quella sera, tuttavia, Fergund girovagava per il castello come se fosse una guardia. Si era appellato al re ma Aleine IX - lo chiamavano Niner, "Novenne", e non "Nono", solo quando bevevano tra amici - lo aveva ricoperto di improperi e gli aveva ordinato di fare tutto quello che diceva il lord generale. Per Fergund, il lord generale Agon era un derelitto. Era una Pessima cosa che non fosse riuscito ad adattarsi a Niner. Il vecchio aveva molte cose da offrire. Ma, d'altra parte, meno consiglieri aveva il re, più Fergund diventava importante. Disgustato per l'incarico di quella notte - cosa stava cercando, a proposito? - Fergund continuò il suo giro solitario del castello. Aveva pensato di chiedere una scorta, ma i maghi erano ritenuti più letali di cento uomini. Se nel suo caso non fosse andata esattamente così, non gliene sarebbe venuto niente di buono a rendere pubblica la cosa. Il cortile del castello era un rombo irregolare largo trecento passi e lungo quasi quattrocento. Era costeggiato a nord-ovest e sud-est dal fiume, poiché il Plith - solcato per un chilometro dall'isola di Vos - tornava a ricongiungere le proprie acque a sud del castello. Il cortile era animato dai suoni degli uomini, degli animali e dei cani che si sistemavano per la notte. Era ancora abbastanza presto perché gli uomini giocassero d'azzardo nelle loro baracche, e nella fitta nebbia aleggiavano insieme la melodia di una lira e le benigne imprecazioni delle guardie. Fergund si strinse ancora di più nel mantello. Lo spicchio di luna


non faceva granché per penetrare la fredda nebbiolina che saliva dal fiume e passava tra i cancelli. L'aria umida gli baciò il collo, facendogli rimpiangere il recente taglio di capelli. Il re aveva deriso i suoi capelli lunghi, ma l'amante di Fergund li adorava. E, ora che li aveva corti, il re lo aveva preso in giro ugualmente. La nebbia si arricciava curiosamente sul cancello di ferro e Fergund si immobilizzò. Abbracciò il potere - abbraccio?, aveva sempre pensato fosse più simile a un incontro di lotta - e sbirciò nella nebbia. Una volta sotto controllo, il potere lo calmò. Non vedeva niente di minaccioso e sia la sua vista che l'udito erano più acuti. Respirando profondamente, Fergund si forzò a proseguire oltre il cancello. Non sapeva se fosse la sua immaginazione, ma gli sembrava che la nebbia premesse contro le mura del castello come un esercito invasore, e si insinuasse attraverso ogni fenditura del cancello di ferro. Era fittissima alle sue spalle e le torce delle guardie non bastavano a diradarla. Rivolgendo loro un cenno, Fergund si voltò e tornò verso il castello. Si sentiva un peso tra le scapole, come di occhi che gli scavassero dentro, e represse l'istinto di guardarsi alle spalle. Ma, avvicinandosi alle stalle, la sensazione non fece che accentuarsi. L'aria era pesante, talmente densa che sembrava di camminare nella zuppa. La nebbia sembrava avvolgerlo nelle sue spire e leccargli la nuca nuda, tormentandolo. Con il levarsi della nebbia, la luna e le stelle erano scomparse del tutto. Il mondo era avvolto in una nuvola. Fergund incespicò girando l'angolo intorno alle stalle. Mise una mano avanti per sorreggersi contro il legno ma sentì qualcosa cedere prima di scomparire. Come se avesse toccato un uomo fermo in quel punto. Indietreggiando per la paura, Fergund cominciò ad artigliare l'aria. Non c'era nessuno lì. Finalmente, il suo Talento si manifestò. Colse il guizzo di un movimento nelle stalle - ma poteva essersi trattato della sua immaginazione. Aveva sentito odore di aglio? Sicuramente non poteva che essere stata la sua immaginazione. Ma perché avrebbe dovuto immaginare una cosa simile? Esitò per un lungo momento. Era un mago debole, non un uomo debole. Preparò una palla di fuoco ed estrasse il coltello. Ripassò davanti all'angolo, allertando ogni suo


senso, magico e terreno. Entrò con un salto e si guardò affannosamente attorno. Niente. I cavalli erano nei box, il loro afrore si mescolava alla fitta nebbia. Non sentiva che lo scalpiccio degli zoccoli e il respiro regolare degli animali addormentati. Fergund sondò l'oscurità alla ricerca di movimenti, ma non vide nulla. Più guardava, più si sentiva sciocco. Una parte di lui pensava che dovesse addentrarsi nelle stalle e l'altra voleva che ne uscisse subito. Nessuno avrebbe saputo che si era allontanato. Poteva andarsene dall'altro lato del castello e fare lì il suo giro. D'altra parte, se avesse acciuffato un intruso da solo, il re lo avrebbe senz'altro ben ricompensato. Se c'era una cosa in cui Niner era bravo, era ricompensare gli amici. Lentamente, Fergund diede forma visibile al fuoco che aveva preparato. Guizzò per un istante e poi si fermò, bruciandogli nel palmo. Un cavallo nel primo box sbuffò, indietreggiando impaurito, e Fergund fece per zittire la bestia. Ma, con il fuoco in una mano e il coltello scintillante nell'altra, era difficile calmare il cavallo. L'animale nitrì forte e si mise a pestare il suolo con gli zoccoli, svegliando gli altri cavalli. «Shh!», fece Fergund. «Calma, sono solo io». Ma un uomo sconosciuto con del fuoco in mano era decisamente troppo per gli animali. Cominciarono a nitrire rumorosamente. Lo stallone nel secondo box si mise a scalciare. «La smetti di spaventare i cavalli?», disse una voce forte dietro di lui. Fergund si spaventò talmente che il coltello gli cadde di mano e il fuoco scomparve. Si girò. Era solo lo stalliere, un uomo tarchiato e barbuto dell'isola di Pianga. Dorg Gamet entrò nella stalla, reggendo una lanterna. Rivolse a Fergund un'occhiata di puro disprezzo, mentre il mago raccoglieva piano piano il coltello da un mucchio di sterco di cavalli. Dorg percorse rapidamente la fila di animali e, al suo tocco e alla sua voce, i cavalli si calmarono all'istante. Fergund guardava imbarazzato. Alla fine, Dorg tornò verso di lui. «Stavo solo pattugliando...». «Usate una lanterna, voi altri», disse Dorg. Mise la propria in mano a Fergund. Se ne andò, parlottando tra sé. «Spaventare i miei dannati cavalli col fuoco stregato».


«È fuoco magico. C'è differenza!», gli gridò dietro Fergund. Dorg uscì dalle stalle infuriato e Fergund non fece in tempo a girarsi che sentì un tonfo. Corse fuori. Dorg giaceva a terra, privo di sensi. Prima che potesse urlare, Fergund sentì qualcosa di rovente nel collo. Alzò una mano e sentì qualcuno togliergli delicatamente dall'altra la lanterna. I suoi muscoli si irrigidirono. La luce si spense.


Capitolo 21 «Cosa diavolo hai fatto?», chiese Momma K, alzando lo sguardo mentre Durzo irrompeva nella stanza. «Un buon lavoro», rispose Durzo. «E mi è rimasto il tempo per una seratina fuori». Fece un sorriso ebete. Puzzava di aglio e alcool. «Non mi interessano le tue bisbocce. Cosa hai fatto ad Azoth?». Guardava la sagoma immobile che giaceva sul letto della sua stanza per gli ospiti. «Niente», disse Durzo, continuando a sorridere scioccamente. «Controlla. Non ha niente che non vada». «Che vuoi dire? È svenuto! Sono tornata e i servi erano tutti in subbuglio perché eri apparso qui con... dicevano che era un cadavere. Sono salita quassù e ho trovato Azoth. Non riesco a svegliarlo. Sembra morto». Per qualche ragione, la cosa fece scoppiare a ridere Durzo. Momma K lo schiaffeggiò con forza. «Dimmi cosa hai fatto. L'hai avvelenato?». Durzo si ricompose. Scosse la testa, cercando di snebbiarsi. « È morto. Deve essere morto». «Ma cosa vuoi dire?» «Meravigliosa Gwinvere», fece Durzo. «Non te lo posso dire. Qualcuno mi ha minacciato. Qualcuno che mantiene le sue promesse. Ha detto che avrebbe prima cercato Azoth, poi te - e sapeva di Vonda!». Momma K indietreggiò. Chi aveva il potere di minacciare Durzo? Chi o cosa era in grado di spaventare Durzo Blint? Durzo sprofondò in una poltrona e si nascose la faccia tra le mani. «Devono pensare che sia morto. Soprattutto dopo questa notte». «Hai finto di uccidere Azoth?». Durzo annuì. «Per far vedere che non mi interessava. Per dimostrare che non possono farmi pressioni». E invece sì, pensò Momma K, possono eccome. Sapeva che


Durzo stava pensando la stessa cosa. Il sicario non era mai stato invincibile come sembrava. E quando il suo controllo si incrinava, finiva per scoppiare del tutto. Il meglio che Momma K potesse fare era assicurarsi che Durzo andasse in uno dei suoi bordelli e che qualcuno lo tenesse d'occhio. Avrebbe potuto rimanervi due o tre giorni, ma lei poteva fare in modo che fosse al sicuro. Relativamente. «Mi prenderò cura del ragazzo», si sentì dire Momma K. «Hai idea di cosa farne una volta che si sveglia?» «Starà con i Drake come avevamo progettato. È morto per questo mondo». «Cosa hai usato?». Durzo la guardò, confuso. «Quale veleno - non importa, dimmi solo per quanto rimarrà così». «Non lo so». Gli occhi di Momma K si ridussero a due fessure. Voleva schiaffeggiarlo di nuovo. Quell'uomo era un pazzo. Perfino per un avvelenatore esperto come Durzo, era facile sbagliarsi con un bambino. Un bambino non era affatto un adulto di dimensioni ridotte. Durzo avrebbe potuto ucciderlo. Durzo poteva averlo ucciso. Azoth poteva non riprendersi più. O poteva svegliarsi con gravi problemi mentali, o perdere la funzionalità degli arti. «Sapevi che poteva morire», disse lei. «A volte bisogna rischiare». Durzo si palpeggiò le tasche, alla ricerca di aglio. «Stai cominciando ad amare quel ragazzo e questo ti spaventa a morte. Parte di te lo vuole morto, non è vero, Durzo?» «Se devo ascoltare le tue chiacchiere, non potresti almeno darmi qualcosa da bere?» «Dimmelo». «La vita è vuota. L'amore è un fallimento. Meglio che muoia adesso anziché farci uccidere entrambi più in là». Detto questo, Durzo sembrò sgonfiarsi. Momma K sapeva che non avrebbe detto altro. «Per quanto tempo te ne andrai a puttane?», gli chiese. «Non lo


so», rispose Blint, per nulla scomposto. «Dannazione a te! Più a lungo o meno del solito?» «Più a lungo», disse Durzo dopo un minuto. «Decisamente più a lungo». Il fiume di invettive precedette il re nella sala del trono di almeno dieci secondi. Il lord generale Agon sentì i domestici sgattaiolare via, vide le guardie all'ingresso della sala del trono agitarsi nervosamente, e notò che ogni membro della corte, che non doveva necessariamente essere lì, stava fuggendo altrove. Re Aleine IX entrò come una furia. «Brant! Mucchio di...». Il lord generale cancellò mentalmente il lungo elenco di cose repellenti a cui veniva paragonato e tornò a concentrarsi quando Niner arrivò al punto. «Cos'è successo stanotte?» «Vostra Maestà», disse il lord generale. «Non lo sappiamo». Un altro scroscio di insulti, alcuni più fantasiosi del solito, ma Niner non era particolarmente creativo e nessuno osava imprecare in sua presenza, perciò il suo arsenale si limitava a variazioni della parola merda. «Quello che sappiamo è questo», continuò Brant Agon. «Qualcuno si è introdotto nel castello. Suppongo possiamo pensare che si tratti dell'uomo di cui abbiamo parlato». Non c'era bisogno che le spie in ascolto sapessero tutto. «Durzo Blint», disse il re, annuendo. Il generale sospirò. «Sì, Vostra Maestà. A quanto pare, ha lasciato privi di sensi una guardia all'interno del castello, Fergund Sa'fasti e il vostro capo stalliere nelle stalle». Altre invettive, poi: «Cosa intendete con "privi di sensi"?». Il re camminava avanti e indietro. «Non hanno segni addosso e non riescono a ricordare niente, sebbene la guardia abbia una piccola ferita sul collo, come di un ago». Il re si lanciò in altri improperi, insultando anche l'imbarazzato mago. Come al solito, Agon si sentiva più annoiato che offeso. Le imprecazioni del re non avevano altro significato che "Guardami, sono un bambino viziato". Finalmente, Niner arrivò a un altro punto. «Non c'era altro?»


«Non abbiamo ancora trovato altro, sire. Nessuna delle guardie fuori della vostra stanza, di quella di vostra moglie, delle vostre figlie e di vostro figlio ha riferito di aver visto qualcosa di insolito». «Non è giusto», disse il re, avanzando a grandi passi verso il trono. «Cosa ho fatto per meritarmi questo?». Si accasciò sul trono - e strillò. Volò letteralmente via dal trono. Si abbarbicò al lord generale Agon. «Oh, dei! Mi sento svenire. Sto morendo! Dannazione a voi tutti! Sto morendo! Guardie! Aiuto! Guardie!». La voce del re era sempre più stridula. Aleine cominciò a piangere mentre le guardie soffiavano nei loro fischietti e suonavano campanelli, e la sala del trono si animava freneticamente. Il generale Agon si liberò delle dita del re a una a una e depose l'uomo dalle ginocchia molli tra le braccia del suo sicofante, Fergund Sa'fasti, che non seppe sostenerlo abbastanza. Il re crollò a terra e si mise a piagnucolare come un bambino. Il generale Agon lo ignorò e andò verso il trono. Vide all'istante ciò che cercava: un grosso e lungo ago che spuntava da un logoro cuscino del trono. Cercò di tirarlo fuori con le dita, ma l'ago non si mosse. Era stato fissato in modo che non si piegasse se il re ci si fosse seduto sopra in modo sbagliato. Agon tirò fuori il coltello e lacerò il cuscino. Estrasse l'ago, ignorando i campanelli, ignorando le guardie che si riversavano nella sala, circondando il re e radunando tutti gli altri in una stanza laterale, dove potessero essere trattenuti e interrogati. Il lord generale Agon, tirato fuori l'ago, vide che vi era attaccato un messaggio. Diceva: «Avrei potuto essere avvelenato». «Fatevi da parte!», gridava un ometto dal fondo della sala, facendosi largo tra i soldati. Era il medico del re. «Fatelo passare», ordinò il generale. I soldati si allontanarono dal re, che gemeva sul pavimento. Brant si avvicinò al dottore, gli mostrò il messaggio e sussurrò: «Il re avrà bisogno di un po' di vino di papavero, forse un bel po'. Ma non è avvelenato». «Grazie», disse l'uomo. Dietro di lui, il re si era calato i calzoni e allungava il collo per cercare di vedere la ferita sulle proprie natiche. «Ma, credetemi, so cosa devo fare con lui». Il generale represse un sorriso. «Scortate il re nei suoi


appartamenti», ordinò alle guardie. «Sorveglianza all'ingresso e due capitani all'interno della stanza. Il resto di voi torni ai propri incarichi». «Brant!», strillò il re quando le guardie lo raccolsero. «Lo voglio morto! Dannazione, lo voglio morto!». Brant Agon non si mosse fino a che la sala del trono non fu nuovamente vuota. Il re voleva far guerra a un'ombra, un'ombra priva di parti corporee a parte l'acciaio delle sue lame. Ecco come doveva essere assassinare un sicario. O peggio. Quanti uomini sarebbero morti prima che l'orgoglio del re fosse salvato? «Milord?», disse, titubante, una donna. Era una delle governanti. Teneva in mano un involto. «Io sono stata... scelta come portavoce delle governanti, signore. Ma con il re via e tutto... Potrei...?». Il generale la guardò attentamente. Era una donna anziana, evidentemente timorosa per la propria vita. Scommise che era stata "scelta" prendendo la pagliuzza corta. «Di cosa si tratta?» «Noi governanti abbiamo trovato questi. Qualcuno li ha lasciati in ognuna delle camere da letto reali, signore». La domestica gli porse l'involto. Conteneva sei pugnali neri. «Dove?», chiese Brant, con voce strozzata. «Sotto - sotto i cuscini della famiglia reale, signore».


Capitolo 22 Uno scalpiccio di piedini entrò nella coscienza di Azoth. Era uno strano suono da sentire da morto, ma Azoth non riusciva a pensare altrimenti. Piedini nudi sulla pietra. Doveva trovarsi all'esterno, perché il suono non riverberava contro alcuna parete. Cercò di aprire gli occhi e non ci riuscì. Forse era quella la morte. Forse non lasciavi mai il tuo corpo. Forse giacevi nel tuo cadavere e ti limitavi ad avvertire sensazioni mentre lentamente si decomponeva. Sperò che i cani non lo trovassero. Né i lupi. Aveva fatto sogni terrificanti su un lupo che cercava di azzannarlo, un lupo dai fiammeggianti occhi gialli. Se era bloccato nel suo corpo morto, cosa sarebbe successo se avessero cominciato a farlo a brandelli? Avrebbe trovato l'oblio come se si fosse finalmente addormentato o si sarebbe diviso in tanti pezzi di coscienza, per poi dissolversi nella terra dopo essere passato nelle viscere di una dozzina di bestie? Qualcosa gli toccò il viso e le sue palpebre si spalancarono. Sentì un sospiro di sorpresa prima che i suoi occhi potessero mettere a fuoco chi lo aveva emesso. Era una bambina, di forse cinque anni, con gli occhi talmente grandi che le coprivano metà faccia. «Mai visto un cadavere?», le chiese. «Papà! Papà!», strillò lei con tutto il sorprendente volume di cui sono capaci i bambini piccoli. Azoth gemette: il suono gli aveva conficcato mille coltelli nella testa; tornò ad accasciarsi sui cuscini. Cuscini? Quindi non era morto. Quella era probabilmente una buona cosa. Quando si risvegliò, doveva essere passato del tempo, perché la stanza era più luminosa e ariosa. Grandi finestre erano state aperte e i mobili di legno di ciliegio e il pavimento di marmo risplendevano alla luce del sole. Azoth riconobbe il soffitto modanato; l'aveva già guardato altre volte. Era nella camera degli ospiti del conte Drake. «Di ritorno dal regno dei morti, no?», chiese il conte Drake. Stava sorridendo. Vista l'espressione sul viso di Azoth, aggiunse: «Be', mi dispiace. Non pensarci. Non pensare affatto. Mangia». Gli mise davanti un piatto di uova fumanti e prosciutto, insieme a un bicchiere di vino annacquato. Il cibo parlò direttamente allo stomaco di Azoth, aggirando le più elevate funzioni cognitive. Solo


dopo diversi minuti si accorse che piatto e bicchiere erano vuoti. «Meglio», disse il conte. Si sedette sul bordo del letto, pulendosi distrattamente il pince-nez. «Sai chi sono e dove ti trovi? Bene. Ricordi chi sei?». Azoth annuì lentamente. Kylar. «Ho dei messaggi per te, ma se non ti senti abbastanza bene...». «No, per favore», disse Kylar. «Mastro Tulii dice che il tuo lavoro adesso è prepararti alla tua nuova vita e stare bene. Vale a dire "Tieni le chiappe a letto. Mi aspetto che tu sia pronto quando verrò a prenderti"». Kylar rise. Era tipico di Mastro Blint. «Quando verrà, allora?». Un'espressione preoccupata passò sul volto del conte. «Non subito. Ma non devi preoccuparti. Vivrai qui adesso. In pianta stabile. Continuerai le lezioni con il tuo maestro, naturalmente, ma faremo tutto il possibile per toglierti di dosso le abitudini della strada. Il tuo maestro mi ha incaricato di dirti che non ti rimetterai presto quanto credi. C'è qualcos'altro che voglio dirti, tuttavia. Riguardo alla tua piccola amica». «Volete dire...?» «Sta bene, Kylar». «Davvero?» «La sua nuova famiglia l'ha chiamata Elene. Ha dei bei vestiti, tre pasti al giorno. Sono brave persone. Le vorranno bene. Ora avrà una vera vita. Ma se vorrai esserle d'aiuto, devi stare bene». Kylar si sentiva come se stesse galleggiando. La luce del sole che entrava dalle finestre sembrava più brillante, più vivida. Una composizione di rose arancioni e lavanda risplendeva sul davanzale. Si sentiva bene in un modo mai provato da quando Ratto era diventato il Pugno del Dragone Nero. «L'hanno perfino portata da una maga e ha detto che si riprenderà. Ma non ha potuto fare niente per le cicatrici». Qualcuno aveva appena sparso catrame su tutta la sua felicità. «Mi dispiace, figliolo», disse il conte Drake. «Ma tu hai fatto tutto quello che potevi e, te lo prometto, lei avrà una vita migliore di quella che avrebbe mai potuto avere per strada».


Kylar lo sentì a malapena. Guardò fuori dalla finestra, distogliendo gli occhi dal conte. «Non posso ancora pagarvi. Non fino a quando non riavrò la mia paga da Mastro... dal mio maestro». «Non c'è fretta. Mi pagherai quando potrai. Oh, c'è un'ultima cosa che il tuo maestro mi ha chiesto di riferirti. Ha detto: "Impara da queste persone le cose che ti renderanno forte e dimentica il resto. Ascolta molto, parla poco, rimettiti in salute e goditela. Potrebbe essere l'unico periodo felice della tua vita"». Kylar rimase a letto per settimane. Cercava di dormire quanto il conte Drake gli diceva di dormire, ma aveva fin troppo tempo a disposizione. Non aveva mai avuto tempo prima; non gli piaceva. Quando era per la strada, passava ogni momento a preoccuparsi del pasto successivo, o di Ratto e degli altri ragazzi e ragazze più grandi che lo terrorizzavano. Con Mastro Blint era stato così occupato ad allenarsi che non aveva avuto tempo per pensare. Seduto a letto giorno e notte, non aveva altro che tempo. Allenarsi era impossibile. Leggere era possibile, ma era una tortura. Per un po', Azoth passò il suo tempo a diventare Kylar. Con le indicazioni che gli aveva dato Mastro Blint, e i fatti, che chiunque avrebbe potuto facilmente verificare, aveva inventato altre storie sulla sua famiglia, sulla zona da cui proveniva, le avventure che aveva avuto, rendendole innocue, proprio come alla gente piaceva pensare che fossero le vite degli undicenni. Riuscì ben presto nel suo intento e, per la maggior parte del tempo, pensò a se stesso come a Kylar. Stava anche conoscendo le figlie del conte Drake. Ilena era la graziosa bambina di cinque anni che aveva spaventato a morte al suo risveglio; Mags era un'allampanata ragazzina di otto anni e Serah una dodicenne a tratti goffa e riservata. Offrivano una qualche distrazione, ma la contessa faceva in modo che non "stancassero" Kylar, così che potesse "rimettersi in salute". Il conte e la contessa erano deliziosi, ma il conte Drake lavorava per gran parte del tempo e la contessa aveva idee precise sui ragazzi di undici anni - che non coincidevano affatto con quello che Kylar sapeva degli undicenni. Non riusciva mai a capire se lei sapeva chi fosse e fingesse il contrario per educarlo, o se il conte Drake l'avesse tenuta all'oscuro.


Era una donna flessuosa, dalla pelle chiara e gli occhi azzurri, e con una visione terrena degli esseri celesti in cui Drake credeva. Come il conte, aveva le proprie convinzioni, secondo le quali si prendeva personalmente cura di Kylar, a dimostrazione che non si sentiva superiore. Ma non era falsa umiltà: quando, la settimana prima, Kylar era stato terribilmente male e aveva vomitato tutto sul pavimento, lei era accorsa e lo aveva tenuto tra le braccia fino a che non aveva smesso di tremare. Poi, si era tirata su le maniche e aveva pulito il vomito da sé. Kylar stava troppo male per esserne sconvolto, e ci ripensò molto tempo dopo. Non poteva contare tutte le volte che lei era entrata nella stanza per rimpinzarlo di cibo o per controllare come si sentisse, o Per leggergli stupidi libri per bambini. Quei libri erano pieni di eroi valorosi che uccidevano streghe malvagie. I bambini non dovevano mai scavare tra mucchi di immondizia e vomito fuori dalle locande, in cerca di qualche boccone di cibo commestibile. I bambini più grandi non cercavano mai di fregarli. Non abbandonavano mai i loro amici. Le principesse che salvavano non avevano i volti tanto tumefatti da non poter essere riconosciute. Nessuno veniva così gravemente sfregiato che neanche una maga poteva porvi rimedio. Kylar odiava quelle storie, ma sapeva che la contessa voleva solo il meglio per lui, perciò annuiva e sorrideva e si rallegrava quando gli eroi vincevano - cosa che succedeva sempre. Non c'è da meravigliarsi che tutti i piccoli nobili vogliano condurre eserciti. Se fosse come nei libri che le loro madri leggono, sarebbe divertente. Sarebbe divertente essere soddisfatti quando il cattivo muore, invece di avere i conati di vomito per aver visto la cartilagine e il sangue uscire a fiotti da dove gli hai tagliato un orecchio. Il sangue che fa un milione di bellissimi mulinelli nell'acqua mentre lui muore dissanguato, tenuto sott'acqua dalla corda che gli hai legato attorno alla caviglia. La contessa interpretava sempre i suoi tremori e la sua nausea alla fine delle storie come un bisogno di maggior riposo, perciò, dopo aver rievocato i ricordi che ossessionavano Kylar, lo lasciava con quei furiosi fantasmi. Ogni notte, Kylar diventava Azoth. Ogni notte, Azoth si voltava e vedeva Ratto avanzare verso di sé, nudo, peloso, massiccio e con gli occhi carichi di lussuria. Ogni notte, Azoth guardava Ratto precipitare nell'acqua, lottando contro il peso legato alla sua caviglia. Ogni notte, guardava Ratto incidere la faccia di Bambola.


Gli incubi lo svegliavano e lui rimaneva a letto, a combattere i ricordi. Azoth era stato debole, ma Azoth non esisteva più. Kylar era forte. Kylar aveva agito. Kylar sarebbe stato come Mastro Blint. Non avrebbe mai avuto paura. Ora era meglio. Era meglio stare in un letto, in preda agli incubi, piuttosto che ascoltare i lamenti di Jarl che veniva sodomizzato. Riaddormentarsi significava passare da un incubo all'altro. Il giorno gli portava un po' di sollievo e, anche se lentamente, i ricordi sbiadivano. Ogni mattina si diceva che aveva fatto quello che doveva fare, che aveva dovuto uccidere Ratto, che aveva dovuto abbandonare Bambola, che aveva dovuto lasciare Jarl, che era meglio che non li vedesse mai più, che non poteva sapere quello che sarebbe successo a Bambola. Diceva a se stesso che la vita era vuota, che non portava via niente di valore quando si prendeva una vita. Non ce l'avrebbe fatta senza le visite di Logan Gyre. Ogni giorno, Logan veniva a trovarlo, inevitabilmente con Serah Drake. All'inizio, Kylar pensava che lo facesse perché si sentiva ancora colpevole, ma quel pensiero lo abbandonò presto. Godevano l'uno della compagnia dell'altro e in breve tempo divennero amici. Logan era strano: era intelligente come Jarl e aveva letto centinaia di libri. Kylar non pensava sarebbe sopravvissuto più di una settimana nei Cunicoli ma, al tempo stesso, parlava di politiche di corte come se fosse tutto così semplice. Conosceva i nomi, le storie, gli amici e i nemici di decine e decine di cortigiani, e conosceva i principali eventi della vita di ogni nobile d'alto rango del regno. Kylar passava la metà del tempo a chiedersi se non capiva quello di cui Logan parlava perché faceva tutto parte di una vita di corte che lui non aveva mai conosciuto, o semplicemente perché Logan usava dei paroloni. Un sesquipedale, così si definiva. Qualunque cosa significasse. Ciononostante, l'amicizia funzionava e Serah Drake contribuiva a farla funzionare fermandosi spesso, per poter stare con Logan. Lei riempiva i vuoti. Kylar non riusciva a contare le volte in cui rimaneva in silenzio perché non aveva capito un riferimento di Logan. Il silenzio cominciava a dilatarsi ma, prima che Logan potesse chiedergli perché non capisse, Serah cambiava totalmente discorso. Tutte quelle chiacchiere avrebbero potuto fare impazzire Kylar se non ne fosse stato così riconoscente. Ad ogni modo, forse era così che si comportavano le ragazze nobili.


Una mattina, Kylar era seduto a letto dopo aver passato un'altra notte a tremare sotto le coperte. Aveva sognato di essere lui a picchiare Bambola, che fossero i suoi piedi a prenderla a calci e che fossero i suoi occhi ad accendersi di esultanza quando vedeva la sua bellezza sciogliersi nella violenza della sua furia. Entrò il conte Drake. Aveva le dita sporche di inchiostro e sembrava stanco. Avvicinò una sedia al letto. «Pensiamo che il pericolo sia passato», disse. «Scusate?», disse Kylar. «Mi spiace che abbiamo dovuto tenerti all'oscuro, Kylar, ma dovevamo assicurarci che tu non facessi niente di avventato. Nelle ultime settimane, c'è stata una serie di attentati alla vita del tuo maestro. E, di conseguenza, ci sono ora quattro sicari in meno in città. Dopo tre tentativi, il tuo maestro ha fatto sapere al re che se ce ne fossero stati altri, lui sarebbe stato il prossimo a morire». «Mastro Blint ha ucciso il re?», chiese Kylar. «Shhh! Non dire quel nome. Neanche qui», lo redarguì il conte. «Uno dei Nove, Dabin Vosha, l'uomo del Sa'kagé incaricato del contrabbando, ha saputo della minaccia del tuo maestro. Ha pensato che sarebbe stato un buon momento per la propria scalata al potere e ha mandato un sicario per uccidere Durzo, pensando che Durzo sarebbe stato ucciso o avrebbe ucciso il re per rappresaglia. Durzo lo ha scoperto e ha ucciso sia Vosha che il sicario». «Intendete dire che tutto questo è successo mentre io me ne stavo a letto?» «Non potevi essere di alcun aiuto», disse il conte Drake. «Ma cosa aveva Dabin Vosha contro Mastro... il mio maestro?». Kylar non aveva mai neanche sentito quel nome. «Non lo so. Forse niente. È così che il Sa'kagé lavora, Kylar. C'è un complotto dentro l'altro e la maggior parte non ha seguito. Molti fanno un passo e poi muoiono, come questo. Se ti preoccupi per quello che ognuno cerca di fare, diventi uno spettatore e non un giocatore. A ogni modo, il re ha saputo dell'ultimo tentativo di uccidere il tuo maestro e si è spaventato molto. Normalmente, questa sarebbe una buona notizia, ma il re è piuttosto goffo nel consolidare il proprio potere. Logan dovrà passare un po' di tempo fuori città».


«Avevamo appena cominciato a essere amici», si lamentò Kylar. «Credimi, figliolo, un uomo come Logan Gyre ti sarà amico per la vita».


Capitolo 23 Qualcuno schiaffeggiò Kylar. E non fu delicato. «Sveglia, ragazzo». Kylar si arrampicò fuori dall'incubo e vide la faccia di Mastro Blint, a una trentina di centimetri, sul punto di schiaffeggiarlo nuovamente. «Mastro...», si interruppe. «Mastro Tulii?» «È bello vedere che ti ricordi di me, Kylar», disse Mastro Blint. Mastro Blint si alzò e chiuse la porta. «Non ho molto tempo. Stai bene? Non mentirmi per farmi piacere». «Sono ancora un po' debole, signore, ma mi sto riprendendo». Il cuore di Kylar martellava. Per settimane si era disperato perché voleva vedere Mastro Blint ma, ora che l'uomo era lì, Kylar era inspiegabilmente arrabbiato. «Probabilmente starai male per qualche altra settimana. O il ranuncolo e la pasta di avorida hanno interagito in un modo inaspettato, oppure è qualcosa che ha a che fare con il tuo Talento». «Cosa significa? Il Talento?», chiese Kylar. Le sue parole suonarono più aspre di quanto desiderasse, ma Blint sembrò non notarlo. «Be', se si è trattato di quello». Mastro Blint scrollò le spalle. «A volte, all'inizio, un corpo non reagisce bene alla magia». «Voglio dire, cosa significa? Sarò in grado di... ». «Volare? Diventare invisibile? Arrampicarti sui muri? Scagliare palle di fuoco? Camminare come un dio tra i mortali?», sorrise beffardo Blint. «Ne dubito». «Volevo chiedere se sarò in grado di muovermi velocemente come voi». Di nuovo il tono aspro nella sua voce. «Non lo so ancora, Kylar. Sarai in grado di muoverti più velocemente della maggior parte degli uomini senza Talento, ma non sono molti quelli dotati come me». «Cosa sarò in grado di fare, allora?»


«Sei debole, Kylar. Ne parleremo più in là». «Non ho niente da fare! Non posso neanche alzarmi dal letto. Nessuno mi dice niente». «Bene. Significa niente e significa tutto», disse Mastro Blint. «A Waeddryn o Alitaera, ti definirebbero un mago e sei diverse scuole dibatterebbero su dove e cosa dovresti studiare e su quale colore dovrebbe avere la tua veste. A Lodricar o Khalidor, ti chiamerebbero "meister" e cresceresti con il vir sulle braccia, come un tatuaggio, e adoreresti il tuo re come un dio, complottando su come pugnalarlo nella sua regale schiena. A Ymmur, saresti un predatore, un onorato e onorevole cacciatore di animali e talvolta di uomini. A Friaku, saresti un goratbi, un guerriero invincibile nel tuo clan e, un giorno, un re dedito alle arti della soggiogazione e della schiavitù. A occidente, be', saresti nell'oceano». Sogghignò. Contrariamente a Kylar. «I maghi credono - loro dicono che ipotizzano, per rendere la cosa più rispettabile - che paesi diversi generino Talenti diversi, ed è per questo che gli uomini con la pelle chiara e gli occhi azzurri diventano stregoni, mentre gli uomini bruni sono guerrieri goratbi. Dicono che sia questo il motivo per cui gli unici maghi che arrivano da Gandu sono Guaritori. Vedono uomini con la pelle gialla che sono in grado di guarire e affermano che pelle gialla significhi guarigione. Ma si sbagliano. Il nostro mondo è diviso, ma il Talento è uno solo. Ogni popolo riconosce una forma di magia - tranne i Lae'knaught che la odiano e, al contempo, non ci credono, ma questa è una cosa diversa -, però ogni popolo ha le proprie aspettative riguardo a essa. Gandu generava un tempo alcuni dei più distruttivi arcimaghi che il mondo abbia mai conosciuto. Videro orrori che non riusciresti a immaginare e, a causa di ciò, smisero di usare la magia come arma. L'unica che considerano è quella che guarisce. Perciò, con il passare dei secoli, si sono specializzati enormemente nella conoscenza della magia guaritrice, perdendo gran parte degli altri tipi. Un Gandiano con un grande Talento per il fuoco è una vergogna per se stesso e per la sua famiglia». «Perciò non ne sentiremmo mai parlare», concluse Kylar. «Esatto. C'è un punto di intersezione tra ciò che la gente attorno a te conosce abbastanza bene da poterlo insegnare, quello per cui sei naturalmente portato e ciò che è possibile che tu impari. Quindi, il Talento è quello che è e quello che deve essere. Come la tua


mente». Kylar si limitò a guardarlo. «Prendila in questo modo: alcune persone sono in grado di sommare a mente lunghi elenchi di numeri, giusto? E altre sanno parlare una decina di lingue. Per farlo, devono essere intelligenti, giusto?» «Giusto». «Ma, solo perché puoi imparare a sommare elenchi di numeri, non significa che lo farai. Tuttavia una donna che si occupa dei libri contabili e ha un talento per i numeri può. Oppure, un diplomatico potrebbe avere un talento per le lingue, ma se non impara mai un'altra lingua, continuerà a conoscerne una sola». Kylar annuì. «La donna con la mente matematica potrebbe probabilmente imparare un'altra lingua, se lavorasse abbastanza sodo, ma non parlerà mai fluentemente una decina di lingue. Mentre, l'uomo non sarà mai in grado di sommare mentalmente colonne di numeri. Capisci dove voglio andare a parare?». Kylar ci pensò e Mastro Blint aspettò. «Sappiamo che io ho il Talento, ma non quanto né di che tipo, dunque voi non potete sapere cosa sarò in grado di fare». «Giusto», annuì Mastro Blint. «Con il mio insegnamento, imparerai senz'altro delle cose. Hai bisogno di nasconderti? Il tuo Talento devierà un po' di luce. Hai bisogno di camminare senza fare rumore? Smorzerà i tuoi passi. Ma come ogni altro talento, ha dei limiti. Se cammini in pieno sole, ti vedranno. Se cammini sulle foglie secche, ti sentiranno. Hai il Talento, non sei un dio. Puoi avere la lingua più melliflua del mondo ma, se insulti il re, incontrerai il boia». «Se conosco dodici lingue e voi mi parlate usando una tredicesima lingua, non saprò quello che mi state dicendo». «A volte ascolti», disse Mastro Blint. «Devo andare ora. Il conte Drake si prenderà cura di te. È un brav'uomo, Kylar. Troppo buono. Puoi affidargli la tua vita; ma bada che non cominci con la tua anima. E pensa a te sempre come Kylar. Azoth è morto». «Morto?». Questo scatenò tutti i ricordi, la paura e la rabbia che si erano accumulati dentro di lui; fu come premere la levetta di una balestra. La sua maschera si dissolse e tornò a essere di nuovo


Azoth. Azoth afferrò il braccio di Mastro Blint. «D-davvero - io...». «No! Non lo sei. Questo ti sembra l'inferno?», disse Blint, mostrandogli la stanza. «Ah. E poi, non mi permetterebbero di visitare il paradiso». Ma Azoth ricordava il coltello che gli spuntava dal petto -era sembrato così reale. Come poteva essere? «Non potevo lavorare per loro», disse Mastro Blint. «Sarei stato una spada insanguinata a diposizione. Non sarebbero stati capaci di ripulirmi e neanche di rinfoderarmi. Alla fine mi avrebbero ucciso. È più facile tenere d'occhio i propri nemici che gli amici». «Quindi avete ucciso dei sicari?», chiese Azoth, cercando di riprendere il controllo di sé. Per settimane, aveva evitato di pensare a quel pomeriggio ma, ora, non riusciva a trattenersi. Si ricordò dello sguardo negli occhi del lord generale, lo shock assoluto. Si ricordò di aver seguito quegli occhi fino al proprio petto... «Nessuno di quelli bravi accetterebbe l'incarico di farmi fuori. Uomini come Wrable, Gibbet e Severing vengono pagati troppo bene per rischiare la vita sfidando un vero sicario. Ora, ricorda, tu sei uno Stern. Ne vai fiero, anche se sei povero. Gli Stern sono baroni, dunque alta nobiltà, ma il gradino più basso...». «Lo so», disse Azoth, interrompendolo. «Lo so». Era solo la sua immaginazione o Mastro Blint aveva un'aria colpevole? Il sicario pescò nella propria tasca e si infilò in bocca uno spicchio d'aglio. Se fosse stato chiunque altro, Azoth avrebbe giurato che stava cercando di distrarlo, affrettandosi a uscire dalla stanza prima che Azoth potesse bloccarlo. Perché ero così ansioso di compiacere un uomo che era disposto a uccidermi? Pensavo che gli importasse di me. Nelle settimane che aveva trascorso a letto, Kylar era stato solo. Non gli era rimasto niente della sua vecchia vita. Aveva trovato dei veri amici in Jarl e Bambola. Loro gli avevano voluto bene. Ora stava fingendo di essere amico di Logan Gyre - e perfino lui se ne era andato. Neanche Momma K era venuta a trovarlo. Provava quasi un dolore fisico quando il conte e la contessa entravano insieme. Era così evidente che si amavano; erano al sicuro e felici insieme. Perfino Logan e Serah si scambiavano talvolta sguardi che rivelavano quanto si piacessero. Quegli sguardi,


quell'amore riempivano Kylar di uno struggimento così profondo che si sentiva schiacciare il petto. Non si trattava solo di fame; un ratto delle gang conosceva la fame come le fogne in cui si rintanava l'inverno per scaldarsi. La fame non era piacevole, ma era familiare e non c'era da averne paura. Questa era una sete, come se il corpo fosse inaridito, disseccato, sul punto di sbriciolarsi. Stava morendo di sete sulle rive del più grande lago del mondo. Ma non era per lui. Per lui, quel lago era un oceano. Era acqua salata che, se l'avesse bevuta, avrebbe acuito sempre più la sua sete, fino a farlo impazzire e morire. L'amore significava la morte per un sicario. Pazzia, debolezza, vulnerabilità e morte, non solo per il sicario stesso ma anche per chiunque amasse. Tutto della vita di Azoth era morto. Aveva giurato che non avrebbe mai amato, ma non aveva mai visto nulla di simile a quello che condividevano il conte e la contessa, quando aveva fatto quel giuramento. Sarebbe stato sopportabile se qualcuno gli avesse voluto bene. Al tempo in cui era stato con Mastro Blint, aveva iniziato a pensare che il sicario gli volesse bene. Aveva creduto che qualche volta Mastro Blint fosse perfino fiero di lui. Anche se il lord generale dai capelli grigi gli era totalmente estraneo, c'era qualcosa di giusto nello sdegno e nell'incredulità che si erano accesi nei suoi occhi quando Mastro Blint aveva accoltellato Azoth. Non avrebbe dovuto farlo. Azoth scoppiò in lacrime. «Come avete potuto farlo? Cosa vi ha preso? Non è stato giusto». Blint fu colto di sorpresa per un istante, poi, all'improvviso, divenne furioso. Afferrò la tunica di Azoth e lo scosse. «Dannazione a te! Usa la testa! Se sei così stupido, avrei dovuto ucciderti. Mi ha creduto quando ho detto che non mi interessava se ti uccidevano?». Azoth distolse lo sguardo. «Avevate progettato tutto». «Certo che sì! Perché credi che ti abbia schiarito i capelli? Era l'unico modo per salvarti. Azoth doveva morire così Kylar poteva vivere. Altrimenti avrebbero avuto un appiglio. Ogni legame affettivo che stringi in questa vita sarà usato contro di te. Ecco perché siamo forti. Ecco perché quattro sicari non sono riusciti a uccidermi. Perché non ho affetti. Ecco perché non puoi innamorarti. Ti indebolisce. Non appena trovi qualcosa dalla quale non riesci ad allontanarti, sei in trappola, sei condannato. Se qualcuno pensa che


mi importi anche solo un pelo di topo di quello che ti succede, diventi un bersaglio. Per tutti». Come ci riesce? Come fa a essere così forte? «Adesso guarda. Guarda le mie dannate mani!». Blint le tirò su. Entrambe erano vuote. Ne chiuse una a pugno e si colpì un braccio. Un pugnale spuntò dal lato opposto. Tirò via la mano e il coltello gli attraversò la carne. Poi, si sfilacciò come fumo e svanì. «Sono dotato di un piccolo Talento per le illusioni. Ho fatto un lavoro migliore con te perché dovevo essere credibile. Ma tutto ciò che ho fatto è stato colpirti alla schiena con un ago soporifero, e mantenere l'illusione fino a che non ha fatto effetto». «Ma io l'ho sentito», disse Kylar. Stava riacquistando la sua baldanza. Le lacrime non c'erano più. Stava nuovamente pensando a se stesso come Kylar. «Sicuro che l'hai sentito. Mi hai sentito colpirti e hai visto un pugnale uscirti dal petto. Al tempo stesso, il tuo corpo stava cercando di combattere una dozzina di veleni leggeri. Ne hai tratto la conclusione che potevi. È stato un azzardo. Quell'illusione ha consumato quasi tutto il potere che posso usare in un giorno. Se gli uomini di Agon avessero attaccato la locanda, per noi sarebbe stata la fine. I veleni che ho usato ti hanno quasi distrutto il corpo. Avrebbero potuto ucciderti. Un altro rischio che ho dovuto correre». A Mastro Blint interessa quello che mi succede. Questa considerazione lo colpì come un fulmine. Mastro Blint aveva rischiato usando tutto il suo potere per salvare Azoth. Anche se si trattava solo dell'affetto che un maestro poteva provare per un apprendista talentuoso, l'approvazione di Blint si riversò su Azoth Kylar! - come se il sicario lo avesse abbracciato. A nessun adulto era mai importato cosa gli accadesse. L'unica altra persona che avesse mai rischiato qualcosa per lui era Jarl, ma Jarl faceva parte di un'altra vita. La verità era che Azoth odiava Azoth. Azoth era un codardo, passivo, debole, pauroso, sleale. Azoth aveva esitato. Mastro Blint non lo sapeva, ma i veleni sull'ago avevano ucciso Azoth. Era Kylar, adesso, e Kylar sarebbe stato tutto ciò che Azoth non aveva osato essere. In quel momento, Azoth divenne Kylar e Kylar appartenne a Blint. Se mai prima aveva obbedito al suo maestro mal volentieri o


per paura, se mai aveva fantasticato di tornare un giorno e ucciderlo per la durezza dell'addestramento, ora tutto era svanito come una nuvola di polvere. Mastro Blint era duro con Kylar perché la vita era dura. La vita era dura ma Blint era più duro, più forte di qualsiasi cosa i Cunicoli potessero opporgli. Teneva l'amore alla larga perché l'amore avrebbe distrutto Kylar. Mastro Blint ne sapeva più di Kylar. Era forte e avrebbe reso Kylar forte. Era feroce e Kylar sarebbe stato feroce. Ma era tutto per il bene di Kylar. Era tutto per proteggerlo, per farlo diventare il miglior sicario possibile. Dunque non si trattava di amore. E allora? Era qualcosa. Forse i nobili andavano a vivere sulla riva di quel lago e bevevano a piacimento. Quella vita non era destinata ai ratti delle gang. La vita di Kylar era una vita nel deserto. Ma nel deserto c'è vita e una piccola oasi portava il nome di Kylar. Non c'era spazio per Azoth. L'oasi era troppo piccola e Azoth aveva troppa sete. Ma Kylar poteva farcela. Kylar ce l'avrebbe fatta. Avrebbe reso Mastro Blint orgoglioso. «Bene», disse Mastro Blint. Naturalmente non poteva vedere cosa stesse pensando Kylar ma questi sapeva che l'impazienza nei suoi occhi era inequivocabile. «Allora, ragazzo, sei pronto a diventare una spada nelle ombre?».


Capitolo 24 «Sveglia, ragazzo. È tempo di uccidere». Kylar si svegliò all'istante. Aveva quattordici anni e l'addestramento aveva talmente fatto presa in lui, che immediatamente percorse la sua lista mentale di sopravvivenza. Per ogni domanda, c'era solo una succinta risposta. Ogni sensazione aveva diritto a un solo brevissimo istante della sua attenzione. Cosa ti ha svegliato? Voce. Cosa vedi? Buio, polvere, luce del pomeriggio, capanna. Che odore senti? Blint, fogne, Plith. Cosa senti? Coperta calda, paglia fresca, il mio letto, niente campanelli d'allarme. Riesci a muoverti? Sì. Dove sei? Nel rifugio. C'è pericolo? L'ultima domanda, naturalmente, era il culmine. Riusciva a muoversi, le sue armi erano nei foderi, tutto era a posto. Nulla di tutto ciò era scontato, neanche lì, in quello squallido rifugio all'ombra di una delle poche sezioni rimaste dell'antico acquedotto. Più di una volta, Durzo aveva legato una spada al soffitto sul letto di Kylar e quella dannata era quasi invisibile quando la guardavi di punta. Durzo aveva svegliato Kylar e, quando questi non aveva riconosciuto il pericolo dopo tre secondi, aveva tagliato la corda. Fortunatamente, aveva incappucciato la punta la prima volta, e anche la seconda. La terza volta, non l'aveva fatto. Un'altra volta, Durzo aveva fatto svegliare Kylar da Scarred Wrable - solo Durzo lo chiamava Ben. Scarred Wrable aveva perfino indossato gli abiti di Durzo e imitato la sua voce alla perfezione faceva parte del suo Talento. Quella volta, Kylar non si era fatto sorprendere. Neanche un pasto a base di aglio aveva dato all'uomo lo stesso alito che avrebbe avuto mangiando Blint. Decifrare le parole di Durzo era l'ultima cosa sulla lista. Tempo di uccidere. «Pensate che io sia pronto?», chiese Kylar, con il cuore che gli martellava. «Eri pronto un anno fa. Avevo solo bisogno del lavoro giusto per il tuo primo assolo». «Di cosa si tratta?». Ero pronto un anno fa? I complimenti di Blint giungevano così, le rare volte che li faceva. E di solito, perfino uno stentato complimento era seguito da qualche critica.


«É al castello e deve essere fatto oggi. Il tuo obiettivo è un ventiseienne, niente addestramento militare, non dovrebbe essere armato. Ma è molto amato, una piccola ape operosa. Molto operosa. Un assassino si esporrebbe a... vittime supplementari». Disse assassino con un sogghigno, come avrebbe fatto qualsiasi sicario. «Ma non ha importanza per il contratto. L'obiettivo deve morire. Porta a termine il lavoro». Il cuore di Kylar batteva forte. Dunque era così che sarebbe stato. Non era una semplice prova. Non si trattava di "Kylar è in grado di uccidere da solo?", bensì di "Kylar è in grado di fare quello che fa un sicario? Kylar è in grado di decidere un'idonea strategia di ingresso (nel castello, nientemeno), è in grado di uccidere da solo, è in grado di farlo senza uccidere innocenti, è in grado di allontanarsi dopo il colpo? Oh, ed è in grado di usare il suo Talento, la vera misura che distingue un sicario da un comune assassino?". Come diavolo fa Blint a venirsene fuori con queste cose? Quell'uomo aveva una grande abilità nello scovare e sfruttare le debolezze di Kylar, soprattutto la debolezza più grande di tutte: Kylar non era stato capace di usare il proprio Talento. Non ancora. Neanche una volta. Ormai avrebbe dovuto risvegliarsi, diceva Blint. Spingeva continuamente Kylar in nuove direzioni, sperando che ogni nuovo picco di stress o estremo bisogno, riuscisse a farlo emergere. Niente aveva ancora funzionato. Durzo si era chiesto ad alta voce se non avesse semplicemente dovuto uccidere Kylar. Invece, aveva deciso che, fino a quando Kylar fosse riuscito a fare tutto ciò che fa un sicario, avrebbe continuato ad addestrarlo. Era sicuro che alla fine avrebbe fallito. Era una cosa impossibile. Un sicario non era tale senza il Talento. «Chi ha sottoscritto il contratto?», domandò Kylar. «Lo Shinga». «Vi fidate a darmi questo incarico?» «Cominci questo pomeriggio. Se incasini tutto, ci penserò io stasera e porterò allo Shinga due teste». Kylar non ebbe bisogno di chiedere a chi sarebbe appartenuta la seconda. «Cosa ha fatto la persona da colpire?» «Non ti serve saperlo». «Ha importanza?».


Un coltello apparve nella mano di Durzo, ma i suoi occhi non erano violenti. Stava pensando. Fece passare il coltello tra un dito e l'altro. Dito, dito, dito, stop. Dito, dito, dito e indietro. Kylar aveva visto una volta un bardo farlo con una moneta, ma solo Durzo usava un coltello. «No», rispose Durzo. «Non ne ha. Il nome è Devon Corgi e diciamo solo che quando la maggior parte delle persone cerca di allontanarsi dalle tenebre, porta con sé qualche bagaglio pieno. Questo le rallenta. Non riescono mai a farcela. Ho conosciuto un solo uomo in tutta la mia vita disposto a pagare il prezzo pieno per aver lasciato il Sa'kagé». «Chi era?» «Ragazzo, tra due ore hai appuntamento con un bersaglio. Hai domande migliori da fare». «Devon Corgi?». La guardia corrugò la fronte. «Naa, non lo conosco. Ehi, Gamble, conosci un Devon Corgi?», chiese a un'altra guardia che stava attraversando l'enorme porta ovest del castello. Era persino troppo facile. Kylar aveva, tempo prima, rubato una tunica e una sacca che erano l'uniforme del più usato servizio di corrieri della città. Le persone che non avevano servitù impiegavano ragazzi - ragazzi dei quartieri orientali, mai ratti delle gang - per portare i loro messaggi. Ogni volta che le guardie avevano l'aria di volergli fare qualche domanda, Kylar si avvicinava a loro e chiedeva informazioni. Non capiscono? Non lo vedono? Quegli uomini erano guardie, si supponeva che dovessero proteggere Devon Corgi e tutti gli altri là dentro, e invece stavano mandando un killer dritto da lui? Come potevano essere così stupidi? Era una scomoda sensazione di potere. Era gratificante che tutte le ore passate con Blint stessero servendo a qualcosa. Kylar stava diventando pericoloso. Eppure come facevano a non capire chi fosse? «Sicuro, è quello che è arrivato questa settimana, quello con il tic agli occhi che si spaventa per un'ombra. Credo che sia nella torre nord. Se vuoi, posso portargli io il tuo messaggio. Sono di turno tra dieci minuti, è la prima tappa del mio giro». «No, grazie. Spero in una buona mancia. Da che parte è?». Mentre la guardia gli dava le indicazioni, Kylar cercò di mettere a


punto il piano. L'uccisione in sé non doveva essere difficile. Un ragazzo poteva avvicinarsi molto più di un adulto prima di suscitare qualche sospetto e, allora, sarebbe stato troppo tardi. La parte difficile era trovare l'uomo. Devon non aveva un ufficio da qualche parte. Si spostava. Ciò aggiungeva ogni sorta di rischi, soprattutto perché Kylar doveva portare a termine l'incarico quel giorno stesso. La torre nord sembrava promettente. Isolata. La guardia in arrivo no. Kylar aveva appena parlato con quell'uomo e gli aveva detto chi cercava. Con il trucco che Blint gli aveva applicato, Kylar sembrava completamente diverso e più giovane di diversi anni. Ma era meglio lasciare che ogni morte fosse un mistero. Un sicario lascia cadaveri, non prove. Quindi, Kylar avrebbe trovato Corgi e si sarebbe nascosto fino a che la guardia non se ne fosse andata; poi, l'avrebbe ucciso. Dentro e fuori, nessun problema, anche senza il Talento. Il castello incuteva soggezione. Nonostante Durzo ne avesse sempre parlato con sdegno, era la costruzione più maestosa che Kylar avesse mai visto. Era fatto dello stesso granito nero dei vecchi acquedotti dei Cunicoli, estratto dalle montagne sul confine ceurano. L'intera industria mineraria era di proprietà del Sa'kagé, perciò ora solo i benestanti potevano permettersi di costruire con la pietra. Era una delle ragioni per cui la maggior parte dei pilastri dell'acquedotto era sparita. I poveri dei Cunicoli, che non appartenevano al Sa'kagé, scavavano la roccia per i propri usi o per la vendita sul mercato nero destinata alla classe media. Il castello era stato costruito quattrocento anni prima, quando, durante i trent'anni del regno di Abinazae, Cenaria era stata un'importante potenza. Abinazae aveva appena terminato il castello quando decise di spingersi più a est e conquistare il Chantry, e diverse migliaia di maghi avevano messo fine per sempre alle sue ambizioni. Il castello era stato originariamente costruito su un monticello di terra e dotato di un cortile interno. Circondata dal fossato naturale del fiume Plith, l'isola di Vos era stata trasformata in una grande collina, in cima alla quale si trovava la fortezza. Quella che ora era la zona settentrionale dei Cunicoli, un tempo era stato il cortile della fortezza. I Cunicoli si trovavano su una stretta penisola che scendeva a picco sul mare, tranne che per l'ultimo chilometro, che si appiattiva in prossimità della costa. Il progetto era talmente inespugnabile che né la fortezza di legno né i Cunicoli


erano mai stati presi. Ma la città era cresciuta insieme all'orgoglio di re Abinazae, così il castello di Cenaria era stato costruito in pietra e la città era andata a finire sulla riva orientale del Plith. Gli acquedotti, tuttavia, erano un mistero. Esistevano da molto prima di Abinazae e sembravano non avere alcuno scopo, vista la presenza delle acque dolci del Plith - che tuttavia non erano assolutamente pulite. Lasciato il cortile del castello, Kylar risalì le scale di pietra, calpestate da così tanti piedi nel corso dei secoli che ogni gradino sprofondava di diversi centimetri rispetto ai bordi. Le guardie lo ignorarono e lui assunse l'atteggiamento di un servo. Era uno dei suoi più frequenti travestimenti. Blint amava dire che un buon travestimento nascondeva un sicario meglio delle ombre. Kylar poteva passare inosservato davanti a chiunque conoscesse, a eccezione del conte Drake. A lui ben poco sfuggiva. Superò in fretta il frenetico viavai del cortile interno e della grande sala. Oltrepassò la fila di gente in attesa di udienza nella sala del trono, le doppie porte aperte dei giardini e si fece strada verso la torre nord. I corridoi erano affollati ovunque, fino a che non giunse all'anticamera della torre. Devon Corgi non era lì. Sforzandosi per la prima volta di essere silenzioso, Kylar aprì la porta che portava alle scale e salì senza fare rumore. La scalinata era spoglia. Nessuna decorazione, niente nicchie, né statue, né tendaggi ornamentali, né qualsiasi cosa potesse offrire a Kylar un posto per nascondersi. Arrivò in cima alla torre. Era, a quanto pareva, semplicemente una grande camera da letto, attualmente non in uso. Un giovane, che teneva in equilibrio un grosso libro mastro, stava esaminando un cassettone, probabilmente per fare l'inventario delle lenzuola per gli enormi letti e dei tendaggi per le grandi finestre. Kylar aspettò. Devon dava il profilo alla porta e, senza il Talento che nascondesse l'avvicinarsi di Kylar, c'erano troppe probabilità che l'uomo lo vedesse entrare. L'attesa era sempre la cosa peggiore. Bloccato lì, Kylar cominciò a immaginare che la guardia sarebbe arrivata lassù da un momento all'altro. Vedendolo lì, a quell'ora, l'avrebbe perquisito. Perquisendolo, gli avrebbe trovato la fessura nei calzoni. In quella fessura larga quanto una mano, avrebbe trovato il lungo coltello legato alla coscia di Kylar. Ma non andò così. Kylar aspettò nascosto, rimanendo in ascolto, imponendo alle sue orecchie di


sentire perfino lo scricchiolio del pennino sul libro. Alla fine, controllò e vide Devon scomparire nello sgabuzzino sul lato opposto della camera quasi circolare. Kylar penetrò nella stanza e cercò un posto in cui nascondersi. I suoi piedi non fecero alcun suono, neanche quello del cuoio che sfrega sulla pietra. Mastro Blint aveva insegnato a Kylar come bollire la linfa dell'albero della gomma per rendere la suola delle scarpe morbida e silenziosa. Era costosa da importare e solo un po' più silenziosa del cuoio adeguatamente conciato ma, per Mastro Blint, anche il più piccolo particolare aveva importanza. Ecco perché era il migliore. Non c'erano posti adatti a nascondersi. Un nascondiglio perfetto sarebbe stato un posto da cui Kylar era in grado di vedere l'intera stanza, sfoderando le proprie armi e pronto a muoversi rapidamente per colpire o per fuggire. Un buon nascondiglio gli offriva una discreta visuale e la possibilità di colpire o fuggire con una minima difficoltà. Quella stanza non aveva angoli bui. Era praticamente un cerchio. C'erano paraventi di carta di riso ma erano stati ripiegati e appoggiati contro la parete. Disgraziatamente, l'unico posto per nascondersi era sotto il letto. Se Kylar fosse stato un sicario, forse avrebbe potuto saltare sulla parete e reggersi alla catena del lampadario, ma quella possibilità non era contemplata. Sotto il letto? Mastro Blint non me lo perdonerà mai. Ma non aveva altra scelta. Kylar si mise carponi e strisciò sotto il letto. Era un bene che fosse magro, perché non c'era molto spazio. Era lì in scomoda attesa, quando sentì qualcuno salire le scale. La guardia. Finalmente. Ora, da' un'occhiata veloce e togliti dalle scatole. Aveva scelto il lato del letto che gli permetteva di guardare lo stanzino; ciò voleva dire che non poteva vedere le scale ma, dal rumore dei passi, fu certo che non si trattasse di una guardia. Devon uscì dallo stanzino reggendo una cassa e il senso di colpa gli oscurò il viso. «Non dovresti essere qui, Bev», disse. «Stai partendo», disse la donna. Suonava come un'accusa. «No», rispose lui. Cominciò il tic agli occhi. «Hai rubato a loro e ora stai rubando al re e, per qualche ragione, sono sorpresa che tu mi abbia mentito. Testa di cazzo». Kylar la sentì voltarsi e, dopo un po', Devon si avvicinò al letto, posandovi la cassa. Le sue gambe


erano a pochi centimetri da Kylar. «Bev, mi dispiace». Stava andando verso la porta e Kylar venne assalito dal panico. E se Devon l'avesse seguita fin sulle scale? Kylar avrebbe dovuto ucciderli entrambi lì, sapendo che la guardia sarebbe arrivata dopo pochi minuti. «Bev, ti prego...». «Va' all'inferno!», disse lei e sbatté la porta. Desiderio esaudito. Era il più nero genere di umorismo, il genere di Durzo. Amava dire che l'ironia delle conversazioni spiate era una delle migliori gratifiche del suo lavoro, nonostante sostenesse che la saggezza delle ultime parole fosse esageratamente sopravvalutata. Desiderio esaudito? A Kylar non piacque neanche averci pensato. Tutto ciò che quell'uomo aveva progettato stava per finire e Kylar ci stava scherzando sopra. Devon imprecò tra sé ma non seguì la donna. «Dov'è quella guardia? Ormai dovrebbe essere qui». Ecco com'era, aveva detto Durzo a Kylar. Tu arrivi alla fine di una commedia - che sia appena iniziata o che duri da anni, il tuo arrivo ne segna la fine - e quasi mai riesci a capire di cosa parla. Chi era Bev per Devon? La sua amante? La socia in un crimine? Solo un'amica? Sua sorella? Kylar non lo sapeva. Non l'avrebbe mai saputo. Si sentì un tintinnare per le scale, attutito dalla porta. Devon raccolse il suo registro. La porta si aprì. «Ciao, Dev», salutò la guardia. «Oh, ciao, Gamble». Devon sembrava nervoso. «Quel corriere ti ha trovato?» «Corriere?» «Quello stronzetto deve essersi perso. Tutto bene quassù?» «Sicuro, benissimo». «Ci vediamo». Devon aspettò che la guardia se ne fosse andata da una trentina di secondi, per poi avvicinarsi al letto e cominciare a riempirsi le tasche. Kylar non poteva vedere di cosa. Eccoci. La guardia sarebbe stata abbastanza lontana da non sentire Devon se fosse riuscito a gridare. Devon si allontanò per andare al cassettone e Kylar sgusciò da sotto il letto come uno


scarafaggio. Si alzò ed estrasse il coltello. Devon era a pochi passi. Kylar sentiva il cuore martellargli nel petto e lo scorrere del proprio sangue lo assordava. Kylar fece tutto bene. Posizione di guardia bassa, avanzata silenziosa ma rapida, ben bilanciato in modo che se, in qualsiasi momento, la vittima avesse reagito, Kylar non si sarebbe fatto cogliere in contropiede. Sollevò il coltello all'altezza degli occhi, preparandosi ad afferrare Devon e a fargli quello che Durzo chiamava il "sorriso rosso" - un taglio lungo la giugulare e profondo fino alla trachea. Poi, immaginò Bambola rivolgergli lo sguardo che gli aveva lanciato quando aveva preso per sé il pezzo di pane più grande. Cosa fai, Azoth? Sai che è sbagliato. Si riprese tardi e fu come se tutto l'addestramento l'avesse abbandonato. Era a pochi centimetri e Devon ancora non lo aveva sentito arrivare, ma quella vicinanza scatenò il panico in Kylar. Mentre sferrava una coltellata al collo di Devon dovette fare un qualche rumore, perché il bersaglio si girò. Il coltello affondò alla base della nuca, colpì l'osso e rimbalzò fuori. A causa della presa esageratamente stretta, per la quale Durzo lo avrebbe picchiato, il coltello rimbalzò via anche dalla sua mano. Devon si girò e strillò. Sembrava fosse più sorpreso dall'improvvisa apparizione di Kylar che dalla ferita nel collo. Indietreggiò contemporaneamente a Kylar. Si portò una mano al collo e, guardatosi le dita, vide il sangue. Poi, entrambi abbassarono lo sguardo sul coltello. Devon non cercò di prenderlo. Kylar lo raccolse e, mentre si rialzava, Devon cadde in ginocchio. «Ti prego», disse. «Ti prego, non farlo». Sembrava incredibile. Gli occhi dell'uomo erano dilatati per la paura - guardavano il piccolo Kylar, il cui travestimento lo faceva sembrare ancora più piccolo e giovane. Non aveva niente di spaventoso in sé. Ma Devon sembrava un uomo che avesse visto arrivare l'ora del giudizio. La faccia era bianca, gli occhi sgranati, penosi, disperati. «Ti prego», ripeté. Kylar gli squarciò la gola come una furia. Perché non si era difeso? Perché non ci aveva nemmeno provato? Era più grosso di


Kylar. Aveva una possibilità. Perché aveva dovuto comportarsi come una pecora? Un grosso, stupido agnello umano, troppo stupido perfino per muoversi. Il taglio attraversava la trachea ma aveva colpito a stento una giugulare. Era abbastanza profondo da uccidere, ma non velocemente. Kylar prese Devon per i capelli e colpì di nuovo, due volte, leggermente all’insù, così che il sangue schizzasse in basso. Non una goccia su Kylar. Aveva fatto esattamente come Durzo gli aveva insegnato. Un rumore sulle scale. «Devon, mi dispiace», disse Bev, prima ancora di entrare nella stanza. «Dovevo tornare da te, non intendevo...». Entrò nella stanza e vide Kylar. Vide la sua faccia, vide il pugnale nella sua mano, lo vide tenere Devon morente per i capelli. Era una semplice giovane donna con un abito bianco da domestica. Fianchi larghi, occhi ben distanziati, la bocca aperta per lo sgomento e bellissimi capelli corvini. Finisci il lavoro. L'addestramento prese il sopravvento. Kylar attraversò la stanza in un istante. Con uno strattone, tirò la donna in avanti, facendola inciampare e cadere a terra. Fu inesorabile come Durzo Blint. La donna era sotto di lui, a faccia in giù sul tappeto che copriva quel punto del pavimento. La mossa successiva sarebbe stata farle scivolare il coltello sotto le costole. A stento lei l'avrebbe sentito e lui non avrebbe dovuto guardarla in faccia. Esitò. Era la sua vita contro quella della donna. Lei lo aveva visto. Il suo travestimento valeva fino a che nessuno sapeva che sotto vi si nascondeva un assassino quattordicenne. Lei lo aveva visto in faccia. Si era intromessa nel suo lavoro. Era solo un danno collaterale. Una vittima supplementare, aveva detto Blint. Un sicario avrebbe fatto quello che bisognava fare. Era meno professionale ma, a volte, inevitabile. «Non importa», avrebbe detto Blint. «Pensa solo a finire il lavoro». Blint gli consentiva di vivere fino a che avesse dimostrato di poter fare tutto quello che faceva un sicario, anche senza il Talento. Ed eccola lì, a faccia in giù. Kylar a cavalcioni su di lei, la punta del pugnale a solleticarle la nuca, la sua mano sinistra che le tirava i capelli, cercando di non immaginare il sangue che si allargava sul vestito bianco della donna. Lei non aveva fatto niente. La vita è vuota. La vita è senza significato. Quando ne prendiamo una, non portiamo via niente di valore. Ci credo. Ci


credo. Doveva esserci un altro modo. Poteva dirle di scappare? Di non dirlo a nessuno? Di lasciare il paese e non tornare mai più? Lei l'avrebbe fatto? No, certo che no. Sarebbe corsa dalla prima guardia. Non appena si fosse trovata in presenza di una robusta guardia, qualsiasi timore Kylar potesse averle suscitato, sarebbe sembrato piccolo e debole come un ratto delle gang con un coltello in mano. «Gli ho detto cosa sarebbe successo se rubava al Sa'kagé», disse la donna, con voce stranamente calma. «Quel bastardo. Con tutto quello che mi ha preso, non ha avuto neanche la decenza di morire da solo. Stavo venendo a scusarmi e ora tu mi ucciderai, non è vero?» «Sì», rispose Kylar, ma stava mentendo. Aveva spostato il coltello sul punto giusto della schiena, ma l'arma si rifiutava di muoversi. Con la coda dell'occhio, vide un'ombra scivolare sulle scale. Non si mosse né riconobbe cosa aveva visto, ma avvertì una sensazione di gelo. Era metà pomeriggio; non c'erano torce accese né candele. Quell'ombra non poteva che essere Mastro Blint. Aveva seguito Kylar. Aveva assistito a tutta la scena. Quel lavoro era per conto dello Shinga e non poteva fallire. Kylar le fece passare il coltello sotto le costole, lo affondò da un lato e sentì il fremito e il sospiro della donna che moriva sotto di sé. Si alzò ed estrasse il coltello dalle sue carni; la sua mente era completamente distaccata, lontana da lui come lo era stata quel giorno alla rimessa delle barche con Ratto. Asciugò la lama rossa sul vestito bianco della donna, la infilò nel fodero che portava alla coscia e si controllò in uno specchio alla ricerca di sangue, proprio come gli era stato insegnato. Fu il più grande dispiacere del mondo vedere che era pulito. Non aveva sangue neanche sulle mani. Quando si voltò, Blint era sull'uscio aperto, a braccia incrociate. Kylar lo guardò, ancora in qualche modo distante, lieto per quella sorta di insensibilità. «Non grandioso», disse Durzo. «Ma accettabile. Lo Shinga sarà soddisfatto». Serrò le labbra, vedendo la distanza negli occhi di Kylar. «La vita è senza significato», disse Durzo, passandosi uno


spicchio d'aglio tra le dita. «La vita è vuota. Quando prendiamo una vita, non portiamo via niente di valore». Kylar lo guardò con espressione assente. «Ripetilo, dannazione! ». La mano di Durzo si mosse e un coltello si materializzò nell'aria, conficcandosi nel cassettone alle spalle di Kylar. Kylar non mosse un muscolo. Ripeté meccanicamente le parole, con le dita intorpidite, sentendo ancora e ancora la cedevolezza della carne che si apriva sotto la lama. Era così semplice? Era così facile? Bastava spingere e arrivava la morte? Non c'era niente di spirituale. Non succedeva niente. Nessuno veniva spedito all'inferno o al paradiso del conte Drake. Si fermavano e basta. Smettevano di parlare, smettevano di respirare, smettevano di muoversi, alla fine smettevano di contorcersi. Si fermavano. «Il dolore che provi», disse Mastro Blint quasi con gentilezza, «è il dolore di rinunciare a un'illusione. Tutto si spiega con un'illusione. Non ci sono alti scopi, Kylar. Non ci sono dei. Né arbitri di ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Non ti chiedo di farti piacere la realtà. Ti chiedo solo di essere abbastanza forte per affrontarla. Non c'è niente oltre a questo. C'è solo la perfezione che raggiungiamo diventando armi, forti e spietati come spade. Non c'è niente di buono nella vita. La vita non è niente in sé. È semplicemente un indicatore che mostra chi sta vincendo, e noi siamo i vincitori. Siamo sempre i vincitori. Non c'è altro se non la vittoria. Perfino vincere non significa niente. Noi vinciamo perché perdere è un insulto. I fini non giustificano i mezzi. Non c'è nessuno a cui giustificare. Non c'è giustificazione. Non c'è giustizia. Sai quante persone ho ucciso?». Kylar scosse la testa. «Io nemmeno. Prima sì. Ricordavo i nomi di tutte le persone che avevo ucciso. Poi sono diventate troppe. Ne ricordai solo il numero. Poi, ho ricordato solo gli innocenti. E poi mi sono dimenticato anche quelli. Sai quali punizioni ho dovuto sopportare per i miei crimini, per i miei peccati? Nessuna. Sono la prova dell'assurdità delle più preziose astrazioni degli uomini. Un universo giusto non tollererebbe la mia presenza». Prese la mano di Kylar. «In ginocchio», disse. Kylar si inginocchiò sul bordo della pozza di sangue che colava dal corpo della donna. «Questo è il tuo battesimo», disse Mastro Blint, mettendo


entrambe le mani di Kylar nel sangue. Era caldo. «Questa è la tua nuova religione. Se devi avere un culto, che sia quello dei sicari. Adora Nysos, dio del sangue, dello sperma e del vino. Per lo meno ha dei poteri. Nysos è una menzogna come tutti gli dei ma, almeno, non ti renderà debole. Oggi sei diventato un assassino. Adesso esci e non lavarti le mani. E un'altra cosa: quando devi uccidere un innocente, non lasciare che parli». Kylar avanzava per la strada barcollando come un ubriaco. Aveva qualcosa che non andava. Avrebbe dovuto provare qualcosa, invece c'era solo il vuoto. Era come se il sangue sulle sue mani fosse venuto fuori da una ferita dell'anima. Il sangue si stava seccando, diventava appiccicoso, e il rosso si scuriva diventando marrone, ovunque fuorché all'interno del suo pugno chiuso. Nascose le mani, nascose il sangue, nascose se stesso e la sua mente - meno annebbiata del suo cuore -, capì che c'era un motivo anche per questo. Sarebbe stato un sicario e si sarebbe sempre nascosto. Lo stesso Kylar era una maschera, un'identità assunta per convenienza. Quella maschera e ogni altra sarebbero andate bene perché, prima che il suo addestramento fosse terminato, ogni tratto distintivo dell'Azoth che era stato sarebbe stato cancellato. Ogni maschera sarebbe andata bene, ogni maschera avrebbe tratto in inganno ogni ispezione, perché non ci sarebbe stato niente sotto quelle maschere. Kylar non poteva indossare il suo travestimento da corriere nei Cunicoli - i corrieri non andavano mai nei Cunicoli - perciò si diresse verso un rifugio della zona orientale, in un quartiere affollato dalle piccole case degli artigiani e di quei domestici non alloggiati nelle dimore dei propri padroni. Svoltò un angolo e si imbatté in una ragazza. Sarebbe caduta se lui non l'avesse presa per un braccio. «Scusa», le disse. I suoi occhi esaminarono il semplice abito bianco da servetta, i capelli legati all'indietro e un canestro di verdura fresca. Per ultime, vide le macchie rosse che le aveva lasciato su entrambi i polsini. Prima che potesse scomparire, prima che potesse mettersi a correre per la strada, prima che lei si accorgesse di come l'aveva macchiata, le cicatrici sul volto della ragazza si incastrarono come pezzi di un puzzle. Erano bianche, adesso. Cicatrici bianche nei punti che si era marchiato nella mente come profondi tagli rossi e infiammati,


tessuto strappato, gocciolante di sangue, la lacerazione e il gorgoglio del sangue che veniva ingoiato, il sangue che esplodeva in bollicine accanto a un naso distrutto. Ebbe solo il tempo di vedere quelle inconfondibili cicatrici e quegli inconfondibili grandi occhi marroni. Bambola teneva gli occhi pudicamente bassi, non riconoscendo in quell'assassino il suo Azoth. In quel modo, vide il sangue sui polsini e alzò gli occhi, inorridita. «Mio Dio», disse. «Stai sanguinando. Stai bene?». Kylar stava già correndo via, sfrecciando attraverso il mercato. Ma per quanto velocemente corresse, non riusciva a lasciarsi alle spalle la preoccupazione e l'orrore di quei bellissimi occhi. Quei grandi occhi marroni lo seguirono. In qualche modo, sapeva che lo avrebbero fatto sempre.


Capitolo 25 «Sei pronto per essere un campione?», domandò Mastro Blint. «Di cosa parlate?», chiese Kylar. Avevano finito l'allenamento mattutino e aveva fatto meglio del solito. Pensava persino che l'indomani non sarebbe stato dolorante. Aveva sedici anni ormai, e sembrava che finalmente l'addestramento stesse dando i suoi frutti. Certo, non aveva ancora vinto un solo scontro con Mastro Blint, ma cominciava a nutrire qualche speranza. D'altra parte, Mastro Blint era stato di pessimo umore tutta la settimana. «Il torneo del re», disse Mastro Blint. Kylar agguantò uno straccio e si asciugò la faccia. Quel rifugio era piccolo ed era diventato insopportabilmente caldo. Re Aleine Gunder IX aveva convinto i Maestri di Spada a organizzare un torneo a Cenaria. Naturalmente, avrebbero potuto assistervi e decidere che neanche il vincitore fosse abbastanza bravo da diventare un Maestro di Spada ma, d'altro canto, potevano decidere che tre o quattro contendenti lo fossero. Perfino un Maestro di Spada di grado basso poteva trovare un ottimo lavoro presso qualsiasi corte reale di Midcyru. Ma, com'era da aspettarsi, Blint aveva deriso l'intera faccenda. Kylar disse: «Dicevate che il torneo del re era per i disperati, i ricchi e gli sciocchi». «Mm-hmm», fece Blint. «Ma voi volete che io combatta ugualmente», disse Kylar. Immaginò che ciò lo rendesse un "disperato". Il Talento di gran parte dei bambini si sviluppava durante i primi dieci anni di vita. Il suo non lo aveva ancora fatto e Blint stava perdendo la pazienza. «Il re indice il torneo così potrà assoldare i vincitori come sue guardie del corpo. Vuole essere sicuro di non impiegare sicari, perciò questo torneo ha una speciale regola: nessun possessore di Talento vi è ammesso. Ci sarà una maja per controllare tutti i contendenti, una guaritrice addestrata dal Chantry. Sarà lì anche per custodire le spade, così che i partecipanti non si uccidano l'uri l'altro, e per guarire chi si ferisce. I Nove hanno deciso di mostrare i muscoli. Vogliono che vinca uno dei loro, per ricordare a tutti chi sono in questa città. Perciò è una situazione che ti si adatta come la


stampella a uno storpio. Non che si tratti di una coincidenza. Questo torneo neanche ci sarebbe se non fossero stati loro a suggerirlo. I Nove sanno tutto di te e del tuo piccolo problema». «Cosa?». Kylar era incredulo. Non pensava neanche che loro sapessero chi fosse. E se avesse perso? «Questa settimana, Hu Gibbet ha mostrato la sua apprendista, Vi, ai Nove. Una ragazza, Kylar. L'ho vista combattere. Ha il Talento, naturalmente. Ti batterebbe, senza alcun problema». Kylar avvertì un'ondata di vergogna. Hu Gibbet era un assassino della più spregevole sorta. Hu amava uccidere, amava la crudeltà in sé. Hu non falliva mai e uccideva sempre più persone oltre al suo bersaglio. Blint lo disprezzava. Per colpa di Kylar, il suo maestro era secondo a un macellaio. «Aspettate», disse Kylar. «Il torneo non è oggi?». Era mezzogiorno quando Kylar arrivò all'arena sul lato settentrionale dei Cunicoli. Era stata usata solo per le corse dei cavalli negli ultimi dodici anni. Prima, aveva ospitato i Giochi Mortali. Avvicinandosi, Kylar poteva sentire la folla al suo interno. L'arena era in grado di contenere quindicimila persone e sembrava piena. Camminava con passo baldanzoso. Non solo per suggerire l'idea di un arrogante giovane spadaccino, ma anche per nascondere la sua vera andatura. Il conte Drake non avrebbe preso parte a un evento che gli ricordava i Giochi Mortali, ma Logan Gyre forse sì, al pari dei giovani nobili con cui Kylar doveva interagire piuttosto regolarmente. In genere, Kylar non era ansioso quando si travestiva. Primo, era bravo con i travestimenti ora che non avvertiva più molti pericoli. Secondo, l'ansia attirava l'attenzione come una calamita. Ma, ora, il suo stomaco era in subbuglio perché il suo travestimento di fatto non esisteva. Mastro Blint gli aveva dato i vestiti senza alcun commento. Erano di un tessuto più raffinato di quelli che possedeva lo stesso Blint, di un grigio screziato di nero, che rendeva migliore la mimetizzazione notturna rispetto al semplice nero, poiché la screziatura toglieva uniformità alla figura umana. Gli stavano a pennello, sottili e aderenti sulle cosce ma senza impedirgli i movimenti. Sospettava che quel taglio snello avesse un altro scopo: i Nove volevano che sembrasse più giovane possibile. Vi abbiamo


mandato un bambino senza Talento come nostro campione. Vi ha stracciato. Cosa succede se vi mandiamo un sicario? La sua tenuta era completata da un mantello nero di seta - seta! - e una maschera di seta nera con solo i buchi per gli occhi, una fessura per la bocca e che gli lasciava scoperto un ciuffo di capelli. Si era strofinato una pasta tra i capelli per renderli completamente neri e li aveva divisi in punte corte e disordinate. Al posto della sua cintura nera per le armi, Blint gliene aveva data una d'oro, con foderi per ogni pugnale, coltello da lancio e spada. Spiccavano sul grigio dei suoi vestiti. Blint aveva roteato gli occhi nel darla a Kylar. «Se devi partecipare al melodramma, è meglio che lo fai bene», aveva detto. Come se fosse una mia iniziativa. Per strada c'era poca gente ma, quando Kylar arrivò all'ingresso laterale dell'arena, gli spettatori e i venditori ambulanti lo guardarono a bocca aperta. Entrò e trovò la sala dei lottatori. C'erano più di duecento uomini e una ventina di donne all'interno. Tra di loro c'erano massicci picchiatori che Kylar conosceva, mercenari, soldati, indolenti giovani nobili, bifolchi dei Cunicoli che non erano capaci di tenere una spada in mano. I disperati, i ricchi e gli sciocchi, senz'altro. Fu notato immediatamente e il silenzio calò sugli uomini che scherzavano a voce troppo alta, sui soldati che si allenavano e sulle donne che controllavano e ricontrollavano le proprie armi. «Ci siete tutti?», chiese una donna arrivata da una stanza laterale. Andò quasi a sbattere contro l'omone entrato con lei e che si era fermato bruscamente. A Kylar mancò il fiato. Era Logan. Logan non avrebbe assistito - avrebbe partecipato. Poi, la maja vide Kylar. Celò la sua sorpresa meglio di molti altri. «C-capisco. Be', giovanotto, vieni con me». Attento a mantenere il passo baldanzoso, Kylar passò accanto a Logan e agli altri. Era stranamente appagante sentire i bisbigli esplodere alle sue spalle. La sala d'esaminazione era un tempo usata per curare gli schiavi lottatori feriti. Sembrava una stanza in cui la morte fosse passata spesso. C'erano perfino delle fossette di scolo attorno alla base di ogni parete, in modo che il sangue potesse essere lavato via facilmente. «Sono Sorella Drissa Nile», disse la donna. «E sebbene i Maestri di Spada insegnino a usare tutte le armi appuntite, per


questo torneo puoi usare solo la tua spada. Dovrò chiederti di toglierti le altre armi». Kylar le rivolse il suo miglior sguardo alla Durzo. Lei si schiarì la gola. «Credo di poterle legare magicamente ai loro foderi. Non potrai estrarle per circa sei ore, quando le reti si dissolveranno». Kylar annuì in segno di tacito consenso. Mentre la maja mormorava tra sé, avvolgendo reti attorno a ciascun fodero, Kylar studiò i nomi dei partecipanti che erano stati affissi al muro. Trovò subito Logan, poi si mise nuovamente a cercare il proprio nome. Come se i Nove mi avessero iscritto con il mio vero nome. «Come sono iscritto?», domandò. Lei si fermò e poi indicò. «Non vorrei sbagliarmi ma credo che questo sia tu». Il nome era "Kage". Drissa mormorò qualcosa e un accento apparve dal nulla sulla E. «Kagé, l'Ombra. Se non è stato il Sa'kagé a mandarti, giovanotto, faresti meglio a dartela a gambe levate». Nessuna pressione. Kylar era felice di vedere che era nel gruppo opposto a quello di Logan. Il suo amico si era sviluppato in altezza. Logan Gyre non era più goffo; aveva un ottimo allungo ed era forte, ma allenarsi un'ora ogni giorno non era lo stesso che allenarsi per ore ogni giorno sotto l'occhio di Mastro Blint. Logan era un buon lottatore, ma non era possibile che arrivasse in cima al proprio gruppo. Ciò significava che Kylar non avrebbe dovuto affrontarlo. Kylar estrasse la spada e la consegnò a Sorella Nile perché la rendesse inoffensiva. Quando la riebbe indietro, vide che era stata tutta avvolta dai legacci magici, il che dimostrava che la maja sapeva ciò che faceva. Anche una spada da allenamento poteva tagliare se il colpo era abbastanza forte. Al tempo stesso, le reti sembravano non aggiungere alcun peso alla lama, né mutavano il modo in cui fendeva l'aria. «Carino», disse Kylar. Stava cercando di essere laconico come Durzo, quindi non sprecava le parole. Molti dei camuffamenti vocali di Kylar lo facevano ancora sembrare un bambino che cercava di imitare la voce di un uomo. Era più imbarazzante che efficace. «Le regole del torneo prevedono che vinca il primo spadaccino che riesce a toccare il proprio contendente tre volte. Attorno al corpo di ogni combattente, ho evocato una protezione che fa reagire la spada del rivale. La prima volta che tocchi il tuo


avversario, la tua spada emetterà una luce gialla. La seconda, arancione. La terza, rossa. Ora, l'ultima cosa», disse la maja. «Devo assicurarmi che tu non abbia il Talento. Dovrò toccarti per questo». «Pensavo che potessi "vederlo"». «Posso, ma ho sentito di persone in grado di mascherare il proprio Talento, e non ho intenzione di infrangere il mio giuramento di rendere equo questo combattimento, neanche per il Sa'kagé». Drissa posò una mano su quella di Kylar, mormorando tra sé tutto il tempo. Come Blint aveva spiegato, le donne avevano bisogno di parlare per usare il Talento ma, a quanto pareva, non c'era bisogno che le parole fossero comprensibili. Drissa si fermò bruscamente e lo guardò negli occhi. Si mordicchiò un labbro e tornò a posare la mano su quella di lui. «Non c'è nessuna finzione», disse. «Non ho mai visto... loro lo sanno? Devono saperlo, suppongo, altrimenti non ti avrebbero mandato, ma...». «Di cosa stai parlando?», chiese Kylar. Sorella Nile indietreggiò riluttante, come se non le piacesse aver a che fare con un essere umano quando aveva qualcosa di molto più interessante tra le mani. «Sei guasto», gli disse. «Va' all'inferno». Lei sbatté le palpebre. «Mi dispiace, volevo dire... Le persone pensano che avere il Talento sia semplice. Ma non lo è. Ci sono tre cose che devono agire contemporaneamente affinché un uomo o una donna diventino maghi. Primo, c'è la tua glore vyrden, più o meno la tua magia vitale. Si tratta di magia che deriva forse dai tuoi processi vitali, come quando otteniamo energia dal cibo, o forse deriva dalla tua anima - non lo sappiamo, ma è interna. Metà delle persone ha una glore vyrden. Forse tutti, solo che in molti è troppo piccola per vedersi. Secondo, alcune persone hanno un canale o un processo che trasforma quel potere in magia o in azione. È solitamente molto sottile. A volte è bloccato. Ma, supponiamo che sul fratello di un uomo sia caduto un carro carico di fieno - in quella situazione estrema, l'uomo potrebbe essere in grado di sbloccare la sua glore vyrden per quell'unica volta nella sua vita, e quindi riuscire a sollevare il carro. Invece gli uomini che hanno la glore vyrden e il canale aperto in genere sono atleti o soldati. A volte riescono molto meglio degli altri uomini ma, a quel


punto, come tutti gli altri, hanno bisogno di tempo per recuperare le energie. La quantità di magia che possono usare è piccola e di breve durata. Se dicessi loro che stanno usando la magia, non ti crederebbero. Perché un uomo sia un mago, c'è bisogno di un terzo elemento: deve essere in grado di assorbire la magia dalla luce del sole o dal fuoco, in modo da alimentare continuamente la propria glore vyrden. Molti di noi assorbono la luce con gli occhi, ma alcuni lo fanno tramite la pelle. Ecco perché, noi crediamo, i gorathi di Friaku vanno in battaglia nudi; non per intimidire gli avversari, ma per accedere quanto più possibile alla magia». «Ma questo cosa ha a che fare con me?», chiese Kylar. «Giovanotto, tu puoi assorbire la magia, o tramite gli occhi come un mago, o tramite la pelle. La tua pelle praticamente ne risplende. Direi che hai un'inclinazione naturale per la magia. E la tua glore vyrden? Non ne ho mai vista una simile. Potresti usare la magia per metà della notte senza esaurirla. È perfetto per un sicario. Ma...». Fece una smorfia. «Mi dispiace. Il tuo canale». «Cosa, è bloccato? Non va bene?». Kylar già sapeva che era bloccato. Blint aveva cercato di forzare il blocco per anni. Questo dava anche un senso al fatto che Blint lo avesse lasciato sdraiato al sole o seduto troppo vicino al fuoco - aveva cercato di convogliare un'ondata di magia, in modo che Kylar non potesse fare a meno di usarla. «Non hai nessun canale». «Non puoi rimediare? I soldi non sono un problema», disse Kylar, sentendosi stringere il cuore. «Non è questione di praticare un foro. È più simile a creare dei nuovi polmoni. Non è una cosa che i guaritori del Chantry abbiano visto spesso, meno che mai cercato di guarire, e con un Talento di questa grandezza, credo che un tentativo potrebbe essere fatale a te come al tuo guaritore. Conosci qualche mago che rischierebbe la propria vita per te?». Kylar scosse la testa. «Allora mi dispiace». «I Gandiani non potrebbero aiutarmi? Loro hanno i migliori guaritori, no?» «Sceglierò di non offendermi per questo, come farebbero molte Sorelle. Ho sentito storie folli a tal proposito. Non che ci creda, ma


ho sentito di un mago che ha salvato il feto di una moribonda mettendolo nell'utero di sua sorella. Anche se fosse vero, aveva a che fare con la gravidanza, e noi guaritori ci occupiamo di gravidanze difficili in continuazione. Il tuo problema ci è sconosciuto. La gente viene da noi perché sta male. Porta i propri figli al Chantry o in una delle scuole maschili perché hanno incendiato un fienile, o hanno guarito un compagno o hanno scagliato una sedia contro qualcuno usando solo la mente. Le persone come te non vengono da noi; si sentono frustrate, come se potessero essere qualcosa di più di quello che sono, ma non riuscissero mai a fare progressi». «Grazie», disse Kylar. «Mi dispiace». «Dunque è così. Non c'è niente da fare per la mia situazione?» «Sono certa che gli antichi avrebbero potuto aiutarti. Forse c'è qualche vecchio manoscritto dimenticato in una biblioteca gandiana che potrebbe servire all'uso. O, forse, c'è qualcuno al Chantry che studia i disturbi del Talento e io non ne so niente. Potrei provare. Ma, se fossi in te, non sprecherei la mia vita a cercare qualcosa che non troverò mai. Rassegnati». Stavolta Kylar non dovette sforzarsi. Lo sguardo alla Durzo Blint lampeggiò nei suoi occhi senza problemi.


Capitolo 26 Kylar avanzava sulla sabbia dell'arena pronto a fare del male a qualcuno. Le gradinate erano piene fino a scoppiare. Kylar non aveva mai visto così tanta gente. Gli ambulanti percorrevano i passaggi laterali vendendo riso, pesce e birra. I nobili si facevano sventolare dai servi per combattere il crescente calore e il re era seduto su un trono, bevendo e ridendo con il suo seguito. Kylar pensò di aver scorto da un lato perfino uno scontroso lord generale Agon. La folla rumoreggiò alla vista di Kagé. Poi, il cancello di fronte a lui si aprì e un grosso contadino fece il suo ingresso. Ci fu una breve esplosione di allegria disinteressata. A nessuno importava davvero chi sarebbe stato il vincitore, erano solo felici che un altro combattimento stesse per iniziare. Un corno risuonò e il grosso bifolco estrasse una grande spada arrugginita. Kylar sguainò la propria e aspettò. Il bifolco caricò Kylar e sollevò la spada per menargli un fendente alla testa. Kylar saltò in avanti e infilò con forza la spada nella pancia dell'uomo; poi, mentre il suo avversario gli passava oltre, incespicando, gli trafisse reni e tendini. La sua spada brillò di gialloarancione-rosso. Tutti sembrarono colti di sorpresa, a eccezione dei Maestri di Spada, seduti in una sezione speciale con i loro mantelli rossi e grigio ferro. Suonarono immediatamente una campanella. Ci fu qualche "urrà" e qualche "buu", ma gran parte del pubblico sembrava più sbigottito che altro. Kylar rinfoderò la spada e tornò nella sala dei combattenti, mentre il contadino si toglieva di dosso la polvere, imprecando. Aspettò da solo, sedendo immobile, senza parlare con nessuno. Poco prima del suo turno successivo, un massiccio picchiatore con il tatuaggio di una saetta sulla fronte si sedette accanto a lui. Kylar credeva che si chiamasse Bernerd. Forse era Lefty -no, Lefty era il gemello con il naso rotto. «Hai degli ammiratori tra i Nove là fuori che apprezzerebbero se facessi un po' di scena la prossima volta», disse il grosso picchiatore. Il secondo avversario di Kylar era uno Ymmuri. I signori dei


cavalli non venivano spesso in città, perciò il pubblico era eccitato. Era un ometto, coperto di strati di crini di cavallo neri, e indossava una maschera di pelle. Portava coltelli alla cintura, grossi gurka dalla punta ricurva. La sua spada era una scimitarra, eccellente per menare fendenti in sella a un cavallo, ma non altrettanto buona per un duello. Per di più, lo Ymmuri era ubriaco. Come gli era stato ordinato, Kylar giocò con lui, schivando colpi furiosi all'ultimo istante, mescolando calci e acrobazie, violando praticamente tutto ciò che gli aveva insegnato Durzo. «Contro un avversario valido», diceva Durzo, «non devi mai sferrare un calcio più in alto del suo ginocchio. È troppo lento e non rilasci il piede. Saltare ti costringe a una traiettoria che non puoi cambiare. L'unico caso in cui puoi usare un calcio volante è quello per cui i Ceurani l'hanno ideato: per disarcionare qualcuno quando tu sei a piedi e non hai altra scelta». Questa volta, quando Kylar vinse, la folla esplose in un boato. Al suo rientro dal combattimento, Kylar vide Logan uscire. Il suo avversario era o Bernerd o Lefty. Kylar sperò che i gemelli non fossero troppo duri con lui. Qualche minuto dopo, tuttavia, Logan rientrò, rosso in viso e trionfante. Bernerd (o Lefty) doveva essere stato troppo sicuro di sé. Il terzo scontro di Kylar fu con un Maestro di Spada del posto, che si guadagnava da vivere insegnando ai giovani nobili. L'uomo guardò Kylar come se fosse il più spregevole serpente di tutto Midcyru, ma era troppo impaziente nelle sue reazioni. Dopo aver segnato un solo tocco su Kylar, perse e se andò infuriato. Fu solo quando Logan vinse il suo terzo combattimento contro un altro Maestro di Spada, che Kylar fiutò un imbroglio. Poi, Kylar vinse il suo quarto scontro con un veterano - cosa abbastanza strana, un soldato di basso rango e non di buona famiglia, ma con il quale Kylar non avrebbe dovuto avere vita facile. Il soldato non era bravo a fingere. Kylar quasi non attaccava le aperture dell'uomo; erano così evidenti che Kylar era sicuro si trattasse di trappole. Poi, capì. Il contadino non aveva finto. Lo Ymmuri era stato drogato. Il Maestro di Spada era stato minacciato. Il soldato era stato comprato. Si trattava di un torneo a eliminazione diretta, perciò erano rimasti solo sedici uomini. Kylar riconobbe quattro appartenenti al Sa'kagé, il che significava che ce n'erano probabilmente altri quattro che non conosceva. I Nove avevano truccato i gruppi. La cosa lo fece infuriare. Ma affrontò i suoi ultimi


combattimenti come se fossero veri, compiendo salti mortali, mulinelli con le braccia, elaborate combinazioni per disarmare e qualsiasi altra ridicola cosa gli venisse in mente. Aveva pensato che i Nove credessero in lui, che gli stessero dando una vera opportunità, ora o mai più. Ma si trattava di un'altra truffa. C'erano grandi combattenti lì, ma erano stati tutti corrotti. Senza dubbio gli allibratori stavano facendo soldi a palate mentre Kylar scalava un gruppo e Logan l'altro. Logan, l'alto, l'attraente Logan, il rampollo di un'importante famiglia, era enormemente popolare. Perciò i suoi primi combattimenti erano stati molto ravvicinati, così che il Sa'kagé potesse far aumentare le sue quotazioni. Logan aveva poi superato senza sforzo gli ultimi scontri. Grandi combattenti sbagliavano i tempi degli affondi, rimpinguando ulteriormente le casse del Sa'kagé. In molti casi, la cosa sembrava convincente. Quando uno spadaccino semiprofessionista cercava di colpirti, non ci voleva granché per fingere di mancare la parata. Ma Kylar lo capiva e sapeva che anche i Maestri di Spada se ne accorgevano. Sembravano furiosi, e Kylar immaginò che sarebbe passato molto tempo prima che si potesse convincerli a tenere nuovamente un torneo a Cenaria. L'intera faccenda doveva sembrare così corrotta che Kylar dubitava che lo avrebbero mai insignito del titolo di Maestro, anche se se lo fosse guadagnato. Era ugualmente evidente che il re non se ne fosse accorto, per lo meno fino a quando uno dei Maestri di Spada non andò da lui a parlargli. Aleine balzò in piedi, e i suoi consiglieri impiegarono un po' di tempo prima di riuscire a calmarlo abbastanza da farlo tornare a sedersi. Dunque i Nove avevano chiarito la propria posizione con il re, ma c'era ancora altro denaro da guadagnare e, se la supposizione di Kylar era giusta, i Nove volevano chiarirla anche con l'intera città. Kylar era disgustato mentre avanzava sulla sabbia per affrontare Logan. Era l'ultimo combattimento. Questo era per il titolo di campione. Non c'era nessuna buona via d'uscita. Gli balenò una mezza idea di lanciare la spada ai piedi di Logan e arrendersi - ma il re avrebbe pensato che il Sa'kagé stesse dichiarando il proprio sostegno a Logan. E, a quel punto, non sarebbe passato molto tempo prima che assoldasse un sicario per far visita alla residenza dei Gyre - o un semplice assassino, se il Sa'kagé avesse rifiutato l'incarico. Né Kylar poteva lasciarlo vincere dopo uno scontro


serrato. Ora che il re sapeva che il Sa'kagé aveva truccato l'intero evento, avrebbe pensato che stavano cercando di far sembrare bravo Logan. Allora cosa doveva fare Kylar? Umiliare il suo miglior amico? L'euforia di prima era completamente scomparsa dalla faccia di Logan. Era vestito con una raffinata e leggera cotta di maglia, con anelli neri a forma di girifalco avanti e dietro. Dalla folla si levò un boato all'ingresso dei giovani, ma nessuno dei due prestò attenzione al pubblico. «Non sono abbastanza bravo per farcela fino a questo punto. Mi avete incastrato», disse Logan. «Ho cercato di decidere cosa fare. Stavo pensando di gettare la spada e arrendermi per rovinarvi la scena. Ma voi siete il Sa'kagé e io sono un Gyre. Non mi arrenderò mai alle tenebre e alla corruzione. Allora, come si svolgerà? Hai un'altra lama nascosta che non è stata protetta? Hai intenzione di uccidermi pubblicamente, solo per ricordare a Cenaria di chi è lo stivale che tiene premuto sulla gola?» «Sono solo una spada», ribatté Kylar, con la voce roca come quella di Blint. Logan lo schernì. «Una spada? Non puoi giustificare così facilmente quello che sei. Sei un uomo che ha tradito la sua parte migliore, uno che a ogni bivio ha deciso di addentrarsi nelle tenebre, e per cosa? Denaro». Logan sputò. «Uccidimi, se è quello per cui sei stato pagato, Ombra, perché ti dico questo: io farò del mio meglio per ucciderti». Denaro? Cosa ne sapeva Logan del denaro? Aveva avuto denaro ogni giorno della sua vita. Uno dei suoi guanti più consumati, se venduto, poteva servire a sfamare un ratto delle gang per un mese. Kylar sentì un'ondata di rabbia rovente scorrergli nel sangue. Logan non sapeva niente - eppure non poteva avere più ragione. Kylar balzò in avanti nell'istante esatto in cui il corno suonò, non che gli importasse seguire le regole. Logan fece per estrarre la propria spada, ma Kylar non se ne curò. Si slanciò in avanti con un calcio diretto alla mano di Logan. Il calcio andò a segno prima che Logan avesse tirato fuori la spada a metà dal fodero. Gli strappò l'elsa dalle dita, costringendolo a piegarsi da un lato. Kylar si avventò su Logan e, intrecciato un piede attorno alla gamba dell'amico, mandò a terra entrambi. Kylar gli atterrò addosso e sentì l'aria uscire con violenza dai


polmoni di Logan. Gli afferrò entrambe le braccia e gliele tirò dietro la schiena, bloccandogliele con una mano. Con l'altra, agguantò una manciata di capelli e gli sbatté la faccia nella sabbia più forte che poté, ripetutamente, ma la sabbia era troppo morbida per tramortirlo. Rimessosi in piedi, Kylar tirò fuori la spada. I gemiti di Logan e il proprio ansimare sembravano gli unici rumori del mondo. L'arena era silenziosa. Non c'era neanche un alito di vento. Faceva caldo, così dannatamente caldo. Kylar menò un violento fendente al rene sinistro di Logan e poi al destro. La spada era protetta e, naturalmente, non tagliò, ma era come essere colpiti da un randello. Logan urlò di dolore. Sembrò d'un tratto così giovane. Nonostante la sua mole, Logan non aveva ancora diciotto anni, e i suoi lamenti imbarazzarono Kylar. Era debolezza. Era umiliante, irritante. Kylar si guardò intorno nell'arena. Da qualche parte, i Nove erano lì ad assistere, ognuno vestito come una persona qualunque, fingendo di condividere l'orrore del proprio vicino di posto. Fingendo di essere amici degli uomini che disprezzavano, uomini che avrebbero tradito per niente di più del vile denaro. Kylar sentì un rumore alle sue spalle e vide che Logan era riuscito a mettersi carponi. Stava affannosamente cercando di rialzarsi. La faccia gli sanguinava da un centinaio di minuscoli taglietti provocati dalla sabbia e gli occhi erano vacui. Kylar sollevò la spada rilucente di arancione verso la folla. Poi, ruotò su se stesso e abbatté il piatto della lama sulla nuca di Logan. Il suo amico crollò, privo di sensi, e la folla rimase senza fiato. Umiliare Logan era stato l'unico modo per salvarlo, ma l'umiliazione impartita in un modo così disonorevole non avrebbe attirato l'attenzione sulla sconfitta di Logan, bensì sul Sa'kagé. Erano vili, senza vergogna e onnipotenti, e quel giorno Kylar era la loro personificazione. Gettò a terra la spada rossa e alzò di nuovo le mani verso la folla, stavolta alzando solo un dito per mano. All'inferno tutti voi. All'inferno anche io. Poi, corse via.


