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risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA


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quaderni di cultura geopolitica

Commentari

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Dossier

Editoriali

Scenari

Non toccate Musharraf MARIO ARPINO Belgrado si appella all’Onu RODOLFO BASTIANELLI Gli inglesi fra necessità e virtù CLAUDIO CATALANO pagine 64/83

I

Libreria

La storia

VIRGILIO ILARI pagine 108/113 •

Quali missioni internazionali per le FA? pagine 44/63

R

DANIEL PIPES MARIO ARPINO ANDREA TANI LUDOVICO INCISA DI CAMERANA pagine 96/107

Rapporto Difesa 2000

A

Scacchiere

MICHELE NONES ANDREA NATIVI pagina 42/43

M

Medio Oriente EMANUELE OTTOLENGHI Unione Europea GIOVANNI GASPARINI Russia DAVID J. SMITH Brasile RICCARDO GEFTER WONDRICH Africa EGIZIA GATTAMORTA pagina 84/95

Medvedev e il Padrino MARCELLO FOA La rinascita del nucleare CARLO JEAN Russia resurgens ANDREA NATIVI L’energia è l’arma del Cremlino DAVIDE URSO Cesare a Allah nel Caucaso DONATELLA SAGRAMOSO pagine 6/41 •

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JOHN R. BOLTON pagina 4

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Rubriche

BENIAMINO IRDI PIERRE CHIARTANO pagine 116/119

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DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Ludovico Incisa di Camerana, Beniamino Irdi, David J. Smith, Egizia Gattamorta, Riccardo Gefter Wondrich, Emanuele Ottolenghi, Andrea Tani

REGISTRAZIONE

TRIBUNALE

DI

ROMA N. 283

DEL

23

GIUGNO

2000

Editore Filadelfia, societĂ cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma


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ommentari

IPOCRISIA UE: CRITICA BUSH A BAGHDAD E POI LO IMITA

L’EUROPA IN KOSOVO FA COME GLI USA DI JOHN •

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R. BOLTON

a Dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo (Udi) è un fattore di enorme instabilità nei Balcani. Ha immediatamente esacerbato le tensioni etniche; incentiva • ulteriori modifiche dei confini per motivi etnici o religiosi; fornisce una base operativa potenzialmente invitante per gli islamisti radicali al di fuori dell’Europa ed ha ampliato la vasta gamma di questioni che minacciano ancora una volta di dividere la Russia dall’Occidente. Tuttavia, una delle questioni su cui si è concentrata ben poca attenzione è l’ipocrisia di quei Paesi membri dell’Unione europea che hanno riconosciuto la Dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo, nonostante la mancata autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. A dire il vero, la dichiarazione unilaterale di indipendenza non manca soltanto di autorizzazione, ma è nettamente contraria al potere di controllo dell’Onu in materia, vale a dire la Risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1244 del 1999. Questa Risoluzione afferma esplicitamente che le Nazioni Unite «riaffermano l’impegno di tutti gli Stati membri nei confronti della sovranità e dell’integrità territoriale della Repubblica Federale di Jugoslavia e degli altri Stati della regione, quale sancita dall’Atto Finale di Helsinki». Se, da un lato, la Risoluzione 1244 contempla dunque la possibilità che lo status del Kosovo possa cambiare, dall’altro sottolinea che i suoi sponsor intendevano