Capitolo 27 Le finestre del Modaini Smoking Club erano lastre di vetro di Plangan, tagliate a spicchi e in fantasiose forme zoomorfiche. Guardando le figure nel vetro, si poteva ignorare completamente il mondo esterno, e quello era proprio lo scopo. Se si guardavano le figure, non si sarebbero notate le sbarre dall'altro lato della finestra. Kylar era fermo davanti a quella finestra, intento a guardare, attraverso le sbarre, una ragazza nel mercato di Sidlin. Stava mercanteggiando con un venditore. Bambola - Elene stava crescendo, aveva forse quindici anni, ora che Kylar ne aveva diciotto. Era bellissima - per lo meno a quella distanza. Da lì, poteva vedere il suo corpo; agili forme racchiuse da un semplice vestito da domestica, i capelli dorati tirati indietro e luccicanti al sole, e il lampo di un sorriso. Sebbene non riuscisse a distinguere le cicatrici da quella distanza, attraverso il vetro colorato il suo vestito bianco era rosso. Le spirali di piombo gli ricordavano quelle delle sue cicatrici. «Ti distruggerà», disse Momma K alle sue spalle. «Fa parte di un mondo diverso da quello che tu conosci». «Lo so», disse lui pacatamente, senza neanche girarsi. Momma K era entrata nella stanza con una ragazza nuova, una ragazza della zona est, giovane e graziosa. Momma K le stava pettinando i capelli biondi. Il Modaini Smoking Club era molto diverso dalla maggior parte dei bordelli della città. Lì, le cortigiane venivano iniziate alle arti della conversazione e della musica, oltre che a quelle della camera da letto. Non c'erano abiti scandalosi, né nudità, né palpeggiamenti nelle aree pubbliche, né erano ammessi cittadini comuni. Momma K aveva scoperto da tempo i viaggetti di Kylar, naturalmente. Non si poteva avere alcun segreto con Momma K. Ne aveva discusso con lui eppure continuava a fare commenti quando le capitava di trovarsi lì. Ma, una volta capito che lui non avrebbe smesso di venire, gli aveva fatto giurare che sarebbe rimasto all'interno del club e l'avrebbe guardata da lì. Se doveva comportarsi da stupido, diceva, era meglio che stesse al sicuro. Se fosse uscito, prima o poi, si sarebbe imbattuto nella ragazza e le avrebbe parlato, sarebbero andati a letto, se ne sarebbe


innamorato e si sarebbe fatto uccidere. «Non essere timida», disse Momma K alla ragazza. «Presto farai molte più cose, in presenza di un uomo, che non cambiarti solamente d'abito». Kylar non si voltò nel sentire il fruscio dei vestiti che venivano tolti. Proprio quello che gli serviva. Era già depresso. «So che è spaventoso la prima volta, Daydra», continuò gentilmente Momma K. «È una cosa dura. Non è vero, Kylar?» «È meglio che lo sia. Non serve a molto quando non lo è». Daydra ridacchiò, più per il nervosismo che per l'arguzia di Kylar, indubbiamente. Lui non distolse lo sguardo dalla finestra sbarrata. Stava imbevendo i suoi occhi di Elene. Cosa avrebbero detto i suoi limpidi occhi marroni se avesse visto la ragazza alle sue spalle, in attesa del suo primo cliente? «All'inizio ti sentirai in colpa, Daydra», le spiegò Momma K. «Aspettatelo. Ignoralo. Non sei una puttana, non sei una bugiarda. Sei un'intrattenitrice. Gli uomini non comprano un pregiato vino sethi perché hanno sete. Lo comprano perché li fa stare bene, e comprarlo li rende soddisfatti di sé. Ecco perché vengono qui. Gli uomini pagano sempre per i propri vizi, che si tratti di vino o di sollevarti la gonna...». «O di assassinio», concluse Kylar, toccandosi il borsellino pieno e il pugnale che portava alla cintura. Sentì il gelo nell'aria, ma Momma K lo ignorò e andò avanti. «Il segreto è decidere cosa non vuoi vendere. Non vendere mai il tuo cuore. Alcune ragazze non baciano. Alcune non vogliono essere mantenute da un solo uomo. Alcune non fanno certe pratiche. Io ho fatto tutto, ma mi sono tenuta il mio cuore». «Sì?», disse Kylar. «Davvero?». Si voltò e il cuore gli saltò in gola. Grazie all'arte di Momma K, Daydra ora sembrava identica a Elene. Stessa costituzione, stesse bellissime forme, stessi scintillanti capelli dorati, stesso semplice abito, simile in tutto tranne per il fatto che si trovava al di qua delle sbarre, abbastanza vicina da poterla toccare, mentre Elene era là fuori. Daydra aveva un sorriso incerto, come se non riuscisse a credere a come Kylar si rivolgeva a Momma K. Momma K era furibonda. Attraversò la stanza come una furia e acchiappò Kylar per un orecchio, come se fosse un monello. Lo


portò fuori, sul pianerottolo del secondo piano. Era affollato di poltrone imbottite e tappeti pregiati, con una guardia del corpo seduta in un angolo e porte che davano sulle stanze di quattro diverse cortigiane. Le scale portavano a un salottino sulle cui pareti erano appesi dipinti evocativi, ma non espliciti, e mensole con libri rivestiti in pelle. Momma K gli lasciò finalmente l'orecchio e si richiuse la porta alle spalle. «Dannazione a te, Kylar. Daydra è già terrorizzata. Che diavolo stai facendo?» «Rivelo un'amara verità». Alzò le spalle. «O dico bugie. Non importa». «Se volessi la verità mi guarderei nel dannato specchio. Questa vita non ha nulla a che vedere con la verità, si tratta semplicemente di estrapolare il meglio da ciò che si ha. È per quella ragazza, vero? É una follia. Tu l'hai salvata, Kylar. Ora, lasciala andare. Ti deve tutto». «Mi deve le sue cicatrici». «Sei un maledetto sciocco. Hai mai visto cosa è successo a tutte le altre ragazze della vostra gang? A meno di dieci anni sono già per strada, si ubriacano e fumano droga, sono tagliaborse e paralitiche, mendicanti e squallide puttane, madri quindicenni con bambini che muoiono di fame o non più in grado di fare figli, perché hanno preso l'infuso di tanaceto troppe volte. Ti assicuro che Elene non è l'unica ragazza di una gang con le cicatrici inferte da un pervertito. Ma è l'unica con la speranza di un futuro. Sei stato tu a dargliela, Kylar». «Avrei dovuto...». «L'unica cosa che avresti potuto fare in più era ammazzare prima quel ragazzo - prima che facesse qualcosa a te. Se tu fossi stato il tipo di bambino capace di uccidere, non saresti stato il tipo di ragazzo a cui importa cosa succede a una ragazzina. La verità è che, anche se fossero colpa tua, le cicatrici di Elene sono un piccolo prezzo per la vita che le hai dato». Kylar si allontanò. Anche il pianerottolo aveva una finestra che dava sul mercato. Era di vetro semplice, chiaro, né intagliato né colorato come quello nella stanza della cortigiana. Anche questa era protetta da sbarre di semplice ferro, appuntite come uno dei coltelli di Blint. Elene si era avvicinata e lui poté vederle le cicatrici. Ma lei sorrise e le cicatrici sembrarono scomparire.


Quante volte capitava che le ragazze dei Cunicoli sorridessero così? Kylar si scoprì a sorridere per tutta risposta. Si sentì più leggero di quanto riuscisse a ricordare. Si girò e sorrise a Momma K. «Non mi sarei aspettato di avere l'assoluzione da te». Lei non ricambiò il sorriso. «Non è un'assoluzione, è la realtà. E io sono la persona perfetta per dartela. E poi, sopporti la colpa male quanto Durzo». «Durzo? Durzo non si sente mai in colpa per niente», ribatté Kylar. Un lampo di disgusto le passò sul viso. Si girò per guardare Elene. «Metti fine a questa farsa, Kylar». «Di cosa parli?» «Durzo ti ha detto quali sono le regole: puoi scopare ma non puoi amare. Lui non vede quello che stai facendo, ma io sì. Tu credi di amare Elene, perciò non scoperai affatto. Perché non esci da questo circolo vizioso?». La voce di Momma K divenne più gentile. «Kylar, non puoi avere quella ragazza là fuori. Perché non prendi quello che puoi avere?» «Cosa vuoi dire?» «Va' da Daydra. Lei ti ringrazierà per questo. Paga la casa. Se sei preoccupato perché non hai esperienza, anche lei è vergine». "Anche"? Per gli dei, Momma K doveva proprio sapere tutto? «No», rifiutò Kylar. «No, grazie, non mi interessa». «Kylar, cosa aspetti? Una gloriosa unione dell'anima con quella ragazza là fuori? Si tratta solo di scopare, ed è tutto ciò che avrai. Così stanno le cose, Kylar, e tu lo sapevi quando hai cominciato. Tutti quanti facciamo dei patti. Io l'ho fatto, Durzo l'ha fatto e anche tu». Arresasi, Momma K fece cenno a uno dei suoi scagnozzi al piano di sotto di far passare un cliente. Un uomo sudicio dalle nocche pelose salì rantolando le scale. Per quanto riccamente vestito, era grasso, brutto e maleodorante e, ridendo, metteva in mostra i denti marci. Si fermò sul pianerottolo, leccandosi le labbra, il ritratto a bocca aperta della lussuria. Rivolse a Momma K un cenno con la testa, strizzò l'occhio a Kylar ed entrò nella stanza della cortigiana vergine. «Forse non era un buon accordo», disse Kylar.


«Non importa. Non si torna indietro».


Capitolo 28 Feir Cousat bussò a una porta all'interno della grande piramide di Sho'cendi. Due colpi, pausa, due, pausa, uno. Quando lui, Dorian e Solon erano studenti alla scuola del fuoco dei maghi, non apprezzavano quelle prestigiose stanze. Ma ora, a lui e a Dorian avevano assegnato quelle camere non tanto per ringraziarli dei loro servigi, quanto per tenerli d'occhio. La porta si aprì appena e dall'altra parte apparve l'occhio di Dorian. Feir pensava sempre che fosse buffo: Dorian era un profeta. Era in grado di prevedere la caduta di un regno o il vincitore di una corsa di cavalli - un giochetto lucroso, quando Feir lo convinceva a farlo -, ma non sapeva chi bussasse alla propria porta. Diceva che fare profezie relative a se stesso portava inesorabilmente sull'orlo della pazzia. Dorian fece entrare Feir e mise il chiavistello alla porta. Feir si accorse di stare attraversando un numero incredibilmente elevato di difese. Le guardò. Una difesa contro chi origliava se l'aspettava. Una difesa contro gli ingressi nella stanza era una cosa insolita quando si era già nella stanza. Ma la cosa veramente strana era una difesa per tenere la magia all'interno della camera. Feir sfiorò la trama della rete, scuotendo la testa per lo stupore. Dorian era il tipo di mago che nasceva una volta sola in una generazione. Dopo aver studiato a Hoth'salar, la scuola dei guaritori di Gandu, e appreso tutto quello che avevano da insegnargli all'età di sedici anni, Dorian era arrivato alla scuola del fuoco e ne aveva appreso la magia, senza neanche fingere che gli interessasse. Vi era rimasto solo perché era diventato amico di Feir e Solon. I talenti di Solon riguardavano quasi solo il Fuoco, ma era il più forte dei tre. Feir non era sicuro del perché quei due fossero diventati suoi amici. Forse perché non si sentiva minacciato dalle loro grandi capacità. Era così evidente che fossero il genere di uomini toccati dagli dei, che Feir non ne fu invidioso per molto tempo. Forse, aiutò il fatto che fosse nato in una famiglia di contadini. Probabilmente, aiutò il fatto che quando era in difficoltà con gli studi e cominciava a essere invidioso, uno o l'altro dei suoi amici proponeva di esercitarsi con lui. Feir sembrava grasso, ma si muoveva bene e si allenava quotidianamente con i Maestri di Spada, il cui centro di


addestramento era a pochi minuti da Sho'cendi. Per Solon o Dorian offrirsi di esercitarsi con lui equivaleva ad accettare di riempirsi di lividi. Dorian era in grado di guarirli, ma facevano male lo stesso. Dorian aveva delle bisacce aperte a metà sul letto. Feir sospirò. «Sai che l'Assemblea ti ha vietato di partire. A loro non interessa Cenaria. Onestamente, se Solon non fosse lì, non interesserebbe neanche a me. Potremmo mandargli un messaggio per dirgli di andarsene». I capi della scuola non si erano espressi in quei termini, naturalmente. La cosa che più li preoccupava era che l'unico profeta del continente di Midcyru - o forse l'unico profeta al mondo - potesse finire nelle mani del Re Divino. «Non conosci ancora la parte migliore», aggiunse Dorian, sorridendo come se fossero bambini. Feir sentì il sangue defluirgli dal viso. Le difese affinché la magia rimanesse nella stanza, d'un tratto, avevano senso. «Non starai pensando di rubarla». «Potrei argomentare che è nostra. Noi tre l'abbiamo rintracciata, trovata e riportata indietro. Sono stati loro a rubarcela per Primi, Feir». «Eri d'accordo che sarebbe stata più al sicuro qui. Abbiamo lasciato che la prendessero». «E ora me la riprendo», disse Dorian alzando le spalle. «Quindi sei di nuovo tu contro il mondo». «Sono io per il mondo, Feir. Vieni con me?» «Venire con te? È questa la follia?». Quando si era manifestato il dono della profezia, per prima cosa Dorian aveva provato a predire il proprio futuro. Aveva appreso che qualunque cosa avesse fatto, un giorno sarebbe diventato pazzo. Scavare nel proprio futuro avrebbe solo affrettato l'arrivo di quel giorno. «Pensavo avessi detto che ti rimaneva ancora un decennio». «Non così tanto adesso», disse Dorian. Scrollò le spalle come se non avesse importanza, come se non gli si spezzasse il cuore, esattamente come aveva fatto quando aveva chiesto a Solon di andare a Cenaria, sapendo che a Solon sarebbe costato l'amore di Kaede. «Prima che tu risponda, Feir, sappi questo: se vieni con me, lo rimpiangerai molte volte e non percorrerai mai più le sale di Sho'cendi».


«Un appello davvero convincente», disse Feir, alzando gli occhi al cielo. «Mi salverai anche la vita due volte, possiederai una fucina, sarai conosciuto in tutto il mondo come il più grande fabbricante di armi esistente, avrai un piccolo ruolo nel salvare il mondo e morirai soddisfatto, vecchio più o meno quanto tu o io speravamo». «Oh, così va meglio», disse sarcasticamente Feir, ma il suo stomaco faceva le capriole. Raramente Dorian diceva quello che sapeva ma, quando lo faceva, non mentiva mai. «Solo una piccola parte nel salvare il mondo?» «Feir, il tuo scopo nella vita non è la tua felicità. Siamo parte di una storia più grande. Ognuno lo è. Se la tua parte non è celebrata, ciò le toglie valore? Il nostro scopo in questo viaggio non è salvare Solon. É vedere un ragazzo. Affronteremo molti pericoli per arrivare laggiù. La morte è una possibilità molto reale. E sai di cosa ha bisogno quel ragazzo da noi? Quattro parole. Forse tre, se il nome vale per uno. Vuoi sapere quali sono?» «Sicuro». « " Chiedi a Momma K " ». «Cioè? Cosa significa?», chiese Feir. «Non ne ho idea». Talvolta un veggente poteva essere una spina nel fianco. «Mi chiedi molto», disse Feir. Dorian annuì. «Rimpiangerò se accetto?» «Molte volte. Ma tutto sommato no». «Forse sarebbe più facile se mi dicessi meno cose». «Credimi», disse Dorian, «vorrei non avere una visione così chiara di cosa ti aspetta. Se ti dicessi di meno, mi odieresti per avertelo nascosto. Se ti dicessi di più, potresti non avere il coraggio di andare avanti». «Basta!». Per gli dei, sarebbe stato così brutto? Feir si guardò le mani. Avrebbe avuto una fucina. Sarebbe stato conosciuto in tutto il mondo per il suo lavoro. Era stato uno dei suoi sogni. Forse avrebbe perfino potuto sposarsi, avere dei figli. Pensò di chiederlo a Dorian, ma non osò. Sospirò e si strofinò le tempie.


Dorian gli rivolse un gran sorriso. «Bene! Ora aiutami a escogitare un modo per portare Curoch fuori di qui». Feir era sicuro di aver capito male. Poi sentì nuovamente il sangue defluirgli dal viso. C'erano difese alla porta per tenere la magia all'interno. «Quando dici "qui", intendi nella scuola? Come se potessi ancora convincerti a non rubare il più sorvegliato artefatto di Midcyru. Giusto?». Dorian tirò indietro le coperte sul letto. Vi era posata una semplice spada. Sembrava del tutto normale, se non fosse per il fatto che il fodero era tutto di piombo e copriva l'intera spada, anche l'elsa, attutendo la magia. Ma quella non era semplicemente una spada magica. Era la Spada Magica. Era Curoch, la spada dell'imperatore Jorsin Alkestes. La Spada del Potere. Gran parte dei maghi non era neanche abbastanza forte per usarla. Se Feir (come molti altri) ci avesse provato, la spada l'avrebbe ucciso in un secondo. Dorian aveva detto che neanche Solon poteva usarla tranquillamente. Ma, dopo la morte di Jorsin Alkestes, c'erano stati alcuni maghi in grado di farlo - e avevano distrutto più di una civiltà. «All'inizio pensavo di dover predire il mio futuro per trovarla ma, invece, ho predetto quello delle guardie. È andato tutto alla perfezione, tranne per il fatto che una guardia ha preso un corridoio che aveva solo una possibilità su mille di percorrere. Ho dovuto tramortirlo. La buona notizia è che verrà curato da una bella ragazza che in seguito sposerà». «Mi stai dicendo che in questo momento c'è una guardia svenuta al piano di sopra, che aspetta solo di essere trovata? Mentre noi stiamo parlando? Perché lo stai facendo?» «Perché lui ne ha bisogno». «Lui? Stai rubando Curoch per il ragazzo di "chiedi a Momma K"?», domandò Feir. «Oh, no. Be', non direttamente. Il ragazzo che ha bisogno di Curoch - quello che il mondo intero ha bisogno che impugni Curoch - non è ancora nato. Ma questa è la nostra unica possibilità per prenderla». «Per gli dei, fai sul serio», disse Feir. «Smettila di fingere che questo cambi qualcosa. Hai già deciso. Andremo a Cenaria». Talvolta un veggente poteva essere una spina nel fianco?


Diciamo pure sempre.


Capitolo 29 «Qual è il tuo problema?», urlò Mastro Blint. «Io non...», disse Kylar. «Di nuovo!», ruggì Blint. Kylar fermò il coltello da esercitazione con una chiusura a X, incrociando i polsi davanti a sé. Cercò di afferrare la mano di Durzo e ruotarla, ma il sicario scivolò da un lato. Si muovevano all'interno della sala per le esercitazioni dell'ultimo rifugio di Blint, rimbalzando sulle pareti, spingendosi l'un l'altro contro le travi, cercando di usare qualsiasi irregolarità del pavimento contro l'altro. Ma lo scontro era alla pari. I nove anni che Kylar aveva trascorso sotto la tutela di Blint lo avevano visto indurirsi e crescere. Aveva forse vent'anni ormai. Non era ancora alto quanto Blint e mai lo sarebbe stato, ma il suo corpo era forte e snello e i suoi occhi dello stesso colore celeste. Mentre sudava e lottava, ogni muscolo delle braccia, del petto e del ventre si muoveva indipendentemente secondo il suo scopo, ma Kylar non riusciva davvero a impegnarsi. Durzo lo capì e la cosa lo fece infuriare. Servendosi di abbondanti ed eloquenti imprecazioni, Mastro Blint paragonò l'atteggiamento del suo allievo a quello di una prostituta svogliata, la sua faccia a improbabili e insalubri parti del corpo, e la sua intelligenza a quella di diverse specie di animali da fattoria. Quando attaccò nuovamente, Kylar poté notare che stava cercando di innalzare il livello. Una delle tante cose pericolose di Mastro Blint era che, quando era furioso, non lo dava mai a vedere nel combattimento. La sua furia trovava espressione solo dopo che giacevi a terra, di solito sanguinante. Durzo fece in modo che Kylar si muovesse per tutta la stanza, minacciandolo con il pugno o allungando verso di lui la mano che teneva il coltello in veloci archi e affondi. Per una frazione di secondo, si allungò troppo e Kylar riuscì ad aggirarlo e a colpirgli il polso. Ma Mastro Blint non mollò la presa sul coltello e, mentre lo tirava


indietro, la lama smussata colpì il pollice di Kylar. «Quell'impazienza ti costa un pollice, ragazzo». In preda all'affanno, Kylar si fermò ma senza perdere di vista Mastro Blint. Si erano già esercitati con spade di diverso genere, con coltelli di varia lunghezza. A volte combattevano con la stessa arma e altre volte combattevano in modo impari - Mastro Blint con uno spadone a doppio filo contro una spada gandiana, oppure Kylar con uno stiletto contro un gurka. «Chiunque altro avrebbe perso il coltello», ribatté Kylar. «Non stai combattendo con chiunque altro». «Non combatterei se voi foste armato e io no». Mastro Blint tirò indietro il coltello e lo lanciò oltre l'orecchio di Kylar. Il ragazzo non mosse un muscolo. Non è che avesse smesso di chiedersi se Mastro Blint l'avrebbe ucciso: al contrario, sapeva che non avrebbe potuto fermarlo. Quando Blint si lanciò nuovamente all'attacco, lo fece a tutta velocità. I calci furono parati con altri calci, i pugni vennero deviati, gli affondi schivati, i colpi assorbiti dalle braccia, dalle gambe, dai fianchi. Niente trucchi, niente di scenografico. Solo velocità. Nel mezzo di quel turbinio di membra, come al solito, Kylar capì che Mastro Blint avrebbe vinto. L'uomo era semplicemente migliore di Kylar. Era in genere a quel punto che Kylar tentava una mossa disperata. Mastro Blint la aspettava. Kylar scatenò una tempesta di colpi, veloci e leggeri come una brezza montana. Nessuno di questi da solo avrebbe fatto del male a Blint, ma uno gli impediva di parare l'altro. Kylar combatté sempre più velocemente, ogni colpo veniva spazzato via o toccava semplicemente la carne tesa per l'impatto. Un colpo basso riuscì ad andare a segno, conficcandosi nell'addome di Mastro Blint. Mentre questi si piegava involontariamente, Kylar fece per colpirlo al mento con tutta la sua forza - ma si fermò. Blint si rialzò abbastanza velocemente da poterlo bloccare ma, senza il contatto nel punto che si era aspettato, portò la parata troppo in là, e non riuscì a ritirare la mano prima che Kylar gli sferrasse un pugno sul naso. Il pugno di Kylar tuttavia non colpì Mastro Blint. Venne spazzato via da una forza invisibile, simile a una mano. Incespicando, Kylar cercò di riprendersi e bloccare il calcio di Durzo, che gli travolse le


mani con una forza sovrumana. Kylar andò a sbattere contro la trave alle sue spalle, così forte che la sentì scricchiolare. Cadde a terra. «Tocca a te», disse Blint. «Se non riesci a toccarmi, c'è in serbo una punizione speciale per te». Punizione speciale"? Splendido. Piegato a terra, con entrambe le braccia che gli pulsavano, Kylar non rispose. Si rialzò ma, voltatosi, vide che al posto di Blint c'era Logan. Tuttavia lo scherno sulla faccia di Logan era proprio quello di Durzo Blint. Era un'illusione, un'illusione alta due metri, che eseguiva alla perfezione le mosse di Blint. Kylar gli sferrò un violento calcio al ginocchio - ma il piede gli passò attraverso, infrangendo l'illusione e toccando il nulla. Blint era mezzo metro dietro la figura. Mentre Kylar perdeva l'equilibrio, Blint sollevò una mano. Con un sibilo, un pugno fantasma esplose dalla sua mano e mandò a terra Kylar. Kylar balzò nuovamente in piedi, in tempo per vedere Blint saltare. Il soffitto era alto quasi cinque metri, ma Blint lo colpì con la schiena - e vi rimase attaccato. Cominciò a strisciare e poi scomparve nelle ombre frementi che lo avvolgevano, fondendosi con la grande oscurità del soffitto. All'inizio, Kylar sentì Blint spostarsi in un punto sopra di lui, poi il rumore cessò bruscamente. Il Talento di Blint copriva perfino i suoni dello sfregamento contro il legno. Continuando a muoversi, Kylar scrutò il soffitto alla ricerca di ombre fuori posto. «Scarred Wrable è in grado perfino di distorcere la propria voce, o qualsiasi altro suono», disse Blint, dall'angolo opposto del soffitto. «Mi chiedo se tu sapresti fare altrettanto». Kylar vide, o credette di vedere, l'ombra che tornava verso di lui. Scagliò un coltello da lancio contro l'ombra, che si divise, lasciando l'arma a vibrare nel legno. Era un'altra illusione. Kylar si voltò lentamente, cercando di captare anche il più lieve suono fuori posto nonostante il martellare del proprio cuore. Sentendo il tenue fruscio della stoffa che colpiva il pavimento alle sue spalle, si girò su se stesso e vi si scagliò contro. Ma non c'era niente lì, a parte la tunica di Blint ammucchiata a terra. Un tonfo gli annunciò l'atterraggio di Blint dietro di sé. Kylar si voltò nuovamente ma qualcosa gli bloccò la mano sinistra, e poi la


destra. Mastro Blint era a torso nudo, uno sguardo mortale negli occhi, le vere mani lungo i fianchi. I polsi di Kylar erano bloccati in aria dalla magia. Lentamente, le braccia gli furono tirate, fino a spalancargliele e oltre. Kylar rimase in silenzio fin quando poté, ma quando sentì le giunture sul punto di slogarsi, cacciò un urlo. I legami si spezzarono e Kylar crollò, sconfitto. Durzo scosse la testa deluso - e Kylar attaccò. Il suo calcio rallentò in prossimità del ginocchio di Durzo, come se stesse affondando in una molla, e poi rimbalzò indietro, spingendo Kylar con violenza a terra. «Vedi cosa è appena successo?», chiese Durzo. «Mi avete di nuovo preso a calci nel culo», rispose Kylar. «Prima di quello». «Vi ho quasi colpito», disse Kylar. «Mi hai imbrogliato e mi avresti distrutto, ma io ho usato il mio Talento e tu ancora rifiuti di usare il tuo. Perché?». Perché sono guasto. Dall'incontro con Drissa Nile, quattro anni prima, Kylar aveva pensato un centinaio di volte di dire a Durzo Blint quello che lei gli aveva rivelato: non aveva un canale e non si poteva rimediare. Ma le regole erano sempre state chiare. Kylar sarebbe diventato un sicario o sarebbe morto. E, come Blint aveva dimostrato ancora una volta, Kylar non sarebbe diventato un sicario senza il Talento. Dire a Blint la verità gli era sempre sembrato un modo rapido per morire. Kylar aveva tentato di tutto perché il suo Talento funzionasse o per imparare qualcosa che potesse aiutarlo, ma non aveva trovato nulla. Blint respirò a fondo. Quando parlò di nuovo, la sua voce era calma. «É il momento della verità, Kylar. Sei un bravo lottatore. Ancora carente con le armi lunghe, le mazze e la balestra e...». Stava per fare una predica e se ne rese conto. «Ciononostante, sei bravo nel combattimento corpo a corpo e con quelle spade ceurane che ti piacciono. Oggi ce l'avresti fatta con me. Non vincerai la prossima volta, ma comincerai a vincere. Il tuo corpo sa cosa fare e la tua mente ci è quasi arrivata. Nei prossimi anni, il tuo corpo diverrà un po' più veloce, un po' più forte e sarai di gran lunga più abile. Ma il tuo addestramento con le armi è finito, Kylar. Il resto è pratica».


«E quindi?», domandò Kylar. «Seguimi, ho qualcosa che può aiutarti». Kylar seguì Blint nel suo laboratorio. Questo era più piccolo di quello che Azoth aveva visto la prima volta nel vecchio rifugio di Blint, ma, per lo meno, questa casa aveva delle porte che separavano i recinti degli animali dall'area di lavoro. Aveva un odore decisamente migliore. Ora era anche diventata familiare. I libri allineati sugli scaffali erano come vecchi amici. Lui e Blint vi avevano perfino aggiunto dozzine di ricette. Negli ultimi nove anni, aveva finito per apprezzare la perizia di Blint come avvelenatore. Ogni sicario usava i veleni, naturalmente. Cicuta e fiore del sangue, radice di mandragola e ariamu erano tutte piante locali e piuttosto letali. Ma Blint conosceva centinaia di veleni. C'erano intere pagine dei suoi libri cancellate, annotazioni con la scrittura spigolosa di Durzo - «Sciocco. Diluisce il veleno». Altre voci erano state corrette, da quanto tempo occorreva perché il veleno facesse effetto a quali erano i modi migliori per somministrarlo, a come mantenere in vita le piante in climi stranieri. Mastro Blint prese una scatola. «Siediti». Kylar sedette all'alto tavolo, mettendo un gomito sul legno per reggersi il mento. Blint capovolse la scatola davanti a lui. Un serpente bianco cadde sul tavolo producendo un tonfo sordo. Kylar ebbe a malapena il tempo di registrare cosa fosse prima che il serpente gli si avventasse contro il viso. Vide la bocca aperta e i grossi denti luccicanti. Indietreggiò ma era troppo tardi. Poi, il serpente scomparve e Kylar cadde dallo sgabello. Atterrò sulla schiena ma, con un salto, si rimise in piedi all'istante. Blint teneva il serpente per la testa. Lo aveva afferrato prima che potesse attaccare Kylar. «Sai cos'è, Kylar?» «È un aspide bianco». Si trattava di uno dei serpenti più letali al mondo. Erano piccoli, raramente raggiungevano la lunghezza di un avambraccio, ma coloro che venivano morsi morivano nel giro di pochi secondi. «No, è il prezzo di un fallimento. Kylar, combatti meglio di qualsiasi uomo privo di Talento abbia mai visto. Ma non sei un sicario. Conosci bene i veleni; conosci le tecniche per uccidere. La tua velocità di reazione è impareggiabile; il tuo istinto è buono. Sai nasconderti bene, camuffarti bene, combattere bene. Ma, fare


queste cose bene è una fesseria, non è niente. Un assassino fa queste cose bene. Ecco perché gli assassini hanno dei bersagli. I sicari hanno dei "morti". Perché li chiamiamo "morti"? Perché una volta che abbiamo accettato un contratto, il resto della loro breve vita è solo una formalità. Tu hai il Talento, Kylar, ma non lo usi. Non lo userai. Hai visto solo un poco di quello che ho da insegnarti, ma non posso insegnarti altro fino a che non sbloccherai il tuo Talento». «Lo so, lo so», disse Kylar, rifiutandosi di incontrare lo sguardo del suo maestro. «La verità è, Kylar, che non avevo bisogno di un apprendista quando sei arrivato. Non ne ho mai avuto bisogno. Ma avevo sentito dire che un antico artefatto era nascosto a Cenaria: il ka'kari d'argento. Dicono che l'abbia fatto lo stesso Ezra il Folle. È una piccola sfera d'argento ma, quando ci entri in contatto, ti rende resistente a qualsiasi lama e ti allunga la vita all'infinito. Puoi ancora venire ucciso in qualche modo che non preveda l'uso delle lame ma, l'immortalità, Kylar! E poi sei arrivato tu. Sai cosa sei? La maja Drissa Nile te lo ha detto?». Durzo sapeva di Drissa Nile? «Ha detto che ero guasto». «I ka'kari sono stati fatti per persone "guaste" come te. Si pensa che esista un'attrazione tra le persone che hanno un grandissimo Talento, ma che non hanno un condotto, e il ka'kari. Tu dovresti essere in grado di attirarlo, Kylar. Non sai come collegarlo, perciò lo avresti attirato, l'avresti dato a me e io sarei stato immortale». «E avrei continuato a essere guasto», disse amaramente Kylar. «Una volta in mio possesso, avremmo potuto farlo studiare a Drissa. É una grande guaritrice. Anche se le ci fosse voluto qualche anno, sarebbe andato tutto bene. Ma non abbiamo più tempo», disse Durzo. «Sai perché non posso permettere che tu sia un assassino?». Kylar se lo era chiesto un centinaio di volte, naturalmente, ma aveva sempre pensato che l'orgoglio di Blint non gli avrebbe permesso di avere un apprendista fallito. «Il nostro Talento prevede che prestiamo un giuramento magico di fedeltà allo Shinga. Ciò tiene lo Shinga al sicuro e noi al di sopra di ogni sospetto. È un costrizione debole ma, per spezzarla, un sicario dovrebbe rivolgersi a un mago o a un meister, e tutti i maghi della città lavorano per il Sa'kagé, e solo un idiota si


rivolgerebbe a un meister. Sei diventato un abile assassino, Kylar e ciò rende lo Shinga nervoso. Non gli piace essere nervoso». «Perché mai dovrei fare qualcosa contro lo Shinga? Sarebbe come firmare la mia condanna a morte». «Non è questo il punto. Gli Shinga che non sono paranoici non vivono a lungo». «Come avete potuto non dirmi tutto questo?», domandò Kylar. «Tutte le volte che mi avete picchiato per non aver usato il mio Talento - è come picchiare un cieco perché non riesce a leggere!». «Il tuo bisogno disperato di usare il Talento è ciò che attira il ka'kari. Ti stavo aiutando. E ti aiuterò di più». Indicò il serpente che aveva in mano. «Questo è la motivazione. É anche il veleno più gentile che conosca». Mastro Blint bloccò Kylar con lo sguardo. «Trovare quel ka'kari è sempre stata la tua prova finale, ragazzo. Trovalo. Altrimenti...». L'aria divenne di ghiaccio. Ecco, quello era l'ultimo avvertimento per Kylar. Mastro Blint mise via il serpente, raccolse qualche arma, afferrò la sacca che aveva già preparato e sganciò Retribution dalla parete. Controllò la grossa spada nera e poi la infilò nel suo fodero. «Non tornerò per un po'», disse. «Non vengo con voi?» «Mi intralceresti». Intralciarlo? Il tono casuale con cui Blint pronunciò quelle parole lo ferì quasi quanto il fatto che fosse vero.


Capitolo 30 «Non mi piace», disse Solon. Regnus Gyre guardò nel vento che gli soffiava all'indietro i capelli argentei. I Twins erano tranquilli quel giorno, perciò c'era solo il suono del vento che imperversava sulle mura. Lo ascoltò come se stesse cercando di dirgli qualcosa. «Dopo dieci anni, una convocazione», disse Solon. «Perché il re dovrebbe fare una cosa del genere alla vigilia della maggiore età di tuo figlio?» «Qual è il pretesto migliore per radunare tutti i tuoi nemici in un solo posto?», chiese Regnus, alzando di pochissimo la voce per farsi sentire al di sopra del vento. Faceva ancora freddo nonostante la primavera inoltrata. Screaming Winds non era mai caldo. Il vento del nord si insinuava tra i boschi, e si prendeva gioco delle barbe e dei capelli che gli uomini si facevano crescere per trattenere un briciolo di calore in più. «Per eliminarli», rispose Solon. «Meglio eliminarli prima che si radunino», ribatté Regnus. «Il re sa che farò tutto quello che è in mio potere per essere a casa in occasione dell'ascesa di mio figlio. Questo significa viaggiare veloci. Questo significa una piccola scorta». «Sveglio da parte sua non ordinare una piccola scorta», convenne Solon. «Non gli avrei attribuito una tale sottigliezza». «Ha avuto dieci anni per pensarci, amico mio, e l'aiuto della sua spia». La spia era Fergund Sa'fasti, un mago che non era esattamente il più grande moralista di Sho'cendi. Fergund conosceva Solon di vista e avrebbe volentieri rivelato al mondo che Solon era un mago, se avesse pensato di poter causare qualche danno. Fergund era il motivo per cui Solon era rimasto con Regnus tutto l'anno, mentre Logan assumeva più responsabilità a corte. Cominciava a pensare si fosse trattato di un serio errore. «Quindi credi che ci attaccheranno lungo la strada?», chiese Solon. Regnus annuì nel vento. «Non credo che sarò in grado di convincerti a non partire», disse


Solon. Regnus sorrise e Solon non poté fare a meno di volergli bene. Nonostante tutto ciò che aveva minato il suo casato e distrutto le ambizioni che Regnus poteva aver nutrito per il trono, assumere il comando di Screaming Winds aveva ridato la vita a Regnus. Regnus Gyre aveva il fuoco dentro, qualcosa di feroce e fiero che lo rendeva simile a un re guerriero. Il suo comando possedeva una netta autorità e il potere della sua presenza lo rendeva padre, re e fratello per i suoi uomini. Nella semplice lotta contro il male, eccelleva, anzi trionfava. Gli highlander di Khalidor, alcuni dei quali non si erano mai inginocchiati al cospetto di nessun uomo, erano guerrieri. Vivevano per la guerra, pensavano che fosse una disgrazia morire nel proprio letto, credevano che l'unica immortalità fosse quella ottenuta con le gesta degli eserciti cantate dai loro menestrelli. Chiamavano Regnus Rurstabk Slaagen, il Diavolo delle Mura, e, negli ultimi dieci anni, i loro giovani si erano scagliati contro quelle mura, avevano cercato di scalarle, avevano cercato di infilarcisi furtivamente, avevano cercato di comprare un modo per entrarvi, si erano arrampicati sui Twins e cercato di scendere su Screaming Winds da dietro. Ogni volta, Regnus li aveva schiacciati. Spesso, lo aveva fatto senza perdere un uomo. Screaming Winds era composta da tre mura che chiudevano i tre punti più stretti dell'unico passaggio tra Cenaria e Khalidor. Tra le mura c'erano dei campi che gli ingegneri di Regnus avevano disseminato di triboli, buche, trappole fatte con le pietre delle montagne circostanti. Due volte il clan era riuscito a superare il primo muro. Le trappole avevano mietuto un'infinità di vittime, tanto che nessuno era sopravvissuto per raccontare cosa avevano trovato oltre il muro. «Potrebbe essere sincero, suppongo», disse Solon. «Logan dice che è diventato amico intimo del principe. Forse è opera dell'influenza del principe». «Non ho una grande opinione del principe», disse Regnus. «Ma lui ne ha di Logan. Possiamo sperare che il principe prenda da sua madre. Questa potrebbe perfino essere opera sua». Regnus non disse nulla. Non avrebbe pronunciato il nome di Nalia, neanche in quel momento.


«Speri per il meglio ma ti prepari al peggio?», domandò Solon. «Dieci dei nostri migliori uomini, cavalli extra per tutti noi e giù per la strada costiera anziché per quella principale?» «No», disse Regnus. «Se hanno preparato un'imboscata, ne avranno preparate due. Tanto vale che facciano la prima mossa in campo aperto». «Sissignore». Solon si augurava solo che sapesse chi erano gli altri giocatori. «Scrivi ancora lettere a quella Kaede?». Solon annuì, ma il suo corpo si irrigidì. Si sentiva il petto vuoto. Certo che il comandante lo sapeva. Una lettera spedita ogni settimana e mai nessuna ricevuta. «Be', se non ricevi una risposta dopo quest'ultima, per lo meno saprai che non è perché le tue lettere sono noiose». Regnus gli diede una pacca sulla spalla. Solon non poté evitare di sorridere tristemente. Non sapeva come facesse Regnus ma, in qualche modo, in sua compagnia era facile affrontare il crepacuore come lo era affrontare la morte. Momma K sedeva sul balcone di una casa che non aveva ragione di trovarsi in quel posto. Contro tutte le tradizioni e il buonsenso, l'opulenta dimora di Roth Grimson era stata costruita nel bel mezzo dei Cunicoli. Non le piaceva Roth e mai le era piaciuto, ma nel suo lavoro incontrava ben poche persone di suo gradimento. Il fatto era che doveva avere a che fare con Roth perché non poteva permettersi di ignorarlo. Era una delle stelle nascenti del Sa'kagé. Non solo era intelligente, ma tutto ciò che toccava sembrava trasformarsi in oro. Dopo le guerre tra gang, si era distinto come capo dei Red Bashers e si era prontamente impossessato di metà dei Cunicoli. Naturalmente il Sa'kagé era intervenuto, a partire dall'assassinio di Corbin Fishill commissionato a Durzo, ma ci erano voluti anni prima che le cose si assestassero sul serio. Il fatto che Roth avesse guidato la sua gang tanto bene da accaparrarsi così tanto territorio aveva, ovviamente, suscitato la curiosità dei Nove. E, altrettanto ovviamente, a Roth non erano piaciute le domande della donna, ma le aveva accettate. Una parola di Momma K e lui non avrebbe mai fatto parte dei Nove. Un'altra parola e sarebbe morto. Era sveglio


abbastanza da saperlo. Roth aveva quasi trent'anni. Era un giovane alto e temibile che si comportava come un principe in mezzo ai cani. Occhi azzurri ravvicinati, capelli scuri, una predilezione per i bei vestiti: quel giorno indossava una tunica grigia decorata con un motivo a nodi di Plangan, da poco di moda, calzoni intonati e alti stivali lavorati in argento. Aveva i capelli neri leggermente impomatati, con un ciuffo ondulato che talvolta gli ricadeva sugli occhi. «Se mai ti stancherai di lavorare per il nostro Mastro Tesoriere, andrai bene in uno dei miei bordelli. Gli uomini ti adorerebbero». Lo disse con finta noncuranza, solo per vedere come l'avrebbe presa. Lui rise. «Lo terrò a mente». Fece segno ai domestici di portare la colazione. I due sedettero l'uno accanto all'altra davanti a un tavolino sul bordo del balcone. A quanto pare, Roth voleva che lei ammirasse la sua casa. Probabilmente, sperava che gli avrebbe chiesto perché l'avesse fatta costruire lì. Lei non volle dargli quella soddisfazione. E poi, aveva già fatto le sue indagini. Sapeva che i motivi erano piuttosto buoni. Aveva di fronte il porto, che gli consentiva di fare un po' di contrabbando, sebbene il molo fosse troppo piccolo per ottenere alti profitti. Era anche riuscito ad acquistare il terreno destinato a un istituto di carità, nonostante avesse dovuto assoldare così tanti scagnozzi durante la costruzione da aver perso i ricavi. Quando i poveri erano stati fatti sloggiare, sia gli onesti che i ladri tra di loro erano stati ansiosi di rubare qualunque cosa potessero allo sciocco che avrebbe costruito una casa sulla loro riva del fiume. Gli scagnozzi ne avevano probabilmente pestati a centinaia. Momma K sapeva che ne avevano uccisi almeno mezza dozzina. Essere trovati sulla proprietà di Grimson senza permesso equivaleva a morire. Le mura erano alte, percorse da schegge di vetro e spuntoni metallici che spiccavano come ombre appuntite nella luce dell'alba. Le mura erano presidiate dagli scagnozzi; si trattava di uomini efficienti e amanti del proprio lavoro. Nessuno dei locali aveva più cercato di intrufolarsi. I dilettanti avevano già tentato e pagato un caro prezzo oppure conoscevano altri che vi si erano cimentati. I professionisti sapevano di poter attraversare Vanden Bridge e trovare prede più facili. I giardini erano bellissimi, con fiori e piante tenuti bassi in modo


da non impedire la visuale agli arcieri. Le chiazze di vermiglio, verde, giallo e arancione creavano un forte contrasto con il grigio e lo squallido marrone dei Cunicoli. I domestici portarono la prima portata, spicchi di arance rosse ricoperti di zucchero caramellato. Roth iniziò la conversazione con un commento sul tempo. Una scelta non particolarmente ispirata, ma Momma K non si aspettava molto di più. Proseguì parlando dei suoi giardini mentre i domestici portavano le animelle calde. Aveva l'irritante propensione dei nuovi ricchi a rivelare quanto costassero le cose. Avrebbe dovuto sapere che lei era in grado di capire da sola, dalla qualità del servizio e dal cibo, quanto stesse spendendo esattamente per quella casa. Quando sarebbe arrivato al punto? «Quindi ci sarà un posto vacante nei Nove», disse Roth. Bruscamente. Avrebbe dovuto raccontare un aneddoto divertente riguardante il proprio lavoro e usarlo per entrare in argomento. «Sì», rispose Momma K. Non aveva intenzione di rendergliela facile. Il sole stava appena sorgendo all'orizzonte e il cielo si tingeva di un meraviglioso arancione. Sarebbe stato un giorno torrido; perfino a quell'ora non aveva quasi bisogno di uno scialle attorno alle spalle. «Ho lavorato con Phineas Seratsin per sei anni. Conosco il lavoro meglio di chiunque altro». «Hai lavorato per il Trematir, non con lui». Gli occhi di Roth lampeggiarono ma lui non disse nulla. Un carattere pericoloso, dunque. A Mastro Grimson non piaceva essere corretto. «Le vostre spie non devono essere molto sveglie, se non hanno visto la mole di lavoro che svolgo io rispetto a quella di quel vecchio». Lei inarcò un sopracciglio. «Spie?» «Tutti sanno che avete spie ovunque». «Bene. Tutti lo sanno. Dunque, deve essere così». «Oh, capisco», disse Roth. «É una di quelle cose che tutti sanno ma di cui non dovrei fare menzione perché è maleducato». «C'è gente, all'interno di questa organizzazione, con la quale è pericoloso essere maleducati, ragazzo. Se stai chiedendo il mio


voto, faresti meglio ad avermi come amica». Roth fece segno a un domestico, che prese i loro piatti e li sostituì con pezzi di carne speziata e una portata di uova leggermente grigliate e formaggio. «Non lo sto chiedendo», fece lui tranquillamente. Momma K finì le sue uova e cominciò la carne brasata. Deliziosa. Quell'uomo doveva essersi portato uno chef da Gandu. La donna mangiava e guardava il cielo luminoso, il sole che sorgeva lentamente sul grande cancello di ferro della tenuta di Grimson. Se si fosse rimangiato quelle parole, l'avrebbe lasciato vivere. «Non so come mai tu abbia una tale influenza sui Nove, ma so che ho bisogno del tuo voto e lo avrò», disse Roth. «Prenderò il tuo voto, altrimenti prenderò tua nipote». La carne che un momento prima era sembrata così deliziosamente speziata, che sembrava sciogliersi nella bocca di Momma K, d'un tratto ebbe il sapore di una manciata di sabbia. «Graziosa ragazzina, non è vero? Adorabili treccine. È così triste che sua madre sia morta, ma è meraviglioso che abbia una zia ricca che le ha trovato un posto dove vivere, e nel castello, nientemeno! Tuttavia, una ricca vecchia puttana avrebbe dovuto fare di meglio piuttosto che far allevare sua nipote da una donna di servizio». Momma K era pietrificata. Come aveva fatto a scoprirlo? I libri mastri. I suoi registri erano tutti in codice ma Phineas Seratsin era il Mastro Tesoriere del Sa'kagé. Aveva accesso a più documenti finanziari lui che le cinque persone più influenti del regno messe insieme. Roth doveva aver trovato traccia dei pagamenti fatti a una donna di servizio del castello. Era una donna terrorizzata. Una sola minaccia da parte di Roth e doveva essersi piegata. Roth si alzò, il suo piatto era già vuoto. «No, stai. Finisci la colazione». Lei fece come le aveva detto, meccanicamente, usando il tempo per riflettere. Poteva far scomparire la ragazzina? Non poteva usare Durzo per questo, ma non era l'unico sicario di sua conoscenza. «Sono un uomo crudele, Gwinvere. Eliminare una vita è...». Roth tremò al pensiero dell'estasi. «Meglio. Meglio di qualunque piacere tu possa vendere. Ma io controllo i miei appetiti. Ed è questo che distingue noi umani dagli schiavi, non è vero?».


Si infilò uno spesso guanto di pelle. Le inferriate del suo cancello si stavano lentamente alzando mentre parlava. All'esterno, Momma K vide radunate dozzine di straccioni. Evidentemente, si trattava di un rituale quotidiano. Sotto, quattro domestici stavano portando un tavolo carico di cibo nel giardino. Posatolo a terra, tornarono dentro. «Quei disgraziati sono schiavi dei propri appetiti. Schiavi, non uomini». Gli affamati che erano più indietro cominciarono a spingere e quelli davanti vennero sospinti all'interno. Guardavano le inferriate appuntite sopra di sé e poi Roth e Momma K. Ma i loro occhi erano fissi soprattutto sul cibo. Sembravano animali, la fame li faceva impazzire. Una giovane donna riuscì a passare. Scattò in avanti. Dopo pochi passi, gli altri la seguirono. C'erano vecchi e giovani, donne, bambini, l'unica cosa che sembravano avere in comune era la disperazione. Ma Momma K non capiva la ragione della loro frenesia. Raggiunsero il cibo e vi si avventarono, riempendosi le tasche di salsicce, la bocca di prelibatezze tali che dopo si sarebbero sentiti male. Un domestico porse una balestra a Roth. Era già tesa e carica. «Cosa stai facendo?», domandò Momma K. I poveracci lo videro e si sparpagliarono. «Uccido seguendo uno schema molto semplice», spiegò Roth, sollevando l'arma. Premette la levetta e un giovane cadde con un dardo nella schiena. Roth abbassò la punta della balestra ma, invece di girare il verricello per tirare indietro la corda, afferrò questa con il guanto e la tirò a mano. Per un brevissimo istante, segni simili a tatuaggi neri emersero sotto la superficie della sua pelle e vibrarono di potere. Era una cosa impossibile. Scoccò di nuovo e la giovane donna, che era stata la prima a correre verso il tavolo, cadde scompostamente. «Nutro il mio piccolo gregge ogni giorno. La prima settimana del mese, uccido il primo giorno. La seconda settimana, il secondo giorno». Fece una pausa mentre caricava nuovamente la balestra.


Fece partire il colpo e un'altra donna cadde con la testa trafitta. «E così via. Ma non ne uccido più di quattro». Gran parte dei poveracci non c'era più, tranne un vecchio che avanzava lentamente verso il cancello, lontano ancora trenta passi. La freccia lo colpì al ginocchio. Il vecchio cadde urlando e si mise a strisciare. «Gli schiavi non lo capiscono mai. È la pancia a governarli, non il cervello». Roth attese che il vecchio avesse raggiunto il cancello, mancò il colpo e ritentò, uccidendolo. «Visto quello?». Momma K vide un bifolco entrare. Tutti gli altri si erano dispersi. «Lui è il mio preferito», spiegò Roth. «Ha capito lo schema». L'uomo entrò, rivolse a Roth un cenno della testa e, avvicinatosi al tavolo, si mise a mangiare senza fretta. «Certo, potrebbe dirlo agli altri e salvare qualche vita. Ma, poi, io potrei cambiare lo schema e lui perderebbe il suo vantaggio. É un sopravvissuto, Gwinvere. I sopravvissuti sono disposti a compiere sacrifici». Roth porse la balestra e il guanto a un domestico e si rivolse a Momma K. «Perciò la domanda è, tu sei una sopravvissuta?» «Sono sopravvissuta più di quanto tu sappia. Avrai il tuo voto». L'avrebbe ucciso in seguito. Non doveva mostrare alcuna debolezza. Non aveva importanza come si sentisse ora. Roth era un animale e avrebbe percepito la sua paura. «Oh, ma voglio più che un voto. Voglio Durzo Blint. Voglio il ka'kari d'argento. Voglio... molto di più. E lo otterrò, con il tuo aiuto». Sorrise. «Ti è piaciuto il cafone brasato?». Lei scosse la testa, distratta, guardando il proprio piatto vuoto. Poi, si sentì gelare. Nel giardino, i domestici stavano raccogliendo i corpi e li portavano dentro. «Volevi dire "cappone"», disse. Roth si limitò a sorridere.


Capitolo 31 «Bè, sembri proprio l'estremità sud di un cavallo diretto a nord», disse Logan, incontrando Kylar nel cortile dei Drake. «Grazie», disse Kylar. Fece per passargli oltre, ma l'amico non si spostò. «Cosa vuoi, Logan?» «Hmm?», chiese a sua volta Logan. Era il ritratto dell'innocenza, ammesso che un ritratto dell'innocenza potesse essere così alto. Ma la parte del sempliciotto non gli riusciva bene. Tanto per cominciare Logan era fin troppo intelligente perché qualcuno prendesse sul serio quella messinscena. E poi, era anche dannatamente attraente. Se c'era un modello di perfetta mascolinità nel regno, quello era Logan. Era come una statua eroica fatta di carne. Sei mesi all'anno con suo padre lo avevano reso muscoloso, e gli avevano dato un profilo deciso che faceva più che sospirare le giovani donne di Cenaria. Denti perfetti, capelli perfetti e, naturalmente, un'esagerata quantità di denaro, che sarebbe stato suo al raggiungimento del ventunesimo anno - fra tre giorni -, completavano il quadro. Attirava l'attenzione quasi quanto il suo amico, il principe Aleine - e perfino di più da parte delle ragazze che non erano interessate alle storie di una sola notte. La sua benedizione era nel fatto che non avesse assolutamente idea di quanto fosse bello o di quanto la gente lo ammirasse o lo invidiasse. Era per quello che Kylar lo aveva soprannominato Orco. «Logan, a meno che tu stessi semplicemente nel cortile, sei uscito quando mi hai visto entrare dal cancello. Ciò significa che mi stavi aspettando. Ora sei fermo lì invece di venire con me, e ciò significa che non vuoi che nessuno ascolti quello che stai per dire. Serah non è, come al solito, due passi dietro di te, e questo vuol dire che è con tua madre a comprare abiti o qualcosa del genere». «Ricamo», ammise Logan. «Allora cosa c'è?», chiese Kylar. Logan spostò il peso da un piede all'altro. «Odio quando lo fai. Potevi farmici arrivare da solo. Volevo - ehi, dove credi di andare?». Kylar continuò a camminare. «Stai cercando di guadagnare tempo». «Va bene. Ma fermati. Stavo solo pensando che qualche volta


dovremmo riesumare le vecchie scazzottate», disse Logan. Scazzottate. E la gente si aspettava che qualcuno così grosso fosse tonto. «Mi faresti nero», mentì Kylar sorridendo. Se si fossero battuti, Logan avrebbe fatto domande. Si sarebbe meravigliato. Era improbabile, ma avrebbe potuto perfino capire che non erano davvero passati nove anni dal loro ultimo scontro. «Non credi che vincerei, eh?», chiese Logan. Da quando era stato umiliato durante il combattimento nell'arena, si era impegnato seriamente negli allenamenti. Passava ore ogni giorno con i migliori Maestri di Spada non Sa'kagé della città. «Ogni volta che abbiamo combattuto, mi hai massacrato. Sono...». «Ogni...? Una sola volta! Ed è stato dieci anni fa!». «Nove». «Irrilevante», disse Logan. «Se mi colpissi con una di quelle incudini che spacci per pugni, non mi rialzerei più», disse Kylar. Era abbastanza vero. «Farei attenzione». «Non sono adatto a un orco». Qualcosa non andava. Logan gli chiedeva di battersi più o meno una volta all'anno, ma mai in modo così insistente. L'onore di Logan non gli avrebbe permesso di insistere con un amico che aveva chiaramente preso la propria decisione, pur non comprendendone il motivo. «Di cosa si tratta, Logan? Perché vuoi un combattimento?». Lord Gyre guardò a terra e si grattò la testa. «Serah ha chiesto perché non ci esercitiamo insieme. Lei pensa che sarebbe un bell'incontro. Non che voglia guardarci mentre ci facciamo del male, ma...». La voce di Logan si affievolì, imbarazzata. Ma non puoi fare a meno di volerti pavoneggiare un po', pensò Kylar. «Parlando di begli incontri, quando hai intenzione di andare al patibolo e sposarla finalmente?», disse. Orco fece un profondo sospiro. Tutti i suoi sospiri erano grossi, ma questo lo era davvero. Rimase per un po' in silenzio. Poi, afferrò uno sgabello da stalla e vi si sedette, incurante del fatto che il suo bel mantello strisciasse nella sporcizia. «In realtà, ne ho parlato con il conte Drake un paio di giorni fa».


«L'hai fatto?», chiese Kylar. «E?» «Approva...». «Congratulazioni! A quando, allora, grosso bastardo ancora per poco scapolo?». Orco fissò il nulla. «Ma è preoccupato». «Stai scherzando?». Logan scosse la testa. «Ma ti conosce da quando sei nato. Le vostre famiglie sono molto amiche. Sposandosi, lei guadagnerà un titolo. Salirà nella scala nobiliare. Tu hai grandi prospettive e voi due siete praticamente fidanzati da anni. Di cosa può mai preoccuparsi?». Logan fissò lo sguardo su Kylar. «Ha detto che tu l'avresti saputo. É innamorata di te?». Accidenti. «No», disse Kylar, dopo una pausa troppo lunga. Logan se ne accorse. «Lo è?». Kylar esitò. «Penso che non sappia di chi è innamorata». Era una bugia di omissione. Logan era sulla pista sbagliata. Serah non amava Kylar e a lui non piaceva neanche. «La amo da sempre, Kylar». Kylar non aveva niente da dire. «Kylar?». Orco lo guardò intensamente. «Sì?» «La ami?» «No». Kylar era furioso, ma la sua faccia non lasciò trasparire nulla. Aveva detto a Serah che doveva confessarlo a Logan, lo aveva preteso. Lei aveva promesso che lo avrebbe fatto. Logan lo guardò, ma la sua faccia non si rasserenò come Kylar si aspettava. «Signore», disse una voce alle spalle di Kylar. Kylar non aveva neanche sentito il maggiordomo avvicinarsi. «Sì?», chiese all'anziano uomo. «È appena arrivato un messaggero con questo per voi». Kylar aprì il messaggio non sigillato per evitare di guardare Logan. Diceva: «Dobbiamo vederci. Stasera alla decima ora. Blue


Boar. Jarl». Un'ondata di gelo colpì Kylar. Jarl. Non aveva più avuto sue notizie da quando aveva lasciato la strada. Jarl avrebbe dovuto pensare che fosse morto. Ciò significava che Jarl lo stava cercando o perché aveva bisogno di Kylar Stern o perché sapeva che Kylar era Azoth. E Kylar non riusciva a immaginare alcun motivo per cui Jarl dovesse aver bisogno di vedere Kylar Stern. Se Jarl sapeva chi era, chi altri ne era a conoscenza? Mastro Blint era già partito. Kylar avrebbe dovuto vedere Jarl. Avrebbe dovuto sbrigarsela da solo. «Devo andare», disse. Si girò e si avviò a grandi passi verso il cancello. «Kylar!», lo chiamò Logan. Kylar si voltò. «Ti fidi di me?», gli chiese. Logan alzò la mano. «Sì». «Allora fidati». Il Blue Boar era uno dei bordelli più belli di Momma K. Era poco lontano da Sidlin Street, nella zona est, nei pressi del Tomoi Bridge. Era noto per servire alcuni dei migliori vini della città, cosa di cui non pochi mercanti parlavano quando le loro mogli facevano domande imbarazzanti. «Un amico ha detto di averti visto entrare al Blue Boar oggi». «Sì, certo, mia cara. Incontro d'affari. Meravigliosa selezione di vini». Era la prima visita di Kylar. Il bordello aveva tre piani. Il primo, dove venivano serviti cibo e vini, aveva l'aspetto di una graziosa locanda. Un'insegna indicava il secondo piano come «salotto» e il terzo come «camere per gli ospiti». «Salve, mio signore», lo salutò una voce di gola, mentre sostava all'ingresso, fermo e imbarazzato. Kylar si girò e sentì le guance diventargli bollenti. La donna gli stava vicinissima, abbastanza perché l'aroma speziato del suo profumo gli arrivasse al naso. La voce era profonda e invitante, come se condividessero dei segreti o presto avrebbero potuto farlo. Ma non era niente a paragone di quello che indossava. Kylar non sapeva se quello potesse chiamarsi un vestito, nonostante la


coprisse dal collo alle caviglie. Era fatto interamente di pizzo bianco, a trama larga, e lei non indossava niente sotto. «Scusate?», disse, sforzandosi di guardarla negli occhi e arrossendo ancora di più. «C'è qualcosa che posso fare per voi? Volete che vi porti un bicchiere di Sethi rosso e vi illustri la nostra gamma di servizi?». Sembrava divertita dal suo imbarazzo. «No, vi ringrazio, milady», rifiutò lui. «Forse preferireste venire in salotto e parlare con me più... privatamente», insisté la donna, passandosi un dito sul contorno del viso. «In realtà, io, uhm, preferirei di no. Grazie lo stesso». Lei inarcò un sopracciglio come se Kylar avesse proposto qualcosa di diabolico. «Normalmente mi piace che un uomo mi scaldi un po' prima, ma se volete andare direttamente nella mia camera, sarei...». «No!», disse Kylar. Poi, si rese conto di aver alzato la voce e che la gente si era girata per guardarlo. «Cioè, no, grazie. Sono qui per vedere Jarl». «Ah, siete uno di quelli», disse lei, con la voce di colpo normale. Il cambiamento fu totale, stridente. Non poteva avere più di diciassette anni. Involontariamente, gli venne da pensare a Mags. «Jarl è nell'ufficio. Da quella parte». Ora che aveva rinunciato a sedurlo, Kylar la vide in modo diverso. Sembrava dura, fredda. Quando si allontanò, la sentì dire: «Sembra che quelli belli zappino sempre un altro orto». Kylar non sapeva cosa intendesse ma continuò a camminare, preoccupato che lei stesse ridendo di lui. Era tra i tavoli, a metà strada, quando si guardò indietro. La ragazza si stava dando da fare con un vecchio mercante, sussurrandogli qualcosa all'orecchio. L'uomo sorrideva gioiosamente. Kylar bussò alla porta dell'ufficio. La porta si aprì. «Entra, svelto», disse Jarl. Kylar entrò, perso in un turbinio di pensieri. Jarl - poiché si trattava indubbiamente del suo vecchio amico - era diventato un uomo attraente. Era vestito in modo impeccabile, all'ultima moda, con una tunica di seta indaco, i pantaloni aderenti marrone chiaro,


adornati da una cintura d'argento lavorato. I capelli scuri di Jarl erano acconciati in una moltitudine di lunghe treccine, ognuna lucidata e tirata indietro. Aveva uno sguardo indagatore negli occhi. Dall'angolo si sentì il rumore di un tessuto che sfregava contro un altro. Qualcuno, fuori dalla sua visuale, si stava avvicinando. Kylar scalciò istintivamente. Il suo piede colpì la guardia del corpo al petto. Nonostante si trattasse di un omone, Kylar sentì le sue costole fracassarsi. L'uomo volò all'indietro contro la parete. Scivolò e giacque a terra, immobile. Esaminando il resto della stanza in un istante, Kylar non vide altre minacce. Jarl teneva le mani aperte per mostrare che non aveva armi. «Non ti avrebbe aggredito. Voleva solo assicurarsi che non avessi armi. Lo giuro». Jarl guardò l'uomo riverso al suolo. «Per le palle dell'Alto Re, l'hai ucciso». Corrucciato, Kylar guardò l'uomo svenuto in un angolo. Gli si inginocchiò accanto e gli tastò il collo con le dita. Niente. Gli percorse il petto per capire se una delle costole rotte gli avesse penetrato il cuore. Poi, gli abbatté un pugno sul torace. E un altro ancora. «Cosa diavolo stai...». Jarl si interruppe proprio quando il petto dell'uomo si sollevò. La guardia del corpo tossì e gemette. Kylar sapeva che ogni respiro sarebbe stata una sofferenza per quell'uomo. Ma sarebbe sopravvissuto. «Cerca qualcuno che possa occuparsi di lui», disse Kylar. «Ha le costole rotte». Con gli occhi sgranati, Jarl andò via e tornò con altre due guardie del corpo. Come la prima, erano grosse e muscolose e sembravano capaci di usare le daghe che portavano al fianco. Senza quasi neanche guardare Kylar, raccolsero da terra il loro compagno. Lo portarono via dalla stanza e Jarl chiuse la porta. «Hai imparato un paio di cosette, non è vero?», disse. «Non ti stavo mettendo alla prova. Ha insistito per rimanere qui. Non pensavo... pazienza». Dopo che lo ebbe guardato un po', Kylar disse all'amico: «Ti


trovo bene». «Non vuoi dire "per i nove inferni, come hai fatto a trovarmi, Jarl?"». «Per i nove inferni, come hai fatto a trovarmi, Jarl?». Jarl sorrise. «Non ho mai perso le tue tracce. Non ho mai creduto che tu fossi morto». «No?» «Non sei mai riuscito a nascondermi niente, Azoth». «Non dire quel nome. Quel ragazzo è morto». «Davvero?», chiese Jarl. «É un peccato». Il silenzio riempì la stanza mentre i due uomini si guardavano. Kylar non sapeva cosa fare. Jarl era stato suo amico, amico di Azoth, a ogni modo. Ma era amico di Kylar? Il fatto che sapesse chi era Kylar, forse lo sapeva da anni, gli diceva che non era un nemico. Per lo meno, non ancora. Una parte di Kylar desiderava credere che Jarl volesse solo incontrarlo, che cercasse solo l'occasione di dirgli addio che non aveva mai avuto. Ma aveva trascorso troppi anni con Mastro Blint per essere così ingenuo. Se Jarl lo aveva chiamato ora, era perché voleva qualcosa. «Abbiamo fatto entrambi molta strada, non è vero?», domandò Jarl. «É per parlare di questo che mi hai fatto venire qui?» «Un sacco di strada», disse Jarl, deluso. «In parte speravo che tu non fossi cambiato quanto me, Kylar. Per anni ho desiderato vederti. Da quando te ne sei andato, in realtà. Volevo chiederti scusa». «Scusa?» «Non intendevo farla morire, Kylar. Non riuscivo a fuggire. Ci ho provato ma, anche quando ce l'ho fatta, non sono riuscito a trovarla. Deve aver girato un sacco. Ma poi è scomparsa. Non ho mai scoperto cosa è successo. Mi dispiace così tanto». Le lacrime si affacciarono nei suoi occhi e Jarl distolse lo sguardo, serrando la mascella. Pensa che Elene sia morta. Incolpa se stesso. Ha vissuto con il senso di colpa per tutti questi anni. Kylar aprì la bocca per dirgli che era viva, che stava bene, secondo le notizie che riceveva, che qualche volta la guardava da lontano nei giorni in cui usciva a far


compere, ma non ne uscì alcun suono. «Due riescono a mantenere un segreto», diceva Blint, «se uno di loro è morto». Kylar non conosceva Jarl adesso. Gestiva uno dei bordelli di Momma K, perciò faceva senz'altro rapporto a lei, ma era possibile che riferisse anche ad altri. Era troppo pericoloso. Kylar non poteva dirglielo. Le relazioni sono corde che tengono avvinti. L'amore è un cappio. L'unica cosa che teneva Kylar al sicuro era il fatto che nessuno sapeva che esistesse un cappio con il suo nome scritto sopra. Non sapeva neanche dove fosse Elene. Era al sicuro da qualche parte nella zona est. Forse, ormai era sposata. Aveva diciassette anni, dopo tutto. Forse era perfino felice. Sembrava felice, ma lui non le si era mai avvicinato. Mastro Blint aveva ragione. L'unica cosa che teneva Elene al sicuro era la distanza di Kylar. Il senso di colpa di Jarl non era abbastanza per rischiare la sicurezza di Elene. Niente lo era. Dannazione, Mastro Blint, come fate a vivere così? Come fate a essere così duro, così forte? «Non te ne ho mai fatto una colpa», disse Kylar. Era una cosa patetica. Sapeva che non sarebbe servita, ma non c'era altro che potesse offrire. Jarl sbatté le palpebre e, quando incontrò lo sguardo di Kylar, i suoi occhi scuri erano asciutti. «Se fosse tutto qui, non ti avrei mai chiesto di venire. Durzo Blint ha dei nemici, e anche tu». «Non è proprio una novità», disse Kylar. Non importava che lui e Blint non avessero mai parlato dei loro incarichi, e che chiunque avesse notizie di prima mano riguardo al loro lavoro fosse morto. Le voci giravano. Le voci giravano sempre. Un altro sicario attribuiva loro un lavoro. Un cliente si vantava di chi avesse assoldato. Avevano nemici a cui avevano fatto un torto, e molti più nemici che pensavano di averne ricevuto uno da Durzo. Era uno dei prezzi da pagare per essere i migliori. Le famiglie dei morti non attribuivano mai un colpo di successo a un sicario di seconda categoria. «Ti ricordi di Roth?» «Uno dei grandi di Ratto?», chiese Kylar. «Sì. A quanto pare è più sveglio di quanto avessimo mai pensato. Dopo che Ratto è morto... be', tutti fuggirono come se la


gang stesse andando a fuoco. Sono subentrate le altre bande e si sono prese il nostro territorio. Tutti hanno dovuto arrangiarsi per sopravvivere. Roth non si era fatto nessun amico quando era il braccio destro di Ratto. Si è quasi fatto uccidere una mezza dozzina di volte. Pare che abbia sempre incolpato te». «Me?» «Per aver ucciso Ratto. Se tu non lo avessi ucciso, nessuno avrebbe osato dargli la caccia. Neanche lui ha mai creduto che tu fossi morto, ma non è riuscito a scoprire chi sei diventato». Kylar si sentiva il petto serrato. «Sa che sono vivo?» «No, ma siederà con i Nove entro l'anno, forse prima. C'è un posto vacante al quale mira. Da una posizione del genere, ti troverà. Non l'ho ancora incontrato, ma i racconti che sento... È un vero pervertito. Crudele. Vendicativo. Mi spaventa, Kylar. Mi spaventa come nessun altro dal tempo di chi sai tu». «É per questo che mi hai invitato qui? Per dirmi che Roth mi sta cercando?», domandò Kylar. «Sì, ma c'è dell'altro», disse Jarl. «Ci sarà una guerra». «Una guerra? Aspetta. Qual è il tuo ruolo, Jarl? Come sai tutto questo?». Jarl fece una pausa. «Hai trascorso gli ultimi dieci anni sotto la tutela di Mastro Blint. Io li ho trascorsi sotto quella di Momma K. E proprio come tu hai imparato più che a combattere, io ho imparato più che a... fornicare. I segreti di questa città scorrono nelle sue camere da letto». Si trattava senz'altro di parole uscite dalla bocca di Momma K. «Ma perché mi stai aiutando? Sono cambiate un sacco di cose da quando eravamo ratti delle gang che rubavano il pane». Jarl si strinse nelle spalle e distolse nuovamente lo sguardo. «Tu sei il mio unico amico». «Sicuro, quando eravamo bambini...». «Non ho detto "eri". Sei l'unico amico che abbia mai avuto, Kylar». Cercando di ricacciare indietro il proprio senso di colpa - quanto tempo era passato dall'ultima volta che aveva pensato a Jarl? -, Kylar disse: «E tutti quelli che sono qui? La gente con cui lavori?» «Colleghi, dipendenti e clienti. Ho perfino qualcosa di simile a un


amante. Ma niente amici». «Hai un'amante e non è tua amica?» «"Lei" si chiama Stephan. È un mercante di stoffe di cinquantatré anni, con moglie e otto figli. Mi offre protezione e bei vestiti e io gli offro sesso». «Oh». D'un tratto, le parole della prostituta a proposito di altri orti avevano acquistato un senso. «Sei felice qui, Jarl?» «Felice? Che diavolo di domanda è? La felicità non ha nulla a che fare con questo». «Mi dispiace». Jarl rise amaramente. «Quando hai ritrovato l'innocenza, Kylar? Hai detto che Azoth era morto». «Di cosa stai parlando?» «Hai intenzione sodomita?»

di

andartene

ora

che

sai

che

sono

un

«No», disse Kylar. «Sei mio amico». «Anche tu lo sei per me. Ma, se non ti avessi visto quasi uccidere Gerk poco fa, mi chiederei se sei davvero un sicario. Come fai a uccidere le persone e a mantenere la tua anima intatta, Kylar?». Pronunciò il nome distorcendolo lievemente. «Come fai a mantenere la tua anima intatta e prostituirti?» «Non lo faccio». «Io neanche», disse Kylar. Jarl si fece silenzioso. successe quel giorno?».

Studiò Kylar attentamente.

«Cosa

Kylar sapeva cosa intendeva Jarl. Un brivido lo percorse. «Durzo mi disse che se volevo essere suo apprendista, dovevo uccidere Ratto. Dopo quello che aveva fatto a Bambola... lo feci». «Tutto qui?». Kylar rifletté sull'opportunità di mentire ma, se c'era qualcuno che meritava la verità, quello era Jarl. Aveva sofferto più di chiunque altro a causa di Ratto. Dopo aver taciuto la verità su Bambola, non poté farlo di nuovo. Kylar gli raccontò tutta la storia, come non l'aveva mai detta a nessuno, tranne che a Mastro Blint.


La descrizione della scena raccapricciante e di come era stato patetico Ratto non commosse Jarl. La sua faccia rimase impassibile. «Se lo meritava. Si meritava quello e altro», disse. «Vorrei solo aver avuto il coraggio di farlo io. Vorrei aver potuto assistere». Troncò il discorso con un effeminato gesto della mano. «Ho un cliente in arrivo, perciò ascolta», disse. «Khalidor è in procinto di invadere. Diverse parti del Sa'kagé sono state mobilitate, ma si tratta soprattutto di cortine di fumo. Probabilmente solo i Nove sanno cosa sta accadendo veramente, forse solo lo Shinga. Non so neanche dirti quali parti prenderemo. Il fatto è che non possiamo permetterci che Cenaria perda questa guerra. Non so se i Nove se ne rendono conto. Gli Ursuul hanno avanzato pretese su Cenaria per generazioni ma, diversi mesi fa, il Re Divino Ursuul ha preteso l'omaggio di una speciale gemma e libero accesso, affermando di essere più interessato a fare guerra a Modai che qui. Re Gunder gli ha detto dove poteva andarsene - e non parlava delle sue strade. Una fonte attendibile mi ha detto che il Re Divino ha giurato di farci diventare un esempio. Ha più di cinquanta stregoni, forse molti di più. Non credo che re Gunder possa schierare dieci maghi per il contrattacco». «Ma il Sa'kagé sopravviverà», disse Kylar. Non che gli interessasse un fico secco di loro. Pensava ai Drake e a Logan. I Khalidorani li avrebbero uccisi. «Il Sa'kegé sopravviverà, Kylar, ma, se tutti gli affari andranno in malora, non ci saranno più soldi da estorcere. Se tutti i mercanti andranno in rovina, non potranno giocare d'azzardo né andare nei bordelli. Da alcune guerre potevamo trarre profitto. Questa ci rovinerà». «Ma perché lo dici a me?» «Durzo è in mezzo a tutto questo». «Certo che lo è», disse Kylar. «Probabilmente metà dei nobili nella catena di comando dell'esercito sta cercando di far fuori i propri superiori, in modo da prendere il loro posto. Ma Mastro Blint non accetterebbe un lavoro che metterebbe seriamente in pericolo la città. Non se le cose sono così brutte come dici». Jarl scosse la testa. «Penso che stia lavorando per il re». «Mastro Blint non lavorerebbe mai per il re», ribatté Kylar.


«Lo farebbe se loro avessero sua figlia». «Sua cosa?».


Capitolo 32 Il lord generale Agon era fermo in mezzo alla ghiaia bianca e levigata del giardino delle statue, e si sforzava di non sembrare a disagio. Un posto dannatamente adatto per incontrare un assassino. Normalmente, avrebbe pensato che fosse un bel posto per incontrare un assassino. Nonostante Blint gli avesse ordinato di non portare soldati, se fosse stato dell'idea di farlo, ci sarebbero stati diversi posti per nasconderli. Certo, il fatto che l'incontro si svolgesse nell'area del castello avrebbe dovuto far sentire Agon più sicuro. Avrebbe dovuto, se non fosse stato Blint a suggerirlo. Il vento notturno spinse una nuvola sulla luna e Agon si sforzò di percepire anche il più lieve scricchiolio della ghiaia, segno dell'arrivo di Blint. Non aveva dubbi che l'uomo potesse riuscire a entrare nel castello. La sua memoria era affilata come i pugnali che avevano trovato una volta sotto i cuscini reali. Tuttavia, aveva ricevuto degli ordini. Guardò le statue che lo circondavano. Erano tutti eroi e si chiese cosa ci facesse in loro compagnia. Di solito, quel giardino era un rifugio. Camminava sulle pietre bianche e nere e guardava quegli eroi di marmo, chiedendosi come si sarebbero comportati nei suoi panni. Quella notte, le loro ombre si allungavano minacciose. Naturalmente era solo la sua immaginazione, ma ricordava ancora che Durzo Blint era stato nella sua camera da letto dieci anni prima, pronto a uccidere. Non si era al sicuro con un uomo così. Avvertì un lievissimo scricchiolio nella ghiaia ai piedi di una statua. Agon si girò e, senza pensarci, strinse la spada. «Non vi disturbate», disse Durzo Blint. Agon ruotò rapidamente su se stesso. Durzo non era che a mezzo metro. Il lord generale indietreggiò. «Quello rumoroso era uno dei vostri. Non io». Durzo gli rivolse un sorriso lupesco. «Ma, aspettate, non vi avevo detto di non portare uomini?» «Non l'ho fatto», disse Agon. «Mm-hmm».


«Siete in ritardo», disse Agon. Aveva ritrovato l'equilibrio, ora. Era inquietante avere a che fare con un uomo che non dava valore alla vita, e ora era convinto che Blint non lo facesse affatto. C'era una logica dietro a tutto ciò. L'unico modo che aveva trovato per trattare con Blint era rendersi conto che poteva venire ucciso e che ciò non era importante; la sua vita o la sua morte non erano il motivo per cui aveva convocato Blint; la sua vita o la sua morte non erano essenziali a ciò di cui avrebbero parlato. Eppure, una parte di lui si chiese come facessero i sicari a vivere così. «Stavo solo accertandomi della posizione di tutti i vostri soldati», spiegò Blint. Agon vide, preoccupato, che indossava una tenuta per uccidere. Una tunica di cotone grigio scuro screziato, sottile ma adatta ad assecondare ogni movimento, calzoni dello stesso materiale, una cintura con una ventina di armi da lancio, alcune delle quali il generale neanche riconobbe. Quello che riconobbe fu che la punta di alcune armi aveva qualcosa in più dell'acciaio. Veleno. Sta bluffando? Agon non aveva portato soldati. Anche se la sua vita non era essenziale per quella discussione, non aveva intenzione di gettarla via. «Mantengo la mia parola, perfino con un delinquente del Sa'kagé», disse. «La cosa buffa è che vi credo, lord generale. Siete molte cose, ma non credo che siate disonesto o tanto stupido da tradirmi. Siete sicuro di non volere che uccida il re? Voi avete l'esercito. Se siete sveglio e fortunato, potreste essere voi stesso il re». «No», disse Agon. «Tengo fede ai miei voti». Se solo quelle parole non bruciassero mentre le pronuncio. «Vi farei uno sconto», rise Blint. «Siete pronto a sentire di che lavoro si tratta?», domandò Agon. «Sembra che abbiamo già avuto questa conversazione», disse Blint. «La mia domanda è sempre la stessa. Mi sono fatto vedere solo perché mi mancava la vostra faccia sorridente, lord generale. E per dimostrare che le vostre - siamo onesti - piuttosto patetiche difese ancora non riescono a tenermi fuori, nel caso sceglieste di rendermi la vita difficile». «Non avete neanche sentito di che lavoro si tratta. Adesso il re rispetta le vostre capacità. Pagherà meglio di chiunque altro vi abbia pagato. Desidera che voi...».


«Che io protegga la sua vita. Lo so. Hu Gibbet ha accettato un contratto per eliminarlo». Durzo ignorò l'espressione sorpresa sulla faccia di Agon. «Spiacente. Non accetto il lavoro. Non accetterei mai un lavoro per quello sciocco pallone gonfiato. Siamo onesti. Aleine Gunder, che ridicolmente si definisce "Nono", come se avesse qualche legame con i precedenti re che si chiamavano Aleine, è una nullità». Qualcuno saltò fuori da sotto l'alta statua del duca Gunder alle spalle di Agon. Il generale sentì il proprio cuore sprofondare quando riconobbe l'andatura dell'uomo. Aleine Gunder IX si gettò indietro il cappuccio. «Guardie! Guardie!». Arcieri e balestrieri balzarono da ogni balcone, cespuglio e ombra. Altri arrivarono correndo lungo il perimetro del giardino. «Mio signore. Che sorpresa», disse Blint, facendo un perfetto inchino di corte. «Chi se lo sarebbe aspettato di trovarvi nascosto all'ombra di vostro padre?» «Tu merdoso... Merdoso!... Merda!», urlò il re. «Cosa state facendo?», strillò alle guardie. «Circondatelo!». Le guardie accerchiarono Durzo, Agon e il re in uno spazio ristretto. Sembravano nervose per il fatto che il sovrano fosse così vicino a un sicario, ma nessuna di loro osò suscitare l'ira del re separandoli. «Vostra Maestà», disse Agon, mettendosi davanti al re prima che questi cercasse di colpire Durzo Blint. Cercare di colpire Durzo Blint! «Tu lavorerai per me, assassino», disse il re. «No. L'ho già detto prima, ma forse avete bisogno di sentirlo voi stesso. Sono disposto a uccidervi, ma non ucciderò per voi». Le guardie non furono contente di sentire quelle parole, naturalmente, ma Agon alzò una mano. Con le guardie così vicine, gli arcieri erano inutili. Grandioso, Vostra Maestà. Se si fosse arrivati alle armi, sia lui che il re sarebbero morti, ed era pronto a scommettere che Blint non avrebbe avuto la stessa sorte. «Bene, allora», disse il re. «Bene, allora». Blint sorrise senza gioia. Il re ricambiò il sorriso. «Uccideremo tua figlia». «Mia cosa?».


Il sorriso del re si allargò. «Pensaci». Si mise a ridere. Un pericoloso secondo si dilatò, e Agon si chiese se fosse sul punto di reggere tra le braccia un re morto. Poi, ci fu un movimento indistinto. Nonostante lo avesse proprio davanti a sé, Durzo Blint si mosse così rapidamente che i suoi occhi non riuscirono a seguirlo. Superò con un salto il cerchio di soldati, colpì una statua e cambiò traiettoria. Un istante dopo, sentì un rumore provenire dalle mura del castello, simile a quello che fanno gli artigli di un gatto che si arrampica su un albero. Sbigottito, uno dei soldati lasciò partire un colpo dalla sua balestra - misericordiosamente, era puntata verso l'alto. Agon gli scoccò un'occhiataccia. L'uomo deglutì. «Mi dispiace». Il re tornò dentro, e fu solo due minuti dopo che Agon si rese conto di come Durzo lo avesse portato pericolosamente vicino a commettere tradimento davanti al re. Kylar sentì l'aria muoversi quando qualcuno aprì l'ingresso principale del rifugio. Alzò lo sguardo dal libro che aveva davanti, e allungò la mano sul pugnale sguainato sul tavolo. Dalla sua sedia, naturalmente, aveva una perfetta visuale della porta. Mastro Blint non avrebbe sistemato il suo laboratorio altrimenti. Ma avrebbe dovuto riconoscere Mastro Blint solo dal suono: click-CLICK-click. Click-CLICK-click. Click-CLICK-click. Mastro Blint chiudeva, apriva e richiudeva ogni serratura. Era semplicemente un'altra delle sue superstizioni. Non chiese al maestro del suo lavoro. A Blint non piaceva mai parlarne subito dopo. Agli Angeli della Notte non piaceva, diceva. Kylar lo interpretava come lascia che i miei ricordi svaniscano. La fiala di veleno di aspide bianco era sul tavolo insieme al resto della collezione ma, per distrarre se stesso quanto Blint, Kylar disse: «Non credo che funzionerà. Ho cercato sui vostri libri. Non c'è niente a riguardo». «Scriveranno un nuovo libro», disse Blint. Iniziò a mettere le lame avvelenate in speciali custodie e a ripulire quelle il cui veleno con il tempo si era decomposto.


«Conosco animali in grado di mangiare del veleno senza stare male. E so che le loro carni faranno stare male chi le mangerà. I nostri esperimenti lo hanno dimostrato. Ma, così, il nostro morto sta semplicemente male. Questo va bene fino a un certo punto, ma questa storia del doppio veleno - non la capisco». Blint appese la cintura con le armi. «Il morto mangia il maiale e non sente niente. Forse un po' di ebbrezza. Mangia la quaglia e gli vengono le vertigini. Mangia entrambi e muore. Si chiama potenziamento. I veleni agiscono insieme per raggiungere il loro massimo potenziale». «Ma occorre che un intero maiale e uno stormo di quaglie riescano a passare la prova dell'assaggiatore». «I grandi posti usano più assaggiatori. Quando arrivano a sospettare qualcosa, il nostro uomo sarà già morto», disse Blint. «Ma così si controllare...».

avvelenano

tutti

i

presenti.

Non

si

può

«Io controllo tutto!», gridò Blint. Gettò a terra un coltello e uscì, sbattendo la porta così forte che tutte le armi sulla parete tintinnarono. Elene guardò la pagina bianca e intinse la penna nel calamaio. Sedute allo stesso tavolo nella sala da pranzo dei Drake, Mags e Ilena Drake giocavano a un gioco di mattoncini. Mags, la maggiore tra le due, era concentrata, ma Ilena continuava a guardare Elene. «Perché», fece Elene, «mi prendo sempre cotte per uomini irraggiungibili?». Elene Cromwyll era amica di Mags e Ilena da anni. Il divario tra una domestica e le figlie di un conte avrebbe dovuto precludere l'amicizia, ma i Drake consideravano tutti uguali davanti all'Unico Dio. Crescendo, le ragazze erano divenute più consapevoli di quanto strana fosse la loro amicizia, che, pertanto, era diventata più riservata, ma non per questo meno genuina. «Quel custode, Jaen, era irraggiungibile», disse Ilena, muovendo un mattonano. Mags guardò accigliata la mossa e poi la sorella quindicenne. «Quello è durato solo due ore», disse Elene. «Fino a quando non ha aperto la sua grassa bocca». «Devi esserti presa una cotta per Poi a un certo punto», disse Mags.


«Non proprio. Mi amava così tanto che pensavo di doverlo amare anch'io», spiegò Elene. «Almeno Poi era reale», osservò Ilena. «Ilena, non essere antipatica», la rimproverò Mags. «Sei arrabbiata solo perché stai di nuovo perdendo». «Non è vero!», ribatté Mags. «Vincerò in tre mosse». «Sì?». Mags guardò i mattoncini. «Piccola, mocciosetta. Io, almeno, sono contenta che tu abbia rifiutato Poi, Elene», disse. «Ma questo ti lascia senza un accompagnatore per la festa». Elene abbandonò la penna e seppellì il viso tra le mani. Sospirò. «Avete idea di quello che gli ho scritto l'anno scorso?». Guardò il foglio bianco davanti a sé. «Non sapevo che Poi sapesse leggere», disse Ilena. «Non a Poi. Al mio benefattore». «Qualunque cosa tu abbia scritto, non ha smesso di mandare soldi, vero?», domandò Ilena, ignorando lo sguardo assassino della sorella. Ilena Drake aveva solo quindici anni ma, la maggior parte delle volte, sembrava avere il controllo su Mags, se non addirittura sulla sorella maggiore Serah. «Non ha mai smesso. Neanche quando gli ho detto che di soldi ne avevamo più che a sufficienza. Ma non riguarda il denaro, Lena», disse Elene. «L'anno scorso gli ho detto che ero innamorata di lui». Non poteva quasi tollerare di confessare di aver pasticciato l'inchiostro con le sue lacrime. «Gli ho chiesto il permesso di chiamarlo Kylar perché Kylar è carino e non ho mai scoperto il nome del mio benefattore». «E adesso ti piace Kylar... al quale non hai neanche mai parlato». «Sono assolutamente disperata. Perché lascio che mi parliate di ragazzi?», chiese Elene. «Ilena non può fare a meno di parlare di Kylar», disse Mags con l'aria di una sorella maggiore che vuol far pesare la propria autorità. «Perché anche lei ha una cotta per lui». «Non è vero!», strillò Ilena. «Allora perché avresti scritto così sul tuo diario?», disse Mags. Mags cominciò a farle il verso. «"Perché Kylar non mi parla di più?". "Kylar mi ha parlato a colazione. Ha detto che sono dolce. È una


cosa buona o mi vede ancora come una bambina?". È disgustoso, Ilena. È praticamente nostro fratello». «Sei una strega!», strillò Ilena. Balzò sul tavolo e si scagliò su Mags. Mags urlò ed Elene rimase a guardare, in bilico tra l'orrore e le risate. Le ragazze gridavano, Ilena tirava i capelli a Mags e Mags le restituiva il favore. Elene si alzò, credendo di doverle fermare prima che una di loro si facesse male. La porta si spalancò con forza, sul punto di scardinarsi, e apparve Kylar con la spada in mano. L'intera atmosfera della stanza cambiò in un batter d'occhio. Kylar emanava una palpabile aura di potere e pericolo. La sua primordiale virilità si abbatté su Elene come un'onda che minacciava di travolgerla e farla finire in mare. Riusciva a malapena a respirare. Kylar irruppe nella stanza tenendo la spada sguainata con entrambe le mani. I suoi occhi registrarono tutto all'istante, guizzando su ogni uscita, finestra, ombra e perfino ogni angolo del soffitto. Le ragazze a terra si fermarono, una manciata dei capelli di Mags era ancora in mano a Ilena, e l'aria colpevole stampata sul volto di entrambe. Gli occhi azzurri di Kylar sembravano così familiari. Fu solo l'immaginazione di Elene a vedervi un guizzo di riconoscimento? Quegli occhi la toccarono, suscitandole un formicolio su per la schiena. Lui la stava guardando - lei, non le sue cicatrici. Gli uomini guardavano sempre le sue cicatrici. Kylar stava guardando Elene. La ragazza provò il desiderio di parlare ma non trovò le parole. Anche la bocca di Kylar si schiuse, come se fosse sul punto di dire qualcosa, ma poi divenne bianco come un lenzuolo. In un lampo, rinfoderò la spada e si girò. «Signore, con il vostro permesso», disse, piegando la testa. Poi, andò via. «Buon Dio», disse Mags. «L'hai visto?» «È stato spaventoso», disse Ilena. «È...». «Inebriante», disse Elene. Si sentiva la faccia in fiamme. Si allontanò dalle ragazze e, tornata a sedersi, prese la piuma d'oca. Come se in quel momento fosse in grado di scrivere. «Elene, cosa succede?», le chiese Mags. «Quando ha visto la mia faccia, sembrava terrorizzato», disse Elene. Perché? A stento le aveva guardato le cicatrici. Quello era ciò


che spaventava la maggior parte dei ragazzi. «Tornerà. Tu sei un angelo. Dagli una possibilità. Gli chiederemo di portarti alla festa e tutto il resto», disse Ilena. «No, no, ve lo proibisco. È un baronetto, Lena». «Un povero baronetto le cui terre sono state confiscate dai Lae'knaught». «È semplicemente un altro uomo irraggiungibile. Mi passerà». «Non deve essere irraggiungibile. Se ha fede... Agli occhi di Dio tutti gli uomini sono uguali». «Oh, Lena, non darmi false speranze. Sono una domestica. Una domestica sfregiata. Non importa quello che Dio vede». «Non importa quello che Dio vede?», chiese gentilmente Mags. «Sai cosa voglio dire». «Logan potrebbe sposare Serah e quella è una differenza grande quanto quella che c'è tra un povero baronetto e te». «Un nobile che sposa una nobile di rango inferiore è una cosa malvista, ma un nobile che sposa una qualunque?» «Non stiamo dicendo che dovresti sposarlo. Lascia solo che gli chiediamo della festa». «No», insisté Elene. «Lo proibisco». «Elene...». «Ho deciso». Elene guardò le ragazze fino a che ognuna diede malvolentieri il proprio assenso. «Ma potreste raccontarmi un po' di più di lui». «Kylar», chiamò il conte Drake mentre il ragazzo cercava di passare inosservato davanti al suo studio per andare di sopra. «Verresti un momento qui?». Non c'era altro da fare se non obbedire, naturalmente. Kylar imprecò tra sé. Quel giorno stava diventando molto lungo. Aveva sperato di farsi qualche ora di sonno prima degli incarichi mattutini di Mastro Blint. Aveva idea di cosa si trattasse, perciò, quando entrò nello studio del conte, dovette sforzarsi di non sentirsi come un ragazzo a cui suo padre sta per fare una lezione sul sesso. Il conte non era stato toccato dagli anni. Avrebbe avuto l'aspetto


di un quarantenne anche se fosse vissuto fino a cento anni. La sua scrivania era nello stesso posto, i suoi vestiti avevano lo stesso taglio e colore e, quando si preparava a una conversazione spinosa, si strofinava ancora il punto del naso sui cui poggiava il suo pince-nez. «Hai fatto l'amore con mia figlia?», domandò il conte. Kylar rimase a bocca aperta. Il un'espressione neutra.

conte lo guardava con

«Non l'ho toccata neanche con un dito, signore». «Non volevo sapere delle tue dita». Kylar ridacchiò. Quello era l'uomo che parlava di Dio tanto spesso quanto i contadini parlavano del tempo? «No, non preoccuparti, figliolo. Ti credo. Sebbene abbia il sospetto che non siano mancati tentativi da parte di Serah». Il sangue che imporporò la faccia di Kylar fu una risposta sufficiente. «È innamorata di te, Kylar?». Lui scosse la testa, quasi sollevato che gli venisse posta una domanda alla quale poteva rispondere. «Penso che Serah voglia quello che crede di non poter avere, signore». «Questo include amoreggiare con diversi giovanotti, nessuno dei quali è Logan?». Kylar si mise a farfugliare. «Non credo davvero che per me sia giusto o onorevole...». Il conte alzò una mano, afflitto. «Questa non è la risposta che avresti dato se avessi pensato che l'accusa fosse ingiusta. Avresti negato con fermezza, e poi avresti detto che non pensavi fosse giusto o onorevole da parte mia chiedertelo». Si strofinò il naso e batté le palpebre. «Mi dispiace, Kylar. Non è stato corretto da parte mia. A volte uso ancora poco onorevolmente l'arguzia che Dio mi ha dato. Sto cercando di fare quello che è giusto, che coincida o meno con quello che gli uomini definiscono onorevole. C'è differenza tra le due cose, sai?». Kylar si strinse nelle spalle, ma non era necessaria alcuna risposta. «Non mi interessa condannare la mia bambina, Kylar», disse il


conte. «Nella mia vita ho fatto cose molto peggiori di quanto lei potrebbe perfino immaginare. Ma è in gioco ben più della sua felicità. Logan è a conoscenza dei suoi comportamenti... indiscreti?» «Le ho chiesto di dirglielo, ma non credo che lo abbia fatto, signore». «Sai che Logan mi ha chiesto la mano di Serah?» «Sì, signore». «Dovrei dargli la mia benedizione?» «Non potreste sperare di avere un figlio migliore». «Per la mia famiglia, sarebbe meraviglioso. È giusto per Logan?». Kylar esitò. «Credo che la ami», disse alla fine. «Vuole una risposta entro due giorni», disse il conte. «Quando avrà ventuno anni, prenderà possesso della tenuta dei Gyre e diventerà uno degli uomini più ricchi e potenti del regno, nonostante le interferenze del re nel suo casato durante l'ultimo decennio. Sesto in linea di successione. Primo dopo i reali. La gente dirà che si sposa con un'inferiore. Diranno che lei non è degna di lui». Il conte distolse lo sguardo. «Di solito non mi interessa un accidente di quello che dice la gente, Kylar, perché apre bocca per i motivi sbagliati. Stavolta, temo che abbia ragione». Kylar non riuscì a dire nulla. «Ho pregato per anni affinché le mie figlie trovassero gli uomini giusti da sposare. E ho pregato che Logan sposasse la donna giusta. Perché questa non sembra la risposta?». Scosse nuovamente la testa e si strizzò la radice del naso. «Perdonami, ti ho fatto una dozzina di domande a cui non puoi rispondere, e non ti ho fatto quella più semplice». «Di cosa si tratta, signore?» «Ami Serah?» «No, signore». «E quella ragazza? Quella a cui mandi denaro da almeno dieci anni?». Kylar arrossì. «Ho giurato di non amare, signore». «Ma?».


Kylar fece per andarsene. Mentre usciva nel corridoio, il conte disse: «Lo sai, prego anche per te, Kylar».


Capitolo 33 Il bordello aveva chiuso ore prima. Al piano di sopra, le ragazze dormivano su disgustose lenzuola in mezzo al tanfo di alcool, sudore irrancidito, sesso, legno affumicato e profumo scadente. Le porte erano chiuse a chiave. Solo due delle semplici lampade di rame del piano di sotto erano ancora accese. Momma K non permetteva ai suoi bordelli di sprecare denaro. C'erano solo due persone al piano di sotto, entrambe al bar. Attorno alla sedia dell'uomo c'erano i resti di una dozzina di bicchieri rotti. Finì la tredicesima birra, alzò in aria il bicchiere e lo gettò a terra. Andò in frantumi. Momma K versò a Durzo un'altra birra dalla spina, senza batter ciglio. Non disse una parola. Durzo avrebbe parlato quando sarebbe stato pronto. Eppure, la donna si chiedeva perché avesse scelto quel bordello. Era un buco. Mandava le ragazze più belle altrove. Era valsa la pena di sistemare altri bordelli che aveva comprato, ma quello si trovava nel bel mezzo dei Cunicoli, lontano dalle strade principali, in un intrico di capanne e tuguri. Lì era dove aveva perso la sua verginità. Era stata pagata dieci monete d'argento e si era considerata fortunata. Non era in cima alla sua lista dei posti da visitare. «Dovrei ucciderti», disse alla fine Durzo. Erano le prime parole che aveva detto in sei ore. Finì la sua birra e spinse il bicchiere sul bancone. Scivolò per qualche metro, rotolò a terra e si ruppe. «Oh, quindi hai la facoltà di parola?», disse Momma K. Afferrò un altro bicchiere e spillò la birra. «Ho anche una figlia?». Momma K rimase di sasso. Chiuse la spina troppo tardi e la birra si versò dappertutto. «Vonda mi ha fatto giurare di non dirtelo. Era troppo spaventata per dirtelo e quando è morta... Puoi odiare Vonda per quello che ha fatto, Durzo, ma ha agito così perché ti amava». Durzo le lanciò un'occhiata di tale incredulità e disgusto che a Gwinvere venne voglia di colpirgli quel brutto muso. «Cosa ne sai dell'amore, puttana?».


Momma K aveva pensato che nessuno potesse ferirla con le parole. Si era sentita chiamare con ogni appellativo riferito alle prostitute e ne aveva perfino aggiunti di propri. Ma, qualcosa nel modo in cui Durzo l'aveva detto, qualcosa in quella parola -detta da lui! - la colpì nell'animo. Non riuscì a muoversi. Non riusciva neanche a respirare. Alla fine, disse: «So che se avessi avuto l'occasione di amare come l'hai avuta tu, avrei smesso di prostituirmi. Avrei fatto qualsiasi cosa per non lasciarmela scappare. Io sono nata in questa latrina di vita, tu invece l'hai scelta». «Qual è il nome di mia figlia ? » «Ah, allora è così? Mi hai portata qui per ricordarmi quante volte sono stata scopata in questo lurido buco? Me lo ricordo. Me lo ricordo! Mi prostituivo perché così la mia sorellina non avrebbe dovuto farlo. E poi sei arrivato tu. Mi scopavi cinque volte a settimana e dicevi a Vonda che la amavi. L'hai messa incinta. L'hai lasciata. Avrei potuto dirle che se l'era meritato. Quella parte della storia è talmente prevedibile che non vale neanche la pena ripeterla, non è vero? Ma tu non eri uno qualunque. No, tu l'hai anche fatta rapire. E poi? Sei andato a cercarla? No, hai dimostrato esattamente quanto la amavi. Li hai costretti a scoprire le loro carte, vero? Sei sempre stato disposto a rischiare con la vita degli altri, non è vero, Durzo? Codardo». Il bicchiere di Durzo esplose contro il barilotto dietro di lei. Il sicario tremava violentemente. Le puntò un dito contro il viso. «Tu! Tu non hai nessun diritto. Tu avresti rinunciato a tutto per amore? Stronzate. Dov'è l'uomo della tua vita adesso, Gwin? Non ti prostituisci più, perciò non c'è niente di cui un uomo dovrebbe essere geloso, giusto? Eppure non c'è nessun uomo, no? Vuoi sapere perché sei la puttana perfetta? Per la stessa ragione per cui non c'è nessun uomo. Perché non hai la capacità di amare. Sai solo scopare. Succhi tutti fino all'osso e li fai pagare per il piacere. Perciò non rifilarmi questa stronzata del cuore sanguinante, del ohl’ho-fatto-per-salvare-mia-sorella. Si è sempre trattato di potere per te. Oh, sicuro, ci sono donne che si prostituiscono per i soldi, per la fama o perché non hanno altra scelta. Potrai pure non scopare più, Gwin, ma rimarrai sempre una puttana. Adesso. Come. Si. Chiama?». Morse ogni parola come se fosse pane stantio. «Uly», disse piano Gwinvere. «Ulyssandra. Vive con una balia nel castello».