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che ciò potesse verificarsi sotto gli auspici del Consiglio di Sicurezza - il che, in effetti, non è avvenuto. Data la quasi certezza di un veto russo (e forse cinese) nel caso qualcuno avesse proposto una bozza di risoluzione a tal fine, l’idea era che ciò non si sarebbe potuto verificare né allora né mai. Pertanto il Consiglio di Sicurezza - pur avendo in passato definito lo status del Kosovo - non ha oggi la capacità di modificarlo. La Serbia, la Russia ed alcuni governi europei si sono lamentati, ma le loro proteste sono state messe da parte. La Serbia e la Russia affermano che dividere il governo di uno stato membro delle Nazioni Unite senza il suo consenso crea un precedente, persegubile da altri, in seno al “diritto internazionale,” al quali né loro né altri governi vorrebbero assistere. Sostengono che, agendo al di fuori dell’alveo del Consiglio di Sicurezza e di fatto violando una valida risoluzione del Consiglio stesso, quegli Stati che hanno riconosciuto l’indipendenza e la sovranità del Kosovo stanno - a dir poco - indebolendo il Consiglio di Sicurezza ed il sistema complessivo dell’Onu. Per gli Stati Uniti, il fatto di agire al di fuori dell’alveo del Consiglio di Sicurezza non è niente di nuovo: la Nato portò avanti la sua campagna militare del 1999 contro la Serbia, che portò in ultima analisi alla Risoluzione 1244, senza la sua autorizzazione. All’epoca i membri europei della Nato approvarono appieno la decisione di bombardare la Serbia fino a costringerla alla resa, ignorando convenientemente l’assenza di azione da parte del Consiglio. Ma l’allora


dossier Segretario Generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, criticò esplicitamente la decisione affermando: «se non si ripristina la posizione di preminenza del Consiglio di Sicurezza quale unica fonte di legittimazione dell’uso della forza, ci si incammina pericolosamente verso l’anarchia». Non solo: affermò anche che azioni quali quella della Nato costituivano una minaccia «al nucleo stesso del sistema di sicurezza internazionale. E che «Soltanto la Carta delle Nazioni Unite fornisce una base giuridica universale per l’uso della forza». Il nocciolo della questione è però rappresentato dal contrasto fra ciò che è stato appena fatto con riferimento alla Dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo e la notevole dose di critiche che si levarono in Europa nei confronti della decisione degli Stati Uniti di rovesciare il regime iracheno di Saddam Hussein nel 2003. Sebbene molti governi europei, compreso quello italiano dell’allora presidente del Consiglio dei ministri, Silvio Berlusconi, sostennero la coalizione internazionale che pose fine alla minaccia posta da Saddam alla pace ed alla sicurezza internazionale, molti altri governi, in particolare Russia, Francia e Germania, si opposero vigorosamente a quell’operazione. Sostenendo a gran voce che la mancanza di un’esplicita Risoluzione del Consiglio di Sicurezza che autorizzasse l’uso della forza per rovesciare il regime iracheno stava a significare che l’azione militare guidata dagli Stati Uniti fosse illegittima. Al contrario, gli Stati Uniti ribattevano che la campagna militare della coalizione era del tutto legittima per molte ragioni, e se non altro perché le ripetute violazioni da parte di Saddam delle disposizioni del 1991 in tema di cessate-il-fuoco, sancite dalla Risoluzione 687, autorizzavano la ripresa delle ostilità e delle operazioni militari. Di fronte alla possibilità di un veto francese (e probabilmente anche di un veto russo e cinese) sull’Iraq, gli Stati Uniti si affidarono all’autorità implicita della Risoluzione 687, ed al suo diritto intrinseco all’auto-difesa individuale e collettiva, garantito dall’Articolo 51 della Carta dell’Onu. Ecco perché si può dire che il rovesciamento del regi-

me di Saddam grazie alla coalizione guidata dagli Stati Uniti, la campagna aerea della Nato contro la Serbia nel 1999 e l’attuale riconoscimento della Dichiarazione unilaterale di indipendenza (anche da parte dell’attuale governo italiano) sono tre decisioni legate dallo stesso filo conduttore. Tutte sono state decise senza un’esplicita autorizzazione del Consiglio di Sicurezza. In verità, come ho appena scritto, il riconoscimento della Dichiarazione unilaterale di indipendenza del Kosovo è “peggiore” da questo punto di vista, in quanto il riconoscimento effettivamente viola quanto ribadito dalla Risoluzione 1244 in tema di sovranità serba sul territorio. Questa similitudine è significativa non tanto per il fatto che - come affermano Serbia e Russia - il riconoscimento del Kosovo viola il “diritto internazionale.” Al contrario, ciò che è realmente significativo è che molti in Europa non vogliono prendere atto che quanto stanno facendo oggi in Kosovo (e fecero con la guerra aerea del 1999) è esattamente ciò che fecero gli Stati Uniti in Iraq nel 2003 attirando le loro aspre polemiche. Criticare la strategia americana in Iraq può riflettere una legittima differenza politica. Ciò che non è legittimo è criticare la mancata autorizzazione da parte del Consiglio di Sicurezza a rovesciare il regime di Saddam, a meno che quegli europei non siano disposti ad ammettere che, in Kosovo, l’Europa sta semplicemente seguendo le orme americane. In breve, la questione del Kosovo - oggi come nel 1999 - non può essere risolta in modo soddisfacente per le principali potenze europee con decisioni del Consiglio di Sicurezza. Se, da un lato, non sono personalmente d’accordo con il riconoscimento del Kosovo a causa dei rischi posti, oggi, alla stabilità dei Balcani, dall’altro non discuto la correttezza dell’azione degli Stati membri della Ue che lo hanno fatto. Non è sorprendente né illegittimo che, in termini di attuale real politik, i Paesi europei abbiano fatto ciò che dovevano fare al di fuori dell’alveo del Consiglio di Sicurezza. Ciò che molti altri americani, me compreso, chiedono è che in futuro gli europei non critichino gli Stati Uniti quando fanno altrettanto. 5


PUTIN E MEDVEDEV: LA STESSA RUSSIA? C’è chi scommette che nulla cambierà, che il “reggente” del Cremlino sarà il campione della continuità e seguirà alla lettera le direttive del suo Padrino. E c’è chi spera in una possibile svolta: non tanto perché lo stesso Dmitrij Mevdedev ha promesso una politica di liberalizzazioni, quanto perché il suo dna post-comunista lo rende oggettivamente diverso da qualsiasi altro dei suoi predecessori, Putin compreso. Ma queste due ipotesi sono soltanto apparentemente antitetiche. In Russia ci saranno delle novità: ma saranno quelle che Putin vorrà sperimentare attraverso il suo clone che s’insedierà il prossimo 7 maggio al Cremlino. Trovandosi così in una posizione di privilegio. Se i cambi di rotta dovessero rivelarsi un errore le colpe ricadrebbero su Medvedev. Se fossero un successo Putin riuscirebbe agevolmente ad attribuirsene il merito. Il primo banco di prova sarà la modernizzazione economica: il boss dell’energia elettrica russa Ciubais ha avvertito che fra due anni il surplus commerciale garantito da petrolio e gas si esaurirà e dunque il Paese dovrà fare affidamento sull’economia reale, che però manca. La ricchezza di questi anni non è stata utilizzata per rilanciare industria, agricoltura, infrastrutture e nemmeno esercito e impianti nucleari. Molte banche sono sull’orlo del fallimento e il fondo di stabilizzazione non basterà a salvarle. Ne scrivono: Foa, Jean, Nativi, Urso, Sagramoso. 6


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MAPPA RAGIONATA DELL’OLIGARCHIA CHE GOVERNA IL CREMLINO POST-ELEZIONI

MEDVEDEV E IL PADRINO DI

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MARCELLO FOA

n teoria è tutto chiaro: Vladimir Putin è lo zar di Russia, magnificato dalla rivista Time che lo ha eletto uomo dell’anno. In questa primavera 2008 lascerà il Cremlino, avendo completato il secondo e ultimo mandato presidenziale, ma in realtà resta l’uomo forte del Paese. Gli succede il presidente di Gazprom Dimitry Medevdedev, un suo fedelissimo, di dieci anni