Guardò la birra che teneva in mano. Non si ricordava neanche di aver riempito il bicchiere. Era a questo che l'aveva ridotta Durzo? Una sottomessa, piccola... Neanche lo sapeva. Si sentiva come se l'avessero sventrata, come se, abbassando lo sguardo, avesse potuto vedere i propri intestini raggomitolati ai suoi piedi. Le occorse tutta la sua forza per sputare nella birra e metterla sul bancone perfino con nonchalance. «Be', è dura essere vittima delle circostanze», disse Durzo. La sua voce aveva un che di tagliente. «Tu non sei... tu non uccideresti la tua bambina». Neanche Durzo poteva farlo, o no? «Non dovrò farlo», disse Durzo. «La uccideranno loro per me». Prese la birra, sorrise a Gwinvere per lo sputo e bevve. Fini metà birra in un sorso e disse: «Me ne vado. Qui dentro c’è puzza di puttana vecchia». Versò il resto della birra sul pavimento e rimise con cautela il bicchiere sul bancone. Kylar si svegliò due ore prima dell'alba e per un attimo si chiese se la morte sarebbe stata un prezzo troppo alto da pagare per un'intera notte di sonno. La risposta esatta, tuttavia, era inevitabile, perciò, dopo qualche minuto, si trascinò fuori dal letto. Si vestì silenziosamente al buio, aprendo il terzo cassetto in cui erano ripiegati gli abiti da sicario e usando il vasetto del nerofumo per scurirsi la faccia. Negli ultimi nove anni, aveva imparato a compensare il fatto di non possedere il Talento. Quando Blint era ottimista, cosa sempre più rara, lodava Kylar per questo. Diceva che troppi sicari si affidavano per tutto al proprio Talento, e invece lui manteneva affilate le proprie capacità terrene in vista di situazioni impreviste. Nel loro lavoro, le situazioni impreviste erano la norma. Inoltre, diceva Blint, se il rumore di un passo è quasi inesistente, non occorre usare il Talento per attutirlo. A volte, l'adattabilità di Kylar si mostrava in modi più spettacolari, ma soprattutto lo faceva in queste piccole cose, come mettere la sua tenuta nello stesso armadio, nello stesso modo ogni volta che la lavava. Per lo meno, sperava si trattasse della sua adattabilità e non di essere stato contagiato dalla mania di Blint per l'organizzazione. Seriamente, cos'altro poteva essere il fatto che


Blint chiudesse e aprisse tre volte le serrature, facesse ruotare i coltelli sulle dita, masticasse aglio e dicesse sempre l'Angelo della Notte qui e l'Angelo della Notte là? La finestra si aprì silenziosamente e Kylar avanzò strisciando sul tetto. Anni di pratica gli avevano insegnato dove poteva camminare e dove doveva strisciare per non farsi sentire da chi era sotto. Scivolò oltre il bordo della casa, cadde sul lastricato del cortile e saltò, aggrappandosi al muro di cinta. Si issò per guardare oltre la recinzione, non vide nessuno e scavalcò il muro, procedendo, poi, furtivamente per la strada. Probabilmente, gli sarebbe bastato camminare; non era necessario muoversi di soppiatto una volta fuori dalla casa dei Drake e fino all'erboristeria, ma era meglio non dare niente per scontato. Un lavoro è un lavoro, non è finito fino a quando non è finito. Un'altra delle perle di Blint, ecco. Grazie. Quella notte, non era solo l'inveterata disciplina di Blint a imporgli di spostarsi di ombra in ombra, facendogli impiegare un'ora per il tragitto di poco più di tre chilometri fino all'erboristeria. Quella notte, le parole di Jarl continuavano ad attraversargli la mente. «Hai dei nemici. Hai dei nemici». Forse era tempo che andasse via dalla casa dei Drake. Per la loro sicurezza. Aveva venti anni e, nonostante non avesse certo la rendita di un nobile, Blint era più che generoso con le sue paghe. Anzi, a Blint il denaro non interessava affatto. Non spendeva molto per sé, a parte le rare bisbocce a base di alcool e prostitute. Comprava le migliori attrezzature e ingredienti per i suoi veleni, ma quello che acquistava lo teneva per sempre. Con quello che guadagnava con ogni assassinio e la frequenza con cui accettava gli incarichi, Blint doveva essere ricco. Probabilmente, oscenamente ricco. Non che a Kylar importasse. Aveva adottato molto dell'atteggiamento di Blint. Dava al conte Drake una porzione della sua paga per Elene e gli rimaneva ancora parecchio denaro. Ne teneva un po' in monete e gioielli, dividendo il resto in investimenti che Momma K e Logan facevano per lui. Non aveva alcuna importanza per Kylar, perché il denaro non poteva comprare tutto. La sua copertura da povero nobile di campagna e il suo vero lavoro da sicario facevano in modo che non avesse uno stile di vita tale da attirare l'attenzione. Perciò, anche se avesse voluto spendere il proprio denaro, non se lo sarebbe potuto permettere. Poteva andarsene, però. Affittare una casetta più a sud nella


zona est, ai confini di uno dei quartieri meno alla moda. Blint gli aveva detto che comprando la casa più economica del quartiere, per quanto questo fosse costoso, si diventava invisibili. Anche se il vicinato ti notava, si sarebbe sforzato di non farlo. Kylar arrivò al negozio. Il Sa'kagé aveva da tempo stretto un accordo con gli erboristi della città. Gli erboristi facevano in modo di tenere a disposizione certe piante che non erano proprio legali, e il Sa'kagé faceva in modo che le erboristerie non venissero mai derubate. La corona ne era a conoscenza ma non aveva i mezzi per fermarli. L'erboristeria di Goodman Aalyep era frequentata da ricchi mercanti e dalla nobiltà, perciò il suo proprietario aveva rifiutato di tenere apertamente erbe illegali nel suo negozio, temendo che una sfida simile all'autorità potesse non restare ignorata. Era stato in grado di opporsi al Sa'kagé, ma nessuno si opponeva a Mastro Blint. Goodman Aalyep riforniva Durzo delle erbe più rare. In cambio, Mastro Blint faceva in modo che nessun altro del Sa'kagé si avvicinasse troppo al suo negozio. Era compito di Kylar andare a prendere quello che serviva e pagare, cosa che stava facendo quella notte. Il beneficio di fare quelle commissioni non consisteva solo nel fare esperienza di commercio, o nello stabilire legami con persone che avrebbero potuto rifornire lui in futuro, ma anche nella possibilità di crearsi la propria raccolta. Una raccolta elaborata come quella di Mastro Blint necessitava di anni e migliaia, o perfino decine di migliaia, di gunder. La parte negativa era la perdita di sonno. Non si addiceva a un giovane nobile dormire fino a mezzogiorno, a meno che non fosse andato a fare baldoria con gli amici. Perciò, anche se non tornava a casa fin quasi all'alba, Kylar doveva alzarsi insieme al sole. Borbottava tra sé, ricordandosi di quando camminare furtivamente per le strade di Cenaria di notte era stato divertente. La porta sul retro del negozio, come sempre, era chiusa a chiave. Goodman Aalyep aveva delle ottime serrature alle sue porte. Nonostante non lo avesse mai incontrato - comunicavano tramite messaggi -, Kylar sentiva di conoscere Goodman Aalyep e che quell'uomo era ben strano. Con la protezione di Durzo Blint nel Sa'kagé, l'uomo avrebbe potuto lasciare le porte spalancate. Nessuno in città avrebbe osato derubarlo.


Ma, come diceva Blint, i tesori più grandi di un uomo sono le sue illusioni. Nonostante Blint affermasse di odiare il compito di insegnare, sembrava avesse un aforisma per ogni occasione. Kylar scelse lo strumento giusto dal kit che portava alla cintura e, inginocchiatosi davanti alla porta, cominciò a lavorarci. Sospirò. Si trattava di una serratura nuova, e per di più opera di Mastro Proci, il miglior fabbro della città. Le serrature nuove, anche se non erano di alta qualità, tendevano sempre a essere più dure e, se perdere un grimaldello non era la fine del mondo, era lo stesso irritante spezzarne uno. Kylar fece scorrere il grimaldello sui cilindretti. Quattro cilindretti, due dei quali un po' allentati. Questo voleva dire che si trattava del lavoro dell'aiutante di Proci e non del maestro in persona. In dieci secondi, girò lo strumento, piegandolo, e la porta si aprì. Kylar imprecò silenziosamente - avrebbe dovuto procurarsi un nuovo grimaldello - e poi mise via i suoi attrezzi. Un giorno o l'altro, avrebbe dovuto farsi fare un set di strumenti di mithril come quello di Mastro Blint. O almeno un grimaldello. Il mithril si piegava senza spezzarsi, ma era più costoso dei diamanti. Quando Goodman Aalyep affermava che la sua attività era un'erboristeria, non si trattava di una vanteria oziosa. Aveva tre stanze: il grande e accogliente negozio con i vasi di vetro etichettati in esposizione, un piccolo ufficio e la serra in cui si trovava Kylar. La stanzetta era umida e i fertili odori erano quasi travolgenti. Controllati i progressi di alcuni funghi, Kylar ne fu soddisfatto. Diversi funghi letali sarebbero stati pronti nel giro di una settimana. I funghi erano un tipo di pianta che Goodman Aalyep poteva coltivare impunemente nella sua bottega - le varietà mortali erano indistinguibili da quelle commestibili per chiunque, tranne che per gli erboristi esperti e, naturalmente, gli avvelenatori esperti. Procedendo con cautela, in modo da non calpestare le assi che scricchiolavano, Kylar avanzava nella serra, giudicando le piante con occhio allenato. Sollevò il terzo vaso della seconda fila e vide sei bustine, ognuna avvolta in un sacchetto di cartapecora. Le tirò fuori e controllò che si trattasse di quello che aveva ordinato. Quattro bustine per Mastro Blint e due per sé. Kylar infilò le erbe nella sacca che portava legata alla schiena, sotto il mantello, e infilò nello spazio rimasto vuoto il borsellino con i soldi per Aalyep. Rimise a posto la fioriera. Poi, avvertì qualcosa di strano. In un batter d'occhio, Kylar


estrasse due pugnali. Ma non si mosse di un solo passo. La sensazione di qualcosa che non andava persisteva, qualcosa di imminente, di vicino. Non c'era alcun suono. Nessuna aggressione, solo una leggera pressione, come l'impalpabile tocco di un dito. Kylar si concentrò sulla sensazione mentre con gli occhi scrutava il negozio e si sforzava di percepire il minimo rumore. Era come un tocco, ma lo stava oltrepassando, verso... La serratura della porta sul retro si richiuse. Era in trappola.


Capitolo 34 Reprimendo l'impulso di correre verso la porta e spalancarla, Kylar rimase completamente immobile. Nessuno era con lui nella stanza. Di quello era certo. Ma pensava - sì, sentiva qualcuno respirare nel negozio. Poi, si rese conto che si trattava di più di una persona. Una faceva respiri veloci, brevi, agitati. L'altra respirava più lentamente, non era nervosa, né agitata. La cosa spaventò Kylar. Chi poteva tendere un'imboscata a un sicario e non essere neanche un po' nervoso? Temendo di perdere tutta l'iniziativa, Kylar avanzò lentamente verso la parete che separava la serra dal negozio. Se aveva ragione, uno degli uomini doveva trovarsi esattamente dalla parte opposta. Estratto un pugnale - per fare piano, aveva dovuto muoversi così lentamente da rendere l'azione dolorosa -, Kylar tirò poi fuori la spada ceurana che portava in un fodero sulla schiena. Avvicinò la punta della spada alla parete e si mise in attesa di un qualunque rumore. Niente. Ora non riusciva neanche più a sentire l'uomo agitato respirare. Ciò significava che doveva trovarsi dall'altro lato, mentre quello calmo era più avanti. Kylar aspettò. Tremava per l'attesa. Uno dei due uomini era uno stregone. Erano con i Khalidorani contro i quali l'aveva messo in guardia Jarl? Kylar scacciò quel pensiero. Poteva preoccuparsene in seguito. Chiunque fossero, lo avevano intrappolato. Sia che pensassero che si trattasse di Mastro Blint o di un comune ladro non aveva importanza. Ma quale era lo stregone? Quello nervoso? Pensava di no, ma quel tocco che sembrava averlo sfiorato e aver chiuso la porta proveniva da quella parte. Un'asse scricchiolò. «Feir! Indietro!», gridò l'uomo più lontano da Kylar. Kylar abbatté la spada nel legno di pino spesso un dito. Con uno strattone, la liberò dal legno e, superata la porta come una furia, si lanciò verso l'uomo che aveva cercato di colpire. L'uomo, a terra, schivò un fendente diretto alla testa e si rigirò.


Era enorme. Più grosso perfino di Logan, ma dalla corporatura simile a un tronco d'albero, massiccio ovunque, senza punto vita né collo. Nonostante fosse disteso sulla schiena, alzò una spada per parare il colpo di Kylar. Ci sarebbe anche riuscito se la spada di Kylar fosse stata tutta intera. Ma metà della sua arma ceurana era a terra accanto all'uomo, tagliata dalla magia un istante dopo essersi abbattuta contro la parete. Non trovando alcuna spada dove se la aspettava, la parata dell'omone andò a vuoto, mentre Kylar lo attaccava in ginocchio. Senza l'intero peso della sua spada, Kylar abbassò quello che ne rimaneva più velocemente di quanto l'uomo potesse reagire, cercando di colpirlo allo stomaco. A quel punto, Kylar ebbe l'impressione che la sua testa fosse all'interno di una campana. Ci fu una violenta scossa, come se due pietre angolari fossero cadute per due piani e atterrate a un centimetro dalla testa del ragazzo. La forza d'urto lo scagliò lateralmente contro uno scaffale di vasi di erbe che, dopo un secondo, gli caddero addosso. Poi, non ci fu più nulla se non una luce che lampeggiava davanti agli occhi di Kylar. La sua spada non c'era più. Strizzò le palpebre, riacquistando lentamente la vista. Era a faccia in giù sul pavimento, con una mensola spezzata, steso tra i resti di vasi in frantumi ed erbe sparse ovunque. Sentì un grugnito provenire dall'uomo gigante e poi dei passi. Kylar rimase fermo, non dovendo sforzarsi molto per fingersi fuori combattimento. A pochi centimetri dal suo naso, riuscì a distinguere lentamente alcune erbe. Semi di pronwi, boccioli di ubdal, radice di achillea. Quello scaffale doveva essere - sì, ecco, vicino alla sua mano, delicati semi di tuntun, tritati in polvere finissima. Fiutarla, causava emorragie polmonari. I passi divennero più vicini e Kylar si mosse all'improvviso, girandosi su un fianco e lanciando in aria la polvere di tuntun. Si rialzò ed estrasse un paio di lunghi coltelli. «Basta, Ombra che Cammina». L'aria si condensò attorno a Kylar come una gelatina. Cercò di allontanarsi, ma la gelatina divenne dura come roccia. I due uomini studiarono Kylar attraverso la nuvola di semi di


tuntun sospesi e immobili nell'aria. La montagna bionda incrociò le enormi braccia sul petto. «Non dirmi che te lo aspettavi, Dorian», ringhiò all'altro uomo. Il suo amico sogghignò. «Non sembra un granché, vero?», domandò Montagna. L'uomo più piccolo, Dorian, aveva una corta barba nera e un paio di intensi occhi azzurri, un naso affilato e denti bianchi e dritti. Allungò la mano e prese un po' della polvere di tuntun tra due dita. Capelli neri leggermente unti, occhi azzurri, pelle chiara. Decisamente un Khalidorano. Era lui lo stregone. «Non essere un cattivo perdente, Feir. Le cose si sarebbero messe male per te se io non gli avessi rotto la spada». Feir lo guardò accigliato. «Me la sarei cavata». «In realtà, se non fossi intervenuto, in questo momento lui si starebbe domandando come spostare un cadavere così grosso. E questo senza Talento». Ricevette in risposta un triste grugnito. L'uomo più piccolo agitò la mano e la polvere di tuntun cadde a terra in un mucchietto. Guardò Kylar e i legami che lo trattenevano si spostarono, obbligandolo a stare dritto, con le mani lungo i fianchi, pur tenendo ancora i coltelli. «È più comodo?», domandò, anche se non sembrava aspettarsi una risposta. Toccò la mano di Kylar con un solo dito e guardò dentro di lui, come se i suoi occhi potessero penetrarlo. Aggrottò la fronte. «Guarda questo», disse rivolto a Feir. Feir accettò che Dorian gli mettesse una mano sulla spalla e guardò Kylar nello stesso modo. Kylar rimase fermo, senza sapere cosa dire o fare, con la mente affollata di domande alle quali era incerto se dare voce. Dopo un lungo momento, Feir disse: «Dov'è il suo canale? Sembra quasi formato, come se ci fosse una nicchia per...». Espirò rumorosamente. «Per la Luce, dovrebbe essere...». «Terrificante. Sì», disse Dorian. «È un ka'karifero nato. Ma non è questo che mi preoccupa. Guarda qui». Kylar sentì qualcosa torcersi in lui. Qualunque cosa Feir stesse vedendo, lo spaventò. La sua faccia era immobile ma Kylar poté quasi avvertire la tensione nei suoi muscoli, il lieve odore della paura nell'aria.


«C'è qualcosa che mi fa resistenza», disse Occhi. «Il flusso sta vincendo. L'Ammantato di Ombre peggiora le cose». «Lascialo andare», disse Feir. «Rimani con me». Kylar sentì allentarsi e cadere la cosa che aveva schiuso il suo essere, nonostante il corpo fosse ancora immobilizzato. Dorian ondeggiò sui talloni e Feir lo afferrò per le spalle con le sue enormi mani, sostenendolo. «Come mi hai chiamato? Chi siete?», domandò Kylar. Dorian fece un sorrisetto, ritrovando l'equilibrio quasi con la sola forza del buon umore. «Chiedi a noi chi siamo, Portatore di Nomi? É Kylar adesso, non è vero? Un vecchio gioco di parole jaerano. Mi piace. É opera del tuo umorismo o di quello di Blint?». Allo sguardo sgomento di Kylar, concluse: «Di Blint, a quanto pare». Dorian guardò nuovamente dentro Kylar, come se in lui ci fosse un elenco da leggere. «Il Senza Nome. Marati. Cwellar. Spex. Kylar. Perfino Kagé, non tremendamente originale, questo». «Cosa?», chiese Kylar. Era una cosa ridicola. Chi erano quegli uomini? «Sa'kagé significa Signori delle Ombre», spiegò Dorian. «Perciò Kagé significa Ombra, ma non credo che questo sia colpa tua. In ogni caso, dovresti essere più curioso. Non ti è mai capitato di chiederti perché i tuoi pari avessero nomi comuni come Jarl, o Bim, o nomi da schiavo come Bambola o Ratto, mentre tu eri gravato dal nome Azoth?». Kylar si raggelò. Aveva sentito dire che gli stregoni erano in grado di leggere nel pensiero ma non ci aveva mai creduto. E quei nomi. Non era un elenco casuale. «Siete stregoni. Tutti e due». Feir e Dorian si guardarono. «Giusto per metà», rispose Dorian. «Un po' meno della metà, a dire il vero», aggiunse Feir. «Ma io ero uno stregone», disse Dorian. «O, più esattamente, un meister. Se mai hai avuto la sfortuna di incontrarne uno, potresti non voler usare un appellativo sbagliato». «Cosa siete?», insisté Kylar. «Amici», disse Dorian. «Abbiamo fatto un lungo viaggio per aiutarti. Be', non solo per aiutare te, ma per aiutare te e...».


«E siamo venuti contro il nostro personale interesse e correndo un grosso rischio», lo interruppe Feir, guardando bruscamente Dorian. «Speriamo che tu non abbia dubbi sul fatto che potremmo ucciderti. Che, volendo, l'avremmo già fatto», disse Dorian. «Si può fare del male in molti modi, non solo uccidendo. Un sicario lo sa», ribatté Kylar. Dorian sorrise ma Feir sembrava ancora diffidente. Kylar sentì i legami sciogliersi e la cosa lo innervosì. Avevano visto quanto in fretta riusciva a muoversi, eppure lo avevano liberato, armato. «Permettimi di presentarci», disse Dorian. «Questo è Feir Cousat, un giorno il più famoso fabbro di spade di tutto Midcyru. È un Vy'sana e Maestro di Spada di Secondo Grado». Grandioso. «E tu?», chiese Kylar. «Non mi crederesti». Dorian si stava divertendo. «Mettimi alla prova». «Io sono Sa'seuran e Hoth'salar e, un tempo, vùrdmeister della dodicesima shu'ra». «Notevole», disse Kylar. «Quello che per te dovrebbe essere importante è che io sono un profeta. Il mio nome è Dorian», disse Dorian con autentico accento khalidorano. «Dorian Ursuul». «Avevi ragione», disse Feir. «Non ti crede». A parte la distrazione, l'unica cosa in grado di uccidere un sicario erano altri sicari, maghi e stregoni. Secondo Blint, gli stregoni erano i peggiori. Non aveva trascurato l'educazione di Kylar. «Fammi vedere le braccia», disse Kylar. «Ah, quindi sai del vir», disse Dorian. «Quanto ne sai?». Dorian si scoprì le braccia fino ai gomiti. Non c'erano segni su di esse. «So che tutti gli stregoni ce l'hanno, che cresce in proporzione al potere dello stregone e che più è complesso maggiore è il livello di maestria dello stregone», disse Kylar. «Non farlo, Dorian», disse Feir. «Non ho intenzione di perderti per questo. Diciamogli quello che gli dobbiamo dire e togliamoci dalle scatole». Dorian lo ignorò. «Solo gli uomini e le donne che hanno il


Talento possono usare il vir. É più facile da gestire rispetto al Talento e più potente. Dà anche una terribile dipendenza e, parlando in termini di valori morali - cosa che io faccio - è una cosa malvagia», disse Dorian, con lo sguardo brillante. «Diversamente dal Talento, che può essere buono o cattivo come qualunque talento, è in sé maligno e corrompe coloro che ne fanno uso. Si è dimostrato utile per la mia famiglia avere tutti i meister segnati. I miei antenati non videro mai alcuna ragione perché lo fossimo anche noi, a meno che non scegliessimo di esserlo. Gli Ursuul possono far scomparire il proprio vir a piacimento, fin tanto che non lo usano». «Blint deve aver saltato quella lezione», disse Kylar. «È un peccato. Siamo i vurdmeister più pericolosi che tu possa mai immaginare». «Dorian, digli quelle parole. Andiamo...». «Feir!», esclamò Dorian. «Silenzio. Sai cosa fare». L'omone obbedì, guardando torvo Kylar. «Kylar», disse Dorian. «Stai chiedendo a un alcolizzato che ha appena smesso di bere di prendere solo un altro bicchiere di vino. Starò malissimo per settimane per questo. Feir dovrà controllarmi costantemente per fare in modo che non scivoli nella follia. Ma per te ne vale la pena». Feir strinse con forza le labbra, ma non disse una parola. Dorian stese le braccia e un bagliore le percorse. Mentre Kylar guardava, sembrava che le profonde vene si contorcessero, cercando di arrivare in superficie. Poi, rapidamente, affiorarono tutte insieme. Le braccia di Dorian divennero nere, come se un milione di tatuaggi appena fatti riversassero l'inchiostro l'uno sull'altro. Strato su strato, ognuno ben distinto che si intrecciava a quello superiore e a quello inferiore, quello più chiaro su quello più scuro e di nuovo quello più scuro, in cima. Era bellissimo e terribile. Il vir, saturo di potere, si muoveva, non solo con le braccia di Dorian ma indipendentemente. Sembrava che i segni neri volessero schizzare via dalla pelle. L'oscurità del vir si diffuse a tutta la stanza e Kylar fu certo che non si trattasse della sua immaginazione: il vir risucchiava la luce. Gli occhi di Dorian si dilatarono fino a che le fredde iridi azzurre non divennero che bordi minuscoli. Una gioia feroce gli apparve sul


volto, facendolo sembrare più giovane di dieci anni. Il vir cominciò a crescere, crepitando. Feir sollevò Dorian, come molti uomini solleverebbero una bambola, e si mise a scuoterlo violentemente. Scuoteva e non riusciva a smettere di tremare. Sarebbe stato comico se Kylar non fosse stato troppo spaventato per muoversi. Feir continuò a scuotere fino a che la stanza non fu più buia. Poi, adagiò Dorian su una sedia. L'uomo gemette e d'un tratto sembrò di nuovo fragile e più vecchio. Parlò senza alzare la testa. «Sono felice di averti convinto, Ombra che Cammina». Lo aveva convinto, ma Dorian non poteva saperlo. «Come faccio a sapere che non si trattava di un'illusione?», chiese Kylar. «Le illusioni non risucchiano la luce. Le illusioni...», disse Feir. «Sta solo facendo il testardo, Feir. Ci crede». Dorian lanciò un'occhiata a Kylar e distolse in fretta lo sguardo. Gemette. «Ah, non riesco neanche a guardarti ora. Tutto il tuo futuro...». Strinse forte gli occhi. «Cosa volete da me?», domandò Kylar. «Posso vedere il futuro, Senza Nome, ma sono solo umano, perciò prego di sbagliarmi. Da quello che ho visto, se non uccidi Durzo Blint domani, Khalidor prenderà Cenaria. Se non lo uccidi il giorno dopo, tutti quelli che ami moriranno. Il tuo conte del Sa'kagé, lo Shinga, i tuoi amici vecchi e nuovi, tutti quanti. Se fai la cosa giusta una volta, ti costerà anni di rimorso. Se fai la cosa giusta due volte, ti costerà la vita». «Allora è di questo che si tratta? È tutta una montatura per farmi tradire Mastro Blint? I vostri padroni pensavano che me la sarei bevuta?», disse Kylar. «Oh, sapete un bel po' di cose su di me, deve esservi costato una fortuna comprare tutte quelle informazioni». Dorian alzò una mano stanca. «Non ti sto chiedendo di crederci adesso. É troppo tutto insieme. Mi dispiace. Ora tu pensi che siamo Khalidorani e che vogliamo che tu tradisca Blint così non potrà fermarci. Forse questo ti convincerà che stai sbagliando: quello di cui ti supplico sopra ogni altra cosa è di uccidere mio fratello. Non lasciare che prenda il ka'kari».


Kylar si sentì come se fosse appena stato colpito. «Il cosa?» «Feir», disse Dorian. «Di' le parole per cui siamo venuti». «Chiedi a Momma K», disse Feir. «Chi è tuo fratello?» «Se te lo dico adesso, perderai quando ti scontrerai con lui». Dorian scosse la testa, ma ancora non riusciva a guardare Kylar. «Dannazione a questo potere. A cosa serve se non posso dirtelo in modo che tu capisca? Kylar, se il tempo è un fiume, la maggior parte della gente vive sommersa. Alcuni salgono in superficie e riescono a intuire cosa sta per succedere, o riescono a capire il passato. Io sono diverso. Quando non mi concentro, mi stacco dal fluire del tempo. La mia coscienza è sospesa sul fiume. Vedo migliaia e migliaia di strade. Chiedimi dove cadrà una foglia e non riuscirò a dirtelo. Ci sono troppe possibilità. C'è così tanto rumore, come se stessi cercando di seguire una goccia di pioggia dalle nuvole fino a un lago, poi oltre una cascata, per ritrovarla infine nel fiume, due leghe più a valle. Se posso toccare qualcuno o salmodiare dei versi, questo mi dà un punto su cui focalizzarmi. A volte». Dorian sembrava guardare attraverso la parete, perso in una fantasticheria. «A volte», continuò. «A volte, quando supero il fiume, inizio a vedere uno schema. Non sembra più acqua, ma un tessuto costituito da ogni decisione insignificante di ogni contadino, così come dalle grandi decisioni dei re. Quando comincio a comprendere la vastità e l'intrico di quella matassa, la mia mente inizia a staccarsi». Sbatté le palpebre e girò gli occhi verso Kylar. Li socchiuse, come se il solo guardarlo gli causasse dolore. «Talvolta si tratta semplicemente di immagini, totalmente slegate. Riesco a vedere l'angoscia sul volto del giovane che mi guarderà morire, ma non so chi sia o quando sarà o perché gli importi tanto. So che domani un vaso quadrato ti darà speranza. Vedo una bambina che piange sul tuo corpo. Sta cercando di tirarti via ma sei troppo pesante. Via da cosa? Non lo so». Kylar avvertì un brivido. «Una ragazzina? Quando?». Era Ilena Drake? «Non so dirtelo. Aspetta». Dorian strizzò gli occhi e la sua faccia si irrigidì. «Va', va' adesso. Chiedi a Momma K!». Feir spalancò la porta d'ingresso. Kylar guardò prima un mago


poi l'altro, stordito per l'improvviso congedo. «Va'», lo esortò Feir. «Va'!». Kylar si mise a correre nella notte. Per un lungo momento, Feir lo seguì con lo sguardo. Sputò. Continuando a guardare nelle profondità della notte, disse: «Cosa non gli hai detto?». Dorian emise un respiro tremolante. «Morirà. Nonostante tutto». «Come può essere?» «Non lo so. Forse non è quello che speravamo».


Capitolo 35 Kylar corse, ma il Dubbio correva più veloce. Il cielo si stava schiarendo verso est e la città cominciava a mostrare i primi segni di vita. Le probabilità di incappare in una pattuglia erano scarse, soprattutto perché Kylar non correva lungo le strade dei bei negozi, sorvegliate più di frequente. Ma se si fosse imbattuto nelle guardie, cosa avrebbe detto? Sono appena uscito per una passeggiata mattutina, con abiti scuri, erbe illegali, un piccolo arsenale e la faccia annerita dal nerofumo. Perfetto. Rallentò il passo fino a camminare. Momma K non era lontana, a ogni modo. Cosa stava facendo? Obbediva a un pazzo e a un gigante? Rivide il vir che si sollevava dalle braccia di Dorian e lo stomaco gli si rivoltò. Forse non era un pazzo. Ma qual era il loro intento? Le uniche persone conosciute da Kylar che facevano le cose solo perché dovevano erano i Drake. E immaginava che costituissero l'eccezione che conferma la regola. Nel Sa'kagé, a corte, nel mondo reale, le persone facevano quello che era meglio per se stesse. Feir e Dorian non avevano negato di avere altri motivi per trovarsi a Cenaria, ma si erano certamente comportati come se lui fosse la cosa più importante. Si erano comportati come se credessero davvero che lui avrebbe cambiato il corso del regno! Era una follia. Ma lui ci aveva creduto. Se si fosse trattato di bugiardi, avrebbero cercato di dirgli come sarebbero state migliori le cose se avesse ucciso Blints, no? O erano semplicemente più intelligenti della maggior parte dei bugiardi? Da quello che Dorian aveva detto, sembrava che Kylar avrebbe perso tutto, qualunque cosa avesse fatto. Che razza di veggente ti diceva una cosa del genere? Senza rendersene conto, Kylar aveva nuovamente allungato il passo, ritrovandosi a correre e spaventando una lavandaia che stava riempiendo i suoi secchi. Si fermò davanti alla porta di Momma K e si sentì di nuovo a disagio. Momma K rimaneva alzata fino a tardi e, al mattino, si svegliava presto, ma, se c'era un momento del giorno in cui era sicuro che fosse a letto, era proprio quello. Era l'unico momento in cui la porta sarebbe stata chiusa a chiave. Dannazione, vuoi deciderti o no?


Kylar bussò piano, definendosi un codardo, ma decidendo al tempo stesso che se ne sarebbe andato se nessuno avesse risposto. La porta si aprì quasi immediatamente. La domestica di Momma K sembrò sorpresa quasi quanto Kylar. Era una donna anziana, in camicia da notte e scialle sulle spalle. «Be', buongiorno, mio signore. Se non siete un sogno. Non riuscivo a dormire, continuavo a pensare che avevamo finito la farina. Anche se avevo controllato ieri sera, per qualche motivo non riuscivo a togliermi dalla mente che era finita. Stavo passando davanti alla porta per andare a controllare quando avete bussato - oh, per i dodici capezzoli di Arixula, sto cianciando come una vecchia sciocca». Kylar aprì la bocca, ma non riuscì a infilare neanche una parola nelle chiacchiere dell'ex prostituta. «"É ora di un colpetto alla testa e una spinta nel fiume, signora", le dico sempre e lei ride. Vorrei essere giovane anche solo per vedere l'espressione sulla vostra faccia, come succedeva un tempo. Una volta questa vecchia ciabatta faceva alzare gli uomini, si faceva notare. Andavi a sbattere contro un muro solo perché non riuscivi a staccarmi gli occhi di dosso. Ero così bella che solo vedermi in camicia da notte... certo, non portavo questi stracci da vecchia, ma se portassi ora quella roba, ho paura che spaventerei i bambini. Mi fa sentire la mancanza...». «Momma K è sveglia?» «Cosa? Oh, be', penso di sì. Non ha dormito bene, povera ragazza. Forse una visita le farà bene. Anche se penso che sia stata una visita di Durzo a farla andare in bestia. È dura alla sua età, passare da quello che si era a ciò che sono io adesso. Ha quasi cinquant'anni. Mi ricorda...». Kylar le passò accanto e salì su per le scale. Non era neanche sicuro che la vecchia se ne fosse accorta. Bussò e attese. Nessuna risposta. Una sottile lama di luce si intravedeva dalla soglia, tuttavia, e Kylar aprì la porta. Momma K sedeva rivolgendogli le spalle. Due candele, ridotte ormai a dei mozziconi, erano l'unica cosa che illuminava la stanza. Non si mosse neanche quando Kylar entrò. Alla fine, si girò lentamente verso di lui. I suoi occhi erano gonfi e rossi, come se avesse passato tutta la notte a piangere. Piangere? Momma K?


«Momma K? Momma K, hai un aspetto terribile». «Sai sempre dire la cosa giusta a una signora». Kylar entrò nella stanza e chiuse la porta. Fu allora che notò gli specchi. Lo specchio da toeletta di Momma K, davanti al quale la donna si truccava, lo specchietto, perfino quello a figura intera, tutti quanti erano in frantumi. A terra, le schegge tremolavano alla luce della candela. «Momma K? Cosa sta succedendo qui?» «Non chiamarmi così. Non chiamarmi mai più così». «Cosa succede?» «Bugie, Kylar», rispose, guardandosi in grembo, la faccia nascosta per metà dalle ombre. «Bellissime bugie. Bugie che ho indossato talmente a lungo da non ricordare cosa c'è sotto». Si voltò. Su metà del viso, si era tolta ogni segno di cosmetico. La metà sinistra della sua faccia era struccata, per la prima volta da quando Kylar la conosceva. La faceva sembrare vecchia e smunta. Rughe sottili attraversavano la superficie un tempo delicata - ora semplicemente indurita - del viso di Gwinvere. Cerchi neri attorno agli occhi le conferivano una spettrale vulnerabilità. L'effetto del viso per metà perfettamente curato e per metà struccato era ridicolo, brutto, quasi comico. Kylar mascherò lo choc troppo lentamente, non che potesse nasconderle granché, ma Momma K sembrava contenta di essere ferita. «Immagino che tu non sia qui per guardare un fenomeno da baraccone, perciò, cosa vuoi Kylar?» «Non sei un fenomeno... ». «Rispondi alla domanda. So riconoscere un uomo con una missione. Sei qui per chiedere il mio aiuto. Cosa ti serve?» «Momma K, dannazione, smettila...». «No, dannazione a te!». La voce di Momma K schioccò come una frusta. Poi, i suoi occhi diseguali si addolcirono e sembrarono guardare al di là di Kylar. «È troppo tardi. Sono stata io a sceglierlo. Dannazione a lui, ma aveva ragione. Ho scelto io questa vita, Kylar. Ne ho scelto ogni passo. Non va bene cambiare puttana nel bel mezzo di una scopata. Sei qui per Durzo, non è vero?». Kylar si batté le nocche sulla fronte, disorientato. Tuttavia


riusciva a leggere l'espressione sul viso di Momma K. Diceva: "Discorso chiuso". Kylar si arrese. Era lì per Durzo? Be', era un inizio buono come un altro. «Ha detto che mi ucciderà se non trovo il ka'kari d'argento. Ma io non so neanche cosa sia». Lei trasse un profondo respiro. «Ho cercato per anni di fare in modo che te lo dicesse», disse. «Sei ka'kari furono creati per i Sei Campioni di Jorsin Alkestes. Le persone che usavano i ka'kari non erano maghi, ma i ka'kari davano loro poteri magici. Non come i deboli maghi di oggi, ma come quelli di sette secoli fa. Tu sei quello che erano loro. Sei un ka'karifero. Sei nato con un buco nel tuo Talento che solo un ka'kari può ricomporre». Sia Momma K che Durzo sapevano tutto questo e glielo dicevano solo ora? «Oh, be', grazie. Dov'è il negozio di articoli magici più vicino? Magari uno che fa sconti ai sicari?», chiese Kylar. «Anche se cose simili esistessero, sarebbero già in mano a dei maghi, o sarebbero in fondo all'oceano o qualcosa del genere». «O qualcosa del genere». «Stai dicendo che sai dov'è quello d'argento?» «Pensa a questo», disse Momma K. «Tu sei un re. Riesci a trovare un ka'kari ma non sai usarlo. Forse non conosci nessuno di cui ti fidi che sappia farlo. Cosa fai? Lo tieni per i momenti difficili, o per i tuoi eredi. Forse non scriverai mai di cosa si tratta, perché sai che, alla tua morte, la gente rovisterà tra le tue cose e ruberà il tuo più prezioso tesoro. Perciò, pensi di dirlo un giorno a tuo figlio, prima che salga al trono. In un modo o nell'altro, tuttavia, come spesso fanno i re, ti fai uccidere prima di aver fatto quella chiacchierata. Cosa succede al ka'kari?» «Lo prende il figlio». «Esatto, e non sa cosa sia. Magari sa che è importante, che è magico ma, come hai detto, se mai ne parlasse con i maghi, prima o poi lo sottrarrebbero a lui o ai suoi eredi. Perciò, se lo tiene, e anche ben nascosto. Passate abbastanza generazioni, diventa semplicemente un altro gioiello del tesoro reale. Nel giro di settecento anni, cambia proprietario dozzine di volte, senza che nessuno abbia idea di cosa sia. Fino a che un giorno, il Re Divino di Khalidor esige un tributo che include un particolare gioiello, e un re notevolmente stupido consegna proprio quel gioiello alla sua


amante». «Vuoi dire...», fece Kylar. «Ho appena scoperto che Niner ha dato a lady Jadwin il ka'kari d'argento, il Globo delle Lame. Sembra un piccolo gioiello di uno strano metallo, come un diamante argenteo. Si dà il caso che sia uno de! gioielli preferiti della regina Nalia. Lei pensa che sia andato perduto ed è furiosa, perciò domani notte, qualcuno di cui il re si fida - non so chi - dovrà recuperarlo. I Jadwin terranno una festa domani sera. Perciò domani, il ka'kari sarà allo scoperto. Niente guardie reali, niente maghi, né tesoro sorvegliato magicamente. Lady Jadwin lo porterà con sé oppure lo terrà nella sua stanza. Kylar, devi capire cosa c'è in gioco. Si dice che i ka'kari scelgano i propri padroni, ma i Khalidorani credono di poter forzare un vincolo con la magia. Se il Re Divino riuscirà nell'intento... immagina la distruzione che porterebbe vivendo per sempre». La notizia fece rizzare i peli sulla nuca di Kylar. «Dici sul serio? L'hai detto a Durzo?» «Durzo e io... Non sono molto propensa ad aiutare Durzo ora. Ma c'è di più, Kylar. Non sono l'unica a sapere queste cose». Il dolore le contorse il viso e la donna distolse lo sguardo. «Cosa vuoi dire?» «Khalidor ha assoldato qualcuno per prenderlo. É così che le mie spie l'hanno saputo. Il lavoro dovrebbe essere una toccata e fuga». «Dovrebbe?» «Hanno assoldato Hu Gibbet». «Nessuno prenderebbe Hu per una toccata e fuga. Quell'uomo è un macellaio». «Lo so», convenne Momma K. «Allora chi deve colpire?» «Scegli tu. Metà dei nobili del regno saranno presenti. Il tuo amico Logan ha accettato l'invito, forse ci sarà perfino il principe. Quei due sembrano essere inseparabili; nonostante siano come il giorno e la notte». «Momma, chi è la tua spia? Riesci a farmi ottenere un invito?». Lei sorrise misteriosa. «La mia spia non può aiutarti, ma conosco una persona che può farlo. Anzi, nonostante i miei grandi sforzi, la conosci anche tu».


Capitolo 36 Kylar aveva accostato uomini in pieno giorno e a pochi passi dalla guardia cittadina per ucciderli. Aveva strisciato sotto i tavoli mentre un gatto lo graffiava e le guardie setacciavano la stanza in cerca di intrusi. Aveva dovuto introdursi in una tinozza di vino e nascondercisi dentro, mentre l'assaggiatore di un nobile sceglieva la bottiglia giusta per la cena. Aveva aspettato a un metro da un forno rovente, dopo aver avvelenato una bistecca, mentre il cuoco cercava di capire con quale spezia avesse abbondato perché la carne avesse un sapore così strano. Ma non era mai stato così nervoso. Fissava sbigottito la porta, un piccolo ingresso di servizio. Quel giorno era un accattone, venuto a mendicare un tozzo di pane. I suoi capelli erano lisci e untuosi, sporchi di cenere e sego. La pelle spessa e marrone, le mani deformate dall'artrite. Per arrivare a quella porta, aveva dovuto superare le guardie poste davanti all'alto cancello. «Ehi, vecchio», disse una guardia simile a un ceppo con l'alabarda. «Che vuoi?» «Ho saputo che la mia piccolina sta qui. La signorina Cromwyll. Speravo che potesse darmi un tozzo di pane, ecco tutto». L'altra guardia, che aveva rivolto a Kylar solo uno sguardo superficiale, sembrò risvegliarsi. «Che hai detto? Sei parente della signorina Cromwyll?». L'aria protettiva che aleggiava attorno all'uomo, che doveva avere quasi quarant’anni, era palpabile. «No, no, non è mia», disse Kylar, emettendo una risata gracchiarne. «Solo una vecchia amica». Le guardie si guardarono l'un l'altra. «Vorresti andare a cercarla e portarla qui a quest'ora del giorno con tutto quello che c'è da fare per stasera?», chiese il Ceppo. L'altro scosse la testa e, con un borbottio, cominciò a perquisire Kylar con diffidenza. «Scommetto che prima o poi mi beccherò i pidocchi da uno dei poveracci della signorina Cromwyll». «Ah, lo so, ma per lei ne vale la pena, no?» «Non sei così allegro quando tocca a te palpeggiare gli accattoni, Birt».


«Ah, fottiti». «Avanti. La cucina è da quella parte», disse la guardia più anziana a Kylar. «Birt, sono clemente con te, ma se mi dici di nuovo di fottermi, ti faccio vedere come si fa con la punta del mio stivale...». Kylar avanzò verso la cucina con passo strascicato, fingendo un ginocchio rigido. Le guardie, nonostante le chiacchiere, erano professionisti. Maneggiavano le armi con destrezza e, nonostante non avessero visto al di là del suo travestimento, non avevano trascurato il proprio dovere di perquisirlo. Una tale disciplina gli faceva presagire il peggio. Nonostante si procedesse lentamente per avere il tempo di memorizzare la disposizione della tenuta, la camminata gli bastò a stento. I Jadwin erano duchi da cinque generazioni e la loto residenza era una delle più belle in città. La loro tenuta si affacciava sul fiume Plith e si trovava proprio di fronte al castello di Cenaria. Appena a nord della tenuta, c'era l'East Kingsbridge, apparentemente destinato a uso militare, ma si diceva che fosse usato più per le relazioni notturne del re. Se lady Jadwin era davvero l'amante del re, la tenuta della sua casata era perfetta per un facile accesso. Il sovrano faceva anche in modo che il duca viaggiasse continuamente in tutto Midcyru, in missioni diplomatiche, ma l'uomo sapeva che si trattava di semplici scuse. La casa era posta su una collinetta centrale che consentiva una vista sul fiume, nonostante le mura alte quasi quattro metri e irte di punte che costeggiavano l'intera proprietà. Con una mano tremante che simulava una paralisi, Kylar bussò all'ingresso di servizio. «Sì?». La porta si aprì e una giovane donna che si asciugava le mani in un grembiule guardò interrogativamente Kylar. Era bella, sui diciassette anni, con un vitino da vespa che, perfino coperto dai semplici abiti di una domestica, avrebbe suscitato l'invidia di una qualsiasi delle ragazze di Momma K. Le cicatrici c'erano ancora, una X sulla guancia, una X che le attraversava il labbro inferiore, un semicerchio dall'angolo della bocca fino a quello dell'occhio. La cicatrice le conferiva un sorriso fisso, ma la gentilezza della sua bocca addolciva la crudeltà dello sfregio. Kylar si ricordò del suo occhio, terribilmente tumefatto. Aveva


avuto paura che lei perdesse la vista. Ma i suoi occhi, entrambi, erano limpidi e marrone chiaro, brillanti di bontà e felicità. Il naso di Bambola era stato ridotto in poltiglia e quello di Elene non era perfettamente dritto, ma non era brutto. E aveva tutti i suoi denti certo, si rese conto, all'epoca era così piccola da aver perso per le percosse solo i denti da latte. «Entra, nonno», disse tranquillamente. «Ti troverò qualcosa da mangiare». Gli offrì il braccio e non sembrò offesa dai suoi sguardi. Lo portò in una stanzetta laterale con un piccolo tavolo per i servi, che dovevano essere a portata di orecchio per la cucina. Con calma, disse a una donna, più grande di lei di circa dieci anni, che aveva bisogno di essere sostituita mentre si prendeva cura dell'ospite. Dal suo tono e dalla reazione della donna più grande, Kylar vide che Elene era adorata in quel posto e che si prendeva sempre cura dei mendicanti. «Come stai, nonno? Posso prenderti un balsamo per le mani? Lo so che sono doloranti in queste mattine così fredde». Cosa aveva fatto per meritarsi questo trattamento? Si era presentato come il più puzzolente degli straccioni e lei lo aveva ricoperto di gentilezze. Non aveva niente da darle, eppure lei lo trattava come un essere umano. Questa era la donna che era quasi morta a causa della sua arroganza, della sua stupidità e del suo fallimento. L'unica bruttura della sua vita era opera di Kylar. Aveva pensato di poter mettere da parte il suo senso di colpa due anni prima, quando Momma K gli aveva detto, con una semplice verità, che lui aveva salvato Elene da qualcosa di peggio delle cicatrici. Ma guardare quegli sfregi così da vicino, minacciava di farlo ripiombare in quell'inferno. Elene posò sul tavolo un pezzo di pane coperto di sugo caldo e cominciò a tagliarlo in piccoli pezzi. «Non vorresti sederti qui? Ora lo facciamo più facile da masticare, sì?», disse, parlando ad alta voce, come imparano a fare le persone che lavorano con gli anziani. Sorrise e la cicatrice le tirò il labbro. No. Lui l'aveva messa lì, con quella gente che la adorava, dove poteva permettersi di condividere un pezzo di pane. Elene aveva fatto le sue scelte per diventare quello che era, ma era stato lui a rendere possibili quelle scelte. Se c'era una cosa buona che aveva fatto, era quella. Kylar chiuse gli occhi e respirò profondamente. Quando li riaprì e la guardò senza il senso di colpa a ottenebrargli la


vista, lei era splendida. I suoi capelli erano dorati e lucenti, la sua pelle non aveva difetti, a parte le cicatrici, gli occhi grandi e brillanti, le labbra carnose, i denti bianchi, il collo affusolato, la figura affascinante. Si stava piegando per tagliargli il pane, con il corpetto che si apriva sul davanti... Kylar si costrinse a distogliere lo sguardo, cercando di rallentare il battito del proprio cuore. Lei notò il movimento brusco e lo guardò. I loro occhi si incontrarono. Lo sguardo di lei era interrogativo, aperto. Kylar stava per chiedere a quella donna di tradire la sua padrona? Un confuso groviglio di emozioni, tenute a bada in qualche oscuro recesso della sua anima, emerse prepotentemente. Kylar soffocò un singhiozzo. Strinse forte gli occhi. Controllati. Elene gli mise un braccio intorno alle spalle, incurante dei suoi luridi abiti e della puzza. Non disse nulla, non chiese nulla, si limitò a toccarlo. Kylar fu pervaso da mille brividi e le emozioni ripresero il sopravvento. «Sai chi sono?», le chiese. Non usò la voce del mendicante. Elene Cromwyll lo guardò in modo strano, senza capire. Kylar voleva rimanere curvo, per nascondersi a quegli occhi gentili, ma non ci riuscì. Raddrizzò la schiena, si alzò e si stiracchiò le dita. «Kylar?», chiese lei. «Sei tu! Cosa ci fai qui? Sono state Mags e Ilena a mandarti? Oh, mio Dio, cosa ti hanno detto?». Le guance le si imporporarono e gli occhi le si accesero di speranza e imbarazzo. Non era giusto che una donna potesse essere così bella. Sapeva cosa gli stava facendo? La sua era la faccia di una ragazza sorpresa da un ragazzo nel migliore dei modi. Oh, per gli dei. Pensava che lui fosse lì per chiederle di andare alla festa di Mags. Le aspettative di Elene stavano per scontrarsi con la realtà come un principiante che va alla carica della cavalleria alitaerana. «Dimentica Kylar», disse, nonostante la cosa gli fosse dolorosa. «Guardami e dimmi chi vedi». «Un vecchio?», rispose Elene. «È un costume davvero ben fatto, ma non è adatto a una festa». Arrossì di nuovo, come se stesse osando troppo. «Guardami, Bambola». La voce di Kylar era strozzata. Paralizzata, lei smise di fissarlo. Gli toccò il viso. I suoi occhi


divennero enormi. «Azoth», sussurrò. Posò una mano sul tavolo per sostenersi. «Azoth!». Si lanciò verso di lui così velocemente, che Kylar quasi cercò di bloccarla. Lo strinse forte. Lui rimase impalato, con la mente che per un lungo istante, si rifiutava: lei lo stava abbracciando. Kylar non riusciva a muoversi, non riusciva a pensare; provava solo sensazioni. La morbida pelle della guancia di Elene sfregò la sua, sporca e non rasata. I suoi capelli gli riempirono le narici del profumo pulito della giovinezza. Lei lo stringeva, mentre le note delle sue braccia forti, unite a quelle di una pancia e di una schiena ferme e sode, e alla morbidezza puramente femminile del suo petto, premuto contro il suo, creavano un coro di perfetta armonia. Titubante, Kylar alzò le mani e le toccò la schiena. Sentì il sapore del sale sulle labbra. Una lacrima, la sua lacrima. Sentì il petto agitarsi e, un secondo dopo, stava singhiozzando. La afferrò e lei lo strinse ancora più forte. La sentì piangere, respiri mozzati ne scuotevano la fragile figura. E, per un momento, il mondo si ridusse a un singolo abbraccio, riunione, gioia, accettazione. «Azoth, avevano detto che eri morto», disse Elene, troppo presto. Sarai sempre solo. Kylar si bloccò. Se le lacrime potessero fermarsi a metà strada lungo le guance, alle sue sarebbe accaduto. Lasciò andare Elene e fece un passo indietro. Gli occhi della ragazza erano rossi, ma ancora brillanti mentre se li asciugava con un fazzoletto. Un improvviso desiderio di prenderla tra le braccia e baciarla lo travolse come un'onda. Kylar chiuse gli occhi e rimase fermo, fino a che la realtà non tornò a riaffermarsi. Aprì la bocca ma non riuscì a dire niente, non poteva rovinare quel momento. Riprovò, pronto a farne uscire bugie, non ci riuscì. Le relazioni sono corde. L'amore è un cappio. Durzo me lo ha detto. Mi ha dato una possibilità. Avrei potuto essere un impagliatore, un erborista. Ho scelto questo. «Mi era stato ordinato di non vederti più. Dal mio maestro». Aveva la lingua di piombo. «Durzo Blint». Si accorse che perfino Elene aveva sentito parlare di Durzo Blint. Kylar la vide rielaborare le sue parole: se Durzo era il suo maestro, questo significa va... Vide un piccolo sorriso incredulo, come se fosse sul punto di dire: "Ma i sicari sono dei mostri e tu non sei un mostro". Ma poi il sorriso sbiadì. Per quale altro motivo Azoth non


l'avrebbe mai cercata? In quale altro modo poteva scomparire così efficacemente un ratto delle gang? Lo sguardo di Elene divenne freddo. «Quando fui ferita, ricordo che discutevi con qualcuno, chiedendogli di salvarmi. Pensavo fosse un sogno. Si trattava di Durzo Blint, non è vero?» «Sì». «E tu... ora sei quello che è lui?», gli domandò Elene. «Più o meno». In realtà, non sono neanche un vero e proprio mostro, sono solo un assassino, di bassa lega. «Gli hai fatto da apprendista così mi avrebbe salvata?», gli chiese. La sua voce era poco più che un sussurro. «Sei diventato quello che sei a causa mia?» «Sì. No. Non lo so. Mi ha dato la possibilità di andarmene dopo che ho ucciso Ratto, ma non volevo più avere paura, e Durzo non aveva mai paura, e anche solo come suo apprendista, mi pagava così bene che potevo...». Si fermò. Riflettendo, Elene strinse gli occhi, «...che potevi aiutarmi», finì per lui. Si portò le mani alla bocca. Lui annuì. La tua bellissima vita si fonda su denaro insanguinato. Cosa stava facendo? Avrebbe dovuto mentirle, la verità sapeva solo distruggere. «Mi dispiace. Non avrei dovuto dirtelo. Io...». «Ti dispiace?!», lo interruppe Elene. Sapeva che le prossime parole sarebbero state: Sei un fallimento. Guarda cosa mi hai fatto. «Di cosa stai parlando?», gli chiese. «Tu mi hai dato tutto! Mi hai dato da mangiare per strada quando ero troppo giovane per procurarmi il cibo da sola. Mi hai salvata da Ratto. Mi hai salvata quando il tuo maestro stava per lasciarmi morire. Mi hai sistemata con una bella famiglia che mi ha amata». «Ma... non sei furiosa con me?». Elene rimase sorpresa. «Perché dovrei essere furiosa con te?» «Se io non fossi stato così arrogante, quel bastardo non sarebbe venuto a cercarti. L'avevo umiliato! Avrei dovuto stare più attento. Avrei dovuto proteggerti». «Avevi undici anni!», disse Elene. «Ogni cicatrice che hai sul viso è colpa mia. Per gli dei, guardati! Saresti stata la donna più bella di tutta la città! Invece, eccoti qui, a dare pane ai mendicanti».


«Invece di fare cosa?», domandò Elene pacatamente. «Conosci delle ragazze che si prostituiscono da quando erano bambine? Io sì. Ho visto da cosa mi hai salvata. E ne sono riconoscente ogni giorno. Sono grata a queste cicatrici!». «Ma la tua faccia!». Kylar era di nuovo sull'orlo delle lacrime. «Se questa è la peggiore bruttezza della mia vita, Azoth, penso di essere molto fortunata». Sorrise e, nonostante le cicatrici, la stanza si illuminò. Era bella da togliere il respiro. «Sei bellissima», le disse. Lei arrossì. Le sorelle Drake erano le uniche ragazze che Kylar aveva visto arrossire e Serah non lo faceva già più. «Grazie», disse Elene e gli toccò un braccio. A quel contatto, i brividi lo pervasero. La guardò negli occhi e arrossì anche lui. Non era mai stato così mortificato in tutta la sua vita. Era arrossito! Non faceva che peggiorare la situazione. Elene si mise a ridere, ma non per il disagio di lui. Fu una risata di una gioia così innocente da fargli male. La sua risata, come la sua voce, era profonda e lo accarezzò come una brezza fresca in un giorno torrido. Poi, la risata finì e un'espressione di profondo dolore le si dipinse sul viso. «Mi dispiace così tanto, Azoth... Kylar. Mi dispiace del prezzo che hai dovuto pagare per darmi questa possibilità. Non so neanche cosa pensare. A volte sembra che la mano di Dio non arrivi nei Cunicoli. Mi dispiace». Lo guardò a lungo e un'altra lacrima le rigò la guancia. La ignorò, intenta com'era a studiarlo. «Sei un uomo cattivo, Kylar?». Lui esitò. Poi, disse: «Sì». «Non ti credo», disse Elene. «Un uomo cattivo avrebbe mentito». «Forse sono un cattivo onesto». «Penso che tu sia ancora il ragazzo che divideva il suo pane con gli amici quando moriva di fame». «Prendevo sempre il pezzo più grosso», sussurrò Kylar. «Allora ricordiamo in modo diverso», disse Elene. Sospirò e si asciugò le lacrime. «Sei... sei qui per lavoro?». Fu un colpo in pieno petto. «È in arrivo un sicario per uccidere qualcuno alla festa di stasera e rubare qualcosa. Ho bisogno di un invito per entrare».


«Cosa hai intenzione di fare?», gli chiese Elene. In realtà, Kylar a stento ci aveva pensato. «Lo ucciderò», rispose. Ed era la verità. Hu Gibbet era il tipo di pervertito che si metteva a uccidere i mendicanti quando tra un lavoro e l'altro passava troppo tempo. Aveva bisogno di uccidere come un alcolizzato ha bisogno di vino. Se Kylar fosse arrivato per primo a rubare il ka'kari d'argento, Hu Gibbet lo avrebbe inseguito. Hu era un vero sicario e si diceva fosse un lottatore forte quanto Durzo. L'unica possibilità che Kylar aveva di ucciderlo sarebbe stata coglierlo di sorpresa. Quella sera. Elene non lo guardava. «Se sei un sicario, hai altri modi per entrare. Conoscerai dei falsari. Kylar Stern deve avere dei contatti. Forse un invito da parte mia sarebbe il modo più semplice, ma non è questo il motivo per cui sei venuto. Sei qui per studiare il posto, non è vero?». Il suo silenzio fu una risposta sufficiente. «Per tutti questi anni», disse Elene, volgendogli la schiena, «ho pensato che Azoth fosse morto. E forse lo è. Forse ho contribuito a ucciderlo. Mi dispiace, Kylar. Darei la vita per aiutarti. Ma non posso darti quello che non è mio. La mia lealtà, il mio onore appartengono a Dio. Non posso tradire la fiducia della mia padrona. Ho paura che dovrò chiederti di andartene». Fu un congedo più gentile di quanto meritasse, ma era pur sempre un congedo. Kylar si incurvò e, piegate le dita in artigli artritici, se ne andò. Si voltò una volta raggiunto il cancello, ma Elene non era lì a guardarlo andare via.


Capitolo 37 Come tutte le buone imboscate, questa capitò nel momento e nel posto in cui meno se lo aspettavano. Solon e Regnus erano scesi indenni dalle montagne, avevano superato le pianure centrali, giungendo a circa cinque chilometri dalla periferia settentrionale di Cenaria. Il duca Gyre e i suoi si trovavano tra due vaste risaie sulla strada rialzata, quando si imbatterono in un uomo che guidava un carretto. Nelle risaie erano al lavoro parecchi contadini, ma erano vestiti semplicemente, con i pantaloni tirati su fino alle ginocchia, evidentemente privi di armature o armi. Il carrettiere accostò il vecchio cavallo da un lato, guardando con curiosità gli uomini con le armature. Solon avrebbe dovuto notarlo prima. I contadini non portavano le maniche lunghe nelle risaie. Ma fu solo quando si trovò a una ventina di passi dal carretto che se ne accorse. Il vurdmeister lasciò le redini e unì i polsi: un fuoco verde scaturì dal suo vir, riempiendogli le mani. Batté i polsi uno contro l'altro e il fuoco stregato sprizzò. Il fuoco colpì il soldato alla sinistra di Solon, passandogli attraverso. La magia era fatta in modo da sciogliersi in strati come un ghiacciolo quando colpiva ogni uomo. Era grande quanto una testa quando travolse il primo soldato, poi, grande quanto un pugno quando investì il secondo, infine, grande quanto un pollice quando colpì il terzo. In un istante, tutti e tre morirono, avvolti dalle fiamme che bruciavano la carne e il sangue, che colava come fosse olio. Un secondo più tardi, il fuoco stregato colpì altri soldati: un altro vùrdmeister era sul lato opposto della strada e scagliava la morte tra di loro. Caddero altri tre uomini. Rimasero Solon, il duca Gyre e due uomini. Un soldato si lanciò al galoppo verso destra. Il duca Gyre e l'altra guardia andarono a sinistra, lasciando Solon a occuparsi del vùrdmeister sulla strada. Solon non si mosse. I vùrdmeister avevano teso l'imboscata in modo da avere il tempo di lanciare due o tre palle di fuoco stregato. Dodici spadaccini non erano un valido avversario per tre stregoni.


Non c'era tempo di pensare alle conseguenze. Neanche il tempo di trasformare in magia la luce del sole che riverberava sulle risaie. Solon evocò direttamente la propria glore vyrden e lanciò in aria tre minuscole scintille. Volarono veloci come frecce e, in qualche modo, evitarono di colpire il duca o le sue guardie. I vùrdmeister stavano facendo sprizzare il fuoco verde quando le scintille, ognuna grande quasi quanto un dito, toccarono la loro pelle. Erano ben lungi dall'essere mortali. Solon non aveva abbastanza magia per affrontare da solo neanche un vùrdmeister, figuriamoci tre insieme. Ma le scintille li colpirono. Una piccola scossa, ma sufficiente a irrigidire i loro muscoli e a interrompere la loro concentrazione. Prima che potessero riprendersi, tre spade si abbatterono con tutta la forza di tre cavalli al galoppo e tre braccia indurite dalle battaglie, così i due stregoni ai lati della strada morirono. Solon lanciò la scintilla contro l'ultimo stregone rimasto e l'uomo riuscì a bloccarla. Anzi, più che bloccarla, l'uomo la spense. La scintilla volò verso di lui e poi morì, come se fosse un ramoscello infuocato caduto nell'oceano. Il suo contrattacco fu un fiotto di fuoco che ruggì verso Solon con il rumore e la furia del respiro di un dragone. Non c'era modo di bloccarlo. Solon si lanciò giù dalla sella e scagliò un'altra scintilla, mentre cadeva a terra e rotolava sulla strada. Lo stregone non si preoccupò nemmeno di spegnere la scintilla che volò ad almeno tre metri da lui. Si voltò, imbrigliando quasi quindici metri di fuoco, come se fosse un essere vivente, e diresse le sue mani verso Solon. La scintilla urtò il fianco del carretto. Il vecchio animale era già terrorizzato dal sangue, dal rumore e dal lampeggiare del fuoco innaturale. Scalciò contro il carretto, poi si impennò, agitando furiosamente gli zoccoli. Il vùrdmeister non aveva neanche sentito il nitrito del cavallo coperto dal ruggito delle fiamme. Un attimo prima stava dirigendo il flusso di fuoco verso Solon e, quello dopo, uno zoccolo lo colpì alla schiena. Cadde carponi, con la sola consapevolezza che qualcosa stava andando terribilmente storto. Boccheggiando, si girò e vide il cavallo ritrovare l'equilibrio. Poi, cavallo e carretto gli andarono a finire addosso, schiacciandolo sulla strada.


Solon si tirò fuori dall'acqua e dal fango della risaia, mentre il cavallo correva come mai doveva aver corso in dieci anni. Il suo cavallo era morto, naturalmente, con il cranio devastato e il lezzo di peli e carne bruciata che aleggiava sul suo corpo. Il fuoco stregato si stava consumando sui cadaveri dei soldati. Proprio mentre guardava, si riaccese, diffondendosi velocemente. Ma durò solo una decina di secondi. Dieci secondi? É durato solo dieci secondi? Il rumore di zoccoli riportò Solon alla realtà. Alzò lo sguardo verso il duca Gyre, la cui faccia era dura e impassibile. «Sei un mago», disse il duca. «Sì, mio signore», disse gravemente Solon, senza aggiungere altro. Il duca non aveva scelta. Di fronte a una tale sorpresa, un uomo più intelligente avrebbe finto di aver saputo per tutto il tempo che Solon fosse un mago. Poi, in seguito, avrebbe potuto decidere cosa farne. Il duca Gyre era troppo diretto per una cosa del genere. Era la sua forza ma anche la sua debolezza. «E hai fatto rapporto su di me ad altri maghi». «Solo, solo ad amici, mio signore». Era debole e, dirlo, lo faceva sembrare ancora più debole, Solon lo sapeva, ma non riusciva a pensare che tutto sarebbe finito così. Senz'altro la sua amicizia con Regnus, senz'altro dieci anni di servizio valevano più di questo. «No, Solon», disse il duca Gyre. «I vassalli leali non fanno la spia sui propri signori. Oggi mi hai salvato la vita, ma mi hai tradito per anni. Come hai potuto?» «Non era...». «Per la mia vita, ti rendo la tua. Sparisci. Prendi uno dei cavalli e vattene. Se vedrò ancora la tua faccia, ti ucciderò». «Stai con lui», aveva detto Dorian. «Ne va della sua vita. Ne va della vita di un regno. "Per una tua parola - o per il silenzio -un fratello re giace morto"». Ma non aveva mai detto per quanto tempo Solon doveva servire il duca Gyre, no? Solon si inchinò davanti all'amico e prese una briglia da Gurden, che sembrava troppo sgomento per l'emozione. Montò a cavallo e rivolse la schiena a lord Gyre. Ho salvato Cenaria oggi, o l'ho condannata?


Capitolo 38 Il pomeriggio di Kylar era stato frenetico. Per trovare qualcun altro che gli procurasse un invito, aveva dovuto ricorrere a Logan e, poi, quando aveva cercato Durzo, il sicario era sparito, lasciandogli un tipico messaggio stringato: «Via per lavoro». Durzo spesso non gli dava dettagli sul proprio lavoro ma, di recente, Kylar si sentiva sempre più escluso, come se Durzo stesse cercando di creare una barriera tra loro, in modo che, a tempo debito, gli fosse più facile uccidere l'apprendista. Grazie all'assenza di Durzo Kylar non aveva dovuto confessare di aver parlato con Elene, il che non era del tutto negativo. Ora, poiché aveva detto a Logan che sarebbe andato alla festa, doveva andarvi senza un travestimento; ma, poiché lo aveva detto anche a Elene, se lei lo avesse visto, sarebbe andata immediatamente a riferirlo. Ecco perché ci era andato in carrozza, nonostante sembrasse strano che un giovane nobile solo non giungesse a cavallo. La carrozza si fermò al cancello e Kylar porse l'invito a Birt. L'uomo, naturalmente, non lo riconobbe. Si limitò a guardare attentamente l'invito e gli fece cenno di entrare. Kylar fu contento di vederlo. Se c'era ancora lui alla porta, significava che i Jadwin non avevano abbastanza guardie per sostituire quelle che avevano lavorato di mattina. Forse non avevano creduto a Elene. Dopo tutto, cosa poteva saperne una domestica degli intrighi di un sicario? Come mise piede fuori dalla carrozza, Kylar rimase di sasso. La carrozza davanti alla sua era aperta e ne stava uscendo un uomo sottile come un fuscello. Si trattava di Hu Gibbet, tutto in pelle e seta color cioccolata come un signore, lunghi capelli biondi scintillanti, e il sorriso sdegnoso di un uomo che si sente superiore. Kylar tornò in fretta a infilarsi nella propria carrozza. Allora era vero. Contò fino a dieci e, poi, per paura che il conducente si chiedesse cosa stesse facendo e attirasse l'attenzione su di lui, uscì dalla carrozza. Vide Hu scomparire all'interno della casa e lo seguì, mostrando nuovamente l'invito alle guardie ferme davanti alla gigantesca porta di quercia bianca. «Quindi hai avuto il permesso di quella vecchia capra?», chiese il principe Aleine.


Logan guardò l'amico all'altro lato del lungo tavolo, carico di ogni prelibatezza con cui i Jadwin pensavano di stupire i propri ospiti. Il tavolo era vicino a una delle pareti della grande sala di marmo e quercia bianca. Sullo sfondo monocromatico, i nobili erano macchie di colore. Diversi dei più influenti ecatonarchi del regno, sacerdoti delle centinaia di dei, si mescolavano con le loro vesti variopinte. Un gruppo di menestrelli dai mantelli e il trucco sgargianti sgomitavano per ottenere l'attenzione dei signori e delle dame di alto e basso rango. Terah Graesin si era presentata all'ultima grande festa, due settimane prima, con un abito rosso scandalosamente scollato e dall'orlo altissimo. Terah era ottava in linea di successione per il trono, dopo il principe, le ragazze Gunder, Logan e suo padre, il duca Graesin, e adorava l'attenzione che la sua posizione le garantiva. La sua audacia aveva dato il via a una nuova moda, perciò, quella settimana, tutti gli abiti erano rossi oppure mostravano più gambe o seno di quelli delle prostitute. Tutto ciò era perfetto per Terah Graesin, che riusciva, in qualche modo, a sembrare incantevole anziché dozzinale. La maggior parte delle donne non era così fortunata. «Ho parlato con il conte questa mat...», fece Logan, quando fu improvvisamente zittito dal passaggio di un seno. No, non semplicemente un seno. Il seno. Era perfetto. Perfettamente modellato, fluttuò davanti ai suoi occhi, racchiuso dall'abbraccio velato di un tessuto che gioiva per il fatto di cingere tali sublimi forme. Logan non vide neanche il viso della donna. La seguì con lo sguardo, preso dal dolce ondeggiare delle anche e da una breve apparizione di polpacci affusolati. «E?», chiese il principe. Guardava ansiosamente Logan, reggendo un piatto con piccoli assaggi di ogni prelibatezza che era sul tavolo. «Cosa ha detto?». Il viso di Logan si infiammò. Troppo tempo a fantasticare. Cercò di fare mente locale, sforzandosi di ricordare cosa stesse dicendo, con il piatto ancora vuoto, avendo rifiutato leccornie in fricassea, flambé o glassate. «Ha detto... ah, le mie preferite!». Logan cominciò a riempirsi il piatto di fragole e, presa una ciotola, la riempì di cioccolato fuso. «Non so perché ma sono sicuro che qualsiasi cosa abbia detto il conte Drake, non è stato "ah, le mie preferite!"», disse il principe Aleine, inarcando un sopracciglio. «Se ha detto di no, non devi esserne imbarazzato. Tutti sanno che il conte Drake è un po'


toccato. La loro famiglia si mescola alla gente comune». «Ha detto di sì». «Come dicevo», disse il principe. «È un po' toccato». Sorrise e Logan si mise a ridere. «Quando hai intenzione di dichiararti?» «Domani. fermarmi».

Sarà

il

mio

compleanno.

Allora

nessuno

potrà

«Serah lo sa?», domandò il principe. «Sospetta che presto potrei farlo, ma pensa che io abbia bisogno di un po' di tempo per consolidare la mia posizione e parlarne con i miei genitori, innanzitutto». «Bene». «Cosa volete dire?», chiese Logan. Erano arrivati alla fine del lungo tavolo. Il principe gli si avvicinò. «Volevo darti il mio regalo di compleanno. So che provi dei sentimenti per Serah e lo rispetto, ma, Logan, tu sei figlio di un duca. Domani sarai uno degli uomini più potenti del regno, secondo solo agli altri duchi e alla mia famiglia. Mio padre sarebbe felicissimo se tu sposassi Serah, ed entrambi sappiamo perché. Se tu la sposi, allontanerai la tua famiglia dal trono di due generazioni». «Vostra Altezza», disse Logan imbarazzato. «No, è vero. Mio padre ti teme, Logan. Susciti ammirazione, rispetto, perfino soggezione qui. Il fatto che tu manchi per sei mesi all'anno non ti ha fatto dimenticare, come sperava mio padre. Anzi, ti ha conferito un alone di romanticismo. L'eroe che va a combattere per i nostri confini, che tiene a bada i Khalidorani. Il re ti teme, ma io no, Logan. Le sue spie ti controllano e non riescono a credere che tu sia quello che sembri: uno studioso, un combattente e un leale amico del principe. Sono degli intriganti, perciò vedono solo intrighi. Io vedo un amico. Ci sono persone pronte a distruggere la tua famiglia, Logan, con ogni mezzo, e non mi diranno mai cosa hanno in mente... ma io non lo permetterò. Anzi, farò tutto quello che posso per impedirlo». Abbassò lo sguardo sul tavolo e prese un pezzetto di banana fritta da un piatto. «Sono qui stasera per fare un favore a mio padre. In cambio, ha promesso di darmi qualsiasi cosa io chieda. Qualsiasi». «Deve essere un grosso favore», disse Logan.


Il principe agitò una mano. «Re Stupido ha dato il gioiello preferito di mia madre alla sua amante. Sono venuto per riprendermelo. Non importa. Conosci mia sorella?» «Certo». Jenine era da qualche parte. Veniva generalmente definita "solare": molto carina e molto quindicenne. «È cotta di te, Logan. È innamorata di te da due anni. Parla continuamente di te». «State scherzando. Sì e no avrò scambiato due parole con lei». «E allora?», disse il principe. «É una ragazzina fantastica. É carina, e lo diventerà ancora di più, e ha l'intelligenza di mia madre... so quanto è importante per te questo, mio ingiurioso amico». «Non sono ingiurioso», protestò Logan. «Visto? Non so se lo sei o no. Ho semplicemente preso la parola più lunga che conosco. Ma Jeni lo saprebbe». «Cosa state dicendo, Vostra Altezza?» «Jenine è il tuo regalo di compleanno, Logan. Se la vuoi. Sposala. Basta che tu mi dia la tua parola». Logan era sbigottito. «Questo... questo sì che è un regalo di compleanno». «La tua famiglia ne trarrà vantaggio. I nostri figli cresceranno insieme. Una delle tue nipoti potrebbe dividere il trono con uno dei miei. Sei stato il miglior amico che un uomo potrebbe chiedere, Logan, e gli amici sono qualcosa di raro per molti principi. Voglio farti del bene. Sarai felice, lo prometto. Jenine sta diventando una splendida donna. Come credo tu abbia notato». Il principe fece un cenno con la testa. Logan la vide, allora, che lo guardava dall'altra parte della stanza, e si rese conto di averla già vista quella sera. O, per lo meno, il suo seno. Sentì il viso andargli in fiamme. Cercò di dire qualcosa, ma le parole lo avevano abbandonato. Jenine era lì, dall'altra parte della stanza, con l'eleganza di una donna molto più adulta, almeno fino a che uno dei suoi amici non le disse qualcosa e lei cominciò a ridacchiare. Il principe si mise a ridere. «Accetta e potrai fare tutte le cose che stavi immaginando un minuto fa. Legittimamente».


«Io, io...». La mascella di Logan finalmente si mosse. «Io sono innamorato di Serah, Vostra Altezza. Vi ringrazio per la vostra offerta, ma...». «Logan! Fa' a tutti un favore. Di' di sì. I tuoi genitori saranno sopraffatti dalla gioia. La tua famiglia sarà salvata. Jenine andrà in estasi». «Non glielo avete detto, vero?» «Certo che no. Ma pensaci. Serah è fantastica. Ma, siamo onesti, è molto graziosa, ma non è alla tua altezza, e sai cosa dicono di lei...». «È l'esatto contrario di una donna facile, Aleine. Mi ha solo baciato». «Ma le chiacchiere...». «Le chiacchiere sono dovute al fatto che la gente odia suo padre. Io la amo. Ho intenzione di sposarla». «Scusatemi», si intromise una giovane bionda. Scivolò tra loro e si strofinò contro il principe per prendere un pasticcino. Era uno scandalo in rosso. La frizione tra il suo petto e quello del principe le fece quasi uscire il seno fuori dalla scollatura, che era più vicina all'ombelico che al collo. Il principe lo notò, Logan lo vide. Ma succedeva sempre così. A entrambi. «Sono Viridiana», disse la ragazza, cogliendo lo sguardo del principe quando lo rialzò. «Mi dispiace così tanto, scusatemi». Non che si trattasse di scuse. Non che si trattasse di un incidente. Viridiana scivolò nella folla, mentre il suo corpo agile allontanava da Logan gli occhi e i pensieri del principe. «Be', uh, pensaci. Parliamone domani, prima che tu faccia la tua proposta», disse il principe, guardando Viridiana dirigersi verso il portico posteriore. La ragazza si guardò indietro e, nel vederlo, sorrise. Il principe guardò il proprio piatto, colmo di ogni leccornia presente sul tavolo. Poi, guardò il piatto di Logan, pieno di una sola cosa. «Questa, amico mio», disse, «è la differenza tra di noi. Se vuoi scusarmi, ho visto un piatto che devo assolutamente assaggiare». Logan sospirò. I suoi occhi caddero nuovamente su Jenine, che lo guardava ancora. Sembrava che i suoi amici la stessero incoraggiando ad andare a parlargli.


Dannazione. Dov'è Serah?


Capitolo 39 C’erano guardie a ogni rampa di scale. Non era una buona notizia. Kylar si era furtivamente fatto strada tra la gente, cercando di sembrare talmente ordinario da non meritare una seconda occhiata, ma non era facile. Soprattutto se doveva farlo tenendo d'occhio Hu Gibbet che, molto probabilmente, stava facendo la stessa cosa. Se Hu l'avesse visto, Kylar avrebbe perso l'unico vantaggio che aveva. Si diresse verso il portico posteriore. Normalmente, l'avrebbe evitato perché era affollato di coppie. Se c'era una cosa che poteva senz'altro farti sentire solo, era guardare altre persone baciarsi appassionatamente al chiaro di luna. Ora, però, Kylar cercava un modo per arrivare al secondo piano. Proprio sul portico si affacciava un balcone e, se fosse riuscito a trovare un modo, avrebbe potuto arrampicarsi senza dare nell'occhio. Certo, una volta al piano di sopra, avrebbe dovuto ancora trovare il ka'ka.ri, ma avrebbe scommesso fosse nella camera della duchessa. Alle persone piaceva tenersi stretti i propri gioielli preferiti. La parete non aveva graticci. Forse poteva spiccare un balzo dal corrimano e arrivare abbastanza in alto per afferrarsi al bordo del balcone, alto più di quattro metri. Probabilmente poteva farcela, ma doveva riuscirci al primo tentativo. Se fosse caduto, a nessuno sarebbe sfuggito il rumore che avrebbe fatto schiantandosi sui cespugli di rose. Tuttavia, è meglio che rimanere qui. Kylar fece un respiro profondo. «Kylar?». Era la voce di una donna. «Kylar, ciao. Cosa ci fai qui?». Kylar si voltò con aria colpevole. «Serah! Ciao». Sembrava che avesse passato l'intera giornata a prepararsi per la notte. Indossava un vestito dal taglio semplice, ma classico, bello e, ovviamente molto più costoso di quanto il conte Drake potesse permettersi. «Wow, Serah. Questo vestito...». Lei sorrise illuminandosi, ma solo per un momento. «Me lo ha dato la madre di Logan».


Kylar si girò e afferrò il corrimano. Dall'altra parte del fiume, al di là delle alte mura, le torri del castello brillavano alla luce della luna, vicine e irraggiungibili quanto la stessa Serah. Lei gli si avvicinò. Disse: «Sai che Logan ha intenzione di...». «Lo so». Serah gli toccò la mano. Lui si girò e si guardarono negli occhi. «Sono così confusa, Kylar. Voglio dirgli di sì. Credo di amarlo. Ma...». Lui la attirò bruscamente a sé, mettendole un braccio dietro alla schiena e una mano dietro al collo. La strinse e la baciò. Lei rimase senza fiato ma fu solo per un momento. L'istante dopo lo stava baciando anche lei. In lontananza, come dall'altra parte del fiume, da qualche parte nel castello, sentì una porta sbattere. Ma era talmente lontano che, di certo, era senza importanza. Poi, sentì Serah irrigidirsi tra le sue braccia e scostarsi da lui. Una mano colpì la spalla di Kylar. «Cosa diavolo stai facendo!», urlò Logan, facendo girare Kylar su se stesso. Da ogni angolino buio si sollevarono delle teste e il portico divenne silenzioso. Kylar vide tra esse la testa del principe. «Qualcosa che avrei dovuto fare un sacco di tempo fa», rispose Kylar. «Ti dispiace?» «Oh, merda», disse il principe. Fece per districarsi dalle braccia della giovane bionda che gli stava avvinghiata in una nicchia. Kylar diede nuovamente le spalle a Logan, come per baciare ancora Serah, ma Logan, con uno strattone, lo costrinse a girarsi. Kylar fu veloce a sferrare un pugno che colpì Logan alla mascella. L'omone, con gli occhi sbarrati, barcollò all'indietro. Serah si allontanò, terrorizzata, ma era già stata dimenticata. Logan si fece avanti, tenendo i pugni sollevati come un pugile. Kylar assunse una posizione da combattimento senza armi, quella del Vento tra i Pioppi. Logan partì e si batté come Kylar sapeva avrebbe fatto: onorevolmente. I suoi pugni erano tutti al di sopra della cintola. Diretti e ganci da manuale. Era veloce, molto più veloce di quello che sembrava, ma combattere secondo uno stile così legato alle


regole equivaleva a essere uno storpio. Kylar schivava i suoi pugni, scostandoli con la mano e piegandosi all'indietro. In pochi istanti si radunò una folla. Qualcuno gridò che c'era un combattimento e la gente cominciò a riversarsi all'esterno. Le guardie, piuttosto ammirevolmente, furono le prime a uscire. Si fecero avanti per fermarli. «No», disse il principe. «Lasciate che si battano». Le guardie si fermarono. Kylar ne fu talmente sorpreso da non schivare un pugno che lo lasciò senza fiato. Vacillò all'indietro mentre Logan avanzava, costringendolo contro la ringhiera. Kylar cercò di respirare affannosamente, bloccando con difficoltà i pugni dell'amico. Quando riprese fiato, la rabbia lo travolse. Neutralizzò un pugno mandandolo verso l'alto, piegò la testa e sferrò quattro rapidi colpi alle costole di Logan, scivolando via dalla ringhiera. Logan si girò e sferzò violentemente l'aria con una potente sventola, balzando contemporaneamente in avanti. Kylar cadde sotto il colpo e fece scattare un piede contro il bacino di Logan. Questi perse l'equilibrio e il pugno di Kylar lo colpì dritto al volto, mandandolo a terra. «Non alzarti», lo ammonì Kylar. Sulla folla cadde un attonito silenzio, seguito da mormorii. Non avevano mai visto niente di simile a quello che Kylar stava facendo ma, per quanto efficace, non era nobile dare calci mentre si boxava. A Kylar non importava. Doveva finirla immediatamente. Logan si mise carponi, poi in ginocchio, evidentemente per rialzarsi. Per gli dei, era proprio come nell'arena. Logan non sapeva quando doveva restare giù. Kylar gli sferrò un calcio alla tempia e Logan ricadde pesantemente a terra. Serah accorse al fianco di Logan. «Be', Serah, hai sempre voluto che ci battessimo. Sembra che io abbia vinto». Kylar le sorrise trionfante. La folla mormorò di disapprovazione. Serah lo schiaffeggiò con tanta foga da fargli sbattere i denti. «Non vali la metà di Logan». Si inginocchiò accanto al ferito e Kylar capì di aver cessato all'improvviso di far parte del suo mondo. Si sistemò la tunica e il mantello e si fece largo tra la folla. Le prime file indietreggiarono per farlo passare, quasi che, toccandolo, si sarebbero ricoperte di vergogna. Ma più si addentrava, più la


gente spingeva da dietro, ansiosa di vedere la lotta e ignara del fatto che fosse già finita. A pochi metri dalla porta, divenne solo uno dei tanti nobili tra la folla. Seguì un muro che portava alle scale della servitù, ora incustodite, e salì. Be', non si era trattato esattamente di un successo eclatante. Gli era costato la reputazione e molto probabilmente aveva rivelato la sua presenza a Hu Gibbet. Ma l'aveva portato sulle scale e, per ora, era tutto ciò che importava. Avrebbe potuto preoccuparsi delle conseguenze l'indomani. Il resto del lavoro sarebbe stato più facile. Doveva esserlo, giusto? Hu Gibbet era stato tentato di dirigersi verso le scale, quando le guardie le avevano abbandonate per interrompere la zuffa di qualche stupido nobile. Le scale incustodite erano una tentazione, ma aveva fiducia nelle sue capacità. Inoltre, il suo piano avrebbe funzionato ugualmente e gli sarebbe valso delle informazioni che, se fosse andato di sopra, non avrebbe avuto. Lady Jadwin era presso le porte che davano sul portico, sconvolta o fingendo di esserlo. Era uno di quei piccoli misteri della vita il fatto che il re l'avesse scelta come amante. C'erano senza dubbio donne più attraenti che avrebbero dormito con un re, perfino con quel re. Lady Jadwin era la prova vivente dei rischi dei matrimoni tra consanguinei. Era una donna alta con una faccia cavallina, abbastanza grossa e vecchia da adattarsi all'abito che indossava quella sera, e nota per essere sessualmente vorace di chiunque nel regno - a eccezione di suo marito. Hu Gibbet immaginò che il suo malessere fosse una scena. Lady Jadwin era una donna appassionata, ma generalmente impassibile. Quello sarebbe stato probabilmente il suo pretesto per andare di sopra. Ecco. La donna disse qualche parola a una delle sue guardie, poi andò a scusarsi con gli ospiti che rifluivano dall'esterno, gran parte dei quali delusa per essersi persa il divertimento. La guardia, possedendo la sottigliezza in genere richiesta dal suo ruolo, andò direttamente dall'uomo che aveva appena ripreso il proprio posto davanti alle scale della servitù. Gli si accostò e sussurrò un ordine. L'uomo annuì. Nel frattempo, la duchessa aspettò fino a che il principe non fece il suo ingresso dalla porta. Gli parlò brevemente e cominciò a fingere più angoscia, mentre lui si


liberava dalla giovane bionda appesa al suo braccio. Dopo un po', la duchessa si scusò, disse a suo marito di non sentirsi bene, rifiutò quella che doveva essere un'offerta di mandare qualcuno con lei, e si incamminò su per la scalinata principale da sola. Senza dubbio, gli aveva detto che aveva solo bisogno di stendersi un po'. «Goditi la festa, caro», doveva aver detto, o qualcosa del genere. Il principe fu più circospetto, ma non difficile da seguire. Si fece strada fino al tavolo dei rinfreschi, chiacchierò gentilmente con alcune dame, si scusò e andò al gabinetto, che si trovava proprio vicino alle scale della servitù. Emerse dal corridoio buio qualche minuto più tardi, controllò rapidamente che nessuno lo stesse guardando, e oltrepassò la guardia che finse di non vederlo. Hu tallonò il principe, ammantandosi di ombre. La guardia era così impegnata a non vedere il principe che il sicario sarebbe riuscito a passare ugualmente. Le scale della servitù davano sul corridoio principale, nei pressi delle camere del duca. Il pavimento era dello stesso marmo bianco, coperto, al centro, da un tappeto rosso, che andava da un'ala a quella opposta, dove si trovavano le stanze della duchessa. Le luci erano fioche, una sorta di segnale per dirottare gli ospiti, che potevano aver preso parte a feste passate in cui erano accessibili entrambi i piani. Kylar non aveva idea di quanto tempo avesse per prendere il Globo, ma era certo che più in fretta avesse fatto meglio sarebbe stato. Considerò l'idea di non essere stato l'unico ad aver colto l'opportunità offerta dalle scale incustodite. Hu Gibbet poteva già essere di sopra. L'unico vantaggio che Kylar aveva - sperava - era che probabilmente Hu non avrebbe commesso solo un furto. Probabilmente avrebbe ucciso qualcuno. Se quello fosse stato lo scopo di Kylar, il modo più semplice sarebbe stato aspettare fino a che la duchessa non avesse consegnato il ka'kari all'agente del re, chiunque fosse, e poi ucciderli entrambi. In quel modo, Hu avrebbe soddisfatto la sua sete di sangue, e ucciso le due persone che sapevano per certo cosa era successo. Il re non avrebbe saputo se il gioiello fosse stato rubato o meno, e non avrebbe potuto in


nessun modo fare domande senza rendere pubblico il fatto che lady Jadwin fosse la sua amante. Se la sua ipotesi era esatta, Kylar aveva tempo fino a che lady Jadwin non fosse salita al piano di sopra per consegnare il ka'kari. Poteva trattarsi di un'ora come di due minuti. A metà strada nel corridoio, una guardia stava avanzando nella sua direzione. Kylar indietreggiò verso l'angolo, dove l'ombra era più fitta. Ma poi la guardia si girò e si avviò verso la scalinata. Era l'opportunità di Kylar. Avanzò velocemente, senza neanche tentare di essere furtivo. Sentì il petto serrarsi passando davanti all'unica zona ben illuminata del corridoio. Il ballatoio in cima alle scale era inondato di luce ma, con sei passi, lo sguardo ben fisso davanti a sé, lo oltrepassò. Lungo il corridoio erano allineate sculture inquietanti ed eccellenti dipinti. Se non ricordava male, il duca era una sorta di artista. I quadri intensi ed eterogenei erano stati evidentemente scelti da un uomo dotato di occhio esperto e borsa capiente. Per quanto ugualmente sorprendenti, le sculture erano senza dubbio il prodotto di una visione unica. Figure sofferenti sembravano distaccarsi dalla roccia. Una donna nell'atto di cadere si guardava indietro con il terrore scolpito in ogni suo tratto. Un uomo si scagliava contro una nuvola di marmo nera che avvolgeva le sue mani. Una donna nuda era distesa in una posa erotica nella nuvola che la divorava, il viso in preda all'estasi. Nonostante la fretta che aveva, Kylar indugiò davanti alla scultura. Era davvero bella. Devastante. Mescolava sensualità e qualcosa di inquietante che non riusciva a definire. Si trattava innegabilmente di Elene. Ecco come stanno le cose, allora. Kylar sentì qualcosa lacerargli lo stomaco. Gli sembrò vuoto, infiammato. È ovvio, dorme con lui. Lui è un duca; lei è una serva ed è difficile dire di no. Anche se lo volesse. Ma forse non è così. Succede sempre. Guardò la statua da vicino, dando uno sguardo frettoloso alle docili membra, alla vita stretta e ai seni alti - e trovò quello che cercava. Nonostante le avesse dato un naso perfetto, con il più piccolo degli sgarzini, il duca aveva accennato alle cicatrici sul volto della ragazza. Quindi quell'uomo non le vedeva come semplici imperfezioni. Era interessato al mistero sottostante.


Questo non è il momento per apprezzare l'arte, dannazione a te. Con un groppo in gola, Kylar procedette lungo il corridoio saltellando in punta di piedi. Prese la borsa che teneva sulla schiena e ne tirò fuori gli strumenti non appena giunse davanti alla porta. Dalla camera non provenivano luci o suoni, quindi si dedicò subito alla serratura. Aveva solo tre molle per cui si aprì in tre secondi. Kylar entrò e richiuse la porta dietro di sé. Se Hu fosse arrivato, avrebbe avuto un preavviso di tre secondi prima dell'entrata del sicario. Kylar estrasse il pugnale che teneva legato in fondo alla schiena. La lama era lunga una trentina di centimetri e Kylar desiderò qualcosa dieci volte più grande se gli fosse toccato battersi con Hu, ma quello era il meglio che aveva potuto portare con sé. Fece una veloce ricognizione della stanza. La maggior parte delle persone, conscia del numero di difficoltà già presenti nella vita di un ladro, era abbastanza gentile da usare gli stessi nascondigli. Kylar controllò i materassi, i quadri, perfino il pavimento sotto la cassettiera e sotto diverse sedie alla ricerca di botole. Niente. Controllò i cassetti dello scrittoio in cerca di doppi fondi. Ancora niente. Gran parte delle persone che possedeva oggetti di grande valore, voleva poterli controllare senza troppe seccature, perciò Kylar neanche entrò nell'enorme guardaroba. A meno che la duchessa Jadwin non si sentisse a suo agio nel consegnare il suo oggetto più prezioso a una serva, il Globo doveva trovarsi in un posto facile da raggiungere. Non aiutava il fatto che la duchessa sembrasse una collezionista. C'erano ninnoli ovunque. E fiori, probabilmente portati per il ritorno del duca, spuntavano da ogni superficie piana della stanza, impedendo la visuale di Kylar. Dunque il duca portava fiori a sua moglie. E, dall'odore muschiato nell'aria e dalle coperte disfatte sul letto, sembrava avesse ricevuto un entusiastico bentornato. Poi, uno dei vasi attirò l'attenzione di Kylar. Era di giada, riccamente scolpito, ma, cosa ben più importante, aveva una base quadrata. Kylar lo prese dallo scrittoio. Rose, roselline e gigli tigrati si allungavano in ogni direzione. Ignorando i fiori, portò il vaso vicino al camino e spostò da una parte un cofanetto di legno duro. C'era una rientranza nella pietra della mensola del camino. Una


rientranza quadrata. Kylar provò un impeto di speranza. Il profeta aveva ragione. La base si adattava alla rientranza e Kylar girò il vaso; si sentì un clic smorzato. Tolse dalla mensola tutte le chincaglierie e le posò a terra. Su cardini invisibili, l'intera struttura del camino si aprì. Ignorando i documenti e i lingotti d'oro, Kylar agguantò lo scrigno dei gioielli. Era grande, grande abbastanza da contenere il Globo. Lo aprì. Vuoto. Digrignando i denti, Kylar ripose il cofanetto e chiuse il camino. Dunque questa era la lezione che gli riservava la profezia. «Un vaso quadrato ti darà speranza», aveva detto Dorian. Non aveva detto che si sarebbe rivelata una falsa speranza. Dannazione! Kylar si soffermò abbastanza a lungo per sistemare un ago a pinza in una piccola trappola, nel caso Hu fosse entrato lì dentro invece di seguire la duchessa. Mentre rimetteva a posto le cianfrusaglie e posava nuovamente il vaso sullo scrittoio, Kylar si sforzò di pensare. Dove poteva essere? Tutto ciò che quella sera poteva andare storto, era andato storto. L'unica cosa positiva era il fatto di non aver visto Elene. Elene! La sensazione greve nello stomaco disse a Kylar che sapeva esattamente dove trovare il ka'kari.


Capitolo 40 Non appena giunto in cima alle scale, il principe sentì delle mani afferrarlo. Un istante dopo, lady Jadwin premeva le labbra bollenti contro le sue. Stringendosi a lui, lo costrinse a indietreggiare fino a schiacciarlo contro la porta degli appartamenti del duca. Lui cercò di respingerla, ma lei si sporse e tirò il chiavistello. Il principe fu sul punto di cadere quando la porta si aprì alle sue spalle. Lady Jadwin la richiuse e la fermò nuovamente con il chiavistello. «Mia signora», disse il principe. «Fermatevi. Vi prego». «Oh, sì, mi fermerò», disse lei. «Quando sarò soddisfatta. O, dovrei dire, dopo che voi mi avrete soddisfatta». «Ve l'ho detto, abbiamo chiuso. Se mio padre scoprisse...». «Oh, al diavolo vostro padre. È un imbecille dentro e fuori il letto. Non lo saprà mai». «Vostro marito è proprio qui sotto... a ogni modo, non importa, Trudana. Sapete perché sono qui». «Se vostro padre rivuole il suo globo, può venire a prenderselo da solo», ribatté lei. Gli mise la mano sulla patta dei calzoni. «Sapete che non può venire a trovarvi qui», disse il principe. «Sarebbe un oltraggio a mia madre». «È stato lui a darmelo. Era un regalo». «È magico. Mio padre pensava fosse una semplice pietra, ma Khalidor lo ha preteso. Perché lo avrebbe fatto se non fosse... no!». Le allontanò bruscamente la mano mentre la donna cercava di slacciargli i pantaloni. «So che vi piace», disse la duchessa. «Mi piace. Ma tra noi è finita. É stato un errore e non succederà mai più. E poi Logan mi sta aspettando di sotto. Gli ho detto quello che dovevo fare». La bugia venne fuori facilmente. Qualunque cosa per sfuggire a quella donna. La cosa peggiore era quanto gli fosse piaciuta. Poteva essere brutta ma era molto più abile di quasi tutte le donne che si era portato a letto. Eppure, svegliarsi e vedere lei come prima cosa la mattina era più di quanto potesse sopportare.


«Logan è vostro amico», disse lei. «Capirà». «É un grande amico», disse il principe. «Ma vede le cose in bianco e nero. Sapete quanto l'abbia messo a disagio il fatto di vedermi salire quassù con l'amante di mio padre? Ho bisogno che prendiate la gemma. Adesso». A volte non poteva che ringraziare gli dei per il fatto che Logan fosse un noto moralista. «Bene», rispose lei stizzita. «Dov'è? Vostro marito potrebbe arrivare da un momento all'altro». «Mio marito è tornato appena oggi». «E allora?» «Allora, nonostante tutto, il maiale è fedele, perciò brucia letteralmente di passione ogni volta che torna da un incarico diplomatico. É giù di sotto che si riprende. Povero caro, credo di averlo sfinito». Scoppiò in una risata rauca e cinica. «Non facevo che pensare che foste voi...». Con quello che probabilmente voleva essere uno sguardo seducente, scrollò le spalle e il vestito le scivolò giù sul davanti. Andò a strusciarsi contro il corpo di lui e cominciò nuovamente a tirare i lacci che tenevano chiusi i pantaloni del principe. «Trudana, per favore. Copritevi. Dov'è?». Non rivolse neanche uno sguardo al corpo di lei e capì che la cosa l'aveva fatta infuriare. «Come dicevo», disse infine la donna. «Sapevo che sareste stato qui questa sera, perciò ho dato il globo alla mia domestica. É due porte più avanti. Siete soddisfatto?». Si tirò su il vestito e andò a guardarsi allo specchio. Il principe si voltò senza dire nulla. Aveva pensato che sarebbe stato facile, che avrebbe reso suo padre debitore di un grosso favore senza fare praticamente niente. In quel momento capì che Trudana sarebbe stata sua nemica per sempre. Mai più, promise a se stesso. Non andrò mai più a letto con una donna sposata. Non fece necessario a caso al rumore del cassetto che si apriva. Non voleva guardare Trudana. Non voleva nemmeno rimanere il tempo necessario a riallacciarsi i calzoni. Un secondo di più era un secondo di troppo. La sua mano era sul chiavistello quando sentì il passo rapido di lei. Poi qualcosa di bollente gli trafisse la schiena. Fu come una puntura di vespa. Allora il corpo di Trudana lo schiacciò e lui sentì la


puntura penetrare più a fondo. Batté la testa contro la porta che aveva davanti e sentì nuovamente la trafittura. Non era una puntura. Era troppo profonda. Rimase senza fiato mentre un rumore assordante gli riempiva le orecchie. Uno dei suoi polmoni aveva qualcosa che non andava. Non respirava bene. Una nuova pugnalata e il rumore scomparve. Il mondo assunse un'allarmante chiarezza. Era stato pugnalato a morte. Da una donna. Era imbarazzante, sul serio. Lui era il principe. Era uno dei migliori spadaccini del regno e quella vecchia con il sederone e il seno cascante lo stava uccidendo. Lei gli respirava praticamente nelle orecchie, in quello stesso modo affannoso di quando facevano l'amore. E parlava, gridando come se ogni colpo in qualche modo facesse male a lei. Quella puttana vittimista. «Oh, mi dispiace, oh, oh, mi dispiace. Voi non sapete com'è. Devo farlo devo farlo devo farlo». I colpi continuarono e la cosa lo irritò. Stava già morendo, i polmoni gli si stavano riempiendo di sangue. Tossendo, cercava di liberarli, ma non faceva che spruzzare sangue sulla porta. I suoi polmoni erano ormai maciullati e il sangue vi rientrava da ogni ferita. Si accasciò, batté le ginocchia contro la porta e lei finalmente si fermò. Cominciava a vedere tutto nero e la faccia gli ricadde mollemente in avanti. L'ultima cosa che vide, attraverso il buco della serratura, fu un occhio dall'altro lato che, impassibile, lo guardava morire. Trovò la porta senza alcun problema. Era chiusa a chiave, ma riuscì a scassinarla in pochi secondi. Fa' che stia dormendo. Ti prego. Aprendo adagio la porta della stanzetta, Kylar si ritrovò a guardare un'enorme mannaia. Sorretta da Elene, la quale era parecchio sveglia. Al buio, Elene ovviamente non lo riconobbe. Sembrava combattuta tra l'impulso di gridare e quello di menargli un fendente. I suoi occhi fissarono il pugnale che lui aveva in mano. Decise di fare entrambe le cose. Colpendole le mani con il piatto del pugnale, Kylar le fece volar


via la mannaia. Scansò una mano che cercava di ghermirlo e, in un attimo, le andò alle spalle, mettendole una mano sulla bocca. «Sono io. Sono io!», disse, contorcendosi per schivare le gomitate di lei. Non poteva tenerle una mano sulla bocca e contemporaneamente bloccarle le braccia, e fermare i calci che cercava di sferrargli all'inguine. «Zitta o la tua padrona muore!». Non appena sembrò che Elene riacquistasse il buonsenso, Kylar la lasciò andare. «Lo sapevo!», disse, furiosa ma senza urlare. «Sapevo che non potevo fidarmi di te. Sapevo che saresti stato tu». «Voglio dire che la tua padrona morirà perché tutto questo chiasso attirerà qui il sicario». Silenzio, poi: «Oh». «Sì». Nella stanza fiocamente illuminata dalla luna, Kylar, pur non potendo esserne certo, pensò di vederla arrossire. «Avresti potuto bussare», disse lei. «Scusa. Una vecchia abitudine». D'un tratto a disagio, Elene raccolse la mannaia dal letto e la nascose sotto il cuscino. Abbassando lo sguardo sulla propria camicia da notte, deludentemente casta, sembrò imbarazzata. Afferrò una vestaglia e gli diede le spalle mentre la indossava. «Rilassati», la tranquillizzò Kylar quando la ragazza si girò nuovamente. «È un po' tardi per il pudore. Ho visto la tua statua. Stai bene nuda». Perché aveva detto quell'ultima cosa che la faceva sembrare una puttana? Anche se dormiva con il duca, che scelta poteva avere? Era una serva in casa di quell'uomo. Non era giusto, eppure Kylar si sentiva tradito. Elene si piegò come se lui l'avesse colpita allo stomaco. «L'avevo supplicata di non metterla in mostra», disse Elene. «Ma lei ne era così orgogliosa. Ha detto che avrei dovuto esserne orgogliosa anch'io». «Lei?» «La duchessa», spiegò Elene. «La duchessa?», ripeté stupidamente Kylar. Non il duca. Non il duca? Si sentì d'un tratto enormemente sollevato e più confuso che mai. Perché mai doveva sentirsi sollevato? «Pensavi che avessi posato nuda per il duca?», gli chiese. «Cosa credi, che sia la sua amante?». Gli occhi le si dilatarono quando


vide l'espressione sul volto di Kylar. «Be'...». Kylar si sentì come se l'avesse accusata ingiustamente, poi si infuriò perché lei lo stava facendo sentire imbarazzato per aver tratto quella conclusione, infine si arrabbiò per il fatto di perdere tempo a parlare con una ragazza mentre là fuori probabilmente c'era un sicario in agguato. Questa è follia. «Succede», disse, mettendosi sulla difensiva. Perché sto facendo questo? Per la stessa ragione per cui la guardo da tanto. Perché sono inebriato da lei. «Non con me», disse Elene. «Vuoi dire che sei...». Stava cercando di sembrare malizioso, ma la voce gli venne meno. Perché voleva sembrare malizioso? «Vergine? Sì», finì lei, senza imbarazzo. «E tu?». Kylar serrò la mascella. «Io... ascolta, c'è un assassino qui». Elene sembrò sul punto di commentare il fatto che Kylar avesse eluso la domanda, poi il suo sguardo si incupì. «Due», disse pacatamente. «Cosa?» «Due assassini». Si riferiva a lui. Kylar fece di sì con la testa, nuovamente con un groppo in gola, e, all'improvviso, provò vergogna per ciò che era. «Sì, due. Ho visto Hu entrare, Elene. Il Globo è al sicuro?». Le stava guardando gli occhi. Come previsto, guizzarono verso il punto in cui era nascosto: in fondo al suo armadio. «Sì», rispose lei. «E...». La voce le morì in gola. «Tu vuoi rubarlo». «Mi dispiace», ammise Kylar. «E ora sai dove l'ho nascosto. Mi hai ingannata». Era ingenua, ma non stupida. «Sì». L'ira montò nei suoi occhi marroni. «C'è davvero un assassino o era tutta una bugia?» «C'è davvero. Ti do la mia parola», disse Kylar, distogliendo lo sguardo. «Per quello che vale».


Toccato. «Mi dispiace, Elene, ma devo farlo». «Perché?» «É difficile da spiegare». «Ho passato tutto il giorno a vergognarmi di tutto quello che ti avevo scritto. Ho passato tutto il giorno a sentirmi orribile per tutto quello che avevi dato per me. Non ho neanche detto alle guardie che stavi venendo perché pensavo... pensavo... Sei davvero un campione, Kylar», disse Elene. «Immagino che Azoth sia davvero morto». Non così. Non così. «Devo prenderlo, davvero», disse lui. «Non posso lasciartelo fare». «Elene, se rimani qui penseranno che mi hai aiutato. Se Hu non ti uccide, potrebbero farlo i Jadwin. Potrebbero gettarti nella Fauce. Elene, vieni via con me. Non potrei più vivere con me stesso se lo facessero». «Ci riuscirai. Prenderai un nome nuovo. Elargirai denaro a chiunque ti faccia sentire colpevole». «Ti uccideranno!». «Non ripagherò il bene con il male». Non aveva più tempo ormai. Doveva uscire di lì. Kylar sospirò. Dunque quella notte tutto sarebbe andato per il peggio. «Allora mi dispiace per quello che sto per fare», disse. «Ma è per salvarti». «Cosa?», chiese Elene. Kylar le sferrò due pugni. Uno sulla bocca, forte abbastanza da farla sanguinare. E uno sui suoi bellissimi, penetranti occhi, in modo che sarebbero diventati neri e così gonfi da non permetterle di vedere quello che lui avrebbe fatto. Elene barcollò all'indietro e Kylar, dopo averla fatta girare su se stessa, le serrò la gola con le mani. La ragazza si dimenò inutilmente per sfuggire alla sua presa, pensando che avesse intenzione di ucciderla. Ma lui si limitò a trattenerla e a infilarle un ago nel collo. In pochi secondi, Elene perse conoscenza. Non mi perdonerà mai per questo. Non mi perdonerà mai per questo. Kylar la adagiò a terra ed estrasse un coltello. Si praticò un


taglio sulla mano e fece gocciolare il sangue sul viso di Elene, per far sembrare che fosse stata percossa. Era disgustoso, e il contrasto della bellezza di lei con la bruttezza di ciò che lui stava facendo insolitamente lo nauseò. Ma andava fatto. Lei doveva sembrare una vittima. Guardarla lì a terra, svenuta, fu come ingoiare il boccone amaro della sua attività. L'amarezza del lavoro era la verità del lavoro. Perfino in quel frangente, in cui non aveva ucciso, in cui non aveva dovuto immergersi nei grevi odori della morte, Kylar aveva chiuso quegli occhi che vedevano la sua verità, oscurato quegli occhi di luce che illuminavano le tenebre in lui, aveva insanguinato e accecato quegli occhi che lo penetravano. Chi dice che non ci sono poeti in un'attività amara? Per finire, Kylar dispose adeguatamente scomposto.

le

membra

di

Elene

in

modo

Il ka'kari argenteo era infilato in una pantofola sul fondo dell'armadio. Kylar lo raccolse per esaminarlo alla luce della luna, i trattava di una semplice sfera metallica, totalmente anonima. In verità, fu un po' deludente. Nonostante lo splendore metallico, era traslucido, il che rappresentava una novità. Kylar non aveva mai visto nulla di simile, ma aveva sperato che il ka'kari facesse qualcosa di spettacolare. Infilò la sfera in una piccola sacca e fece per andare alla porta. Fin qui tutto bene. Be', in realtà fino ad allora quella sera era stata un totale disastro. Ma uscire sarebbe stato relativamente semplice. Se non avesse potuto sgattaiolare dietro la guardia in fondo alle scale della servitù, le sarebbe passato davanti facendo finta di cercare il gabinetto, e di averne così tanto bisogno da andare nel primo disponibile. La guardia lo avrebbe avvertito che quel piano non era a disposizione degli ospiti, Kylar avrebbe riposto che sarebbe stato necessario mettere delle guardie ai piedi delle scale se non volevano che nessuno salisse; la guardia sarebbe stata mortificata e Kylar se ne sarebbe andato a casa. Non un sistema infallibile ma, visto come stavano andando le cose, quella sera Kylar avrebbe diffidato di qualunque cosa fosse infallibile. Guardando dal buco della serratura, osservò il corridoio e si mise in ascolto per una trentina di secondi. Non c'era niente là fuori. Nell'attimo in cui aprì la porta, qualcuno sferrò un calcio sovrumano dall'altro lato. La porta lo colpì, prima in faccia poi su una spalla, respingendolo bruscamente nella stanza.


Per poco riuscì a mantenersi in piedi ma, sbalzato all'indietro, inciampò nel corpo svenuto di Elene e cadde pesantemente a terra. Scivolò sul pavimento di pietra fino a che la sua testa non entrò in collisione con la parete. A malapena in sé, con stelle nere che gli esplodevano davanti agli occhi, Kylar doveva aver estratto i due pugnali per puro istinto, perché le sue mani protestarono di dolore quando le lame gli vennero fatte saltare via. «Ragazzo?». Kylar dovette strizzare diverse volte le palpebre prima di tornare a vedere. Quando gli si schiarì la vista, la prima cosa che vide fu la punta di un coltello a pochi centimetri dagli occhi. La seguì fino al braccio rivestito di grigio e al corpo incappucciato. Stordito, Kylar si chiese perché non fosse morto. Ma prima ancora che Hu si tirasse indietro il cappuccio, Kylar capì. Momma K li aveva traditi. Lo aveva mandato a uccidere l'uomo sbagliato. «Mastro Blint?», chiese.


Capitolo 41 «Cosa stai facendo?». Mastro Blint assestò un sonoro manrovescio a Kylar. Era in piedi, furibondo mentre gli illusori tratti di Hu Gibbet svanivano come fumo. Kylar si rialzò faticosamente, con la testa che ancora gli girava e le orecchie che ronzavano. «Dovevo... voi eravate andato...». «Andato a progettare questo!», sussurrò rauco Blint. «Andato a progettare questo! Non importa adesso. Abbiamo tre minuti prima del prossimo giro di guardia». Diede un colpetto al corpo abbandonato di Elene con la punta del piede. «Questa è ancora viva», disse Durzo Blint. «Uccidila. Poi va' a cercare il ka'kari mentre io penso alla vittima. Parleremo della tua punizione più tardi». Sono arrivato troppo tardi. «Avete ucciso la duchessa?», chiese Kylar, strofinandosi la spalla nel punto in cui la porta lo aveva colpito quando Durzo aveva fatto irruzione. «La vittima era il principe. Qualcun altro è arrivato prima». Sulle scale rimbombavano degli stivali. Durzo sguainò Retribution e controllò il corridoio. Per gli dei, il principe? Kylar guardò la ragazza svenuta. La sua innocenza era irrilevante. Anche se non la uccideva, avrebbero pensato che l'avesse aiutato a rubare il ka'kari e a uccidere il principe. «Kylar!». Kylar alzò lo sguardo, confuso. Sembrava un brutto sogno. Non poteva succedere davvero. «Ho già...». Allungò la mano con il sacchetto. Accigliato, Durzo gliela strappò via e la capovolse. Il Globo delle Lame gli cadde in mano. «Dannazione. Proprio quello che pensavo», disse. «Cosa?», chiese Kylar. Ma Durzo non era nello stato d'animo adatto per rispondere a delle domande. «La ragazza ti ha visto in faccia?». Il silenzio di Kylar fu eloquente. «Occupatene. Kylar, non è una richiesta. È un ordine. Uccidila».


Spesse cicatrici bianche attraversavano quello che un tempo era stato un bellissimo viso. I suoi occhi si stavano gonfiando, circondati da un alone nerastro... colpa di Kylar tanto quanto quelle cicatrici vecchie di dieci anni. «L'amore è un cappio», gli aveva detto Blint quando aveva iniziato il suo apprendistato un decennio prima. «No», disse Kylar. Durzo si voltò a guardarlo. «Cosa hai detto?». Sangue nerastro gocciolava da Retribution, raccogliendosi in una pozza sul pavimento. C'era ancora tempo per fermarsi. Tempo per obbedire e vivere. Ma se avesse lasciato che Elene morisse, Kylar si sarebbe perso nelle tenebre per sempre. «Non la ucciderò. E non lo lascerò fare a voi. Mi dispiace, maestro». «Hai una qualche idea di cosa significhi questo?», scattò Durzo. «Chi è questa ragazza che merita di essere inseguita per il resto della tua breve...». Si fermò. «É Bambola». «Sì, maestro. Mi dispiace». «Per gli Angeli della Notte! Non voglio scuse! Voglio obbedien...». Durzo alzò un dito per intimare il silenzio. Il rumore dei passi ora era vicino. Il sicario spalancò la porta e irruppe nel corridoio con una velocità sovrumana, mentre Retribution mandava bagliori argentei nella luce fioca. La guardia cadde con due colpi. Si trattava di Stumpy, la guardia più anziana che aveva perquisito Kylar quando, quella mattina, aveva fatto una ricognizione del posto. La lanterna del corridoio alle spalle di Durzo avvolse nell'oscurità il figlio prediletto delle tenebre, gettando la sua sagoma su Kylar, e rendendo il volto del maestro invisibile. In controluce, sangue nero gocciolava dalla punta di Retribution. Plic, plic. Kylar sentì la voce di Durzo dura come l'acciaio. «Kylar, questa è la tua ultima occasione». «Sì», disse Kylar. Il suo pugnale sibilò contro il fodero mentre si girava verso l'uomo che lo aveva allevato, che era stato più di un padre per lui. «Lo è». Si sentì qualcosa di metallico rotolare sul marmo. Andava verso


Kylar. Il ragazzo allungò una mano e sentì il ka'kari sbattere contro il suo palmo aperto. Capovolse la mano e vide il ka'kari bruciare di azzurro brillante, incandescente. Era attaccato al suo palmo. Mentre lo guardava, sulla superficie del globo si accesero le rune. Si spostavano, mutavano, come se stessero cercando di parlargli. La luce azzurra gli inondava il viso; Kylar riusciva a vedere attraverso il ka'kari. Gli stava risucchiando il sangue dal taglio che aveva sul palmo. Alzò lo sguardo e vide lo sgomento sul volto di Mastro Blint. «No! No, è mio!», strillò Blint. Il ka'kari si sciolse in una pozza d'olio nero in un istante. La luce azzurra esplose come una supernova. Poi arrivò il dolore. Il freddo sulla mano di Kylar si trasformò in pressione. Sembrava che la mano gli si stesse lacerando. Guardando con orrore l'informe poltiglia incandescente, Kylar vide che si stava restringendo. Gli stava penetrando la mano. Kylar sentì il ka'kari entrargli nel sangue. Ogni vena si gonfiò e si contorse, congelandosi mentre il ka'kari lo attraversava. Non avrebbe saputo dire quanto durò. Sudava e tremava. Sudava freddo. Poco a poco, il freddo abbandonò le sue membra. Sempre gradualmente, il calore lo sostituì. Forse dopo pochi secondi, forse mezz'ora dopo, Kylar si ritrovò a terra. Stranamente, si sentiva bene. Perfino a faccia in giù sulla pietra, si sentiva bene. Totalmente. Come se un divario fosse stato colmato, un buco fosse stato riempito. Sono un ka'karifero. Sono nato per questo. Poi ricordò. Alzò gli occhi. Dall'espressione di muto orrore sul volto di Durzo, il tutto doveva essere durato solo pochi secondi. Kylar balzò in piedi, sentendosi più forte, più in salute, più pieno di energie di quanto non lo fosse mai stato. L'espressione di Durzo non era di rabbia. Era dolore. Perdita. Kylar rigirò lentamente la mano. La pelle era ancora tagliata sul palmo ma non sanguinava più. Il ka'kari sembrava essere penetrato... No. Non poteva. Da ogni poro, un liquido nero stillava simile a sudore. Si rapprese. Un momento dopo, il ka'kari era nel suo palmo. Una strana gioia riempì Kylar. Seguì la paura. Non era sicuro che


la gioia fosse tutta sua. Era come se il ka'kari fosse contento per averlo trovato. Guardò nuovamente Durzo, sentendosi stupido, talmente impreparato da non sapere cosa fare. Fu allora che si accorse di riuscire a vedere chiaramente il volto di Durzo. L'uomo era ancora fermo nel corridoio, con la lanterna dietro di sé. Un momento prima - prima del ka'kari - la sua faccia era stata del tutto invisibile. Kylar vedeva ancora le ombre proiettarsi a terra dove Durzo bloccava la luce, ma riusciva a vedere attraverso esse. Era come guardare attraverso un vetro. Sapevi che il vetro c'era, ma ciò non impediva la visuale. Kylar si guardò intorno nella stanzetta di Elene e vide lo stesso effetto applicarsi a tutto ciò che osservava. Ora le tenebre davano il benvenuto ai suoi occhi. La sua vista era più acuta, più nitida... riusciva a vedere oltre, riusciva a vedere il castello dall'altra parte del fiume come se fosse pieno giorno. «Devo avere il ka'kari», disse Durzo. «Se non l'avrà, ucciderà mia figlia. Che gli Angeli della Notte abbiano pietà, Kylar, cosa hai fatto?» «Non sono stato io! Non ho fatto niente!», esclamò Kylar. Gli porse il ka'kari. «Prendetelo. Potete tenerlo. Riprendetevi vostra figlia». Durzo lo prese. Guardò il ragazzo negli occhi e con la voce afflitta disse: «L'hai vincolato. A vita, Kylar. Ora il tuo Talento funzionerà, che tu tenga il ka'kari o meno, ma gli altri suoi poteri non funzioneranno per nessun altro fino alla tua morte». Si sentì un rumore di passi che salivano su per le scale. Qualcuno doveva aver sentito lo strillo di Durzo. Kylar doveva andarsene. Il senso delle parole di Durzo aveva appena cominciato a essere chiaro. Durzo si girò per affrontare chiunque stesse salendo e le parole del profeta riecheggiarono nelle orecchie di Kylar. «Se non uccidi Mastro Blint domani, Khalidor prenderà Cenaria. Se non lo uccidi il giorno dopo, tutti quelli che ami moriranno. Se fai la cosa giusta una volta, ti costerà anni di rimorso. Se fai la cosa giusta due volte, ti costerà la vita». Il pugnale era nella sua mano. Durzo gli dava le spalle. Kylar poteva finirla subito. Neanche i riflessi di Durzo potevano fermarlo se gli era così vicino. Avrebbe significato fermare un'invasione, salvare quelli che amava... senz'altro significava avere tra le mani


la vita di Elene in quel momento. Quella di Logan. Forse quella dei Drake. Forse l'intera invasione dipendeva da questo. Forse centinaia o migliaia di vite erano ora in bilico sulla punta del suo pugnale. Un colpo veloce, indolore, e Durzo sarebbe morto. Non aveva detto che la vita era vuota, senza valore, senza senso e misera? A perdere la vita non avrebbe perso niente di prezioso, lo aveva giurato. Durzo l'aveva detto, e più di una volta, ma Kylar non gli aveva mai davvero creduto. Momma K aveva già pugnalato alla schiena Durzo con le sue menzogne; Kylar non poteva farlo con le sue mani. Quel momento assunse una sconcertante chiarezza. Si congelò come un diamante e roteò davanti ai suoi occhi, mandando bagliori da ogni sfaccettatura. Kylar fece vagare lo sguardo da Elene alla sua destra a Durzo, alla sua sinistra, da Durzo a Elene, da Elene a Durzo. C'era la sua scelta e le loro sorti. Poteva uccidere Elene, la donna che amava, o poteva uccidere Durzo, che lo aveva cresciuto come un figlio. Su ogni sfaccettatura, questa verità brillava impietosa: se uno viveva, l'altro doveva morire. «No», disse Kylar. «Maestro, fatelo. Uccidetemi». Durzo lo guardò come se non riuscisse a credere alle proprie orecchie. «Lei ha visto solo me. Non sarà una minaccia per nessuno se io sono morto. Voi potrete prendere il ka'kari e salvare vostra figlia». Gli occhi di Blint si colmarono di uno sguardo che Kylar non gli aveva mai visto prima. L'espressione dura, ruvida del suo maestro sembrò sciogliersi, facendolo apparire un uomo diverso, non vecchio e stanco, ma più giovane, più simile a Kylar di quanto questi avesse mai potuto immaginare. Durzo strizzò gli occhi, quegli infiniti pozzi di dolore che minacciavano di straripare di lacrime. Scosse la testa. «Va', figliolo». Kylar voleva andare. Voleva correre via, ma aveva ragione. Era l'unico modo. Rimase lì, immobile, ma non per l'indecisione. Stava solo pregando che Durzo agisse prima che a lui venisse a mancare il coraggio. Cosa sto dicendo? Io non voglio morire. Io voglio vivere. Voglio portare Elene fuori di qui. Voglio... La porta degli appartamenti del duca si aprì e la duchessa ricoperta di sangue ne irruppe fuori, gridando: «Assassino! Assassino! Ha ucciso il principe!».


Durzo agì immediatamente. Si scaraventò contro Kylar, ed entrambi finirono dentro la stanza di Elene. Al ragazzo occorse tutta la sua presenza di spirito per non schiacciare Elene, ma Durzo continuò a muoversi. Teneva Kylar per il mantello e lo faceva dondolare con la sorprendente forza e velocità del suo Talento. Kylar venne praticamente fiondato fuori dalla finestra, nella notte. Per grazia di Dio, o per la Sua crudeltà, o per pura fortuna sfacciata, o per le capacità sovrannaturali di Durzo, Kylar atterrò nel bel mezzo di una siepe. Ci crollò sopra e, rotolando scompostamente, cadde al suolo. Fu una cosa ridicola; non ci fu niente di rotto, nessuna slogatura, non si fece neanche un graffio. Alzò gli occhi e vide alcuni ospiti fare capolino dal portico sul quale aveva prima baciato Serah, ma si trovavano dall'altro lato delle lampade e non riuscirono a individuarlo. Poi, le urla dall'interno furono seguite da altre grida, maschili e femminili. Venivano urlati ordini e uomini armati accorrevano, sferraglianti nelle loro cotte di maglia. Kylar guardò verso il secondo piano con il cuore in gola. Non sapeva se imprecare o ridere. Per ora la decisione non era più nelle sue mani. Era vivo e si sentiva bene. Non c'era altro da fare. Kylar corse a piccole falcate verso il cancello del giardino della tenuta, ruppe la serratura e scomparve nella notte.


Capitolo 42 Il Re Divino Garoth Ursuul era sveglio da prima che il funzionario bussasse alla porta della sua camera da letto. Nessuno poteva avvicinarsi a quella stanza senza svegliarlo. Ciò comportava meno sonno di quanto desiderasse, ma ormai era vecchio, non aveva bisogno di dormire molto. E poi faceva sì che gli schiavi camminassero in punta di piedi. La stanza non era quella che ci si poteva aspettare da un Re Divino. Era aperta, luminosa e ariosa, piena di bellissime vetrate istoriate di Pianga e specchi d'avorio, pizzo di Seth sul letto e tappeti d'orso selvatico del Freeze sul pavimento, fiori freschi sullo scrittoio e sul camino, scelti e disposti da uno schiavo dotato di sensibilità artistica. Garoth non si curava di niente se non dei suoi dipinti. I ritratti delle mogli erano allineati sulle pareti. Provenivano da quasi ogni nazione di Midcyru e, con poche eccezioni, erano tutte bellissime. Minute o flessuose, prosperose o fanciullesche, pallide o scure, tutte quelle immagini davano piacere a Garoth Ursuul. Era un intenditore della bellezza femminile e non badava a spese nell'indulgere a quel suo vizio. Era, dopo tutto, un servizio reso alla sua famiglia e al mondo il fatto di procreare i migliori figli che fosse possibile. A quel punto subentravano le donne poco attraenti. Aveva condotto esperimenti rapendo donne di famiglie reali nella speranza che potessero generare figli migliori. Due dei suoi attuali nove eredi erano nati da tali donne, così Garoth aveva concluso che i nobili potessero generare figli accettabili a prezzo leggermente più vantaggioso rispetto alla plebe, ma era molto più seccante procreare con una donna brutta. In parte per il bene dei suoi figli e in parte per il proprio divertimento, si era perfino concesso il gusto di far sì che alcune delle donne lo amassero. Era stato sorprendentemente facile; non aveva dovuto mentire quanto si era aspettato di dover fare, le donne erano talmente disposte a mentire a se stesse. Aveva sentito dire che l'amore rende il sesso migliore, ma non ne era rimasto colpito. Con la magia, poteva fare in modo che il corpo di una donna gli rispondesse nel modo che più gli piaceva, e c'era una certa gioia nel guardare una donna cercare di trattenere la propria furia e il proprio odio mentre la magia le dava piacere in modo mai provato prima. Purtroppo, simili piaceri avevano un prezzo: quelle


mogli dovevano essere costantemente sorvegliate; ne aveva perse due che si erano suicidate. La mano del funzionario bussò alla porta e Garoth gli diede il permesso di aprire. Il funzionario entrò in ginocchio, avanzando in tutta fretta, con le braccia conserte sul petto. «Mio dio, mio maestoso sovrano...». Garoth si mise a sedere. «Falla finita. Hai un messaggio della Jadwin, quella sgualdrina». «Riferisce di aver ucciso il principe, ma di non essere più in possesso del ka'kari. Sono così dispiaciuto, Vostra Santità». «Senza dubbio si tratta di un'altra simulazione», disse Garoth, rivolgendosi a se stesso, non al funzionario. «Sono arrivate le navi per l'invasione di Modai?». Di Cenaria poteva occuparsi quando voleva, ma una marcia serrata a sud avrebbe impegnato i suoi eserciti per settimane o mesi. Quel dannato duca Gyre aveva trasformato le fortificazioni di Screaming Winds in un serio ostacolo. Poteva superarlo, naturalmente. Era probabilmente in grado di sconfiggere qualsiasi esercito del mondo, a eccezione degli Alitaerani, ma un Re Divino non sprecava uomini in assalti frontali. Non quando aveva altre opzioni. E poi, a ogni modo, quale conquistatore avrebbe davvero voluto un alveare come Cenaria? Avrebbe quasi fatto meglio a sterminare chiunque laggiù e mandare i propri sudditi a colonizzare la città. L'interesse di Garoth Ursuul non era rivolto al potere temporale. Cenaria era solo un divertimento. Aveva informazioni molto più affidabili secondo le quali il ka'kari rosso si trovava a Modai. Una volta lì, Cenaria sarebbe stata circondata. Avrebbe potuto prendere il paese senza neanche combattere. Poi Ceura, e un colpo dritto al cuore dei maghi, Sho'cendi. Non avrebbe dovuto affrontare Alitaera fino a che non fosse stato certo della vittoria. «Due navi stanno ancora attraversando le acque cenariane». «Bene, allora...». «Vostra Santità...», squittì l'uomo, consapevole di chi avesse appena interrotto. «Hopper?» «Sì, Vostra Santità?». La voce di Hopper era ridotta a poco più di un sussurro. «Non interrompermi mai più». Hopper annuì con gli occhi sgranati. «Ora, cosa avevi da dire?»


«Lady Jadwin afferma di aver visto qualcuno vincolare il ka'kari nel corridoio fuori dalla sua stanza. La sua descrizione è stata... accurata». «Per il sangue di Khali». Garoth respirò profondamente. Un ka'kari, dopo tutto quel tempo. Un ka'kari che qualcuno aveva vincolato. Ciò rendeva tutto più facile. Un ka'kari da solo era piccolo abbastanza da poter essere nascosto o perso ovunque, ma un ka'kari che era stato vincolato sarebbe stato vicino a chiunque l'avesse vincolato. «Dirotta quelle navi. E ordina a Roth di procedere con gli assassinii. I Gyre, gli Shinga, tutti quanti. Di' a Roth che ha ventiquattro ore». Qualcosa stava andando terribilmente storto. Regnus Gyre lo capì non appena giunse ai cancelli della sua dimora. Non c'erano guardie là fuori. Per quanti domestici e guardie il re fosse riuscito a far licenziare o mandar via, la cosa rimaneva sconcertante. All'interno, le lampade ardevano ancora, il che era strano, un'ora dopo la mezzanotte. «Chiamo qualcuno, mio signore?», chiese Gurden Fray, la sua guardia. «No». Regnus smontò da cavallo e rovistò nella bisaccia fino a che trovò la chiave. Aprì il cancello e sguainò la spada. A entrambi i lati del cancello giaceva un corpo. Ognuno dei quali aveva la gola tagliata. «No», disse Regnus. «No». Si mise a correre in direzione della casa. Si precipitò all'ingresso principale e vide rosso ovunque. All'inizio la sua mente si rifiutò di accettarlo. In ogni stanza trovò morti. Sembrava come se fossero stati colti alla sprovvista. Non c'era niente di rotto, né segni di un conflitto violento, a parte i corpi. Neanche le guardie avevano lottato. Quasi tutti avevano la gola squarciata. Poi, i corpi erano stati rovesciati in modo che sanguinassero il più possibile. Qui, il vecchio Dunnel era stato messo a testa in giù su una poltrona. Lì, Marianne, che era stata la nutrice di Logan, era stata adagiata sulle scale con la testa sull'ultimo gradino. Era come se la Morte stessa avesse percorso l'intera casa e nessuno avesse neanche cercato di fermarla. Ovunque, Regnus vide servi fidati, amici, morti.


Si ritrovò a correre su per le scale, oltrepassando la statua dei Gemelli Grasq, verso la camera di Catrinna. Nel corridoio, vide i primi segni di una lotta. Una spada vagante aveva infranto una vetrinetta. Un ritratto di suo nonno aveva un pezzetto di cornice mancante. Lì le guardie erano morte combattendo; vedeva su di loro le ferite mortali. Ogni corpo aveva la gola tagliata e le gambe addossate alla parete. Le pozze di sangue di una dozzina di uomini confluivano l'una nell'altra, ricoprendo il pavimento come un lago. Gurden si inginocchiò, toccando con le dita il collo di un amico. «Sono ancora caldi», disse. Regnus aprì con un calcio la porta della sua stanza. La porta sbatté rumorosamente. Se era stata chiusa a chiave quella notte, ora non lo era più. C'erano quattro uomini e due donne, denudati, a faccia in giù, disposti a formare un cerchio aperto. Su di loro, nuda, appesa a testa in giù, con un piede legato al lampadario e l'altra gamba che penzolava in modo grottesco, c'era Catrinna. Inciso sulla schiena dei cadaveri, una parola su ogni corpo, c'era scritto: CON AMORE E BACI, HU GIBBET. Il coltello che spuntava dalla schiena del suo maggiordomo Wendel North era il punto con cui terminava la frase. Regnus si mise a correre. Corse di stanza in stanza, controllando i morti, gridando i loro nomi, rigirandoli per vedere le loro facce. Quasi non si accorse di Gurden che lo scuoteva. «Signore! Signore! Non è qui. Logan non è qui. Dobbiamo andarcene. Venite con me». Lasciò che Gurden lo trascinasse fuori. L'odore dell'aria senza sangue era dolce. Qualcuno non faceva che ripetere: «Oh mio Dio. Oh mio Dio. Oh mio Dio». Era lui. Farfugliava. Gurden non ci fece caso, limitandosi a tirarselo dietro. Arrivarono all'ingresso principale nel momento stesso in cui sei lancieri scelti del re stavano sopraggiungendo al galoppo, con le lance spianate. «Alt», gridò il tenente. I suoi uomini si disposero a ventaglio attorno a Regnus e Gurden. «Fermi. Siete voi Regnus Gyre?». L'acciaio sfoderato e il suono del proprio nome lo risvegliarono. «Sì», disse, guardando i propri indumenti insanguinati. Poi, più forte, ripeté: «Sì, sono io». «Lord Gyre, ho ricevuto l'ordine di arrestarvi. Mi dispiace,


signore». Era giovane, questo tenente. Aveva gli occhi sbarrati, come se non potesse credere che stesse arrestando proprio lui. «Arrestarmi?». Stava pian piano tornando padrone della sua mente, come di un cavallo che, preso il morso tra i denti, si era messo a galoppare per conto proprio e ora era pronto a sottomettersi nuovamente. «Sì, mio signore. Per l'assassinio di Catrinna Gyre». Un'ondata di gelo attraversò Regnus. Serrò la mascella e le lacrime che sgorgavano dai suoi occhi crearono uno stridente contrasto con il tono autorevole della sua voce. «Quando hai ricevuto questi ordini, figliolo?» «Un'ora fa, signore», rispose il tenente, che sembrò poi stizzito per aver automaticamente obbedito a un uomo che doveva arrestare. «È morta da meno di quindici minuti. Quindi, cosa mi dici dei tuoi ordini?». Il tenente impallidì. Un istante dopo, le lance vacillarono. «Il nostro capitano ha detto di avervi visto uccidere... fare ciò, signore. Un'ora fa, l'ha detto». Il tenente guardò Gurden. «È vero?» «Entra e guarda tu stesso», disse Gurden. Il tenente entrò, lasciando gli uomini a sorvegliarli nervosamente. Alcuni di loro sbirciarono dalla finestra e in tutta fretta vi si allontanarono. Regnus era impaziente, come se, avendone il tempo, potesse pensare ancora, potesse distaccarsi dalla sua mente. Le lacrime scorrevano di nuovo sulle sue guance e non sapeva perché. Doveva pensare. Poteva scoprire il nome del capitano, ma anche quell'uomo stava solo obbedendo a degli ordini. O del Sa'kagé o del re. Diversi minuti più tardi, il tenente riemerse. Aveva la barba sporca di vomito e tremava violentemente. «Potete andare, lord Gyre. E mi dispiace... Lasciatelo andare». Gli uomini si ritrassero e Regnus montò a cavallo, ma non andò via. «Servirete gli uomini che hanno massacrato la mia famiglia?», chiese Regnus. «Intendo trovare mio figlio e intendo trovare chi...». La voce lo tradì e dovette schiarirsi la gola. «Venite con me e vi giuro che servirete con onore». La voce gli si incrinò su quest'ultima parola e capì di non poter dire altro. Il tenente annuì. «Siamo con voi, signore». Gli uomini annuirono


e Regnus ebbe il suo primo manipolo. «Mio signore», disse il tenente. «Io... le ho tagliato la corda, signore. Non potevo lasciarla così». Regnus non riuscì a parlare. Sferzò violentemente le redini e si lanciò al galoppo. Perché non l'ho fatto io? Era mia moglie. Che razza di uomo sono? Il lord generale Agon era uno dei pochi nobili a non aver partecipato alla festa dei Jadwin la sera prima. Non era stato invitato. Non che si sentisse escluso. Il sole stava sorgendo all'orizzonte e la situazione non sembrava affatto migliore alla luce del giorno. In genere, certo, sarebbe spettato alla guardia cittadina occuparsi di un omicidio. Ma in genere le vittime di un omicidio non erano eredi al trono. In questo caso era necessario che Agon sovrintendesse personalmente. «Perché non mi dite cosa è davvero successo, milady», disse Agon. Non importava cosa facesse lì, sarebbe comunque stato lui a perdere. Lady Jadwin tirò su col naso. Era sinceramente sconvolta. Agon ne era certo. Quello di cui non era certo era il motivo: era in ansia perché era stata presa o le dispiaceva che il principe fosse morto? «Ve l'ho detto», disse. «Un sicario...». «Un cosa?». Lei indugiò. «Come fate a sapere cos'è un sicario, Trudana?». Lei scosse la testa. «Perché state cercando di confondermi? Vi sto dicendo che c'era un assassino qui, in questo corridoio. Pensate che io abbia decapitato la mia guardia? Pensate che io sia così forte? Perché non ascoltate Elene? Ve lo dirà lei». Maledizione. Ci aveva pensato. Non solo dubitava che lady Jadwin fosse abbastanza forte da decapitare un uomo, ma la donna non aveva neanche un'arma con cui farlo. E se avesse assassinato il principe senza neanche dire una parola, perché si sarebbe messa a gridare, facendo accorrere gente al piano di sopra prima di avere la possibilità di ripulirsi mani e viso dal sangue? «Spiegatemi questo», disse. Sollevò il vestito rosso che lei aveva indossato la sera prima. I suoi uomini lo avevano trovato


appallottolato nell'armadio. Era ancora umido del sangue che andava seccandosi. Un sacco di sangue. «Dopo... dopo che l'assassino ha pugnalato il principe, è caduto e io... io l'ho preso. E mi è morto tra le braccia. Ho cercato di chiedere aiuto, ma l'assassino era ancora nel corridoio. Ero terrorizzata. Mi sono fatta prendere dal panico. Non potevo sopportare di avere tutto quel sangue addosso». «Cosa ci facevate voi due soli in camera da letto?». La duchessa lo guardò fisso con gli occhi che sembravano carboni ardenti. «Come osate!». «Come osate voi, Trudana?», ribatté Agon. «Come osate ingannare vostro marito non solo con il re ma anche con il figlio del re? Che razza di perverso piacere ne traete? Vi piaceva far sì che il principe tradisse suo padre?». La donna cercò di schiaffeggiarlo, ma Agon si spostò. «Non potete schiaffeggiare chiunque nel regno, Trudana. Abbiamo trovato il coltello insanguinato nella vostra stanza. I vostri domestici attestano che sia vostro. Direi che è probabile che veniate decapitata. A meno che il re non decida che meritiate la morte dei comuni traditori, sulla ruota». A quelle parole, Trudana Jadwin impallidì e divenne livida, ma non disse nient'altro. Agon fece un gesto di rabbia e i suoi uomini la portarono via. «É stato indegno da parte vostra», disse una donna. Agon si girò e vide Elene Cromwyll, la domestica dei Jadwin che era stata trovata svenuta e percossa nella sua stanza. Era formosa, graziosa se non fosse stato per le cicatrici e i lividi sul suo viso. Ma lady Jadwin si considerava un'artista, perciò amava circondarsi di cose belle. «Sì», disse Agon. «Suppongo di sì. Ma considerato ciò che ha fatto... che scempio». «La mia padrona ha fatto parecchie scelte sbagliate», ammise Elene. «Ha fatto del male a molta gente, distrutto matrimoni, ma non è un'assassina, signor generale. Mio signore, so cosa è successo qui la scorsa notte». «Davvero? Allora siete l'unica». La sua voce fu più pungente di quanto lui desiderasse. Stava ancora cercando di mettere insieme i pezzi. Come era stata uccisa quella guardia, Stumpy, il Ceppo, che ora somigliava più che mai al suo soprannome? Perché la duchessa avrebbe ucciso silenziosamente il principe e si sarebbe cambiata


d'abito senza però lavarsi le mani e il viso, prima di gridare in cerca di aiuto? Sicuramente, se avesse avuto abbastanza sangue freddo da assassinare il principe, forse in un impeto di rabbia per essere stata lasciata, e se fosse stata abbastanza padrona di sé da cominciare a nascondere le prove, avrebbe fatto un lavoro migliore prima di far accorrere gente in suo aiuto. Ma, a quel punto, alcuni degli ospiti affermavano che era stata una voce maschile quella che avevano sentito strillare al piano di sopra. La guardia? Si era imbattuta nell'assassino, aveva emesso un urlo e poi era stata decapitata? Decapitare qualcuno non era facile. Agon lo sapeva. Pur tagliando tra le vertebre, ci voleva una forza non indifferente. Agon aveva esaminato Stumpy e la lama aveva attraversato le vertebre. Tornò a volgere il suo sguardo su Elene. «Scusatemi», disse. «È stata una notte difficile. Qualunque modo in cui voi possiate aiutare sarà ben accetto». Lei alzò gli occhi: erano pieni di lacrime. «So chi ha ucciso il principe. È un sicario che si traveste da lord. Sapevo chi era e sapevo del suo arrivo, ma non pensavo che avrebbe fatto del male a qualcuno. Il suo nome è Kylar. Kylar Stern». «Cosa?», disse Agon. «È vero. Lo giuro». «Ascoltate, fanciulla, la vostra lealtà nei confronti della vostra padrona è ammirevole, ma non avete bisogno di fare così. Se continuate con questa storia, andrete in prigione. Come minimo. Se si scoprirà che siete complice, anche solo involontaria, dell'assassinio del principe, verrete impiccata. Siete sicura di volerlo fare, solo per salvare Trudana Jadwin?» «Non è per lei». Aveva le guance rigate di lacrime. «Allora è per questo Kylar Stern? Si tratta del giovane che si è azzuffato con Logan Gyre? Dovete odiarlo parecchio». Lei si limitò a distogliere lo sguardo. Alla luce del sole che sorgeva, le lacrime sulle guance rilucevano come gioielli. «No, signore. Niente affatto». «Lord generale», disse piano un soldato sull'uscio. Sembrava


scosso. «Vengo ora dalla tenuta dei Gyre, signore. È un vero caos. Ci saranno un centinaio di persone che si aggirano per la casa piangendo, signore. Sono morti, signore». «Datti una assassinati?»

calmata.

Cosa

intendi

«Di più. Massacrati, signore». «Chi è stato assassinato, soldato?» «Signore. Tutti quanti».

con

morti?

Intendi


Capitolo 43 Il re si agitava nervosamente sul trono. Si trattava di una grossa struttura di avorio e corno intarsiato d'oro che lo faceva sembrare un ragazzino. La sala delle udienze era vuota quel giorno, eccezion fatta per le guardie regolamentari, diverse guardie nascoste nelle uscite segrete della stanza e Durzo Blint. Il vuoto faceva sembrare la sala cavernosa. Stendardi e arazzi ornavano le pareti, ma non servivano ad allontanare il gelo perpetuo di una così grande stanza di pietra. Sette paia di pilastri sostenevano l'alta volta e due rampe di sette scalini conducevano al trono. Durzo era in silenzio, aspettando che il re desse inizio alla conversazione. Aveva già un piano di battaglia, se fosse stato necessario. Era una cosa naturale per lui. Il meister accanto al re sarebbe morto per primo, poi le due guardie ai lati del trono, infine lo stesso sovrano. Con il suo Talento, sarebbe probabilmente stato in grado di saltare dal trono fin sul passaggio sovrastante, ora celato da uno stendardo. Avrebbe ucciso l'arciere che vi si nascondeva, e da lì sarebbe stato imprendibile. Come tutti i piani di battaglia, sarebbe durato solo fino alla prima mossa, ma era sempre utile avere un piano generale, specie quando non si aveva idea di cosa sapessero i propri nemici. Durzo si rese conto di star infilando la mano nel sacchetto dell'aglio, ma si costrinse a rimanere fermo. Bloccare la propria mano fu più difficile di quanto pensasse; mordere un pezzetto d'aglio gli era di grande conforto quando era nervoso. «Hai lasciato che il mio ragazzo morisse», disse il re, alzandosi. «Hanno ucciso il mio ragazzo la notte scorsa e tu non hai fatto niente!». «Non sono una guardia del corpo». Il re afferrò una lancia dalle mani della guardia che gli stava accanto e la scagliò. Durzo rimase sorpreso dalla qualità del lancio. Se fosse rimasto fermo, la lancia gli avrebbe trapassato lo sterno. Ma, naturalmente, non era rimasto fermo. Si era piegato da un lato, senza neanche spostare i piedi, con distratta - e, sperava, irritante - disinvoltura. La lancia rimbalzò sul pavimento e sibilò per effetto del legno e


dell'acciaio che strisciavano sulla pietra. Si sentì lo sferragliare di un'armatura e tutt'intorno nella stanza il rumore di frecce che venivano incoccate, ma le guardie non attaccarono. «Non sei un accidente fino a che non lo dico io!», disse il re. Avanzò a grandi passi, scendendo i sette scalini per affrontare Durzo. Dal punto di vista tattico, una mossa sciocca. Così bloccava la visuale ad almeno tre dei suoi arcieri. «Sei... sei merda! Sei merdosa, merdosa merda!». «Vostra Maestà», disse solennemente Durzo. «Il bagaglio di imprecazioni di un uomo della vostra statura dovrebbe andare oltre la seccante ripetizione degli escrementi che riempiono lo spazio vuoto tra le vostre orecchie». Il re parve per un momento confuso. Le guardie si guardarono l'un l'altra, inorridite. Il re vide gli sguardi e capì dalle loro espressioni di essere stato insultato. Colpì Durzo con un manrovescio e Durzo si lasciò colpire. Un movimento improvviso in quel momento e un arciere nervoso avrebbe potuto perdere la propria freccia. Il re indossava anelli su ogni dito e due di essi scavarono dei solchi sulle guance di Durzo. Durzo serrò la mascella per reprimere la furia crescente. Respirò una volta, due. Disse: «L'unica ragione per cui ora siete vivo è perché non voglio barattare la mia vita con la vostra, Aleine. Detesterei essere ucciso da dilettanti. Ma sappiate questo: se mai alzerete ancora una mano su di me, sarete morto meno di un secondo dopo. Vostra Maestà». Il re Aleine Gunder IX sollevò la mano, pensando seriamente di diventare il fu re Aleine Gunder IX. La riabbassò, ma una luce trionfante gli riempiva gli occhi. «Non ti farò ancora uccidere, Durzo. Non ti farò uccidere perché ho per te qualcosa di meglio della morte. Vedi, so di te, Durzo Blint. So. Hai un segreto e io lo conosco». «Perdonate se tremo». «Hai un apprendista. Un giovane che si atteggia a nobile. Kyle qualcosa. Un giovane che sta con quei santarellini dei Drake, una specie di allievo di spada, non è vero, Mastro Tulii?». Un brivido gelato percorse la schiena di Durzo. Angeli della Notte abbiate pietà. Lo sapevano. Era tremendo. Peggio che tremendo.


Se sapevano che Kylar era suo apprendista, non sarebbe passato molto tempo prima che addossassero a lui la morte del principe. Soprattutto dopo lo spettacolo che Kylar aveva dato di se stesso battendosi con Logan Gyre. Se l'apprendista di Durzo fosse stato coinvolto nell'uccisione del principe, il re avrebbe creduto che lo aveva fatto con l'approvazione del suo maestro, se non addirittura per suo ordine. Roth non ne sarebbe stato contento. L'aglio gli si sbriciolò in bocca, dando una piacevole scossa ai suoi sensi. Fece un profondo respiro e si impose di rilassarsi. Come avevano fatto? Mastro Tulii. Dannazione. Tutto può andare storto, e qualcosa sicuramente lo sarà. Durzo non era stato tradito. Non esisteva un grande complotto. Quel nome significava che una delle spie del re aveva tenuto sotto controllo i Drake. Probabilmente solo spionaggio di routine nei confronti di un uomo un tempo potente. La spia aveva visto Durzo e lo aveva riconosciuto. Probabilmente la spia era una delle guardie con cui il re aveva cercato di spaventarlo nel giardino delle statue. Non aveva importanza. «Oh, vorrei che Brant fosse qui adesso per vedere quell'espressione sulla tua faccia, Durzo Blint. A proposito, dov'è Brant?», chiese il re a un ciambellano. «Sire, è nel castello ora, diretto qui per fare rapporto. È andato alla tenuta dei Gyre dopo aver indagato su... sulla questione dei Jadwin». Durzo sentì la gola che gli si serrava. Agon avrebbe messo insieme i pezzi riguardo a Kylar. Se fosse arrivato mentre Durzo era ancora lì, Durzo sarebbe morto. Il re scrollò le spalle. «La sua perdita». A quella parola, il dolore e la rabbia esplosero nel piccolo re e, improvvisamente, sembrò un uomo diverso. «Hai lasciato che uccidessero il mio ragazzo, tu pezzo di merda, perciò io ucciderò il tuo. La sua morte sarà opera di una mano insospettabile e arriverà - oh - in qualunque momento da ora». «Ho sentito che hai avuto una piccola zuffa con Logan la notte scorsa», disse il conte Drake. Kylar

sbatté

le

palpebre

sugli

occhi

annebbiati

e

passò


dall'essere stanco morto a completamente sveglio nello spazio di un secondo. Aveva dormito solo poche ore e aveva avuto nuovamente quell'incubo. Ogni morte a cui assisteva gli faceva sognare quella di Ratto. Erano seduti alla tavola della colazione e Kylar stava per mangiare una forchettata di uova. Se la infilò in bocca per darsi un po' di tempo. «No' sta'o 'iente», bofonchiò. Era un disastro. Se il conte Drake sapeva della zuffa, magari sapeva anche della morte del principe. Kylar aveva pensato di avere il tempo di impacchettare le proprie cose e andarsene quella mattina, prima che i Drake potessero parlargli. Che dovesse andarsene era innegabile. Pensava solo di avere un po' più di tempo. «Serah era piuttosto turbata», disse il conte. «Ha portato Logan a casa di sua zia, vicino ai Jadwin, per fargli curare le ferite. È tornata solo pochi minuti fa». «Oh». Kylar masticò altre uova meccanicamente. Se Serah era andata via subito dopo la lite, lei e il conte Drake ancora non sapevano del principe. A quanto pareva, la serie di eventi sfortunati per Kylar si stava interrompendo. Ma, ora che sapeva di non essere minacciato da questioni di vita e di morte, si rese conto che il racconto di Serah su quanto era successo la notte prima avrebbe avuto altre implicazioni. «Ieri ho dato a Logan il permesso di chiedere la sua mano. Lo sapevi, non è vero?». Quello voleva essere il modo gentile da parte del conte di dire: Perché diavolo hai baciato la mia Serah e picchiato il mio futuro genero e tuo migliore amico, dopo che mi avevi detto che non provavi nulla per lei? «Uhm...». Con la coda dell'occhio, Kylar vide qualcuno passare velocemente davanti alla finestra e, un momento dopo, il vecchio cameriere entrò a passi incerti. Sembrava turbato. L'ingresso principale si aprì di schianto. Poco dopo, la porta della sala da pranzo si spalancò con una tale forza da far tintinnare i piatti sul tavolo. «Milord», protestò il cameriere. Logan entrò nella sala come una furia, con gli occhi rossi ma un portamento pur sempre regale. Teneva in mano una spada a doppio


taglio. Kylar balzò in piedi, mandando a sbattere la sedia su cui era seduto contro il muro. Era bloccato in un angolo. Il conte Drake si stava alzando, urlando qualcosa, ma era troppo lento. Niente poteva fermare Logan in quel momento. Logan sollevò la spada. Kylar impugnò un coltellino da burro. «Sono fidanzato!», urlò Logan. Afferrò Kylar e lo strinse in un possente abbraccio. Quando Logan lasciò andare l'amico, il cuore di quest'ultimo riprese a battere. Il conte crollò sulla sedia risollevato. «Tu, grande bastardo!», esclamò Kylar. «Congratulazioni! Te l'avevo detto che avrebbe funzionato, no?» «Funzionato?», chiese il conte, ritrovando la voce. Logan continuò, ignorando il conte: «Be', non dovevi colpirmi così forte». «Dovevo essere convincente», si giustificò Kylar. «L'hai quasi resa vedova! Non venivo picchiato così forte sin da quel combattimento nell'arena». «Scusatemi», convincenti?».

intervenne

il

conte.

«Funzionare?

Essere

I due si fermarono e rivolsero all'uomo uno sguardo colpevole. «Be'», disse Logan. «Kylar e Serah mi amano davvero e lei aveva solo bisogno di rinfrescarsi la memoria, e...». Si interruppe. «Kylar, mi stai dicendo che la tua zuffa era tutta una scena? Ti sei reso ridicolo in pubblico, hai ingannato mia figlia e trattato i suoi sentimenti come cosucce di poco valore?» «Non è esattamente...». Non riusciva a sostenere lo sguardo del conte. «Sì, signore». «E hai trascinato Logan in tutto questo? Logan, che avrebbe dovuto avere più cervello?», chiese il conte. «Sì, signore», disse Logan. Per lo meno, Logan sembrava afflitto quanto lui. Il conte guardò prima l'uno poi l'altro, poi sogghignò. «Dio ti benedica!», esclamò, abbracciando Kylar. Dopo averlo sciolto dall'abbraccio, il conte si girò. C'erano


lacrime nei suoi occhi quando strinse il braccio di Logan. «E Dio benedica te. Figliolo». Il lord generale Agon arrivò come una furia al castello, fiancheggiato dalle sue guardie del corpo. La giornata per lui si era già rivelata lunga, nonostante il sole fosse sorto da tre ore. Vedendo l'espressione sulla sua faccia, gli uomini a guardia delle porte del castello fecero in modo di non farlo attendere. I domestici scomparvero alla svelta dalla sua vista. Entrando nella sala delle udienze, Agon passò davanti a un uomo avvolto da un mantello. Stava uscendo e gli sembrò vagamente familiare. Ma aveva il cappuccio tirato sul capo e la sua faccia era nascosta. Una delle spie del re, senza dubbio. Agon non aveva tempo per lui. Nessuna delle notizie era buona. I Gyre erano la famiglia più in vista del regno. Il loro assassinio nella stessa notte di quello del principe era troppo per pensare a una coincidenza. Ad Agon il principe piaceva, ma i Gyre erano suoi amici. E quello che aveva visto in casa loro, non l'avrebbe augurato al peggior nemico. I pezzi non combaciavano. C'erano tutti i segni di una manovra, una grossa manovra, un piano per arrivare al trono. Ma perché in quel modo? Uccidere il principe metteva tutto in discussione, ovviamente, ma 'uccidere i domestici e lady Gyre non significava niente dal punto di vista politico. Oppure sì? Quel giorno, il giorno del suo compleanno, Logan prendeva il posto di suo padre nella famiglia Gyre. Se si voleva sterminare una famiglia, si cominciava dagli eredi, non da tutti gli altri e, a meno che la notizia non fosse ancora in viaggio, entrambi gli eredi Gyre erano vivi. La morte del principe non era solo un terribile colpo inferto alla linea dei Gunder, era uno scandalo enorme. Le relazioni del re erano state ignorate ma, trovare il principe morto dopo aver in apparenza avuto una storia con l'amante del re, avrebbe gettato una luce decisamente sfavorevole sull'intera dinastia Gunder. L'assassinio, se tale era, non si presentava solo come una tragedia. Era un orrore e fonte di imbarazzo. Il lord generale si chiese se fosse stato l'orrore o l'imbarazzo a prevalere nella mente del sovrano. Cosa avrebbe fatto la regina?


Si avvicinò al trono e salì i gradini. Vi erano i soliti uomini, che parlavano con il re. Agon non si fidava di nessuno di loro. «Fuori!», ruggì. «Tutti quanti, fuori!». «Scusatemi», disse Fergund Sa'fasti. «Ma come capo del...». «FUORI!», gli sbraitò Agon in faccia. Il cortigiano si ritirò, unendosi agli uomini che uscivano in massa dalla stanza. Agon fece cenno di uscire anche alle proprie guardie del corpo. Il re non alzò neanche gli occhi. Alla fine, disse: «Sono rovinato, Brant. Cosa dirà di me la storia?». Che eri un debole, inetto, egoista e immorale. «Sire, abbiamo questioni più urgenti». «Ne parlano tutti, Brant. Mio figlio... quella ha ammazzato mio figlio...». Il re cominciò a piangere. Dunque quest'uomo è in grado di pensare agli altri. Se solo mostrasse la sua umanità più spesso. «Vostra Altezza, non è stata la duchessa a uccidere vostro figlio». «Cosa?». Il re guardò Agon attraverso il velo delle lacrime. «Sire, è stato un sicario». «Non mi interessa chi sia stato veramente, Brant! C'è Trudana dietro tutto questo. Trudana e Logan Gyre». «Logan Gyre? Di cosa parlate?» «Pensi di essere l'unica persona a occuparsi di questa cosa, Brant? Le mie spie mi hanno già fatto rapporto. C'era Logan dietro tutto questo. Quella puttana di Trudana ha solo collaborato. Ho già mandato degli uomini ad arrestarlo». Agon ne fu scosso. Non poteva essere. Anzi, era sicuro che non fosse così. «Perché Logan avrebbe fatto una cosa simile?», chiese. «Logan era uno dei migliori amici di vostro figlio. Non è affatto ambizioso. Per gli dei, si è appena fidanzato con Serah Drake. La figlia di un conte!». «Non aveva niente a che fare con il potere o l'ambizione, Brant. Era gelosia. Logan sentiva che mio figlio lo aveva umiliato per qualche banalità. Sai come va tra ragazzi. È proprio tipico dei Gyre bramare ogni nostro successo. E poi, ci sono dei testimoni che


hanno sentito Logan minacciarlo». Ora tutto combaciava, ogni pezzo andava al suo posto. Kylar Stern, il falso nobile, il sicario, era un amico intimo di Logan. In un impeto di rabbia, Logan aveva assoldato Kylar per uccidere il principe. Tutto quadrava... tranne il fatto che si trattasse di Logan. Agon lo conosceva e non ci credeva. «Quale sicario hanno assoldato, Brant?», chiese il re. «Kylar Stern», rispose Agon. Il re sbuffò. «Huh. Gli dei devono essere con me per una volta». «Sire?» «Ho appena assoldato l'apprendista di Hu Gibbet per andare a ucciderlo. Una ragazza sicario, riesci a crederlo? Kylar è l'apprendista di Blint. O lo era. Probabilmente a quest'ora sarà morto». Kylar è l'apprendista di Blint? Il quadro che lentamente si era formato, ora esplose in tanti pezzi. Il re aveva assoldato Blint! L'apprendista di Blint non avrebbe ucciso il figlio di colui che l'aveva ingaggiato. O sì? Il nome "Hu Gibbet" era stato inciso sui corpi in casa dei Gyre. Certo, solo uno sciocco avrebbe lasciato la propria firma su un tale massacro. Ma, dopo le ore trascorse in quella casa, Agon era certo che tutti quei morti fossero opera di un solo uomo. Non riusciva a pensare a nessuno che potesse uccidere così tante persone se non un sicario, e lo stile combaciava senz'altro con quello che aveva sentito di Hu Gibbet. Non riusciva a immaginare Durzo Blint mutilare dei corpi. Blint l'avrebbe considerato non professionale. Hu Gibbet avrebbe lasciato il proprio nome se pensava che le autorità non avrebbero avuto la minima possibilità di acciuffarlo. Il re diceva che l'assassinio del principe non aveva niente a che fare con il potere, ma quella era Cenaria. Tutto aveva a che fare con il potere. Se l'apprendista di Durzo Blint aveva davvero ucciso il principe, perché avrebbe lasciato un testimone? L'apprendista di Blint doveva essere professionale quanto il suo maestro. Un testimone era uno strappo facile da ricucire. Tutto riguardava il potere. Agon si accigliò. «Ci sono notizie dalla nostra guarnigione presso


Screaming Winds?» «No». «Allora l'esercito di Khalidor è lontano almeno quattro giorni. Cosa avete in mente di fare per la festa di stasera?» «Non. ho intenzione di celebrare il Solstizio d'Estate il giorno dopo la morte di mio figlio». Il lord generale provò un senso di vuoto alla bocca dello stomaco. «Mio re, penso che forse dovreste». «Non terrò una festa per gli assassini di mio figlio». Gli occhi del re mandavano lampi, facendolo sembrare meno un bambino petulante e più simile a un re di quanto Agon avesse mai visto. «Devo fare qualcosa!», disse il sovrano. «Tutti penseranno...». Continuò, ma Agon lo ignorò. Tutti penseranno. Quella era la chiave. Tutti penseranno cosa? Il principe era morto, ucciso in un modo vergognoso, sia che fosse stata opera dell'amante del re o di un sicario. Gli amati Gyre erano morti o in prigione. Agon ora sospettava che un assassino fosse riuscito a penetrare a Screaming Winds e avesse ucciso anche Regnus. Non avrebbe avuto senso lasciarlo vivo. Non quando qualcuno si era impegnato così tanto per mettere in moto il suo piano. Tutti avrebbero pensato che il re aveva ordinato di uccidere il proprio figlio in un impeto di furia e gelosia, e che aveva fatto ricadere l'intera responsabilità sulla sua amante, incastrandola. Mettendo in giro le voci giuste, anche i dubbi sulle ragioni dell'assassinio dei Gyre potevano essere manovrati a piacimento. La gente avrebbe collegato tutte le morti, ma come? I Gyre venivano subito dopo i Gunder nella linea di successione al trono, nonostante la famiglia non avesse mai sfidato il re. Il re, debole e geloso, avrebbe potuto essere dipinto come un paranoico fin troppo facilmente. E i Gyre erano molto più rispettati dei Gunder. Tutti avrebbero pensato che il fedele servizio di lord Gyre era stato ricompensato da tradimento e assassinio. Logan - il nuovo lord Gyre - era stato arrestato dal re e le naturali inclinazioni del sovrano lo avrebbero portato a tenerlo in prigione. Ma Logan era noto per essere assolutamente irreprensibile, senza ambizioni. Per gli dei, era promesso sposo della figlia di un modesto Drake!


Quindi, se il re fosse morto, chi gli sarebbe succeduto? L'enormemente popolare Logan sarebbe stato in prigione, dove avrebbe potuto essere ucciso con facilità. Il figlio del re era morto. La sua figlia più grande aveva quindici anni, le altre erano ancora più giovani, troppo giovani per reggere il trono di una nazione in guerra. Sua moglie Nalia avrebbe potuto tentare nell'impresa, ma il re l'aveva spaventata e messa in disparte quanto più aveva potuto, e lei sembrava contenta di rimanere fuori dalle questioni politiche. I Jadwin erano finiti dopo il loro ruolo nello scandalo. Rimanevano gli altri due ducati del regno. O il duca Graesin o il duca Wesseros, padre della regina, potevano tentare di prendere il potere. Ma il fratello della regina, Havrin, era all'estero, perciò era improbabile che fosse lui l'usurpatore. Il duca Graesin era un debole. Chiunque, tra gli appartenenti a una dozzina di famiglie meno importanti, avrebbe potuto tentare la scalata al potere. Ma nessuno sarebbe riuscito a ottenerlo. Sarebbe stata una guerra civile in cui le varie fazioni si equivalevano. Una guerra civile del genere sarebbe stata peggiore di quella che aveva paventato dieci anni prima Regnus, quando aveva permesso ad Aleine di prendere il potere. Qual era allora il ruolo degli altri giocatori di cui si era tanto preoccupato ultimamente? A che punto entravano in azione il Sa'kagé e Khalidor? Se il prezzo era giusto, Khalidor poteva comprare l'aiuto del Sa'kagé. Ma poi, d'un tratto, tutti i pezzi combaciarono. Il lord generale Agon imprecò ad alta voce. Imprecava talmente di rado che il re si interruppe a metà frase. Aleine guardò la faccia di Agon e, qualunque cosa vi lesse, lo spaventò. «Cosa c'è? Cosa c'è, Brant?». In tutti quegli anni, lui e il sovrano si erano talmente concentrati su Khalidor che non avevano mai pensato a una minaccia che potesse venire dall'interno. Khalidor stava neutralizzando l'intera linea di successione e manipolava il re per riuscire nell'intento. Una volta che tutti gli eredi legittimi e potenti fossero stati eliminati, Khalidor avrebbe ucciso il re. Avrebbero agito in fretta, prima che il sovrano potesse stabilire una nuova linea di successione, prima che potesse consolidare il potere o riallacciare le relazioni che stava per spezzare. Poi, sarebbero rimasti a guardare il caos che ne sarebbe derivato, e avrebbero marciato sulla città al momento che


avrebbero ritenuto opportuno. «Vostra Altezza, dovete ascoltarmi. Questo è il preludio a un colpo di Stato. Forse abbiamo solo qualche giorno. Se prende piede, tutti i nostri preparativi contro Khalidor saranno inutili. E voi sarete il primo a morire». Il terrore si dipinse sul volto del re. «Ti ascolto», disse.


Capitolo 44 Dopo essersi congratulato con Logan diverse altre volte, Kylar si era congedato così che il giovane duca potesse parlare con il futuro suocero. Serah era in un'altra ala della casa a cambiarsi, e i due giovani erano d'accordo che probabilmente fosse meglio che non li vedesse in rapporti amichevoli fino al matrimonio. «Capirò se non sarò invitato», aveva detto Kylar. «Ma se mai glielo dirai, mi aspetto delle scuse. Congratulazioni». Si avviò su per le scale e andò in camera sua, scagliò la tunica in un angolo e si guardò allo specchio. «E congratulazioni a te. Il tuo maestro sta per ucciderti e tutte le donne della tua vita ti odiano». Accanto allo specchio, notò un fascio di lettere legate da un nastro. Lo prese. Su un foglietto, scribacchiato con la calligrafia di Blint, c'era un messaggio. «Poiché non hai obbedito, immagino che non ci sia più ragione per nascondertele». Cosa? Kylar sciolse il nastro e lesse la prima lettera. Era opera di una mano infantile, tutta grosse lettere e pensieri slegati. «Grazie, grazzie, grazie. Mi piace tantissimo qui. Sei grande. Oggi è il mio compleanno. Ti voglio bene... Elene». La mano di un adulto vi aveva scritto sotto: «Mi dispiace, conte Drake, ci ha sentiti mentre parlavamo del suo benefattore. Ha desiderato scrivere questa lettera sin da quando le abbiamo insegnato a scrivere. Si è messa in testa quest'idea e non l'ha abbandonata. Diteci se non dobbiamo più permetterle di scrivere. Umilmente Vostro, Gare Cromwyll». Kylar era incantato. C'era una lettera per ogni anno, sempre più lunga e con la calligrafia che migliorava. Gli sembrava di vedere Elene crescere davanti ai suoi occhi. Anche lei aveva cambiato nome, ma non negava ciò che era stata, nessuna frattura con la sua precedente debolezza e vulnerabilità. All'età di quindici anni aveva scritto: «Poi mi ha chiesto se non mi fa impazzire il fatto che mi abbiano tagliato la faccia. Ha detto che non è giusto. Io ho detto che non è giusto che io sia uscita dai Cunicoli mentre altri non lo hanno fatto mai. Guardate tutto quello che ho! Ed è tutto grazie a voi...». Kylar dovette scorrere velocemente le lettere. Aveva i minuti contati. Prima o poi la morte del principe sarebbe divenuta cosa


nota. E dannazione! Quella ragazza scriveva un sacco. Saltò all'ultima lettera. Risaliva ad appena qualche giorno prima. «Non sapete cosa avete fatto per me. Vi ho raccontato di tutti i modi in cui il vostro denaro ha salvato la mia famiglia, soprattutto quando il mio padre adottivo è morto, ma avete fatto più di questo. Il solo sapere che da qualche parte là fuori c'è un giovane signore che tiene a me (a me! Una ragazza nata in schiavitù, con la faccia piena di cicatrici!) ha fatto la differenza. Mi avete fatto sentire speciale. Poi mi ha chiesta in moglie la settimana scorsa». Kylar provò il subitaneo impulso di trovare questo Poi e prenderlo a calci nel didietro. «Avrei detto di sì, nonostante odi il suo carattere e... anche altre cose. Il punto è che, proprio perché siete là fuori a prendervi cura di me, credo di meritare di più di un pessimo matrimonio con il primo uomo che chiede la mano di una ragazza sfregiata. Ho fede che Dio abbia in serbo qualcosa di meglio per me». Oh, è una che crede in Dio. Grandioso. Ed era così che conosceva i Drake. «Vi ringrazio. E scusatemi per la mia ultima lettera, sono assolutamente mortificata per quello che ho scritto. Vi prego di ignorare le mie parole». Huh? Kylar tornò sulla penultima lettera e non poté reprimere un sogghigno. Elene era nel pieno delle angosce romantiche tipiche di una sedicenne in fiore. «Credo di amarvi. Anzi, ne sono certa. L'anno scorso, quando andai dal conte Drake a lasciare la mia lettera - mamma finalmente lascia che faccia le mie cose da me penso di avervi visto. Forse non eravate voi. Ma potevate essere voi. C'è questo ragazzo, un giovane signore come voi. È così bello e tutti lo amano tantissimo. Cioè, si vede benissimo quanto gli vogliano bene, perfino il conte Drake. Cioè, so che non siete voi, perché non è ricco come voi. La sua famiglia è povera, vive con i Drake...». A Kylar mancò il respiro. Elene lo aveva visto. Lo aveva visto un anno prima e pensava che fosse bello. Lei pensava che fosse bello? «...ma cosa importa il denaro quando si ha l'amore?». C'erano... no... sì, c'erano chiazze di lacrime sulla pagina. Be', Kylar era cresciuto con tre ragazze intorno. La cosa non lo colse del tutto di sorpresa. Si chiedeva solamente quando Elene avesse cominciato a piangere. «Quindi poiché voi siete un tipo silenzioso e forte e non rispondete mai alle mie lettere, ho deciso che vi chiamerò Kylar. Immagino che potreste essere grasso e brutto e che abbiate un grosso naso e... Mi dispiace COSÌ tanto. Dovrei ricominciare daccapo, ma mia madre dice che uso troppa


carta. Mi dispiace. Sono proprio un disastro. Ma non potreste scrivermi almeno una volta? Me la consegnerà il conte Drake quando verrò l'anno prossimo a lasciare la mia lettera. Poi dice che non sono infatuata di un uomo, ma che lo sono di un sacco di soldi». Elene non sapeva niente di lui ma, ehi, aveva appena sedici anni e Kylar desiderò prendere a calci Poi. «Ma non è così. E non è un'infatuazione. Io vi amo, Kylar». Un brivido lo attraversò a quelle ultime parole. Quanto avrebbe voluto sentirle! Quanto avrebbe voluto sentirle da lei. Ed eccole lì. Eccole nel groviglio della sua finzione. Lei gli aveva detto quelle parole, non pensando che fosse lui, non sapendo che il conte Drake dava le sue lettere a Durzo, non sapendo che Kylar era in realtà il suo giovane benefattore, non sapendo che Kylar era in realtà Azoth, non sapendo che Kylar era un assassino, non sapendo che per una volta che lei lo aveva visto, ce n'erano state centinaia in cui lui aveva visto lei: due volte a settimana, ogni volta che riusciva, al mercato vicino a Sidlin Way. L'aveva vista crescere in quel mercato, dicendo a se stesso mille volte che la settimana successiva non avrebbe cercato di vederla, e ogni volta soccombeva. L'aveva guardata da lontano e si era preso una cotta, non era vero? Si era detto che lei era un frutto proibito, che era questo che lo attraeva. Si era detto che voleva solo vedere se lei stesse bene. Quando questo non aveva funzionato, si era detto che gli sarebbe passata. Ora aveva venti anni e stava ancora aspettando che gli passasse. La sua improvvisa speranza - lei si era infatuata di lui! -si scontrò con la realtà come porcellana gandiana che colpisce il suolo. Il delicato intreccio di sottili possibilità si infranse. Adesso l'espressione ferita di Elene del giorno prima aveva senso. Le rivelazioni che potevano essere per lei così toccanti - io sono Kylar e Azoth e il tuo giovane signore e anche io ti amo! - l'avevano colpita invece come un martello da fabbro. Io sono Kylar e Azoth e il tuo giovane signore... e un assassino. Aiutami. Dammi la tua fiducia così che io possa tradirla. Non c'era tempo per autocommiserarsi e Kylar aveva già indugiato fin troppo. Si era lasciato dietro un testimone che sapeva che lui era un sicario e che era Kylar Stern, e che lo credeva colpevole di aver rubato il Globo, se non di peggio. Così molto probabilmente aveva buttato via un'identità che aveva impiegato dieci anni a costruirsi, per una pallina che non aveva neanche tenuto.


I secchi di acqua calda che la domestica di solito metteva nella sua stanza al mattino erano vuoti. Per qualche ragione, ciò lo fece crollare. Sentì gli occhi diventargli caldi di lacrime. Era talmente ridicolo, quasi scoppiò a ridere. Quei secchi vuoti erano l'inconveniente minore, ma era come se gli dei o l'Unico Dio di Drake volessero schiacciarlo. Tutto quello che poteva andare storto, era andato storto. Mastro Blint l'avrebbe ucciso. La donna per la quale stava barattando la propria vita lo odiava. Perfino Serah Drake, che, fino alla sera prima, era stata indecisa tra lui e Logan ora lo odiava. La cosa peggiore era che era tutta colpa sua. Tutto ciò che era andato storto, era diretta conseguenza delle decisioni che aveva preso. Be', per lo meno i secchi vuoti non erano colpa sua. Kylar li agguantò e si avviò per il corridoio. Si imbatté in una domestica che saliva le scale con due secchi pieni di acqua bollente. «Salve», la salutò. Non la riconobbe, ma era più graziosa di molte delle ragazze che assumeva la signora Bronwyn. «Salve, mi dispiace di essere in ritardo, è il mio primo giorno e non so dove trovare tutto. Mi dispiace davvero», disse. Gli passò rasente e Kylar non poté fare a meno di notare i suoi grossi seni scivolare contro il suo petto nudo. La ragazza scomparve nella sua camera e lui la seguì. «Posso prenderli io se tu...». «Non sarete impazzito, vero?», chiese lei. «Per favore, non dite al conte Drake o alla signora Bronwyn che ho fatto tardi. Non penso di piacerle e se combino pasticci il primo giorno, sono certa che mi caccerà, e io ho così tanto bisogno di questo lavoro, signore». Aveva posato i secchi e si stava torcendo le mani. «Uuuh», disse Kylar. «Rilassati. Non sono pazzo. Sono Kylar». Le allungò una mano e sorrise. Lei sembrò riscaldarsi all'istante. Sorrise e gli prese la mano. I suoi occhi guizzarono brevemente sul suo torace nudo. Brevemente ma con piacere. «Ciao. Io sono Viridiana». Il servitore accompagnò un attraente Ladeshiano nello studiolo. Logan era uscito per andare a prendere qualcosa da mangiare in cucina, così il conte Drake era solo. «Signore», disse il servitore. «Ha insistito per consegnare un messaggio di persona».


«Molto bene. Grazie», disse il conte. Il Ladeshiano aveva un così bell'aspetto che sembrava strano fosse un messaggero. Sembrava più un cortigiano o un bardo. Teneva in mano qualcosa sulla quale si concentrò tutta l'attenzione del conte. Si trattava di una freccia; era stata dipinta in tutta la sua lunghezza, comprese la punta d'acciaio e le penne, di un rosso lucido, simile al colore del sangue fresco. Non appena il cameriere andò via, l'uomo disse: «Buongiorno, mio signore. Vorrei che il nostro incontro avvenisse in altre circostanze, ma temo che il mio messaggio sia piuttosto importante. Viene da Durzo Blint. Dice: "Se è ancora vivo, date questa al ragazzo e ditegli di cenare con me al Tipsy Tart"». L'uomo fece un inchino e presentò la freccia rossa al conte. Sull'uscio, Logan rise. «"Se è ancora vivo"? Immagino che uno degli amici di Kylar mi abbia visto venire qui stamattina, huh?». Il conte Drake ridacchiò. «Sono certo che hai spaventato chiunque ti abbia visto». Si rivolse al messaggero. «Gliela darò, grazie». «Mio signore», disse il Ladeshiano, rivolgendosi a Logan. «Piangiamo la vostra perdita». Si inchinò nuovamente e uscì. Logan scosse la testa. «Era una battuta per l'addio al celibato?» «Non lo so. Sono stato a Ladesh una volta e non ho mai capito il loro umorismo. Forse dovrei portare questa di sopra». «Pensavo che ci sarebbe stato l'importante discorso padre-figlio sull'intimità del matrimonio». Il conte Drake sorrise. «Ne parli in modo così pudico». «Serah è parecchio pudica», disse Logan. «Credimi, non c'è niente di pudico nell'intimità nuziale, Logan». Il conte guardò la freccia che aveva in mano e la mise da parte. «Be', la prima cosa che devi capire del fare l'amore è...». Viridiana si strofinò la spalla. «É davvero bello incontrare una persona carina, pensavo che lavorare in questo posto sarebbe stato orribile dopo aver visto quant'è meschina la signora Bronwyn, non vi dispiace vero?», disse a perdifiato. «No, no, nient'affatto», disse Kylar non del tutto sicuro di cosa


non dovesse dispiacergli, ma consapevole del fatto che non avrebbe dovuto essere dispiaciuto. Come se fosse la cosa più naturale del mondo, Viridiana si slacciò i lacci del corpetto, che Kylar aveva già notato essere particolarmente stretto. «Oh, così va meglio», disse, traendo un grosso sospiro. La ragazza chiuse la porta a chiave e andò verso i secchi, sfilandosi il corpetto e lasciandolo cadere. «Uhm», commentò Kylar. Poi, Viridiana si piegò per sollevare nuovamente i secchi. Doveva aver avuto due metri di scollatura, poiché Kylar vi si perse totalmente dentro. Aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono. Fu con enorme sforzo che distolse lo sguardo. Viridiana lo stava osservando e, anche quando la faccia gli divenne incandescente, lui vide che la ragazza era tutto fuorché dispiaciuta. Con un solo abile gesto, si sciolse i capelli che le ricaddero in lunghi riccioli attorno al viso. «Siete pronto per il vostro bagno, mio signore?» «No! Cioè... voglio dire...». «Volete lavarvi dopo», disse lei, avanzando verso Kylar. Si portò le mani dietro la schiena e cominciò a sbottonarsi. Dopo? Kylar indietreggiò, ma la sua resistenza stava sbriciolandosi. Perché no? Cosa diavolo aspetto? È per via di Elene? Viridiana gli riempiva gli occhi: labbra carnose, magnifici capelli che sentiva già tra le dita, sul suo petto. Quei seni. Quelle cosce. E lo voleva. Sarebbe stato sesso, solo sesso, niente amore. Non una grandiosa espressione di romanticismo e impegno. Solo passione. Semplicissimo. Più simile al modo di fare di Momma K. Meno a quello del conte Drake. Ma al diavolo. Il suo corpo era più convincente di una stanza piena di studiosi. Con i polpacci urtò il letto rischiando di cadere. «Io, io non mi sento molto a mio...». Una mano della ragazza si abbatté sul suo petto. Kylar stava cadendo all'indietro quando l'altra mano della ragazza scattò da sotto il vestito con uno scintillio metallico. Non appena la sua schiena colpì il letto, lei gli si mise a cavalcioni, bloccandogli con le ginocchia le braccia contro i fianchi, mentre con una mano gli afferrava i capelli e con l'altra gli premeva il coltello sulla gola.


«A tuo agio?», gli chiese, terminando la frase per lui. Non scherzava con quel coltello; lo teneva premuto sulla gola proprio nel punto in cui la minima pressione avrebbe lacerato la pelle. Era puntato contro un'arteria. Mentre cercava di riempirsi d'aria i polmoni, doveva stare attento a non muovere il collo. «Ah, merda», disse. «Sei l'apprendista di Hu Gibbet. Vi. Viridiana, Vi, come ho fatto a non capirlo?». Lei sorrise senza allegria. «Per chi lavori? Il principe era la mia vittima». «Sul serio. È imbarazzante. Fregato da un altro sicario. Hmm. Un bel sicario donna». «Non farti strane idee». Lo bloccò con le cosce, facendolo arrossire. Gli diede un pizzicotto sulle guance. «Non sei affatto brutto, sai. Sarà un dispiacere ucciderti». «Il dispiacere sarà tutto mio, te lo assicuro». «Non angustiarti», disse lei. «Parte del mio Talento è un incantesimo. Bisogna riconoscerti che non stavi proprio sbavando». «Vuoi dire che queste sono un'illus...». «Giù le mani o sei morto», disse lei. «Il corpo è vero, grazie». «Sono io che dovrei ringraziarti, ma questo coltello puntato alla gola incide non poco sul mio gradimento». «Se stai cercando di cavartela con le lusinghe, hai bisogno di fare più pratica. Per chi lavori?» «Tu lavori per il re», rispose Kylar. «Non è vero?» «Hai carattere», riconobbe la ragazza. «Mi piace». «Se me la facessi addosso sarebbe terribilmente spiacevole per entrambi», disse Kylar. Lei ridacchiò e lui sorrise nel modo più affascinante possibile. «Andava meglio?» «Meglio. Premierò il tuo sforzo. Ho avuto questo lavoro dal re. Era un po' seccato che tu gli avessi ucciso il figlio. Così, prendo il suo denaro, anche se gli ordini li prendo da Roth. Ultima possibilità, adesso». Gli premette il coltello contro la gola e Kylar dovette allungare la testa all'indietro più che poté per evitare di tagliarsi. «Sono certo che comprenderai il mio dilemma», disse Kylar,


allungando il collo. «Se non rispondo, tu mi uccidi dolorosamente e lentamente. Se rispondo, mi uccidi alla svelta». «Oppure potresti cercare di tirarla per le lunghe e sperare che qualcuno ti salvi. Sei sveglio. Suppongo tu debba esserlo. Ci ha incuriositi tutti il fatto che Blint abbia scelto un apprendista senza il Talento. Credo sia per l'intelligenza». «Tutti? Avete scommesso su di me? Aspetta un attimo, dicono che io non ho il Talento? » «Come si suol dire, non ci sono segreti nel Sa'kagé», rispose Vi. «Allora, non vuoi dirmi per chi lavori, vero? Probabilmente per qualcun altro mandato da Roth. Quando vuole che sia fatto un lavoro, si assicura in tutti i modi che venga portato a termine. Si dice perfino che abbia convinto lady Jadwin a farlo, ma riconosco il lavoro di un sicario quando lo vedo». «Sei una chiacchierona, vero?», osservò Kylar. Se avesse avuto una mano libera, si sarebbe schiaffeggiato. Nota bene: quando si cerca di guadagnare tempo, mai criticare la prolissità di chi ti ha fatto prigioniero. Il bel viso di lei divenne brutto per mezzo secondo e Kylar vide Hu Gibbet in lei. Poi Vi sorrise, senza che Hu Gibbet abbandonasse i suoi occhi. «Nella prossima vita», disse, «cerca di lavorare sul fascino». La sensazione seguente sarebbe stata quella del coltello che scivolava, della pelle del collo che si lacerava, del calore. La disperazione attanagliò Kylar. Si sentì bussare alla porta. «Kylar?», disse il conte. Vi sussultò e si girò. Kylar spostò di scatto la testa da un lato e cercò di scrollarsi la ragazza di dosso. O questo fu ciò che ordinò al proprio corpo di fare. Invece, sentì l'energia riversarsi dentro di sé, sferzandolo. Una breve euforia, il potere che cresceva in lui, un senso di benessere come se fosse stato malato per tutta la sua vita, e ora si sentisse bene per la prima volta. Era il Talento, della cui esistenza Durzo era sempre stato convinto, e adesso era suo. Vi fu sbalzata in aria, ma mantenne la presa sui capelli di Kylar e una delle sue gambe rimase attorcigliata a quella del ragazzo. Così, invece di volare via da lui, andò verso l'alto e si abbatté nuovamente sul suo corpo. Cercò di colpirlo con il coltello, ma ora


Kylar aveva entrambe le mani libere e riuscì a bloccarle le braccia e a rotolarsi. Caddero dal letto e Kylar atterrò sulla ragazza che, con un grugnito, sollevò un ginocchio tra le gambe di lui. Fu come se il sole gli esplodesse tra le mutande. Gemette e questo fu tutto ciò che poté fare per non lasciarle le mani mentre lei gli si rotolava sopra. «Kylar?», urlò il conte da dietro la porta. «C'è una signora lì dentro?». Non la chiamerei una signora. I testicoli gli dolevano talmente tanto che riusciva a malapena a muoversi, figuriamoci a lottare. «Aiuto!». «Sei patetico», lo schernì Vi. Lui si limitò a grugnire. Vi si liberò di lui e si rialzò. Kylar cercò affannosamente di rimettersi in piedi mentre la porta si spalancava, ma fu troppo lento. La ragazza stava già scagliando il coltello contro il conte Drake. Il conte si gettò da un lato e il coltello gli passò accanto senza ferirlo. Dopo una frazione di secondo, il conte aveva un coltello in mano, ma esitò. Vi vide la sua mano sollevarsi e, con un salto, raggiunse la finestra. Kylar afferrò il coltello dalla mano del conte e lo lanciò nel momento in cui Vi spariva attraverso la finestra. Pensò di vederlo affondare nella spalla della ragazza. Agguantò la spada che teneva nascosta sotto il letto ma, quando guardò fuori dalla finestra, lei era scomparsa. Il conte sembrava scosso. Teneva una freccia rossa nell'altra mano. «Ho esitato», disse. Da parte di chiunque altro, quella sarebbe stata un'ammissione di sconfitta, ma il conte Drake sembrava vittorioso. «In tutti questi anni, me lo sono sempre chiesto, ma è vero. Sono davvero cambiato. Dio, ti ringrazio». Kylar lo guardò in modo strano. «Che volete dire?» «Kylar, dobbiamo parlare».


Capitolo 45 «Sarò morta tra un giorno o due, perciò fai attenzione, Jarl», disse Momma K. Jarl esitò un momento e poi bevve l'ootai che lei gli aveva versato. Diavolo se sapeva essere freddo il ragazzo. Ma era proprio quella la ragione per cui ora si trovava a parlare con lui e non con un altro. «Domani o il giorno dopo, Kylar o Durzo verranno qui a uccidermi», disse. «Perché ho mandato Kylar a uccidere un uomo che lui pensava fosse Hu Gibbet, ma, in realtà, era Durzo, travestito da Hu. Chiunque di loro sia sopravvissuto, ora sa che ho mentito e che li ho traditi entrambi. So che un tempo eri amico di Kylar, Jarl...». «Lo sono ancora». «Bene. Non avevo intenzione di chiederti di vendicarmi. Sono pronta per la giustizia. In ogni caso la vita, a questo punto, non è che una serie di delusioni». Era pietà quella che vedeva negli occhi del ragazzo? Pensò di sì, ma non se ne curò. Avrebbe capito se fosse vissuto altrettanto a lungo. «Cosa posso fare per aiutarti, Momma K?» «Non voglio che mi aiuti. Le cose stanno accadendo in fretta, Jarl. Forse troppo in fretta. Roth si sta dando da fare per diventare Shinga. Ho il sospetto che ben presto avremo la cattiva notizia che Pon Dradin è morto». «Non hai intenzione di metterlo in guardia? Lascerai che Roth lo uccida?» «Due ragioni, Jarl. Saperne anche solo una potrebbe costarti la vita. Sei pronto a recitare su questo palcoscenico?». Jarl si accigliò, riflettendo su quelle parole, e poi annuì. «Primo, lascerò che Pon Dradin muoia perché sono stata compromessa. Roth mi ha ricattata per farmi tradire Durzo e Kylar. Non voglio rivelare come. Sono stata umiliata abbastanza. Ciò che conta è che appartengo a Roth. Non posso oppormi a lui in nessun modo senza farmi scoprire, altrimenti perderò qualcosa a cui tengo più della mia vita. Perciò morirò. Voglio che tu mi sostituisca».


«Tu vuoi che io prenda il tuo posto nei Nove?». Lei sorrise nella sua tazza di ootai. «Non ero solo la Signora dei Piaceri, Jarl. Sono stata lo Shinga per diciannove anni». Provò una certa soddisfazione per il modo in cui il suo imperturbabile protetto sgranò gli occhi. Jarl sprofondò nella sedia. «Per gli dei», disse. «Questo spiega molte cose». Lei rise e, per quella che sembrò la prima volta dopo anni, ci provò gusto. Se esporre la propria gola era sempre così, pensò di aver capito finalmente perché Durzo aveva amato il pericolo del suo mestiere. Stare così vicino alla morte, ti faceva apprezzare il fatto di essere vivo. «Dimmi come funziona», disse Jarl. Era quello che Momma K avrebbe detto al suo posto. Avrebbe accettato ciò che lo Shinga avesse detto della propria morte, e subito avrebbe cercato di capire come la cosa potesse influire sullo Shinga, invece di esprimere dispiacere per il fatto che sarebbe morto. O, forse, al posto di Jarl, lei avrebbe fatto qualche smorfia di dolore per la futura morte della sua signora, ma sarebbe stata menzognera. Jarl non finse neanche, e forse lei avrebbe dovuto rispettarlo per questo. Avrebbe imparato bene la lezione. Eppure la cosa la feriva. «Mi dispiace», disse lui. Sembrava sincero. Forse era così. O forse gli dispiaceva che, avvicinandosi alla morte, lei si rammollisse, proprio lei che gli aveva insegnato a manipolare i propri sentimenti di pietà e amore. Momma K non ne era certa. Jarl era una sua creatura. Era peggio che guardarsi allo specchio. «Tutti nel Sa'kagé sanno chi è il loro capo. Quelli più intelligenti sanno chi è il loro rappresentante tra i Nove. Naturalmente, l'identità dello Shinga è un segreto per modo di dire, perché la conoscono tutti. Metti insieme queste cose, e se aggiungi qualche ladro e qualche puttana, riesci a capire l'intera struttura di potere del Sa'kagé. Questo è andato bene negli ultimi quattordici anni, perché le cose sono state molto stabili». «La stabilità era dovuta al tuo comando o è stata solo fortuna?», chiese Jarl. «Al mio comando», rispose lei onestamente. «Ho fatto uccidere l'ultimo re e ho messo sul trono Aleine, così non abbiamo avuto pressioni dall'alto e ho gestito tutte le pressioni interne. Ma lo stato


normale di qualsiasi Sa'kagé è la rivolta, Jarl. Ladri, assassini, tagliaborse e puttane non hanno la tendenza a rimanere uniti. Gli omicidi sono normale amministrazione. Durante la tua vita è stato molto più pacifico di quanto non lo sia stato in precedenza. I primi cinque anni in cui sono stata Shinga, abbiamo perso otto elementi. Sei sono stati omicidi esterni. Due li ho dovuti uccidere io stessa perché avevano cercato di usurpare il mio potere. Solo due posti nei Nove sono rimasti immutati. Negli ultimi quattordici anni, Pon Dradin ha potuto indulgere ai propri vizi liberamente, a patto che frequentasse le riunioni, tenesse la bocca chiusa e rigasse dritto. Non mi aspettavo che durasse così a lungo». «Quindi solo i Nove sanno chi è davvero lo Shinga?» «E i sicari, ma loro fanno un giuramento di fedeltà magicamente vincolante. Il sistema ha comunque i suoi lati negativi. Pon è ricco quasi quanto me, grazie alle tangenti e alle bustarelle, e ciascun nuovo membro dei Nove scopre di aver leccato i piedi sbagliati per tutto il tempo che ci è voluto per arrivare in alto. Ciò irrita enormemente alcuni di loro, ma serve anche a tenere alla larga dai Nove gente che non c'entra niente. Ma la cosa migliore di tutte è che mi ha mantenuta in vita e potente». «Qual è il ruolo di Roth in tutto questo?» «Roth è appena entrato a far parte dei Nove. Non è al corrente del segreto. È per questo che Pon morirà da un giorno all'altro. Roth pensa che ucciderlo lo farà diventare Shinga. Ma ciò metterà solo in risalto la più grande pecca di tutta la mia segretezza: se solo otto persone sanno chi è il vero Shinga, Roth deve solo convincere quegli otto che ora lo Shinga è lui». «Se il resto dei Nove ha così tanta paura di lui, come faccio a impadronirmi del suo potere?», chiese Jarl. Momma K sorrise. «Ottima domanda. Non ti lascerò senza difese, naturalmente». Infilò la mano sotto la scrivania e ne tirò fuori un libricino. «Le mie spie. Spero di non aver bisogno di dirti che più tempo impiegherai a bruciare questo libro, meno valore avrà la tua vita». Il ragazzo prese il libro. «Lo memorizzerò immediatamente». Lei tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia. «Si trova in una posizione forte, Jarl. La gente ne è terrorizzata». «Dunque questo è tutto?», chiese Jarl.


«Mi perdonerai se non ti dico dove sono custodite tutte le mie ricchezze. Una donna anziana deve proteggersi, nel caso io riesca a sopravvivere. E poi, se muoio, avrai un sacco di tempo per trovarle tutte». «Posso chiederti consiglio?», chiese Jarl. Lei annuì. «Ho seguito gli uomini di cui mi hai chiesto», disse il ragazzo. Momma K annuì di nuovo. Non spronò Jarl con le sue domande. Avevano lavorato insieme abbastanza a lungo da sapere entrambi che le avrebbe detto tutto. «Sono decisamente stregoni. Hanno cercato di tendere un'imboscata a Regnus Gyre e la sua piccola scorta a nord della città. La maggior parte degli uomini è stata eliminata, e lo sarebbero stati tutti se tra loro non ci fosse stato un mago». Momma K inarcò un sopracciglio. «Li guardavo da lontano, ma Regnus e il mago hanno discusso dopo e ognuno ha preso una strada diversa. La mia ipotesi è che lord Gyre non sapesse che quell'uomo era un mago». «Questo mago ha sconfitto tre stregoni?» «Gli stregoni hanno fatto cose spettacolari, ma quando il fumo si è diradato - letteralmente, intendo - lui era l'unico rimasto in piedi. Quell'uomo ha combattuto con la propria mente. Ha tenuto a bada due stregoni fino a che i soldati di lord Gyre non sono stati in grado di abbatterli. Ha fatto in modo che un cavallo calpestasse il terzo. Non capisco la magia, perciò forse c'è stato più di quello che ho visto, ma questo è ciò che sembrava». «Va' avanti». «A lord Gyre era rimasto un solo uomo dopo che lui e il mago hanno discusso. Hanno seguito un percorso tortuoso attraverso la città e sono arrivati a casa dopo la mezzanotte. Hai sentito cosa c'era lì?» «Ventotto morti. Hu Gibbet si è scatenato». «Ordini di Roth?», chiese Jarl. Lei annuì. «Sfortunatamente, il giuramento dei sicari ha un sacco di scappatoie». «È stato orribile. A ogni modo, lord Gyre ha convinto gli uomini venuti ad arrestarlo a unirsi a lui, e ora si nascondono a casa di un cugino, cercando di raccogliere quanto più sostegno possibile. Il


mago è un Sethi di nome Solon. Non sono ancora riuscito a trovare altro. Fino a mezz'ora fa, stava a White Crane». «Non mi deludi mai, Jarl». Il ragazzo stava per fare una domanda quando qualcuno bussò alla porta. Entrò una domestica che consegnò a Momma K un foglietto. La donna lo porse a Jarl. «Il cifrario è sul frontespizio del tuo libro». Dopo un minuto, l'aveva decifrato. «Pon Dradin è morto». Jarl la guardò. «Cosa faccio adesso?» «Questo, mio apprendista», disse lei, «è un tuo problema». «Kylar, voglio parlare del tuo futuro». Sarebbe stato un discorso breve, allora. Il conte Drake prese il pince-nez dalla tasca del panciotto ma non lo inforcò. Si limitò ad agitarlo mentre parlava. «Ho una proposta per te. Ci ho pensato un sacco e, Kylar, tu non sei tagliato per fare il sicario. No, ascoltami, voglio darti l'opportunità di uscirne, figliolo. Kylar, voglio che tu sposi Ilena». «Signore?» «So che sembra piuttosto sbrigativo, ma voglio che tu ci rifletta». «Signore, ha solo quindici anni». «Oh, ma io non intendo adesso. Ciò che propongo è che, be', Kylar, che tu ti fidanzi. Ilena è infatuata di te da tempo e proporrei di darci un paio d'anni, per vedere se nasce qualcosa mentre tu... be', mentre tu impari a occuparti dei miei affari». «Non sono certo di capire, signore. Anzi, sono certo di non capire». Il conte si colpì la mano con il pince-nez. «Kylar voglio che tu... voglio darti l'occasione di lasciare la vita che conduci. Voglio che impari a gestire i miei affari per poi prendertene carico un giorno. Ho parlato con la regina e, con il suo permesso, ho scoperto che potremmo trasferire a te il mio titolo. Saresti un conte. Non è niente di speciale, lo so, ma diventeresti un nobile. Ciò che hai finto di essere tutti questi anni». Kylar rimase a bocca aperta. «Trasferire il vostro titolo? Cosa


volete dire con trasferirlo?» «Oh, Kylar, il titolo non mi ha portato niente di buono. Bah! Non ho comunque figli maschi a cui trasmetterlo. Tu ne hai bisogno e io no. A ogni modo, voglio fare questa cosa, anche se l'idea del fidanzamento con Ilena non ti alletta. Questo ti darebbe tempo, Kylar. Tempo per capire cosa vuoi fare della tua vita. Ti renderebbe libero. Libero da loro». Libero. Fuori dal Sa'kagé. Era il gesto più nobile cui Kylar avesse mai assistito... e dopo la notte precedente, giungeva troppo tardi. Kylar guardò a terra e annuì. «Non funzionerà, signore. Mi dispiace. Credetemi, io sono... Siete stato più che gentile con me, molto più gentile di quanto io meriti. Ma non credo che questo», indicò con la testa il picnic che Logan e Serah stavano facendo, «faccia per me». «So che stai pensando di andartene, Kylar». Tipico del conte. Dritto al punto. «Sissignore», ammise Kylar. «Presto?» «Avrei già dovuto farlo». «Allora forse è stato Dio a farmi parlare con te adesso. Durzo ti ha detto di non dare ascolto alle mie prediche, suppongo». Il conte Drake guardava fuori dalla finestra, ma la sua voce era addolorata. «Ha detto che credervi mi avrebbe portato alla morte». «Un'affermazione piuttosto giusta, suppongo», disse il conte. Si voltò verso Kylar. «Lavorava per me, sai?» «Come? Durzo?». Questo fece sorridere il conte. «Prima che fosse un sicario?». Kylar non riusciva quasi a immaginare che ci fosse stato un tempo in cui Durzo Blint non fosse un sicario, pur ritenendo che dovesse essere esistito. Il conte scosse la testa. «No. Uccideva la gente per me. È così che ci siamo conosciuti. É per questo che sapeva di poterti affidare a me. Durzo non ha una grande vita sociale al di fuori del suo lavoro, sai». «Voi? Voi ordinavate degli omicidi?» «Abbassa la voce. Mia moglie lo sa, ma non c'è bisogno di spaventare la servitù. Ho cercato di non farti prediche solo a parole, ma ho lasciato che la mia vita testimoniasse quello che so, Kylar.


Ma forse ho sbagliato. Una volta un santo ha detto: "Predica sempre. Quando è necessario, usa le parole". Posso avere un minuto del tuo tempo?». Una parte di lui voleva dire di no. Non solo era imbarazzante sentire qualcuno che rispettavi cercare di venderti qualcosa che sapevi non avresti mai comprato, ma Kylar aveva i minuti contati. Da un momento all'altro sarebbe potuta arrivare la notizia che lo accusava del furto della notte prima, e tutto quel bel quadretto sarebbe scoppiato come una bolla. Logan lo avrebbe conosciuto per quello che era. Serah avrebbe avuto un'altra occasione per rimproverarlo. Il conte avrebbe messo su quell'espressione delusa che era sempre così tagliente. Kylar sapeva che il conte sarebbe stato deluso, che non avrebbe mai saputo quanto di buono il ragazzo aveva fatto la notte prima e quanto gli fosse costato. Il conte sarebbe stato deluso, senza riguardo per ciò che Kylar sapeva, ma Kylar non era obbligato a vedere tutto ciò. «Certo», rispose. Era la risposta giusta da dare. Quell'uomo lo aveva allevato, gli aveva permesso di vivere una vita impossibile per uno come lui. Kylar glielo doveva. «Mio padre ereditò una grossa fortuna da suo padre, abbastanza per mescolarsi con Gordin Graesin, Brand Wesseros e Darvin Makell - credo che tu non abbia sentito parlare dei Makell, sono stati sterminati nella Guerra degli Otto Anni. A ogni modo, cercava di fare colpo su questi figli di duchi spendendo e spandendo. Lussuosi festini, gioco d'azzardo, affitto di interi bordelli. Il fatto che suo padre fosse morto quando lui era ancora giovane peggiorò le cose. Naturalmente la nostra famiglia divenne presto povera. Mio padre si tolse la vita. Così, all'età di diciannove anni, ho assunto il controllo di una casa sull'orlo della rovina. Avevo fiuto per gli affari, ma la consideravo un'attività al di sotto delle mie capacità. Come accade a tanti, proprio quella mancanza di motivi di orgoglio mi rese ancora più orgoglioso. Ma alcune realtà hanno un certo modo di farsi sentire e i debiti sono una di quelle. Piuttosto prevedibilmente, uno dei debitori di mio padre aveva una soluzione che mi avrebbe consentito di fare "soldi facili". Cominciai a lavorare per il Sa'kagé. L'uomo che mi assoldò era il Trematir. Se fosse stato più bravo nel suo lavoro, mi avrebbe affossato rendendomi ancora di più debitore del Sa'kagé, ma presto scoprii di comprendere gli uomini, il denaro e il modo in cui interagiscono meglio di quanto facesse lui. Cosa alquanto


strana, ebbi ben pochi rimorsi. Investii i miei soldi in qualsiasi impresa potesse portare guadagno. Bordelli specializzati per soddisfare qualunque appetito, poco importava quanto depravato fosse. Cominciai a giocare d'azzardo nelle bische, e a chiedere la collaborazione di esperti di tutto il mondo per aiutarmi a separare i miei clienti dal loro denaro. Ho contrabbandato droghe e dato mazzette alle guardie per non ispezionare le navi. Quando uno dei miei affari veniva minacciato, prendevo dei professionisti per risolvere il problema. La prima volta che sono andati oltre, e hanno ucciso accidentalmente un uomo, sono rimasto scioccato, ma non si trattava di qualcuno che mi piaceva, l'avevo fatto per la mia famiglia e non avevo dovuto assistervi, perciò questo rese la cosa accettabile. Quando sono entrato in conflitto con il Trematir, quella di assoldare Durzo è stata una decisione facile. Ero abbastanza ingenuo da non accorgermi che Durzo aveva chiesto immediatamente il permesso dello Shinga. Lo ottenne e io divenni il Mastro Tesoriere del Sa'kagé». Kylar ascoltava ogni parola senza riuscire a crederci. Quello non poteva essere il conte Drake con il quale era cresciuto. Rimbold Drake aveva fatto parte dei Nove? «Viaggiavo tanto, intraprendendo affari in altri paesi con grande successo, e fu allora che ebbi la mia terribile rivelazione. Naturalmente, all'epoca non mi rendevo conto dell'orrore nei miei progetti. Vedevo solo la mia grande abilità. Nel giro di quattro anni, avevo pagato i debiti della mia famiglia, ma ora intravedevo un modo per fare davvero un mucchio di soldi. Rivendetti l'idea al Sa'kagé. Impiegammo dieci anni, ma riuscimmo a mettere la nostra gente al posto giusto e legalizzammo la schiavitù. Fu introdotta in forma limitata, naturalmente. Per i forzati e i derelitti. Gente che non poteva prendersi cura di sé, dicevamo. I nostri bordelli si riempirono di schiave che non dovevamo più pagare per il loro lavoro. Demmo inizio ai Giochi Mortali - un'altra delle mie brillanti idee -, e divennero una cosa sensazionale, un'ossessione. Costruimmo l'arena, stabilimmo un prezzo per l'ingresso, monopolizzammo la vendita di cibo e vino, gestimmo le scommesse, qualche volta truccammo gli eventi. Facemmo soldi più in fretta di quanto mai avevamo immaginato fosse possibile. Assoldai Durzo così di frequente che diventammo amici. Eppure non accettava tutti i lavori che gli proponevo. Aveva sempre il suo codice. Accettava il lavoro quando si trattava di gente che cercava


di accaparrarsi un mio affare, ma se volevo morto qualcuno che stava solo cercando di fermarmi, dovevo rivolgermi ad Anders Gurka o Scarred Wrable o Jonus Severing o Hu Gibbet. Devi capire che nonostante tutto questo, non mi consideravo una cattiva persona. Non mi piacevano i Giochi Mortali. Non vi ho mai assistito, non sono mai andato nelle galee, dove gli uomini vivevano e morivano incatenati al loro remo, non sono mai stato nei nidi d'infanzia che talvolta diventavano bordelli di bambini, non ho mai visitato le scene dell'attività di Durzo. Mi bastava dire delle parole e i soldi cadevano come pioggia. La cosa buffa era che non ero neanche ambizioso. Ero più ricco di chiunque in tutto il regno, a eccezione di qualche nobile di alto rango, dello Shinga e del re, e la cosa non mi creava problemi. L'unica cosa che non sopportavo era l'incompetenza. Altrimenti, sono certo che lo Shinga mi avrebbe fatto uccidere. Ma non fu costretto a farlo, perché non costituivo una minaccia e Durzo glielo aveva assicurato». Il conte scosse la testa. «Sto divagando, scusa, ma non racconterò mai più queste storie». Trasse un sospiro. «Commisi il mio errore quando mi innamorai della donna sbagliata. Per qualche ragione, ero attratto da Ulana. Non solo attratto, bensì ossessionato, e impiegai molto tempo a capire perché. Cercavo perfino di evitarla, era così doloroso per me stare in sua presenza. Ma alla fine capii che dipendeva dal fatto che fosse così diversa da me. Vedi, Kylar, lei era pura. E, stranamente, anche lei sembrava amarmi. Certo non aveva idea di chi io fossi veramente. Non conducevo nessuno dei miei affari con il mio vero nome, e ben pochi nobili avevano idea della provenienza della mia ricchezza. Più sprofondavo nelle tenebre, più la amavo e più la mia vergogna cresceva. Come si poteva amare la luce e vivere nell'oscurità?». La domanda andò dritta al cuore di Kylar. Provò vergogna. «Ulana cominciò a interessarsi alla questione della schiavitù, Kylar, e decise che avrebbe visitato i nidi d'infanzia, le galee e le fosse dei combattimenti. Non potevo certo lasciarla andare da sola e così, per la prima volta, vidi quello che avevo creato». Lo sguardo del conte si fece distante. «Oh Kylar, come si muoveva tra quei derelitti. In tutto quel lezzo di rifiuti umani e disperazione e male, lei era un fresco alito di vento, un soffio di speranza. Era la luce nei luoghi oscuri che avevo creato. Vidi un campione di lotta, un uomo che aveva ucciso cinquanta avversari, piangere al suo tocco.