più giovane che ricompenserà colui che considera un padre affidandogli il posto di primo ministro e forse, un giorno, facendosi da parte per permettergli di tornare al Cremlino. Secondo la Costituzione, infatti, il terzo mandato è possibile purché non sia consecutivo. E dunque l’attuale leader potrebbe tornare in pista alle presidenziali del 2012. Raccontato così il futuro della Russia sembra essere lineare; in realta questo è un Paese estremamente complesso, soprattutto nella gestione del potere. All’epoca dell’Unione sovietica esistevano i cremlinologi, le cui previsioni però si rivelarono storicamente inaffidabili: le grandi svolte, come la perestroika di Gorbaciov o il crollo dell’impero sovietico, non furono mai anticipate da questi super esperti. Lo stesso accadde nell’epoca di Eltsin: per mesi tutti si sono chiesti chi potesse essere il successore e poi il vecchio Boris tirò fuori dal cilindro l’allora sconosciuto Putin, portandolo in pochi mesi dall’anonimato alla presidenza. Ma fu davvero Eltsin a sceglierlo? O piuttosto gli uomini che nell’ombra guidavano il Paese, approfittando delle pessime condizioni di salute del capo dello Stato?

Oggi sappiamo che la risposta giusta era la seconda; ma abbiamo poi scoperto che alleanze che sembravano incrollabili sono state spazzate via con grande disinvoltura. L’uomo che «inventò» Putin fu l’oligarca Boris Berezovsky, che, però, dopo qualche mese si trovò rinnegato e costretto all’esilio a Londra, dove vive tutt’ora e da dove cerca di organizzare un’improbabile resistenza all’attuale establishment. Già, l’establishment. Da chi è composto? E quali sono i rapporti con Putin? Tutti scrivono che Putin è diventato uno zar capace di imporre la propria volontà a tutti. Siamo proprio certi che la realtà sia così semplice e, soprattutto, che Putin sia così forte? In Occidente si tende a credere che l’oligarchia dominante nel Paese sia formata da fedelissimi di Vladimir, il quale terrebbe il comando con grande autorità, un padre-padrone molto energico e risoluto, come appare nelle occasioni pubbliche. Putin che mette alla frusta gli Stati Uniti, Putin con il colbacco mentre assiste su una nave militare a un’esercitazione, Putin in dolcevita nero che presenzia a un torneo di judo, Putin ossequiato dai 7


Risk grandi del mondo e che si permette di sfidare pubblicamente il governo di Londra. L’immagine c’è. Ma la sostanza? Per un occidentale è difficile saperlo con certezza. Il Cremlino è un circolo chiuso, retto da ufficiali o da ex membri del Kgb (ora ribattezzato Fsb) e dunque cultore del silenzio e della riservatezza. Ma sebbene oggi la democrazia russia sia annichilita e i media in gran parte ridotti al silenzio, qualcosa trapela. Gli interlocutori più interessanti sono gli ex collaboratori del Cremlino, che conoscono bene Vladimir e che, non avendo più nulla da perdere in termini politici, parlano volentieri. Uno di questi è Georgi Satarov, ex consigliere di Eltsin. Lui Vladimir lo ha visto crescere nell’ombra. Prelevato da San Pietroburgo da un altro potentissimo dell’epoca Eltsin, Pavel Borodin, Putin fu promosso rapidamente alla guida dell’Amministrazione presidenziale, poi alla testa dei servizi di sicurezza, infine primo ministro, prima di succedere allo stesso Eltsin.