Ero un uomo dilaniato. Decisi di venirne fuori ma, come molti codardi moralisti, non volevo pagare l'intero prezzo. Perciò andai a Seth, dove la schiavitù è molto diversa. Ritornai e, in segreto, feci in modo che passasse una legge che avrebbe liberato gli schiavi ogni sette anni. Il Sa'kagé acconsentì, ma vi aggiunse una clausola che la vanificava. Poi, un giorno, Ulana, che all'epoca era la mia fidanzata, venne da me piangendo. Suo padre e sua madre erano rimasti gravemente feriti in un incidente di carrozza. Pensava che sua madre stesse per morire e aveva bisogno di me. In quello stesso momento, i Nove erano riuniti nel mio salotto perché re Davin era sul punto di bandire nuovamente la schiavitù e ciò, naturalmente, ci sarebbe costato milioni. Sai chi mandai via, Kylar?» «Mandaste via i Nove?». Kylar era sconcertato. Un tale insulto sarebbe equivalso alla morte. «Mandai via Ulana». «Dannazione. Uhm, mi dispiace». «No, è così che mi sentii. Dannato. È lì che Dio mi ha trovato, Kylar. Non potevo più farlo. Ero morto dentro. Pensai che tagliare i ponti con il Sa'kagé sarebbe stata la mia morte, soprattutto quando capii che non sarebbe bastato affidare il mio impero a qualcuno in grado di perpetuarlo. Al contrario, dovetti usare tutta la mia astuzia per consegnarlo a uomini che l'avrebbero fatto a pezzi. Ed ecco cosa feci. Usai il denaro che avevo accumulato per sovvenzionare coloro che avrebbero ricostruito il bene che avevo distrutto, e che avrebbero distrutto le oscenità che avevo creato. Una volta finito, non avevo più un soldo, la mia famiglia era in bancarotta e mi ero fatto una dozzina di potenti nemici. Andai da Ulana, le raccontai tutto e ruppi il fidanzamento». «Cosa fece lei?», chiese Kylar. «Le si spezzò il cuore nel sentire cosa ero stato, Kylar, e nel rendersi conto di non conoscermi affatto. Ci volle del tempo, ma mi perdonò. Non riuscivo a crederci. Ma lo fece davvero. Ci volle molto più tempo perché io perdonassi me stesso ma, un anno dopo, dopo che la schiavitù venne bandita ancora una volta - in parte per i miei sforzi - eravamo sposati. Ho dovuto lavorare sodo negli ultimi venti anni. Spesso sono stato ostacolato dalla mia vecchia reputazione e qualche volta da quella nuova. Sai come molti nobili considerano quelli di noi che lavorano. Ma i miei soldi sono puliti. E Dio è stato


buono. La mia famiglia ha abbastanza. Le mie figlie sono una gioia per me. Logan ha chiesto la mano di Serah e lei ha accettato. Come negare che io sia stato benedetto? A ogni modo, avrei dovuto raccontarti tutto un sacco di tempo fa. Forse già ne sapevi qualcosa per via del Sa'kagé». «No, signore. Non ne avevo idea», disse Kylar. «Figliolo, spero che tu veda che io capisco. So quali menzogne racconta il Sa'kagé e so qual è il prezzo per uscirne. Dio è stato misericordioso con me. Non mi ha fatto pagare tutto quello che dovevo ma, forse, dovevo essere io disposto a pagare tutto il prezzo. È in questo che il pentimento è diverso dal rimorso. Ero dispiaciuto per quello che si era rivelata la schiavitù, ma non ero disposto a prendermene la responsabilità. Quando l'ho fatto, Dio è potuto entrare pienamente nella mia vita». «Ma, signore, come fate a essere ancora vivo? Voglio dire, voi non ve ne siete semplicemente andato, ma avete distrutto un'attività che rendeva loro milioni!». Il conte Drake sorrise. «Dio, Kylar. Dio e Durzo. A Durzo sono simpatico. Crede che io sia uno sciocco, ma gli piaccio. Mi ha protetto. Non è un uomo da contrariare a cuor leggero». Grazie per avermelo ricordato. «Il punto è, Kylar, che se vuoi abbandonare questa vita, puoi farlo. Il tuo lavoro potrebbe mancarti. Immagino che tu sia bravissimo e c'è gusto nell'esserlo. Non puoi pagare per tutto quello che hai fatto. Ma non è tardi per la redenzione. C'è sempre una via d'uscita. E, se sei disposto a fare il sacrificio, Dio ti darà l'opportunità di salvare qualcosa di inestimabile. Sono qui per dirtelo, i miracoli accadono. Come questo». Indicò fuori dalla finestra e scosse la testa, incredulo. «Mia figlia che sposa un uomo buono come Logan. Possa Dio essere con loro». Kylar aveva gli occhi velati dalle lacrime e quasi non si accorse che il conte si piegava ancora più in avanti, per guardare verso il cancello d'ingresso. La vista gli si schiarì non appena vide i soldati spingere da una parte il vecchio servitore. Kylar si rialzò in un istante, ma i soldati non andarono alla porta principale. Si fermarono davanti a Logan e Serah, e il conte aprì la finestra per ascoltare il capitano che srotolava una pergamena. «Duca Logan Gyre, vi dichiaro in arresto per alto tradimento, ovvero per l'omicidio del principe Aleine Gunder».


Capitolo 46 Il conte Drake si precipitò fuori all'istante. Kylar esitò nello stesso punto in cui, dieci anni prima, si era imbattuto in Logan e avevano dato inizio alla loro amicizia con una scazzottata. Non doveva uscire. Non c'era tempo per considerare quanto sapessero le guardie ma, se ritenevano che Logan fosse coinvolto nella morte del principe, chissà cos'altro pensavano? Il re doveva essere in totale paranoia. Qualunque cosa stesse accadendo, non era mai una buona idea attirare l'attenzione delle guardie. Ma vedere lo sconcerto sul volto di Logan lacerò il cuore di Kylar. Stava in piedi là fuori, disarmato. Sembrava un cane preso a calci senza alcun motivo, con gli occhi sbarrati. Maledicendosi per la propria stupidità, Kylar seguì il conte. «Esigo una spiegazione», disse il conte. Nonostante la sua andatura zoppicante, riusciva in qualche modo a muoversi con autorevolezza. Tutti gli occhi si girarono su di lui. «Stiamo... stiamo eseguendo un arresto, signore. Temo che sia tutto quello che posso dirvi», disse il capitano. Era un ometto robusto con la pelle gialla e gli occhi a mandorla, ma sembrava che gli occorresse tutta la sua determinazione per stare lì, davanti al conte e non volare via. «Vi accingete ad arrestare un duca e non avete l'autorità per farlo, capitano Arturian. Per il terzo emendamento della legge dell'ottavo anno del regno di Hurol II, l'arresto di duchi del reame deve essere giustificato dall’habeas corpus, due testimoni e un movente. L'incarcerazione richiede due di queste tre condizioni». Il capitano Arturian deglutì e sembrò tenere la schiena dritta solo per un atto di volontà. «Noi, uhm, l’habeas corpus significa "avere il corpo" ? Allora devo portare due testimoni o fornire un movente prima che mi permettiate di arrestare il duca?» «Se avete il corpo», disse il conte. L'uomo annuì. «Noi, uhm, noi l'abbiamo, signore. Il corpo del principe è stato trovato la notte scorsa dai Jadwin e il movente è una faccenda di... uh. Non se ne può parlare». «Se provate ad arrestare il duca Gyre in casa mia, al di fuori delle norme di legge, come nobile del luogo, ho il diritto e l'obbligo


di proteggerlo con la forza delle armi». «Vi massacreremmo!», disse ridendo una delle guardie. «E se lo faceste, dareste il via alla guerra civile. È questo ciò che volete?», chiese il conte Drake. L'uomo che aveva parlato ammutolì e Vin Arturian divenne terreo. «O fornite un movente che avrebbe portato un uomo di riconosciuta eccellenza morale come il duca Gyre a uccidere uno dei suoi migliori amici, o sparite». «Milord», disse il capitano Arturian, tenendo gli occhi bassi. «Perdonatemi. Il movente è la gelosia». Per qualche ragione, gli occhi di Kylar si spostarono su Serah. La ragazza sembrava straziata dalla notizia ma, nel vedere il capitano sempre più imbarazzato, sembrò chiudersi in se stessa, come se sapesse ciò che stava per dire. «Il duca Gyre ha scoperto che il principe aveva... rapporti sessuali con vostra figlia». «Questo è ridicolo!», esclamò Logan. «È la cosa più ridicola che abbia mai sentito. Per l'amor di Dio, non ha mai fatto l'amore neanche con me! La sua amante! Aleine le ronzava intorno, ma non avrebbe mai...». Logan guardò Serah e non finì la frase. «Serah, tu... non l'hai fatto. Dimmi che non l'hai fatto». Fu come se la sua anima fosse stata denudata, e tutte le frecce del mondo vi fossero affondate contemporaneamente. Serah gemette, un suono così pieno di dolore da lacerare il cuore, ma nessuno degli uomini si mosse. Corse via, in casa, ma rimasero tutti inchiodati alla sofferenza di Logan. Logan si rivolse al conte. «Lo sapevate?». Rimbold Drake scosse la testa. «Non sapevo chi, ma mi aveva assicurato di avertelo detto. Che era tutto perdonato». Logan guardò Kylar. «Lo stesso», disse pacatamente Kylar. Per Logan fu una nuova ferita. Cercò affannosamente di respirare. «Capitano», disse. «Verrò con voi». A un segnale del capitano, il soldato che prima aveva parlato si fece avanti e cominciò ad ammanettare i polsi di Logan. «Dannazione, ragazzo», disse piano, evidentemente solo per le orecchie di Logan, ma nel silenzio del cortile le sue parole furono


udite chiaramente. «Sei stato fottuto senza neanche aver prima fottuto». Fu la seconda volta che Kylar vide Logan perdere le staffe, ma la prima volta era ancora un ragazzo e non era possente come ora. Forse un sicario avrebbe notato i muscoli delle spalle e delle braccia irrigidirsi. Forse un sicario avrebbe avuto i riflessi per scansarsi, ma la guardia non aveva possibilità. Logan tirò via la mano prima che la seconda manetta si richiudesse, e colpì la guardia al volto. Kylar non pensava di aver mai visto qualcuno colpire con tanta potenza. Mastro Blint, con i suoi muscoli rafforzati dal Talento, forse poteva essere così forte, ma non possedeva la mole di Logan. La guardia volò all'indietro. Nel vero senso della parola. I suoi piedi abbandonarono il suolo e l'uomo fu sbalzato addosso ai due che gli stavano alle spalle. La lama ceurana fu in mano a Kylar quando ancora le guardie non erano ricadute a terra, ma prima che potesse dare battaglia, sentì le dita del conte affondargli nel braccio. «No!», disse l'uomo. Le guardie si gettarono su Logan furibondo. «No», ripeté il conte. «È meglio...». Il suo volto era afflitto come quello di Logan, combattuto tra il dolore e la condanna. «È meglio patire il male che commettere il male. Non ucciderai uomini innocenti in casa mia, Kylar». Logan non reagì. Gli uomini lo misero a terra, gli ammanettarono le mani dietro la schiena, assicurarono un secondo paio di manette alle caviglie e alla fine lo rimisero in piedi. «Il conte ha detto che il vostro nome è Kylar? Kylar Stern?», chiese il capitano Arturian. Kylar fece di sì con la testa. «La corona vi accusa di tradimento, di appartenenza al Sa'kagé, di aver accettato soldi per commettere omicidi e dell'uccisione del principe Aleine Gunder. Abbiamo testimone, corpo e movente, conte Drake. Uomini, arrestatelo». Il capitano poteva essere comprensivo, ma non era uno sciocco. Kylar era stato talmente preso da quello che stava succedendo a Logan da non notare di essere stato accerchiato. Al comando del capitano, sentì due uomini afferrargli le braccia.


Le slanciò in avanti, sperando di far perdere l'equilibrio alle due guardie, e di cadere all'indietro in mezzo a loro. Ma, ancora una volta, il suo Talento si comportò come una vipera attorcigliata, e lui fu d'un tratto più forte di quanto non lo fosse mai stato. Gli uomini furono catapultati in avanti, sbattendo l'uno contro l'altro e trovandosi faccia a faccia con la lama della spada di Kylar. Se l'avesse girata, avrebbe potuto sventrarli, nonostante i loro gambeson di cuoio. Invece, rinfoderò la spada - come aveva fatto a essere così veloce? - Stava ancora cadendo all'indietro, dopo aver spinto le guardie più forte di quanto intendesse, e la spada era già ringuainata. Trasformare la caduta in un salto mortale fu un gioco da ragazzi. Kylar si girò e corse verso un muro laterale del piccolo giardino. Spiccò un balzo per afferrarsi al bordo del muro alto più di tre metri, e si ritrovò invece la recinzione al livello delle ginocchia. La violenta spinta lo mandò a finire dall'altra parte e fu solo rotolando su se stesso, grazie anche a una buona dose di fortuna, che riuscì a cadere senza uccidersi. Si alzò e lasciò andare il suo Talento. Dall'altro lato del muro si susseguivano le urla, ma non l'avrebbero mai preso. Kylar ora era davvero un sicario. Si chiese cosa avrebbe detto Blint. Kylar aveva realizzato il sogno di una vita e non avrebbe potuto essere più infelice. «Com'è stato?», chiese Agon al capitano Arturian, mentre attraversavano le sale del castello dirigendosi alla Fauce. «È stato... orribile. Assolutamente orribile, signore. Direi che si colloca tra le cose peggiori che abbia mai fatto». «Rimpianti, capitano? Dicono che abbia ucciso uno dei vostri uomini». «Se posso essere franco, mi ha liberato di uno sciocco che non potevo buttare fuori, visto che sua sorella è una baronessa. L'idiota se l'è cercata. So che non sta a me dirlo, lord generale, ma voi non avete visto la faccia di Logan. Non è colpevole. Ci giurerei». «Lo so. Lo so e farò tutto quello che posso per salvarlo». Superarono le guardie a presidio del cancello sotterraneo che separava le gallerie sotto il castello da quelle della Fauce. Le celle dei nobili erano al primo livello. Erano piccole, ma relativamente


lussuose. Agon aveva sistemato Elene in una di queste, nonostante il ceto della ragazza non lo consentisse. Non poteva tollerare di doverla rinchiudere nei livelli più bassi e, se il re avesse fatto domande, avrebbe detto che voleva tenerla vicina per ulteriori interrogatori. Agon si fermò fuori dalla cella di Logan. «Vin», disse. «Sa già della sua famiglia?». L'uomo tozzo scosse la testa. «Avevo già perso uno dei miei uomini, signore. Non so cosa avrebbe fatto se gliel'avessirno detto». «Più che giusto. Grazie». Non si trattava di un congedo. Agon l'avrebbe imposto a uno dei suoi subordinati ma, nonostante il grado di lord generale fosse secondo solo a quello del re, il capitano delle guardie reali non era tecnicamente sotto il comando di Agon. Fortunatamente, sebbene non fossero amici, erano in rapporti abbastanza buoni, così il capitano Arturian capì l'antifona e si congedò. Non sarebbe stato divertente dire a un uomo, incarcerato per un omicidio che non aveva commesso, che la sua famiglia era stata massacrata, ma quello era il dovere di Agon. Lui faceva sempre il suo dovere. Prima di aprire la porta, Agon bussò, come se fosse venuto in visita. Come se si trovassero in un posto diverso dalla Fauce. Non ci fu risposta. Aprì la porta. Le celle dei nobili erano di circa nove metri quadrati, tutta roccia levigata per evitare suicidi. Ognuna era provvista di una semplice panca di pietra che fungeva da letto, e paglia fresca che veniva cambiata ogni settimana. Era lusso solo in confronto al resto della Fauce e, perfino con la paglia fresca, niente poteva cancellare il puzzo di uova marce o il lezzo pungente, che si levava a zaffate dalle restanti celle, di umanità ammassata in uno spazio ristretto. Logan sembrava aver perso la memoria. Aveva un aspetto terribile. Le lacrime gli rigavano il volto pieno di lividi. Alzò lo sguardo quando Agon entrò, ma i suoi occhi impiegarono un lungo lasso di tempo per focalizzarsi su di lui. Sembrava smarrito con le sue grosse spalle curve, le grandi mani posate in grembo, i capelli in disordine. Non era solo. La regina era seduta accanto a lui, e gli teneva una di quelle mani abbandonate come si farebbe con quelle di un bambino.


«Mia regina. Mio signore», disse Agon. «Perdonatemi se non mi alzo», disse Logan. «Non è necessario». «Dicono che anche mio padre è morto. O dicono che è stato lui. Che il re ha mandato degli uomini ad arrestarlo per aver ucciso mia madre. Cosa è successo?», chiese Logan. «Per quello che ne so, vostro padre è vivo. È arrivato con solo uno o due uomini. È stato attaccato fuori città. Qualcuno stava cercando di eliminare tutti i Gyre eccetto voi. Sono stati mandati degli uomini ad arrestarlo, ma non per ordine del re. Non ho scoperto chi ha dato questi ordini. Non ancora. Quegli uomini sono fuggiti dalla città o si sono uniti a vostro padre. Non lo so». «Lord generale, non ho ucciso Aleine», disse Logan. «Era mio amico. Anche se ha fatto... quello che dicono». «Lo sappiamo. Noi - la regina e io - non pensiamo siate stato voi». «Ha parlato con me la notte scorsa, sapete? Era a conoscenza del fatto che volessi dichiararmi a Serah. Ha cercato di persuadermi a non farlo. Mi ha ricordato delle voci che giravano su Serah. Si era messo in testa questa strana idea di farmi sposare Jenine. Ho pensato che fosse strano ma magnanimo. Non si trattava di generosità. Era senso di colpa. Dannazione!». Logan guardò la regina. «Mi dispiace. Non dovrei parlare in questo modo, ma sono così arrabbiato... e mi sento al tempo stesso in colpa. Li avrei perdonati, Vostra Maestà. L'avrei fatto. Per gli dei! Perché non me l'hanno detto?». Piansero insieme silenziosamente mentre la regina stringeva la mano di Logan. Dopo un minuto, Logan alzò gli occhi verso Agon. «Dicono che sia stato Kylar. A casa del conte Drake l'ho visto muoversi. Era veloce. Troppo veloce. Ma ne siete sicuro?». Per gli dei. Il ragazzo era appena stato tradito dalla sua fidanzata e dal principe. Adesso voleva sapere se fosse stato tradito anche dal suo miglior amico. Agon non sapeva se sarebbe sopravvissuto alla cosa - e lui aveva bisogno che sopravvivesse -, ma Logan meritava la verità. Non era da Agon dargli qualcosa di meno. «Sono certo che Kylar fosse di sopra quando Aleine è morto. Sono sicuro che sia un sicario. Dubito che il suo vero nome sia


Kylar o che sia uno Stern, ma non lo saprò per certo prima di due settimane. Abbiamo mandato un messo presso la loro residenza, ma dista una settimana di viaggio. Non posso farmi un'idea diversa di come siano andate le cose, figliolo, nonostante ci abbia provato». «La vostra presenza qui è un atto di gentilezza», disse Logan. Raddrizzò la schiena. «E non voglio negarvelo. Ma suppongo che vogliate qualcosa da me o non sareste entrambi qui. Non ora. Non così presto». La regina e il lord generale si guardarono l'un l'altra. Si compresero senza parlare il generale disse: «Avete ragione, Logan. La verità è che il regno è in pericolo. Vorrei potessimo essere sensibili nei confronti del vostro lutto. Sapete che vostro padre era uno dei miei più cari amici, e quello che è successo in casa vostra è più che una tragedia. É una mostruosità. Ma dobbiamo chiedervi di mettere da parte i vostri sentimenti per un po' di tempo. Non sappiamo quanto sia grave la minaccia, ma credo che sia spaventosa. Quando, dieci anni fa, il re decise di sbarazzarsi di vostro padre in un modo o nell'altro, fui io a suggerire Screaming Winds. Sapevo che vostro padre avrebbe reso quella guarnigione una vera roccaforte e credevo che Khalidor, prima o poi, avrebbe attaccato. Forse, proprio perché fece un così buon lavoro, l'invasione non c'è stata. Molta gente vuole credere che non ci sarà mai, perché sa che se la potenza di Khalidor si mette in marcia, noi non avremo alcuna possibilità. Credo che il principe, vostra madre e i vostri domestici siano state le prime vittime di una guerra. Un nuovo tipo di guerra che usa assassini invece di eserciti per ottenere i suoi scopi. Noi possiamo fermare gli eserciti, siamo preparati all'evenienza. Gli assassini sono un'altra storia». «Con il perdono della regina», disse Logan. «Perché dovrebbe importarmi se la testa del re cadesse? Non è stato affatto amico dei Gyre». «Una domanda giusta», ammise la regina. «Su un piano personale», disse Agon, «vi dovrebbe importare, perché se il re morisse voi rimarreste in prigione per sempre o sareste ucciso. Su un piano nazionale, se il re muore, ci sarà la guerra civile. Le truppe verranno richiamate presso i rispettivi casati a cui devono fedeltà, e gli eserciti di Khalidor valicheranno i nostri confini. Perfino unito, il nostro paese non potrebbe far fronte


alla potenza di Khalidor. La nostra unica strategia è stata rendere tanto dispendiosa la conquista da farla apparire poco conveniente. Con i nostri eserciti sparpagliati, rimarremmo senza difese». «Dunque pensate che sia imminente un attentato al re?», chiese Logan. «Nel giro di pochi giorni. Ma i piani di Khalidor si fondano su ipotesi certe, Logan. Fino ad ora, si sono dimostrate valide. Sapevano che voi sareste stato arrestato. Non c'è dubbio che abbiano già diffuso voci per far rivoltare il popolo contro il re, insinuando che quanto accaduto sia stata colpa sua o un suo piano. Dobbiamo fare qualcosa che spiazzi Khalidor». «E di cosa si tratta?». La regina rispose: «Khalidor ha assoldato Hu Gibbet, forse il miglior sicario della città. Se vuole uccidere Aleine, probabilmente ci riuscirà. Il modo migliore per salvare la vita del re sarà fare in modo che la sua morte non sia un guadagno per Khalidor. Forse è l'unico modo. Dobbiamo assicurare la linea di successione. In tempo di pace o se fosse più grande, Jenine potrebbe salire al trono, o potrei farlo io, ma adesso... La cosa non sarebbe proprio possibile. Alcuni casati si rifiuterebbero di seguire una donna in guerra». «Ebbene, cosa proponete? Di fare un altro figlio?». Agon sembrava a disagio. «Una specie». La regina disse: «Ci serve qualcuno che sia abbastanza popolare da riconquistare la fiducia della gente e il cui diritto alla corona sia al di sopra di qualsiasi controversia». Logan guardò Agon e d'un tratto capì. Le emozioni si affollarono sul suo viso. «Non sapete cosa mi state chiedendo». «Sì, invece», disse piano la regina. «Logan, tuo padre ti ha mai parlato di me?» «Solo in termini del più alto elogio, Vostra Maestà». «Tuo padre e io siamo stati fidanzati, Logan. Per dieci anni, abbiamo pensato che ci saremmo sposati. Eravamo innamorati. Avevamo scelto il nome dei bambini che avremmo avuto un giorno. Il re stava morendo senza eredi e il nostro matrimonio doveva assicurare il trono al casato dei Gyre. Poi, mio padre tradì Regnus e ruppe la promessa fatta a tuo nonno, facendomi sposare in segreto Aleine Gunder. Furono presenti solo i testimoni necessari ad


assicurare la validità del matrimonio. Non mi fu neanche permesso di mandare un messaggio a tuo padre per avvertirlo. Il re visse per altri quattordici anni, abbastanza a lungo perché io avessi dei figli, abbastanza a lungo perché tuo padre si sposasse e avesse te, abbastanza a lungo perché tuo padre prendesse il controllo del casato dei Gyre. Abbastanza a lungo perché il casato Gunder confezionasse una ridicola storia che conferiva ad Aleine il diritto di essere chiamato Aleine IX, come se fosse un re legittimo. Quando re Davin morì, tuo padre avrebbe potuto dare inizio a una guerra per prendersi il trono. Avrebbe potuto vincerla ma non lo fece, per il mio bene e quello dei miei figli. Sono stata costretta a un matrimonio che detestavo, Logan, venduta a un uomo che non ho mai amato, e per il quale non sono mai riuscita a provare nulla. So cosa vuol dire essere venduti per la politica. Conosco perfino il mio prezzo dalle terre e dai titoli che la mia famiglia si è assicurata dopo la morte del re». Parlò con chiarezza e calma, una regina in tutto e per tutto. «Amo ancora tuo padre, Logan. Non ci siamo quasi più parlati in venticinque anni. Ha dovuto sposare una Graesin dopo che io sposai un Gunder, solo per evitare che il casato dei Gyre venisse isolato e spazzato via come era successo ai Makell. Accettò un matrimonio che, da quello che so, aveva ben poco a che fare con l'amore. Perciò, se pensi che mi faccia piacere farti quello che è stato fatto a me, non potresti essere più lontano dalla verità». Il padre di Logan non aveva mai parlato di queste cose, ma sua madre - all'improvviso fu chiaro -, sua madre l'aveva ricordato a Regnus per anni. I suoi commenti indiretti. Il suo costante sospetto che Regnus avesse delle amanti, sebbene Logan sapesse che non ne aveva. La risposta furiosa di suo padre, una volta, quando le disse che c'era una sola donna che aveva il diritto di invidiare. «Spero davvero che il tuo matrimonio non sia la sofferenza che è stato il mio», disse la regina Gunder. Logan si nascose la faccia tra le mani. «Vostra Maestà, le parole non possono esprimere la... furia che provo nei confronti di Serah. Ma ho dato a suo padre la mia parola che l'avrei sposata». «Il re può legalmente sciogliere questi vincoli per il bene del regno», disse Agon. «Il re non può sciogliere il mio onore!», ribatté Logan. «Ho giurato! E, dannazione, amo ancora Serah. La amo ancora. É tutta


una commedia, vero? Qual è il piano, che il re mi adotti? Che io sia il suo erede fino a che voi non gli darete un altro figlio?» «Questa commedia ci farà superare una crisi, figliolo», disse Agon. «Ed eviterà che la vostra famiglia sia distrutta. Dovete restare in vita se volete che ciò accada. Serve anche a salvarvi dalla disgrazia e dalla prigione, nonostante la trama sia sbagliata». «Logan», disse la regina, con la voce nuovamente pacata. «Non si tratta di una commedia, ma noi abbiamo convinto il re che di questo si tratta. È un uomo spregevole e, se fosse per lui, non lascerebbe mai che il figlio di Regnus salisse al trono». «Vostra Maestà», la interruppe Agon. «Logan non ha bisogno di...». «No, Brant. Una persona dovrebbe sapere cosa gli viene chiesto di dare». Lo guardò negli occhi e, dopo un momento, lui abbassò lo sguardo. Si rivolse nuovamente al ragazzo. «La mia speranza sono stati i miei figli, Logan, e do a mio marito la colpa per la morte di Aleine. Se non avesse avuto una relazione con quella puttana della Jadwin...». Strinse le palpebre, rifiutandosi di versare lacrime. «Ho dato al re tutti i figli che potevo avere. Non dividerò più il letto con lui. Mai più. Gli verrà riferito che se proverà a costringermi o a sostituirmi come regina, ricorreremo a un sicario per assicurargli una fine prematura. Il fatto è, Logan, che se dici di sì, un giorno sarai re». Logan non disse nulla. «La maggior parte degli uomini farebbe salti di gioia alla prospettiva di un tale potere», disse Agon. «Certo, la maggior parte degli uomini sarebbe terribile come re. Sappiamo che questa occasione non l'avreste mai cercata, ma non siete solamente l'uomo giusto per questo; siete l'unico uomo». «Logan era il nome che Regnus e io avevamo deciso per il nostro primo figlio», disse la regina. «So quanto chiedo, Logan. E lo chiedo».


Capitolo 47 Il gioco non andava bene. I pezzi erano sparsi davanti a Dorian come eserciti. Solo che non erano come eserciti; lo erano davvero sebbene in quel gioco pochi dei soldati portassero uniformi. Anche quelli che la indossavano si muovevano con riluttanza. Il Re Sciocco disonorava il Comandante. Il Re Riluttante era in ginocchio da qualche parte. Il segreto del Mago in Incognito l'aveva diviso dal Re Che Avrebbe Potuto Essere. L'Ombra che Cammina e la Cortigiana non riuscivano a decidere da che parte stare. Il Ragazzo a pagamento si muoveva veloce, ma ancora troppo lentamente. Il Principe dei Ratti aveva schierato i suoi parassiti ed essi si sarebbero levati dai Cunicoli, una marea di feccia umana. Perfino il Principe Canaglia e il Fabbro potevano recitare una parte, se... Al diavolo! Era già difficile tenere sott'occhio i pezzi così com'erano. Da lì, poteva spesso concentrarsi su un singolo pezzo e vedere le scelte che si trovava di fronte: il Comandante mentre un re ubriaco gli urlava in faccia, l'Ombra che Cammina che si trovava di fronte al suo apprendista in una stanza da luna di miele. Ma proprio mentre stava fissando i pezzi nello spazio, stabilendo le loro relative posizioni, aveva cominciato a vederne uno o più in momenti diversi. Vedere dove il Fabbro sarebbe stato tra diciassette anni, curvo su una forgia mentre richiamava al lavoro il proprio figlio, non gli serviva affatto a capire come tenere in vita Feir fino a quel giorno. Si rimise al lavoro. Ora, dov'era il Rapito? A volte gli sembrava di non essere che un soffio di vento su un campo di battaglia. Poteva vedere tutto, ma il massimo che poteva sperare era deviare una o due frecce letali dalla loro traiettoria. Dov'è quel Mago in Incognito? Ah. «Apri la porta, svelto», disse Dorian. Feir alzò gli occhi dal tavolino al quale era seduto, intento a strofinare una cote sul filo della sua spada. Erano in una piccola casa che avevano affittato poco lontano da Sidlin, dove Dorian diceva che sarebbero stati in pace. Feir si alzò e andò ad aprire la porta. Un uomo vi stava passando velocemente davanti, camminando


con determinazione. I suoi capelli e la sua andatura erano familiari. Doveva aver visto qualcosa con la coda dell'occhio - certo, era difficile farsi sfuggire quella montagna bionda di Feir -, poiché si girò sui tacchi, facendo cadere la spada. «Feir?». Feir sembrava sorpreso quanto Solon, perciò Dorian disse: «Tutti e due, dentro». Entrarono, mentre Feir borbottava come al solito per il fatto che Dorian non gli dicesse mai niente, e Dorian si limitava a sorridere. Così tanto da vedere, così tanto da sapere. Era facile lasciarsi sfuggire le cose proprio sotto al naso. «Dorian!», disse Solon. Abbracciò il suo vecchio amico. «Dovrei torcerti il collo. Sai quanti problemi mi dà il tuo piccolo lord Gyre?». Dorian rise. Lo sapeva. «Oh, amico mio», disse, appoggiandosi al braccio di Solon. «Hai agito bene». «Ti trovo in forma», disse Feir. «Eri grasso quando te ne sei andato. Guardati ora. Dieci anni di servizio militare sono stati utili». Solon sorrise, ma il sorriso svanì in fretta. «Dorian, sul serio, devo sapere. Intendevi dire che dovevo tornare per servire Logan o Regnus? Pensavo che avessi detto lord Gyre e non il duca Gyre, ma quando sono arrivato qui, ho trovato due lord Gyre. Ho fatto la cosa giusta?» «Sì, sì. Hanno entrambi bisogno di te, li hai salvati diverse volte. Di alcune ne sei a conoscenza, di altre no». Forse la cosa più importante che Solon aveva fatto era qualcosa che non avrebbe mai apprezzato: aveva incoraggiato l'amicizia di Logan con Kylar. «Ma non ti mentirò. Mantenere il tuo segreto è stato qualcosa che non avevo previsto. Pensavo che l'avresti rivelato anni fa. Da quello che vedo adesso, Regnus Gyre perderà la vita». «Sono un codardo», disse Solon. «Puah», disse Feir. «Sei molte cose, Solon, ma non sei un codardo». Dorian rimase in silenzio e lasciò che i suoi occhi esprimessero empatia. Sapeva le cose in modo diverso. Il silenzio di Solon era stata codardia. Dozzine di volte aveva cercato di parlare, ma non era mai riuscito a trovare il coraggio di rischiare la propria amicizia con Regnus Gyre. La cosa peggiore era che Regnus avrebbe capito e ne avrebbe riso, se l'avesse sentito dalla bocca di Solon. Ma


scoprire che un amico lo aveva ingannato era sembrato un tradimento, all'uomo che si era visto sottrarre e dare in sposa a un altro la fidanzata. «I tuoi poteri sono cresciuti», disse Solon. «Sì, è davvero insopportabile adesso», disse Feir. «Sono sorpreso che i fratelli di Sho'cendi vi abbiano lasciato venire qui», disse Solon. Dorian e Feir si guardarono l'un l'altro. «Siete andati via senza permesso?», chiese Solon. Silenzio. «Siete partiti contro i loro ordini?» «Peggio», disse Dorian. Feir abbaiò una risata da cui Solon capì che l'amico era stato coinvolto in un altro dei piani strampalati di Dorian. «Cosa avete fatto?», chiese Solon. «Apparteneva a noi, davvero. Siamo noi quelli che l'hanno ritrovata. Loro non avevano nessun diritto», disse Dorian. «Non è vero». Dorian fece spallucce. «Dov'è?», chiese Solon. Dalle espressioni neutre sui loro volti, capì. «L'avete portata qui?!». Feir si avvicinò al letto e tirò indietro le coperte. Curoch, nel suo fodero, era posata lì. Il fodero era di pelle bianca, intarsiato da scritte dorate in irillico e chiuso con dell'oro. «Quello non è senz'altro il fodero originale». «Sono opere del genere che mi fanno desiderare di non essere mai un fabbro di spade», disse Feir. «Il fodero è quello originale. Intessuto di magia fine come la seta gandiana, e credo che sia solo per preservare la pelle. Non si sporca, non si macchia. Anche l'intarsio d'oro è vero. Oro puro. Temprato al punto da resistere al ferro o perfino all'acciaio. Se riuscissi solo a capirne la tecnica, i miei eredi sarebbero ricchi fino alla dodicesima generazione». «Quasi non osavamo tirarla fuori e, naturalmente, non abbiamo cercato di usarla», disse Dorian. «Voglio sperare di no», disse Solon. «Dorian, perché l'hai portata qui? Hai visto qualcosa?».


L'amico scosse la testa. «Manufatti di tale potenza distorcono le mie visioni. Loro stessi e i desideri che evocano sono così intensi che mi si annebbia la vista». D'un tratto, si ritrovò nuovamente a vagare, anche se il termine "vagare" era un eufemismo. La sua visione si concentrò su Solon e le immagini lo colpirono come un fiume in piena. Visioni impossibili. Solon in condizione di assoluta inferiorità. Solon come un vecchio dai capelli bianchi, solo che non era vecchio, ma... accidenti, l'immagine era scomparsa prima che Dorian potesse capire. Solon Solon Solon. Solon che moriva. Solon che uccideva. Solon su una nave sferzata dalla tempesta. Solon che salvava Regnus da un sicario. Solon che uccideva il re. Solon che condannava Cenaria. Solon che spingeva Dorian a Khalidor. Una bellissima donna in una sala piena di ritratti di bellissime donne. Jenine. Il cuore di Dorian ebbe un sussulto. Garoth Ursuul. «Dorian? Dorian?». La voce era lontana, ma Dorian si afferrò al suono e tornò indietro. Si riscosse, boccheggiando come se fosse emerso da un lago gelido. «Più diventi forte, più è peggio, vero?», chiese Solon. «Dà in cambio la sua mente per le visioni», disse Feir. «Non vuole darmi ascolto». «La mia salute mentale non è necessaria per il lavoro che devo compiere», disse Dorian con semplicità. «Le mie visioni lo sono». I dadi erano nella sua mano, ma non solo due, un'intera manciata, ognuno con una dozzina di facce. Quanti dodici posso fare? Avrebbe lanciato alla cieca; vedeva che Solon stava già pensando di andarsene, che, per quanto bello fosse stato rivedere i vecchi amici, doveva cercare di salvare Regnus Gyre. Ma Dorian aveva una sensazione. Quella era la cosa odiosa. A volte era logica, a volte solo una specie di prurito. «A ogni modo, dove eravamo?», chiese, interpretando il ruolo del veggente smemorato. «Feir non ha abbastanza Talento per usare Curoch. Se ci provasse, potrebbe bruciare o esplodere. Senza offesa, amico, tu possiedi un controllo minore rispetto a noi due. Io potrei usarla, ma senza correre rischi, solo come meister; i miei poteri di mago probabilmente non sono abbastanza forti. Naturalmente usarla con il vir sarebbe un disastro totale. Non so neanche cosa farei. Solon, tu sei l'unico mago in questa stanza, e


nel paese intero, per quello che vale, che potrebbe sperare di impugnarla senza morire, anche se il risultato sarebbe molto simile. Moriresti se cercassi di usare più di una frazione del suo potere. Hmm». Il suo sguardo vagò nello spazio, come se fosse stato catturato da un'altra visione. Il seme era stato piantato. «Sicuramente non l'avete portata fin qui per niente», disse Solon. Piantato e germogliato. «No. Abbiamo dovuto portarla via dagli altri fratelli. Era la nostra unica opportunità. Se avessimo aspettato fino al nostro ritorno, avrebbero capito che non potevano fidarsi di noi. Sarebbe stata tenuta lontana da noi». «Dorian, tu credi ancora in quel tuo Dio, vero?», chiese Solon. «Penso che talvolta confonda se stesso con Lui», intervenne Feir. Il commento fu stranamente amaro, e colpì Dorian profondamente. Gli fece male perché se lo meritava. Lo stava facendo proprio in quel momento. «Feir ha ragione», ammise Dorian. «Solon, ti stavo spingendo a prendere la spada. Non dovrei trattarti così. Meriti di meglio e mi dispiace». «Dannazione», disse Solon. «Sapevi che pensavo di prenderla?». Dorian annuì. «Non so se sia la cosa giusta o meno. Non sapevo che saresti passato davanti alla nostra porta fino a un secondo prima che tu lo facessi. Con Curoch tutto diventa distorto. Se la usi, Khalidor potrebbe benissimo sottrarcela e questo sarebbe un disastro ancora più grave che perdere il tuo amico Regnus, o perfino perdere quest'intera regione». «Il rischio è inaccettabile», concordò Feir. «A cosa serve non usarla?», disse Solon. «A lasciarla fuori dalla portata dei vùrdmeister!», disse Feir. «E questo basta. Ci sono solo pochi maghi al mondo in grado di impugnare Curoch senza morire, e tu lo sai. Sappiamo anche che ci sono dozzine di vùrdmeister in grado di farlo. Con Curoch nelle loro mani, cosa potrebbe fermarli?» «Ho una sensazione a riguardo», disse Dorian. «Forse Dio mi sta dando un colpetto con il gomito. Penso proprio che sia così. Mi sento come se fossi connesso al Guardiano della Luce».


«Pensavo che avessi abbandonato quelle vecchie profezie», disse Solon. «Se prendi Curoch, il Guardiano nascerà ai giorni nostri». Proprio mentre lo diceva, Dorian seppe che era vero. «Ho vissuto per così tanto tempo dicendo che avevo fede, ma non è davvero fede quando fai semplicemente quello che vedi, non è così? Penso che Dio voglia che ci assumiamo questo folle rischio. Penso che ce ne verrà del bene». Feir alzò in alto le mani. «Dorian, Dio è sempre la tua scappatoia. Vai a sbattere intenzionalmente contro un muro e dici che Dio ti sta parlando. È ridicolo. Se questo tuo Dio ha creato tutto come dici tu, ci ha anche dato la ragione, giusto? Perché diavolo ci farebbe fare una cosa così irrazionale?» «Ho ragione». «Dorian», disse Solon. «Posso davvero usarla?» «Se la usi, tutti nel raggio di ottanta chilometri lo sapranno. Forse perfino quelli che non hanno il dono. Corri tutti i normali rischi dell'assumere troppo potere, ma il tuo limite massimo è più alto della sua soglia più bassa. Le cose stanno accadendo troppo in fretta perché io veda di più, ma voglio dirti questo, Solon. L'esercito invasore era diretto a Modai». Fino a che Kylar non uccide Durzo Blint. «Dunque erano preparati a un diverso tipo di guerra. Le navi arrivano stasera. Hanno sessanta meister». «Sessanta! Sono più di alcune nostre scuole messe insieme», disse Feir. «Ci sono almeno tre vurdmeister in grado di evocare draghi». «Se vedo degli omini con le ali, fuggo», disse Solon. «Sei pazzo», disse Feir. «Dorian, dobbiamo andarcene. Questo regno è condannato. Si impadroniranno di Curoch; cattureranno te, e poi quale speranza rimarrà al resto del mondo? Dobbiamo sceglierci una battaglia che possiamo vincere». «Se Dio non è con noi, non vinceremo nessuna battaglia, Feir». «Smettila con questa stronzata di Dio! Non lascerò che Solon prenda Curoch e ti riporterò a Sho'cendi. Stai diventando completamente folle». «Troppo tardi», disse Solon. Raccolse la spada dal letto. «Sappiamo entrambi che posso togliertela», disse Feir.


«In un duello, senz'altro», concordò Solon. «Ma se provi a prenderla, io prenderò il suo potere e ti fermerò. Come ha detto Dorian, ogni meister nel raggio di ottanta chilometri saprà che qui abbiamo un artefatto e tutti verranno a cercarlo». «Non lo faresti», disse Feir. Il volto di Solon assunse un'intensità che Dorian non vedeva da quando aveva lasciato Sho'fasti indossando la sua prima veste azzurra. Ora, come allora, quell'uomo robusto sembrava più un soldato che uno dei maghi più importanti del tempo. «Lo farò», disse Solon. «Ho dato dieci anni della mia vita per questa terra così lontana e sono stati begli anni. È stato dannatamente bello difendere qualcosa, piuttosto che rimanere in disparte a guardare e a criticare chiunque stesse davvero facendo qualcosa. Dovresti provarci. Lo facevi, sai? Cosa è successo al Feir Cousat che sfoderava la spada in prima linea? Ho intenzione di fare qualcosa qui. Non rovinare la mia occasione di rendermi utile. Avanti, Feir, se c'è la possibilità di combattere Khalidor, come potremmo non farlo?» «Una volta che hai preso una decisione, è facile smuoverti quasi quanto lo è con Dorian», disse Feir. «Grazie», disse Solon. «Non era un complimento».


Capitolo 48 L’uomo che aveva ordinato ai soldati di arrestare Regnus non era stato di grande utilità. Lo avevano catturato mentre usciva da una locanda dopo pranzo. Il suo interrogatorio era stato breve, anche se non gentile. Aveva dato loro il nome del suo ufficiale comandante, un certo Thaddeus Blat. In quel momento, Thaddeus Blat si faceva intrattenere al piano di sopra di un bordello, il Winking Wench. Regnus e i suoi uomini aspettavano di sotto, seduti a tavoli diversi, sforzandosi invano di non dare nell'occhio. Tutto ciò rendeva Regnus nervoso. Non conosceva quell'uomo, ma i soldati tendevano a far visita ai bordelli nel bel mezzo del pomeriggio solo quando sapevano che stava per succedere qualcosa di grosso. Qualcosa da cui potevano non tornare più. Inoltre, non gli piaceva trovarsi in pubblico. Anni prima, non sarebbe stato in grado di andare in nessun posto senza che la gente riconoscesse la sua faccia. Si credeva sarebbe stato il prossimo re, dopo tutto. Ma quello era stato anni prima. Poche persone ora gli rivolgevano una seconda occhiata. Era un uomo grosso e minaccioso nei Cunicoli. A quanto pareva, la cosa aveva di gran lunga più importanza del fatto che fosse anche un nobile ricco. Finalmente, l'uomo scese al piano di sotto. Era di carnagione scura, con un unico e folto sopracciglio nero e un perenne sguardo torvo. Dopo che l'uomo gli fu passato accanto, Regnus si alzò e lo seguì alla stalla. Avevano già pagato lo stalliere affinché abbandonasse il suo posto e, una volta lì, Regnus vide che Thaddeus Blat sanguinava dal naso e dall'angolo della bocca, trattenuto da quattro soldati. L'uomo imprecava furiosamente. «Non è quello che voglio sentire uscire dalla tua bocca, tenente», disse Regnus. Fece un cenno agli uomini che, prendendogli a calci l'incavo delle ginocchia, fecero cadere Thaddeus davanti al trogolo. Regnus lo prese per i capelli e gli premette la testa sott'acqua. «Legategli le mani. Potrebbe volerci qualche minuto», disse Regnus. Blat riemerse boccheggiando e dimenandosi, ma i soldati gli legarono immediatamente le mani. Sputò in direzione di Regnus e,


mancatolo, lo maledì. «Non impari alla svelta», disse Regnus e lo respinse nell'acqua. L'uomo andò sotto e questa volta Regnus aspettò fino a che non smise di agitarsi. «Quando smettono di lottare», disse ai suoi uomini, «significa che hanno capito finalmente che potrebbero morire se non si concentrano. Penso che stavolta sarà più gentile». Tirò su Blat, con i capelli appiccicati sulla fronte, fino al sopracciglio. Blat cercò di respirare a lungo. «Chi sei?», chiese. «Sono il duca Regnus Gyre e tu mi dirai tutto ciò che sai sulla morte della mia gente». L'uomo lo ricoprì nuovamente di improperi. «Voltatelo un po'», disse Regnus. Lo fecero, e gli affondò un pugno nel plesso solare, facendogli uscire tutta l'aria dai polmoni. Thaddeus Blat ebbe tempo di fare solo un mezzo respiro prima di venire nuovamente spinto sott'acqua. Regnus ve lo tenne fino a che non risalirono bolle in superficie, poi tirò su Thaddeus, ma solo per un momento. Lo rispinse nuovamente sott'acqua. Ripeté la cosa quattro volte. Quando tirò su Blat per la quinta volta, gli lasciò andare la testa. «Non ho più tempo, Thaddeus Blat, e non ho niente da perdere se ti uccido. Ho già ucciso mia moglie e tutta la servitù, ricordi? Perciò se devo metterti la testa sott'acqua un'altra volta, ve la terrò fino a che non morirai». Sul volto del tenente si dipinse la paura. «Loro non mi dicono niente... no, aspetta! Lo giuro. Non avrò nuovi ordini fino a stasera. Ma questo arriva direttamente dal vertice. Dal vertice della Famiglia, sai?» «Il Sa'kagé?» «Già». «Non basta. Spiacente». Gli affondarono la testa sott'acqua e Blat si dimenò come un demonio ma, in ginocchio e con le mani legate, poté fare ben poco. «Prima stabilisci un limite e poi non lo rispetti», disse Regnus. «La maggior parte delle persone riesce a resistere davanti a un limite. Si dicono: "Posso farcela". Rialzatelo». L'uomo boccheggiava quando lo tirarono fuori, sputando l'acqua che aveva ingoiato e ansando. «Non ti viene in mente nient'altro?»,


chiese Regnus, ma non diede a Thaddeus il tempo di rispondere. Lo rituffò nell'acqua. «Signore», disse uno dei soldati, piuttosto a disagio. «Se posso chiedervelo, come fate a sapere tutto questo?». Regnus sogghignò. «Sono stato catturato dai Lae'knaught durante un'incursione sul confine quando ero giovane. Ma non abbiamo il tempo di usare tutto quello che ho imparato da loro. Su». «Aspettate!», urlò Thaddeus Blat. «Li ho sentiti dire che la prossima vittima di Hu Gibbet sarà la regina. Lei e le sue figlie. Questo è tutto ciò che so. Per gli dei, questo è tutto ciò che so. Le ucciderà questa notte, nella sua camera, dopo il banchetto. Vi prego, non uccidetemi. Giuro che è tutto ciò che so». Avevano promesso a Kaldrosa Wyn una nave da guerra e invece l'avevano messa su una bagnarola gigante. La donna pirata sethi non era stata in grado di dire di no al denaro. Dannazione alla madre che mi ha partorita, perché non ho detto di no? Guardando verso il molo, abbaiò un ordine e gli uomini si precipitarono a sistemare le vele, affinché fossero a favore di vento. Vele? Lenzuola, più che altro. Le vele erano troppo piccole. La nave e le sue sorelle erano troppo grosse e goffe perfino per superare una barca a remi pilotata da una scimmia con una mano sola. In breve, le navi da guerra cenariane li avrebbero raggiunti e non c'era una sola dannata cosa che Kaldrosa Wyn potesse fare. «Se avete intenzione di fare qualcosa, ora potrebbe essere il momento giusto», disse al circolo di stregoni seduti sul ponte della chiatta. «Fanciulla», disse il capo degli stregoni. «Nessuno dice a un meister cosa deve fare. Capito?». Gli occhi dell'uomo non si alzarono dal suo seno nudo fino all'ultima parola. «Allora andate al diavolo», disse Kaldrosa. Sputò sulla fiancata, non tradendo l'imbarazzo per lo sguardo insistente di quello stregone. Quei bastardi le avevano guardato il seno per tutto il viaggio. Normalmente, con dei forestieri intorno, si sarebbe coperta, ma le piaceva mettere a disagio i Khalidorani. Gli stregoni erano un'altra faccenda. Kaldrosa terzarolo le vele e mise gli uomini sotto coperta a vogare, ma anche questo servì a ben poco. Carpentieri khalidorani.


Avevano progettato male addirittura i remi. Erano troppo corti. Perfino con il centinaio di uomini a sua disposizione, non riusciva a trasformare la loro forza in velocità, perché solo pochi alla volta potevano maneggiare i remi e di sotto c'era troppo poco spazio per una vogata energica. Maledisse la propria avidità e gli stregoni - in silenzio. Nel giro di pochi minuti, le navi da guerra cenariane li avevano raggiunti. Era una vergogna. In tutto l'oceano, Cenaria non aveva più di una dozzina di navi nella sua marina e Kaldrosa ne aveva trovate tre delle migliori. Sulla sua Sparviero o qualsiasi altra nave sethi con un equipaggio sethi, sarebbe stata al sicuro. Gli stregoni finalmente si alzarono quando la prima nave cenariana fu a un centinaio di passi. Stavano per speronare la sua bagnarola. Ottanta passi. Settanta. Cinquanta. Trenta. Gli stregoni avevano le mani intrecciate. Cantavano in coro e sul ponte sembrò più buio di quanto non fosse un momento prima, ma continuava a non succedere niente. I marinai e i soldati a bordo della nave cenariana gridavano tra loro e rivolti a lei, preparandosi alla collisione e alla battaglia che ne sarebbe seguita. «Dannazione a voi!», strillò Kaldrosa. «Fate qualcosa!». Con la coda dell'occhio, pensò di aver visto qualcosa di immenso passare sotto la nave. Si girò per prepararsi all'impatto, ma fu investita da un'ondata d'acqua. Ci fu un tremendo schianto e, quando la visuale fu più chiara, vide pezzi della nave cenariana volare per aria. Ma non molti pezzi. Non abbastanza da formare un'intera nave. Poi, ne vide il resto nelle basse acque azzurre. In qualche modo, era stata risucchiata giù in un istante. I pezzi volanti erano semplicemente quello che si era staccato dal ponte e dal sartiame mentre l'acqua si infrangeva sulla nave. Il mare divenne nero, come se una spessa nube fosse passata davanti al sole, e si increspò. Kaldrosa impiegò un momento per capire che qualcosa di enorme stava passando sotto alla sua nave. Qualcosa di assolutamente immenso. Vide gli stregoni cantare in coro, tenendo allacciate non solo le mani. Sembrava come se i tatuaggi neri, che ognuno di loro aveva, si fossero strappati via dalla loro pelle, legandosi l'uno all'altro e pulsando di potere. Gli stregoni erano madidi di sudore, come se sottoposti a un tremendo


sforzo. L'acqua si gonfiò come se un'immensa freccia stesse passando proprio sotto la superficie marina... per poi fermarsi non appena raggiunta la seconda nave cenariana. Gli uomini sul ponte, lontani cinquanta passi, gridavano, scagliavano frecce nell'acqua, brandivano spade mentre il capitano cercava di far virare la nave. Per cinque secondi non accadde nulla, poi, due enormi masse grigie si abbatterono sulla tolda della nave cenariana. Erano troppo grandi perché Kaldrosa potesse cercare di capire cosa fossero: ognuna copriva quasi un quarto dello scafo. La nave rimbalzò, alzandosi dalla superficie del mare di circa dieci passi, e Kaldrosa vide che si trattava delle dita di un'immensa mano grigia. Poi, la mano andò giù e l'intera nave scomparve tra le onde, schiantandosi quando colpì l'acqua e scagliando schegge tutt'intorno. A quel punto, la forma nera si mosse nuovamente. Era troppo grande per essere vera. E, questa volta, gli uomini sull'ultima imbarcazione cenariana si limitarono a urlare. Kaldrosa sentì che venivano gridati ordini, ma c'era troppa confusione. La nave andava alla deriva, nonostante avesse coperto la distanza che la separava dalla sua enorme bagnarola, mentre le altre navi venivano distrutte. Ormai le due imbarcazioni si toccavano quasi. Il mare si gonfiò di nuovo, ma questa volta non ci fu alcun secondo di pausa. Il leviatano sfrecciò sotto la nave cenariana a incredibile velocità, sollevandosi dall'acqua tanto in alto che le spine sul suo dorso si alzarono di una decina di metri. Le spine tagliarono la nave a metà e due schiocchi di una coda grigia affondarono entrambi i pezzi nell'oceano. I soldati di Khalidor che si erano affollati sul ponte - Kaldrosa non si era neanche accorta di loro - gioirono. Stava per ordinare loro di tornare ai propri posti quando l'entusiasmo cessò di colpo. I soldati guardavano verso qualcosa. Kaldrosa seguì i loro sguardi e vide i flutti innalzarsi di nuovo, stavolta puntando dritti verso la sua nave. Gli stregoni sudavano copiosamente, in preda al più assoluto terrore. «No!», gridò un giovane stregone. «Quello non funziona. Così!». Una forma increspata si levò dagli stregoni, muovendosi verso il leviatano. Incontrò la bestia che incombeva e non accadde nulla. I soldati urlarono di terrore.


Poi il mostro si girò e tornò in mare aperto. I soldati gioirono e gli stregoni si accasciarono sul ponte. Ma non era ancora finita. Kaldrosa lo capì immediatamente. Anche mentre ordinava di remare e alzare le vele, teneva d'occhio gli stregoni. Il capo stava parlando al giovane che - se Kaldrosa non si sbagliava - aveva preso il controllo e salvato tutte le loro vite. Il giovane scosse la testa, fissando il ponte. «Obbedienza fino alla morte», lo sentì dire. Il leader parlò ancora, a voce troppo bassa perché Kaldrosa potesse capire, e gli altri undici stregoni si raccolsero attorno ai due uomini. Posarono le loro mani sul giovane che li aveva salvati tutti, e Kaldrosa vide i suoi tatuaggi sollevarsi dalla pelle. Si gonfiarono sempre più, fino a che le sue braccia non furono tutte nere, e poi scoppiarono... non verso l'esterno ma dentro al corpo dello stregone, come se fossero state vene troppo piene, e si riversarono nel resto del suo corpo. I tatuaggi esplosi sanguinarono sotto la pelle dell'uomo che crollò sul ponte, in preda a violenti spasmi. Dopo pochi momenti, tutto il suo corpo era diventato nero. Si agitò scompostamente, boccheggiando e, dopo qualche istante, era morto. Tutti gli altri sulla nave ignoravano di proposito gli stregoni. Kaldrosa vide che era stata l'unica ad assistere alla scena. Il capo degli stregoni disse una parola e i suoi sottoposti gettarono il cadavere in mare. Poi si girò e la guardò con i suoi occhi troppo azzurri. Mai più, giurò Kaldrosa a se stessa. Mai più. «Conosci i segreti di un ricatto efficace, Durzo?», chiese Roth. Sedeva a un elegante tavolo di quercia, fuori posto in un tipico tugurio dei Cunicoli. Durzo gli stava davanti come un cortigiano colpevole al cospetto del re. La sedia di Roth era perfino sopraelevata. Che presunzione. «Sì», rispose Durzo. Non era dell'umore adatto per fare giochetti. «Rinfrescami la memoria», disse Roth, alzando gli occhi dai rapporti che stava leggendo. Non era divertito. Durzo maledisse se stesso e il fato. Aveva fatto di tutto per evitarlo, sopportato ogni sofferenza eppure quel momento era giunto. «Usa quello che hai in


mano per ottenere qualcosa di meglio». «Me l'hai resa difficile, Durzo. Hai convinto tutti che non ti interessava un accidente di niente». «Grazie». Durzo non sorrise. Non era da lui fare la parte del servo che si umiliava. «Il problema è che io sono più intelligente che te». «Di te». Gli occhi ravvicinati di Roth si ridussero a due fessure allo sconsiderato appunto di Durzo. Roth era un giovane smilzo con una faccia spigolosa, oscurata da lunghi capelli e una barbetta unta. Non gli piaceva molto parlare. Non gli piaceva la gente. Tese una mano aperta. Aspettò. Durzo gli lanciò il pezzo di vetro argentato. Roth lo guardò brevemente e glielo rilanciò, per nulla contento. «Non fare scherzi, assassino. So che là ce n'era uno vero. Abbiamo due spie che hanno visto qualcuno vincolarlo». «Allora avrebbero dovuto dirti che qualcuno ci è arrivato prima». «Davvero». Roth stava imitando la tendenza di Momma K a rendere affermative le domande. Probabilmente pensava che lo facesse sembrare autorevole. Ma era fuori strada se pensava che imitare Momma K gli sarebbe bastato per conservare il potere. Una parte di Durzo voleva dire a Roth che Momma K era lo Shinga. Roth, evidentemente, non lo sapeva e Momma K aveva tradito Durzo, ma Durzo non provava alcun gusto nell'usare i ratti per fare un lavoro da uomo. Se doveva uccidere Gwinvere, l'avrebbe fatto con le proprie mani. Se? Mi sto rammollendo. Quando? Mi ha tradito. Deve morire. «Davvero», rispose Durzo, senza alcuna intonazione. «Allora penso che per te sia giunto il momento di incontrare un'altra delle mie carte». Non ci fu alcun segnale visibile, ma un vecchio entrò nella casupola all'istante. La creatura era bassa e più curva, per via degli anni, di quanto un corpo umano potesse sopportare. Aveva un paio di penetranti occhi azzurri e un ciuffo di capelli argentei ripiegato sulla sommità calva della sua testa. L'uomo aprì la bocca in un ghigno sdentato. «Sono vurdmeister Neph Dada, consigliere e veggente di Sua Maestà».

il


Non uno stregone qualsiasi. Un vurdmeister. Durzo Blint si sentì vecchio. «Che persona eminente. Pensavo che chiamassi i tuoi re cani Sua Santità». «Sua Maestà», continuò Neph Dada, «Roth Ursuul, nono erede del Re Divino». Si inchinò a Roth. Per gli Angeli della Notte. Non scherzava. Neph Dada afferrò il mento di Durzo con la fragile mano e lo attirò a sé, fino a guardarlo negli occhi. «Lui sa chi ha preso il Globo», disse Neph. Non aveva senso negare. Non con un vurdmeister presente. Si riteneva che i vurdmeister fossero in grado di leggere nel pensiero. Non era vero, ma ci si avvicinavano. Gran parte di loro non ne era capace, Durzo lo sapeva. Perfino quelli in grado di farlo, non leggevano davvero la mente. Secondo quanto gli era stato spiegato, molto tempo prima di quanto gli piacesse ricordare, essi vedevano frammenti di immagini che il soggetto aveva visto. Il miglior vurdmeister poteva intuire grandi verità da poche immagini, tuttavia. A quel punto, era quasi la stessa cosa. Come posso usare a mio vantaggio la differenza tra quello che ho visto e quello che so? «È stato il mio apprendista», disse Durzo. Roth Ursuul - per gli Angeli della Notte, Ursuul? - inarcò il sopracciglio. «Non sa cosa sia», continuò Durzo. «Non so chi l'abbia mandato. Non fa mai dei lavori senza dirmelo». «Forse non dovresti esserne così sicuro», disse Neph. «Ti porterò il ka'kari. Ho solo bisogno di un po' di tempo». «Ka'kari?», chiese Roth. Roth non aveva mai usato quella parola. Era stato uno stupido errore. Assolutamente insolito. Durzo stava perdendo colpi a pezzi. «Il Globo delle Lame», disse Durzo. «Ti ho dato una possibilità per essere onesto con me, Durzo. Perciò, quello che farò è colpa tua». Roth fece cenno a una delle guardie all'ingresso del tugurio. «La ragazza». Un po' di tempo dopo, una ragazza fu portata dentro. Era drogata, chimicamente o magicamente, e la guardia ebbe qualche problema a portare il suo corpo abbandonato. Aveva forse undici


anni, magra e sporca, ma non magra e sporca come un ratto di strada... magra e sporca ma in salute. I suoi capelli neri erano lunghi e ricci, e il suo volto aveva lo stesso sguardo angelicodemoniaco che aveva avuto sua madre. Sarebbe stata più graziosa perfino di Vonda, un giorno. Aveva preso l'altezza da Durzo ma, grazie agli dei, tutto il resto da sua madre. Uly era una bambina dannatamente bella. Era la prima volta che Durzo vedeva sua figlia. Fu come gettare sale su una ferita. «Hai già scelto di non collaborare con entusiasmo, Durzo», disse Roth, «tanto che, in genere, ti infliggerei una punizione esemplare. Sappiamo entrambi che non posso farlo. Mi servi troppo, almeno per i prossimi giorni. Quindi dovrei, diciamo, tagliarle una mano come avvertimento e far sapere alla piccolina che è stato a causa tua. Che sei tu a scegliere di farle del male. Forse qualcosa del genere servirebbe a ottenere la tua collaborazione?». Durzo era paralizzato, con lo sguardo fisso su sua figlia. Sua figlia! Come aveva fatto a metterla nelle mani di quell'uomo? Era stata usata abilmente dal re, e Roth gliel'aveva tolta da sotto il naso. «Che ne dici?», disse Roth. «O noi le tagliamo una mano o tu le tagli un dito». C'era una via d'uscita. Anche in quel momento, c'era un modo. Uno dei suoi coltelli era avvelenato. Lo aveva intinto nel veleno di vipera. Per Kylar. Sarebbe stato indolore, soprattutto per una bambina così piccola. Sarebbe morta in pochi secondi. Forse Roth sarebbe rimasto sorpreso al punto da consentire a Durzo di fuggire. Forse. Poteva uccidere sua figlia e probabilmente farsi uccidere, così Kylar sarebbe sopravvissuto. Altrimenti quel Roth avrebbe preteso che uccidesse Kylar e gli portasse il ka'kari. Sarebbe stata una cosa abbastanza facile da simulare, se Roth non avesse avuto un vùrdmeister. Era in grado di uccidere sua figlia? Avrebbe lasciato che uccidessero Kylar se non lo faceva. «Lei non ha fatto niente», disse Durzo. «Risparmiami», disse Roth. «Hai troppo sangue sulle tue mani per piangere la sofferenza degli innocenti». «Farle del male non è necessario».


Roth sorrise. «Sai, se lo dicesse chiunque altro, riderei. Ricordi cosa è successo l'ultima volta che hai costretto Ursuul a scoprire le proprie carte?». Durzo non riuscì a mantenere un'espressione neutra; il dolore lo trapassò. «Chi l'avrebbe pensato», disse Roth. «Mio padre prende la madre e io prendo la figlia. Hai imparato la lezione, Durzo Blint? Io penso di sì. Mio padre sarà contento del fatto che io chiuda il cerchio. Ha cercato di ricattarti per un falso ka'kari e ha fallito. Io ti ricatterò per un vero ka'kari e avrò successo». Gli occhi di Neph lampeggiarono alle parole di Roth. Era chiaro che non apprezzava la presunzione del principe, ma Durzo era ancora scosso. Non riusciva a vedere alcun modo per trarre vantaggio da quella sottilissima spaccatura tra i due uomini. «Ecco come il ricatto funzionerà con te, Durzo Blint: se penso che tu mi stia facendo resistenza, tua figlia morirà. E ci sono altri, per così dire oltraggi, che prima dovrà soffrire. Lascia che la tua immaginazione lavori su quali possano essere... io so che farò altrettanto. Sarà ridotta a un guscio vuoto quando avremo finito. Passerò mesi a tirare fuori ogni goccia di sofferenza dalla sua mente e dal suo corpo prima di ucciderla, e godrò nel farlo. Sono uno dei discepoli più devoti di Khali. Mi capisci, Blint? Sono stato chiaro?» «Perfettamente». Aveva la mascella serrata. Non poteva ucciderla. Per gli Angeli della Notte. Non poteva farlo e basta. Avrebbe pensato a qualcosa. L'aveva sempre fatto. C'era un modo per uscirne. L'avrebbe trovato e avrebbe ucciso entrambi quegli uomini. Roth sorrise. «Ora dimmi tutto di questo tuo apprendista. E intendo tutto».


Capitolo 49 Kylar uscì dalle tenebre dell'ufficio del Blue Boar e, con il braccio, afferrò Jarl per la gola, mettendogli una mano sulla bocca. «Mmm mmmmph! », protestò Jarl contro la mano di Kylar. «Zitto, sono io», gli sussurrò Kylar all'orecchio. Temendo che Jarl potesse urlare, lo lasciò andare lentamente. Jarl si strofinò la gola. «Dannazione, Kylar. Rilassati. Come hai fatto a entrare?» «Ho bisogno del tuo aiuto». «Ehi, stavo proprio venendo a cercarti». «Cosa?» «Guarda nel primo cassetto. Puoi leggerlo più in fretta di quanto potrei dirtelo io», disse Jarl. Kylar aprì il cassetto e lesse il messaggio. Roth era Roth Ursuul, un principe khalidorano. Era appena stato eletto Shinga. Kylar era sospettato per la morte del principe. Gli uomini del re lo stavano cercando. Kylar buttò via il messaggio. «Ho bisogno del tuo aiuto, solo un'altra volta, Jarl». «Mi stai dicendo che sapevi tutto?» «Non cambia niente. Mi serve il tuo aiuto». «Mi farà uccidere?» «Ho bisogno di sapere dove si sta nascondendo Momma K». Jarl strinse gli occhi. «É meglio che ti chieda perché?» «Devo ucciderla». «Dopo tutto quello che ha fatto per te? Tu...». «Mi ha tradito, Jarl, e tu lo sai. Mi ha manovrato affinché provassi a uccidere Durzo Blint. É stata così brava da farmi pensare che fosse una mia idea». «Forse dovresti conoscere la sua versione prima di ucciderla. Forse l'omicidio non dovrebbe essere la tua prima risorsa contro le persone che ti hanno aiutato», disse Jarl. «Mi ha convinto che per salvare un amico, dovevo uccidere Hu


Gibbet, ma non si trattava davvero di Hu. Era Durzo. Ci ha traditi. Mi ha fatto rovinare un amico e gli ha fatto perdere tutto ciò che ama». «Mi dispiace, ma non posso aiutarti». «Non te lo sto chiedendo», disse Kylar. «Hai intenzione di costringermi?», chiese Jarl. «Farò quello che devo». «Si sta nascondendo», disse Jarl, per nulla intimidito. «Ha avuto un terribile scontro con Blint non molto tempo fa. Non so per quale motivo. Ma mi ha aiutato e io non la tradirò». «Sai che ti pianterebbe in un secondo, Jarl». «Lo so», disse Jarl. «Venderò pure il mio corpo, Kylar, ma faccio quello che posso per conservare il resto. Mi è rimasto qualche brandello di dignità. Se me la porti via, non avrai ucciso solo Momma K». «Una cosa è dire che manterrai un segreto fino alla morte, un'altra è morire per causa sua», disse Kylar. «Non ho mai torturato nessuno, Jarl, ma so come farlo». «Se avessi avuto intenzione di torturarmi, avresti già iniziato, amico mio». Si guardarono l'un l'altro fino a che Kylar non distolse lo sguardo, sconfitto. «Se hai bisogno di aiuto per qualsiasi altra cosa, lo avrai, Kylar. Spero che tu lo sappia». «Lo so», sospirò Kylar. «Tieniti pronto, Jarl. Le cose stanno per succedere più in fretta di quanto ci si possa aspettare». Si sentì bussare alla porta. «Sì?», chiese Jarl. Una guardia del corpo fece capolino con la sua testa calva. «DDurzo Blint per voi, signore». Sembrava terrorizzato. Kylar cercò di fare ricorso al suo Talento per ammantarsi di ombre, come aveva fatto quando era entrato al Blue Boar. Non accadde nulla. Oh, merda. Si tuffò letteralmente dietro alla scrivania di Jarl. «Signore?», chiese a Jarl la guardia del corpo, non vedendo Kylar attraverso la fessura aperta nella porta.


«Uh, fallo entrare», disse Jarl. La porta si chiuse e si riaprì subito dopo. Kylar non osò guardare. Se avesse sporto la faccia abbastanza per vedere Durzo, sarebbe stato scoperto. «Non sprecherò il tuo tempo né il mio», Kylar sentì dire a Durzo. Dei passi risuonarono sul pavimento e la scrivania scricchiolò come se qualcuno vi si fosse seduto sopra. «So che sei amico di Kylar», disse Durzo, a pochi centimetri da Kylar. Jarl fece un verso di ammissione. «Voglio che tu gli faccia avere un messaggio più in fretta possibile. Glielo ho già mandato, ma ho bisogno di essere sicuro che lo riceva. Digli che devo parlargli. Sarò al Tipsy Tart. Ci rimarrò per le prossime due ore. Digli che è arutayro». «Sillabalo», disse Jarl, avvicinandosi alla scrivania per prendere una penna dal calamaio. Durzo sillabò la parola e poi Jarl emise uno strozzato verso di protesta. Durzo doveva averlo afferrato. «Faglielo avere in fretta, ragazzo a pagamento. È importante. Ti riterrò responsabile se non lo riceverà». La scrivania scricchiolò nuovamente quando Durzo si alzò per andarsene. Dopo che la porta si fu richiusa, Kylar strisciò fuori. Jarl sgranò gli occhi. «Eri là sotto?» «Non posso essere sempre creativo». Jarl scosse la testa. «Sei incredibile». Mentre tamponava il foglio su cui era scritto il messaggio, disse: «Cosa significa arutayro?» «"Senza sangue". Significa che non ci uccideremo durante l'incontro». «E ti fidi di lui? Dopo che hai cercato di ucciderlo l'altra notte?» «Blint mi ucciderà, ma lo farà professionalmente. Pensa che me lo meriti. Ti dispiace se uso la tua finestra? Ho un sacco da fare prima di incontrarlo». «Accomodati». Kylar spalancò la finestra, poi si rivolse all'amico. «Mi dispiace. Dovevo provarci. Devo ucciderla e tu eri il modo più veloce per trovarla».


«Mi dispiace non averti potuto aiutare». Sgusciando fuori dalla finestra, Kylar scomparve dalla visuale di Jarl e cercò di attirare nuovamente le ombre. Questa volta funzionò con facilità. Perfetto. Non era in grado di dire cosa avesse fatto di diverso rispetto a quando era nell'ufficio. Per gli Angeli della Notte. Kylar capì che imparare a controllare il proprio Talento sarebbe stato già difficile se ci fosse stato Durzo a spiegarglielo. Impararlo da solo sarebbe stato praticamente impossibile. Tornò alla finestra. Dopo un minuto, Jarl la controllò e andò alla scrivania, dove scrisse in fretta un messaggio. Chiamò in ufficio un ragazzo e glielo consegnò. Kylar fece il giro dell'edificio e seguì il giovane quando uscì da una porta laterale. Sapeva che Jarl non glielo avrebbe detto... e sperava che il suo amico non venisse mai a scoprire che si era comunque servito di lui. I messaggeri non erano tutti uguali. Alcuni di loro tenevano così bene il passo che Kylar quasi non riusciva a seguirli. Altri si limitavano semplicemente a consegnare la lettera al ragazzo successivo. Impiegarono mezz'ora per arrivare a una casetta nella parte orientale. Kylar riconobbe la guardia che prese il messaggio dall'ultimo ragazzo. Era un Ymmuri con gli occhi a mandorla e lisci capelli neri. Aveva già visto quell'uomo a casa di Momma K. Bene. Momma K era lì. Kylar se ne sarebbe occupato più tardi. Si diresse al Tipsy Tart. Durzo Blint sedeva contro una parete, con un involto sul tavolo davanti a lui. Kylar lo raggiunse, si tolse la fascia che aveva in vita e vi mise ognuna delle sue armi: il pugnale e il wakizashi che teneva infilati nella fascia, lo spadino che teneva sulla schiena, due pugnali nelle maniche, coltelli da lancio e frecce dalla cintura, e un tanto dallo stivale. «É tutto?», chiese sardonico Blint. Kylar arrotolò la fascia e la mise accanto a quella di Blint, altrettanto larga. «Sembra che lavoreremo presto entrambi». Blint annuì e posò una tazza di pessima birra scura ladeshiana esattamente al centro di un'asse, in modo che non incrociasse nessuna delle fenditure.


«Volevate parlare con me?», chiese Kylar, chiedendosi perché Blint stesse bevendo. Blint non beveva mai quando doveva lavorare. «Hanno mia figlia. Hanno fatto delle minacce. Minacce credibili. Questo Roth è un vero pervertito». «La uccideranno se non portate loro il ka'kari», indovinò Kylar. Blint si limitò a bere. «Perciò dovete uccidermi», continuò Kylar. Blint lo guardò negli occhi. Era un sì. «Si tratta solo di lavoro oppure ho fallito?», chiese il ragazzo, con le farfalle che gli volteggiavano furiosamente nello stomaco. «Fallito?». Blint alzò gli occhi dalla birra e sbuffò. «Un sacco di sicari attraversano quella che chiamiamo la Prova del Fuoco. A volte è fatta apposta per i sicari qualificati che hanno qualche serio problema - qualsiasi cosa che ostacoli il passaggio da apprendista dotato a sicario dotato. A volte, capita a un sicario dopo che è diventato maestro. É una delle ragioni per cui ci sono così pochi sicari anziani. La mia Prova del Fuoco è stata Vonda, la sorella minore di Gwinvere. Pensavamo di essere innamorati. Pensavamo che certe realtà non valessero per noi. Diventai un sicario con un'evidente debolezza e Garoth Ursuul la rapì. Era in cerca di un ka'kari, come lo è tuttora. Come lo ero io». «Non so tutto quello che fa. Non riesco neanche a usare sempre il mio Talento. Posso usare il ka'kari quando non è in mio possesso?» «Smettila di interrompere. Questa storia ha un senso e tu faresti meglio a conoscerlo, invece di aspettarti da me che ti faccia un corso il giorno stesso in cui devo ucciderti», disse Durzo. «Basta dire che il potere del ka'kari è immenso. Ho lavorato per anni per trovarne uno. Garoth Ursuul ha fatto lo stesso. Pensava che un ka'kari gli avrebbe portato un vantaggio sui principi e sui vurdmeister, in modo da diventare Re Divino. Così si è preso Vonda e mi ha detto dove la teneva prigioniera. Se fossi andato a cercare il ka'kari, lui l'avrebbe uccisa». «Non siete mai stato bravo con le minacce», disse Kylar. «Penso di essere sempre stato bravo con le minacce», ribatté Durzo. «Il fatto era che ci sarebbe stato poco tempo per trovare il ka'kari. L'uomo che si supponeva lo avesse vincolato era in punto di


morte, perciò il momento per prenderlo sarebbe stato immediatamente dopo il suo decesso. Naturalmente, Garoth teneva Vonda lontano dalla città. Sapevo che il Sa'kagé avrebbe avvelenato quell'uomo la notte stessa. Immaginai che anche Garoth ne fosse a conoscenza. Non potevo trovarmi in due posti contemporaneamente, perciò dovetti fare una scelta. Conoscevo Garoth Ursuul. È un maestro delle trappole. É più intelligente di me. Più subdolo. Perciò pensai che se fossi andato a cercare Vonda, le trappole o i suoi meister mi avrebbero ucciso. Ne conoscevo una già usata in precedenza: avrebbe usato il mio ingresso come innesco di una trappola che avrebbe causato la morte di Vonda. Era tipico di Garoth, trasformare il mio tentativo di salvare la donna che amavo proprio nella cosa che l'avrebbe uccisa. Impossessarsi del ka'kari sarebbe stato per lui ancora più facile. Quella era la mia Prova del Fuoco, Kylar. Infilarmi in una trappola nel tentativo di fare l'eroe oppure usare il cervello, dare Vonda per persa, e prendere il ka'kari?» «Sceglieste il ka'kari». «Era un falso». Durzo studiava il piano del tavolo e la sua voce tremò. «Subito dopo, scappai via, rubai un cavallo e lo feci correre fino allo stremo, ma il sole era sorto già da mezz'ora quando giunsi alla casa in cui si trovava Vonda. Era morta. Controllai tutte le finestre, ma non riuscii a trovare alcun segno di trappole. Non saprò mai se qualcuno le aveva portate via o se si trattava di trappole magiche o, addirittura, se non ce ne fossero affatto. Quel bastardo. Lo fece apposta». Blint bevve un lungo sorso della sua birra. «Sono un sicario e l'amore è un cappio. L'unico modo per riscattare la mia scelta fu diventare il miglior sicario di sempre». Kylar aveva un groppo in gola. «Ecco perché non possiamo amare, Kylar. Ecco perché ho fatto tutto ciò che potevo per tenertene fuori. Ho fatto un solo errore, sono stato debole una volta sola e adesso, dopo tutti questi anni, il mio errore è tornato a perseguitarmi. Non morirai perché hai fallito, Kylar. Morirai perché io ho fallito. Così funzionano le cose. Gli altri pagano sempre per i miei fallimenti. Ho fallito, Kylar, perché pensavo che la Prova del Fuoco si affrontasse una volta sola. Mi sbagliavo. La vita è una prova del fuoco». Da quello che Kylar poteva vedere, la scelta di Durzo non aveva mai smesso di ossessionarlo. Quell'uomo era un guscio vuoto. Era


un leggendario sicario, ma aveva sacrificato tutto a quel dio. Kylar aveva sempre voluto essere Durzo, aveva sempre avuto soggezione delle sue capacità. Durzo era il migliore, ma dov'era l'uomo sotto alla leggenda? «Quindi la mia Prova del Fuoco è Elene». Kylar ridacchiò nel vuoto che aveva dentro di sé. «Non c'è speranza che voi combattiate con me, contro di loro?» «E lasciare che Roth torturi e uccida mia figlia? Ecco le mie scelte, ragazzo: muori tu oppure mia figlia». Durzo prese una moneta d'oro da un sacchetto. «Testa vince Roth, croce perdo io». Lanciò in aria la moneta, che rimbalzò sul tavolo e, cosa alquanto impossibile, atterrò di taglio. «C'è sempre un'altra scelta», osservò Kylar, rilasciando lentamente il proprio Talento. Dannazione, funzionava davvero. Blint rimise al centro del tavolo la sua tazza vuota. «Ho lavorato quasi quindici anni per trovare il Globo delle Lame, Kylar. Non sapevo dove si trovasse. Non sapevo se fosse vincolato a qualcuno. Non sapevo che tipo di difese magiche lo proteggessero. Sapevo che persone come te potevano richiamare il ka'kari e che il tuo bisogno avrebbe reso il richiamo più forte. Ecco perché ti ho portato al lavoro con me in ogni angolo della città. Come avrei potuto sapere che ce l'aveva re Gunder, e pensava si trattasse di un semplice gioiello? Nessuno ne parlava perché nessuno sapeva che fosse speciale. Non importava a nessuno. E ho pensato che forse mi sbagliavo, che tu avevi semplicemente un blocco. Che se ti avessi spinto a sufficienza, avresti usato il tuo Talento. Dopo aver lavorato per quindici anni, pensi che sarebbe stato facile passare le consegne? Pensi sia facile dare via quindici anni della propria vita?» «Ma stavate per farlo». Kylar era stupito. «Diavolo, no. Una volta che l'avessi avuto, non l'avrei mai ceduto», disse Durzo. Ma Kylar non gli credette. Blint aveva progettato di dare a lui il ka'kari sin dall'inizio... fino al ricatto di Roth. «Maestro, lavorate con me. Insieme possiamo battere Roth». Durzo rimase in silenzio per un po'. «Sai, un tempo ero come te, ragazzo. Lo sono stato a lungo. Avresti dovuto conoscermi allora. Ti sarei piaciuto. Avremmo potuto essere amici». Mi piacete, maestro. Mi piacerebbe essere vostro amico, disse


Kylar, ma solo nella sua mente. In qualche modo, quelle parole non riuscirono a farsi strada tra le sue labbra. Forse non aveva importanza. Durzo non gli avrebbe creduto comunque. «Roth è un principe di Khalidor, ragazzo. Ha un vùrdmeister. Presto avrà con sé più stregoni di quanti maghi ci siano nelle terre del Sud e un esercito da far partire. Il Sa'kagé è suo. Non c'è speranza. Non c'è modo di opporsi a lui, ora. Non ci proverebbero neanche gli Angeli della Notte». Kylar alzò le mani, stanco del fatalismo di Blint e delle sue superstizioni. «E io che pensavo fossero invincibili». «Sono immortali. Non è la stessa cosa». Blint si gettò in bocca uno spicchio d'aglio. «Puoi prendere quello che vuoi da me. Non vorrei che tu morissi solo perché sono meglio armato». «Non mi batterò con voi, maestro». «Ti batterai. Morirai. E mi mancherai». «Mastro Blint?», disse, ricordando qualcosa che aveva detto Dorian. «Cosa significa il mio nome?» «Kylar? Conosci la parola "ospite"?» «Chi si fa ospitare, giusto?» «Sì, ma ha anche un altro significato. Vuol dire sia "essere ospitato" che "ospitare". Due significati opposti. Il tuo nome è così. Significa uno che uccide e uno che viene ucciso». «Non capisco», disse Kylar. «Capirai. Forse gli Angeli della Notte vegliano su di te, ragazzo. Ricorda, hanno tre facce». «Cosa?» «Vendetta, Giustizia e Misericordia. Sanno sempre quale mostrare. E ricorda la differenza tra vendetta e rivalsa. Ora, fuori di qui». Kylar si alzò e ripose le sue armi con cura. Alzandosi, urtò con l'anca il tavolo, la moneta in equilibrio vacillò, e cadde prima che potesse fermarla con il suo Talento. Ignorò la cosa, rifiutandosi di considerarla un cattivo presagio. «Mastro Blint», disse, guardandolo negli occhi e inchinandosi. «Kariamu lodoc. Grazie. Per tutto». «Grazie?», sbuffò Mastro Blint. Raccolse la moneta. Era uscito croce. Croce perdo io. «Grazie? Sei sempre stato il più dannato di


tutti».


Capitolo 50 Kylar aveva un'ora prima che Durzo andasse a cercarlo. Lo sapeva perché lo aveva visto bere una tazza di birra scura, e Durzo Blint non si sarebbe messo al lavoro con dell'alcool in corpo. Era il momento perfetto per andare al nascondiglio di Mastro Blint. Con un po' di fortuna, avrebbe potuto capire come il maestro intendeva ucciderlo dagli strumenti che mancavano. Per prudenza, percorse i vicoli per arrivare al nascondiglio. In quattro e quattr'otto, Kylar disinnescò la trappola collegata alla serratura, poi andò in cerca della seconda trappola. Se fosse stato completamente visibile, si sarebbe sentito nudo, ma stavolta il suo Talento gli aveva obbedito e lo aveva coperto di tenebre. Non aveva ancora idea di quanto bene fosse nascosto, ma nelle strade oscure e poco frequentate si sentiva a proprio agio. La seconda trappola era inserita nel telaio della porta, dall'altra parte del chiavistello. Kylar scosse la testa. E Blint diceva di non essere bravo con le trappole. Sistemarne una che scattava con l'allentarsi della pressione del chiavistello non era impresa facile. Disattivata la trappola, Kylar si dedicò a scassinare la serratura. Blint gli aveva sempre detto che mettere più di due trappole alla porta era uno spreco di tempo. Dovevi prendere la tua vittima con la prima trappola ma, se era sistemata talmente male da rendere il tuo uomo troppo sicuro di sé, dovevi riuscirci con una seconda trappola perfettamente innescata. Dopo di che, solo un idiota non avrebbe controllato a fondo la porta fino a trovare ciò che vi avevi nascosto. Kylar non dovette armeggiare con il grimaldello. Aveva fatto pratica con quella porta per anni, perciò inserì nel giusto senso il cilindretto della serratura quasi all'istante. Poi, sentì che qualcosa non andava. Aprì le dita e lasciò cadere il grimaldello proprio mentre la molla scattava. Un ago nero volò tra le sue dita aperte, escoriandogli le nocche fino quasi a lacerargli la pelle. «Accidenti». Il composto nero sull'ago era giusquiamo e ranuncolo. Non era mortale, ma l'avrebbe fatto stare male per giorni, e non avrebbe avuto il tempo di allontanarsi prima che il veleno avesse effetto su di lui. Era un brutto affare... e significava che Mastro Blint lo stava ancora mettendo alla prova. «Solo un


idiota non controllerebbe a fondo la porta dopo due trappole». Per gli dei. Kylar entrò cautamente nel rifugio. Non era spazioso come l'altro in cui aveva trascorso i suoi primi mesi con Mastro Blint e, con gli animali dentro, era stato terribilmente rumoroso, puzzolente e sporco. Ora gli animali non c'erano più. Kylar aggrottò le sopracciglia. Un rapido esame gli rivelò che, fino a quella mattina, c'erano stati. Addentrandosi, Kylar vide una lettera posata sulla scrivania di Durzo. Con un coltello in ciascuna mano, la aprì senza toccarla. Dubitava che Durzo avrebbe usato un veleno da contatto sulla carta, ma non aveva pensato neanche che il sicario potesse inserire una terza trappola nella porta. «Kylar», lesse nella scrittura fitta e controllata di Durzo. «Rilassati. Ucciderti con un veleno da contatto sarebbe terribilmente insoddisfacente. Sono lieto che la terza trappola non ti abbia colpito ma, se tu avessi avuto la presunzione di sapere come la pensavo, invece di controllare, te lo saresti meritato. Mi mancherai. Sei quanto di più vicino a una famiglia io abbia mai avuto. Mi dispiace di averti portato in questa vita. Momma K e io abbiamo fatto tutto ciò che potevamo per farti diventare un sicario. Per me significhi più di quanto pensassi potesse mai significare qualcuno». Kylar strizzò le palpebre per ricacciare indietro le lacrime. Non poteva assolutamente uccidere l'uomo che aveva scritto quelle parole. Durzo Blint era più di un maestro per lui; era suo padre. «Stanotte tutto finirà», continuava la lettera. «Se vuoi salvare la tua amicizia, farai meglio a trovarmi. Una Spina». Una spina? Be', Blint era certamente abbastanza pungente da definirsi una spina, ma era anche bravo con le parole. E cosa intendeva con "salvare la tua amicizia"? Durzo sapeva dov'era Elene? Perché la minacciava? Oppure parlava di Jarl? Il sangue defluì dalla faccia di Kylar. Gli animali non c'erano più. Tutte le altre cose che Blint possedeva erano ancora lì, dunque non stava traslocando. Gli animali sarebbero sembrati ottimi a un cuoco, e l'assaggiatore che provava i cibi non avrebbe avuto sintomi per ore... abbastanza a lungo perché i cibi fossero serviti a cena.


Blint beveva solo dopo aver finito un lavoro. Gli animali non c'erano più. Tutti quanti. Non c'erano molti posti in cui potesse portarli tutti. «Oh, merda». Blint aveva intenzione di avvelenare i nobili al banchetto del Solstizio d'Estate. Elene non sarebbe stata presente, naturalmente. E neanche Jarl. Blint doveva sapere qualcosa di cui lui non era a conoscenza. Probabilmente Logan sarebbe stato lì. Roth stava tentando il suo colpo. Quella sera. A Kylar vennero le vertigini. Sbatté una mano sul tavolo per sostenersi, mandando a cozzare le une contro le altre ampolle e fiale di vetro. I suoi occhi si posarono su un'ampolla che aveva visto per anni. Conteneva veleno di vipera. Era quasi vuota. Blint faceva sul serio. Per un po', dopo aver parlato con lui pacificamente, dopo aver visto la lettera, Kylar aveva pensato che Blint non l'avrebbe ucciso. Ma l'avrebbe fatto. Era tutto professionale per Blint. Aveva superato il limite anni prima, quando aveva lasciato che Vonda morisse, e non si poteva tornare indietro. Era proprio da Durzo Blint. Stava dando una chance a Kylar, offrendogli abbastanza informazioni per intervenire, abbastanza motivazioni per decidere di lottare; ma, quando si fosse giunti allo scontro, Blint avrebbe fatto quanto in suo potere per vincere. Aveva sempre vinto. Il corpo di Kylar sapeva cosa fare perfino quando la sua mente vagava. Infilò del cotone nei forellini di un minuscolo coltello da avvelenatore e vi fece gocciolare del veleno di vipera. A Logan non piaceva il coniglio, perciò Kylar preparò gli antidoti per i veleni che avevano assunto i fagiani e gli storni, e sperò che Logan non toccasse il maiale. Da solo, non sarebbe stato mortale, ma non vi era antidoto. Se Logan fosse stato davvero male, Kylar non avrebbe potuto assolutamente trasportarlo. Si lavò il corpo senza sapone, in modo da avere meno odore possibile. Si legò dei coltelli sugli avambracci nudi e un tanto al polpaccio. Si infilò i calzoni e la tunica, entrambi aderenti, screziati di nero, fatti di cotone gandiano. Si agganciò la cintura delle armi e controllò che ci fossero i veleni e i ganci per i rampini. Infilò il coltello da avvelenatore nello speciale fodero e si sistemò addosso i pugnali e lo spadino ceurano. Poi, vide Retribution. Blint aveva lasciato sulla parete la grossa


spada nera. Aveva lasciato la sua arma preferita per Kylar. Senza dubbio, avrebbe fatto qualche battuta sul fatto di portargliela via o, se le cose fossero andate diversamente, sul fatto di non averne più bisogno. Fa proprio sul serio. Sarà davvero uno scontro all'ultimo sangue. Kylar prese la spada con rispetto e se la legò sulla schiena. Era più pesante di quanto credesse ma, usando il suo Talento, sarebbe stata perfetta. Finalmente pronto, fece per andare alla porta ma si fermò. Approcciò la testa contro il legno e respirò, respirò. Come si era arrivati a quel punto? Quella notte, lui o Mastro Blint, uno dei due, sarebbe morto. Kylar non sapeva neanche cosa avrebbe fatto una volta al castello. Ma, se non avesse fatto qualcosa, Logan sarebbe stato ucciso.


Capitolo 51 Durzo, avvolto dalle tenebre, strisciava lungo i travetti che sostenevano il tetto del salone del castello di Cenaria. Il suo lavoro era davvero molto vario e la cosa gli era sempre piaciuta. Ma non aveva mai desiderato essere una domestica. Eppure, in un modo o nell'altro, si era ritrovato a strofinare uno straccio umido sul legno, raccogliendo meticolosamente la polvere e avanzando lentamente mentre puliva centimetro dopo centimetro. I travetti, sospesi a una quindicina di metri dal suolo, non erano stati puliti di recente. E Durzo odiava sporcarsi. Tuttavia, per quanta attenzione facesse, non poteva evitare di smuovere, di tanto in tanto, piccoli cumuli di polvere - cumuli che si gonfiavano come nuvole cariche di neve e fluttuavano verso il basso, segnalando la sua altrimenti invisibile presenza. I nobili di sotto, misericordiosamente, non stavano certo guardando il soffitto. Le celebrazioni erano al culmine. Gli eventi della notte precedente avevano richiamato tutti. Le voci degli uomini e delle donne che festeggiavano il Solstizio d'Estate si levavano come un unico boato fin sui travetti. Ci si interrogava su cosa avrebbe fatto il re. Ovviamente, il boccone più succulento riguardava la presenza di Logan al tavolo d'onore. Tutti sapevano che era stato arrestato e non riuscivano a togliergli gli occhi di dosso. Cosa ci faceva lì? Da parte sua, Logan sedeva come un condannato... cosa che Durzo sospettava fosse. Conoscendo Aleine, il re aveva convocato Logan per poterlo umiliare pubblicamente davanti a tutti i pari del regno. Forse avrebbe annunciato la sua condanna a morte. Forse l'avrebbe fatta eseguire proprio a quel tavolo. Durzo si spostò ancora e smosse un grosso cumulo di polvere decennale. Lo guardò, impotente, che cadeva fluttuando su uno dei tavoli laterali. Una parte si staccò cadendo, ma il resto colpì il braccio di una nobildonna che gesticolava. La donna si spazzolò il braccio e continuò come se niente fosse. Pur muovendosi lentamente, Durzo strinse i denti. Stava scivolando. Certo, diceva sempre a se stesso che stava scivolando. Lo teneva sveglio. Forse questa volta era vero. Stavano succedendo troppe cose. Era tutto troppo personale.


Durzo raggiunse un punto nel quale si univano più travi a supporto del tetto. Non c'era modo di stare in piedi sul travetto e passare oltre. Avrebbe dovuto aggirare quel punto o passarvi sotto. Chiunque avesse progettato quei travetti, non doveva aver pensato a niente del genere. Si sistemò attorno a ciascun polso dei ganci da arrampicata, e infilò le dita nel punto in cui due travi formavano un angolo. Fu doloroso, ma un sicario imparava a ignorare il dolore. Si dondolò nel vuoto, lasciando che i suoi piedi si sollevassero dalla trave. Si chiese cosa avrebbe pensato la grassa nobildonna sotto di lui se la sua cena fosse stata schiacciata da un'ombra caduta dall'alto. Concentrò tutto il suo peso sui polpastrelli e lo usò per affondare sempre più le dita nella dolorosa fessura, poi lasciò andare la mano destra e dondolò per afferrare l'altro capo della giunzione, oltre la solida superficie dove si univano tutte le travi. Dovette ringraziare solo l'ampiezza dell'oscillazione se ce la fece. Teneva tre dita nella fessura sul lato opposto della trave. Nello spostare il proprio peso, la polvere nella fessura risultò sufficiente a fargli scivolare via i polpastrelli. Blint ruotò il polso in avanti mentre le dita gli scivolavano. Slittò di qualche centimetro e il gancio che aveva al polso si incastrò nella fessura che le sue dita avevano appena lasciato. Il gancio tenne. Blint staccò la mano sinistra e il suo corpo dondolò nuovamente... adesso, sarebbe caduto direttamente sulla donna, invece che ai suoi piedi. Si issò facendo leva sul gancio di ferro che gli mordeva il polso, e fu in grado di allungare la mano in modo da tornare a reggersi con le dita. Oscillò ancora, staccò il gancio e afferrò il bordo della trave con l'altra mano. Rimase appeso lì, con i polpastrelli che reggevano l'intero suo peso dallo stesso lato della trave, e la presa resa scivolosa da un paio di centimetri di polvere. Aveva pensato che il proprio lavoro gli piaceva? Ma, con grazia esperta, si dondolò lateralmente e raggiunse un bordo con il piede. Contorcendosi, riuscì a risalire lungo la trave, ignorando la polvere che sollevava mentre procedeva. Non si possono evitare certi rischi. E alcuni si possono evitare. Non è che abbia ridotto al minimo i miei, vero? Durzo cercò di non pensarci ma, muoversi lungo la trave come una donna delle pulizie non gli impegnava tutta la


concentrazione. Aveva dato a Kylar tutti gli indizi di cui aveva bisogno per fermare il piano di Roth. E gli aveva dato un motivo per andare lì piuttosto che lasciare la città. É una vera sfortuna, vecchio mio. Avrebbe perso in ogni caso. A capotavola, il re si alzò in piedi. Rosso in viso, barcollò. Levò il suo bicchiere. «Amici miei, miei sudditi, oggi è la vigilia del Solstizio d'Estate. Abbiamo tanto da celebrare quanto da piangere. Io... le parole mi hanno abbandonato alla luce di quello che è successo in quest'ultimo giorno. Il nostro regno ha subito la dolorosa perdita di Catrinna Gyre e della sua intera famiglia per mano del suo criminale marito, e la perdita del nostro amato principe». Il re parlava a fatica e la sua emozione era così evidente che non pochi occhi brillarono di lacrime. Il principe era giovane e brioso anche se avventato, e i Gyre erano stati rispettati per decenni come persone e per generazioni come casato. «Oggi siamo qui riuniti per celebrare il Solstizio. Qualcuno potrebbe chiedersi perché festeggiamo all'ombra di tali azioni infami. Ve lo dirò. Desideriamo celebrare le vite dei nostri cari e non ancora piangere la loro morte». Alla sinistra del re, il lord generale Agon faceva di sì con la testa, approvando tristemente. Durzo si chiese quanto di quel discorso fosse opera di Agon. Gran parte, sospettava. Il re bevve dal proprio bicchiere, dimenticandosi di essere nel bel mezzo di un brindisi. I nobili in tutta la stanza sembravano confusi. Dovevano bere o il re non aveva ancora finito? Metà di loro scelse di imitare il re, ma quest'ultimo continuò, parlando a voce più alta. «Vi dirò perché siamo qui. Siamo qui perché i bastardi che hanno assassinato il mio ragazzo non mi fermeranno. Non arriveranno a me. Non mi impediranno di fare quello che diavolo voglio!». Il lord generale Agon sembrò allarmato. Aleine IX era scivolato nella prima persona singolare dal plurale maiestatico. Doveva aver bevuto più di quanto sembrava. «E vi dirò qual è il nostro supremo piacere. Ci sono cospiratori, complottatori - traditori! - qui, stasera. Sì! E vi giuro, traditori, che morirete!». Il re era diventato viola di rabbia. «So che siete qui. So cosa state facendo! Ma col cazzo che funzionerà!». Senti senti chi ha imparato una nuova parola. «No, torna a sederti, Brant!», gridò il re mentre il lord generale faceva l'atto di alzarsi.


I nobili erano ammutoliti. «Alcuni di voi ci hanno traditi per Khalidor. Avete assassinato il nostro principe! Avete ucciso il mio ragazzo! Logan Gyre, in piedi!». Serah Drake sedeva in fondo, secondo il proprio rango, ma, perfino da lassù, Durzo poté vedere il terrore sul suo volto. La ragazza pensava che il re stesse per far giustiziare Logan pubblicamente, e non era l'unica. Logan Gyre si alzò, scosso. Era attraente e, da quello che Durzo sapeva, molto forte e popolare sia tra i nobili lì riuniti che tra i popolani della città. «Logan», gridò il re. «Siete stato accusato della morte di mio figlio. Eppure siete qui questa sera, a festeggiare! Avete ucciso voi il mio ragazzo?». Diversi nobili lanciarono urla allarmate, gridando che Logan non avrebbe mai potuto essere coinvolto in una cosa simile. I soldati del re sembravano spaventati. Guardarono il capitano Arturian in cerca di una guida. Lui annuì e due guardie si avvicinarono a Logan. Be', pensò Durzo, giunto finalmente proprio sopra al tavolo dove erano seduti il re e Logan, se le minacce non convincono Kylar a volermi uccidere, questo ci riuscirà. Gli innocenti perdono sempre. «Lasciatelo parlare!», ruggì il re. Si lanciò in un fiume di imprecazioni e la folla si zittì. La tensione si tagliava con il coltello. Logan parlò con voce forte e chiara. «Vostra Maestà, vostro figlio era mio amico. Nego tutte le accuse». Il re rimase in silenzio per un lungo istante. Poi, disse: «Vi credo, duca Gyre». Si rivolse ai nobili. «Lord Gyre è stato scagionato davanti a noi. Logan Gyre, servirete il vostro paese a tutti i costi?». Durzo si fermò, sbalordito al pari dei nobili. «Lo farò», disse Logan chiaramente, ma il volto tradiva una palese tensione. I suoi occhi avevano agganciato quelli di Serah Drake. Che diavolo sta succedendo? Aveva tutta l'aria di una cosa orchestrata. «Dunque, lord Gyre, vi nominiamo Principe della Corona di Cenaria e annunciamo il vostro matrimonio questo pomeriggio con nostra figlia, Jenine. Logan Gyre, voi sarete il nostro erede fino al


tempo in cui non ne nascerà uno nella nostra casa reale. Accettate questo dovere e onore?» «Accetto». L'inquietudine nel salone si era trasformata in incredulità, e poi in soggezione. Jenine Gunder si alzò per mettersi al fianco di Logan, goffa quanto poteva esserlo una quindicenne. Durzo sentì un piccolo grido provenire da Serah Drake. La ragazza si portò le mani alla bocca, poi corse via. Ma nessuno, oltre a Logan e Durzo, se ne accorse, perché mentre Serah correva verso l'uscita, un'esplosione di giubilo scaturì dalla gola dei presenti. Il re trangugiò il vino e i nobili si unirono al suo brindisi in onore di Logan. «Principe Gyre! Principe Gyre! Logan Gyre!». Il re tornò a sedersi ma i brindisi continuarono. Tutti gli occhi erano puntati su Logan e Jenine. Il sovrano sembrava irritato. Che i nobili intonassero "principe Gyre" invece del tradizionale "principe Logan" poteva essere dovuto al fatto che fosse più facile da cantare, ma chiariva bene che Logan non fosse un Gunder... e tutti ne erano felici. Logan accettò il plauso graziosamente, anche se imbarazzato, rivolgendo cenni con la testa ai suoi amici. Poi, quando la sua nuova moglie gli prese la mano, arrossì. Sul viso di Jenine era chiaramente dipinto l'imbarazzo per la propria audacia e l'adorazione per suo marito. Ai nobili piacque. Ma più cresceva l'approvazione, più il re sembrava contrariato. Eppure, l'acclamazione proseguì. I domestici applaudivano. Le guardie acclamavano. Era come se i nobili sentissero che una nuvola nera stava abbandonando il loro futuro. Non pochi di loro dicevano: «Logan Gyre sarà un grande re!». Risuonarono degli urrà. Aleine Gunder stava diventando nuovamente viola, ma nessuno gli rivolgeva la benché minima attenzione. «Principe Gyre! Principe Gyre!». «Lunga vita al principe Gyre! Urrà!». Il re balzò in piedi, livido in volto. «Andate, ora! Consumate questo matrimonio», gridò a Logan, che non distava neanche cinque passi. Il lord generale Agon si alzò, ma il re lo spinse via bruscamente. Logan guardò Aleine, scioccato. I nobili si calmarono. «Siete


sordo?», gridò il re. «Andate a scoparvi mia figlia!». La principessa sbiancò. É così Logan. Poi, la ragazza arrossì, mortificata. Sembrava che desiderasse sprofondare nel pavimento. Al tempo stesso, un'ira a stento controllata trasfigurò il volto di Logan in un'onda scarlatta. Le guardie d'onore al suo fianco sembravano sconcertate. Durzo si chiese se il re non fosse impazzito. I nobili non dissero una parola. Nessuno fece un fiato. «Via! Andate via! Andate a scopare. ANDATE A SCOPARE!», strillò il re. Tremante, livido, Logan distolse lo sguardo e portò via sua moglie dalla sala. Le guardie, nervose, li seguirono. «E voi altri», disse il re. «Domani piangeremo mio figlio e giuro che scoprirò chi ha ucciso il mio ragazzo, dovessi impiccarvi tutti quanti! ». Il re si sedette di scatto e si mise a piangere come un bambino. Durzo era rimasto immobile per tutto il tempo. I nobili erano sconcertati, spaventati. Tornarono lentamente a sedersi, guardando il re in silenzio. La mente di Durzo turbinava di pensieri. Roth non aveva previsto tutto questo. Non avrebbe potuto. Ma Durzo era certo che Roth fosse nel castello, forse proprio in quella sala. La guardia di uno dei nobili minori doveva dare il segnale. Se si toglieva l'elmo, il colpo era sfumato. Gli ci volle un po' per digerire quello che era appena successo... non la follia del re, ma il matrimonio di Logan. Era una brillante messinscena. Ora, se il re fosse stato ucciso, invece di quattro casati con uguali pretese al trono, mentre Logan marciva nella Fauce, Logan Gyre sarebbe diventato chiaramente il sovrano. Con la sua reputazione e il sostegno dei Gunder, avrebbe ottenuto un'obbedienza più rapida da parte delle nobili casate di quanto avesse mai avuto re Gunder. Era una mossa brillante, ma arrivava troppo tardi. Roth aveva uomini in tutto il castello. Probabilmente non avrebbe potuto permettersi un altro tentativo. Se il colpo di stato fosse stato previsto per l'indomani, il matrimonio di Logan avrebbe potuto cambiare tutto. Per come stavano le cose, Logan e Jenine sarebbero semplicemente stati aggiunti all'elenco di coloro che dovevano morire. Mentre Durzo aspettava, sembrava che Roth acconsentisse a procedere. Un domestico si avvicinò alla guardia incaricata del


segnale e le parlò. L'uomo annuì e tenne le mani lontane dall'elmo. Il colpo di stato era in atto. Quali che fossero i piani di Roth, ora avrebbero dovuto comprendere l'uccisione del principe Logan Gyre... che al momento era convenientemente nella torre nord, dove sarebbe stato facile da trovare. Roth, probabilmente, avrebbe voluto affidare a Durzo quel lavoro, ma Durzo non aveva intenzione di darne la possibilità al Khalidorano. Avrebbe fatto quanto promesso, ma non avrebbe ucciso l'amico di Kylar. Come prima portata, i nobili avevano già mangiato i conigli preparati da Durzo. Aveva dato da mangiare a quei conigli cicuta per un anno. La quantità di veleno in una porzione era sufficientemente piccola da non far succedere nulla ai commensali, a meno che non avessero mangiato anche l'antipasto di storni. In meno di mezz'ora, i nobili si sarebbero sentiti male. L'avvelenamento da cicuta cominciava quasi impercettibilmente. Le gambe avrebbero cominciato a perdere sensibilità. Presto, la sensazione di pesantezza si sarebbe diffusa. I nobili avrebbero iniziato a vomitare. Chiunque fosse stato sfortunato abbastanza da mangiare il secondo, sarebbe stato colto da convulsioni. La tempistica ora era insidiosa. L'avvelenamento non era una scienza esatta e qualcuno poteva notare qualcosa di strano in qualunque momento. Durzo aveva bisogno di agire prima che ciò accadesse. Assicurò un capo della sua corda alla trave. Era seta nera ridicolmente costosa, ma si trattava della corda più sottile e invisibile che Durzo possedesse. Sistemata l'imbragatura che aveva ideato apposta per quella missione, vi fece passare la corda e scivolò giù dalla trave. Controllando la propria oscillazione, Durzo guardava in basso, verso il suo bersaglio. Il re era proprio sotto di lui. Durzo raccolse le ginocchia al petto e ruotò. L'imbragatura gli mantenne ferme le spalle e il sicario si lasciò andare mollemente, scivolando verso il suolo, a testa in giù. Ora, il tempismo era tutto. In una mano, Durzo teneva la corda. Adattando la propria posizione e la tensione dell'imbragatura, riusciva a tuffarsi velocemente verso il suolo o a fermarsi con facilità. Quando si spostava, aveva bisogno di farlo in fretta: lui era nascosto dalle ombre, tanto da essere quasi invisibile, ma non


poteva nascondere la corda. In una sala così cavernosa, una corda che dondolava sulla testa del re, come a sorreggere un peso, sarebbe stata notata. Le guardie del re erano abili. Ci pensava Vin Arturian. Con la mano libera, Durzo tirò fuori due pillole. Si trattava di composti ottenuti da diversi funghi. Era stato in grado di renderle minuscole, ma non si scioglievano in fretta e per quel lavoro non poteva usare una polverina. I nobili erano ancora ammutoliti. Il re non piangeva quasi più e si accorse che tutti lo guardavano. «Cosa state guardando?», urlò. Li ricoprì di improperi. «Questo è il banchetto di matrimonio di mia figlia! Bevete, dannati! Parlate!». Il re vuotò nuovamente il suo calice. I nobili finsero di chiacchierare e, ben presto, la finta conversazione divenne un'accesa discussione. Durzo immaginò che si stessero chiedendo se il re avesse perso la ragione. Se lo chiedeva lui stesso. Si domandò cosa avrebbero pensato dopo che il re avesse bevuto la prossima coppa di vino. Un domestico si occupò di riempire il calice del re. Il coppiere assaggiò per primo il vino e lo tenne per un po' in bocca. Poi riconsegnò il calice al sovrano, che lo posò con forza sul tavolo. «Vostra Maestà», disse il lord generale Agon, alla sinistra del re. «Posso parlarvi?». Il re si girò e Durzo spinse la corda in avanti. Piombò giù come un proiettile. Circa tre metri sopra il tavolo, tirò nuovamente la corda e si fermò. Tre metri erano ancora troppi per lasciar cadere qualcosa di così leggero, ma lui si era allenato. La corda tuttavia si attorcigliò e, d'un tratto, Durzo si ritrovò a girare su se stesso. Non velocemente, ma girava. Non aveva importanza. Non c'era tempo per un altro tentativo. La prima pastiglia affondò proprio al centro del calice del re. La seconda colpì il bordo e rimbalzò via. Rotolò per diversi centimetri sul tavolo, avvicinandosi al piatto del re. Senza scomporsi, Durzo ne prese un'altra e la lasciò cadere. Il sovrano prese il calice e stava quasi per bere, quando il lord generale Agon disse: «Vostra Maestà, forse avete bevuto


abbastanza». E allungò una mano per prendergli la coppa. Durzo non perse tempo a vedere cosa avrebbe fatto il re. Si tolse dalla schiena un piccolo tubo e guardò oltre Agon, in direzione del mago di corte, Fergund Sa'fasti. Vide l'uomo, ma la corda lo fece girare prima che potesse soffiare la freccetta. Aveva intenzione di colpirlo alla gamba. La sua speranza era che la cicuta avesse reso le gambe del mago abbastanza insensibili da non fargli notare la puntura. Ma, alla rotazione successiva, non riuscì a prendere la mira perché il re e il lord generale gesticolavano furiosamente. Dannata veste! La veste del mago gli lasciava scoperta a malapena una decina di centimetri del polpaccio. Durzo si girò nuovamente e abbandonò l'idea di colpirlo lì. Il mago aveva spostato i piedi e Durzo aveva solo una freccetta - di qualunque sostanza fossero intinte, si trattava di un segreto khalidorano, che si riteneva fosse in grado di annullare le capacità del mago. Durzo soffiò nella cerbottana. Il colpo si conficcò nella coscia di Fergund. Vide un breve lampo di irritazione sulla faccia dell'uomo. Il mago si portò la mano alla coscia... e venne urtato dal domestico del Sa'kagé. «Scusate, signore. Altro vino?», chiese l'uomo al mago, strappandogli l'aculeo. Era in gamba. Con delle mani così, doveva essere uno dei migliori tagliaborse della città. Ma certo, Roth usava solo il meglio. «Il mio calice è pieno, idiota», disse il mago. «Sei qui per servire il vino, non per berlo». Durzo si capovolse e tornò ad arrampicarsi su per la corda, impresa non facile con la seta. Si riposò quando arrivò alla trave. Non sapeva se il re avesse bevuto il vino oppure no. Ma aveva fatto la sua parte. L'unica cosa da fare ora era aspettare.


Capitolo 52 «Ubriacatevi, allora», disse Agon. Non gli interessava che il re lo sentisse. Non gli interessava che il re lo uccidesse. Proprio mentre pensavo di poter trattare con questo bastardo. Disonora sua figlia e umilia un uomo che ha dato tutto ciò che ama per servire il trono. Agon era stato abile nell'indirizzare il re verso il matrimonio di Logan Gyre e Jenine Gunder, ma il sovrano detestava l'idea. Era geloso dell'aspetto e dell'intelligenza di Logan, geloso di quanto la gente approvasse la sua scelta, e furioso per il fatto che Jenine fosse eccitata per quel matrimonio anziché rassegnata. Ma, se Agon aveva fatto una cosa preziosa nei suoi dieci anni al servizio di quel moccioso infernale, quella era stata convincere il re a nominare Logan principe della corona. Non che Logan l'avrebbe mai perdonato, ma era per il bene del regno. Talvolta il senso del dovere esigeva che un uomo facesse cose che avrebbe volentieri evitato. Era stato il senso del dovere che aveva costretto Agon a servire Aleine IX, e solo quello. Al pari di Agon, Logan non era uomo da rifuggire il dovere ma, sempre come il lord generale, ciò non voleva dire che dovesse piacergli. Logan avrebbe con tutta probabilità odiato Agon per il resto della sua vita, ma Cenaria avrebbe avuto un buon re. Con l'intelligenza di Logan, la sua popolarità e integrità, il paese sarebbe potuto perfino diventare qualcosa di più di un covo di ladri e assassini. Agon era disposto a pagarne il prezzo, ma la cosa lo metteva a disagio. Aveva visto se stesso negli occhi di Logan, consapevole di essersi legato a un destino che non aveva scelto. Aveva visto l'espressione sul viso di Serah Drake. Logan avrebbe vissuto il resto della sua vita con il senso di colpa per quel tradimento. Tutto ciò gli aveva fatto male. Agon non era quasi riuscito a toccare cibo quella sera. Il re buttò giù il resto del vino. I nobili erano ancora impegnati nella loro conversazione. Non era il brusio piacevole delle consuete chiacchiere che si facevano al banchetto per il Solstizio. Le parole erano sussurrate, gli sguardi furtivi. Ognuno offriva un'opinione su quello che il re stava facendo, sul perché avesse nominato un erede e, contemporaneamente, lo insultasse.


Era pura follia. Lentamente, il re emerse dalle lacrime e dal silenzio. Si guardò intorno nel salone con occhi pieni di odio. Muoveva le labbra, ma Agon dovette avvicinarsi per capire cosa stesse dicendo. Non fu sorpreso di sentirlo mormorare imprecazioni, una dopo l'altra, in tono monocorde, accecato dalla rabbia. Poi, il re scoppiò a ridere. La sala ammutolì nuovamente e il sovrano rise più forte. Indicò uno dei nobili, un modesto conte di nome Burz. Tutti seguirono il dito del re e fissarono il conte Burz. L'uomo si irrigidì, rosso in viso, ma Aleine non disse nulla. La sua attenzione vagava mentre aveva lo sguardo fisso, imprecando tra sé. Per lunghi attimi, i nobili continuarono a fissare il conte Burz, poi guardarono il sovrano. A quel punto, il cancelliere Stiglor, seduto al tavolo del re, si alzò urlando. «C'è qualcosa nel cibo!». Il cancelliere barcollò e ricadde sulla sedia, in deliquio, roteando gli occhi. Accanto a lui, un uomo che il re aveva sempre odiato, lord Ruel, all'improvviso si accasciò sul tavolo. Sbatté con la faccia sul piatto e rimase immobile. Il re si mise a ridere. Agon si girò verso di lui. Aleine non stava neanche guardando lord Ruel ma il suo tempismo non avrebbe potuto essere peggiore. Qualcuno gridò: «Ci hanno avvelenati!». «Il re ci ha avvelenati!». Agon si voltò per vedere chi avesse gridato, ma non riuscì a individuarlo. Era stato un domestico? Sicuramente nessun domestico avrebbe osato. Un'altra voce gridò nuovamente: «Il re! Il re ci ha avvelenati!». Ridendo, il re balzò in piedi e incespicò, ubriaco. Si mise a urlare oscenità mentre nel salone esplodeva il caos. Le sedie scricchiolarono all'alzarsi in piedi di nobiluomini e dame. Alcuni di loro vacillarono e caddero. Un vecchio lord cominciò a vomitare nel proprio piatto. Una giovane dama svenne, in preda ai conati. Agon era in piedi, e urlava ordini ai soldati. La porta laterale accanto al tavolo del re si spalancò e un uomo con la livrea dei Gyre entrò nella sala, tenendo le mani in alto per mostrare di essere disarmato. La sua livrea era strappata e


ricoperta di sangue. Uno squarcio accanto all'occhio sanguinava, sporcandogli il viso. La livrea dei Gyre? Nessuno dei domestici di Logan era lì quella sera. «Tradimento!», urlò il servo. «Aiuto! I soldati stanno cercando di assassinare il principe Logan! I soldati del re stanno cercando di assassinare il principe Logan! Siamo troppo pochi. Vi prego, aiutateci!». Agon si rivolse alle guardie del re, sguainando la spada. «Deve esserci un errore. Tu, tu e tu, venite con me». Poi, si rivolse al messaggero insanguinato. «Puoi portarci al...». «No!», sbraitò il re; le sue risa si erano trasformate d'un tratto in rabbia. «Ma, sire, dobbiamo proteggere...». «Non prenderai i miei uomini. Rimarranno qui! Rimarrete qui! E tu, Brant! Tu sei mio! Mio! Mio!». Ad Agon sembrò di vedere il re per la prima volta. Aveva visto Aleine IX come un bambino sciocco e malvagio per così tanto tempo da aver dimenticato cosa potesse fare un bambino sciocco e malvagio con la corona. Agon guardò le guardie del re. Sulle loro facce era evidente il disgusto. Si vedeva che fremevano per andare a difendere Logan, il loro principe, ma il senso del dovere impediva loro di disobbedire al re. Logan, il loro principe. All'improvviso, tutto divenne semplice. Dovere e desiderio divennero una cosa sola per la prima volta in tanti anni. «Capitano Arturian», gridò Agon con tono autorevole, in modo che ogni guardia reale lo sentisse. «Capitano! Qual è il vostro dovere se il re muore?». L'uomo tarchiato strizzò gli occhi. «Signore! Il mio dovere sarebbe di proteggere il nuovo re. Il principe». «Lunga vita al re», disse Agon. Il re lo guardava fisso, perplesso. Sgranò gli occhi quando vide Agon far oscillare all'indietro la spada. Aleine era nel bel mezzo di un'imprecazione quando la spada di Agon gli mozzò la testa.


Il cadavere di Aleine Gunder IX colpì il tavolo e crollò sulle sedie, per poi cadere a terra. Prima che le guardie potessero attaccarlo, Agon sollevò la spada sopra la testa con entrambe le mani. «Risponderò di questo, lo giuro. Uccidetemi se dovete, ma ora il vostro dovere è salvare il principe. Salvatelo!». Per un secondo, nessuno di loro si mosse. Il panico nella sala sembrava così distante. Le dame che gridavano, gli uomini che urlavano, i servi, armati solo di coltelli da carne, che cercavano di difendere i propri signori agonizzanti, urla - «Tradimento!», «Omicidio!» - che riecheggiavano nell'aria. Poi, il capitano Arturian gridò: «Il re è morto, lunga vita al re! Al principe! Al re Gyre!». Insieme, Agon, le guardie del re e una dozzina di nobili armati di coltelli uscirono di corsa dal salone. Prima di arrivare in prossimità di West Kingsbridge, Kylar rallentò il passo. Si impose di diventare un'ombra e si guardò. Sembrava uno sfilacciato lembo di tenebre. Ottimo: Durzo gli aveva detto che i bordi sfilacciati oscuravano le fattezze umane della figura, e rendevano un sicario difficile da individuare. Kylar pensava che anche il Talento avrebbe contribuito a celare i suoi movimenti lo voleva, ma non sapeva se stesse funzionando. Non poteva permettersi di indagare troppo. Girò l'angolo e vide le guardie. West Kingsbridge era controllato da un grande cancello simile alle porte del castello. Quercia spessa quanto una mano e rinforzata da ferro, alto sei metri e appuntito in cima, con un cancello supplementare più piccolo. Le grosse guardie in cotta di maglia sembravano nervose. Una di esse era irrequieta e girava di continuo la testa per guardarsi ai lati. L'altra era più calma, guardava a lungo in ogni direzione, fuorché verso il fiume. Kylar si avvicinò. Riconobbe gli uomini nonostante i loro elmi, e non solo perché i gemelli avevano tatuate sul viso due saette uguali. Erano dei picchiatori, e anche in gamba: Lefty - quello con il naso a uncino - e Bernerd. Kylar guardò dove Bernerd non stava guardando. Nell'oscurità, una goffa chiatta era ferma sul fiume simile a un tricheco spiaggiato. Aveva i portelloni aperti, ma non c'era alcuna luce


accesa. L'oscurità non influiva più sulla vista di Kylar. Se avesse avuto più tempo, se ne sarebbe meravigliato... al calare della notte, semmai la sua vista migliorava, poiché le ombre diventavano più uniformi. Attraverso i portelloni aperti della chiatta, vide file e file di soldati. Ognuno di essi indossava la divisa cenariana, ma con un fazzoletto rosso legato attorno al braccio. I soldati comuni con il fazzoletto al braccio sinistro, gli ufficiali su quello destro. I soldati non erano cenariani. Sotto gli elmi, celati dalle ombre notturne, Kylar scorse i duri lineamenti degli uomini del Nord: capelli neri come l'ala di un corvo e occhi azzurri come laghi ghiacciati. Erano uomini grossi, dalla struttura massiccia, temprati dall'esposizione alle intemperie e alle battaglie. Quindi non si trattava semplicemente di Khalidorani. Erano Khalidorani delle Highlands, le ferocissime truppe scelte del Re Divino. Tutte schierate lì. Alla luce del giorno, sarebbe stato evidente per qualunque cenariano nel castello. Ma, di notte, ci sarebbe voluto tempo prima che i soldati cenariani si accorgessero dell'imminente attacco di un nemico straniero. I soldati cenariani avrebbero capito troppo tardi di chi si trattava. Chi si fosse trovato davanti ai Khalidorani l'avrebbe capito a proprie spese. Kylar vide un'altra chiatta risalire il fiume, lontana solo poche centinaia di metri. Gli Highlander khalidorani tendevano a essere più robusti degli altri e, mentre solo poche tribù libere continuavano a resistere sulle montagne, quelli che erano stati assorbiti nell'impero erano diventati i suoi più temuti lottatori. Quattro o cinquecento Highlander. Kylar non ne era sicuro, ma era pronto a scommettere che anche l'altra chiatta fosse piena di soldati scelti. Se era così Khalidor intendeva prendere il castello quella notte. Il resto del paese sarebbe crollato come un corpo senza testa. Diversi stregoni risalivano, chiacchierando, le rampe che portavano sul ponte. Scrutavano il cielo sopra al castello, come in cerca di un segno. L'indecisione immobilizzò Kylar. Doveva riuscire a entrare per salvare Logan... sicuramente Roth aveva affidato a Hu e Durzo il compito di uccidere i duchi. Altrettanto sicuramente, l'omicidio sarebbe stato questione di poco tempo, se non era già stato


commesso. Kylar poteva entrare e cercare di fermare il piano o poteva cercare di fermare i Khalidorani là fuori. Da solo? Follia. Ma il solo guardare la chiatta avvicinarsi al ponte lo rese furioso. Sapeva di non dovere lealtà a Cenaria, ma era leale a Logan e al conte Drake. Se quell'esercito fosse entrato nel castello, sarebbe stato un massacro. Quindi, doveva combattere dentro e fuori. Grandioso. Kylar guardò gli impostori del Sa'kagé che presidiavano il ponte. I picchiatori non si intendevano né si curavano delle difese del ponte, men che meno possedevano la giusta disciplina per smantellarle. Tutto quello che avevano fatto era stato girare la manovella che sollevava il massiccio cancello di ferro sul fiume. Poi, nel cielo sopra al castello, Kylar vide un lungo arco di fuoco verde-azzurro. Cominciò a camminare. Gli stregoni sembravano soddisfatti. Parlarono con un ufficiale, che si diede ad abbaiare ordini. Uno dei Khalidorani sollevò una torcia e la agitò due volte. Lefty e Bernerd presero a loro volta delle torce, andarono ognuno a un lato del ponte e le agitarono due volte. Tutto chiaro. Bene. Kylar estrasse Retribution. Udendo il sibilo che produsse uscendo dal fodero, i picchiatori si voltarono. Lefty sbatté le palpebre e si piegò in avanti. Con le torce in mano che intralciavano loro la visuale, tutto ciò che videro fu una sottile striscia di metallo scuro procedere a sobbalzi nell'aria. Poi, quella striscia assunse una terribile velocità. Nel giro di pochi attimi, entrambi gli uomini erano morti. Kylar rimise a posto la torcia che aveva preso dalla mano di Bernerd e controllò gli uomini sulle chiatte. Erano già schierati, e camminavano in fila indiana lungo le strette rampe che portavano al ponte. Afferrate le chiavi dal corpo di Bernerd, Kylar aprì il cancello e scivolò attraverso il portoncino. La manovella e il dispositivo di sbloccaggio del passaggio sul fiume erano lì. Il cancello stesso era semplicemente un'enorme saracinesca provvista di contrappesi, che potevano cadere nell'acqua. In quel caso, su una nave. Kylar tirò il dispositivo di sbloccaggio. Il cancello si abbassò di


circa mezzo metro e non scricchiolò. Produsse invece un rumore metallico. Kylar guardò a lato del ponte. Il cancello era bloccato da battenti magici che rilucevano nell'oscurità. Corse al posto di guardia. C'era un fuoco con un calderone pieno di stufato, utensili da cucina, un elmo, diversi mantelli, casse con gli effetti personali degli uomini e il gioco degli astragali su un tavolino basso. C'era, inoltre, un armadio pieno di vecchi tappeti infilati in grossi secchi. Kylar uscì di corsa dal posto di guardia. Sicuramente il re non avrebbe lasciato senza difese il suo ponte militare. Il ponte era fatto di legno rivestito di ferro - inattaccabile dal fuoco. Il legno rivestito era bagnato, ma non potendo traspirare, non rilasciava l'acqua che aveva assorbito, e così ogni asse era marcita nel corso degli anni e aveva bisogno di essere sostituita. Perché il re era stato così scrupoloso riguardo al fuoco? A quel punto, Kylar capì. Lungo entrambi i lati del ponte c'erano travi di legno montate su dei perni. Alla fine di ogni trave c'era un grosso globo di argilla, il cui diametro era pari all'altezza di Kylar. Almeno una parte di argilla era modellata sul ferro, perché un cavo d'ormeggio era legato a un cerchio di ferro che spuntava dal globo. Dai lati spuntavano diverse altre piccole maniglie. Tirando una maniglia, Kylar trovò un piccolo supporto. Quando lo sfilò, una nuvola di vapori oleosi gli investì il volto. Impiegò diversi secondi preziosi a esaminare l'intero congegno per capire. I bracci oscillavano ai lati del ponte, sostenendo globi pieni di olio, che lasciavano cadere su qualsiasi nave vi passasse sotto - auspicabilmente incendiandola in un modo spettacolare. Tornò affannosamente al cancello e prese le torce che avevano usato le guardie. Lo chiuse alla svelta. L'avanguardia dei Khalidorani era in prossimità del ponte. Che sto facendo? La prima chiatta stava per passare sotto il ponte. Non c'era tempo. Kylar, con un calcio, tolse il blocco alla trave e la spinse avanti. Non si mosse. Inciampò, rischiando di cadere sulle corde tese ai suoi piedi, imprecò e si scagliò nuovamente contro la trave. Quei dannati soldati non avevano mai oliato quell'affare? Infine, gli venne in mente che poteva usare il suo Talento. Sentì il potere scorrergli dentro... avrebbe potuto sollevare un carro con


la schiena. Fece pressione sulla trave e si accorse di brillare: il nero sfilacciato copriva e scopriva la sua pelle mentre lui indirizzava il suo Talento sulla trave. Se sono fortunato, neanche se ne accorgeranno. Rimarrò qui fino a che non sarà troppo tardi. Una palla di fuoco verde scoppiettante volò sul globo, mancandolo di qualche metro. Delle urla si levarono dalla chiatta. Gli stregoni, che avessero visto Kylar o solo le sue torce, non erano affatto contenti. Kylar spinse di nuovo la trave ma, senza un punto su cui far leva con i piedi, scivolò sulle assi. La trave si spostò impercettibilmente. Un'altra palla di fuoco rimbalzò sul globo e carambolò nel cielo. Kylar la ignorò. Qualcosa di bianco si stava sviluppando sul ponte della chiatta - ora proprio sotto di lui. Una piccola creatura prese forma di fronte a uno stregone dai capelli rossi, e cominciò a volare come un colibrì. Lo stregone salmodiava, i tatuaggi del vir sulla sua pelle si ispessivano, e intanto dirigeva la creatura. Kylar spinse ancora e le corde ai suoi piedi lo fecero cadere pesantemente a terra. L'omuncolo prese forma mentre sfrecciava verso Kylar. Era piccolo, alto appena una trentina di centimetri, e pallido. Aveva le sembianze distorte dello stregone fulvo. Atterrò delicatamente sul globo e conficcò i suoi artigli d'acciaio nel ferro, che cedette come fosse burro. Si voltò a guardare Kylar e sibilò, scoprendo le zanne. Kylar indietreggiò alla svelta, cadendo quasi dal bordo del ponte. Dal basso si avvertì una forte scossa. L'aria davanti allo stregone fulvo si increspò come uno stagno che assorbe l'urto di un sasso. Qualcosa si muoveva come se fosse sotto la superficie dell'aria. Qualcosa di enorme. La realtà sembrava stesse dilatandosi... E lacerandosi. Kylar vide la realtà squarciarsi sotto la pressione del passaggio del drago. Stava venendo per lui. A sei metri da lui, la realtà si era sfilacciata e strappata. Kylar scorse una gigantesca bocca circolare, simile a quella di una lampreda. Sembrava proiettata all'esterno in un cono spinato. Poi, l'anello più stretto colpì l'omuncolo e i denti scattarono, azzannando la pallida creatura. Ogni successivo cerchio di denti si conficcò violentemente in tutto ciò che circondava l'omuncolo, mentre il


cono si rivoltava, risucchiando ogni cosa dentro di sé. L'ultima, larghissima corona di denti si richiuse su gran parte del globo di ferro e il drago tornò improvvisamente nel suo antro, così com'era arrivato. Nuove increspature segnarono l'aria e poi scomparvero, come se niente fosse successo. L'omuncolo non c'era più. Lo stesso valeva per i tre quarti del globo, la cui argilla era stata rosicchiata, e il ferro, staccato come fosse lardo. L'olio gocciolava sull'acqua accanto alla chiatta. I soldati esultarono. La prima chiatta aveva superato il ponte e la seconda lo stava oltrepassando. Avvertendo una sensazione di debolezza, Kylar si fece indietro, inciampando nuovamente nelle corde. Imprecò a voce alta. Poi, i suoi occhi seguirono le corde. Erano unite a un sistema di pulegge attaccato alla trave. «Sono un idiota!». Afferrata una corda, Kylar la tirò, mano a mano, più velocemente che poteva. Il braccio che sosteneva il secondo globo oscillò senza alcun intoppo sul lato del ponte. Kylar sentì un urlo e due missili verdi gli sfrecciarono vicino. Accanto alla puleggia, Probabilmente importante.

c'era

un'altra

corda.

Sottile.

Kylar le diede uno strattone e trave e globo d'argilla caddero all'improvviso. Per un momento, temette di aver fatto cadere la sua unica arma nel fiume, ma il cavo d'ormeggio fece dondolare la sfera come un pendolo, una trentina di centimetri sul fiume. Il globo si abbatté sulla seconda chiatta. Non ci furono esplosioni. Il lato del masso che aveva colpito l'imbarcazione era fatto di ferro, sotto una patina di argilla cotta. Squarciò il fianco della chiatta come se lo scafo fosse fatto di corteccia di betulla, aprendo un varco tra i ranghi serrati di Highlander. Il resto del globo era argilla. Si disintegrò. L'olio che lo riempiva si riversò sugli uomini e il loro equipaggiamento, inzuppando i rivestimenti di legno. Kylar guardò l'imbarcazione dall'alto. Un bel buco si apriva sulla linea di galleggiamento e gli uomini all'interno urlavano, ma sperava in qualcosa di più impress... BOOM! La chiatta esplose. Dallo squarcio aperto dal globo guizzarono


fiamme devastanti. Gli oblò erano ostruiti dal fuoco. Le urla sempre più forti degli uomini furono inghiottite dall'improvviso rombo delle fiamme. Gli uomini che erano rimasti sul ponte della nave furono sbalzati via, e non pochi di loro caddero in acqua. La loro armatura li portò a fondo senza pietà. Così come era divampato, il fuoco scomparve. Volute di fumo continuavano a uscire dagli oblò e gli uomini si affollavano sul ponte. La chiatta si inclinò pericolosamente. Un ufficiale, con una ferita sanguinante alla testa, urlava ordini ma senza risultato. I soldati si tuffavano dal ponte per raggiungere la riva che sembrava così vicina... e andavano giù come sassi. L'acqua non era profonda, ma con le pesanti armature divenne una trappola mortale. Dopo una lunga pausa, per passare dall'alimentazione a olio a quella a legno, il fuoco avanzò nuovamente come una bestia insaziabile. Divampò da ogni asse della nave e, nonostante la chiatta continuasse la sua navigazione, Kylar capì che non ce l'avrebbe fatta a raggiungere la riva. Alcuni uomini avevano avuto la prontezza di togliersi l'armatura prima di tuffarsi fuori bordo, e altri si erano attaccati ai pali del ponte, ma almeno duecento Highlander non avrebbero mai combattuto sul suolo cenariane. Il cancello alle spalle di Kylar tremò come se fosse stato colpito. Il ragazzo si maledì. Non sarebbe dovuto rimanere lì a guardare, invece di correre via. Nessun soldato cenariano era intervenuto durante la battaglia, né arrivava adesso, due minuti dopo il segnale. Per quanto la situazione lì fosse brutta, qualsiasi cosa stesse accadendo al castello doveva essere peggiore. Il cancello fu spazzato via e gli stregoni, ardenti di potere, passarono attraverso i suoi resti fumanti. Kylar si mise a correre verso il castello.


Capitolo 53 Con Neph Dada e una dozzina di soldati in livrea cenariana che lo seguivano, Roth si affrettò sulla passerella. Raggiunse una stanzetta, girò a destra e salì di corsa una stretta rampa di scale. Era un dedalo di corridoi da capogiro, camminamenti e scale di servizio, ma avrebbe permesso a Roth e ai suoi uomini di arrivare alla torre nord due volte più velocemente che qualsiasi altro percorso. Il tempo era fondamentale. Tanti semi, che Roth aveva piantato, innaffiato e aiutato a sbocciare durante gli ultimi anni, stavano per dare i propri frutti quella sera. Come un bambino avido, voleva assaggiarli tutti e lasciare che i succhi sanguigni gli scorressero sul mento. La regina e le sue due figlie più giovani stavano morendo proprio in quel momento, pensò Roth con rimpianto. Era davvero una brutta cosa. Brutta cosa il fatto di non potervi assistere. Sperava che nessuno spostasse i corpi prima che lui andasse a vederli. Aveva dato ordini precisi ma, nonostante si fidasse del fatto che Hu Gibbet li avrebbe eseguiti meticolosamente, quella era una guerra. Non si poteva prevedere quanto sarebbe accaduto. Non si poteva evitare. Neanche per sogno si sarebbe perso lo spettacolo del re che moriva. Che cosa squisita era stata! Se Roth si fosse nascosto dietro gli angoli, sarebbe scoppiato a ridere. Aveva pensato di incoccare una freccia nella sua balestra e tenerla puntata alla fronte del re per tutta la sera. Aveva pensato di essere lui quello che lo avrebbe ucciso ma il servizio di sicurezza del capitano Arturian era stato impenetrabile. Roth era riuscito a entrare nel salone ma non a portarvi un'arma. Era stato un piccolo disastro. Se Durzo Blint non fosse intervenuto, l'intero colpo sarebbe fallito. Suo padre l'avrebbe ucciso. Ma non era successo. Durzo era intervenuto, e che performance da virtuoso aveva messo in atto! L'avvelenamento degli ospiti era stato geniale. Roth era stato nelle cucine mentre gli assaggiatori avevano provato ogni piatto, e nessuno di loro era stato male. La somministrazione del veleno al re era stata una meraviglia di atletismo. Lo stesso miscuglio aveva funzionato addirittura meglio di quanto promesso da Durzo. Roth avrebbe trovato altro lavoro per


quell'uomo. Con Durzo come strumento, avrebbe dispensato squisite sofferenze impensabili prima. Erbe! Non aveva mai neanche considerato il loro potenziale. Durzo sarebbe stato colui che l'avrebbe guidato a tutti i loro utilizzi. Chi avrebbe immaginato che le erbe date al re avrebbero spinto Agon oltre il limite? Aveva decisamente ridacchiato quando il lord generale aveva alleggerito lo sciocco re della testa. Era stato meglio che se l'avesse fatto di persona. Non aveva mai provato quel particolare brivido dato dal fatto di guardare qualcuno commettere quello che lui stesso avrebbe definito un tradimento. C'era qualcosa di molto raffinato nel vedere un uomo condannare se stesso. Roth e i suoi uomini si erano trattenuti nel salone abbastanza a lungo da vedere che il lord generale e i suoi avevano abboccato ed erano corsi via. Se aveva pianificato tutto alla perfezione - e Roth pianificava tutto alla perfezione - avrebbe assaporato frutti più gustosi del tradimento di Agon. Suo padre ne sarebbe stato così contento. L'arrivo di seicento Highlander delle truppe scelte era previsto al castello nella successiva mezz'ora. Un altro migliaio sarebbe arrivato all'alba. Il re aveva detto a Roth che voleva perderne meno della metà fino a quando, il giorno successivo, non fosse arrivato con un esercito invasore. Roth pensava che ne avrebbe persi meno di un quarto. Forse neanche. Avrebbe superato il suo uurdthan brillantemente. Il Re Divino lo avrebbe nominato re di Cenaria, tenendosi per sé il titolo di Alto Re. Con il tempo, gli avrebbe passato l'intero impero. Togliendosi dalla mente le glorie future, Roth si fermò nell'ultimo stretto corridoio, aspettando che i suoi uomini lo raggiungessero. La porta davanti a lui, aprendosi su cardini invisibili, dava sulla scalinata in fondo alla torre nord. Roth fece un cenno ai suoi uomini. Spalancarono con forza la porta nascosta e irruppero, spade in pugno, nella sala. Le due guardie d'onore alla base della torre non avevano la minima possibilità. A malapena riuscirono a riprendersi dalla sorpresa. «Blocchiamo questa porta. Agon non andrà di sopra», disse Roth. «Il principe e la principessa sono i prossimi». Detto questo, controllò la sua balestra.


Logan sedeva sul bordo del letto, in attesa. Chiuse gli occhi e si strofinò le tempie. Era, per il momento, solo nella camera da letto in cima alla torre nord. Jenine Gunder - no, Jenine Gyre - l'aveva lasciato per prepararsi. Per prepararsi. Logan si sentiva male. Aveva fantasticato sul fare l'amore, certo, ma aveva fatto del suo meglio per confinare i propri desideri a una sola donna - e quella donna non era Jenine. Quando Serah aveva accettato la sua proposta, aveva pensato che le sue fantasie sarebbero diventate realtà. Avevano progettato il loro matrimonio proprio quella mattina. Adesso questo. Sentì il soffice tramestio dei piedi nudi sul tappeto e alzò lo sguardo. Jenine si era sciolta i capelli, che le ricadevano in folti riccioli sulla schiena. Indossava una veste di seta, bianca e traslucida, e aveva un sorriso ansioso. Era bella da mozzare il fiato. Ogni accenno fatto dal suo abito la sera prima - per gli dei! era solo la sera prima? - era confermato, ogni sensuale promessa più che mantenuta. Gli occhi di Logan affondarono nelle sue curve, le sue anche che si affusolavano nella vita stretta, la vita che si allargava in quei seni perfetti, curva che si susseguiva a curva con una dolcezza che ispirava arte. Logan banchettò con la sua pelle dorata alla luce della candela, i cerchi più scuri dei suoi capezzoli che si intravedevano sotto la veste, il sangue che, scorrendo veloce, le faceva vibrare la gola, la ritrosia del suo atteggiamento. La desiderava. Voleva prenderla. Il desiderio lo invase prepotentemente, oscurando il resto della stanza, inghiottendo tutto il mondo, eccetto la bellezza che aveva davanti e i suoi pensieri su ciò che stava per fare. Distolse lo sguardo. Pieno di vergogna. Un groppo gli si formò in gola, mozzandogli il respiro. «Sono così brutta?», gli chiese lei. Logan alzò gli occhi e vide le sue braccia incrociate sul seno e gli occhi pieni di lacrime. Addolorato, distolse nuovamente lo sguardo. «No. No, mia signora. Vi prego, venite qui». Jenine non si mosse. Non era abbastanza.


Logan incontrò i suoi occhi. «Vi prego. Siete così graziosa, così... così bella che mi confondete. Mi fate stare male. Venite a sedervi con me. Ve ne prego». Jenine andò a sedersi accanto a lui sul letto, vicino, ma senza toccarlo. Logan aveva saputo poco di lei fino a quel giorno. Perfino suo padre l'aveva considerata un partito troppo ricco per lui. Sapeva solo che lei era ben voluta, "solare", "con la testa a posto" e non aveva ancora sedici anni. Logan capiva bene quell'aggettivo, "solare". Jenine aveva praticamente brillato a cena... fino a che suo padre non aveva parlato. Quel bastardo. Adesso, Logan riusciva un po' a capire come aveva dovuto sentirsi Regnus, vedendo la donna che amava sposata con quello. L'espressione "con la testa a posto" era stata usata anche per il fratello di Jenine. Riferita al principe, significava che la gente pensava stesse finalmente abbandonando la più che evidente frequentazione di sgualdrine, per cominciare ad assumersi alcune delle responsabilità di un regnante. Ma Logan immaginava che, riferita a Jenine, "con la testa a posto" probabilmente significasse che non giocava più a nascondino nel castello. Era così diversa da Serah... ed era sua moglie. «Io sono... ero fidanzato con un'altra donna questa mattina. Una donna che amavo da anni... la amo ancora, Jenine. Posso chiamarti così?» «Potete chiamarmi in qualunque modo vi piaccia, mio signore». La sua voce era gelida. L'aveva ferita. Era ferita e per tutte le ragioni sbagliate. Dannazione, era giovane. Ma, dopotutto, lui non era stato l'unico ad aver avuto un sacco di sorprese nel giorno appena trascorso. «Sei mai stata innamorata, Jenine?». La ragazza considerò la domanda con più gravità di quanto Logan si sarebbe aspettato da una quindicenne. «Mi... sono piaciuti dei ragazzi». «Non è la stessa cosa», scattò Logan, pentendosi all'istante del proprio tono. «Avete intenzione di tradirmi?», gli chiese lei di rimando. «Con lei?». La domanda colpì Logan in mezzo agli occhi. Non doveva essere facile neanche per Jenine. Come doveva sentirsi lei, alla quale


Logan piaceva, che lo aveva sposato e che veniva a sapere che lui era innamorato di un'altra? Logan si nascose il viso tra le mani. «Ho prestato il giuramento nuziale perché il re mi ha chiesto di farlo, perché la nazione ne aveva bisogno. Ma ho giurato, Jenine. Ti sarò fedele. Farò il mio dovere». «E il vostro dovere di generare un erede?», chiese Jenine. Il gelo non si era dissolto affatto. Avrebbe dovuto saperlo, ma rispose: «Sì». Lei si lasciò cadere sul letto e, tiratasi bruscamente su la veste, allargò le gambe. «Il vostro dovere vi aspetta, mio signore», disse, girando la faccia verso il muro. «Jenine... guardami! ». Le coprì le nudità e - grazie agli dei - le guardò solo il viso mentre parlava, nonostante il corpo di lei lo eccitasse anche in quel momento. Lo faceva sentire come un animale. «Jenine, sarò un buon marito. Ma non posso darti il mio cuore. Non ancora. Ti guardo e sento che è sbagliato desiderare di fare l'amore con te. Ma tu sei mia moglie! Dannazione, sarebbe più facile per me se tu non fossi così... così dannatamente bella! Se solo potessi guardarti senza desiderare di fare... fare quello che dovremmo stanotte. Mi capisci?». Ovviamente no, ma Jenine tornò a sedersi, intrecciando le gambe. D'un tratto era di nuovo una ragazzina, rossa d'imbarazzo per quello che aveva appena fatto, ma i suoi occhi erano risoluti. Logan alzò le mani. «Non ti biasimo. Non capisco neanche io. È tutto così contorto. Niente ha più senso da quando Aleine...». «Vi prego, non parliamo di mio fratello stanotte. Per favore». «Ho perso tutto. Tutto è... tutto è sbagliato». Come poteva essere così egoista? Lui aveva perso un amico, ma lei aveva perso suo fratello maggiore. Anche lei stava soffrendo. «Mi dispiace», disse. «No, è a me che dispiace», ribatté Jenine, con gli occhi pieni di lacrime ma lo sguardo fermo. «Ho sempre saputo che sarei stata data in moglie a un uomo utile al paese. Ho cercato perfino di non avere delle cotte perché sapevo che mio padre poteva dirmi da un giorno all'altro che aveva bisogno di me. Ho cercato per due anni di fare in modo che voi non mi piaceste. Penserete che io sia una sciocca, ma sapete chi erano alcuni dei miei potenziali mariti? Un principe ceurano a cui piacciono i ragazzi, un altro di sessant'anni,


un Alitaerano di sei anni, un Lodricari che non parla la nostra lingua e ha già due mogli, Khalidorani che trattano le loro donne come oggetti e un Modaini rimasto due volte vedovo, in circostanze sospette. Poi, c'eravate voi. Piacete a tutti. Un buon re avrebbe organizzato il fidanzamento per risanare la frattura tra le nostre famiglie, ma mio padre vi odia. Così, non mi è rimasto che guardarvi, ascoltare storie su di voi da mio fratello e da tutte le altre ragazze, sentire che siete coraggioso, che siete onorevole, che siete leale, che siete intelligente. Mio fratello mi disse che eravate l'unico uomo che non sarebbe stato intimidito dalla mia mente. Sapete come ci si sente quando si devono usare poche parole e far finta di non capire le cose, in modo da non farsi una cattiva reputazione?». Logan non era sicuro di aver capito. Sicuramente le donne non dovevano mai fingere di essere stupide. Oppure sì? «Quando ho scoperto che vi avrei sposato», continuò Jenine, «mi sono sentita come se tutti i miei sogni di ragazzina stessero per avverarsi. Perfino con mio padre che si comportava come... e Serah... e Aleine...». Fece un profondo respiro. «Mi dispiace, mio signore. Siete stato onesto con me. So che non siete stato voi a chiederlo. Mi dispiace che abbiate dovuto perderla perché io potessi avervi. So che avete avuto un sacco di brutte sorprese di recente». Sollevò il mento e parlò come una principessa. «Ma ho intenzione di fare tutto ciò che posso per essere una bella sorpresa, mio signore. Mi sforzerò di meritare il vostro amore». Per gli dei, che donna! Quella sera, Logan aveva guardato Jenine e le aveva guardato i seni. L'aveva vista ridacchiare con le sue amiche e aveva visto una bambina. Era stato uno sciocco. Jenine Gunder - Jenine Gyre - era una principessa nata per essere regina. La sua compostezza, il suo deliberato sacrificio, la sua forza gli incutevano soggezione. Aveva sperato che sua moglie potesse essere alla sua altezza. Ora, sperava di poter crescere lui stesso ed essere all'altezza di quella donna. «E io farò tutto quello che posso per far crescere il nostro amore, Jenine», disse Logan. «Io...». Lei gli mise un dito sulle labbra. «Volete chiamarmi Jeni?» «Jeni?». Logan le toccò la morbida pelle della guancia e lasciò vagare lo sguardo sul suo corpo. Mi è consentito farlo. Posso farlo.


Dovrei farlo. «Jeni? Posso baciarti?». Lei tornò bruscamente a essere la ragazza incerta, fino a che le loro labbra si incontrarono. Poi, nonostante tutte le sue esitazioni, l'incertezza e l'ingenuità, per Logan fu tutto ciò che al mondo c'è di caldo e soffice e bello e tenero. Era in tutto e per tutto una donna ed era anche incantevole. Le sue braccia la cinsero e la attirarono a sé. Qualche minuto dopo, Logan si scostò da Jenine, girando la testa verso la porta. «Non fermatevi», disse la ragazza. Stivali chiodati rimbombarono per le scale fuori dalla porta. Un sacco di stivali. Senza fermarsi neanche per rimettersi i vestiti nell'oscurità, Logan rotolò via da Jenine e impugnò la spada.


Capitolo 54 Regnus Gyre si nascose in un corridoio alla vista di Brant Agon che sopraggiungeva correndo con una dozzina di guardie reali e, inspiegabilmente, qualche pingue nobile. «Lunga vita al re! Al principe!», strillò uno di loro. Al principe? Allora le voci che giravano dovevano essere sbagliate. Regnus aveva sentito che Aleine Gunder era stato assassinato la notte precedente. Se il lord generale fosse stato solo, Regnus avrebbe chiamato il suo vecchio amico, ma non poteva farlo in presenza di Vin Arturian. Vin era tenuto ad arrestare Regnus e l'avrebbe fatto, pur non piacendogli la cosa. Si sentivano delle urla in lontananza, verso il centro del castello, ma Regnus non riusciva a distinguere neanche una parola. Il fatto che fossero successe così tante cose che lui non capiva lo rendeva nervoso, ma non poteva fare niente per quel che stava accadendo nel castello. Aveva solo sei uomini, nessuno dei quali provvisto di armatura. Era stato abbastanza difficile intrufolarsi come servi, portando con sé le spade. Tutto ciò che poteva sperare di fare era trovare Nalia e farla uscire di lì. Gli appartamenti della regina erano al secondo piano, nell'ala nord-orientale. Regnus e i suoi uomini avevano attraversato il castello con disinvoltura, in due gruppi di tre, cercando di non attirare l'attenzione dei domestici, ma, ora, abbandonata la prudenza, Gyre richiamò alla svelta i suoi uomini e allungò il passo. Arrivarono alla camera della regina senza imbattersi in un solo domestico o guardia. Un'incredibile fortuna. Contro anche solo un paio di guardie reali, armate e protette dall'armatura, Regnus e i suoi avrebbero avuto la peggio. Regnus bussò con forza alla grande porta e poi la aprì. Una dama di compagnia, che stava per aprire, indietreggiò per la sorpresa. «Voi!», esclamò. «Milady, fuggite! Assassino!». Nalia Gunder era seduta su una sedia a dondolo, con un ricamo in grembo. Si alzò immediatamente ma, con un gesto, allontanò la donna. «Non essere sciocca. Va' via». Le sue figlie più piccole,


Alayna ed Elise, avevano l'aspetto di chi avesse pianto. Erano ferme, incerte, ancora troppo piccole per riconoscere il duca Gyre. «Cosa ci fate qui?», gli chiese la regina Nalia. «Come siete entrato?» «La vostra vita è in pericolo. L'uomo che ha attaccato casa mia la notte scorsa è stato assoldato per uccidervi questa sera. Vi prego, Nal... vi prego, mia regina». Non la guardò in viso. «Mio signore», disse lei. Era il modo in cui una regina poteva salutare il vassallo preferito. Era anche il modo in cui una signora poteva rivolgersi al proprio marito. In quelle due parole, Regnus le sentì dire: "Non ho mai amato altri che voi". «Mio signore», ripeté lei. «Regnus, andrò dovunque mi conduciate, ma non possiamo andare da soli. Se io sono in pericolo, lo sono anche loro». «Le vostre bambine possono venire con noi». «Intendo Logan e Jenine. Si sono sposati questo pomeriggio». Lunga vita al re! Al principe! Ora le acclamazioni dei nobili avevano senso. Avevano abbreviato la formula consueta: il re è morto, lunga vita al re. Intendevano lunga vita al nuovo re. Il principe. Logan. Re Gunder era morto. Logan era il nuovo re. Un uomo migliore avrebbe avuto prima altri pensieri, Regnus lo sapeva - un marito migliore avrebbe avuto altri pensieri prima -, ma la prima cosa che gli venne in mente fu che il marito di Nalia era morto. L'odioso ometto, causa di tanta sofferenza, non c'era più; anche sua moglie non c'era più. Lui e Nalia erano entrambi improvvisamente, miracolosamente liberi da ventidue anni di schiavitù. Ventidue anni, e quello che pensò fu che una sentenza di morte era stata d'un tratto revocata. Si era consolato con l'essere un padre orgoglioso e un abile comandante, non credendo di avere altro che sofferenza coniugale ad aspettarlo a casa. Ora, la felicità non era solo una remota possibilità, era lì, a un passo da lui, raggiante, con gli occhi pieni d'amore. Come sarebbe stato diverso tornare a casa da Nalia, condividere la sua casa, la sua conversazione, la sua vita, il suo letto. Se lei lo avesse voluto, lui avrebbe potuto sposarla. L'avrebbe sposata. Le altre implicazioni gli sovvennero più lentamente. Logan era il


nuovo re? I genealogisti avrebbero avuto gli incubi se Regnus e Nalia avessero avuto dei figli. Non gli importava. Rise sonoramente, si sentiva il cuore così leggero. Poi, si interruppe. Agon, le guardie e i nobili stavano correndo da suo figlio, armati di coltelli da tavola. Logan era in pericolo. Quegli uomini stavano correndo a salvarlo. Logan era in pericolo e Regnus aveva girato la testa dall'altra parte. Non c'era tempo per spiegare tutto, per dire a Nalia che era libera, che Aleine era morto. Regnus doveva agire. Non aveva idea di quanto tempo fosse rimasto. «Loro sono nei guai! Seguitemi!», gridò Regnus, alzando la spada. «Noi...». Qualcosa di caldo gli attraversò la schiena e poi svanì. Regnus si girò e si strofinò il petto, irritato. Vide qualcosa di nero volteggiare nell'ombra, mentre il sangue fuoriusciva d'un tratto dalla gola di uno dei suoi uomini. Come marionette i cui fili fossero stati tagliati, i suoi uomini caddero uno dopo l'altro in rapida successione, morti. Regnus allontanò la mano dal torace. Era appiccicosa. Guardò in basso. Una macchia di sangue si stava allargando sulla sua tunica, all'altezza del cuore. Alzò gli occhi verso Nalia. L'ombra era alle sue spalle, e la immobilizzava. Una mano nera le teneva il mento alzato, l'altra impugnava la lunga e sottile spada che aveva ucciso Regnus. Gli occhi di Nalia erano fissi su di lui, dilatati per il terrore. «Nalia», disse Regnus. Cadde in ginocchio. Tutto divenne bianco. Cercò di tenere gli occhi aperti, ma poi capì che i suoi occhi erano aperti e non aveva più importanza. Il lord generale Agon e la sua improvvisata banda di nobili e guardie reali non procedevano spediti. Attraverso i secoli, il castello era stato ampliato, ma la sua struttura non era stata semplificata. Due volte gli uomini del generale erano stati fermati da una porta chiusa a chiave, avevano discusso circa l'opportunità di abbatterla o fare il giro, e deciso di fare un'altra strada. Ora percorrevano l'ultimo corridoio che portava alla torre nord, le guardie reali di volata, Agon che correva e diversi nobili che procedevano affannosamente. I nobili avevano da tempo rinunciato alle precedenti esclamazioni entusiastiche come "viva il principe" e


"lunga vita a re Gyre". Stavano risparmiando il fiato, adesso. Agon entrò nell'anticamera della torre, sentendo gli uomini imprecare e battere forte alla porta che dava sulle scale. Una delle guardie reali, il colonnello Gher, era ferma all'ingresso dell'anticamera. «Presto, signori!», sollecitò gli ultimi due nobili panciuti. Esaminata la stanza, Agon lasciò che gli uomini più giovani e atletici dessero l'attacco alla spessa porta delle scale. La stanza non era grande, circa sei metri quadri, con pochi mobili, un soffitto così alto da perdersi nell'oscurità e solo due porte: una che si apriva sulle scale e l'altra sul corridoio. Non era possibile aggirare quella porta. C'era qualcosa che non andava. Il fatto che la porta fosse chiusa a chiave significava che le guardie erano state uccise o corrotte. Agon girò la testa in direzione del colonnello Gher che faceva fretta agli ultimi nobili, affinché entrassero nella stanza. Agon spinse da una parte il cugino di Logan, il grasso lord Gyre, e fece per urlare un avvertimento. Ma, prima che potesse dire una sola parola, il pugno ferrato del colonnello Gher lo colpì al mento. Cadendo all'indietro, Agon non poté che rimanere a guardare mentre il colonnello Gher chiudeva le porte inserendo il catenaccio. Una delle guardie reali diede una spallata alla porta, che non cedette, e, un istante dopo, Agon sentì che questa veniva sbarrata. «In trappola», disse lord Urwer. Per un momento, tutti nella stanza si fermarono. Mentre si rialzava con l'aiuto di una delle guardie reali, Agon vide gli uomini iniziare ad afferrare la situazione. Se erano appena stati traditi da uno dei loro, allora il tentativo di attentare alla vita del principe non era isolato né malamente organizzato. Tutto quanto era successo negli ultimi giorni era stato orchestrato... dalla morte del principe Aleine fino al loro arrivo a quel punto morto. Le probabilità che avevano di sopravvivere erano davvero scarse. «Cosa facciamo, signore?», domandò una delle guardie. «Superiamo quella porta», disse lord Agon, indicando quella che dava sulle scale. Era probabilmente troppo tardi. Avrebbero forse trovato soldati nemici e guardie morte lungo i gradini. Ma sul campo di battaglia, Agon aveva da tempo imparato a non perdere


tempo a rammaricarsi di cosa si sarebbe potuto fare e capire. Le recriminazioni sarebbero venute dopo, se ci fosse stato un dopo. Le guardie avevano rinnovato l'assalto alla porta, quando risuonò il sibilo di una balestra che scoccava una freccia. Una guardia reale cadde, la cotta di maglia che gli ricopriva il petto trafitta come se fosse seta. Agon imprecò e si guardò intorno alla ricerca di buchi nelle pareti. Non ne vide nessuno. Gli uomini si guardarono intorno come impazziti, in guardia contro un nemico che attaccava dal nulla. Sibilo. Un'altra guardia cadde morta addosso ai suoi compagni. Agon e gli uomini alzarono lo sguardo verso il buio. Un candeliere sospeso al soffitto annientava le loro possibilità di vedere oltre. Una profonda risata riecheggiò dall'oscurità. Guardie e nobili si affannarono a cercare un riparo qualsiasi, ma c'era ben poco. Un soldato rotolò sotto una poltrona dallo schienale imbottito. Un nobile strappò un ritratto di sir Robin dalla parete e lo tenne davanti a sé come uno scudo. «La porta!», abbaiò Agon, nonostante avesse il cuore carico di disperazione. Non c'era via d'uscita. L'uomo o gli uomini che li stavano attaccando avevano risorse e traditori all'interno del castello, oltre a conoscerne i segreti. Il paranoico re Hurlak aveva crivellato l'area del castello di stanze e passaggi segreti. Poiché conosceva la loro collocazione, questo assassino non doveva fare altro che mettersi al posto giusto e ucciderli tutti. Non c'era modo di fermarlo. Sibilo. Il soldato seduto dietro la poltrona si irrigidì quando il dardo, squarciato lo schienale, lo trafisse. L'assassino voleva che si rendessero conto di quanto disperata fosse la loro situazione. «La porta! », gridò Agon. Con il genere di coraggio che molti comandanti chiedono ma che solo pochi ottengono, il resto delle guardie saltò su e si scagliò contro la porta. Sapevano che qualcuno di loro sarebbe morto nell'impresa, ma sapevano anche che era la loro unica via d'uscita, la loro unica speranza di vita. Sibilo. Un'altra guardia crollò nel mezzo di una carica alla porta. Lord Ungert, reggendo debolmente davanti a sé il ritratto, si mise a


gemere come una ragazzina. Sibilo. Un soldato sembrò spiccare un salto di lato: una freccia gli si era conficcata nell'orecchio, scagliandolo contro il telaio della porta. Nella porta si aprì uno squarcio. Una delle rimanenti guardie reali cacciò un grido di trionfo. Una freccia volò dalla fenditura e gli si conficcò nella spalla. L'uomo girò su se stesso prima che un altro dardo, dall'alto, gli spezzasse la spina dorsale. Le ultime due guardie sussultarono. Una abbandonò la spada, cadendo in ginocchio. «Pietà», si mise a implorare. «Pietà, no. Pietà, no. Pietà...». L'altra era il capitano Arturian. Caricò come un indemoniato. Era un uomo forte e la porta sobbalzava sotto i suoi colpi, mentre lo squarcio si allargava, fino a raggiungere il chiavistello. Evitò due frecce che volarono dalla porta, sibilandogli sulla testa, e attaccò ancora una volta. Un'altra freccia sfiorò Vin Arturian e Agon vide la sua testa sbalzata all'indietro. Era stato colpito alla guancia, un taglio netto, e aveva un orecchio mozzato. Urlando, il capitano Arturian infilò la spada nello squarcio come fosse una lancia. Afferrò il chiavistello e lo tirò fuori dalla porta, sobbalzando quando una freccia gli trapassò il braccio. Non ci fece caso ma prese la porta e spinse, riuscendo a scardinarla. Cinque arcieri khalidorani in divisa cenariana erano sulle scale con gli archi tesi. Sei spadaccini e uno stregone stavano dietro di loro. Un altro arciere giaceva ai loro piedi, con la spada della guardia che gli spuntava dallo stomaco. I cinque arcieri scoccarono i loro dardi simultaneamente. Crivellato di frecce, il capitano Vin Arturian cadde all'indietro. Il suo corpo andò a finire accanto alla guardia in ginocchio, che strillò. Sibilo. Lo strillo finì in un gorgoglio e il giovane cadde, soffocato dal proprio sangue. Poi, giunse uno di quegli arcani momenti di normalità nel caos di una battaglia, che Agon aveva già visto, ma ai quali non riusciva ad abituarsi. Uno degli arcieri mise via l'arco, entrò nella stanza e prese la porta. «Scusate», disse ad Arturian che aveva appena contribuito a


uccidere. La sua voce non era sarcastica ma solo gentile. Tirò via la porta dalle mani del capitano, irrigidite dalla morte, tornò vicino alle scale e la rimise al suo posto, mentre lord Agon e i nobili lo osservavano. In quel vuoto temporale prima che la realtà tornasse prepotentemente, Agon guardò i nobili. Che a loro volta guardarono lui. Quelli erano gli uomini che spontaneamente avevano messo a rischio la propria vita per salvare il principe. Uomini coraggiosi, anche se alcuni sciocchi, pensò mentre guardava lord Ungert farsi scudo con un quadro. Quelli erano gli uomini che aveva condotto alla morte. La trappola era stata astuta. Il "domestico dei Gyre", che aveva annunciato l'aggressione a Logan, era senz'altro uno degli uomini dell'usurpatore. Lo stratagemma non solo aveva diviso le guardie reali, allontanando gran parte di loro dal salone, ma aveva anche separato il grano dalla pula. I signori che avevano seguito Agon non erano esattamente gli uomini che ci si sarebbe aspettati corressero in difesa del principe Logan, ma erano tutti uomini che avevano mostrato la propria lealtà nell'unico modo che importava... con le loro azioni. Uccidendoli, Khalidor avrebbe eliminato i suoi più probabili oppositori. Geniale. Sotto il gorgoglio e il rantolo del soldato morente, Agon avvertì un altro suono. Le sue orecchie lo identificarono immediatamente. Era il verricello di una balestra che veniva azionato. Click-click-clack. Click-click-clack. «Dunque ora sapete chi maledire per la vostra morte», disse una voce divertita, dal suo nascondiglio sopra le loro teste. «Sono il principe Roth Ursuul». «Ursuul!», inveì lord Braeton. «Oh, è un onore, allora», aggiunse lord Gyre, il cugino di Logan. Il dardo gli trapassò la grossa pancia, con una forza tale da uscire dall'altro lato portandosi via buona parte delle sue viscere. Il nobile andò a sbattere contro una parete. Diversi signori maledirono Ursuul come lui li aveva invitati a fare. Alcuni andarono a confortare lord Gyre, che respirava affannosamente e tremava sul pavimento. Il generale Agon rimase al suo posto. La morte lo avrebbe colto in piedi. Click-click-clack. Click-click-clack.


«Voglio ringraziarvi, lord generale», disse Roth. «Mi avete servito bene. Per prima cosa, avete ucciso il re al posto mio - un bel tradimento, quello - e poi siete stato tanto bravo da portare questi uomini nella mia trappola. Sarete ben ricompensato». «Cosa?», chiese il vecchio lord Braeton, guardando allarmato Brant. «Di' che non è vero, Brant». Il dardo successivo trapassò il cuore di lord Braeton. «È una bugia», disse lord Agon, ma il nobile era morto. Click-click-clack. Click-click-clack. Lord Ungert guardò terrorizzato Agon. La tela tremava nelle sue mani. «Ti prego, digli di smetterla», implorò quando vide di essere l'ultimo nobile rimasto. «Non volevo neanche seguirti. È stata mia moglie a insistere». Un piccolo buco comparve nel ritratto di sir Robin e lord Ungert barcollò all'indietro. Per un lungo momento, rimase in piedi contro la parete, con una smorfia di dolore sul viso e il quadro ancora tra le mani. Sembrava disgustato, come se si fosse aspettato che il dipinto fermasse il colpo della balestra. Poi, cadde sul quadro, rompendone la cornice in mille schegge. Click-click-clack. Click-click-clack. «Bastardo», disse lord Gyre con il respiro mozzo, guardando Agon. «Bastardo che non sei altro». Il colpo successivo lo prese in mezzo agli occhi. Il generale Agon alzò la spada in segno di sfida. Roth scoppiò a ridere. «Non stavo mentendo, lord generale. Avrete la vostra ricompensa». «Non ho paura», disse Agon. Click-click-clack. Click-click-clack. La freccia colpì il ginocchio di Agon, che sentì le ossa fracassarsi. Inciampò in una sedia e cadde. Poco dopo, un'altra freccia gli trapassò un gomito. Sembrava come se gli avesse divelto il braccio. A malapena riuscì a mettersi seduto a terra, afferrandosi al bracciolo della sedia come un uomo che sta annegando. «Il mio sicario mi ha detto che potevo essere certo che sareste finito ciecamente in questa trappola. Dopotutto, siete stato abbastanza stupido da fidarvi di lui», disse Roth.


«Blint!». «Sì. Ma non mi aveva detto che avreste tradito il vostro re! È stato delizioso. E far entrare lord Gyre nella famiglia reale tramite il matrimonio? Un vostro amico, non è vero? Avete sacrificato la vita di Logan con questa trovata. So che non avete paura di morire, lord generale», continuò Roth. «La ricompensa che vi do è la vostra vita. Vivrete con la vostra vergogna. Andate, adesso. Strisciate, insetto». «Passerò il resto della mia triste vita a darti la caccia», disse Agon digrignando i denti. «No, non lo farai. Sei un cane bastonato, Brant. Avresti potuto fermarmi. Invece, mi hai aiutato nel mio cammino. Ora, io e i miei uomini andremo di sopra. Il principe e la principessa moriranno perché non mi hai fermato. Perciò perché dovrei ucciderti? Non avrei potuto fare tutto questo senza di te». Roth lasciò il generale a boccheggiare sul pavimento. Distrutto.


Capitolo 55 Il sergente Bamran Gamble tese la balestra alitaerana con i grossi muscoli della sua schiena. Non importava se eri forte come un bue: non si poteva tendere una balestra simile con le braccia. L'arco era fatto di spesso legno di tasso, lungo più di due metri a riposo, ed era in grado di penetrare un'armatura a duecento passi. Aveva sentito di uomini che avevano colpito un bersaglio a più di cinquecento passi, ma grazie a Dio, non aveva bisogno di tanto. Era sul tetto del posto di guardia, nel cortile del castello. Erano stati isolati lì da un traditore, ma il codardo non aveva avuto il coraggio o la torcia per appiccare il fuoco al posto di guardia con loro dentro. Gli uomini di Gamble avevano aperto un varco nel tetto e lo avevano issato fin lassù. Il primo dardo dello stregone era passato sulla testa del sergente prima ancora che avesse teso l'arco. Lo stregone era l'unico meister nel cortile, messo lì per tenere d'occhio la situazione, evidentemente. Dal suo trespolo, Gamble vide che altre truppe stavano attraversando a frotte l'East Kingsbridge, ma ora si concentrava solo sullo stregone. Si trattava di una donna, con i capelli rossi e la pelle pallida. Respirava affannosamente, come se l'ultimo colpo le fosse costato un'immensa fatica, ma già si stava riprendendo e salmodiava, mentre il vir nero che aveva sul braccio andava dilatandosi. Se Gamble avesse mancato il colpo, non avrebbe avuto una seconda possibilità. La strega mirava in basso stavolta, con l'intenzione di appiccare il fuoco al tetto di paglia della guardiola. Più di quaranta uomini del sergente Gamble sarebbero morti. La schiena del soldato si flette e la punta della freccia slittò all'indietro. Fece scivolare tre dita verso la sua faccia e la corda arrivò a toccargli le labbra. Non stava prendendo la mira; era semplicemente questione di istinto. Una palla di fuoco si accese tra le mani della strega. Il dardo della balestra schizzò tra le fiamme, e la potenza che avrebbe portato la freccia a conficcarsi in un'armatura non ebbe difficoltà a penetrare un etereo fuoco, né lo sterno di una giovane donna. La strega volò letteralmente all'indietro, come se fosse stata tirata da un cavallo lanciato al galoppo. La freccia inchiodò il suo corpo alla grande porta alle sue


spalle. Il sergente Gamble non si era reso conto di aver incoccato un'altra freccia. Se avesse potuto decidere, avrebbe scelto di scendere dal tetto e liberare i suoi uomini ma, improvvisamente, la lotta aveva preso a scorrergli nelle vene. Dopo diciassette anni come soldato, stava combattendo per la prima volta. La freccia toccò le sue labbra e volò via, andando a colpire un'altra strega a capo di un manipolo di Highlander, che attraversavano il ponte. Fu un colpo perfetto, uno dei migliori colpi dell'intera vita di Gamble. Sfrecciò tra tre file di soldati in corsa e colpì la strega all'ascella mentre, nel correre, muoveva le braccia. La fece volare giù dal ponte. La strega cadde, esanime, nelle acque del Plith. Gli Highlander non rallentarono il passo. Fu in quel momento che il sergente Gamble capì che erano nei guai. Due arcieri e uno stregone si sfilarono dal gruppo e cominciarono a cercarlo, ma tutti gli altri uomini continuarono ad attraversare il ponte. Quando gli arcieri ebbero teso i propri archi, lo stregone toccò ognuno e il fuoco sprizzò dalla punta delle frecce. Gamble si lasciò scivolare giù dal tetto, cadendo nel cortile, mentre due frecce incendiarie si conficcavano nella paglia. Il fuoco si diffuse a una velocità innaturale. Quando Gamble tolse la spranga alla porta, il fumo aveva già invaso il posto di guardia. «Cosa facciamo, signore?», chiese uno degli uomini attorno a lui. «Non possono prenderci tutti insieme, perciò cercheranno di separarci. Credo che siano due, forse trecento. Dobbiamo arrivare alle altre guardiole». Lì, ci sarebbero stati altri duecento uomini. Così sarebbero stati pari, per lo meno, non che il sergente Gamble pensasse che i numeri potessero servire a qualcosa, non contro Highlander e stregoni khalidorani. «Al diavolo tutto», disse una giovane guardia. «Non ho intenzione di morire. Abbiamo ancora l'East Kingsbridge. Me ne tiro fuori». «Avvicinati a quel ponte, Jules, e sarà l'ultima cosa che farai», disse il sergente Gamble. «É per questo che ci pagano. Qualsiasi cosa in meno del nostro dovere è un tradimento, proprio quello di Conyer che ci ha rinchiuso nella guardiola». «Ci pagano una miseria».


«Sapevamo quanto pagavano quando ci siamo arruolati». «Voi fate quello che dovete fare, signore». Jules rinfoderò la spada e si girò spavaldo. Si mise a correre verso il ponte. Ognuno dei suoi trentanove uomini guardava il sergente Gamble, che tese l'arco, sussurrò una preghiera per due anime mentre la corda gli toccava le labbra e scoccò una freccia alla nuca di Jules. Mi sto trasformando in un vero eroe di guerra, non è vero? Esperto nell'uccidere le donne e i miei uomini. «Lotteremo», disse. «Qualche domanda?». Kylar attraversò di corsa gli alloggi della servitù senza farsi vedere. Ancora nessun soldato in vista. Le cose dovevano essersi messe davvero male se i soldati non avevano organizzato nessuna resistenza. Tutt'a un tratto, si trovò nel bel mezzo di uno scontro. Almeno un distaccamento di Highlander doveva essere entrato da un'altra parte, poiché ce n'erano venti impegnati a massacrare il doppio di soldati cenariani. I Cenariani erano sul punto di cedere, nonostante il loro sergente continuasse a sbraitare ordini. Vedendo il volto dell'uomo Kylar si fermò. Conosceva quel sergente. Si trattava di Gamble, la guardia che era arrivata alla torre nord il giorno della prima uccisione di Kylar. Il ragazzo si unì alla mischia e si diede a uccidere i Khalidorani con la stessa facilità con cui la falce taglia il grano. Era un lavoro semplice. Non c'era gioia nell'uccidere uomini che quasi non lo vedevano. All'inizio, nessuno si accorse di lui. Era una macchia nera nelle viscere di un castello fatto di pietra scura e illuminato da torce guizzanti. Salvò la vita di Gamble, decapitando un Khalidorano e sventrandone un altro, dopo che avevano messo all'angolo l'ufficiale. Kylar non rallentò la propria corsa. Era un turbine. Era la prima faccia degli Angeli della Notte: era la Vendetta. Uccidere non era più un'attività, era uno stato dell'essere. Kylar era diventato uno sterminatore. Se ogni goccia di sangue colpevole che versava avesse potuto cancellare una goccia di sangue innocente, quella sera si sarebbe ripulito.


La sensazione delle cotte di maglia che si rompevano, del cuoio che si squarciava, della pelle che si lacerava sotto la gelida sentenza di Retribution era la migliore del mondo. Kylar era perso in una follia, in una specie di bizzarra meditazione: girava su se stesso, menava fendenti, affondava, mozzava, penetrava, colpiva, disintegrava sfregiava volti e cancellava futuri. Passò tutto così in fretta. In quello che non poteva essere stato più di mezzo minuto, ogni Khalidorano era morto. Non c'era neanche un moribondo. La furia assassina era nulla se non era completa. L'effetto sui Cenariani fu grandioso. Quelle pecore vestite da guardie erano a bocca aperta davanti alla tenebra sfilacciata che era Kylar. Non avevano neanche alzato le armi. Non erano neanche in posizione. Erano semplicemente attoniti davanti alla personificazione della Morte in mezzo a loro. «L'Angelo della Notte combatte per voi», disse. Si era fermato fin troppo. Logan forse stava morendo proprio in quel momento. Si addentrò ulteriormente nel castello. Tutte le porte erano chiuse e le sale sinistramente silenziose. Immaginò che i domestici fossero asserragliati nelle proprie stanze o già in fuga. Il tramestio di numerosi piedi a passo di marcia lo fece arrestare di colpo. Kylar penetrò in un corridoio buio dietro un angolo. Poteva essere al sicuro dagli occhi umani, ma c'erano cose molto più pericolose degli uomini nel castello quella sera. «Devono esserci almeno duecento dei loro soldati intrappolati di sotto», diceva uno degli ufficiali a un uomo, la cui corporatura esile faceva intendere si trattasse di uno stregone, nonostante avesse un'armatura e la spada. «Reggeranno forse per quindici minuti, meister». «E i nobili nel giardino?», domandò lo stregone. La risposta si perse nel fracasso dei passi degli Highlander che si allontanarono correndo. Dunque i nobili erano intrappolati nel giardino. Kylar non era mai stato lì prima - anzi, aveva evitato il castello il più possibile -, ma aveva visto delle raffigurazioni e, se l'artista non si era preso troppe licenze, Kylar ritenne di poterlo trovare. Immaginò che fosse un posto buono come un altro per cercarvi Logan o Durzo. Mentre si addentrava nel castello in direzione del giardino, vide


uomini morti che affollavano le sale, rendendo il pavimento scivoloso di- sangue. Kylar non rallentò la propria corsa. I morti erano soprattutto guardie di nobili. Poveri bastardi. Non aveva molta simpatia per gli uomini che intraprendevano la professione delle armi senza addestramento, ma quegli uomini erano stati massacrati. Ben più di quaranta guardie erano morte o moribonde, scalciando e fremendo di dolore. Kylar vide solo otto Highlander morti. Seguendo il sangue e i cadaveri, Kylar arrivò a una doppia porta di noce, sbarrata dall'esterno. Sollevò la spranga e la aprì. «Ma che khalidorano.

diavolo?»,

fece

una

voce

aspra

dall'accento

Allontanandosi dalla porta per mettersi dietro all'ennesima statua di Niner in posa eroica, Kylar vide diversi Highlander a guardia di un'area piena di nobili. C'erano uomini, donne e perfino un gruppo di bambini. Erano scarmigliati e spaventati. Alcuni piangevano. Altri, avvelenati, vomitavano. Fuori dalla visuale di Kylar, un rumore di passi rimbombò sul pavimento, e gli Highlander che poteva vedere approntarono le armi. La punta di un'alabarda agganciò l'angolo di una porta e la spinse, mostrando un tarchiato ufficiale khalidorano, tanto grosso quanto alto. L'ufficiale aprì anche l'altra porta con l'alabarda poi, fatto un cenno, due uomini uscirono, schiena contro schiena e spade in pugno. Guardarono in direzione della statua, in direzione di Kylar, che si premette contro il retro della scultura, facendo aderire le sue braccia e le sue gambe a quelle di marmo. «Niente, signore», disse uno di loro. Nel giardino, che non era neanche lontanamente grandioso come nei dipinti, c'erano dieci guardie e quaranta o cinquanta nobili, nessuno dei quali armato. Misericordiosamente, con gli Highlander non c'era nessuno stregone. Kylar pensò che gli stregoni fossero troppo preziosi per sprecarli a sorvegliare dei prigionieri. Tra i nobili, ce n'erano alcuni tra i più importanti del paese. Kylar riconobbe un bel po' di ministri del re. Il fatto che fossero tutti lì significava che Roth credeva che avrebbe preso il castello in fretta, quindi voleva poter decidere personalmente chi uccidere e chi inserire nel proprio governo.


Gli uomini e le donne sembravano confusi. Non sembravano credere a quello che stava succedendo. Andava oltre la loro comprensione il fatto che il proprio mondo potesse capovolgersi così in fretta. Molti stavano evidentemente male. Alcuni erano laceri e insanguinati, ma altri erano assolutamente incolumi. Alcune dame, che avevano ancora i capelli perfettamente acconciati, piangevano, mentre altre, con gli indumenti strappati, sembravano calme e piene di contegno. Alle spalle di Kylar, un soldato disse: «Maledizione, capitano! Non si è aperta da sola!». «Siamo qui per fare la guardia a questo luogo e qui rimarremo». «Ma non sappiamo cosa c'è là fuori... signore». «Rimaniamo qui», disse il tozzo capitano con una voce che non ammetteva repliche. Kylar si sentì quasi male per l'Highlander. L'istinto del giovane non sbagliava. Un giorno sarebbe stato un buon ufficiale. Ma ciò non impedì a Kylar di lasciar cadere le ombre a un passo da lui. Disse a se stesso che era giusto non farsi vedere. Avrebbe avuto bisogno della sua forza più tardi. Il giovane Khalidorano non aveva neanche finito di estrarre la spada dal fodero quando Kylar lo sventrò. Poi, Kylar superò abilmente l'uomo, lanciando un coltello con la mano sinistra, fendendo un'armatura di cuoio e costole con un taglio netto, e schivando una spada, che andò a conficcarsi nel corpo di un altro soldato in un unico movimento. Kylar diede una testata in faccia a un Highlander e girò rapidamente con l'uomo, nella cui schiena si conficcò l'alabarda del capitano. Si abbassò davanti a un fendente e pugnalò all'inguine l'Highlander con il suo wakizashi. A terra, di schiena, spinse l'uomo all'indietro con un calcio e usò la forza del calcio per balzare in piedi. Sei uomini erano morti o fuori combattimento. Ne rimanevano quattro. Il primo fu precipitoso. Si lanciò alla carica urlando qualcosa circa l'uccisione di suo fratello a opera di Kylar. Una parata e una replica, e un fratello seguì l'altro. Gli ultimi tre si mossero insieme. Un taglio veloce privò uno di spada e mano, e il secondo incrociò


la spada con Kylar cinque volte prima di non riuscire a schivare il colpo e cadere accecato. Kylar superò poi il fendente dell'alabarda con un salto e si girò per affrontare l'ufficiale. Ma prima infilzò il soldato monco. L'ufficiale lasciò l'alabarda e sguainò uno stocco. Kylar sorrise per la scelta estrema dell'arma del capitano e poi guardò oltre la spalla del suo avversario. L'uomo fece per girarsi, accigliato, ma alla fine non si voltò. Una graziosa dama gli fracassò la nuca con una fioriera. Fiori e terra volarono ovunque, ma il vaso non aveva che una crepa. «Grazie per averci salvati», disse, affannata, la donna. «Ma dannazione a voi per avermi guardata. Avreste potuto farmi uccidere». Era una delle donne i cui capelli e il cui trucco non erano stati guastati dalla violenza che l'aveva portata lì. Sembrava assolutamente tranquilla dopo aver fracassato il cranio di un uomo. Si limitò a spazzolarsi il vestito dalla terra e a controllare se si fosse macchiata di sangue. Kylar si meravigliò che non fosse straripata dal suo vestito scollato quando aveva corso. La riconobbe. «Non si è girato a guardare, no?», chiese a Terah Graesin, contento del fazzoletto di seta nera che gli nascondeva la faccia. In genere non indossava la maschera, ma se non l'avesse fatto, qualcuno di quei nobili avrebbe potuto riconoscerlo. «Be', non ho mai...». Si sentì bussare alla porta e la giovane, come tutti gli altri, rimase pietrificata. Tre colpi, due colpi, tre, due. Una voce gridò: «Nuovi ordini, capitano! Sua Maestà dice di ucciderli tutti. Ci servono i vostri soldati per sistemare quelli che oppongono resistenza nel cortile». «Dovete andarvene immediatamente», disse Kylar con voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti i nobili. «Ci sono almeno altri duecento Highlander che vengono da West Kingsbridge. Sono probabilmente quelli che stanno combattendo ora nel cortile. Se volete vivere, raccogliete tutte le armi che potete e liberate i soldati intrappolati di sotto. Ce ne sono altri diretti qui. Con loro, potrete farcela a uscire dal castello. Potete dare inizio a una resistenza. Avete già perso il castello; avete perso la città. Se non fate in fretta, perderete anche la vita». La notizia colpì come una secchiata d'acqua gelida i nobili che si


affollavano attorno a Kylar. Alcuni di loro sembrarono farsi ancora più piccoli, ma altri sembrarono riacquistare la propria forza sentendolo parlare. «Lotteremo, signore», disse Terah Graesin. «Ma alcuni di noi sono stati avvelenati...». «Conosco questi veleni. Se siete sopravvissuti fino ad ora, ne avete assunto solo una piccola dose e nel giro di mezz'ora starete meglio. Dov'è Logan Gyre?» «Scusatemi, sono Terah Graesin, ora regina Graesin. Se voi...». Gli occhi di Kylar si ridussero a una fessura. «Dov'è. Logan. Gyre?» «Morto. È morto. Il re è morto. La regina è morta. Le principesse sono morte, tutte quante». Il mondo tremò. Kylar si sentì come se avesse ricevuto una bastonata in pieno stomaco. «Siete sicura? Eravate presente?» «Eravamo con il re nel salone quando è morto, e sono stata io a trovare la regina e le sue figlie più giovani nella loro camera prima di essere catturata. Erano... è stato orribile». Scosse la testa. «Non ho visto Logan e Jenine, ma devono essere stati i primi a morire. Dopo che il re ha annunciato il loro matrimonio, avevano lasciato il salone da neanche dieci minuti quando il colpo di Stato ha avuto inizio. Il lord generale ha preso degli uomini per andare a salvarli, ma era troppo tardi. Questi uomini si stavano vantando di come avessero massacrato le guardie reali». «Dove?» «Non lo so, ma è troppo...». «Qualcuno sa dove sia andato Logan?», urlò Kylar. Vide dall'espressione sui loro volti che alcuni di loro lo sapevano, ma non glielo avrebbero detto perché temevano che li avrebbe abbandonati. Che codardi. Sentì un gemito provenire dal giardino e si fece largo tra i nobili per scoprire un uomo pallido, madido di sudore, steso a terra. Aveva la bava alla bocca e accanto alla sua testa c'era una pozza di vomito. Aveva un così brutto aspetto che Kylar quasi non lo riconobbe. Era il conte Drake. Kylar si inginocchiò accanto al conte e, prese delle foglie dal suo sacchetto di erbe, cominciò a infilarle nella bocca di Drake. «Avete un antidoto?», chiese uno dei nobili che, pur sentendosi


male, riusciva a stare in piedi. «Datemelo!». «A me!», pretese un altro. Cominciarono a spingere. Kylar sguainò Retribution e la puntò alla gola di uno dei nobili. «Se uno di voi tocca me o lui, lo uccido. Lo giuro». «È solo un conte!», disse una nobildonna grassa e tremante. «È povero! Vi darò qualunque cosa!». La parte dura e vendicativa di Kylar voleva tenersi l'antidoto solo per ripagarli della loro meschinità e della loro grettezza. Tuttavia, prese la sacca con l'antidoto e la lanciò a Terah Graesin. «Datelo a coloro che ne hanno più bisogno. Non salverà nessuno che abbia già perso i sensi, e chi sta in piedi sulle proprie gambe non ne ha bisogno». Terah aprì la bocca indignata per il brusco ordine, ma obbedì. Il tempo scivolava dalle dita di Kylar. Era lì. Era nel castello, ma non aveva idea di dove dovesse andare. Abbassò lo sguardo sul conte, chiedendosi se non fosse troppo tardi per salvarlo. L'uomo si agitò. I suoi occhi si aprirono e lentamente misero a fuoco. Non ce l'avrebbe fatta. «Torre nord», disse. «È lì che è andato Logan?». Il conte fece di sì con la testa e si riaccasciò, esausto. «È troppo tardi per loro», insisté Terah Graesin. «Combattete con noi. Vi darò terre, titoli, la grazia...». Incurante dei rantoli dei nobili, Kylar si avvolse nelle tenebre e corse via. Gli uomini di Roth corsero su per le scale e aprirono a calci la porta della camera da letto. Roth e Neph Dada arrivarono mentre undici uomini si infilavano nella stanza tra urla e grugniti. Nonostante la doppia porta fosse larga abbastanza da lasciar passare tre persone, con quattro file di soldati davanti a sé Roth non riuscì a vedere cosa stesse succedendo, pur capendo che le cose non stavano andando per il verso giusto. Si sentiva il rumore di corpi che cozzavano l'uno contro l'altro, il suono di una spada che tagliava la cotta di maglia, il rumore di un cranio che esplodeva come un melone. Accanto a lui, Neph Dada aveva allungato il braccio segnato dal vir. Mormorò qualcosa e un pezzo del vir prese a contorcersi. Una


violenta scossa, al tempo stesso misteriosamente silenziosa, fece volare gli uomini in tutte le direzioni. Anche quelli di Roth furono sbalzati via. I tre che erano proprio davanti a lui furono scagliati all'indietro ma, proprio quando Roth era ormai all'impatto, andarono a sbattere contro una barriera invisibile che Neph aveva eretto per proteggerlo. Neph parlò nuovamente e la stanza si riempì di luce. Roth vi entrò con lo stregone mentre tutti si riprendevano. Anche Logan cercò di rimettersi in piedi, ma le sue membra erano come ancorate al suolo da un grosso peso. Era nudo e furioso. Roth rinfoderò la spada mentre otto dei suoi uomini raccoglievano le proprie armi sparse. Sei uomini giacevano a terra, sanguinanti per le profonde ferite. Tre di loro erano morti, tre lo sarebbero stati presto. A quanto pareva, Logan ci sapeva fare con la spada. Sul letto, con una camicia da notte trasparente e tirata su, giaceva la principessa. Si dimenava, terrorizzata, ma non riusciva a coprirsi. Neph aveva immobilizzato anche lei. Roth si sedette sul letto accanto alla ragazza e lasciò vagare lo sguardo su quella figura attraente. Si leccò un dito e, posatolo alla base del collo della giovane, le percorse tutto il corpo. «Spero di non aver interrotto nulla», disse. Gli occhi di Jenine Gunder lampeggiarono. Era rossa di vergogna a causa di quell'esame minuzioso, ma era anche furiosa. Roth le mise un dito sulle labbra e la zittì prima che potesse dire qualcosa. «Sono qui per congratularmi per le tue recenti nozze, mia colombella», le disse. «Come vanno le cose? Sei soddisfatta dell'abbondanza delle doti di tuo marito?», domandò. Guardò, poi, la nudità di Logan e aggrottò le sopracciglia. «Be', suppongo di sì. E mio caro duca Gyre - mettetelo in piedi», ordinò Roth. «O dovrei dire principe Gyre? Non perderti d'animo. Ho visto la madre della tua sposa nuda, e con il tempo sarà...». Logan fece per scagliarsi in avanti ma i legacci tennero. Uno degli uomini lo colpì in pieno volto. Roth continuò come se non ci fosse stata alcuna interruzione. Fece schioccare la lingua. «Con il tempo. Questo è il punto. Con il tempo, la principessa potrebbe sviluppare questi ammirevoli seni e


fianchi». Le sorrise, pizzicandole una guancia. Roth si alzò in piedi e la magia di Neph sollevò Jenine dal letto, trasportandola, tremante, accanto a suo marito. «Ma non hai tempo. Spero ti sia goduta il matrimonio. E tu, Logan, amico, spero tu non abbia perso tempo con i preliminari... poiché il matrimonio è finito». Il momento si protrasse. Non c'era niente che Roth amasse così tanto quanto guardare lo stupore trasformarsi in paura prima e in disperazione poi. «Chi sei?», domandò Logan, con lo sguardo che non mostrava segni di paura. «Sono Roth. Sono l'uomo che ha ordinato la morte di tuo fratello, Jenine». Ignorando Logan, Roth vide le parole infrangersi sulla ragazza come un'ondata. Ma non si fermò, non le lasciò dire nulla. «Sono Roth, lo Shinga del Sa'kagé. Sono l'uomo che ha ordinato la morte di tuo padre, Jenine. Neanche dieci minuti fa, ho visto la sua testa rotolare dal tavolo. Sono il principe Roth Ursuul di Khalidor. Sono l'uomo che ha ordinato la morte delle tue sorelle e di tua madre, Jenine. Se presti ascolto, potresti sentire le loro urla». Si portò un dito all'orecchio e finse di assumere un'espressione attenta. «Voi due siete tutto ciò che è rimasto tra me e la corona di Cenaria, Jenine. E io mi prenderò quella corona. Temo di dovervi uccidere. Volete scegliere chi dei due morirà per primo?». A ogni rivelazione, lui le guardava gli occhi, nutrendosi avidamente della sua speranza morente, pascendosi della sua crescente disperazione. Roth estrasse un coltello e la mise di fronte a Logan. Logan emise un urlo silenzioso, poiché Neph lo aveva imbavagliato. Lottò contro i legacci, i muscoli tesi e gonfi, ma sfuggire alla magia di Neph era impossibile. Sarebbe stato più facile strappare le stelle dal cielo. «Mio signore», chiamò un soldato. «Una delle chiatte è stata distrutta. I meister hanno bisogno di voi per sedare la resistenza». Vedere la speranza fiorire negli occhi della ragazza, diede a Roth un brivido di eccitazione. «Resistenza», disse. «Forse vi salveranno! Ma, aspetta, il tuo eroe è già qui. Logan, hai intenzione di rimanere


qui fermo? Non vuoi salvarla?». I muscoli nelle membra di Logan si gonfiarono e i legacci magici si spostarono assottigliandosi, ma Neph parlò di nuovo e il principe non riuscì più a muoversi. «Immagino di no», disse Roth, rivolgendosi nuovamente a Jenine. «Ma tu sei la principessa! Sicuramente arriveranno le guardie reali. Anzi, scommetto che in questo momento il generale sta arrivando con i suoi a salvarti!». Si tirò i capelli dietro un orecchio mutilato. «Ma io ho ucciso Agon e tutte le guardie reali. Non ci sono più eroi. Nessuno può salvarti, Jenine». Roth le andò alle spalle e le passò la mano libera sulla vita sottile. Le aprì la camicia da notte e gliela strappò via, prendendole un seno nella mano. Una lacrima le rotolò sulla guancia, e l'uomo si piegò per baciarle il collo come un innamorato. I suoi occhi, pieni di derisione, erano fissi su Logan. Un istante dopo affondò il coltello nel punto in cui l'aveva baciata. Poi le diede una spinta, mandandola a cadere tra le braccia di Logan, con il lato destro del collo zampillante di sangue. Neph allentò i legacci di Logan abbastanza da fargli reggere la ragazza, ma non tanto da poter fare qualcosa per fermare il sangue. Gli occhi di Logan erano pozzi di orrore e pietà. Un suono celestiale per le orecchie di Roth, il suono di un'anima al limite massimo della sofferenza, sfuggì dalle labbra di Logan. Teneva la ragazzina boccheggiante stretta al petto. Roth divorava quell'orrore, cercando di imprimerne il ricordo nella mente, sapendo che ne avrebbe avuto bisogno nelle lunghe notti buie. Ma Logan si ripiegò su se stesso, girandosi in modo che Roth non potesse vedergli il viso, e guardò Jenine. «Sono qui, Jeni», disse, tenendo fissi gli occhi in quelli della ragazza. «Non ti lascio». La gentilezza nella sua voce fece infuriare Roth. Era come se Roth non importasse più. Con la voce confortante, Logan stava tirando se stesso e sua moglie fuori dal quel mondo di tenebra, diretti in un posto a cui Roth non aveva accesso. Mentre Jenine guardava Logan negli occhi, Roth la vide rilassarsi... non nella morte, ma dalla disperazione. «Mi avresti amato davvero?», gli chiese.


Roth sapeva che avrebbe dovuto tagliare più profondamente, avrebbe dovuto reciderle la trachea, non solo quella singola arteria. Colpì Logan al viso, ma il suo pugno avrebbe potuto essere il ronzio di un moscerino per quello che fece. Il ragazzo non perse neanche il contatto visivo con la principessa. «Jeni. Jeni», disse piano. «Già ti amo. Sarò presto con te». «Stai per morire!», urlò Roth, a meno di un passo da lui, ma avrebbe potuto essere una brezza estiva. Le ginocchia di Jenine tremavano e Logan tornò a stringerla, chiudendo gli occhi e sussurrandole all'orecchio, mentre la vita della giovane si riversava sul suo petto. «Mio signore, hanno bisogno messaggero, con più insistenza.

di

voi,

adesso»,

disse

il

Logan neanche guardò Roth mentre Jenine sussultava contro il suo petto. Continuava a sussurrarle rassicurazioni. La ragazza risucchiò tre faticose boccate d'aria e poi esalò il suo ultimo respiro tra le braccia di Logan, con gli occhi chiusi e tremolanti. Neph sciolse lentamente i legami che la tenevano avvinta e Jenine si accasciò a terra. «No! No!», strillò Roth. Jenine non aveva neanche avuto paura. Roth aveva fatto tutto per bene e lei non aveva neanche avuto paura di morire. Chi non aveva paura di morire? Non andava bene. Non era giusto. Schiaffeggiò Logan. Più e più volte. «Non morirai così facilmente, Logan Gyre», ringhiò Roth. Si rivolse verso i suoi uomini. I muscoli della mascella gli fremevano. «Portatelo alla Fauce e datelo ai sodomiti». «Mio signore», disse il messaggero, correndo nuovamente nella stanza. «Dovete...». Roth lo prese per i capelli. Colpì selvaggiamente la faccia dell'uomo in un impeto di furia, ancora e ancora. Lo gettò da un lato e cercò di tagliargli la gola, ma lo prese sopra a un orecchio. Il coltello si spostò e una grossa striscia di cuoio capelluto rimase tra le mani di Roth. L'uomo gemette di dolore fino a che Roth non lo afferrò e gli tagliò la gola. Nel frattempo, Neph aveva aperto la porta nascosta che portava fuori dalla camera. Sollevò con la magia il corpo della principessa e lo fece fluttuare davanti a sé.


«Neph, cosa stai facendo?» «Il Re Divino desidera che le teste di tutta la famiglia reale siano esposte. Qualunque cosa abbiate in mente, vi consiglierei di fare in fretta». Non si rivolse a Roth con il suo titolo. Stava andando tutto male e ben presto suo padre sarebbe arrivato. Roth si girò, con il respiro affannoso e la striscia sanguinante di carne e capelli in mano. Tremava di rabbia, e gli uomini che trattenevano Logan divennero pallidi come il gesso. «Portatemi la sua testa quando avranno finito. Ma prima che lo diate ai sodomiti, tagliategli il cazzo e portatemi i testicoli. Voglio che sanguini a morte mentre se lo fanno».


Capitolo 56 La piccola stanza alla base della torre nord puzzava terribilmente di sangue e feci rilasciate al momento della morte, e il tanfo acre dell'urina si mescolava al lezzo generale. Kylar ebbe un conato di vomito quando aprì la porta sbarrata. Un rapido sguardo gli raccontò tutto. Gli uomini erano stati intrappolati nella stanza, dove un balestriere aveva teso loro un'imboscata. Kylar aggrottò le sopracciglia. Un balestriere? In una stanza così piccola? Poi, notò la stretta piattaforma che sporgeva dal soffitto, visibile nell'ombra che ora accoglieva gli occhi di Kylar. Dal modo in cui i corpi erano sparsi, doveva essere stato un solo uomo, che aveva colpito le guardie reali e i nobili come pesci in un barile. Dunque, questo era successo agli uomini accorsi per salvare il loro principe. Dalle strie di sangue che uscivano dalla porta, sembrava che uno solo fosse sopravvissuto e si fosse trascinato via. Nauseato, Kylar corse su per le scale. Trovò sei Khalidorani morti all'ingresso. Il resto del piano era abbastanza sgombro. Sorpreso a letto con sua moglie - i vestiti del giovane erano sparpagliati in tutta la stanza -, Logan doveva essere balzato su, pronto a combattere. Aveva ucciso sei Khalidorani armati di tutto punto ma, dai segni di bruciatura sul pavimento, doveva essere stato ferito o reso inoffensivo dalla magia. Poi, dalla grossa pozza di sangue, fu chiaro che Roth aveva ucciso Logan senza fretta, facendolo sanguinare copiosamente, oppure aveva ucciso sia Logan che sua moglie. Nessuno dei due corpi era nella stanza. I Khalidorani probabilmente avevano portato via il corpo di Logan insieme a quelli del resto della famiglia reale, così l'intero regno avrebbe visto che erano morti, che l'intera linea di successione era stata cancellata. Sul pavimento c'era una camicia da notte strappata. La principessa, giovane e bella com'era, probabilmente si trovava in qualche stanza, stuprata a morte. Kylar cercò di interpretare la situazione in un altro modo. La sua mente analizzò la scena, cercando di tenere a bada lo shock della disperazione. Era possibile che la principessa fosse stata uccisa e


Logan fosse ancora vivo? Ma i soldati non avrebbero lasciato in vita Logan e ucciso una principessa che potevano violentare. Logan era un guerriero, un rinomato spadaccino, oltre che l'erede al trono. L'uccisione del resto della famiglia reale era stata brutale ma accurata. Se i Khalidorani avessero deciso di fare un'eccezione risparmiando una vita per chissà quanto tempo, non sarebbe stata certo quella di Logan. Il dolore colpì Kylar in modo tangibile. Logan era morto. Il suo miglior amico era morto. Morto, e la colpa non poteva che essere di Kylar. Avrebbe potuto impedirlo. Kylar avrebbe potuto uccidere Durzo quella notte. La schiena di Durzo era stata a portata di mano, un bersaglio che non poteva mancare. Dorian glielo aveva detto. Glielo aveva detto! Quale dolore aveva risparmiato a Logan? Aveva permesso l'omicidio del suo amico Aleine, nascosto la verità sulla storia tra Serah e Aleine, lo aveva fatto imprigionare per omicidio e costretto a rompere il suo fidanzamento. Ora Logan era stato obbligato a sposare una ragazza che non conosceva ed era stato assassinato, mentre quella che era stata sua moglie per non più di un'ora era stata violentata e uccisa. Accasciatosi sul pavimento, Kylar pianse. «Logan, mi dispiace. Mi dispiace. È tutta colpa mia». Allungò una mano per sorreggersi e trovò una pozza di sangue. Si guardò la mano sporca. Insanguinata come lo era stata proprio in quella camera, cinque anni prima, al termine del suo primo omicidio commesso da solo. Insanguinata come lo era continuamente stata da quando aveva ucciso il suo primo innocente. Ecco dove l'aveva portato l'omicidio. Il cerchio si era chiuso: l'assassinio di un innocente lo aveva portato inesorabilmente all'assassinio di altri innocenti. Negli ultimi cinque anni, aveva fatto esattamente ciò che desiderava: era diventato sempre più come Durzo Blint. Era diventato un killer. Dormiva male, perciò aveva il sonno leggero, e questo lo rendeva ancora più pericoloso. Aveva sempre i nervi tesi e il sangue, che per la prima volta gli aveva coperto le mani in quella stanza, non era mai stato del tutto lavato. Anzi, dell'altro se ne era aggiunto. Non era perciò un errore il fatto che il sangue di Logan fosse sulle sue mani, non era una coincidenza. Ai Drake piaceva parlare di un'economia divina: Dio che


trasformava le lacrime in risate, il dolore in gioia. Un sicario era il grande mercante dell'economia satanica. Un omicidio ne produceva un altro e, come aveva detto Durzo, erano sempre gli altri a pagarne il prezzo. Sono sempre gli altri a dover pagare per i miei fallimenti? Non c'è altro modo? Il sangue sulle sue mani gli disse no, no. Questa è la realtà; è dura, scomoda, odiosa ma è la verità. «Sto infrangendo le mie regole», disse un'ombra. Kylar non alzò lo sguardo. Non gli importava di morire. Ma l'uomo non disse altro. Dopo un lungo momento, Kylar disse amaramente: «Non siate corretto. Un assassinio è un assassinio». Durzo uscì dalle tenebre. «Kylar, ho un'ultima regola da insegnarti». «E di cosa si tratta, maestro?» «Sei quasi un sicario adesso. E ora che hai imparato a vincere quasi ogni battaglia, c'è un'altra regola: non combattere mai quando non puoi vincere». «Bene», disse Kylar. «Avete vinto». Durzo rimase fermo per un lungo momento. «Vieni, apprendista. Ecco la tua Prova del Fuoco». «È tutta qui la vostra vita?», chiese Kylar, alzando finalmente gli occhi. «Prove e sfide?» «La mia vita? Questo è ciò che sono tutte le vite». «Non è una bella cosa», disse Kylar. «Questa gente non dovrebbe morire. Khalidor non dovrebbe vincere. Non è giusto». «Non ho mai detto che lo fosse. Il mio mondo non è fatto di bianco e nero, giusto e sbagliato, Kylar. Non dovrebbe esserlo neanche il tuo. Il nostro mondo vive tra ciò che è meglio e peggio, ombre più leggere e ombre più fitte. Cenaria non può vincere contro Khalidor, indipendentemente da quello che succederà questa notte. In questo modo, moriranno solo pochi nobili invece che decine di migliaia di persone del popolo. È meglio così». «Meglio? Il mio miglior amico è morto e probabilmente stanno stuprando sua moglie! Come potete rimanere fermo senza fare nulla? Come potete stare dalla loro parte?» «Perché la vita è vuota», disse Durzo.


«Stronzate! Se ci aveste creduto, sareste morto un sacco di tempo fa!». «Io sono morto un sacco di tempo fa. Tutte le cose buone passano, come anche tutti i mali, e noi non possiamo fare un accidente per cambiare qualcosa o qualcuno, Kylar. Meno che mai noi stessi. Questa guerra arriverà e se ne andrà, ci sarà un vincitore e la gente morirà per niente. Ma noi saremo vivi. Come sempre. Per lo meno, io vivrò». «Non è giusto!». «Cosa vuoi? Giustizia? La giustizia è una favola. Un mito dalla soffice pelliccia e dalla forza rassicurante». «Un mito in cui credevate, tanto tempo fa», disse Kylar, indicando la parola «GIUSTIZIA», incisa sulla lama di Retribution. «Credevo in un sacco di cose. Questo non le rende vere», ribatté Durzo. «Chi sta meglio? Logan o noi? Logan poteva dormire la notte. Io mi odio. Sogno gli omicidi e mi sveglio tutto sudato. Voi vi ubriacate e gettate i vostri soldi con le puttane». «Logan è morto», disse Durzo. «Forse porterà la corona nella prossima vita, ma questo non gli serve a molto adesso, giusto?». Kylar guardò Durzo in modo strano. «E voi siete quello che dice che la vita è vuota, senza significato. Che quando ci prendiamo una vita, non prendiamo niente che abbia un valore. Ora guardate quanto tenete alla vostra. Che fottuto ipocrita». «Ogni uomo che conti qualcosa è un ipocrita». Durzo infilò la mano in una tasca e ne tirò fuori un foglietto. «Se mi uccidi, questo è per te. Spiega le cose. Consideralo la tua eredità. Se io uccido te... be', quando morirò, osserverò un minuto di silenzio lungo il mio viaggio verso l'inferno». Durzo si infilò nuovamente il foglietto in tasca, ed estrasse una grossa spada con un lungo nastro rosso attaccato all'elsa. Era un'arma più lunga e pesante di Retribution ma, con il suo Talento, Durzo era in grado di impugnarla con una mano sola. «Non fatelo», disse Kylar. «Non voglio battermi con voi». Il sicario gli si avvicinò. Kylar rimase fermo, senza fare alcun tentativo per difendersi. «Gli avete già dato il Globo delle Lame?», chiese Kylar.