«Vladimir non ha mai voluto essere presidente, è un ruolo molto difficile che implica enormi responsabilità. Lui in realtà ambisce ad essere un superoligarca; al potere preferisce il lusso, la vita da miliardario», ci ha spiegato Satarov in una recente intervista, descrivendo un leader politico meno decisionista di quanto si creda. Putin non sarebbe un uomo che ama risolvere i conflitti. «Quando due pezzi grossi in lite vanno da lui, chiedendogli di risolvere la controversia, lui si mostra infastidito e cerca di sottrarsi alle proprie responsabilità: li invita a essere ragionevoli, a mettetersi d’accordo tra di loro e a fargli sapere», spiega Satarov. Insomma, anziché comandare, il presidente russo tenderebbe ad essere neutrale, a schivare i problemi. E questa, secondo Satarov, sarebbe la sua vera forza. «Alcuni pensano che Putin sia manovrato da una sola persona dietro le quinte, ma si sbagliano; non c’è un grande vecchio, ma un insieme di interessi, di cui Vladimir è il rappresentante, il tutore. La sua funzione è quella di garante della pace tra i clan». A sorpresa, un Putin mediatore. L’analisi di Satarov, che ovviamente a Mosca non 8

tutti condividono, trova però alcuni riscontri. L’influenza dei clan è nota. L’attuale dirigenza è divisa in più fazioni, che fanno capo a diverse correnti dei servizi di sicurezza. Due su tutte: quella del vice capo dell’Amministrazione del Cremlino Igor Secin e quella dell’ex ministro della Difesa e vice premier Serghei Ivanov. Tutte queste fazioni sono unite da un duplice interesse: la stabilità del Paese e il controllo delle sue ricchezze, soprattutto riguardo le esportazioni di petrolio, gas e materie prime, di cui la Russia è ricchissima e che oggi sono controllate dallo Stato o da società di provata fedeltà al Cremlino. Ognuno dei clan ha accumulato in questi otto anni ricchezze immense: dirigenti - attuali e passati - del Kgb oggi sono stramiliardari, anche se, ovviamente, molti di loro tengono nascosta la propria ricchezza. Ma nella seconda metà del 2007 quell’equilibrio si è rotto. L’avvicinarsi della fine del secondo mandato di Putin ha scatenato l’appetito di alcune fazioni, che si sono messe in gara tra loro per conquistare la sucessione e dunque il potere e dunque ulteriori ricchezze. Anche perché la ricerca di un nuovo garante si è rivelata molto complicata. Ivanov si è candidato in prima persona, Secin ha escogitato l’opzione Zubkov, l’oscuro funzionario delle finanze nominato da Putin primo ministro e che fino a novembre era considerato un papabile. Anche Medveded sembrava in corsa, ma in ultima posizione e veniva considerato poco influente. La guerra tra i clan, sebbene mai ufficialmente dichiarata, è stato durissima, sporca, allusiva. Improvvisamente al vertice alcuni intoccabili non sono stati più tali. All’arresto di alcuni alti funzionari del Dipartimento antidroga è corrisposto quello del vice ministro delle Finanze; poi accuse, insinuazioni, veleni lasciati trapelare a mezzo stampa. Alla vigilia delle elezioni legislative di dicembre un giornale, Kommersant, ha pubblicato un’intervista con un finanziere, Oleg Schwartsman, che ha spiegato i metodi banditeschi con cui lo Stato rinazionalizza le imprese russe e i nomi di chi beneficia di queste transazioni che, in parte, finiscono su conti all’estero. Quali nomi? Quelli di Secin e della sua famiglia. «Nel 2004 Putin creò un’organizzazione chiamata Unione