Il sicario si fermò. Infilò la mano in un sacchetto e ne tirò fuori il globo argenteo. «Questo?», disse. «Questo non è niente. Un altro falso». Lo scagliò contro la finestra. Il vetro si infranse quando colpì la finestra e andò a perdersi nell'oscurità. «Cosa avete fatto?», chiese Kylar. «Per gli Angeli della Notte!», esclamò Durzo. «Hai vincolato il mio ka'kari. Me lo hai rubato. Ancora non capisci?». Era come se stesse parlando un'altra lingua. Vincolato? Kylar pensava di aver vincolato il ka'kari... doveva essere andata così, poiché ora il suo Talento funzionava. E Durzo diceva che si trattava di vetro? «Incredibile», disse Durzo, scuotendo la testa. «Sguaina la spada e combatti, ragazzo». «È la mia spada adesso, vero?», chiese Kylar. «Non per molto. Non sei degno di succedermi». Durzo levò la sua lama. «Non voglio battermi con voi», ripeté Kylar, rifiutandosi di tirare fuori la spada. «Non lo farò». Durzo sferrò il suo assalto. All'ultimo secondo, Kylar sguainò Retribution e parò. Colpo rafforzato da Talento su colpo rafforzato da Talento. Le lame vibrarono per l'impatto. «Sapevo che l'avresti fatto», disse Durzo, con un sorriso truce. Qualunque delusione potesse aver provato Kylar, per il fatto che a Durzo non importasse di battersi con uno che non aveva ancora avuto tempo di imparare a usare il proprio Talento, si dissolse all'istante. Durzo si lanciò in un attacco furioso, talmente veloce da sembrare irreale. Kylar barcollò all'indietro, parando alcuni colpi e saltando per evitarne altri. Durzo usò tutte le armi del suo arsenale. La sua spada sembrava quasi invisibile per la velocità dei fendenti, e il nastro dell'elsa sferzava l'aria simile a uno scintillante fiotto rosso. Lo scopo del nastro era quello di distogliere gli occhi dell'avversario dal vero pericolo. Chi avesse lasciato vagare la propria attenzione, si sarebbe ritrovato un promemoria d'acciaio tra le costole. Ma non era solo la spada a confondere Kylar. Durzo fece seguire a un affondo diretto alla testa del ragazzo, un calcio al ginocchio e un forte manrovescio con la mano libera. Gli assalti si susseguirono,


e i due si scagliarono l'uno contro l'altro in un fiume rabbioso di mosse mortali. Parando e schivando colpi, Kylar arretrava sempre più. Durzo non gli dava il tempo di pensare, ma Kylar conosceva la stanza. Si estendeva sull'intero piano superiore della torre, pertanto aveva la forma di un grosso cerchio, appiattito da un lato per l'ingresso e dall'altro per un ripostiglio. La familiarità stessa di combattere contro Durzo, poco alla volta, lo calmò. Certo, aveva sempre perso, ma stavolta le cose sarebbero andate diversamente. Dovevano andare diversamente. L'ondata di potere gli scorse nelle braccia con un fremito così violento da fargli credere che ogni pelo del suo corpo si fosse rizzato. Parò un affondo e la lama di Durzo venne spinta da un lato, come se pesasse solo un quarto del proprio peso. Blint si riprese in un batter d'occhio ma smise di avanzare. Kylar era a circa un metro dalla parete, accanto a una cassettiera di ciliegio. La spada di Blint guizzò verso i suoi occhi, ma si trattava di una finta. Il vero attacco di Blint fu un calcio al ginocchio. Kylar cadde all'indietro verso la parete e sferzò l'aria con un piede, fermando il sopraggiungere di quello di Blint. Aspettandosi che la sua spada incontrasse resistenza, Blint menò un fendente con troppa forza. La pesante lama si conficcò profondamente nella cassettiera. La parete di pietra accolse la schiena di Kylar, quando questi incespicò e si rimise nuovamente in piedi. Ma, invece di tirare la spada fuori dal legno, Durzo si portò le mani dietro la schiena ed estrasse due spade gemelle testa di tigre. Ognuna aveva una lama a forma di mezzaluna, ma per il resto si trattava di normali spade con una punta ricurva per incastrare quella dell'avversario. «Quelle le odio», disse Kylar. «Lo so». Kylar attaccò, cercando ancora di modulare gli effetti del Talento sulla propria lotta. Per quello che gli sembrava, i suoi muscoli si muovevano più rapidamente e più efficacemente, ma c'era un limite perfino alla velocità di due lottatori dotati di Talento. Il Talento non aiutava a prendere le decisioni più in fretta, perciò non si trattava semplicemente di accelerare un normale combattimento. Kylar doveva fare più attenzione - e ancora non sapeva se il Talento avrebbe difeso il suo corpo. Se Blint fosse riuscito a eludere le


difese di Kylar con un calcio supportato dal suo Talento, gli avrebbe fracassato le costole come arboscelli o anche le sue ossa avevano una resistenza supplementare? L'unico modo per scoprirlo era non scoprirlo affatto. Blint lasciò avanzare Kylar, usando le spade gemelle in posizione di difesa. Poi, in prossimità del letto, cominciò a usare i ganci. Quando Kylar colpì, Durzo girò il gancio e spinse Retribution da un lato. Con l'altra spada, menò un fendente dall'alto verso il basso. Saltando all'indietro, Kylar si accorse di essere stato spinto verso una delle grandi finestre della torre. Durzo si fece avanti e bloccò un fendente basso ma, invece di mandarlo da un lato, prese la lama con l'altro gancio, bloccando l'arma di Kylar. Kylar fece un affondo e Blint guidò la lama oltre la propria testa, liberandola con uno strattone. Retribution cadde rumorosamente a terra alle spalle del giovane. Blint gli sferrò un calcio al torace, per nulla rallentato dalle braccia che Kylar aveva alzato per estrarre i pugnali. Il ragazzo andò a sbattere contro la finestra e sentì il vetro infrangersi, il legno scricchiolare e il saliscendi spezzarsi. Provò la nauseante sensazione di essere scagliato nel vuoto. Cercando di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa, Kylar si girò, contorcendosi con la disperata grazia di un gatto che sta cadendo. Abbandonati alla gravità, i suoi pugnali volarono via, scintillando alla luce della luna. Kylar infilò le dita nella vetrata. La sua mano si strinse sul legno e sui frammenti di vetro, mentre il suo slancio faceva sì che la finestra si spalancasse. Sbatté violentemente il viso contro la facciata della torre. Il vetro gli attraversò le dita fino all'osso mentre la mano perdeva la presa. Strizzando gli occhi, si ritrovò appeso con una sola mano. Il sangue gli scorreva lungo il braccio, sul viso. Era sospeso a una sessantina di metri sul basalto delle fondamenta del castello e sul tratto più largo del fiume. Del vapore si levava dall'unica bocca vulcanica che si apriva sull'isola di Vos, e oscurava una chiatta accostata alla riva. Il vapore riluceva con la luna e, più in basso, Kylar vide degli uomini che parlavano. Perfino da quell'altezza, riuscì a sentire il clangore del metallo e a scorgere gli invasori


khalidorani che sopraffacevano i Cenariani nel cortile del castello. Poi, il sergente Gamble emerse dal cancello principale. Era alla testa dei nobili e di più di duecento soldati cenariani. Stavano cercando di fuggire dal castello, come Kylar aveva detto loro; ma, proprio mentre si dirigevano verso l'uscita orientale, ai Khalidorani si aggiunsero più di un centinaio di Highlander che venivano dalla parte opposta del castello. In pochi secondi, il cortile diventò la prima linea della battaglia e della guerra per Cenaria. Il castello e la città erano perduti. Se i nobili fossero stati massacrati, sarebbe stata la fine per Cenaria. Se i nobili fossero riusciti ad aprirsi un varco tra gli Highlander e ad attraversare East Kingsbridge, avrebbero potuto dare inizio a una resistenza. Era il più fioco genere di speranza ma, a Cenaria, la speranza non aveva mai avuto un colore brillante. Ci fu un piccolo schiocco e Kylar si abbassò di una decina di centimetri. Si arrampicò sul telaio della finestra ma l'ultimo cardine protestò e schizzò fuori. Kylar si lanciò verso la persiana bloccata sulla facciata della torre. Le sue dita artigliarono le assicelle. Presa. Tre assicelle si ruppero ma, alla fine, arrestarono la sua caduta. La finestra cadde fluttuando sotto di lui, rigirandosi nel vento forte. Colpì le rocce a pochi passi dal fiume... esattamente dove Kylar sarebbe andato a finire se fosse caduto. La finestra esplose in mille schegge di legno e vetro. Kylar alzò lo sguardo. I cardini della persiana, sotto tensione, stavano lentamente uscendo dalla roccia. Perfetto. Durzo Blint era fermo sulla scena di un massacro, ma non vedeva nulla. La camera da letto era ingombra di cadaveri. Accanto al letto reale, un fascio di gigli freschi... gigli bianchi picchiettati di rosso. Di sangue. Una delicata veste da notte, una volta bianca, giaceva zuppa di sangue ai suoi piedi. Il mosaico del pavimento recava una bruciatura circolare. L'acre lezzo del fuoco stregato soffocava il lieve accenno di profumo che c'era nell'aria.


Ma Durzo guardava solo la finestra aperta davanti a sé. La sua faccia butterata sembrava affranta. Il vento entrava ululando dalla finestra, facendo svolazzare le tende e mandandogli negli occhi i capelli grigi. Tra le dita rigirava una lama che teneva nella mano destra. Dito dopo dito dopo dito, stop. Dito dopo dito dopo dito e di nuovo. Si accorse di quello che stava facendo e infilò di scatto il pugnale nel suo fodero. Si ricompose e si tirò sulle spalle il mantello screziato grigio e nero, celando una cintura piena di dardi, pugnali, oltre che di numerosi strumenti e sacchetti. Non sarebbe dovuta finire così. Non avrebbe dovuto essere così squallido. Voltò la schiena alla finestra, ma poi si fermò. Piegò la testa in direzione di quel qualcosa che aveva sentito nel vento che urlava. Kylar si impose di lasciare la persiana con la mano destra insanguinata. La mano trovò foderi vuoti per pugnali, che facevano il paio con quello vuoto sulla schiena. Grugnendo, si contorse fino a estrarre un tanto dal polpaccio. Aveva le dita insensibili, lacerate, deboli. Si lasciò quasi sfuggire l'arma. Le corde che legavano la persiana al muro si erano spezzate con facilità. I cardini arrugginiti scricchiolavano rumorosamente. Kylar si irrigidì, ma non poteva fare niente per il rumore. Fece due respiri veloci, poi, con entrambi i piedi, si spinse via dal muro. Si slanciò verso la finestra aperta, sollevando il proprio corpo con la forza del Talento. Sembrava stesse dondolando su un'altalena gigantesca. La persiana si strappò dal muro, rimanendogli in mano, e Kylar per poco non andò a sbattere contro la facciata della torre. Entrò, invece, in scivolata sul pavimento della camera da letto. Il suo corpo fece mancare la terra sotto i piedi di Durzo, che cadde addosso al ragazzo, mentre una delle sue spade volò giù dalla finestra. La persiana era in mezzo a loro e bloccava le mani di Durzo. Kylar gliela sbatté sul volto. «Io non...». Kylar sbatté nuovamente la persiana contro la faccia di Durzo con tutta la sua forza e il suo Talento, riuscendo a scrollarselo di dosso. Il giovane rotolò di lato e balzò in piedi. Ma anche Blint si era già rialzato. Calciò un poggiapiedi addosso


a Kylar che, bloccatolo con un piede, perse l'equilibrio e cadde. Si ritrovò faccia a faccia con un tappeto decorativo. Correndo in avanti come un fulmine, Blint alzò la spada ricurva. Invece di tirarasi su o rotolarsi via, Kylar afferrò il tappeto e tirò. Durzo vacillò più velocemente di quanto si aspettasse e tagliò l'aria, mentre le sue ginocchia si scontravano con le spalle di Kylar, mandandolo a finire a testa in giù. La pesante spada di Durzo era ancora conficcata nella cassettiera accanto alla finestra, ma Retribution era più vicina. Kylar la afferrò e si girò. «...voglio...». Il sicario si allungò per raccogliere da terra la spada a testa di tigre. «...battermi con voi!». Kylar saltò su quell'arma. Durzo tirò con tutta la forza del proprio Talento. Per un istante, sembrò che il nucleo di ferro della spada potesse resistere. Poi, la spada si spezzò a un paio di centimetri dall'elsa. «Forse tu non vorrai, figliolo, ma c'è qualcosa in te che si rifiuta di morire», disse Durzo. Gettò da un lato la lama spezzata ma non tirò fuori nessun'altra arma. «Maestro, non costringetemi a battermi con voi», disse Kylar, puntando la lama alla gola di Durzo. «Hai fatto la tua scelta quando mi hai disobbedito». «Perché l'avete fatto?» «Non ti volevo come apprendista, ma pensavo che tu fossi qualcosa che non sei. Possano gli Angeli della Notte perdonarmi». «Non parlo di me!». Le mani di Kylar tremavano sulla spada. «Perché mi avete fatto tradire il mio migliore amico?» «Perché hai infranto le regole. Perché la vita è vuota. Perché ho infranto le regole anch'io». Durzo alzò le spalle. «È una catena». «Non mi basta!». Durzo tese le mani e strinse le labbra. «Logan è morto urlando, sai. Patetico». Kylar attaccò. La spada si stava abbattendo sul collo di Durzo. Ma Durzo non mosse un muscolo. La lama gli schiaffeggiò il palmo


della mano e si fermò come se non avesse neanche il filo. Le mani di Durzo però erano ancora tese davanti a lui. La mano che tratteneva la spada di Kylar era fatta di pura magia, e fece volare via Retribution dalla presa del giovane. Nell'aria sorsero altre mani, tutte volte a colpirlo. Kylar parava gli attacchi, indietreggiando con passo malfermo, mentre Durzo avanzava con calma, pervaso dal suo Talento. Non c'era niente che Kylar potesse fare. Parava colpi sempre più velocemente, ma le mani erano ancora più veloci. Poco alla volta, alcune mani del proprio Talento apparvero davanti a lui e bloccarono gli attacchi, ma non bastava. Durzo lo fece arretrare sempre più. Alla fine, le mani serrarono le membra di Kylar, bloccandolo contro la parete. Non riusciva a muoversi di un centimetro. «Ah, ragazzo», fece Durzo. «Se avessi potuto insegnarti a usare il tuo Talento, saresti diventato davvero speciale». Durzo tirò fuori un pugnale da lancio. Lo fece girare tra le dita e poi lo sollevò. Si fermò, come se fosse sul punto di dire qualcosa, ma scosse la testa. «Mi dispiace, Kylar». «Non fatelo. La vita è vuota, giusto?». Durzo sospirò. Guardava Retribution, che mandava bagliori nerastri ai piedi di Kylar, vicina come la luce lunare e lontana come la luna stessa. L'espressione sul suo volto sfregiato era di angoscia, di rimorso. Seguendo il suo sguardo, Kylar fissò la spada nera che Durzo aveva portato per così tanti anni, e ricordò... Accigliato, Durzo gli aveva strappato il sacchetto e lo aveva capovolto. Il Globo delle Lame gli era caduto in mano. «Dannazione. Proprio quello che pensavo», aveva detto, con la voce roca nel silenzio del corridoio dei Jadwin. «Cosa?», aveva chiesto Kylar. Era un falso, un altro ka'kari falso. Ma Durzo non era nello stato d'animo adatto per rispondere a delle domande. «La ragazza ti ha visto in faccia?». Il silenzio di Kylar era stato eloquente.


«Occupatene. Kylar, non è una richiesta. È un ordine. Uccidila». «No», aveva detto Kylar. «Cosa hai detto?», aveva chiesto Durzo, incredulo. Sangue nerastro gocciolava da Retribution, raccogliendosi in una pozza sul pavimento. «Non la ucciderò. E non lo lascerò fare a voi». «Chi è questa ragazza che merita di essere inseguita per il resto della tua breve...». Si era fermato. «È Bambola». «Sì, maestro. Mi dispiace». «Per gli Angeli della Notte! Non voglio scuse! Voglio obbedien...». Durzo aveva alzato un dito per intimare il silenzio. Il rumore dei passi era vicino. Il sicario aveva spalancato la porta irrompendo nel corridoio con una velocità sovrumana, mentre Retribution mandava bagliori argentei nella luce fioca. La sua spada mandava bagliori argentei? La lama di Retribution era nera. Si era sentito qualcosa di metallico rotolare sul marmo. Andava verso Kylar. Il ragazzo aveva allungato una mano e aveva sentito il ka'kari sbattere contro il suo palmo aperto. «No! No, è mio!», aveva strillato Blint. Il ka'kari si era sciolto in una pozza d'olio nero in un istante. Cosa aveva appena detto Durzo? La sfera d'argento era un altro falso. Hai rubato il mio ka'kari. Non un ka'kari d'argento. Un ka'kari nero. Il ka'kari che Durzo aveva portato per anni, celato nel rivestimento della lama di Retribution. I ka'kari sceglievano i propri padroni. Per qualche ragione, il ka'kari nero aveva scelto Kylar. Forse lo aveva scelto anni prima, il giorno che Durzo lo aveva picchiato per aver rivisto Bambola. Quel giorno, quando un chiarore azzurrino aveva avvolto la lama nera. Quando Durzo aveva urlato «No, non quello! È mio!», mentre un incandescente fuoco azzurro era penetrato nelle dita di Kylar. Durzo lo aveva strappato via da lui, così che il vincolo non potesse completarsi. Perché, una volta che il suo apprendista avesse completato il vincolo, non avrebbe potuto evocare il ka'kari d'argento per Durzo. Ora sapevano che non l'aveva evocato perché era un falso. Non c'era mai stato alcun ka'kari in città, a parte quello nero di Durzo.


E Durzo aveva saputo sin da quel giorno che se avesse lasciato vivere Kylar, il ka'kari nero gli sarebbe stato per sempre inaccessibile. Durzo glielo aveva perfino lasciato quella sera, così che Kylar potesse avere una chance. Ma ora era troppo tardi. Durzo sembrava avere ancora qualcosa da dire a Kylar, in qualche modo voleva esprimere la propria angoscia. Ma non era mai stato un uomo di molte parole. Invece, a pochi passi di distanza, lanciò il coltello contro il volto di Kylar. Il tempo non rallentò. Il mondo non si contrasse sulla punta del coltello che roteava. Ma la disperazione svaporò nel tumulto di una folle speranza nel cuore di Kylar. Non si rese neanche conto di aver sollevato la mano, non sapeva come avesse fatto a liberarsi, non sapeva come il ka'kari fosse passato dalla spada a terra nella sua mano. Era lì e basta. In quella fulminea frazione di secondo, la sostanza nera e appiccicosa saltò via dalle sue dita e si spiaccicò sul coltello diretto al suo petto come uno sputo sul pavimento. Quando Kylar guardò di nuovo, il coltello non c'era più. Ting. Kylar abbassò lo sguardo per vedere cosa avesse prodotto quel suono. Il ka'kari rotolava sul pavimento verso di lui. Tremolava nel rotolare e, quando risalì il suo stivale per dissolversi poi nella sua pelle, il giovane avvertì un'ondata di potere. Con uno sforzo mentale, Kylar squarciò le mani fantasma che lo trattenevano contro il muro. Ritrovato l'equilibrio, stese una mano verso il suo maestro di un tempo e rilasciò il potere che lo pervadeva. Durzo fu scagliato via come se tutta la potenza di un uragano gli si fosse scaricata addosso. Cadde, scivolando e rotolando per tutta la stanza, fino a che la parete non arrestò il ruzzolone. Con il Talento, Kylar recuperò Retribution e la impugnò. «Non combattere quando non puoi vincere», disse Kylar. «E non combattere quando non vuoi vincere. Giusto?».


A fatica, Durzo riuscì a rimettersi in piedi, disarmato. Assunse la posizione di guardia e sogghignò. «A volte bisogna combattere». «Non questa volta», disse Kylar. Sollevò la spada e gli corse incontro. Durzo non si mosse; si limitò a guardare Kylar negli occhi, pronto. All'ultimo secondo, il ragazzo lo schivò e si tuffò, attraverso la finestra, nel vento notturno che sferzava la torre nord. Uno degli uomini sulla nave era Roth.


Capitolo 57 Logan non aveva alcuna intenzione di permettere a chicchessia di usare i suoi testicoli come un trofeo, meno che mai a Roth Ursuul. Anzi, intendeva uccidere quel bastardo. Non era preoccupato per il fatto di essere disarmato e ancora nudo -Roth aveva creduto di spogliarlo della sua dignità -, la rabbia gli dava potere. Tutta la crudeltà, la depravazione e l'orrore che Logan aveva visto in quell'ultimo giorno lo avevano trasformato. Sarebbe tornato a essere un uomo, domani. Ora era rabbia dura e cristallizzata. Logan pensava di poter uccidere le guardie perfino con le mani legate. Con la furia che lo pervadeva, non credeva ci fosse qualcosa in grado di fermarlo. Tranne la magia. Anche Roth lo aveva capito e aveva mandato il suo stregone, Neph Dada, a scortarlo in prigione. Neph aveva evidentemente memorizzato la pianta del castello, poiché si districava tra passaggi della servitù, scale nascoste e sotterranei senza alcuna difficoltà. La città di Cenaria aveva un'unica prigione, connessa al castello da una sola galleria - ora in mano agli Highlander khalidorani -, e separata dal resto della città dalle due diramazioni del fiume Plith. I prigionieri venivano portati in carcere per mezzo di una chiatta. Pochi lasciavano quel posto. Essere portati lì equivaleva a venir divorati dalla terra stessa. Oppure, quel frammento di Logan che non era rabbia, quando un odore caratteristico colpì il suo olfatto, pensò che forse veniva chiamata la Fauce per un motivo diverso. Dal lato settentrionale dell'isola di Vos esalavano continui vapori che impregnavano di zolfo la prigione, prima di liberarsi nell'aria aperta. Neph Dada si fermò davanti a un cancello di ferro, mentre uno degli uomini a guardia di Logan armeggiava in cerca della chiave. Neph guardò l'uomo e agitò una mano davanti al lucchetto. I tentacoli neri tatuati sul suo braccio si mossero indipendentemente. Il lucchetto produsse un click. La guardia trovò la chiave giusta e sorrise debolmente. «Ho altre faccende a cui pensare», disse Neph. «Ce la fate a sbrigarvela da soli?»


«Sì, signore», disse la guardia, guardando nervosamente Logan. Il cuore di Logan sorrise. Battersi nudo contro due uomini non era proprio il massimo, ma con i legacci magici che gli immobilizzavano le braccia e gli permettevano solo di trascinare le gambe, non c'era niente che potesse fare. «Bene. I legacci terranno per dieci minuti», disse Neph. «Un sacco di tempo, signore», lo rassicurò la guardia. Sbuffando, Neph li lasciò. La guardia con il nasone richiuse il cancello di ferro, dando a Logan il tempo di mettere a fuoco la stanza fiocamente illuminata. A destra e a sinistra vi erano pesanti porte con delle finestrelle munite di sbarre di ferro. «Nel caso te lo stia domandando», disse Naso, «queste sono le camere più belle. Posticini davvero deliziosi. Per nobili. Ma non per te». Ridacchiò. Logan guardò l'uomo in maniera distaccata. «Quella rampa lassù porta in superficie. Neanche questa è per te». La guardia dalla faccia di faina guardò Naso. «Stuzzichi sempre i morti?» «Sempre», rispose l'altro, infilandosi un dito nel naso. «Che c'è?», gli chiese, vedendo che Faina lo guardava. «Mi stavo grattando». «Chiudi il becco», disse Faina. «Dobbiamo scendere al terzo?» «Sì, fino agli Howlers. Facciamo alla svelta». Naso bussò alla quarta porta mentre ci passavano davanti. «Tornerò subito per te, dolcezza». Si sentì un piccolo grido dalla cella, ma la donna che vi era rinchiusa non si mostrò. «Quella puttana mi infiamma», disse Naso. «L'hai vista?». Faina scosse la testa, così Naso continuò. «Ha più cicatrici sulla faccia che un Highlander pulci addosso, ma che bisogno c'è di guardarla in faccia, eh?» «Il principe ti squarterà se la tocchi», disse Faina. «Ah, e come farà a saperlo?» «Scenderà questa sera. Vuole liberare i nostri del Sa'kagé e


controllare quella servetta e altri ragazzini che hanno portato dentro», disse Faina. «Stasera? Diavolo, non ci metterò neanche cinque minuti», disse Naso e scoppiò a ridere. Si incamminarono per due livelli di gallerie, accompagnati dal puzzo dell'umanità lì ammassata, che si intensificava mescolandosi a quello dello zolfo, dei liquami e altri odori che Logan non riusciva a identificare. Di tanto in tanto controllava i legacci, ma non c'era alcun cambiamento. Si muoveva a malapena. Tuttavia, si teneva pronto per l'occasione buona. Una semplice fuga non andava bene. Doveva uccidere entrambe le guardie, prendere le chiavi e ricordarsi la via d'uscita. Gli Howlers, gli Urlatori, erano al terzo piano ma entrando nelle caverne naturali, rese più ampie dalla mano dell'uomo, Logan non sentì nessuno urlare. «Non vogliamo andare oltre», disse Naso, fermandosi davanti a una grossa porta di ferro rinforzato. «Quei bastardi là dentro faranno tutto ciò che serve. Non cercherò neanche di tirarlo fuori dal Buco. Non mi avvicino a quegli animali». «Il Buco?», chiese Logan. Naso lo guardò con la coda dell'occhio, ma sembrava ansioso di terrorizzarlo. «Il Buco del Culo dell'inferno. Stupratori, assassini e pervertiti per i quali la forca sarebbe un favore. Li gettano là dentro e lasciano che si divorino l'un l'altro. Devono prendersi l'acqua dalle rocce e le guardie non buttano mai abbastanza pane. A volte, ci pisciano sopra prima». «Allora, chi dovrà... mi capisci?», domandò Faina, estraendo goffamente il coltello. «Quei legacci non resisteranno in eterno». «Chi dovrà fare cosa?», chiese Naso. «Hai capito. Tagliarle». Logan tirò i legacci, ma erano ancora troppo forti. Aveva le braccia immobilizzate lungo i fianchi, la schiena innaturalmente dritta, e i suoi piedi potevano muoversi solo pochi centimetri per volta - e le guardie lo sapevano. Oh, per gli dei. Non aveva più tempo. «Lo faccio io», disse Naso, con un ghigno. Afferrò un palo con in cima un cappio, che fece passare attorno al collo di Logan; poi, porse il palo a Faina. «Tu lo tieni. Non possiamo rischiare. Dammi quel coso».


Faina porse il coltello a Naso. Era un normale coltello, ma gli occhi di Logan si concentrarono su di esso. La paura cominciò a mescolarsi alla rabbia e Logan sentì quel gelo dissolversi. Sciogliersi. Stanno per farlo. Per gli dei, no. Si dimenò, agitò braccia e gambe come un animale in trappola. Ma per quanto si scuotesse, contorcesse o girasse, a malapena riuscì a muoversi di un centimetro. Naso rise e Faina strinse la corda che aveva intorno al collo fino a farlo diventare paonazzo. Non gli importava. Fa' che mi uccidano ora. Oh, per gli dei! Naso disse: «É un peccato che tu non possa più lavorare con me». «Perché?», chiese Faina, tenendo nervosamente il palo con entrambe le mani. Naso conficcò il coltello nell'occhio di Faina. L'uomo si alzò sulla punta dei piedi e, scosso da un violento tremito, cadde. «Perché avrei cercato di farti avere una fetta della torta, anziché farti fuori», disse Naso. Rise tra sé e tagliò via il cappio dal collo di Logan. Logan lo guardò ammutolito mentre la rabbia e la paura lentamente svanivano. Naso non gli prestò la minima attenzione. «Quando riuscirai a muoverti, mettiti questi. Mi dispiace che non ti abbiano mandato qualcuno della tua taglia», disse Naso, togliendo i vestiti dal cadavere di Faina. «Chi diavolo sei?», chiese Logan. «Non ha importanza», rispose Naso, gettando i calzoni di Faina a Logan. «Quello che importa è per chi lavoro». Abbassò la voce così che i prigionieri non potessero sentirlo. «Lavoro per Jarl. Un amico di un tuo amico». «Chi?» «Jarl ha detto di dire che è amico di un amico». Naso tagliò con il coltello la biancheria di Faina. «Ti sto solo dicendo quello che mi è stato detto di...». «Che diavolo stai facendo?», lo interruppe Logan. «Gli taglio i testicoli». «Oh, merda!». Logan chiuse gli occhi e, se i legami magici glielo avessero consentito, si sarebbe voltato. Naso lo ignorò e tagliò. «Dannazione! Be', non è il massimo ma


andrà bene. Buon per noi che i suoi peli siano dello stesso colore dei tuoi, eh?». Si alzò e agitò un pezzo di carne davanti a Logan. «Ascolta, bel ragazzo, non è un'idea mia. Ma se Roth trova questo dopo che io e te saremo stati convenientemente "uccisi durante la rivolta", potremo entrambi rimanere vivi. Capito?» «No». «Tanto peggio. Non abbiamo tempo. Quella stronzata di cui parlavo mentre venivamo quaggiù è vera. Ci sono una donna e una ragazzina nella prima serie di celle. Jarl vuole che le liberiamo. Vuole sapere perché Roth le vuole. Sembra che uno di quei legami si stia allentando. Prendi una gamba». Logan scoprì di poter muovere le braccia, se spingeva abbastanza forte, e i suoi piedi erano quasi liberi. Afferrò uno dei piedi di Faina - evitando di guardargli l'inguine - e cominciò a trascinarlo con Naso. «Allora hai detto tutte quelle cose perché io le sapessi?», domandò Logan. Naso guardò corrucciato le lunghe sbarre di ferro sistemate su un'apertura del pavimento. Il Buco era tanto profondo che, alla fioca luce delle torce, Logan non riusciva a vederne il fondo. Naso prese una chiave e aprì una piccola grata a lato delle sbarre. Grugniti e versi nasali, che Logan a stento avrebbe definito umani, si levarono dal Buco. «E per vedere se lui sapeva qualcosa che io non sapevo», disse Naso. «Aiutami a buttarlo dentro. Non preoccuparti, è profondissimo e le pareti sono a strapiombo». Logan si fece avanti riluttante. Non riusciva ancora a muoversi agevolmente per accovacciarsi e afferrare la grata, perciò Naso la scoperchiò e Logan spinse Faina nel Buco. Urla demoniache di giubilo lacerarono l'aria, e di sotto si scatenò prontamente una lotta. Tremante, Logan si allontanò dal Buco. «Qual è il piano adesso?» «Il piano?». Naso guardò giù, nell'oscurità, e scosse la testa. «Ci togliamo di mezzo. Se stanotte Roth vince, non vedrà l'ora di trovarti. Jarl ha diversi uomini che riferiranno di aver visto il tuo corpo. Qualcun altro vedrà morto anche me e, alla fine, ammetterà di aver saccheggiato il mio corpo. Mostrerà i tuoi "gioiellini" a


Roth». «Piuttosto fiacco», disse Logan. «Vuoi chiudere quella dannata grata?» «Ci sono centinaia di uomini che stanno morendo là sopra. Cercare di scoprire cosa è successo a ognuno di loro sarà impossibile. Roth lo sa. Comunque, è il meglio che possiamo fare per tenerti la testa sulle spalle. Jarl dovrà decidere se la cosa dei "gioiellini" è troppo». Naso guardò nuovamente nel Buco, dal quale giungevano gli inconfondibili rumori di chi sta mangiando. Si rivolse a Logan e sogghignò. «Sorprendente, no?». Logan scosse la testa, nauseato. Guardò nuovamente Naso in tempo per vedere un sottile lazo uscire dal Buco. Ricadde proprio sulle spalle dell'uomo che lo aveva salvato. In un batter d'occhio, Logan vide che la corda era fatta di tendini intrecciati e un pensiero ozioso lo attraversò: quale animale là sotto è abbastanza grande da poter ricavare una corda dai suoi tendini? Gli occhi di Naso si riempirono di terrore, poi il lazo si tese e lo scagliò a terra. Naso cadde proprio sulla grata e allargò braccia e gambe per evitare di cadervi. Ma, alzando le braccia, il cappio gli scivolò dalle spalle e finì per stringersi attorno al suo collo. Dal Buco riecheggiarono risate stridule. Logan si fece avanti con passo malfermo, muovendosi più velocemente di quanto avesse fatto nell'ultima mezz'ora, ma era ancora troppo lento. Gli occhi di Naso schizzarono fuori dalle orbite per la pressione che la corda esercitava sul suo collo. Dovevano esserci almeno cinque uomini a tirare là sotto. Le braccia allentarono la presa mentre guardava Logan con gli occhi grottescamente sporgenti. Poi le braccia si ripiegarono e Naso scivolò nel Buco. Logan cercò di afferrarlo ma cadde, incespicando per via degli ultimi effetti dei legami, e si ritrovò a rotolare verso il Buco. Si aggrappò alle sbarre e guardò di sotto. Poteva distinguere vagamente le sagome degli uomini assembrati, che agitavano le braccia, strillavano e si scagliavano l'uno contro l'altro e su Naso, che si dimenava e urlava. Per un minuto intero, Logan rimase incollato lì, incapace di muovere braccia e gambe per spingersi via. Naso, poco alla volta, smise di strillare e le forme buie si ritirarono per cibarsi.


Poi, uno degli uomini vide Logan e gridò. Logan si gettò da un lato più forte che poté. Sentì l'ormai debole magia tendersi e strapparsi. Ricadde di schiena sulle pietre scabre, poi si mise a sedere e richiuse la grata. La chiave era caduta dalle mani di Naso quando la corda lo aveva strattonato, ma Logan tremava troppo per chiudere la grata a chiave. Barcollando, riuscì a rimettersi in piedi e si allontanò. Si infilò gli abiti di Faina, sistemandoli sul suo corpo, più alto e muscoloso. Fortunatamente i vestiti dell'uomo erano larghi, altrimenti non sarebbe neanche riuscito a infilarli. Dopo aver calzato gli stivali che gli pizzicavano terribilmente i piedi, Logan si alzò. Cercò di trovare la forza per tornare indietro e chiudere a chiave la grata. Anche se non avesse mai più visto una prigione, sapeva che avrebbe continuato ad avere incubi di quel giorno per tutta la vita. L'ultima cosa che voleva era tornare nel lungo corridoio che portava al Buco. Ma non poteva permettere che animali come quelli avessero anche la minima possibilità di fuggire. Avanzò con cautela lungo il corridoio, lentamente, pur sapendo di doversi affrettare. A diversi passi dalla grata, si fermò. Si sentivano ancora i rumori che gli uomini producevano lacerando la carne. Fu assalito da un conato di vomito. Gli giunse d'un tratto alle orecchie il suono di voci che si avvicinavano, amplificate dalle lunghe gallerie di roccia. «Ehi, tu!», domandò una voce dall'accento khalidorano. Uno degli uomini dell'ultimo gruppo di celle prima di arrivare al Buco rispose, ma Logan non riuscì a distinguerne le parole. «Sono passati da questa parte due soldati e un prigioniero?». Logan rimase qualcosa.

immobile

mentre

il

prigioniero

mormorava

«Visto?», disse la voce. «Non sono venuti da questa parte. E, credetemi, non vi piacerebbe scendere fino al Buco». Logan benedì silenziosamente il prigioniero che aveva mentito, probabilmente più per l'abitudine di mentire all'autorità che non per salvare lui. «E tu credi che un prigioniero ti dirà la verità?», chiese un uomo dal colto accento khalidorano. «Il principe ha chiesto conferma che


Logan Gyre sia morto. Tutti i tuoi uomini stanno collaborando a setacciare il resto di questa prigione. Stai cercando di ostacolarci?» «No, signore!». Una luce rossa, fissa e innaturale illuminò il lungo corridoio. Uno stregone! Oh, merda, dove posso andare? Alla fioca luce delle torce, Logan studiò nuovamente il corridoio. Ma non c'erano nicchie né passaggi. Era un vicolo cieco. Sono sfuggito alla morte tante volte per finire così! Logan prese in considerazione una folle corsa contro quegli uomini. Con solo un coltello, sarebbe stata dura ma, se fosse riuscito a uccidere prima lo stregone, avrebbe avuto una possibilità. «Questo è un posto di potere. Mi dà le vertigini», disse una voce diversa. «Infatti», rispose il primo stregone. «Non avevo mai percepito tanto male in un unico spazio prima d'ora... be', almeno dall'ultima volta in cui ho incontrato il nostro signore». Per qualche ragione, trovarono la cosa divertente. Il cuore di Logan sprofondò quando il ragazzo sentì ridere almeno sei uomini. Sei uomini. Forse cinque stregoni. Almeno due. Anche se fossero stati due stregoni e quattro soldati, Logan era spacciato. E la luce rossa diventava sempre più brillante; erano lontani solo pochi passi. Pieno di paura, Logan guardò la grata. Era l'unico modo. Il conte Drake gli aveva detto che la vita era preziosa, che il suicidio era la via d'uscita dei codardi, un peccato contro Dio, commesso sbattendogli in faccia il suo sacro dono. Cos'è che Kylar gli aveva detto una volta? Erano stati abbordati da prostitute del mercato nero, ragazze che operavano al di fuori del controllo e della protezione del Sa'kagé. Le ragazze, nessuna delle quali aveva più di dodici anni, si erano offerte specificamente per pratiche degradanti, delle quali Logan non aveva neanche mai sentito parlare. Kylar aveva detto solo: «Rimarresti sorpreso da quello che saresti disposto a fare per rimanere vivo». Rimarresti sorpreso da quello che saresti disposto a fare per rimanere vivo. Logan aprì la grata e scivolò dentro. Rimase appeso a una delle sbarre di ferro con una mano mentre la richiudeva. Poi, si infilò la chiave in una tasca, tirò fuori il coltello e si lasciò cadere


nell'inferno.


Capitolo 58 Fu solo quando Kylar si trovò sospeso in aria che si rese conto di quanto il fiume si trovasse in basso. Non aveva scuse, davvero. Era rimasto appeso proprio fuori da quella finestra, avendo davanti proprio quella vista, meno di cinque minuti prima. Solo che ora la visuale si andava allargando. Rapidamente. Avrebbe evitato le rocce. Bene. Ma sarebbe anche caduto a capofitto nel fiume a incredibile velocità. Forse un tuffatore esperto avrebbe potuto farlo senza farsi male, ma Kylar non era un tuffatore. Il fiume occupava tutta la sua visuale e Kylar allargò le braccia. Un sottile spicchio di Talento si avvolse attorno a lui. Poi, Kylar cadde in acqua. Le braccia aperte non servirono a nulla, ma lo spicchio di Talento lo protesse, immergendolo sotto la superficie del fiume come una scheggia. Lo spicchio si dissolse un istante dopo l'urto e l'acqua schiaffeggiò brutalmente Kylar, come se un gigante gli avesse sbattuto le mani su tutto il corpo. Stava di nuovo sognando, se si poteva definirlo un sogno, quando... Quando cosa? Il pensiero gli scivolò tra le dita e si perse. Si trattava del sogno che faceva sempre ogni volta che, in quei dieci anni, si era trovato di fronte alla morte. Come sempre, per un breve momento, seppe che era un sogno. Lo sapeva, ma quando si rendeva conto di che sogno fosse, non riusciva a staccarsene. Cresceva attorno a lui, catapultandolo all'età di undici anni. La rimessa delle barche è buia, solitaria nella luce argentea della luna. Azoth è terrorizzato, pur essendo stato lui a progettare la cosa. Ora si gira e Ratto è dietro di lui, nudo. Azoth si sposta poco a poco verso il buco dal quale le barche una volta venivano tirate su dalle fetide acque del Plith, verso la corda e il masso legato a essa, e verso il cappio che ha annodato a un capo della corda. «Baciami ancora», dice bramoso Ratto, proprio davanti ad Azoth, cercando di acchiapparlo. «Baciami ancora». Dov'è il cappio? L'aveva messo lì, giusto? Vede il masso con cui Ratto sarebbe dovuto morire sott'acqua, ma dov'è il... Ratto si avvicina e il suo alito è caldo sul viso di Azoth, e le sue mani gli stanno tirando i vestiti...


Kylar colpì il fondo del fiume con un tonfo. Aprì di scatto gli occhi e vide Retribution a pochi centimetri dalla sua faccia. Lo shock dell'urto con l'acqua gliel'aveva strappata dalle mani. Era stato fortunato a non essersi fatto a pezzi con la spada. Era stato fortunato che la spada fosse caduta a fondo insieme a lui. Improvvisamente conscio del bruciore nei polmoni, agguantò Retribution e cercò di tornare in superficie.

Kylar

Per quanto tempo sono stato qua sotto? Non poteva essere stato più di pochi secondi, altrimenti sarebbe stato trascinato via, affogando. Poco dopo, Kylar tornò, sorpreso e illeso, a respirare aria. Tuttavia, il naso e le dita sanguinavano ancora, tingendo di rosa l'acqua. La corrente lo sospinse verso una roccia, che Kylar risalì, tornando sulla terra ferma. Era stato sbalzato sul lato dell'isola di Vos sotto l'East Kingsbridge, proprio di fronte alla tenuta dei Jadwin. La riva del fiume su cui si trovava fungeva anche da base delle mura del castello, perciò per risalire a monte, dovette per metà arrampicarsi e per metà nuotare. Gli ci vollero dieci estenuanti minuti per arrivare a un punto in cui poter nuovamente uscire dall'acqua. L'approdo dove aveva visto Roth si trovava sulla punta settentrionale dell'isola. Per arrivarvi, doveva continuare ad avanzare nell'acqua e tra i massi lungo il fiume, oppure gli toccava attraversare la bassa e puzzolente costruzione che copriva il Crepaccio dell'isola di Vos. Kylar non credeva di riuscire a resistere su quelle rocce per altri dieci o venti minuti. Anche se Roth fosse stato ancora lì al suo arrivo, Kylar era troppo debole per scegliere quella strada. Il suo naso aveva finalmente smesso di sanguinare e il giovane si era fasciato la mano, in modo da non perdere troppo sangue; ma, se avesse cercato di nuotare, avrebbe ricominciato a sanguinare. La mano gli pulsava e sentiva l'intero corpo indebolito a causa dell'emorragia. Se fosse stata qualunque altra notte, Kylar avrebbe lasciato perdere. Non era decisamente in condizione di commettere un assassinio. Ma la logica non aveva molto significato. Non quella notte. Non dopo quello che Roth aveva fatto. La costruzione sul Crepaccio era un quadrato di pietra, trenta passi per lato e un solo piano. Era ritenuta una meraviglia di ingegneria, ma Kylar ne sapeva ben poco. Ipotizzò che i nobili non


si facessero impressionare da una meraviglia che puzzava di uova marce. Era una stupidaggine andare avanti. Kylar era talmente esausto che a stento riusciva a pensare di usare il Talento. Gli occorse un bel po' del suo potere per farlo. Si appoggiò alla pesante porta, per riprendere le forze. Teneva ancora in mano Retribution. Abbassando lo sguardo sulla spada, osservò la parola incisa sulla lama. GIUSTIZIA. Solo che ora non era "giustizia". Sbatté le palpebre. «MISERICORDIA», diceva in caratteri argentei, esattamente dove prima c'era scritto «GIUSTIZIA» in nero. Sull'elsa, perpendicolarmente a essa, c'era scritto «VENDETTA» su uno sfondo non più nero per il ka'kari, bensì d'argento. Il ka'kari non c'era più. Kylar era talmente istupidito che per un momento fu preso dallo sconforto. Poi ricordò dove fosse andato a finire. È entrato nella mia pelle? Ma quanto era stanco? Sicuramente doveva essersi trattato di uno scherzo della sua immaginazione. Un'allucinazione. Girò la mano e un umore nero, simile a olio, trasudò improvvisamente dal suo palmo. Liquido per un istante, si solidificò poi in una sfera di metallo caldo. Era nero come la notte, adesso, completamente liscio. Un ka'kari nero. I racconti di Logan parlavano di solo sei ka'kari: bianco, verde, marrone, argento, rosso e blu. L'imperatore Jorsin Alkestes e il suo arcimago Ezra li avevano dati ai Sei Campioni, escludendo uno dei migliori amici di Jorsin, che, per vendetta, lo aveva tradito. Dopo la guerra, i sei ka'kari erano stati oggetto di enorme desiderio e coloro che li portavano erano morti in fretta. Kylar cercò di ricordare il nome del traditore. Era Acaelus Thorne. Jorsin non gli aveva affatto mancato di rispetto. Fingendo di escluderlo, Jorsin aveva offerto al suo miglior amico una via di fuga... e tenuto un artefatto lontano da mani nemiche. Poiché nessuno aveva saputo dell'esistenza di un ka'kari nero, ad Acaelus non era stata data la caccia. Acaelus era sopravvissuto. Durzo aveva firmato la sua lettera «una Spina», ovvero Thorne. «Oh, per gli dei», mormorò Kylar. Non poteva pensarci adesso, non poteva fermarsi altrimenti non sarebbe più stato in grado di muoversi. «Aiutami», disse Kylar al ka'kari. «Ti prego. Servimi». Strinse il ka'kari che si dissolse, scorrendogli sulla pelle, sui vestiti,


sul viso, sugli occhi. Fremette, ma era ancora in grado di vedere perfettamente... vedeva ancora nel buio, come se fosse una cosa naturale per lui. Abbassò gli occhi sulle mani, sulla spada nera e le vide brillare di magia e scomparire. Non erano semplicemente ammantate di ombre, erano scomparse. Kylar non era un'ombra come prima. Era invisibile. Non c'era tempo per stupirsi; aveva del lavoro da fare. Erano passati dieci minuti o più da quando aveva visto Roth sul molo. Se l'uomo doveva morire quella sera, Kylar doveva muoversi. Scassinò la serratura ed entrò. L'interno della costruzione era terribilmente caldo. Delle passerelle di legno circondavano un mastodontico camino centrale, largo quindici passi. Era fatto di grossi fogli di metallo inchiodati l'uno all'altro e sostenuti da una struttura esterna di legno. Il camino discendeva nel suolo per almeno quattro piani, per incontrare la naturale fenditura nella crosta terrestre. Guardando nelle oscure profondità del Crepaccio, Kylar capì perché la gente lo definiva una meraviglia. Gli uomini che vi lavoravano non solo imbrigliavano la potenza dell'aria bollente che soffiava dalla terra, ma evitavano anche che il fiume Plith vi si riversasse. Se ciò fosse successo, il fiume sarebbe diventato incandescente; i pesci sarebbero morti, i pescatori sarebbero scomparsi e Cenaria avrebbe perso la sua maggiore fonte di sostentamento. Anche in quel momento, incuranti del caos a poche centinaia di metri da loro, gli uomini erano al lavoro: riparavano corde, controllavano carrucole, oliavano ingranaggi, sostituivano sezioni di lamine metalliche. Kylar attraversò una lunga passerella, fece qualche svolta e si ritrovò a un bivio, dal quale poteva scendere verso una porta sotto il livello del suolo oppure salire verso una porta che dava sullo sbocco del camino, sul lato nord della costruzione... dove avrebbe dovuto trovarsi Roth. Scese. Accanto alla porta ce n'era un'altra doppia, usata per introdurre grosse attrezzature. Kylar aprì un piccolo spiraglio. Vide una giovane strega, con i capelli tirati indietro e le braccia, segnate dal vir, incrociate. Guardava in alto, verso una lunga rampa di pietra. Qualcuno le stava parlando ma Kylar non riusciva a vedere l'altra persona. Oltre a lei, ce n'erano un'altra dozzina,


vestite allo stesso modo. Kylar richiuse la porta. Tornò sull'altro ramo della passerella e aprì quella posta nella sezione orizzontale del camino. Piegato lateralmente, lì il camino sembrava più un condotto per il vapore. Era largo quindici passi fino a che non si assottigliava a quattro all'altezza dell'ultima ventola. La pavimentazione era lamiera con il fondo rinforzato, così gli operai potevano stare al suo interno quando lavoravano sull'enorme ventola posta nel punto in cui il camino si ripiegava, oppure sulla piccola e ultima ventola, prima che l'aria calda si perdesse nella notte cenariana. La ventola settentrionale girava abbastanza lentamente da permettere a Kylar di scorgere Roth attraverso di essa. Entrò con molta cautela, saggiando il pavimento per vedere se avrebbe scricchiolato sotto al suo peso. Non successe nulla. Ma prima ancora che Kylar si richiudesse la porta alle spalle, provò un vago senso di disagio. Raffreddato dal suo lungo viaggio lungo il camino metallico, il fumo sulfureo si riversava pigramente dal condotto nell'aria notturna all'esterno. Un fumo denso saturava il fondo del condotto, arricciandosi in grosse volute. L'unica luce era quella esterna della luna, che filtrava dalla ventola. Tra il fumo e le ombre, la vista di Kylar non era migliore di quella di qualsiasi altro uomo. C'è qualcuno qui.


Capitolo 59 Il cuore di Durzo era appena saltato da quella maledetta apertura. Si avvicinò alla finestra e rimase a guardare fino a che Kylar non emerse. Incredibile. In tutti i miei anni, non ho mai tentato niente di così folle, ed ecco che lui lo fa il suo primo giorno... e funziona. Kylar si arrampicò sulla riva e cominciò ad andare a nord. Durzo sapeva dov'era diretto. Quello sciocco testardo. Aveva sempre avuto quella vena, dal tempo in cui si era rifiutato di accettare il fallimento dell'assassinio di Ratto, ed era andato a uccidere il pervertito nelle tre ore successive. Kylar faceva quello che pensava fosse giusto, e al diavolo le conseguenze, al diavolo tutti, perfino Durzo. A Durzo faceva venire in mente Jorsin Alkestes. Kylar aveva scelto la lealtà nei confronti del suo maestro e vi si era aggrappato nonostante Durzo. Aveva riposto la sua fiducia in Durzo Blint come Jorsin aveva riposto in lui la propria. Kylar era solo un dannato ragazzo, ma si era anche fidato di un uomo peggiore di Acaelus Thorne. Il dolore risuonava in ogni corda della vita di Durzo Blint. Aveva imbrogliato migliaia di volte nella sua lunga esistenza e tutti coloro che avevano creduto in lui durante i suoi inganni potevano non essere considerati, ma Jorsin lo conosceva. Kylar lo conosceva. Non per la prima volta in sette secoli, l'esistenza gli doleva. Tutto il mondo era sale e Durzo Blint era una ferita aperta. Dove ho sbagliato? Si diede una mossa, perché, come tutti gli uomini che Acaelus Thorne era stato, Durzo Blint era un uomo d'azione. Il suo Talento gli ricoprì mani e piedi - buffo che funzionasse ancora così, nonostante la perdita del ka'kari -, e Durzo uscì dalla finestra. Non cadde. La magia che gli avvolgeva i piedi si fissò alla pietra e il sicario ricadde in avanti, appoggiandosi con le mani, in modo da procedere a testa in giù lungo la facciata del castello come un insetto. Kylar non aveva imparato tutti i trucchi di Durzo. Diavolo, non li aveva neanche visti tutti.


Sapeva dove fosse diretto Kylar e sapeva come arrivarvi prima, perciò non si affannò. Il clangore delle armi nel cortile attrasse la sua attenzione. Si ammantò di tenebre e strisciò fin laggiù. La battaglia era a un punto morto. Duecento guardie cenariane e i quaranta o più inutili nobili che erano con loro non riuscivano a smuovere il centinaio di Khalidorani che bloccavano il cancello dell'East Kingsbridge. I Khalidorani avevano una mezza dozzina di meister con loro ma, a quel punto della battaglia, non davano un gran contributo se non psicologico. Avevano usato quasi tutta la magia di cui erano capaci. Con gli occhi lungamente allenati dalle battaglie e dalle arti dell'omicidio, Durzo individuò gli elementi fondamentali dello scontro. A volte era semplice. Di solito, gli ufficiali erano importanti. I meister lo erano sempre, ma talvolta erano semplici soldati nei ranghi che davano forza agli uomini attorno a loro. Se uccidevi questi elementi, l'intera battaglia cambiava. Sul lato khalidorano, erano due ufficiali, tre dei loro meister e un gigantesco Highlander. Sul lato cenariano, ce n'erano solo due: un sergente armato di arco alitaerana e Terah Graesin. Il sergente era un semplice soldato, probabilmente alla sua prima battaglia nonostante l'età, e Durzo riconobbe lo sguardo sulla sua faccia. Era un uomo che si era arruolato per trovare la propria dimensione, e l'aveva finalmente trovata. Aveva superato la propria Prova del Fuoco e ora era sicuro di sé. Era una cosa potente, quella sicurezza, e ogni uomo attorno al sergente lo sentiva. Terah Graesin, naturalmente, sarebbe spiccata in qualsiasi folla. Era tutta tette e altezzosità, una visione in un abito azzurro strappato. Credeva che non potesse accadere nulla di male in sua presenza. Credeva che tutti quelli che erano attorno a lei le avrebbero obbedito e, anche in questo caso, gli uomini lo sentivano. «Sergente Gamble», disse una voce familiare, proprio sotto a Durzo. Il sergente scoccò un'altra freccia, uccidendo un meister, ma non uno di quelli importanti. Il conte Drake emerse dal cancello principale e afferrò il sergente. «É in arrivo un altro centinaio di Highlander», disse il conte, la cui voce fu quasi inghiottita dal cozzare delle armi e dalla calca di uomini che correvano avanti e indietro nel cortile. La vista del conte coprì di altro sale la ferita che Kylar aveva


aperto. Durzo aveva pensato che l'uomo fosse rimasto a casa ma, eccolo là, ancora provato dall'avvelenamento di Durzo, sul punto di morire con tutti gli altri. «Dannazione!», inveì il sergente Gamble. Durzo si fermò a riflettere. I Cenariani sarebbero stati massacrati. Non dipendeva più da lui. Lo attendeva un verdetto. «Angelo della Notte!», urlò il sergente. «Se combatti con noi, combatti ora! Angelo della Notte! Vieni!». Durzo rimase immobile. Poteva solo dedurre che Kylar fosse già intervenuto in qualche modo nel castello. Molto bene, Kylar. Farò questo per te, e per il conte, e per Jorsin e per tutti gli sciocchi che credono che perfino un assassino possa fare qualcosa di buono. «Dammi il tuo arco», disse Durzo, con voce dura e minacciosa, alterata dal Talento. Il sergente Gamble girò la testa di scatto e, insieme al conte Drake, guardò l'ombra sul cancello. Il sergente gli lanciò il proprio arco e una faretra piena di frecce. Durzo afferrò l'arco con la mano e la faretra con il Talento. Mentre scoccava una freccia, ne prendeva un'altra dalla faretra con il Talento. Si accovacciò contro le mura e in un istante bloccò le sue vittime con l'occhio della mente. Il gigante highlander cadde per primo, colpito da una freccia in mezzo agli occhi. Poi, i meister, uno dopo l'altro, gli ufficiali e infine un cuneo di Highlander che stava proprio davanti al ponte. Durzo vuotò la faretra delle venti frecce in meno di dieci secondi. Fu, pensò Durzo, un ottimo lavoro. Certo, Gaelan Starfire ci sapeva fare con l'arco lungo. Durzo gettò l'arco al sergente Gamble, che non sembrava ancora comprendere cosa fosse successo. Il conte Drake era un'altra faccenda. Non guardò nemmeno il cortile, mentre il fronte cenariano irrompeva nel varco. Non fu sorpreso dall'improvvisa esitazione delle file khalidorane che, nel giro di pochi secondi, si erano trasformate in una folla disordinata. Guardava Durzo. Il sergente Gamble lanciò una spaventosa imprecazione, ma la bocca del conte Drake si aprì per una benedizione. Durzo non poté accettarla. Era già andato via. Basta benedizioni. Basta pietà. Basta sale. Basta luce nei miei angoli bui. Fa' che finisca. Per favore.


Capitolo 60 La paura attraversò Kylar come un lampo. Si immerse nel fumo. Un tonfo e un gemito metallico risuonarono sopra di lui. Si rotolò e vide un coltello spuntare dalla porta e un altro dal rivestimento metallico del camino. «Così, pensavi che ti avrebbe reso invisibile, eh?», disse Durzo Blint da qualche parte nel buio, vicino alla grossa ventola in fondo al condotto. «Dannazione, Blint! Vi ho detto che non voglio combattere», esclamò Kylar, spostandosi poi dal punto in cui si trovava. Scrutò le tenebre. Anche se Durzo non era completamente invisibile, nel fumo e nel guizzare intermittente di luce e ombre, sembrava che lo fosse. «Quello sì che è stato un tuffo, ragazzo. Stai cercando di diventare una leggenda?», chiese Durzo, ma la sua voce, stranamente, si affievolì, addolorata. Kylar incespicò. Durzo ora era vicino alla ventola più piccola, all'estremità opposta del condotto. Doveva essergli passato a meno di un passo per arrivare laggiù. «Chi siete?», chiese Kylar. «Siete Acaelus Thorne, non è vero?». Il ragazzo quasi dimenticò di muoversi. Un coltello gli sfiorò la pancia, andando a rimbalzare contro la parete. «Acaelus era uno sciocco. Ha giocato a fare il Diavolo e ora a me tocca pagare il debito del Diavolo». La voce di Durzo era aspra, rauca. Aveva pianto. «Mastro Blint», disse Kylar, aggiungendo il titolo onorifico per la prima volta da quando aveva preso il ka'kari. «Perché non vi unite a me? Aiutatemi a uccidere Roth. È là fuori, non è vero?» «Fuori, con una moltitudine di meister e vurdmeister», disse Durzo. «È finita, Kylar. Khalidor prenderà il castello in meno di un'ora. All'alba arriveranno altri Highlander e un esercito di regolari khalidorani sta già marciando verso la città. Chiunque avrebbe potuto condurre un esercito contro di loro è morto o fuggito». Si sentì un gong in lontananza, che riverberò su per la gola del camino. L'aria calda cominciò a soffiare dalle profondità.


Kylar si sentiva nauseato. Il suo lavoro non era valso a niente. Qualche soldato ucciso, qualche nobile salvato... non era cambiato niente. Si mosse furtivamente verso la piccola ventola a nord, che ora girava più velocemente. Attraverso le pale, poteva vedere Roth conferire con i suoi stregoni. Durzo aveva ragione. Ce n'erano a dozzine. Alcuni tornavano sulla nave ma altri, almeno una ventina, accompagnavano Roth, che aveva anche diversi giganteschi Highlander come guardie del corpo. «Roth ha ucciso il mio miglior amico», disse Kylar. «Lo ucciderò. Stanotte». «Allora dovrai passare sul mio cadavere». «Non mi batterò con voi». «Ti sei sempre chiesto se, all'occorrenza, saresti stato in grado di battermi», disse Durzo. «So che l'hai fatto. E adesso hai il tuo Talento e il tuo ka'kari. Quando eri un ragazzino, giurasti che non avresti mai permesso a nessuno di picchiarti. Mai più. Dicesti che volevi diventare un killer. Ti ci ho fatto diventare o no? » «Dannazione! Non mi batto con voi! Chi è Acaelus?», urlò Kylar. La voce di Durzo divenne più forte, cantando sul rumore di ventole e vento caldo: La mano del malvagio si leverà ancora su di lui, ma non prevarrà. Le loro lame saranno divorate Le spade degli ingiusti lo trafiggeranno Ma egli non cadrà Salterà dai tetti del mondo E punirà i principi... La voce di Blint esitò. «Non ce l'ho mai fatta», disse piano. «Di cosa parlate? Cos'era? Una profezia?» «Non parla di me, così come il Guardiano della Luce non era


Jorsin. Si tratta di te, Kylar. Tu sei lo spirito del castigo, l'Angelo della Notte. Tu sei la vendetta che merito». La vendetta deriva dall'amore per la giustizia e dal desiderio di raddrizzare i torti. Ma la rivalsa è dannazione. Tre facce ha l'Angelo della Notte, l'incarnazione del castigo: Vendetta, Giustizia, Misericordia. «Ma io non ho niente di cui vendicarmi. Vi devo la mia vita», disse Kylar. La faccia di Durzo si incupì. «Sì, questa vita di sangue. Ho servito quel maledetto ka'kari per quasi settecento anni, Kylar. Ho servito un re morto e un popolo che non era degno di lui. Ho vissuto nelle tenebre e sono diventato un abitante delle tenebre. Ho dato tutto ciò che ero per un sogno di speranza che non ho mai capito. Cosa succede quando strappi via tutte le maschere che un uomo indossa, e sotto non trovi una faccia ma il nulla? Ho tradito il ka'kari una volta sola. Una volta sola in settecento anni di servizio e mi ha abbandonato. Non sono invecchiato di un giorno, Kylar, neanche di un giorno, per settecento anni. Poi sono arrivate Gwinvere e Vonda. L'amavo, Kylar». «Lo so», disse dolcemente Kylar. «Mi dispiace per Vonda». Durzo scosse la testa. «No, non amavo Vonda. Volevo solo... volevo che Gwinvere sapesse cosa si prova quando qualcuno che ami va a letto con un altro. Sono andato a letto con entrambe e ho pagato Gwinvere, ma è stata Vonda quella che ho reso una puttana. Ecco perché all'inizio volevo il ka'kari d'argento... per darlo a Gwinvere, così non sarebbe morta come erano morti tutti quelli che amavo. Ma il sasso di re Davin era un falso, così l'ho lasciato affinché gli uomini di Garoth Ursuul lo trovassero. L'unico modo per salvare Vonda sarebbe stato dare loro il mio ka'kari. Ho messo sul piatto della bilancia la sua vita contro il mio potere e la mia vita eterna. Non l'amavo, quindi il prezzo sarebbe stato troppo alto. L'ho lasciata morire. Quello è stato il giorno in cui il ka'kari ha smesso di servirmi. Ho cominciato a invecchiare. Il ka'kari non è diventato che vernice nera su una spada che mi derideva con la parola "GIUSTIZIA". Giustizia era che io diventassi vecchio, perdessi la mia forza, morissi. Tu eri la mia unica speranza, Kylar. Sapevo che eri un ka'karifero. Avresti chiamato a te il ka'kari. C'erano delle voci sull'esistenza di un altro ka'kari nel regno. Il ka'kari nero mi aveva


respinto, ma forse quello d'argento non l'avrebbe fatto. Una debole speranza, ma pur sempre la speranza di un'altra occasione, di redenzione, di vita. Ma tu hai evocato il mio ka'kari. Hai cominciato a vincolarlo lo stesso giorno in cui ti ho picchiato, il giorno in cui hai rischiato la vita per salvare quella ragazza. Ero come impazzito. Mi stavi portando via l'unica cosa che mi era rimasta. La reputazione non c'era più, l'onore scomparso, la bravura veniva meno, gli amici morti, la donna che amavo mi odiava e, poi, arrivavi tu a portarmi via la speranza». Distolse lo sguardo. «Volevo finirti. Ma non ci sono riuscito». Si gettò in bocca uno spicchio d'aglio. «Sapevo che quel primo assassinio non era nella tua indole. Neanche se a morire era quel pervertito di Ratto. Sapevo che non potevi uccidere qualcuno per quello che avrebbe potuto fare». «Cosa?». Kylar sentì la pelle formicolargli. «Le strade ti avrebbero divorato. Dovevo salvarti. Anche se sapevo che si sarebbe giunti a questo». «Cosa state dicendo?», chiese Kylar. No, Dio, ti prego, no. Fa' che non sia così. «Non fu Ratto a mutilare Bambola», disse Durzo. «Fu opera mia». Il fumo ormai riempiva a metà il condotto. La grossa ventola girava lentamente, mentre quella più piccola roteava veloce quanto i battiti del cuore di Kylar. Frammenti di luce lunare comparivano di tanto in tanto nelle volute di fumo. Kylar non riusciva a muoversi. Non riusciva a respirare. Non riusciva neanche a ribattere. Era una menzogna. Doveva essere una menzogna. Conosceva Ratto. Aveva visto i suoi occhi. Vi aveva visto il male dentro. Ma non aveva mai visto il male di Durzo, no? Kylar aveva visto il suo maestro uccidere innocenti, eppure non aveva mai permesso a se stesso di scorgere il male nelle sue azioni. Ora la grossa ventola girava velocemente. Il suo whup-whupwhup tagliava il tempo a pezzi, segnava il suo trascorrere come se il tempo avesse significato. «No». Kylar riuscì a stento a far uscire la parola attraverso il groviglio di verità che gli serrava la gola. Blint sarebbe stato in grado di farlo. La vita è vuota. La vita è senza valore. Una ragazza sulla strada vale esattamente ciò che può ottenere prostituendosi.


«No!», urlò Kylar. «Finisce adesso, Kylar». Durzo brillò e scomparve nell'abbraccio delle tenebre. Kylar provò rabbia, una rabbia aspra e incandescente che lo percorse da capo a piedi. Con il rumore delle ventole e del vento caldo, Kylar a stento sentì i passi. Si girò e sparì. Il fumo turbinò quando il sicario avvolto dalle ombre lo oltrepassò di corsa. Sentì una spada uscire dal fodero e sguainò Retribution. Apparve un'ombra, troppo vicina, troppo veloce. Si scontrarono e la spada di Kylar volò via. Si tuffò all'indietro. Kylar si rialzò lentamente, in silenzio, allertando i sensi, accovacciandosi nel fumo. La rabbia prevalse sulla sua stanchezza e riuscì a incanalarla, in modo che lo rendesse lucido. Cercò qualche vantaggio, ma c'era ben poco da trovare. Poteva rimanere vicino alla grossa ventola che gli avrebbe protetto la schiena, ma Blint poteva facilmente spingerlo tra le pale che giravano. Non erano così affilate né giravano tanto veloci da poter mozzare un arto, ma senz'altro lo avrebbero stordito. In un combattimento contro Durzo, ciò significava morte. Lungo le pareti e il soffitto del condotto c'erano degli appigli inseriti a intervalli, in modo che gli operai potessero sostituirne le sezioni. Ma nel punto in cui si trovava Kylar, gli appigli erano almeno a tre metri dalla sua testa. Una breve scossa del suo Talento lo percorse mentre saltava. Si ritrovò a stringere un piolo. Serrò la mano destra e rischiò di cadere. Aveva dimenticato che la finestra gli aveva lacerato la mano. Kylar si dondolò e agganciò i piedi a un altro piolo, per trovare una posizione stabile. La mano destra era troppo debole per sostenere il suo peso, perciò tenne il tanto con quella mano. Il gong suonò nuovamente mentre Kylar guardava la sua arma. Era dritta, lunga una ventina di centimetri e aveva una punta angolata per penetrare le armature. Con la mano così debole, non avrebbe potuto usare quel coltello. Lo rinfoderò, fece scattare il fermaglio di un fodero speciale e ne tirò fuori un corto coltello ricurvo, lungo solo la metà del tanto. Quattro minuscoli fori lungo la lama erano riempiti di cotone. Il


fodero era bagnato. Kylar non sapeva se il veleno di vipera bianca fosse stato lavato via dall'acqua o meno. Ma non aveva scelta. Il vento rallentò e cessò di colpo. Le grandi ventole giravano ancora, sferragliando sugli assi oliati. Kylar si tenne pronto e aspettò. Il fumo stava gradualmente scendendo, liberando il condotto. La prossima volta che Durzo si fosse mosso nel fumo, Kylar sarebbe stato in grado di vedere i suoi movimenti, pur non vedendo il sicario. Il fragore delle ventole si ridusse a un bisbiglio, e ben presto Kylar non sentì altri suoni se non il proprio sangue che gli martellava nelle orecchie. Era sotto sforzo, non solo nel tentativo di vedere o sentire il sicario, ma anche solo per rimanere fermo al suo posto... e rimanervi in silenzio. Se Durzo lo avesse sentito, Kylar sarebbe stato totalmente esposto. Con il piede incastrato sotto il piolo, non sarebbe riuscito a muoversi abbastanza velocemente. E sarebbe diventato un enorme bersaglio. Il suo unico vantaggio sarebbe stata la sorpresa. Ma Durzo gli aveva insegnato che quello era il vantaggio più importante di tutti. Passò un minuto. Le ventole smisero completamente di girare. Perfino il mormorio delle voci all'esterno era scomparso. Il fumo, raffreddandosi ancora una volta, tornò a posarsi sul fondo del condotto. Con un movimento terribilmente lento, Kylar girò la testa, attento a fare in modo che neanche il suo colletto frusciasse. Sicuramente, con il fumo così basso, sarebbe stato in grado di vedere qualcosa, qualche mulinello, qualche voluta fuori posto. Respirò allo stesso modo in cui si era mosso: lentamente, prudentemente. Il naso, ostruito dal sangue per l'urto contro la parete della torre, consentiva il passaggio dell'aria da una narice sola. Il braccio sinistro gli bruciava, le gambe gli dolevano, eppure non mosse un muscolo né emise un suono. Nell'attesa, la paura crebbe nel suo cuore. Come avrebbe fatto a combattere Durzo? Quanti uomini aveva ucciso il suo maestro? Quante volte Durzo lo aveva battuto in ogni prova, in ogni sfida? Come avrebbe fatto Kylar a combattere, ferito e debole com'era? Durzo avrebbe potuto aspettare sul fondo del condotto per sempre. Probabilmente si era sistemato nei pressi della ventola più piccola.


Con la luce alle spalle, avrebbe visto immediatamente Kylar scendere e gli sarebbe stato addosso in un istante. Chi era Kylar per uccidere una leggenda? Cercò di frenare il galoppo del suo cuore. Aveva la gola serrata. Le emozioni incandescenti che lo avevano spronato per tutta la notte si erano raffreddate. Era gelido. Vuoto. Durzo aveva ragione, non c'era posto per la giustizia in questo mondo. Logan era morto. Elene era stata picchiata, e gli uomini che avevano fatto tutto il male che Kylar poteva immaginare stavano vincendo. Avevano sempre vinto. Avrebbero sempre vinto. Non avrebbe resistito ancora a lungo. Durzo avrebbe sentito il cuore di Kylar martellargli nel petto. Si costrinse a respirare più lentamente. Pazienza! Pazienza. Fece un altro lento respiro e aspettò. C'era un leggerissimo odore nell'aria. Aglio! Sia il maestro che l'apprendista avevano avuto la stessa idea. Durzo era appeso esattamente come Kylar, un'immagine speculare, a pochi centimetri di distanza, attento a scrutare il minimo cambiamento nella forma del fumo. Kylar allungò la testa di scatto e menò un fendente con il piccolo coltello. Doveva aver fatto qualche rumore, perché la macchia scura appesa al piolo sopra al suo si spostò. Il coltello incontrò della stoffa e Kylar parò un attacco con l'altra mano, mentre entrambi cadevano dal soffitto. Kylar si abbatté pesantemente al suolo, atterrando con un tonfo nella pozza che si raccoglieva in fondo al condotto, e colpendo il metallo così forte da sentire una trafittura al collo. Si rotolò sulla pancia e balzò in piedi. Sentì il tintinnio di una spada contro il suo fodero. Durzo tornò a essere visibile. E così fece Kylar. Era troppo stanco per mantenere l'invisibilità, anche solo per un altro secondo. Si sentiva uno straccio. Guardò il metro d'acciaio in mano a Blint e poi i dieci centimetri nella propria. «Allora, ci siamo», disse Durzo. «Non credo tu abbia altri trucchetti come quello nella torre». «Non so neanche come sia successo», disse Kylar. «Non mi è rimasto niente».


«Buon per te che non ti abbia lasciato andare da Roth, allora, no?», disse Durzo, con quell'irritante sorrisetto sulle labbra. Kylar non aveva più la forza di arrabbiarsi. Era ridotto a un guscio vuoto. «Non capisco che importanza abbia», disse. «Ma preferirei che il mio sangue scorresse per colpa sua piuttosto che vostra». Rinfoderò il pugnale. «Hai usato il veleno di vipera, non è vero?», disse Durzo. Rise. «Certo che l'hai fatto». Anche Durzo rinfoderò la sua spada. Poi, vacillò e dovette aggrapparsi a un piolo della parete per evitare di cadere. «Mi sono sempre chiesto come ci si sentisse», disse Durzo. Si toccò lo squarcio nella tunica. Kylar aveva pensato di aver lacerato solo della stoffa, ma il petto di Durzo sanguinava per un taglio superficiale. «Maestro!». Kylar corse da lui e lo sostenne prima che cadesse. Blint ridacchiò, la sua faccia era di un bianco cadaverico. «Per molto tempo non mi sono preoccupato di morire. Non è così male». Fu percorso da un fremito. «Ma non è neanche bello. Kylar, promettimi una cosa». «Qualsiasi cosa». «Prenditi cura della mia bambina. Salvala. Momma K deve sapere dove la tengono». «Non posso», disse Kylar. «Vorrei, ma non posso». Si girò e si estrasse il dardo di Durzo dal collo. All'inizio, aveva pensato che la fitta al collo fosse dovuta all'urto con il suolo ma, non appena si era mosso, aveva capito tutto. Si trattava di un dardo avvelenato. Anche Kylar stava morendo. Durzo rise. «Lancio fortunato», disse. «Fammi uscire da questo condotto. Respirerò zolfo tra pochissimo». Kylar uscì dalla porta del condotto tirandosi dietro Durzo. Aiutò Blint a sedersi sulla passerella e poi gli si sedette di fronte. Kylar era esausto. Forse quello sul dardo era veleno di cobra reale e cicuta, allora. «Ami sul serio quella Elene, non è vero?» «Sì», rispose Kylar. «La amo davvero». Stranamente, quello era il suo unico rimpianto. Avrebbe dovuto essere un uomo diverso, un


uomo migliore. «Dovrei essere morto, ormai», disse Durzo. «Il coltello si è bagnato». Quella lieve vertigine era opera del veleno? Durzo si sforzò di ridere ma i suoi occhi si riempirono, invece, di dolore. «Jorsin me lo aveva detto. "Sei ka'kari per sei angeli di luce, ma un ka'kari veglia nella notte". Il ka'kari nero ha scelto te, Kylar. Ora sei l'Angelo della Notte. Da' a questa gente meschina e ingrata qualcosa di meglio di ciò che merita. Da' loro speranza. Questa è la richiesta del tuo maestro: uccidi Roth. Per questa città. Per mia figlia. Per me». Affondò dolorosamente le dita nel braccio di Kylar. «Mi dispiace, figliolo. Mi dispiace per tutto questo. Un giorno, forse potrai perdonarmi...». Le palpebre gli divennero di piombo e dovette lottare per tenere gli occhi aperti e concentrati. Durzo stava dicendo cose senza senso. Sapeva che Kylar stava morendo. Doveva essere il veleno. «Vi perdono», disse Kylar. «Possano le nostre morti non ricadere su di noi». Gli occhi di Durzo si accesero all'improvviso, e l'uomo sembrò lottare contro il veleno che aveva in corpo. Sorrise. «Io non ho avvelenato... il dardo... La lettera...». Durzo morì a metà del respiro, percorso da un lieve tremito, mentre i suoi occhi erano ancora fissi su Kylar. Kylar glieli chiuse. Un cupo senso di enormità gli inghiottì lo stomaco. Da qualche parte dentro di lui, era bloccato un urlo, perso nel vuoto della sua gola. Kylar si alzò meccanicamente e il cadavere scivolò dal suo grembo, sbattendo la testa contro la passerella. Le membra senza vita di Durzo giacevano scomposte. Immobili. Proprio come quelle di un qualsiasi cadavere. In vita, ogni uomo è unico. Nella morte, ogni uomo è carne. Durzo era uguale a qualsiasi altro morto. Inebetito, Kylar infilò la mano nel taschino di Durzo e ne tirò fuori la lettera che doveva essere la sua eredità. Era proprio nel punto in cui Kylar aveva ferito il petto del sicario. La lettera era zuppa di sangue. Qualsiasi fossero state le parole scritte, ora erano illeggibili. Qualsiasi cosa Durzo avesse avuto intenzione di giustificare, qualsiasi cosa avesse avuto intenzione di spiegare, qualunque fosse stato il dono che intendeva dare a Kylar con quelle ultime parole, era morto con lui. Kylar era solo.


Cadde in ginocchio, ormai senza forze. Prese tra le braccia il sicario morto e pianse. Rimase così a lungo.


Capitolo 61 L’ alba sorprese Kylar mentre arrancava per le strade, diretto a uno dei suoi nascondigli. Prima di andarsene, aveva eretto un tumulo di pietre sul corpo di Durzo sulla punta settentrionale dell'isola di Vos. A quell'ora, non c'era nessuno in giro. Kylar aveva rubato una barca dal molo e si era lasciato trasportare dalla corrente fino ai Cunicoli, troppo sfinito per remare. Aveva ormeggiato alla rimessa dove aveva ucciso Ratto. Era ancora buio e nascosto alla vista, perfetto per il suo lavoro. Si chiese se Ratto fosse ancora sepolto nel letame, mentre il suo spirito inquieto guardava la barchetta di Kylar con tutto l'odio e il male che un tempo albergavano nel suo cuore adolescente. Era una mattina di meditazioni solitarie. Kylar disattivò automaticamente le trappole alla porta ed entrò. Blint aveva ragione. Andare in cerca di Roth la sera prima sarebbe stato un suicidio. Kylar si era sentito così stanco da pensare che fosse l'effetto del veleno. Probabilmente non ce l'avrebbe fatta neanche contro un solo meister. Per liberare la terra da Roth Ursuul, poteva valere la pena scambiare una vita con un'altra, ma Kylar non aveva intenzione di morire per niente. Chiuse a chiave la porta, poi si fermò e tornò indietro. Chiuse ognuna delle tre serrature tre volte. Chiudi, apri, chiudi. Per voi, maestro. Prese la brocca dell'acqua e, riempito il catino, cominciò a ripulirsi il sangue dalle mani. La faccia allo specchio era fredda e calma mentre lavava via le ultime tracce di vita del suo maestro. Il sangue imbrattò il manico della brocca, solo un pochino. Solo un'impronta piccola e scura del sangue che aveva sulle mani. Kylar sollevò la brocca e la scagliò contro lo specchio. Brocca e specchio andarono in frantumi, spruzzando vetro, porcellana e acqua sulla parete, nella stanza, sui suoi vestiti e sul suo viso. Cadde in ginocchio e pianse. Alla fine, si addormentò. Al suo risveglio, si sentiva meglio di quanto meritasse. Si lavò, e si sentì più fresco. Mentre si scrostava i capelli ispidi, si sorprese a sorridere in un frammento di specchio. Blint non aveva affatto intenzione di uccidermi, ma non ha saputo trattenersi dal colpirmi con un dardo solo per dimostrare che poteva


farlo. Quel vecchio bastardo. Kylar rise. Che vecchio bastardo davvero. Era umorismo macabro, ma aveva bisogno di qualsiasi cosa riuscisse a trovare. Si vestì e si armò, pensando tristemente all'equipaggiamento perso la notte prima. Pugnali, veleni, rampini, coltelli da lancio, tanto, coltello da avvelenatore... aveva perso tutti i suoi pezzi preferiti tranne Retribution. Piango il mio equipaggiamento, ma non Logan né Durzo né Elene. Era così ridicolo che Kylar rise nuovamente. Concluse di non essere molto in sé. Forse era naturale. Non aveva mai perso qualcuno che gli stesse davvero a cuore prima. Ora ne aveva persi tre in una notte sola. Nel tardo pomeriggio, quando Kylar finalmente emerse dal suo rifugio, le strade erano affollate. Ormai le voci su quello che era successo al castello durante la notte si rincorrevano. Un esercito era apparso dal nulla. Un esercito si era materializzato dal Crepaccio dell'isola di Vos. Un esercito di maghi era giunto da sud. No, si trattava di stregoni dal nord. Gli Highlander avevano ucciso tutti gli abitanti del castello. Khalidor stava per radere al suolo l'intera città. Pochi di quelli che spargevano queste voci sembravano preoccupati. Kylar vide qualcuno, con i propri averi caricati su carri e carretti, dirigersi fuori città, ma si trattava di poche persone. Nessun altro sembrava credere che potesse succedere loro qualcosa di male. Il nascondiglio di Momma K era ancora sorvegliato dal nerboruto Cewan, che fingeva di sistemare lo steccato. Kylar non si preoccupò di diventare invisibile. Gli si avvicinò con calma chiedendogli delle informazioni, e mise la mano sulla spada che l'uomo teneva nascosta. Questi cercò troppo tardi di sguainarla e scoprì che l'arma era bloccata dalla presa di Kylar. Kylar spezzò lo sterno dell'uomo con un colpo a mano aperta, lasciandolo a boccheggiare come un pesce. Gli prese le chiavi dalla cintura e aprì la porta. La richiuse a chiave e si nascose nelle tenebre. Invisibile, trovò Momma K nello studio, china sui rapporti provenienti dai suoi bordelli. Kylar li lesse silenziosamente al di sopra della spalla della donna. Momma K stava cercando di capire


cosa fosse accaduto al castello. L'ago affondò nella pelle floscia del suo braccio. Momma K lanciò un grido e cercò di artigliarlo. Riuscì a tirare fuori l'ago e girò lentamente la sedia. Sembrava davvero decrepita. «Ciao, Kylar», disse. «Ti aspettavo ieri». Kylar apparve sull'altra sedia, simile a una giovane Morte oziosa. «Come facevi a sapere che ero io?» «Durzo avrebbe usato un veleno che mi avrebbe portato all'agonia». «È una tintura di radice di ariamu ed estratto di giacinto», spiegò Kylar. «L'agonia è in arrivo». «Un veleno lento. Quindi hai deciso di concedermi del tempo. Per cosa, Kylar? Per le scuse? Per piangere? Per supplicare?» «Per pensare. Per ricordare. Per rimpiangere». «Dunque questo è il castigo. C'è un nuovo giovane killer per le strade che dà alle vecchie puttane quello che meritano». «Sì, e tu meriti di perdere proprio la cosa per cui hai tradito Durzo». «E di cosa si tratta, o saggio?». Gli rivolse un sorriso da serpente. «Controllo». Il tono di Kylar era piatto, privo di emozioni. «E non provare a suonare la campanella. Ho una balestra da mano, ma non è precisa. Potrei colpire te anziché la corda». «Controllo, è così che lo chiami», disse Momma K, con la schiena dritta come un fuso. La sua non era una domanda. «Sai che gli stupri non avvengono in modo regolare, neanche tra le ragazze che lavorano? Alcune ragazze vengono violentate più e più volte. Ad altre non succede mai. Quelle che vengono violentate sono vittime. I bastardi stupratori in qualche modo lo sanno. Non si tratta di "controllo", Kylar. È dignità. Sai quanta dignità ha una quattordicenne quando il suo magnaccia non la protegge? Quando avevo quattordici anni, sono stata portata in casa di un nobile che, con dieci suoi amici, si è divertito con me per quindici ore. Dopo, ho dovuto fare una scelta, Kylar, e ho scelto la dignità. Perciò, se pensi che darmi un veleno che mi strazi mi farà implorare, ti sbagli di grosso». Kylar non era colpito. «Perché ci hai traditi?».


L'aria di sfida di Momma K lentamente svanì, mentre Kylar rimaneva seduto con la pazienza di un sicario. Non gli rispose per un minuto, cinque minuti. Lui sedeva con tutta la pazienza della Morte. Presto, lo sapeva, lei avrebbe cominciato a sentirsi male. «Io amavo Durzo», disse. Kylar sbatté le palpebre. «Tu cosa?» «Ho dormito con centinaia di uomini sposati nella mia vita, Kylar, quindi non ho mai avuto un quadro lusinghiero del matrimonio. Ma, se me lo avesse chiesto, avrei sposato Durzo Blint. Durzo è... era, suppongo che tu l'abbia ucciso. Sì, penso di sì. Durzo era un brav'uomo, a suo modo. Un uomo onesto». Le sue labbra furono percorse da un fremito. «Non sapevo come trattare l'onestà. Mi diceva troppe sgradevoli verità su me stessa, e quell'essere duro e oscuro che vive in me non riusciva a sopportare la luce». Si mise a ridere. Fu un suono amaro e spiacevole. «E poi, non ha mai smesso di amare Vonda, una donna del tutto indegna di lui». Kylar scosse la testa. «Quindi hai pensato di ucciderlo? E se mi avesse ucciso lui?» «Ti amava come un figlio. Quando vincolasti il ka'kari, me lo disse. Una vita per una vita, annunciò. L’”economia divina", così l'ha chiamata. Seppe allora che sarebbe morto per te, Kylar. Oh, qualche volta ha combattuto contro questa cosa, ma Durzo non è mai stato privo di scrupoli come voleva credere. E poi, con la morte di Vonda era cambiato. Lo avevo avvertito, Kylar. Era una ragazza deliziosa e sconsiderata. Il tipo di donna nata senza un cuore, perciò non poteva pensare di spezzarne uno altrui. Durzo era eccitante per lei, ma nulla di più della sua ribellione. Vonda morì prima che Durzo potesse vedere dentro di lei, perciò fu sempre perfetta ai suoi occhi. Lei fu per sempre una santa e io una birra già bevuta». «Non l'amava», disse Kylar. «Oh, io lo sapevo. Ma Durzo no. Era unico per tanti aspetti, ma pensava che eccitarsi e scopare fosse uguale all'amore, proprio come ogni altro uomo». All'improvviso, si piegò in preda agli spasmi. Kylar scosse la testa. «Mi disse che stava cercando di ingelosirti, di farti provare quello che provava lui quando andavi con gli altri.


Quando Vonda morì, Durzo pensò che non l'avresti mai perdonato. Gwinvere, lui amava te». Momma K sbuffò incredula. «Perché avrebbe detto una cosa simile? No, Kylar. Durzo stava per lasciare che sua figlia morisse». «È per questo che lo hai tradito?» «Non potevo permettere che morisse, Kylar. Non capisci? Uly è figlia di Durzo, ma non è mia nipote». «Allora chi è sua m... No». «Non potevo tenerla. Lo sapevo. Ho sempre odiato prendere l'infuso di tanaceto ma, quella volta, non ce l'ho fatta. Sedevo con la tazza che mi si raffreddava tra le mani, dicendomi che sarebbe successa una cosa del genere... eppure non riuscii a bere. Uno Shinga con una figlia, poteva esserci un bersaglio più perfetto? Chiunque avrebbe conosciuto la mia debolezza. Peggio ancora, chiunque mi avrebbe vista come una donna qualsiasi. Non avrei potuto conservare il mio potere se ciò fosse accaduto. Così, lasciai la città, la partorii in segreto e la nascosi. Ma come poteva lui lasciar morire Uly, pur pensando fosse di Vonda? Come poteva? Roth lo ha minacciato, ma Durzo gli ha chiesto una dimostrazione. Tu non conosci Roth. L'avrebbe fatto. L'unico modo che avevo per salvare Uly era che morisse prima Durzo. Se Durzo fosse morto, Roth non avrebbe potuto dare corso alla sua minaccia. Ho dovuto scegliere tra l'uomo che avevo amato per quindici anni e mia figlia, Kylar. Così, ho scelto mia figlia. Durzo voleva morire comunque, e adesso anche io. Non puoi prenderti niente da me che non darei via volentieri». «Durzo non ha chiesto nessuna dimostrazione». Momma K sembrò non aver afferrato. «Uh-uh», disse, scuotendo la testa. Kylar poteva vedere il castello di supposizioni, che lei aveva eretto, crollare mattone dopo mattone. Un Durzo che si lasciava ricattare era un Durzo che teneva a una figlia che non aveva mai visto. Un Durzo che poteva fare ciò era un Durzo in grado di amare. Lei si era indurita nei suoi confronti perché pensava che a lui non importasse, e non potesse importargli. Così, per quindici anni, aveva nascosto il suo amore per un uomo che nascondeva il suo amore per lei. Ciò significava che aveva tradito l'uomo che l'amava. Nel mettere Kylar contro Durzo, aveva ucciso l'uomo che l'amava. «Uh-uh. Uh-uh. No».


«Il suo desiderio in punto di morte è stato che io la salvi. Ha detto che tu sai dove si trova». «Oh, per gli dei». Le parole uscirono a stento, un suono strozzato. Un altro spasmo la attraversò e lei sembrò accogliere il dolore. Desiderava morire. «La salverò, Momma K. Ma devi dirmi dov'è». «È nella Fauce. Nelle celle dei nobili, con Elene». «Con Elene?». Kylar si tirò su di scatto. «Devo tornare indietro». Andò alla porta, poi si girò ed estrasse Retribution. Momma K aveva uno sguardo vacuo, stava ancora assimilando le sue parole. «Mi chiedevo perché Durzo la chiamasse "Retribution", e non "Giustizia"», disse Kylar. Sfilò il ka'kari dalla spada e scoprì la parola MISERICORDIA sull'acciaio sottostante. «Oppure, se è questo che c'era scritto sotto a "GIUSTIZIA", perché non chiamarla "MISERICORDIA"? Ma adesso lo so. Sei stata tu a mostrarmelo, Momma K. A volte le persone non dovrebbero avere ciò che meritano. Se al mondo non c'è qualcosa in più della giustizia, tutto è inutile». Infilò la mano nella sua sacca e ne tirò fuori una minuscola fiala di antidoto. La posò sulla scrivania di Momma K. «Questa è la misericordia. Ma sarai tu a decidere se accettarla o meno. Hai mezz'ora». Aprì la porta. «Spero che l'accetterai, Momma K», disse Kylar. «Mi mancheresti». «Kylar», lo chiamò quando arrivò alla porta. «Davvero... davvero ha detto che mi amava?». La bocca della donna era ferma, il viso tirato, gli occhi duri, ma le lacrime le rotolavano giù per le guance. Era l'unica volta in cui l'aveva mai vista piangere. Kylar annuì dolcemente e andò via, lasciandola china, sprofondata tra i cuscini della sua poltrona, con le guance bagnate e gli occhi tristemente fissi sulla bottiglietta della vita.


Capitolo 62 Kylar si affrettò alla volta del castello. Per quanto corresse, poteva essere troppo tardi. Gli effetti del colpo di Stato si cominciavano a vedere in tutta la città. Gli scagnozzi del Sa'kagé erano stati tra i primi a scoprirne le conseguenze pratiche: senza nessuno a cui fare rapporto e nessuno a pagarle, le guardie cittadine non lavoravano. Niente guardie, niente legge. Le guardie corrotte che avevano lavorato per anni al servizio del Sa'kagé furono le prime a darsi ai saccheggi. Dopo di che, le razzie si diffusero come una peste. Gli Highlander e i meister khalidorani furono collocati sul Vanden Bridge e sulla sponda orientale del Plith, per far sì che le depredazioni rimanessero confinate ai Cunicoli. A quanto pareva, i capi dell'invasione khalidorana volevano la città intatta o, per lo meno, volevano tenere per loro i saccheggi più redditizi. Kylar uccise due uomini che stavano per ammazzare una donna ma, peraltro, non prestò alcuna attenzione ai predoni. Si ammantò di tenebre e attraversò furtivo il fiume, evitando i meister che avrebbero dovuto essere quelli più attenti. Arrivato sul lato orientale, rubò un cavallo. Stava pensando agli Angeli della Notte. Blint aveva parlato di loro per anni, ma Kylar non gli aveva mai prestato orecchio. Li aveva sempre considerati semplicemente un'altra superstizione, un ultimo residuo di divinità vecchie e sepolte. Poi, Kylar pensò a come avrebbe reagito Elene se lui l'avesse salvata. La sola idea lo fece star male. Lei era in carcere a causa sua. Riteneva che lui avesse ucciso il principe. Lo odiava. Kylar cercò di pensare a come avrebbe ucciso Roth - un uomo sorvegliato da meister, Highlander khalidorani e scagnozzi del Sa'kagé. Ciò non faceva sentire Kylar affatto meglio. Più pensava, peggio si sentiva. Non sapeva neanche se i meister potessero vederlo quando si nascondeva nell'ombra, ma l'unico modo in cui poteva scoprirlo aveva serie controindicazioni. Alla fine, aveva usato la testa e aveva dato uno sguardo allo specchio, per vedere se il ka'kari fosse efficace come pensava. Ne era stato sorpreso. I sicari si vantavano di essere fantasmi, di essere invisibili, ma non erano che millanterie. Nessuno era invisibile.


L'unico altro sicario che Kylar aveva visto diventare più o meno invisibile sembrava un grosso grumo di qualcosa di indefinito. Blint appariva come una macchia di oscurità screziata alta quasi due metri... il che andava bene quando la luce era scarsa. E quando Blint doveva rimanere immobile, diventava l'ombra di un'ombra. Ma Kylar era invisibile. Tutti i sicari diventavano più visibili quando si muovevano. Quando Kylar lo faceva, nell'aria non si verificava che una piccola distorsione. L'aver trascorso così tanto tempo a imparare a nascondersi senza il suo Talento quasi lo irritò. Gli sembrò uno sforzo inutile. Poi, pensò di dover passare inosservato davanti agli stregoni. Forse lo sforzo non era stato del tutto vano. Percorse Sidlin Way fino a Horak Road, dopo girò attorno alla tenuta dei Jadwin, lasciando il cavallo e coprendosi con il ka'kari. Il sole stava tramontando quando arrivò all'East Kingsbridge. Come si era aspettato, il servizio di sicurezza era scoraggiante. Una ventina di regolari khalidorani stazionavano davanti al cancello. Due meister facevano su e giù. Altri due parlavano dall'altro lato del cancello. Almeno quattro battelli pattugliavano l'isola di Vos, circumnavigandola di continuo. Era un bene che Kylar non stesse pensando di entrare nel castello. Era un bene che avesse con sé un piccolo arsenale. Muovendosi furtivo di roccia in roccia, di albero in cespuglio, Kylar si avvicinò al ponte. Staccò la pesante balestra dallo zaino. Odiava le balestre. Erano ingombranti, lente e potevano essere usate da qualsiasi idiota in grado di prendere la mira. Inserì la speciale freccia, controllò la bobina di seta e si puntellò contro il fianco del ponte. Cos'è che soleva dirgli Blint? Che doveva esercitarsi di più con le armi che non gli piacevano? Aggrottando le sopracciglia, Kylar prese la mira. Grazie al rivestimento di ferro delle assi del ponte, il suo bersaglio era minuscolo. Avrebbe dovuto colpire l'ultimo palo sopra il rivestimento di ferro, dove il legno era scoperto; un bersaglio largo circa dieci centimetri e lontano quaranta passi, con una leggera brezza. La precisione della balestra a quella distanza era entro i cinque centimetri. Così ne aveva altrettanti di margine. Se avesse sbagliato, doveva fare in modo di sbagliare bene. Su o giù e la freccia avrebbe colpito il ferro - e il suono avrebbe svegliato i morti. A destra e la freccia sarebbe volata oltre il ponte,


e colpendo le rocce del castello sarebbe probabilmente andata a finire nel fiume. Kylar odiava le balestre. Aspettò fino a che il battello fosse esattamente sotto al ponte. Se avesse fatto partire il colpo - quando l'avesse fatto -, avrebbe tratto vantaggio dal fatto che gli uomini passassero dalla luminosità del sole che tramontava all'ombra del castello. La loro visuale non sarebbe stata buona. Trasse un mezzo respiro e tirò senza sforzo, arrivando al punto di rilascio fino a che il gancio cedette. La freccia partì dalla balestra, con un lieve sibilo della spoletta, e volò una decina di centimetri a destra dell'ultimo palo. Kylar afferrò la corda ancora raggomitolata mentre si tendeva. La freccia si arrestò a meno di un metro dalle mura del castello e Kylar si mise a tirare più veloce che poteva. La corda ricadde su una delle travi maestre a destra del punto in cui aveva mirato, e tornò oscillando verso i pali. Kylar la trascinò più velocemente che poté, ma la freccia non fece presa sul rivestimento di ferro. I ganci della freccia si artigliarono e Kylar tese la corda, al livello della parte inferiore del ponte. Un meister si avvicinò al bordo del ponte, tenendosi nervosamente alla ringhiera. Guardò giù e vide il battello passare sotto. «Ehi!», chiamò. «Attenti!». Un battelliere armato alzò gli occhi, socchiudendoli una volta in ombra. «Giusto, pezzo di...». Si rimangiò le parole quando si accorse di essersi rivolto ad un meister. Il meister scomparve e il battelliere cominciò a incitare i suoi rematori. Sia il battelliere che lo stregone pensavano che fosse stato l'altro a produrre quel suono. Senza fermarsi a pensare quanto fosse stato fortunato, Kylar assicurò il capo della corda e nascose la balestra. L'imbarcazione successiva era ancora abbastanza lontana. Scavalcò la fune, si accostò allo strapiombo sul fiume e si lasciò cadere nel vuoto. Per un lungo momento, pensò che sarebbe morto mentre la corda di seta scendeva verso il fiume. Si è staccata! Ma rimase aggrappato e la corda finalmente accettò il suo peso. Attraversò il baratro quasi a testa in giù, tirandosi con le mani e tenendo le gambe intrecciate sulla corda. L'abbassamento della corda significava che, giunto a metà del suo percorso, avrebbe dovuto


procedere lateralmente e verso l'alto. Invece di insistere, Kylar si issò fino al penultimo palo. Guardò il rivestimento di ferro. Era intaccato dal tempo e dalle intemperie. Era anche verticale; non esattamente la miglior superficie per arrampicarsi. Non c'era di meglio. Kylar doveva staccarsi dalla corda prima dell'arrivo del secondo battello. Era invisibile, ma la corda non lo era. Si slanciò fino al palo... e cadde. Impattò contro il rivestimento di ferro, ma il diametro era troppo ampio perché riuscisse a cingerlo con le braccia. La superficie liscia del palo non forniva abbastanza frizione per frenare la sua discesa, tuttavia fu abbastanza per lacerargli l'interno delle braccia e delle cosce. Colpì l'acqua abbastanza lentamente da non fare quasi rumore. Tornò ad arrampicarsi e si tenne aggrappato mentre la seconda imbarcazione passava. Con tutte le armi che aveva addosso non poteva nuotare ma, quando si staccò dal palo, cadde abbastanza vicino alla riva da poter camminare sul fondo del fiume, e tirarsi fuori dall'acqua prima di annegare. Si diresse a nord, lungo lo stesso percorso che aveva seguito la notte precedente. Kylar era contento che Blint fosse morto. Il sicario non gli avrebbe mai permesso di cadere così in basso. Tra il colpo mancato e gli indubbiamente imbarazzanti tagli che aveva all'interno delle cosce, Blint lo avrebbe deriso per un decennio. Kylar se lo immaginava. "Ti ricordi di quella volta che cercasti di scoparti il ponte?". Trovò un trespolo all'interno della rimessa per le barche e pulì le sue armi. Doveva dare per scontato che tutti i suoi veleni si fossero disciolti nell'acqua, per la seconda volta di seguito. Si strizzò i vestiti ma non perse tempo ad aspettare che si asciugassero. Ora che era lì, voleva entrare e uscire, alla svelta. Si guardò intorno nella rimessa. Non era sorvegliata. Evidentemente i Khalidorani pensavano che le loro pattuglie fossero sufficienti. Due uomini sorvegliavano la lunga rampa che portava alla Fauce. Erano tesi, ovviamente a disagio per quell'incarico. Kylar non li biasimava. Tra la puzza, le periodiche urla e gli occasionali brontolii della terra, neanche lui sarebbe stato a suo agio.


Retribution si abbatté a destra e sinistra e gli uomini morirono. Trascinò i corpi nella sterpaglia e prese loro le chiavi della porta. L'ingresso della Fauce era fatto per terrorizzare gli uomini e le donne che vi venivano imprigionati. Nell'aprire il cancello, Kylar vide che la rampa discendente sembrava davvero una lingua che terminava in una gola gigantesca. Nella nera roccia vulcanica erano scolpiti grossi denti ricurvi, e due torce erano schermate da vetro rosso in modo che sembrassero un paio di demoniaci occhi guizzanti. Carino. Kylar ignorò ogni cosa, tranne i suoni prodotti dagli uomini. Scivolò giù per la lingua e girò in un corridoio che portava alle celle dei nobili. Tramite gli amici di Durzo, si era fatto un'idea approssimativa del luogo ma, senz'altro, non aveva mai provato il desiderio di vederlo. Trovò la cella che cercava, controllò che non ci fossero trappole e attese un momento nel corridoio, in ascolto. Era una follia, aveva paura di aprire la porta. Aveva più paura di affrontare Elene e Uly di quanto non ne avesse avuta a sgattaiolare davanti agli stregoni e a lottare contro il Sa'kagé. Per gli dei! Era lì per salvare Elene e aveva paura di quello che lei avrebbe detto. Ridicolo. O forse, di quello che non avrebbe detto, solo del modo in cui lo avrebbe guardato. Kylar aveva dato tutto per lei! Ma lei non lo sapeva. Tutto ciò che poteva sapere era che si trovava in prigione, pur non avendo fatto niente. Be', la situazione non sarebbe certo migliorata aspettando. Kylar scassinò la serratura, si liberò della copertura del ka'kari e si tirò sul viso la maschera nera. La piccola cella era occupata da un pagliericcio e da una graziosa monella seduta in grembo a Elene. Kylar a stento si accorse della bambina. I suoi occhi erano incollati su Elene. Lei lo guardò a sua volta, perplessa. Il suo viso era una maschera - letteralmente, più di quanto a Kylar sarebbe piaciuto, visto che entrambi i suoi occhi erano tumefatti per i colpi che le aveva inferto. Elene sembrava un procione sfregiato. Se non fosse stata colpa sua e si fosse trattato di un'altra persona, Kylar avrebbe ridacchiato. «Papà!», gridò la bambina. Schizzò via dalle braccia di Elene. Continuando a guardare Kylar, la ragazza quasi non se ne accorse.


Uly gli gettò le braccia attorno e lo strinse. «La mamma diceva che saresti venuto! Ha giurato che ci avresti salvate. È con te?». Strappando lo sguardo da Elene, i cui occhi si erano ridotti a una fessura, Kylar cercò di sciogliersi dall'abbraccio della bambina. «Uh, tu devi essere Uly», disse. Mamma? Intendeva Momma K o la sua tata? Avrebbe sistemato quella faccenda del "papà" in seguito. Cosa avrebbe detto? "Mi dispiace, ma tua madre è probabilmente morta e io sono quello che la voleva uccidere, ma ho cambiato idea e le ho dato l'antidoto, perciò non è colpa mia se è morta. Ho anche ucciso tuo padre la notte scorsa. Sono un suo amico. Mi dispiace". Si piegò così che lei potesse guardarlo negli occhi. «Tua madre non è con me, Uly. Ma io sono qui per salvarti. Sai essere davvero silenziosa?» «Silenziosa come un topo», disse lei. La bambina non aveva paura. O non aveva idea della situazione o Elene aveva fatto un lavoro del diavolo per calmare le sue paure. «Ciao, Elene», disse Kylar, rialzandosi. «Ciao, chiunque tu sia». «Si chiama Durzo, ma noi possiamo chiamarlo Zoey», disse Uly. Kylar le fece l'occhiolino, felice dell'intromissione. Anche se i bambini erano generalmente insopportabili, Uly aveva evitato una conversazione che lui non aveva interesse ad avere, soprattutto non in quel momento né in quel posto. Elene guardò Uly e poi lanciò uno sguardo interrogativo a Kylar. «È tua?». Kylar scosse la testa. «Vieni?». Lei aggrottò le sopracciglia. Lui lo prese per un sì. «Seguimi», disse a Uly. «Silenziosa come un topo, giusto?». Meglio darsi una mossa, e in fretta. Le faccende sentimentali ingarbugliate potevano aspettare. Lo seguirono mentre si avviava, visibile e nervoso, lungo la rampa. Elene camminava tenendo Uly per mano, e si fermò quando Kylar andò avanti. Giunti ai denti di roccia, Elene strinse Uly a sé e cominciò a parlarle in tono tranquillizzante. Kylar risalì la rampa e schiuse leggermente la porta, che tremò quando tre frecce si conficcarono nel legno. «Merda!», esclamò Kylar.


Era stato troppo facile. Avrebbe dovuto saperlo. Aveva contato sulla confusione per seminare tutti. Nel richiudere la porta, il ragazzo spezzò la chiave nella serratura. Che i bastardi la buttino giù. «Torniamo nella galleria!», disse, costringendo Elene a correre. «Voi non mi vedrete, ma io sarò qui. Vi proteggerò. Ascoltate la mia voce», disse, mentre il liquido nero del ka'kari ribolliva dai suoi pori. Se Elene si era spaventata nel vederlo scomparire davanti ai propri occhi, non lo diede a vedere. Affrettò il passo, tirandosi dietro Uly. «Devo correre?», chiese all'aria. «Basta che cammini in fretta», rispose Kylar. Il cancello che conduceva ai sotterranei del castello era incustodito. Grazie agli dei. Forse il caos dell'invasione gli sarebbe stato d'aiuto. Forse una pattuglia là fuori si era appena imbattuta nei cadaveri. Kylar chiuse il cancello e ruppe anche questa chiave. Si arrampicarono lentamente su per una scala ed emersero in un corridoio di servizio del castello. Dal corridoio, arrivarono velocemente a un'intersezione. Da una parte, dei soldati khalidorani oziavano appoggiati al muro, raccontandosi barzellette. Kylar fermò Elene e andò verso gli uomini. Sentì uno di loro gridare qualcosa a qualcuno che era nella stanza aperta alle loro spalle. Se li avesse uccisi, chiunque si trovava in quella stanza avrebbe lanciato l'allarme. Lui avrebbe potuto farcela, ma non Elene e Uly. Tornò da Elene. «Andate quando ve lo dico», disse. «Adesso». La ragazza si gettò lo scialle sulla testa e attraversò il corridoio, con la schiena curva e lo sguardo a terra, tenendo un piede voltato all'interno e trascinandolo sul pavimento. Sembrava una vecchia decrepita. E nascondeva alla vista gran parte di Uly. Le ci volle parecchio per attraversare quel punto ma, quando uno dei soldati la vide, non disse neanche una parola ai suoi compagni. «Bel trucchetto», disse Kylar, raggiungendola quando ebbe ripreso la sua normale andatura.


«Nel posto in cui sono cresciuta, le ragazze stupide non rimangono vergini», disse Elene. «Sei cresciuta nei quartieri orientali», disse Kylar. «Non è proprio come i Cunicoli laggiù». «Credi che sia più sicuro lavorare tra nobili pervertiti?» «Dove stiamo andando?», domandò Uly. «Shh», fece Kylar, quando arrivarono nei pressi di un'altra intersezione. Il corridoio che avevano seguito portava alle cucine. Dalle voci rauche che si sentivano, tuttavia, non era quello il posto in cui portare Elene e Uly. La porta sulla destra era chiusa e il vestibolo a sinistra sgombro. Kylar tirò fuori gli strumenti da scasso, correndo il rischio che qualcuno uscisse dalle cucine. Non gli piaceva l'idea di seguire la strada più facile. La serratura cedette in fretta, ma qualcosa di pesante era stato messo dall'altro lato della porta. Probabilmente un domestico aveva fatto del suo meglio per bloccarla durante il colpo di Stato. «Dove stiamo andando?», chiese nuovamente Uly. Kylar sapeva che quella bambina vivace lo avrebbe irritato; aveva solo sperato di resistere di più. Lasciò che fosse Elene a zittirla stavolta. Con il suo Talento, gli sarebbe bastato un calcio per liberare la porta da ciò che la bloccava, ma il rumore avrebbe fatto accorrere chi era nelle cucine, e Kylar sentiva tutto il pericolo di quella situazione. Non voleva lasciare Elene e Uly lì mentre lui se ne andava in ricognizione. «A sinistra», sussurrò. Quel corridoio girava e conduceva a diverse rampe di scale. Kylar sentì il tintinnio delle cotte di maglia e il tramestio degli stivali chiodati alle loro spalle. «Svelte!», disse. Gli uomini dietro di loro camminavano a passo lento, dunque non stavano dando la caccia a prigionieri in fuga, ma semplicemente rispondendo agli ordini. Kylar ridiscese sulle scale e riuscì a scorgere almeno una ventina di uomini. Corse per raggiungere Elene e Uly. Stavano passando davanti a delle porte e, incurante di chi potesse sentire, Kylar cominciò a provare tutte le serrature. Erano chiuse a chiave.


«Perché stiamo andando nella sala del trono?», domandò Uly. Kylar si fermò. Elene guardò Uly, sinceramente sorpresa. «Cosa?», chiese Kylar. «Perché stiamo andando...». «Come fai a sapere dove stiamo andando?», chiese Kylar. «Io vivo qui. La mamma è una domestica. La nostra stanza è proprio...». «Uly, conosci una strada per uscire? Una strada che non passi dalla sala del trono? Presto!». «Non mi è permesso venire quassù», disse la bambina. «Mi caccio nei guai». «Dannazione!», esclamò Kylar. «Conosci un modo per uscire o no?!». Lei scosse la testa, spaventata. Così sarebbe stato troppo facile, vero? «Ci sai fare con i bambini, eh?», disse Elene. Toccò la guancia di Uly e si accovacciò per guardarla in viso. «Sei mai salita quassù, Uly?», le chiese Elene dolcemente. «Non ci arrabbieremo se lo hai fatto, te lo prometto». Ma Uly era troppo spaventata per dire qualsiasi cosa. Il rumore dei passi si avvicinava. «Muovetevi!», disse Kylar, afferrando la mano di Elene perché corresse, e facendole trascinare con sé la monella. Non gli piaceva quella situazione. Era troppo lineare. Troppo comodo che ci fosse solo una strada. Una strada. Ecco! Non c'è mai una sola strada nel castello. Kylar esaminò a fondo le pareti e il soffitto mentre correvano. Non cercò neanche di forzare le porte al loro passaggio. Svoltarono un altro angolo. Kylar si fermò slittando. Con un luccichio diffuso, tornò a essere visibile. «Elene, vedi quel terzo pannello?». Puntò il dito verso l'alto. «No», rispose lei. «Ma cosa devo fare?» «Spingilo in avanti. Ti sollevo io. Ci sono dei passaggi segreti in tutto il castello. Trova il modo per uscire. Forse Uly può aiutarti». Elene fece di sì con la testa e Kylar si puntellò contro la parete.


La ragazza si tirò su la gonna e gli salì sulle cosce. Si accigliò quando si rese conto che lui avrebbe tenuto la testa sotto la sua gonna, ma non esitò a salirgli sulle spalle e infine sulle mani. Si appoggiò alla parete per trovare l'equilibrio. Poi Kylar si mise ben dritto e allungò in alto le braccia, sollevandola in aria. Elene spinse il pannello, aprendolo, e scivolò nello spazio ristretto. Si era già rigirata quando Kylar sollevò Uly. «Riesci a prenderla?», le chiese. «È meglio che ci riesca», rispose lei. Il rumore dei passi era vicinissimo ormai. Kylar lanciò Uly in aria senza fatica. Dannazione, ma il Talento è utile. Elene la afferrò e scivolò in avanti, al punto che le sue spalle arrivarono a sporgere nel vuoto. Poi, riuscì a bloccarsi contro qualcosa all'interno del passaggio e si fermò. Sbuffando, e con Uly che si dimenava, riuscì a tirare la bambina su con sé. «Oh, ma io ci sono stata qui», disse Uly. Kylar tirò fuori un pugnale e lo lanciò a Elene. Lei lo prese. «Cosa dovrei farmene?» «A parte le cose ovvie?», disse lui. «Grazie. Ora vieni. C'è spazio, svelto». Kylar non si mosse. Dorian aveva detto: «Se fai la cosa giusta due volte, ti costerà la vita». Blint aveva detto: «Ci sono cose che valgono più della vita». Il conte aveva detto: «Non puoi pagare per tutto quello che hai fatto. Ma non è tardi per la redenzione. C'è sempre una via d'uscita. E, se sei disposto a fare il sacrificio, Dio ti darà l'opportunità di salvare qualcosa di inestimabile» . Guardò Elene. Qualcosa di davvero inestimabile. Le sorrise. Lei lo guardò a sua volta come se fosse impazzito. «Kylar, presto!». «È una trappola, Elene. Se non mi trovano qui, cercheranno nei passaggi segreti. Non posso proteggervi lì, sono troppo stretti. Esci dal castello e va' da Jarl, al Blue Boar. Vi aiuterà». «Ti uccideranno, Kylar. Se è una trappola, non puoi...». «Ho guardato», la interruppe. Fece un sorrisetto. «E hai delle gambe fantastiche».


Le strizzò l'occhio e scomparve.


Capitolo 63 Il vurdmeister Neph Dada maledisse Roth per la centesima volta quel giorno. Servire un erede del Re Divino era ritenuto un onore. Come tutti gli onori del Re Divino, anche questo era gravato da condizioni. Se un erede falliva il suo uurdhtan, il suo vurdmeister veniva punito con lui. Ed era richiesta obbedienza. Obbedienza totale, tranne nelle cose che potessero non essere gradite al Re Divino. Motivo per cui Neph stava imprecando. Non stava esattamente disobbedendo a Roth, ma disfaceva qualcosa che il principe aveva iniziato. Qualcosa, in realtà, che Roth credeva di aver portato a termine. Qualcosa che, perché si interrompesse, richiedeva tutte le capacità di Neph. Misericordiosamente, Roth era stato troppo impegnato ad accaparrarsi castello e città per chiedersi dove fosse il suo vurdmeister. Per di più, ora aveva sessanta meister da comandare, tre dei quali vurdmeister potenti quanto Neph. Se Roth avesse mandato degli uomini a cercarlo, la piccola stanza della servitù che Neph aveva requisito era abbastanza isolata perché non fossero mai in grado di trovarlo. Il suo lavoro - il suo meschino inganno, la sua ribellione e il rischio che correva per il favore del Re Divino - giaceva sul letto. Era una bellissima ragazza - non che al Re Divino servisse un'altra bellissima ragazza, ma quella aveva vigore. Fiera, intelligente e, meglio di ogni cosa, era una sposa vedova e vergine, e una principessa. Jenine Gyre era senz'altro un gioiello. Un gioiello per impreziosire l'harem del Re Divino. Un gioiello che Neph aveva strappato alle fauci della Morte. Ogni vurdmeister vecchio quanto lui conosceva volumi interi su come preservare la vita, naturalmente. Era nel loro stesso interesse, con l'avanzare dell'età. Ma io sono un genio. Un genio. Il suo piano si era concretizzato quando Roth si era messo a farneticare, quando parole senza senso erano scaturite da quel ragazzo come un attacco di diarrea. Come al solito. Il taglio che le aveva fatto era stato fortunato. Solo un lato del collo, non così profondo da incidere la trachea. Neph l'aveva lasciata sanguinare fino a farle perdere le forze, poi le aveva sfregato un piccolo


tentacolo magico sul diaframma, per spingerle l'aria fuori dai polmoni, altri due per chiuderle gli occhi, un quarto per sanarle la ferita sul collo; infine aveva fatto piccoli movimenti per distogliere l'attenzione dal suo corpo, così che nessuno si accorgesse che respirava ancora, e la ragazza era stata sua. Aveva ucciso sette servette per trovare il sangue adatto a lei. Un lavoro sciatto. Avrebbe dovuto fare di meglio, ma era bastato. Aveva deciso di lasciarle la cicatrice. Dava alla principessa un certo non so che. E, come tocco finale, aveva trovato una ragazza in città che le somigliava e aveva fatto impalare la sua testa sulla porta orientale, insieme al resto della famiglia reale. Trovato l'esatto colore di capelli e riprodotta un'acconciatura, occorreva solo percuotere a sufficienza una faccia per far sì che sembrasse la testa di chiunque. Eppure, pensava, aveva fatto un lavoro con i fiocchi, anche se molto faticoso. L'indomani mattina, il Re Divino sarebbe arrivato e avrebbe riservato a Roth Ursuul o una punizione o un premio. In entrambi i casi, Neph avrebbe avuto successo. Stava per uscire dalla stanza, ma si bloccò. All'esterno c'era qualcosa di strano. Andò alla finestra, aprì le persiane di legno niente vetri nelle stanze della servitù - e vi guardò attraverso, in direzione dello spaventoso giardino delle statue cenariano. I meister avevano stabilito lì la propria base, ritenendolo un centro di potere. Il vurdmeister Goroel aveva sempre provato gusto nel dileggiare gli dei dei paesi conquistati e i re morti. Era tutta scena il fatto di non volersi sistemare nelle stanze del castello, ma quando i meister andavano in guerra, a Goroel piaceva far vedere al Re Divino che loro si arrangiavano. Insopportabile. Un uomo si arrampicò su una delle statue. Neph non riusciva a vedere chiaramente i suoi lineamenti, ma non era certamente un Khalidorano. Un Sethi? Cosa ci fa un Sethi in cima a una statua nel bel mezzo di una guerra? Un fabbro gigantesco con i capelli biondi stava sotto di lui e si guardava nervosamente intorno. Neph scosse la testa. Il vurdmeister Goroel non avrebbe preso bene un tale affronto. «Stregoni del Re Divino!», gridò l'uomo, con la voce che rimbombava, amplificata una decina di volte dalla magia. Un mago? «Stregoni del falso Re Divino, ascoltatemi! Venite a me! Questo giorno, su questa roccia, voi sarete fatti a pezzi. Venite e lasciate


che la vostra arroganza trovi la sua ricompensa!». Non avesse pronunciato un'eresia, gli stregoni avrebbero lasciato che il vurdmeister Goroel si occupasse di lui, ma l'eresia andava fermata. Doveva essere fermata. All'istante. Più di trenta meister fecero ricorso al proprio vir. I sensi magici di Neph esplosero. Barcollò contro la parete e si accasciò. Sembrava che un migliaio di demoni gli stessero gridando contemporaneamente in ciascun orecchio. La magia, simile a un fuoco - come un altro sole -, esplose in tutto il castello. Neph sentì fremere e ardere il proprio vir, mentre la magia lo pervadeva. Non teneva il vir legato e quella fu sicuramente la cosa che lo salvò. Il potere che si riversava sul castello era più magico di quanto potesse mai immaginare. C'era più magia di quanta lo stesso Re Divino potesse esercitarne. Particelle di magia saltarono in alto per unirsi a quel fuoco. I meister, poteva immaginare Neph. I meister che non avevano ancora stretto il vir, lo afferrarono. Tanto valeva che le mosche cercassero di spegnere un incendio con il battito delle proprie ali. La magia li trovò, li avvolse e li bruciò riducendoli in cumuli di cenere. Neph sentiva i tentacoli del loro potere spezzarsi esplodere uno a uno. La conflagrazione aveva avuto luogo nel giardino, in quel bizzarro giardino di statue. Neph doveva rimanere lì e vivere? Aveva il coraggio di fronteggiare quel fuoco? Cosa avrebbe fatto quel titano di un mago se Neph avesse osato affrontarlo? Cosa gli avrebbe fatto il Re Divino se non lo avesse fatto? Uno strano e isolato pensiero colse Kylar quando, aperta l'ultima porta, si avviò verso la sala del trono. Ecco perché le guardie fuori dalla Fauce erano nervose - erano esche. Ora lo sono anch'io. Il suo pensiero successivo fu il credo di Durzo: la vita è vuota. Era un credo che lo stesso Durzo aveva tradito, un credo vuoto. Non salvava la vita né la rendeva migliore. Per un sicario, rendeva la vita più sicura perché annullava la coscienza. O ci provava. Durzo aveva cercato di vivere secondo quel credo e si era scoperto troppo nobile per farlo. Kylar si chiese cosa lo avesse portato a quel punto. Era pronto a morire. Era per orgoglio, che pensava di poter contrastare le avversità? Era perché lo doveva a Durzo, che pensava di ripagare il


debito della sua vita salvando Uly? Era per vendetta, che odiava così tanto Roth da rischiare la morte per ucciderlo? Era per amore? Amore? Sono uno sciocco. Provava qualcosa per Elene, era vero. Qualcosa di intenso e inebriante e irrazionale. Forse si trattava di amore, ma cosa amava? Elene o l'immagine di lei, colta da lontano e tenuta insieme da supposizioni e congetture? Forse era solo un ultimo residuo di romanticismo ad averlo portato lì, qualche traccia lasciata dai racconti di principi ed eroi che Ulana Drake gli aveva letto. Forse aveva passato troppo tempo con persone che credevano in false virtù quali il valore e il sacrificio, che Durzo aveva cercato di insegnargli a disprezzare. Forse ne era stato contaminato. Ma il motivo per cui era lì non aveva molta importanza. Quella era la cosa giusta da fare. Lui non contava. La sua vita vuota poteva riscattare quella di Elene, e a quel punto avrebbe fatto qualcosa di buono. Sarebbe stata l'unica cosa mai fatta di cui andare fiero. E se dava una possibilità anche a Uly, tanto meglio. Anche lui avrebbe avuto la sua occasione: quella di uccidere Roth. Kylar era andato incontro ad altre battaglie sentendosi sicuro, ma questa volta era diverso. Entrando nel breve corridoio che portava alla sala del trono, Kylar si sentì in pace. Uno strillo acuto lacerò l'aria. Gli uomini che stavano nella sala a guardia della porta serrarono la presa sulle proprie armi. Un allarme magico per avvertirli del mio arrivo, dunque. C'erano Highlander, naturalmente. Se l'aspettava. Ma non se ne aspettava trenta. E c'erano stregoni. Anche quello se lo aspettava. Ma non cinque. Le porte del corridoio nel quale aveva fatto sparire Elene e Uly si spalancarono e gli piovvero addosso altri dieci Highlander. Muovendosi rapidamente, Kylar balzò nella sala del trono al livello del pavimento, sperando di schivare i primi attacchi. La sala era enorme, il trono di avorio e corno spiccava sugli scranni dell'assemblea grazie a due larghe rampe, di sette scalini ciascuna, separate da un pianerottolo. Roth era seduto sul trono, affiancato da due stregoni. Gli altri stavano sul pianerottolo. Gli Highlander erano sparsi lungo tutto il perimetro della sala. Il balzo gli fece superare le spade sibilanti di due Highlander, che tagliavano all'impazzata l'aria davanti alla porta, nella speranza di


essere fortunati e colpire il sicario invisibile. Sguainata Retribution dal suo fodero, Kylar si rimise in piedi. Uno sciame di minuscole mani apparve nell'aria al cantare degli stregoni. Le mani lo cercavano frenetiche. Ribollivano sul pavimento, saltando e artigliandosi l'un l'altra, brancolando alla ricerca di Kylar. Il sicario saltò via, menando fendenti, ma la spada attraversava le mani senza fare alcun danno: non c'era niente da tagliare. Le mani sciamarono addosso a lui e si infittirono, rinvigorite dal canto all'unisono di due stregoni. Poi, Kylar sentì qualcosa afferrarlo. Si sentì come un bambino tra le dita di un gigante. La cosa cercò di dilaniarlo, e Kylar sentì il manto del ka'kari lacerarsi. Non cercò di trattenerlo. Essere parzialmente invisibile non gli sarebbe servito a granché, se non era in grado di muoversi. Be', grandioso. In tutta la storia degli uomini stupidi che si mettono in trappola da soli, questo è probabilmente il risultato più fallimentare. Kylar aveva sperato - diavolo, si era aspettato - di portarsi dietro almeno qualche guardia. Forse uno stregone. Due sarebbe stato carino. Durzo avrebbe scosso la testa disgustato. «Sapevo che saresti venuto, Blint», gracchiò Roth dal trono. Balzò in piedi e fece un cenno agli stregoni. Kylar venne sollevato in aria e sparato in avanti, trasportato magicamente su per le scale e deposto ai piedi del trono. Blint? Per gli dei. Ho fatto scattare una trappola che non era neanche riservata a me. Le dita magiche strapparono via la maschera di Kylar. «Kylar?», fece Roth stupefatto. Scoppiò a ridere. «Mio principe, attento», disse uno stregone dai capelli rossi, a destra di Roth. «Ha il ka'kari». Roth batté le mani e rise di nuovo, come se non credesse alla propria fortuna. «E giusto in tempo! Oh, Kylar, se io fossi un altro uomo, quasi quasi ti lascerei vivere». La replica arguta si seccò sulla lingua di Kylar, dopo che il sicario ebbe guardato negli occhi di Roth. Se la maggior parte delle sue vittime aveva qualche goccia di tenebre nell'anima, Roth aveva un fiume, sconfinato e tetro, una fragorosa e dilaniarne oscurità dalla


voce tonante. Ecco un uomo che odiava tutto ciò che era amabile. «Capitano», disse Roth. «Dove sono la bambina e la sgualdrina sfregiata?». Uno degli uomini entrati dopo Kylar disse: «Le abbiamo perse, Vostra Maestà». «Sono deluso, capitano», disse Roth, ma la sua voce era esultante. «Ritrovatele». «Sì, Vostra Altezza», disse il soldato. Si prese i suoi dieci Highlander e tornò nel corridoio. Roth si rivolse a Kylar. «Ora», disse. «Basta. Kylar, sai da quanto tempo ti cerco?». Kylar sbatté le palpebre e si smascherò completamente, estraniando in qualche modo i propri sensi dalla malvagità dell'uomo che aveva davanti. Si costrinse a parlare con nonchalance. «Da quando sono l'uomo che ti ucciderà, direi... oh, da quando ti sei guardato per la prima volta allo specchio e ti sei reso conto di quanto sei dannatamente brutto». Roth batté le mani. «Che divertente. Sai, Kylar, mi sento come se tu fossi stato la mia ombra per anni, contrastando tutto ciò che ho fatto. Il furto del mio ka'kari mi ha davvero irritato». «Be', tendo a dare fastidio», disse Kylar. Non lo stava veramente ascoltando. Lo aveva contrastato per anni? Roth era pazzo sul serio. Kylar neanche lo conosceva. Ma che farneticasse quanto voleva. Kylar si flette furtivamente contro i legami magici. Erano come d'acciaio. Non si stava mettendo bene. Kylar non aveva un piano. Non aveva neanche l'abbozzo di un piano. Non pensava ne esistesse uno che potesse funzionare, anche se lui fosse stato abbastanza in gamba da idearlo. I soldati khalidorani lo avevano circondato, gli stregoni lo guardavano come avvoltoi, con i loro vir che fremevano debolmente, e Roth sembrava fin troppo compiaciuto di se stesso. «Infatti dai fastidio. Sembra che tu appaia nei momenti meno opportuni». «Proprio come quello sfogo che ti sei preso con i prostituti, eh?» «Oh, personalità. Eccellente. È da ieri che non uccido con tanta soddisfazione qualcuno». «Se tu cadessi sulla tua spada, ne sarebbero tutti contenti».


«Hai avuto la tua occasione per uccidermi, Kylar». Roth alzò le spalle. «Hai fallito. Ma non sapevo che fossi un sicario. Ho saputo il tuo vero nome solo ieri, e prima di pensare alla tua morte ho dovuto guadagnare un regno per mio padre». «Non te ne faccio una colpa». Ho avuto la mia occasione?» «Così clemente nella sconfitta. È stato Durzo a insegnartelo? Kylar non aveva risposte. Era probabilmente stupido, a quel punto, sentirsi infastidito per aver perso una battaglia verbale ma, allora, se Kylar fosse stato più intelligente, non si sarebbe affatto trovato lì. «Devo ammetterlo», continuò Roth. «Non sono rimasto colpito da questa generazione di sicari. L'apprendista di Hu è stata una delusione quanto te. Dico sul serio. Durzo avrebbe ucciso almeno uno dei miei uomini prima di farsi prendere, non credi? Temo che tu non sia che una misera ombra del tuo maestro, Kylar. A proposito, dov'è? Non è da lui lasciare che un suo allievo faccia un lavoro che lo riguarda». «L'ho ucciso la scorsa notte. Perché lavorava per te». Il principe batté le mani di gioia e ridacchiò. «Credo che questa sia la cosa più carina che abbia mai sentito. Mi ha tradito salvandoti, e tu l'hai tradito perché lavorava per me. Oh, Kylar». Roth scese gli scalini per trovarsi faccia a faccia con lui. «Se potessi fidarmi di voi dannati sicari, vi assolderei in un batter d'occhio. Ma siete troppo pericolosi. E, naturalmente, tu hai vincolato il mio ka'kari». Lo stregone di Roth si agitava, evidentemente innervosito dal fatto che il suo capo fosse così vicino a Kylar. Lo stregone deve sapere qualcosa che io non so, pensò Kylar. Non riusciva a muovere un muscolo. Era completamente impotente. Aspetta. Ecco cos'è. Ecco esattamente perché è nervoso. Pensa che il ka'kari sia una minaccia. E se pensa che lo sia, forse lo è. Roth estrasse una bellissima spada da un fodero che teneva sull'anca. «Mi hai deluso». «Come mai?», chiese Kylar, arrovellandosi su come potesse usare il ka'kari. Cosa ne sapeva? Aveva messo in funzione il suo Talento. Gli permetteva di vedere al buio. Lo rendeva invisibile. Veniva fuori dalla sua pelle, e lo nascondeva molto più perfettamente di quanto un sicario riuscisse a fare. Ma come?


«Avevo sperato che fosse divertente», rispose Roth. «Avevo intenzione di dirti quanto mi avessi reso la vita difficile. Ma sei come Blint. Non ti interessa neanche se vivi o se muori». Roth sollevò la spada. «Certo che mi interessa», disse Kylar, mostrandosi impaurito. «Quanto ti ho reso difficile la vita?» «Spiacente, non ti darò questa soddisfazione». Oh, andiamo! «Non per me», insisté Kylar. «Sai che i meister e i soldati di tuo padre andranno a riferirgli tutto ciò che hanno visto e sentito. Perché non raccontare loro tutta la storia?». Era un tentativo maldestro, ma con la sua vita in pericolo, pensare velocemente era più difficile di quanto avesse immaginato. Roth si fermò a riflettere. Era inutile. Il ka'kari ha semplicemente fatto quello che ha fatto. Si è mangiato un coltello la notte scorsa, per gli dei! Non si può dire secondo quale logica abbia funzionato... sempre che ne esista una. Si è trattato di magia. Assorbe. Mangia. Ecco cosa fa! Aveva provato un'enorme scossa di potere dopo che il ka'kari aveva assorbito il coltello. Il Divoratore. Blint lo aveva chiamato il Divoratore. Forse ci era andato vicino. «Spiacente», disse Roth. «Non mi esibisco per nessuno. Neanche per te. È una cosa fra noi due, Azoth». Roth porse la spada allo stregone alla sua sinistra e si lisciò i lunghi capelli dietro le orecchie... Salvo il fatto che non aveva orecchie. L'orecchio sinistro sembrava essersi sciolto. Quello destro era stato tagliato. Azoth era stato spinto in ginocchio in mezzo alla rimessa delle barche. Era stato difficile riuscire a portare Ratto in quel posto buio, ma ce l'aveva fatta. Ora il piede di Ratto era esattamente al centro del cappio che Azoth aveva posato sul pavimento, ma Azoth non riusciva a muoversi. Non riusciva a respirare a fondo. Ratto era a pochi centimetri da lui, terrificante nella sua nudità, mentre impartiva un ordine. Colpì con forza Azoth. Azoth sentì il sapore del sangue. Si scoprì a muoversi. Afferrò il cappio e strinse il nodo contro la caviglia di Ratto. Ratto urlò e alzò bruscamente il ginocchio sulla faccia di Azoth. Azoth atterrò sul grosso masso e si scorticò la schiena, cadendo


tra la roccia e l'apertura nel pavimento, tramite la quale, un tempo, le barche venivano rimesse nelle acque fetide del fiume. Si rialzò facendo leva con le braccia sottili sulla roccia e alzò gli occhi, aspettando che il ragazzo più grande gli fosse addosso. Ratto guardò Azoth, guardò l'apertura, la roccia, la corda, la sua caviglia. Azoth non avrebbe mai dimenticato lo sguardo negli occhi di Ratto. Era terrore. Poi, Ratto si lanciò in avanti e Azoth spinse il masso nell'apertura. La corda si tese e Ratto fu sbalzato via nel mezzo del suo salto. Cercò di arrampicarsi, di afferrare Azoth, mancandolo. Le sue dita artigliarono il legno marcio del pavimento mentre scivolava e scompariva nella buca. Si sentì un tonfo nell'acqua. Ma, dopo qualche momento, Azoth sentì gridare. Si avvicinò al bordo della buca. Ratto si reggeva con la punta delle dita, implorando. Era impossibile. Poi, Azoth vide che il suo masso era andato a finire su una delle travi di supporto che sostenevano la rimessa sul fiume. Era in equilibrio precario ma, fino a che Ratto avesse mantenuto la corda in tensione, non lo avrebbe trascinato a fondo. Azoth si avvicinò al mucchietto di vestiti di Ratto e trovò il suo pugnale. Ratto supplicava, le lacrime gli rigavano le guance foruncolose, ma Azoth sentiva solo il rombo del sangue nelle sue orecchie. Si accucciò vicino a Ratto, prudente ma senza paura. Ormai le braccia della sua vittima tremavano per il troppo peso; era troppo grasso per reggersi ancora a lungo, troppo grasso per tenersi con una sola mano e usare l'altra per acchiappare Azoth. Con un rapido movimento, Azoth gli afferrò l'orecchio e glielo tagliò. Ratto urlò e mollò la presa. Il suo corpo colpì il masso, smuovendolo. L'ultima cosa che Azoth vide fu la sua faccia terrorizzata mentre veniva tirata sott'acqua, poi, anche quella fu nascosta dalle sue mani che si agitavano, cercando di aggrapparsi a qualcosa, qualsiasi cosa... senza trovare nulla. Azoth aspettò e aspettò e poi, vacillando, andò via. I foruncoli non c'erano più. Si era fatto crescere la barba per coprire le poche cicatrici rimaste. La corporatura era quella, nonostante avesse perso peso da quando aveva lasciato i Cunicoli, ma quell'orecchio tagliato, e i suoi occhi - per gli dei! Come ho fatto


a non notare quegli occhi morti? - gli occhi erano gli stessi. «Ratto», disse piano Kylar. Il suo piano esplose in mille schegge. Il cuore gli si fermò. Si sentì di nuovo un bambino che aspettava il suo turno di essere picchiato da Ratto, troppo codardo per fare altro se non piagnucolare. «Sono morto, giusto? Buffo, è quello che mi avevano detto di te». Roth scosse la testa, ma la sua voce era bassa. Questo riguardava solo Kylar. «Neph mi bruciò l'altro orecchio per punirmi di quello che mi avevi fatto. Mi sei costato tre anni, Azoth. Tre anni prima di diventare di nuovo capo di una gang. Ho trattenuto il respiro per... diavolo, sembrava un'eternità. Un'eternità a lavorare su quel nodo che mi avevi legato alla caviglia, perdendo a poco a poco la vita in quelle luride acque fino a che, finalmente, Neph non mi tirò fuori. Aveva assistito a tutta la scena, disse che era indeciso se lasciarmi morire o salvarmi. Neph dovette uccidere uno dei miei grandi - ricordi Roth, no? -, e metterlo al mio posto prima che il tuo maestro arrivasse. Mi sono dovuto trasferire in un'altra gang di merda sull'altro lato dei Cunicoli e ricominciare daccapo. Mi hai quasi fatto deludere mio padre». Tremava di rabbia. Scoprì nuovamente l'orecchio fuso. «Questa è stata la minore delle mie punizioni. E poi tu, opportunamente, sei "morto". Non ci ho mai creduto, Azoth. Sapevo che eri là fuori, ad aspettarmi. Credimi, se avessi tempo, ti torturerei per anni, ti spingerei al limite della resistenza umana e oltre. Ti guarirei solo per farti nuovamente del male». Chiuse gli occhi e abbassò ancora una volta la voce. «Ma non posso concedermi questo lusso. Se ti lascio vivere, mio padre potrebbe venirsene con altri progetti per te. Potrebbe fare qualcos'altro con il ka'kari. Io ho pagato per quel ka'kari e intendo vincolarlo subito». Sorrise odiosamente. «Le tue ultime parole?». Kylar aveva perso la concentrazione, si era distratto. La paura e l'orrore avevano allontanato dalla sua mente il rompicapo, quando nient'altro avrebbe potuto essere più importante. Durzo gli aveva insegnato a fare di meglio. La paura doveva essere riconosciuta e poi ignorata. Dov'era rimasto? Il Divoratore? La magia? «Merda», disse, senza rendersi conto di aver parlato ad alta voce. Roth inarcò un sopracciglio. «Hmm. Banale, ma piuttosto preciso». Serrò la presa sulla spada e ruotò le spalle all'indietro. La lama andò verso l'alto. Quell'uomo stava per mozzargli la testa. Tutto l'essere di Kylar gridò aiuto. Un boato risuonò, non udibile da orecchio umano, ma Kylar lo


sentì percuotergli lo stomaco come il fragore di un tuono. La vista gli divenne blu e bianca di magia. Poteva vederla scorrere nell'aria, veloce come una freccia, un intero muro fatto di magia. Lo stesso castello tremò e tutti caddero. Ovunque guardasse, Kylar vedeva gli stessi sguardi attoniti. Roth era riverso scompostamente sulle scale, con la spada ancora in mano e la bocca spalancata. Kylar, d'un tratto, sentì spezzarsi uno dei legami magici che lo trattenevano. Guardò gli altri e vide che la magia - sembrava una tempesta di pioggia blu e bianca che cadeva lateralmente, volando invisibile attraverso muri e persone - si abbatteva sui legami, che erano neri come il vir degli stregoni. La magia blu sibilava e crepitava quando entrava a contatto con il nero. Poi, la magia; blu aderì a quella degli stregoni e, come un incendio devastante, risalì ruggendo i tentacoli neri, fino agli stregoni da cui partivano. Urla stridule si levarono da tre degli stregoni e i legami che trattenevano Kylar si dissolsero, mentre tre torce viventi illuminarono la stanza. Ma gli occhi di Kylar erano concentrati su se stesso. Il ka'kari lo ricopriva come una pelle nera e ovunque la magia blu lo colpisse, tremolava come una pozzanghera nella pioggia, e scompariva... mentre il ka'kari diventava sempre più potente. Il Divoratore mangiava anche la magia. Poi, l'onda d'urto magica cessò. Per un attimo il silenzio fu totale, poi Roth urlò agli stregoni che non avevano usato il vir - gli unici due ancora vivi in quella sala: «Prendetelo!». Roth raccolse la spada dai gradini e la agitò davanti a Kylar. Incredibilmente, gli stregoni obbedirono all'istante. I legami tornarono ad avvinghiare braccia e gambe di Kylar. Ovunque lo toccassero, in risposta alla sua volontà, il ka'kari cresceva, si attorcigliava attorno ai legami e, risucchiandoli, li divorava. Kylar si scagliò contro i legami prima ancora che fossero del tutto dissolti. Li lacerò con tutta la forza del suo Talento, proprio mentre la spada di Roth fendeva l'aria a pochi centimetri dalla sua gola. Con i piedi finalmente liberi, volò all'indietro per il contraccolpo.


Si rigirò in aria e lanciò un coltello con la mano più debole. Un soldato grugnì e si abbatté al suolo. Kylar atterrò sotto la seconda rampa di gradini, sulla schiena. L'impatto lo lasciò senza fiato, ma anche mentre scivolava sul pavimento, la sua spada continuò a muoversi. A destra e a sinistra era circondato da Highlander e la spada balenò due volte, trapassando stivali e caviglie su entrambi i lati. Tre di loro erano caduti ma gli altri si erano già lanciati all'attacco. Kylar inarcò la schiena e balzò in piedi, ansimante ma pronto a combattere.


Capitolo 64 Solon cercò di ridiscendere dalla statua. Re Logan Verdroekan era stato uno dei primi re di Cenaria, forse mitico, e Solon non riusciva a ricordare cosa avesse fatto, sicuramente qualcosa di eroico, dal momento che Regnus Gyre aveva chiamato suo figlio Logan. E doveva essere stato speciale per meritarsi una statua di tali dimensioni, con la spada sollevata in segno di sfida. Solon l'aveva scelta non per il suo significato metaforico, ma semplicemente perché voleva che tutti i meister nel giardino lo vedessero. Ogni meister che aveva usato il vir nel raggio di cinquecento passi, nei pochi secondi in cui era stato in grado di brandire Curoch, era morto. Curoch giaceva sulle pietre sotto di lui. Feir la raccolse e la avvolse in una coperta. Gridò qualcosa a Solon, ma Solon non riuscì a distinguere le parole. Si sentiva come se fosse ancora avvolto dal fuoco. Ogni vena del suo corpo bruciava così intensamente che gli era difficile perfino sentire la spada di pietra di Verdroekan sotto le dita. Solon si era appollaiato sulle spalle del re morto, e si teneva in equilibrio reggendosi alla spada di pietra - aveva tenuto sollevata Curoch allo stesso modo quando aveva rilasciato la magia. Allentò la presa, le gambe gli tremavano e, d'un tratto, cadde. Feir non riuscì esattamente a prenderlo ma, per lo meno, interruppe la sua caduta. «Non riesco a camminare», disse Solon. Il cervello gli ardeva, vedeva esplodergli davanti agli occhi tutti i colori dell'arcobaleno, si sentiva la testa in fiamme. «È stato incredibile, Feir. Solo un pezzetto minuscolo di quello che può fare...». Feir lo afferrò e se lo gettò sulle spalle, come se fosse un bambino. Disse qualcosa, ma l'amico non capiva. Allora ripeté quello che aveva detto. «Oh, ne ho presi una cinquantina. Forse ne sono rimasti dieci», rispose Solon. «Uno sul ponte est». Stava cercando di ricordare cosa gli aveva detto Dorian. Qualcosa di importante. Qualcosa che non aveva fatto sentire a Feir. Non permettere che Feir muoia. Lui è più importante della spada.


«Adesso ti rimetto giù», disse Feir. «Non preoccuparti. Non ti lascio». In bizzarre sfumature di verde e azzurro, i soldati khalidorani sciamavano davanti al cancello orientale. Solon non ricordava neanche di aver lasciato il giardino. Rise di ciò che vedeva. Feir stava usando Curoch come una spada. Guardare Feir con una spada era più che sorprendente; era un privilegio. Feir era sempre stato un guerriero nato, incredibilmente veloce e forte, dai movimenti precisi come quelli di un ballerino. In sfumature di verde e blu e rosso, Feir abbatté i soldati. Non c'era gioco di spade. Al massimo, ogni soldato aveva il tempo di menare un unico fendente, perdeva la spada o il colpo gli veniva parato, e poi moriva. Feir imprecò ma, quando Solon cercò di seguire il suo sguardo, il tumulto dei colori era troppo intenso. L'omone lo sollevò, gettandoselo nuovamente sulle spalle, e si mise a correre. Solon vide il legno del ponte sotto i piedi di Feir. «Tieniti forte», gli raccomandò l'amico. Al momento giusto, Solon si afferrò alla cintura di Feir, su entrambi i lati della grossa schiena dell'uomo. Spostandosi di lato, Feir ruotò le grandi spalle. Con i piedi che spuntavano davanti all'amico e la testa che ballonzolava dietro di lui, tutto ciò che Solon vide fu un breve lampo di Curoch. Feir girò su se stesso - dal lato giusto, così che Solon non venisse sbalzato via -e Curoch riapparve, dopo di che si rimise a correre alla massima velocità. Solon vide tre corpi dietro di loro, stesi sul ponte. L'amico aveva ucciso tre uomini mentre teneva Solon sulle spalle. Stupefacente. Feir disse: «Dorian mi ha detto che la nostra speranza è nell'acqua, ma di non saltarci dentro. Cerca una corda!». Solon alzò la testa, come se potesse essere di qualche aiuto nel cercare una corda mentre sobbalzava sulla schiena di Feir. Non vide una corda ma vide un meister alle loro spalle, che faceva apparire una palla di fuoco. Cercò di urlare ma non riuscì a prendere fiato. «Dannazione a te, Dorian!», gridava Feir. «Quale dannata corda?» «Giù!», urlò Solon. Con i riflessi di un Maestro di Spada qual era, Feir si abbassò all'istante. Il fuoco crepitò sulle loro teste ed esplose contro una


dozzina di soldati khalidorani, che presidiavano l'accesso al ponte davanti a loro. Solon cadde in modo scomposto, e rischiò di spaccarsi la testa contro uno dei grandi bracieri posti lì a difesa. Il vecchio stregone dietro di loro - dallo spessore del suo vir, Solon immaginò si trattasse di un vurdmeister - stava per ricorrere ancora alla magia. Feir afferrò Solon per la collottola e lo lanciò dietro al braciere. La mossa mise al sicuro Solon, ma espose Feir. Questa volta non si trattava di fuoco stregato ma di qualcos'altro che Solon non aveva mai visto. Un rabbioso raggio rosso sfrecciò nell'aria in direzione di Feir, che sollevò uno scudo magico e abbassò la testa. Lo scudo a stento rifletté il raggio - di nuovo contro un soldato che correva per unirsi alla mischia -, ma la forza della magia infranse lo scudo, facendo volare via Feir come fosse una bambola di pezza. Curoch sfuggì alla sua presa. Facendo ricorso a una forza che non sapeva di avere, Solon afferrò l'amico e lo tirò dietro al grosso braciere con sé. Altri due meister stavano accorrendo per unirsi al vurdmeister, seguiti dai soldati. Il cancello sul lato opposto del ponte si aprì e altri soldati vi si riversarono. Feir si mise a sedere e guardò Curoch, lontana almeno sei metri. «Io so usarla», disse. «Posso salvarla». «No!», si oppose Solon. «Morirai». I soldati e i meister si erano fermati, facendo gruppo, e adesso avanzavano lentamente, prudenti e composti. «Non pensare a me, Solon. Non possiamo permettere che la prendano». «Non vivresti neanche abbastanza per usarla, Feir. Neanche se tu fossi disposto a barattare la tua vita per un secondo di potere». «É proprio là!». «E anche questa», disse Solon, indicando il bordo del ponte. Feir guardò. «Stai scherzando». Oltre il bordo, si vedeva una corda di seta nera legata alla parte inferiore di entrambi i capi del ponte. Spuntava fuori solo quando il vento soffiava. Feir guardava non la corda, ma il precipizio. «Ehi, è la profezia, giusto? Deve funzionare», disse Solon. Se solo il mondo avesse smesso di mandare lampi gialli.


«Non funziona mai esattamente come dice Dorian!». «Se ti avesse detto che avresti fatto questo, saresti venuto?» «Diavolo, no. E non annuire in quel modo saccente. Lo fa già fin troppo Dorian». Feir guardò i soldati e i meister che si avvicinavano. «Va bene. Vai prima tu». Vuole andare a prendere Curoch. L'eroico idiota. «Non posso», disse Solon. «Non sono abbastanza forte da afferrare la corda. Morirò se ci vado da solo». Feir si alzò. «Fammi solo provare...». Si allungò con il suo Talento e afferrò la spada. All'istante, mani di vir si materializzarono crepitando sulla sua magia, e cominciarono ad arrampicarsi verso di lui. Con un fendente della propria magia, Solon liberò quella di Feir. Davanti ai suoi occhi ci fu un'esplosione di macchie scure. «Oh, non fare così. Non fare così, ti prego. No». «Rimettimi in spalla, Feir». Solon non aveva tempo di spiegare. I meister erano vicini. «Io sono pazzo e tu sei grasso», disse Feir. Ma tirò su Solon e se lo mise sulla schiena. «Anche magicamente. Ho un piano. E non sono grasso». Nonostante escogitasse piani con il senno di poi, quando ormai tutti erano in salvo, Feir sapeva obbedire in battaglia. Si aprì velocemente e Solon si immerse nel Talento dell'amico. Si legò alla schiena di Feir con dei legami magici. Poi, preparò cinque sottili reti. Faceva ancora male, ma non quanto usare il proprio Talento. «Ora», disse. «Salta». Feir saltò oltre il ponte. La corda era al posto giusto - non per via del vento o del potere della profezia, ma perché Solon l'aveva attirata con la magia. Quando Feir la afferrò, Solon attivò le altre reti. Sui fianchi di ogni braciere si aprirono degli squarci e l'aria all'interno si condensò istantaneamente, scagliando l'olio contenuto nei bracieri sul ponte. L'ultima rete lasciò cadere una piccola scintilla sull'olio. Ci fu una soddisfacente fiammata. Il fiume si accese improvvisamente di arancione e bianco e il calore si abbatté sugli stregoni.


Poi, le cose accaddero troppo in fretta per seguirle. Feir aveva preso la corda con entrambe le mani e una gamba. Immediatamente si capovolse. L'improvviso cambiamento di direzione fece impigliare il braccio di Solon alla spalla di Feir, spezzandoglielo. Se non fosse stato per i legami magici che lo trattenevano, sarebbe caduto come un sasso. La corda, ancorata a entrambi i lati del ponte, all'inizio si allungò, curvandosi al centro. Poiché Feir e Solon non erano ancora arrivati a metà del ponte, voleva dire che avevano sfrecciato in avanti per quindici passi. Poi, la corda si strappò dal lato del castello. Solon guardava la luce esplodere davanti a loro, a stento cosciente del fatto che stessero oscillando a una velocità terrificante verso il fiume. Il ponte era invaso dalle fiamme che guizzavano allegramente nella notte. O, forse, era il dolore a esplodergli in testa. Poi, andarono a sbattere contro qualcosa di freddo e duro. Trasse un respiro. Pessimo tempismo. La roba fredda e dura era diventata fredda e bagnata. Erano sott'acqua. Solon tossì quando Feir tornò in superficie, e pensò debolmente che quell'uomo era un diavolo di nuotatore oppure qualcosa li stava tirando fuori. Feir era in ginocchio nell'acqua bassa e teneva in alto le mani. Dal suo appiglio sulla schiena dell'uomo, Solon vide che le mani dell'amico erano state dilaniate dalla corda. Poteva vederne le ossa. «Ah, ne siete usciti molto meglio di quanto avrei pensato», diceva la voce di Dorian, mentre la magia li tirava fuori dal fiume. «Smettetela di cincischiare, voi due. Dobbiamo darci una mossa se vogliamo arrivare a Khalidor in tempo». «Cincischiare?», chiese Solon, felice di avere la forza di sentirsi offeso. «Khalidor?», domandò Feir. «Be', è lì che aspetta la mia sposa. Non vedo l'ora di scoprire chi è. Credo che Curoch saprà trovare la strada». Feir imprecò, ma Solon - braccio rotto, vista annebbiata e tutto il resto - si mise a ridere.


Capitolo 65 Quando entravano nel raggio d'azione della sua spada, dei suoi calci o dei suoi potenti pugni, gli uomini cadevano come chicchi di grandine durante un temporale estivo. Per Kylar, che era sempre stato portato per il combattimento, la battaglia d'un tratto acquistò senso. Il caos si dispiegò in bellissime trame intricate, connesse tra loro e logiche. Solo guardando la sua faccia, lo si capiva all'istante: para a sinistra, pausa, affonda, respingi. Un uomo moriva e cadeva abbastanza lontano da non impedire i movimenti di Kylar. Avanti il prossimo; muoviti a sinistra, torna in posizione, pugno al naso. Giro, tendine, gola. Parata, risposta. Pugnalata. Analizzata secondo le singole percussioni di ogni cavità del suo cuore, la battaglia possedeva un ritmo, una musica. Non un suono era fuori posto. Il tenore dell'acciaio che risuonava si accompagnava al basso dei pugni e dei piedi che martellavano la carne - da morbido a duro, da duro a morbido -, e al baritono delle invettive degli uomini, punteggiato dallo staccato delle cotte di maglia lacerate. Con il Talento che cantava, Kylar era un virtuoso della lotta. Combatteva con violenza raffinata, un danzatore posseduto. Il tempo non rallentò mai, ma Kylar scoprì che il suo corpo reagiva a cose che consciamente non vedeva - si girava, schivava i colpi che la sua mente neanche registrava, colpiva con la tremenda velocità e la grazia di quell'angelo della morte, l'Angelo della Notte. Gli Highlander cercarono di sopraffarlo con la superiorità numerica. Le loro lame colpivano l'aria a pochi centimetri dall'orecchio di Kylar, a un centimetro dal suo stomaco, a mezzo centimetro dalla sua coscia. Dominava il fronte di ogni attacco, tagliava sempre più i margini, fino a che i corpi che uccideva venivano spinti in avanti anziché cadere all'indietro, circondandolo. Rinfoderò Retribution e afferrò la mano che teneva una lama puntata alla sua pancia, tirando uno smilzo Highlander con tanta forza da fargli accoltellare il compagno che gli stava di fronte. Agitandosi un coltello dietro la schiena deviò un affondo di spada, mentre l'altro coltello si conficcava in un'orbita. Vide arrivare due lance e cadde al suolo, mandandole a finire


dietro di sé. Mentre entrambe impalavano un corpo, Kylar saltò su, distruggendo la faccia di un altro Highlander con un calcio. Ma la situazione intrappolato.

era

disperata.

Presto

sarebbe

rimasto

Leggero come un gatto, balzò sulla schiena di un moribondo inginocchiato, e poi saltò sulle spalle di uno dei lancieri impalati. Mentre saltava lateralmente in aria, una palla di fuoco verde, della grandezza del suo pugno, sfrecciò nella sua direzione. Kylar atterrò sui suoi piedi e si abbassò per schivare un colpo di spada. Il suo mantello esplose in una fiammata verde. Se lo strappò via mentre si tuffava tra due lance. Reggendo un lembo del mantello, si rimise in piedi e lo avvolse attorno a un altro dei suoi aggressori. La fiamma verde dilagò sulla pelle dell'uomo e arse di un azzurro vivido mentre questi urlava. Un'altra palla di fuoco stregato sfrigolò nell'aria, e Kylar si tuffò dietro uno dei pilastri che sostenevano l'alto soffitto. Ci furono due attimi di riposo. Kylar aveva ucciso o reso inerme più della metà dei Khalidorani ma, ora, gli altri si stavano organizzando. Punto, contrappunto. «Dal capitano! Non perdete di vista il meister!», urlò Roth. Gli uomini accorsero dal capitano per formare un cuneo tra Kylar e Roth, che era arretrato fino al trono. Ma Kylar non aveva perso tempo mentre era al riparo dietro al pilastro. Sapeva che se voleva un'occasione con Roth, doveva uccidere gli stregoni. Entrambi tenevano d'occhio gli spazi tra i pilastri dove lui sarebbe corso. Kylar sciolse il ka'kari nella sua mano e, tenendo a mente la sensazione di quelle dita magiche, fece in modo che gocciolasse sulla spada per tutta la sua lunghezza. Come se avvertisse l'urgenza del momento, il ka'kari rivestì all'istante l'acciaio. Sia la spada che il ka'kari brillarono e divennero invisibili. Kylar si sporse dal pilastro e le dita gli furono immediatamente addosso. Con la spada, tagliò velocemente un cerchio intorno a sé e le sentì disseccarsi e morire. Afferrato l'orlo di uno dei lunghi arazzi che rivestivano le pareti della sala del trono, Kylar andò verso il pilastro, ma non prima che il dito di uno stregone sprigionasse il suo fuoco magico. Se avesse avuto il tempo di pensarci, Kylar non avrebbe cercato


di bloccarlo con la sua spada - era una pazzia provare a fermare la magia -, ma quella era la sua reazione abituale. Il piatto della spada colpì il globo verde di fuoco. Invece di esplodere, il fuoco entrò nella lama. Kylar si riparò dietro a un pilastro con l'arazzo in una mano e una spada, ora visibile a causa della fiamma verde che vi crepitava dentro. Con tutta la forza del suo Talento, saltò. Si levò in aria, nel mezzo della sala del trono e, quando l'arazzo incontrò un pilastro, cambiò bruscamente la sua traiettoria, lanciandolo verso i gradini. L'altro stregone doveva aver lanciato una palla di fuoco che il sicario non aveva visto, poiché l'arazzo cedette e si strappò un momento prima che Kylar lo lasciasse andare. Colpì il pianerottolo tra le rampe di scalini con in mano più di due metri di arazzo in fiamme. Lo scagliò contro gli Highlander e colpì con la spada lo stregone che cantilenava due scalini più in là. La cima della testa dello stregone si aprì, mostrandone il cervello. L'uomo ruotò su se stesso ma le sue labbra completarono l'incantesimo. Gli spessi tentacoli neri, che fremevano sotto la pelle dell'uomo, si ingrossarono in modo grottesco, strappandosi via dal braccio, dilaniando la pelle. Un'ondata di potere uscì ruggendo dallo stregone morente che, barcollando, cercava di trovare Kylar. Il sicario saltò dietro di lui e gli sferrò un calcio così potente che lo stregone fu sbalzato via, abbattendosi sugli Highlander. Gli sferzanti tentacoli neri dilaniarono gli uomini, risucchiandoli come mani avide e li rosicchiarono producendo un rumore simile a quello dei tronchi nelle segherie. Mentre accadeva tutto questo, Kylar avvertì, più che vedere, la luce bianca che si formava alle sue spalle. Si girò in tempo per vedere l'omuncolo saettare nell'aria. L'essere schivò il suo disperato fendente e gli conficcò i minuscoli artigli nel petto. Kylar stava già saltando da un lato, quando sentì la violenta scossa e vide l'aria incresparsi. La realtà si trasformò in una serie di bolle. L'aria increspata si curvò, inseguendolo mentre correva. Poi, si squarciò. Il giovane rimbalzò sulla parete, rischiando di farsi colpire in faccia da un'altra palla di fuoco stregato. Il drago affondò nella realtà, mancandolo per un pelo. Si


dimenava furioso, lacerando sempre più il buco e agganciandosi con gli artigli a due dei pilastri. Kylar si strappò l'omuncolo dal petto e lo sbatté sulla faccia di un soldato. Il drago attaccò nuovamente e Kylar schizzò in alto. La bocca di lampreda scattò all'infuori, serrandosi sul soldato urlante e risucchiandolo nel buco. Quando Kylar atterrò, sia il drago che il soldato non c'erano più. Kylar si girò e saltò, sui gradini per arrivare in cima, ma fu troppo lento. Proprio mentre si sollevava da terra, vide un lampo di luce sfrecciare verso di lui. Non c'era tempo per estrarre un coltello da lancio. Kylar scagliò la spada contro l'ultimo stregone. Il dardo magico gli distrusse la spalla sinistra. Mentre la velocità del salto lo portava su e in avanti, la deflagrazione lo fece capovolgere all'indietro. Si abbatté sul pavimento di marmo ai piedi del trono e sentì il ginocchio sinistro fracassarsi. Per un lungo momento, i suoi occhi si rifiutarono di mettere a fuoco. Sbatté e risbatté le palpebre e finalmente si liberò del sangue. Vide Retribution affondata fino all'elsa nel corpo di uno stregone. La lama era nera del suo ka'kari. Si rese conto di guardare lo stregone morto attraverso un paio di gambe. Le seguì con gli occhi fino alla faccia di Roth. «In piedi», disse Roth, e gli affondò la spada nella parte inferiore della schiena. Kylar si sentì soffocare mentre il nemico gli rigirava la spada nei reni. Poi, il metallo rovente uscì. Qualcosa tirò in piedi Kylar. Il dolore era simile a una nuvola che rendeva tutto sfocato e indistinto. Confuso, il sicario guardò gli stregoni morti. Chi mi ha tirato su? «Tutti gli eredi del Re Divino Ursuul hanno poteri magici», disse Roth. «Non lo sapevi?». Kylar lo guardò in silenzio. Roth aveva il Talento? Le mani invisibili lo lasciarono e Kylar si accartocciò; la gamba sinistra, distrutta, non ce la faceva a reggere il suo peso. Colpì il pavimento di marmo ancora una volta. «Alzati!», disse Roth. Trafisse l'inguine di Kylar e lo maledisse. La testa di Kylar ricadde sul marmo mentre le urla di Roth diventavano inarticolate. Il suono della sua voce si riduceva a un mormorio accanto al ruggito del dolore.


Il dolore lampeggiò ancora nel suo stomaco quando Roth lo trafisse nuovamente. Poi, doveva averlo tirato un'altra volta su, perché Kylar sentì la testa penzolargli da un lato. Se prima aveva provato dolore, ora era agonia. Ogni parte del suo corpo veniva arsa dal fuoco, immersa nell'alcool, ricoperta di sale. Le sue palpebre erano solcate da schegge di vetro. I suoi nervi ottici mangiucchiati da piccoli denti. E dopo gli occhi, ogni tessuto, tendine, muscolo e organo venne, a sua volta, annegato nella sofferenza. Kylar stava urlando. Ma la mente gli si schiarì. Sbatté le palpebre. Era in piedi davanti a Roth ed era cosciente. Cosciente e sgomento. Doveva essere atterrato sul ginocchio sinistro quando era caduto sul marmo, perché era a pezzi. Sanguinava internamente - gli intestini colavano sangue nelle viscere, i succhi gastrici gli ustionavano l'intestino, un rene perdeva sangue nerastro. La spalla sinistra sembrava aver colpito il martello di un gigante. «Non morirai facilmente», disse Roth. «Non lo permetterò. Non dopo quello che hai fatto. Guarda cosa hai fatto! Mio padre sarà furioso». Ecco, dunque. Stava morendo. Kylar riusciva a sostenersi precariamente sulla gamba sana, ma non aveva armi. La sua spada e il ka'kari erano lontani dieci passi... tanto valeva che fossero dall'altra parte dell'oceano. Niente armi e Roth era - anche in quel frangente - attento a non entrare nel raggio d'azione delle sue mani. Kylar non aveva altro se non un coltello da cintura. «Sei pronto a morire?», disse Roth, con gli occhi scintillanti di malvagità. Kylar si guardava la mano destra. Di tutti i pezzi del suo corpo percossi, tagliati, lacerati, le dita erano sane e perfette. Non era la mano che si era tagliato con la finestra la notte prima? «Sono pronto», disse, sorprendendo se stesso. «Qualche rimpianto?», chiese Roth. Kylar guardò dentro Roth, e lo comprese. Il sicario aveva sempre avuto abbastanza tenebre nella sua anima per capire gli uomini malvagi. Roth stava cercando di spremergli sofferenza. Roth voleva ucciderlo mentre pensava a tutte le cose che non aveva fatto. Roth mieteva disperazione. «Morire bene è facile», disse


Kylar. «Ci vuole solo un momento di coraggio. È vivere bene ciò che non sono riuscito a fare. Cos'è la morte in confronto?» «Stai per scoprirlo», rispose con ira Roth. Kylar sogghignò e poi sorrise, mentre la rabbia pervadeva il suo nemico. «Uccidere Logan è stato più divertente», disse Roth. Conficcò la spada nel torace di Kylar. Logan! Il pensiero lo trafisse più crudelmente di quella spada. Kylar era vissuto con la spada. Morire per causa sua non era né inaspettato né ingiusto. Ma Logan non aveva mai voluto far del male a nessuno. Roth che uccideva Logan non era giusto. Non era leale. Guardò l'acciaio conficcato nel suo petto. Prese la mano di Roth nella propria e spinse, spinse la spada nel petto fino all'elsa. Gli occhi di Roth erano dilatati. «Io sono l'Angelo della Notte», disse Kylar, affannoso. «Questa è giustizia. Questo è per Logan».

respirando

Si sentì un tintinnio e il suono del metallo che rotolava sul marmo. Il ka'kari saltò verso la mano di Kylar... E fu acchiappato da Roth. Il trionfo si accese nei suoi occhi. Rise. Ma Kylar afferrò Roth per le spalle e lo guardò negli occhi. «Io sono l'Angelo della Notte», ripeté. «Questa è giustizia. Questo è per Logan». Kylar sollevò la mano destra. Roth sembrava confuso. Poi, si guardò la mano sinistra. Il ka'kari si stava liquefacendo e gli scivolava tra le dita. Agitò le mani, come le aveva agitate sul pavimento di legno della rimessa, e non trovò nulla. Il ka'kari cadde sul palmo di Kylar, formando un enorme pugnale. Kylar abbatté un pugno sul petto di Roth. Roth abbassò lo sguardo e la sua incredulità si trasformò in orrore quando Kylar estrasse il pugnale, e l'orrore divenne paura, quando il suo cuore si mise a pompargli sangue direttamente nei polmoni. Roth lanciò uno strillo per negare la propria mortalità. Kylar lasciò andare il principe e cercò di allontanarsi, ma le sue membra si rifiutarono di obbedirgli. Le ginocchia gli cedettero e crollò a terra insieme al principe khalidorano.


Roth e Kylar giacquero l'uno di faccia all'altro sul marmo ai piedi del trono, guardandosi morire. Entrambi tremavano, percorsi da fremiti incontrollabili in tutto il corpo. Entrambi respiravano orribilmente, estenuanti respiri all'unisono. Gli occhi di Roth erano colmi di paura, di un panico così intenso da paralizzarlo. Sembrava non vedere più Kylar disteso a pochi centimetri da lui. Il suo sguardo divenne più distante e colmo di profondo terrore. Kylar era soddisfatto. L'Angelo della Notte aveva distribuito la morte - e la morte era il suo destino. Non era bello, ma era così. Quella condanna era meritata. Guardando gli occhi di Roth finalmente appannarsi in una fine senza serenità, Kylar desiderò che ci fosse qualcosa di più bello da trovare nella morte, che non solo giustizia. Ma non aveva la forza per allontanarsi da quella vita, da quella morte, da quella terribile giustizia. Poi, qualcuno lo girò. Una donna. Lentamente, la mise a fuoco. Era Elene. Si attirò Kylar in grembo e gli accarezzò i capelli. Piangeva. Kylar non riusciva a vedere le sue cicatrici. Alzò una mano e le toccò il viso. Era angelica. Poi, si guardò la mano. Era perfetta, intera e, incredibile, non insanguinata. Per la prima volta nella sua vita, le sue mani erano pulite. Pulite! Sopravvenne la morte. Kylar si arrese.


Capitolo 66 Terah Graesin aveva appena pagato una fortuna a uno degli uomini più belli che avesse mai visto. Jarl disse di parlare per conto dello Shinga, ma dimostrava una tale sicurezza che Terah si chiese se non fosse lui lo Shinga. Non le era piaciuta l'idea di dare così tanti soldi al Sa'kagé, ma non aveva avuto altra scelta. L'esercito del Re Divino sarebbe giunto all'alba, e lei era rimasta già troppo a lungo nella città. Il colpo di stato non era andato secondo i piani del Re Divino. I Khalidorani controllavano i ponti, il castello e le porte della città, ma alcuni di loro avevano equipaggi ridotti al minimo. La cosa sarebbe cambiata con l'arrivo del resto dell'esercito, e Terah Graesin e i suoi nobili dovevano essere lontani quando sarebbe successo. Se non avesse pagato metà del suo patrimonio a Jarl, avrebbe dovuto lasciarselo tutto dietro. Una regina doveva prendere decisioni difficili e, morti tutti gli altri, lei era la regina adesso. Era mezzanotte. I carri erano pronti. Gli uomini aspettavano. Era arrivato il momento. Terah era all'esterno della residenza della sua famiglia. Come le altre case delle famiglie ducali, si trattava di una vera e propria vecchia fortezza. Una fortezza saccheggiata, adesso. Una fortezza saccheggiata che puzzava delle tante botti di olio che avevano versato in ogni stanza, sui preziosi cimeli troppo pesanti da portare via, e in tutti quei solchi che avevano fatto in ogni trave centenaria. Era giunto il momento. A mezzanotte, i sicari di Jarl avrebbero massacrato i Khalidorani che controllavano la porta orientale. Tutti gli altri nobili erano radunati fuori dalle proprie case. Dal suo portico elevato, riusciva a vederne qualcuno su e giù per Horak Street, in attesa di vedere se l'avrebbe fatto davvero. Si impresse nella mente la sua casa. Al suo ritorno, l'avrebbe ricostruita per la sua famiglia, due volte più splendida di prima. Terah Graesin andò in strada e prese la torcia dal sergente Gamble. Gli arcieri si radunarono attorno a lei. Accese personalmente ogni freccia. A un suo cenno, le scoccarono. La casa andò in fiamme. Il fuoco si riversava dalle finestre, allungandosi verso il cielo. La regina Terah Graesin non guardò. Montò sul suo cavallo e si mise in testa alla colonna, il suo patetico


esercito di trecento soldati e il doppio di servi e bottegai, sulla strada verso la porta orientale. In tutta la zona orientale, le grandi case andarono a fuoco una dopo l'altra. Erano le pire funerarie della ricchezza. Non solo i nobili stavano perdendo tutto, ma la stessa sorte era riservata a coloro che erano impiegati al loro servizio. Tuttavia, i fuochi della distruzione erano anche fari di speranza. Avrete anche vinto, sì, diceva Cenaria, ma la vostra vittoria non è un trionfo. Potete costringermi a lasciare la mia casa, ma non ci vivrete neanche voi. Non vi lascerò altro se non terra bruciata. In risposta a quei grandi fuochi, in tutta la città si levarono anche fuochi più piccoli. I bottegai incendiarono i propri negozi. I fabbri attizzarono le fornaci al punto da creparle. I fornai distrussero i propri forni. I mugnai gettarono le mole nel fiume. I proprietari dei magazzini diedero fuoco ai depositi. Gli allevatori sterminarono il bestiame. I capitani, confinati sul Plith dalla magia degli stregoni, affondarono le proprie navi. A migliaia si unirono all'esodo. Il ruscello di nobili con la loro servitù divenne un'inondazione. L'inondazione divenne una moltitudine, un esercito che marciava fuori dalla città - che marciava sconfitto, ma marciava. Alcuni avevano dei carri, altri erano a cavallo, altri ancora camminavano scalzi, con le mani e la pancia vuote. Alcuni inveivano, alcuni pregavano, alcuni si guardavano alle spalle con occhi spiritati, alcuni piangevano. Alcuni lasciavano fratelli e sorelle e genitori e figli, ma ogni figlio orfano di Cenaria portava una piccola, flebile speranza nel cuore. Ritornerò, giurava. Ritornerò. Neph era da un lato, più lontano che poteva, in mezzo ai meister, i generali e i soldati, aspettando di salutare il Re Divino Garoth Ursuul che arrivava a cavallo dall'East Kingsbridge con il suo seguito. Il Re Divino indossava un grande mantello di ermellino che accentuava il pallore della sua pelle nordica. Aveva il petto nudo, a parte le pesanti catene d'oro della sua carica. Era robusto, tozzo ma muscoloso, vigoroso per la sua età. Il Re Divino fermò il suo stallone prima del cancello che immetteva nel cortile. Sei teste impalate lo salutavano. Una settima picca era vuota. «Comandante Gher». «Sì, mio signore... uh, mio dio, Vostra Santità, sire». L'ex


guardia reale si schiarì la gola. Le cose non andavano bene. Nonostante sembrasse che i piani di Roth e Neph fossero andati lisci, in qualche modo le truppe del Re Divino avevano subito perdite molto più pesanti del previsto. Un intero battello di Highlander morti. Molti dei nobili che avrebbero dovuto essere morti erano fuggiti. Vaste zone della città in fiamme. Il cuore dell'industria e dell'economia di Cenaria ridotto in cenere. Non c'era ancora alcuna resistenza ma, con tanti nobili ancora vivi, sarebbe arrivata. I meister, che avrebbero dovuto essere una devastante avanguardia nel cuore di Modai, erano morti. Più di cinquanta meister morti, in un colpo solo, senza alcuna spiegazione, a parte le voci riguardanti un mago con più Talento di chiunque dai tempi di Ezra il Folle e Jorsin Alkestes. L'invasione ceurana era finita ancor prima di iniziare. Il figlio del Re Divino ucciso appena portato a termine il suo uurdthan. Si sarebbe dovuto mettere in riga il Sa'kagé, si sarebbe dovuto appiccare fuochi reali e figurati. Qualcuno avrebbe dovuto risponderne. Neph Dada stava cercando di capire come fare a non essere lui quel qualcuno. «Perché c'è una picca vuota sul mio ponte?», chiese il Re Divino. «Allora?». Il comandante Hurin Gher si agitò sulla sella, guardando scioccamente la picca vuota. «Non abbiamo ancora trovato il corpo del principe... cioè, del pretendente... uhm, di Logan Gyre, sire. Noi... noi sappiamo che è morto, ma nella confusione... Noi, noi ci stiamo lavorando». «Certamente». Il Re Divino Ursuul non guardava Hurin Gher. Stava studiando le facce della famiglia reale. «E questa Ombra che ha ucciso mio figlio? É morto anche lui?». Neph provò una sensazione di gelo alla pacata minaccia implicita nella domanda di Ursuul. Quando i Khalidorani erano entrati nella sala del trono, avevano pensato che qualche reparto scelto avesse spazzato via tutti i soldati nella sala, ma Neph era riuscito a guarire un uomo i cui piedi erano stati tagliati. L'uomo aveva giurato di aver visto gran parte della lotta prima di svenire. Era stato un uomo, da solo. Un'ombra. L'Angelo della Notte, lo aveva chiamato. La storia si stava già diffondendo. Un uomo che camminava senza farsi vedere, in grado di uccidere trenta Highlander e cinque meister, oltre all'erede del Re


Divino. Un uomo refrattario all'acciaio e alla magia. Era una sciocchezza, naturalmente. Con tutto il sangue che avevano trovato, l'uomo doveva essere morto. Ma, senza un corpo... «Qualcuno ha portato via il suo corpo, signore. Abbiamo seguito le tracce di sangue attraverso i passaggi segreti. C'era un sacco di sangue, sire. Se davvero si trattava di un uomo solo, è morto». «A quanto pare abbiamo un sacco di morti senza corpo, comandante. Trovateli. Nel frattempo, mettete su un'altra testa. Possibilmente una che assomigli a Logan Gyre». Non era giusto. Feri Khalius era stato uno tra i primi Highlander sul suolo cenariano. Era stato uno dei primi a gettarsi dalla chiatta rovente che colava a picco, e questo perché aveva avuto la presenza di spirito di togliersi l'armatura prima di saltare, così non era annegato come tanti altri. Si era unito a un altro reparto e aveva combattuto a mani nude, fino a che non aveva potuto prendere le armi degli Highlander morti dopo il primo assalto al cortile. Aveva ucciso personalmente sei soldati cenariani e due nobili, sei nobili se si contavano i bambini, cosa che lui non faceva. E cosa aveva ricevuto a riconoscimento del suo eroismo e della sua abilità? Quell'incarico merdoso. A certi reparti veniva dato diritto di saccheggio - i reparti buoni nella zona ovest, quella che i barbari chiamavano Cunicoli, e i reparti migliori saccheggiavano quello che rimaneva della zona est con gli ufficiali. Il reparto di Feri non esisteva più, perciò lui era stato assegnato allo sgombro delle macerie sul ponte orientale. Non era solo un lavoro sporco, era anche pericoloso. Gli stregoni avevano spento il fuoco, ma la maggior parte delle assi era indebolita e alcune si spezzavano a camminarci sopra. I sostegni andavano bene: rivestiti di ferro, erano refrattari al fuoco; ma non si poteva stare sui sostegni, perciò tanto valeva che non ci fossero. La parte peggiore del lavoro erano i corpi. Alcuni sembravano carne arrostita, bruciacchiata all'esterno ma crepitante e molliccia all'interno. E la puzza di carne e capelli bruciati! Rovistava tra i cadaveri, scegliendo quello che sembrava interessante, e li scaraventava oltre il ponte. Alcuni reparti sarebbero stati contenti di riavere i propri morti per dar loro degna sepoltura, ma Feri non aveva intenzione di attraversare il ponte trasportando quei cosi puzzolenti. Giù nell'abisso.


Poi vide una spada. Doveva essere stata sotto uno dei cadaveri quando l'incendio era iniziato, perché era immacolata. Non c'erano segni di fumo neanche sull'elsa. Era una bellissima lama, con i dragoni incisi sull'elsa. Era il tipo di spada che si conveniva a un capo. O a un signore della guerra. Con una spada del genere, il clan di Feri lo avrebbe temuto. Ed era quello che si meritava. Avrebbe dovuto portare qualcosa di insolito trovato su uno dei vurdmeister. Sicuro, dopo il bel modo in cui mi hanno trattato. Guardò gli altri uomini al lavoro sul ponte e, accertatosi che nessuno lo stesse guardando, sguainò la propria spada, la mise da parte e infilò il suo premio nel fodero. Non ci stava alla perfezione ma, per il momento, andava bene. L'elsa era un problema con quei dragoni, ma vi avrebbe avvolto presto dei legacci di cuoio. Era bravo con le mani. Solo poche ore e quella spada sarebbe stata uguale a qualunque altra. La spada ravvivò considerevolmente il suo stato d'animo. Non era abbastanza per ripagare il suo valore, ma era un inizio. La strega percorse l'ultimo corridoio che portava a quello che i barbari chiamavano Buco del Culo dell'Inferno. La nauseante zaffata di sofferenza la sopraffece. Mancò un gradino e andò a finire contro il muro. Il soldato che la accompagnava si girò. Sembrava spaventato. «Non è niente», disse la strega. Andò alla grata che copriva il Buco. Qualche parola e di fronte a sé brillò una luce rossa. Le creature nel Buco socchiusero gli occhi e si ritrassero. Parlò ancora e la luce discese in quella profondità. La donna esaminò ogni prigioniero. Dieci uomini, una donna e un babbeo con i denti limati. Nessuno di loro poteva essere l'usurpatore. Si voltò, in preda a una lieve vertigine, e uscì, cercando di non mettersi a correre. Un minuto dopo, un uomo robusto rotolò fuori da una nicchia scavata nella roccia. La donna lo guardò e scosse la testa. «Sei uno sciocco. Niente di quello che potrebbero farti sarà peggio che stare qui. Guardati. Sei delicato. Il Buco ti spezzerà, Tredici». Logan la guardò distaccato. Era una donna sudicia, con il vestito pieno di buchi e qualche dente mancante. L'espressione sul suo


volto era quanto di più vicino alla gentilezza umana si poteva trovare in quel posto. «Nonostante tutti gli scarti dell'umanità passino da questo buco e da esso si levino le fiamme della perdizione, io non ne sarò spezzato», disse Logan. «Usa un sacco di paroloni, lui», disse l'omone di nome Fin. Sorrise mostrando le gengive insanguinate, uno dei primi sintomi dello scorbuto, e si riavvolse attorno al corpo la corda di tendini. «Un sacco di carne su questo grosso bastardo. Mangeremo davvero bene». Scorbuto significava carenze alimentari. Carenze alimentari volevano dire che Fin era vissuto abbastanza a lungo da ammalarsi. Fin era un sopravvissuto. Logan girò lo sguardo su di lui e tirò fuori il coltello... letteralmente il suo unico vantaggio su quegli animali. «Ve lo dico con parole assai semplici», disse, reprimendo l'impulso di dire "molto" anziché "assai". «Voi non mi spezzerete. Il Buco non mi spezzerà. Io non mi spezzerò. Io. Non. Mi. Spezzerò». «Come ti chiami, tesoro?», gli domandò la donna. Logan si ritrovò a sogghignare. Qualcosa di feroce e primitivo stava sorgendo dentro di lui. Qualcosa dentro di lui disse: "Dove gli altri hanno fallito, hanno esitato, sono caduti, io trionferò; io sono diverso; sono fatto di una stoffa diversa; io risorgerò". «Chiamami "re"», rispose, e sorrise strafottente nell'angoscia e nel dolore, e fu potente. Ecco. Quella era la sopravvivenza. Quello era il segreto. Quella era la fiamma che covava sotto le ceneri del suo cuore bruciato. Se solo avesse saputo mantenerla viva.


Epilogo Elene bussò alla porta del bottaio, con il capo coperto, la schiena curva e trascinando un piede storto nella polvere. L'esercito khalidorano era arrivato il giorno prima e il re Garoth Ursuul stava ricompensando le sue truppe per il loro valore, consentendo a soldati scelti di prendere ciò che volevano. Non era un bel giorno per essere una bella donna per le strade di Cenaria. Le ci erano voluti due tormentosi giorni per trovare quel posto. Il bottaio tolse il chiavistello e le fece un segno, indicandole il retro della bottega. Jarl era seduto a un tavolo coperto di carte, e aveva ai piedi sacchi ricolmi di denaro. «Ho trovato il modo per farvi uscire», disse. «Il padrone di una carovana khalidorana ha acconsentito a portarvi. Dovrete stendervi in un vano usato per contrabbandare tè barush e cose peggiori, fino a quando sarete fuori dalle porte; ma è grande abbastanza per contenere te e la bambina. Partirete all'imbrunire». «Puoi fidarti di questo contrabbandiere?», chiese Elene. «Non posso fidarmi di nessuno», disse Jarl, sfinito. «Lui è un Khalidorano e tu sei bella. Ma, proprio perché è un Khalidorano, ha più possibilità di attraversare le porte. E ha lavorato con noi per venti anni. Ho fatto in modo che sia nel suo interesse portarvi al sicuro». «Devi averlo pagato una fortuna», disse Elene. «Solo la metà», disse Jarl, mentre l'ombra di un sorriso si affacciava sulle sue labbra. «L'altra metà l'avrà quando mi darà la prova che tu sei al sicuro». «Grazie». «È il minimo che potevo fare per Kylar». Jarl abbassò lo sguardo, pieno di vergogna. «È anche il massimo che posso fare». Elene lo abbracciò. «È più che sufficiente. Grazie». «La ragazza è di sotto. Non vuol lasciare il suo... non vuole lasciarlo». Riconobbe quel posto. Il calore bianco-dorato lo pervase; la sua carne gioì nella luce. Si mosse attraverso il tunnel con passo sicuro.


Impazienza senza fretta. Mani gentili gli chiusero gli occhi. Un bambino strillò. Rimpianti. Dolore. Tenebre. Freddo. Scacciò via l'incubo sbattendo le palpebre. Respirò. Lasciò che la luce bianco-dorata lo avvolgesse nuovamente. «Prendigli il braccio, Uly. Aiutami». Pietre fredde gli scivolarono sotto la schiena. Disagio. Dolore. Disperazione. Poi, anche il freddo e gli urti svanirono. Continuò a camminare nel tunnel. Cominciò a correre. Ora apparteneva a questo posto. Qui, senza dolore. Una lacrima gli cadde sul viso. Una donna parlò, ma lui non riusciva a distinguere le parole. Inciampò e cadde. Giacque lì, terrorizzato, ma l'incubo non tornò. Si mise in ginocchio e si rialzò. Al passo successivo, andò a sbattere contro... niente. Tese la mano e avvertì l'invisibile barriera. Era fredda come il ferro e liscia come vetro. Al di là, il calore aumentava, la luce bianco-dorata lo invitava. Quelle persone erano più avanti? Qualcosa lo stava tirando di lato, via di lì. Tutto divenne distorto ma poi, lentamente, una sala prese forma... non la sala, poiché la sala in sé rimaneva indistinta. Era piena di persone ansiose di vederlo, ma lui non riusciva a capire chi fossero. Tutto ciò che era veramente a fuoco, era un uomo seduto davanti a lui su un basso trono, e due porte. La porta alla sua destra era di oro battuto. La luce aleggiava su ogni spigolo, la stessa luce calda bianco-dorata nella quale era immerso prima. La porta alla sua sinistra era di semplice legno con un semplice chiavistello di ferro. La faccia dell'uomo era dominata da un paio di brillanti occhi gialli da lupo. Non era alto ma emanava autorità, potere. «Che posto è questo?», chiese Kylar. Un sorriso tutto denti. «Né paradiso né inferno. Questa, se preferisci, è l'Anticamera del Mistero. Questo è il mio regno». «Chi sei?» «Ad Acaelus piaceva chiamarmi il Lupo». «Acaelus? Vuoi dire Durzo?», domandò Kylar.


«Davanti a te, c'è una scelta. Puoi attraversare una porta o l'altra. Scegli quella dorata e ti rimanderò dove ti trovavi poco fa, e avrai le mie scuse per aver interrotto il tuo viaggio». «Il mio viaggio?» «Il tuo viaggio verso il paradiso, o l'inferno, o l'oblio, o la reincarnazione o qualunque cosa la morte abbia in serbo per te». «Tu lo sai?», chiese Kylar. «Questa è l'Anticamera del Mistero, Azoth. Qui non troverai risposte, solo scelte». Il Lupo sorrise e fu un ghigno senza gioia, un ghigno da predatore. «Attraverso la porta di legno, tornerai alla tua vita, al tuo corpo, al tuo tempo... o quasi. Ci vorrà qualche giorno prima che il tuo corpo guarisca. Sarai il vero Angelo della Notte, come lo era Acaelus prima di te. Il tuo corpo sarà immune dal flagello del tempo come lo era quello di Acaelus... per apprezzare la qual cosa bisogna forse diventare vecchi. Guarirai anche più velocemente rispetto ai mortali. Quello che tu chiami Talento, crescerà. Puoi ancora essere ucciso; la differenza è che tornerai. Sarai una leggenda vivente». Sembrava meraviglioso. Troppo bello, perfino. Sarei come Acaelus Thorne. Sarei come Durzo. L'ultimo pensiero lo fece riflettere. Il fardello dell'immortalità - comunque funzionasse - o il suo potere o la pressione di tutto quel tempo era ciò che aveva trasformato Acaelus Thorne, il principe, l'eroe, in Durzo Blint il disperato, amaro assassino. Si ricordò della sarcastica osservazione fatta a Durzo: «E io che pensavo che gli Angeli della Notte fossero invincibili». «Sono immortali. Non è la stessa cosa». «Perché faresti questo per me?», domandò Kylar. «Forse non faccio proprio niente. Forse è opera del ka'kari». «Qual è il prezzo?» «Ah, Durzo ti ha istruito bene, non è vero?». Il Lupo sembrava quasi afflitto. «La verità è che non lo so. Posso solo dirti quello che ho sentito da coloro che sono più illuminati di me. Essi credevano che ritornare dalla morte fosse una tale violazione dell'ordine delle cose, che il prezzo di questa vita innaturale fosse l'aldilà. Che per i suoi sette secoli di vita, Acaelus barattò tutta l'eternità. Ma potrebbero sbagliarsi. Potrebbe non avere influenza sull'eternità... o potrebbe non esserci un'eternità da influenzare. Sono l'uomo...


sbagliato... a cui chiedere, poiché ho scelto io stesso questa vita». Kylar si avviò verso la porta d'oro. Era così bello lì. Aveva provato una tale pace. Quale sciocco avrebbe barattato la pace e la felicità eterne di quella luce d'oro con il sangue, la violenza, il disonore, la disperazione e la doppiezza della vita che aveva condotto? Quando vi si avvicinò, la porta cambiò aspetto. L'oro si sciolse, raccogliendosi a terra in una pozza, e si materializzò un ardente inferno, ansioso di divorare Kylar. Poi, scomparve e al suo posto tornò la porta d'oro. Kylar scoccò un'occhiata al Lupo. «L'eternità», disse il Lupo, «potrebbe non essere un posto piacevole per te». «Sei stato tu a farlo?» «Una semplice illusione. Ma se tu dovessi giudicare Kylar Stern, gli concederesti il paradiso eterno?» «Tu non sei del tutto disinteressato alla mia scelta, non è vero?» «Sei diventato un giocatore, Angelo della Notte. Nessuno è disinteressato alla tua scelta». Da quanto tempo Kylar era lì, non lo sapeva. Tutto ciò che sapeva era che se avesse fatto la scelta sbagliata, avrebbe avuto molto, molto tempo per pentirsene. Le formule matematiche non erano d'aiuto; erano piene di infiniti e di zeri, senza alcuna possibilità di sapere da quale parte dell'equazione andassero a finire. Non c'era da scommettere sui pro e i contro quando correvi il rischio di gettare via l'eternità del paradiso, o di non riuscire a evitare l'eternità dell'inferno o di accettare un'esistenza eterna sulla terra con tutti i suoi difetti, e rinunciando a un misericordioso oblio. Kylar non aveva la fede del conte Drake in un Dio amorevole, né la fede di Durzo secondo cui non esisteva alcun Dio. Sapeva di aver fatto un sacco di male, secondo l'opinione comune. Sapeva di aver fatto del bene. Aveva dato la propria vita per quella di Elene. Elene. Gli riempiva la mente e il cuore in modo così totale da fargli male. Se sceglieva la vita, anche se lei lo avesse accolto, sarebbe invecchiata e morta in quella che per lui sarebbe stata la più piccola porzione della sua esistenza. Ma c'erano molte più probabilità che non l'avrebbe mai accettato, non avrebbe mai potuto. Tutti i se e i forse crebbero e crollarono come enormi torri di


supposizioni prive di fondamento, ma Elene rimase. Kylar la amava. L'aveva sempre amata. Elene era il rischio che avrebbe corso ogni volta. Fece la sua scelta e si diresse correndo verso la porta semplice. Gridò... ...e balzò su. Elene urlò. Uly urlò. Facendo enormi respiri affannosi, Kylar si lacerò la tunica incrostata di sangue. Il suo petto era liscio, la pelle perfetta. Si toccò la spalla a pezzi. Era integra, sana come le dita della mano destra. Non c'era una cicatrice sul suo corpo. Si mise a sedere strizzando gli occhi, senza neanche guardare Uly o Elene che, pietrificate, lo fissavano. «Sono vivo. Sono vivo?» «Sì, Kylar», disse Momma K, entrando nella stanza. La sua calma era surreale. Kylar rimase seduto per un momento. Era stato tutto reale. Disse: «Incredibile. Kylar: uno che uccide ed è ucciso. Durzo lo ha sempre saputo». Uly, influenzata dalla calma che Kylar e Momma K mostravano, sembrava essere a suo agio con il fatto che Kylar fosse seduto a parlare quando, un momento prima, era morto. Per Elene era diverso. Si alzò di scatto e uscì dalla porta. «Elene, aspetta», disse Kylar. «Aspetta, dimmi solo una cosa». Elene si fermò e lo guardò confusa, spaventata e speranzosa al tempo stesso, con gli occhi pieni di lacrime. «Chi è il responsabile di quelle cicatrici? Non è stato Durzo, vero? È stato Ratto, giusto?» «Sei tornato dalla morte per chiedermi questo? Certo che è stato Ratto!». Fuggì via. «Aspetta! Elene, mi dispiace!». Cercò di muoversi, ma sembrava che avesse esaurito tutte le energie per sedersi. Lei se ne era andata. «Un momento, di che diavolo mi dispiace?». Uly guardò Kylar in modo accusatorio. «Non avrai intenzione di lasciarla andare, vero?».


Kylar si teneva al bordo del letto come a un'ancora di salvezza. Guardò Uly e alzò disperatamente una mano... e dovette in fretta rimetterla giù per evitare di cadere. «Come faccio a fermarla?». Uly pestò i piedi e corse via dalla stanza come una furia. Momma K rideva, ma era una risata diversa da quelle che le aveva sentito fare in precedenza; più profonda, più piena, sinceramente felice, come se con lo stesso atto di volontà che le aveva fatto scegliere la vita, avesse messo da parte il suo cinismo. «So cosa stai pensando, Kylar. Durzo ti ha mentito quando ti ha detto di aver ferito Elene. Certo che lo ha fatto. Era l'unico modo per salvarti. Dovevi ucciderlo per succedergli. Il ka'kari non poteva completare il vincolo fino a che il suo precedente padrone non fosse morto». Sedettero lì in silenzio, con Kylar che pensava a come la morte di Durzo mostrasse la sua vita sotto una luce del tutto diversa. Era sconcertante pensare quanto si fosse sbagliato sul suo maestro, credendolo così pieno di odio... credendo davvero che Durzo fosse capace di mutilare Bambola..., ma a Kylar piaceva il quadro che ne stava venendo fuori. Durzo Blint, la leggenda, era stato Acaelus Thorne, l'eroe. Kylar si chiese quanti altri nomi di eroe il suo maestro avesse portato. Avvertì un dolore lancinante, un vuoto nello stomaco, un'ondata di lacrime che represse. «Mi mancherà», disse, con la gola serrata. Gli occhi di Momma K si specchiarono nei suoi. «Anche a me. Ma andrà tutto bene. Non so perché, ma ci credo davvero». Kylar annuì. «Dunque, hai deciso di vivere», disse, strizzando gli occhi per scacciare le lacrime. Non voleva crollare davanti a Momma K. «E così tu». La donna inarcò un sopracciglio, lanciandogli uno sguardo pieno di dolore, felicità e divertimento al tempo stesso. «Lei ti ama, Kylar. Che ne sia consapevole o meno. Ti ha trascinato da sola fuori dal castello. Si è rifiutata di lasciarti. Gli uomini di Jarl l'hanno trovata. Solo quando ti hanno portato qui Uly ha visto che le tue ferite stavano guarendo». «È furiosa con me», disse Kylar. «Furiosa come può esserlo una donna innamorata. Lo so». «Hai detto a Uly chi è sua madre?», chiese Kylar. «No, e mai lo farò. Non voglio crescerla in questo posto».


«Ha bisogno di una famiglia». «Speravo che tu ed Elene foste interessati al lavoro». La notte cadde sulla riva orientale del fiume Plith come una nuvola soffocante. La città era bruciata per tutto il giorno e i venti notturni portavano la puzza ovunque. Gli incendi si erano riflessi nel Plith, e le nuvole basse trattenevano l'aria satura di cenere come un cuscino sulla faccia della città. Un carro avanzava sferragliando lungo una strada; lo guidava un uomo curvo, con il volto coperto per proteggersi dall'aria maleodorante. Raggiunse una donna storpia, ingobbita e con un piede storto. «Vuoi salire?», chiese con la voce rauca. La donna si voltò ansiosa. Anche il suo viso era coperto, ma gli occhi erano giovani, nonostante fossero pesti. Il suo carrettiere khalidorano doveva essere bruno e grasso. Quest'uomo era albino, magro come un chiodo, curvo e quasi si perdeva nei suoi vestiti. La donna scosse la testa e proseguì. «Ti prego, Elene», disse Kylar con la sua voce. Lei sussultò. «Dovrei aver paura di te, no?» «Non ti farei mai del male», disse lui. Le sopracciglia, sugli occhi che lui aveva colpito, si inarcarono incredule. «Be', non ti farei mai veramente del male». «Cosa stai facendo?», gli chiese, guardandosi attorno. Non c'era nessun altro per la strada. «Vorrei portarti via di qui», rispose Kylar, tirandosi indietro i capelli sbiancati e sorridendo sotto al trucco. «Tu e anche Uly. Possiamo andare ovunque. Andrò a prendere anche lei». «Perché io, Kylar?». Era confuso. «Sei sempre stata tu. Io ti...». «Non dire che mi ami», disse lei. «Come puoi amare questo?». Si tirò giù il fazzoletto, indicando le cicatrici. «Come potresti amare un mostro?». Kylar scosse la testa. «Non amo le tue cicatrici, Elene. Le


odio...». «E non vedrai mai oltre questo». «Non ho finito», continuò Kylar. «Elene, ti guardo da quando eravamo bambini. Per molto tempo, hai ragione, non sono riuscito a vedere oltre le tue cicatrici. Non ho intenzione di mentirti dicendoti che sono belle. Le tue cicatrici sono brutte, ma tu non lo sei, Elene. La donna che vedo quando ti guardo è sorprendente. È intelligente, ha la lingua lesta e ha un cuore tale da farmi credere che le persone possano essere buone, nonostante abbia visto il contrario per tutta la vita». Le sue parole affondavano dentro di lei, Kylar lo sapeva. Oh, Momma K , dimmi che ho imparato da te qualcosa sulle parole. Dimmi che ho imparato qualcosa mio malgrado. Le mani di Elene si agitavano come uccellini. «Come fai a dirlo? Tu non mi conosci!». «Non sei ancora Bambola?». Le sue mani ricaddero, gli uccellini si calmarono. «Sì», rispose. «Ma non credo che tu sia ancora Azoth». «No», ammise lui. «Non lo sono. Non so chi sono. In questo momento, so solo che non sono il mio maestro e che non vivrò come lui». La speranza sembrò sgorgare da lei. «Kylar», disse, e lui capì che il nome era una scelta deliberata. «Ti sarò sempre grata. Ma noi saremmo un disastro. Mi distruggeresti». «Di cosa parli?» «Momma K mi ha detto che il tuo maestro ha intercettato tutte le mie lettere». «Sì, ci ho messo un intero pomeriggio per mettermi in pari», disse Kylar. Lei sorrise tristemente. «E ancora non capisci?». Ma le ragazze dicono mai qualcosa di sensato? Scosse la testa. «Quando eravamo bambini, tu eri quello che mi proteggeva, quello che si prendeva cura di me. Sei stato quello che mi ha dato una vera famiglia. Volevo stare con te per sempre. Poi, mentre crescevo, sei stato il mio benefattore, quello che mi rendeva speciale. Eri il mio giovane signore segreto che amavo così disperatamente e così scioccamente. Tu eri il mio Kylar, il mio


povero nobiluomo del quale le ragazze Drake mi raccontavano. Poi, sei stato quello che è venuto a salvarmi in prigione». Kylar rimase zitto per un po' e poi disse: «Lo dici come se fosse una cosa brutta». «Oh, Kylar. Cosa succederà a quella sciocca ragazza quando verrà fuori che non sono abbastanza per l'uomo che ho amato per tutta la vita?» «Tu, non sei abbastanza?» «È una favola, Kylar. Non me lo merito. Qualcosa succederà. Troverai qualcuna più carina o ti stancherai di me, e poi mi lascerai e io non mi riprenderò mai, perché l'unico tipo di amore che ho da offrire è stupido e cieco e così profondo e potente che mi sembra di spezzarmi quando cerco di trattenerlo. Non posso semplicemente sospirare d'amore e saltare nel tuo letto con te perché tu ne balzeresti fuori e continueresti con la tua vita, a differenza mia». «Non ti sto chiedendo di fare l'amore con me». «Quindi sono troppo brutta per...». Non riusciva a dirne una giusta. «Basta!», ruggì Kylar, con la voce così carica di emozione che Elene ammutolì. «Penso che tu sia la donna più bella che abbia mai visto, Elene. É la più pura. É la migliore. Ma non ti sto chiedendo di scopare!». Sul viso di lei si dipinse la costernazione ma, ovviamente, non accettava che le si urlasse contro. «Elene», continuò pacatamente. «Mi dispiace. Ho urlato. Mi spiace di averti colpito... anche se era per salvarti. Ho pensato di morire due volte in questi ultimi giorni... forse sono morto, non lo so. Quello che so è che quando ho pensato di morire, tu eri il mio rimpianto. No! Non le tue cicatrici», disse, toccandole il viso. «Rimpiangevo di non essermi trasformato nel genere di uomo con cui tu avresti potuto stare. Che non sarebbe stato giusto per me stare con te, anche se tu mi avessi voluto. Le nostre vite sono cominciate nello stesso lurido buco, Elene, ma, in qualche modo tu sei diventata quella che sei ora e io sono diventato questo. Non mi piace quello che ho fatto. Non mi piace quello che sono diventato. Tu non meriti una favola? Io non merito un'altra possibilità, ma te ne sto chiedendo una. Hai paura che questo amore sia troppo rischioso? Ho visto cosa succede quando non rischi. Momma K e il mio maestro si amavano, ma avevano troppa paura di rischiare e


questo li ha distrutti. Rischiamo tutto comunque. Sono disposto a rischiare per vedere il mondo attraverso i tuoi occhi, Elene. Voglio conoscerti. Voglio essere degno di te. Voglio guardarmi allo specchio e apprezzare ciò che vedo. Non so cosa succederà dopo, ma so che voglio affrontarlo con te. Elene, non ti sto chiedendo di scopare. Ma forse, un giorno, mi guadagnerò il diritto di chiederti qualcosa di più durevole». Si girò e trovarsela davanti fu più dura che affrontare trenta Highlander. Tese la mano. «Ti prego, Elene. Vuoi venire con me?». Lei lo guardò accigliata e poi distolse lo sguardo. I suoi occhi erano lucidi di lacrime, ma poteva essere per via della cenere nell'aria. Sbatté velocemente le palpebre prima di tornare a guardarlo. Gli scrutò il volto per un lungo momento. Lui incontrò i suoi grandi occhi marroni. Li aveva evitati così tante volte, per paura che lei vedesse chi era davvero. Si era allontanato così tante volte, per paura che lei non potesse tollerare la vista della sua lordura. Ora, incontrò quello sguardo. Vi si aprì. Non nascose le sue tenebre. Non nascose il suo amore. Lasciò che lo sguardo di lei vagasse dentro di lui. Con sua grande meraviglia, gli occhi di Elene si riempirono di qualcosa di più tenero della giustizia, qualcosa di più caldo della pietà. «Ho così paura, Kylar». «Anche io», disse lui. Lei gli prese la mano.


Ringraziamenti Fu tutto in discesa dopo il secondo anno di scuola media. Quello fu l'anno in cui la mia insegnante di inglese, Nancy Helgath, in qualche modo mi rese un figo incoraggiandomi a leggere Edgar Allan Poe ai miei compagni durante l'ora del pranzo. Sedevano tutti con gli occhi sgranati mentre leggevo il pozzo e il pendolo, Berenice e il corvo. Ma io avevo occhi solo per una di loro: la ragazza alta e intelligente per la quale avevo una cotta - e della quale ero terrorizzato - Kristi Barnes. Presto iniziai il mio primo romanzo. Proseguii in quella direzione e divenni un insegnante di inglese e uno scrittore, e sposai Kristi Barnes. Questo libro non sarebbe esistito senza mia madre - per molto più che per l'ovvia ragione. Cominciai a leggere tardi e, quando lo facevo, lo odiavo. Non aiutava, poi, un insegnante che mi urlava: «Frasi brevi!», per la mia incapacità di leggere in modo scorrevole ad alta voce in prima elementare. Mia madre mi ritirò dalla scuola per un anno, provvedendo a farmi lei da maestra (battuta su difficoltà nei rapporti sociali), e la sua dedizione e pazienza fecero nascere in me l'amore per la lettura. Un grazie alle mie sorelline, Christa ed Elisa, che mi imploravano per le storie della buonanotte. Un pubblico entusiasta e indulgente è un must per un narratore in erba. Tutte le principesse dei miei libri sono colpa loro. Una cosa è leggere, un'altra è scrivere. La mia insegnante d'inglese delle superiori, Jael Prezeau, è una su un milione. Ne ispirò a centinaia. È il genere di donna in grado di strapazzarti, incitarti, farti lavorare più sodo di quanto tu abbia mai fatto a un corso, darti un "buono" e fartelo amare. Mi diceva che non potevo infrangere le regole grammaticali che mi aveva insegnato fino a che non fossi stato pubblicato. Era una regola che non riuscivo a sopportare. Lei ci provò. Al college, considerai brevemente la politica. Orrore. Alcune persone mi salvarono dal disastro. Una di loro fu una spia industriale che conobbi a Oxford. Nel leggere un racconto che avevo scritto, disse: «Vorrei riuscire a fare quello che fai tu». Eh? Poi, il mio migliore amico, Nate Davis, divenne redattore della rivista


letteraria del nostro college e indisse un concorso per il miglior racconto breve. Meraviglia delle meraviglie, vinsi il premio in denaro e mi resi conto di aver guadagnato poco più del minimo sindacale. Ne fui conquistato. (Fu meglio di quanto avrei nuovamente fatto per molto, molto tempo). Cominciai un nuovo romanzo e, ogni volta che cercavo di fare i compiti a casa, potevo contare su Jon Low che veniva a bussare alla mia porta. «Ehi, Weeks, ce l'hai già un altro capitolo per me?». Era irritante e lusinghiero al tempo stesso. Non avevo idea che mi stessi preparando ad avere un editor. Devo ringraziare il Programma Scrittori dell'Iowa per avermi respinto. Nonostante mi vesta ancora qualche volta di nero e beva latte macchiato, mi aiutarono a decidere di scrivere il genere di libri che mi piaceva piuttosto che quelli che avrebbero dovuto piacermi. Il debito che ho con mia moglie, Kristi, non può essere maggiore. La sua fiducia mi ha fatto andare avanti. I suoi sacrifici mi incutono soggezione. La sua saggezza mi ha salvato da tanti punti morti. Per farsi pubblicare, bisogna superare difficoltà schiaccianti; per sposare una donna come Kristi, devi buttarle al tappeto. Il mio agente Don Maass ha una comprensione della narrazione che, per conto mio, non ha rivali. Don, mi hai fatto tornare con i piedi per terra quando ce n'era bisogno, sei stato un saggio maestro e un incoraggiatore. Mi hai reso uno scrittore migliore. Enormi ringraziamenti all'incredibile team editoriale della Orbit. Devi, grazie per le tue innumerevoli illuminazioni, il tuo entusiasmo e la tua guida attraverso un percorso non familiare. Tim, grazie per aver scommesso su di me. Jennifer, sei stata il mio primo contatto alla Orbit e, devo dirtelo, il fatto di mandarti un'e-mail con la domanda e ricevere la risposta la mattina stessa era fantastico. Naturalmente, poi hai cominciato a mandarmi scartoffie... e allora ho capito che non stavo sognando. Alex, grazie per la tua splendida grafica della pagina web, i bellissimi cartelloni, le pubblicità a tutta pagina "gratta e annusa" sul «New York Times», e quegli eccezionali espositori da Borders. Sono favolosi. Lauren, grazie per aver preso i miei "uno" e "zero" e averli trasformati in qualcosa di reale. Hilary, copyeditor straordinaria, un grazie speciale per una parola: "stiletto". Ha completato il romanzo. Voglio ringraziare anche tutti gli altri della Orbit e della Hachette che fanno il lavoro vero mentre noi artisti ci sediamo nei caffè, ci


vestiamo di nero e beviamo latte macchiato. Vi nominerei uno per uno, ma non conosco i vostri nomi. Ad ogni modo, apprezzo ciò che fate per prendere le mie parole e trasformarle in qualcosa. Perciò, gente dell'impaginazione, creativi (a proposito, wow!), fattorini, contabili, avvocati e ragazzo della posta, grazie. I sognatori folli hanno bisogno di un sacco di incoraggiatori. Kevin, il tuo essere fiero di me è più o meno la cosa migliore che possa capitare a un fratello minore. Papà, uno dei miei primi ricordi è l'aver condiviso con te il mio timore che lo shuttle bucasse l'atmosfera e facesse uscire tutta l'aria della terra. Invece che affrettarti a correggermi, mi hai ascoltato... e ancora lo fai. Jacob Klein, il tuo incoraggiamento e la tua amicizia negli anni sono stati inestimabili. C'eri sin dall'inizio (quattro del mattino a Niedfeldt, credo). Ai Cabin Guys del Hillsdale College (Jon "Anello mancante" Low, Nate "La mia testa sembra il culo di PK" Davis, AJ "Ci penserà la mia ragazza a pulire" Siegmann, Jason "Amo il burro" Siegmann, Ryan "Vomitatore misterioso" Downey, Peter "GQ" Koller, Charles "Canottiera di sabbia" Robison, Matt "Niente salsa speciale" Schramm), non avrei potuto dividere una catapecchia con dei cazzoni migliori. Dennis Foley, sei stato il primo scrittore professionista a concedermi tempo e assistenza. Mi dicesti che me l'avresti detto se era il caso di arrendermi e cercarmi un lavoro vero... e che non era il caso che lo facessi. Cody Lee, grazie per lo sfrenato entusiasmo; mi fa ancora sorridere. Shaun e Diane McNay, Mark e Liv Pothoff, Scott e Kariann Box, Scott e Kerry Rueck, Todd e Lisel Williams, Chris Giesch, Blane Hansen, Brian Rapp, Dana Piersall, Jeff e Sandee Newville, Keith e Jen Johnson grazie per aver creduto in noi e per aver contribuito a rendere gli anni di lavoro e di attesa non solo tollerabili, ma divertenti. Grazie a tutti coloro che, nel corso degli anni, scoprendo che ero uno scrittore, non mi hanno chiesto: «Oh, ma ti pubblicano?». Infine, grazie a te, curioso lettore che leggi i ringraziamenti. Ti rendi conto che le uniche persone che di solito lo fanno cercano il proprio nome? Se sei strambo abbastanza da leggere i ringraziamenti senza conoscere l'autore, io e te andremo d'accordo. Scegliere un libro di un autore che non hai mai letto è un salto di fede. Ecco la mia offerta: tu mi concedi un paio di pagine e io ti farò fare un viaggio fantastico.


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