dossier della giustizia sociale russa, incaricata di costringere le grandi aziende a mostrarsi responsabili verso lo Stato», spiega Schwartsman. La pratica funziona così: «Quando riceviamo la segnalazione giusta, ci presentiamo dagli azionisti e li invitiamo a vendere il pacchetto di maggioranza; ma non al valore di mercato, bensì a un prezzo molto più basso; tramite un’asta». A cui però partecipano solo loro. Gli imprenditori recalcitranti iniziano a ricevere le visite degli ispettori fiscali, dei servizi sociali, dei poliziotti, denunce penali. Insomma la loro vita diventa un inferno. «Alla fine si inginocchiano e accettano le nostre partnership», dichiara. «Ci comportiamo come un aspirapolvere che raccoglie attivi a condizioni molto favorevoli». Insomma quel finanziere ammetteva il racket di Stato, indicando in Secin il padrino di riferimento. Rivelazioni esplosive nell’ambito di una battaglia così devastante da indurre un altro esponente dei Siloviki ovvero dei servizi di sicurezza, Viktor Cherkesov, a pubblicare una lettera in cui invitava la classe dirigente a porre fine a uno scontro che sarebbe stato fratricida e perdente per tutti. Perché ognuna delle fazioni aveva gli strumenti per intimidire e attaccare le altre e perché le logiche di fondo sono quelle dei servizi di sicurezza. È in questo contesto che è nata la soluzione Medvedev. I clan si sono resi conto che solo un personaggio collaudato come Putin poteva garantire la pace. Come Putin o un suo clone: Medvedev appunto, che, sebbene sia considerato il capo dell’ala dei liberali, ha sempre contato poco. Nella Russia di oggi il vero potere è in mano ai membri dell’Fsb e lui nei servizi non c’è mai stato. Ma siccome il Cremlino conferisce poteri enormi e i capi delle correnti non si fidano fino in fondo di nessuno, ci si è rivolti ancora una volta a Vladimir che, dopo essere stato presidente, accetterà il ruolo gerarchicamente più basso di capo del governo. Più che uno zar, un tutore. Di Medvedev e, soprattutto, dei clan. Un’analisi suggestiva e molto originale. Vera o falsa? Esaustiva o parziale? Nessuno può saperlo con esattezza. La guerra al vertice, in ogni caso, c’è stata. Non a caso appena ufficializzata la candidatura di

Medvedev, Ivanov l’ha avvallata formalmente e lo stesso ha fatto Secin, che qualche giorno dopo si è fatto fotografare in pubblico con il capo dell’Fsb Nikolay Patrushev, che certo non viene considerato un suo amico; infatti negli ultimi anni si sono incontrati in pubblico solo due volte. Il messaggio anche in questo caso è apparso chiaro: la loro stretta di mano era la conferma che un’intesa era stata raggiunta. Dunque tutto ora può continuare come prima: ognuno ha la propria fetta di potere (e di affari). L’incognita, semmai, è rappresentata da Medvedev. Starà ai patti o si lascerà contagiare dall’ebbrezza del potere? Sarà fedele a Vladimir o seguirà il suo esempio, rivoltandosi contro il suo mentore? Le credenziali avvalorano la prima ipotesi: Medevedev vede in Putin un secondo padre, lo ammira profondamente e deve a lui la strabiliante ascesa.

Alcuni pensano che Putin sia manovrato da una sola persona dietro le quinte, si sbagliano; non c’è un grande vecchio, ma un insieme di interessi di cui Vladimir è il tutore Nato nel 1965, figlio di un docente universitario, laureato in legge, stava iniziando la carriera accademica, quando nei primi anni Novanta fu reclutato dal governo di San Pietroburgo per una consulenza tecnica. Il suo referente era Vladimir Putin, di cui divenne grande amico. Di più: inseparabile. Quando Putin inizia l’ascesa al vertice dello Stato Medvedev si trasferisce a Mosca. Nel 1999 diventa vice capo dell’Amministrazione del Cremlino, nel 2000 assume la guida della campagna elettorale di Vladimir, attorniato da alcuni specialisti della comunicazione, tra cui l’ex dissidente Gleb Pavlovsky. Nel 2002 Medvedev è nominato presidente di Gazprom, il gigante dell’energia, di cui lo Stato controlla la maggioranza e diventa 9


Risk un uomo ricco. Anzi, ricchissimo. Ma l’essere diventato un uomo d’affari non viene considerato un impedimento alla carriera politica. Nel 2003 è capo dell’Amministrazione del Cremlino, nel 2005 assume la carica di primo ministro con delega ai programmi sociali. Il petroliere che ha a cuore le sorti del popolo e che ha iniziato la campagna per le presidenziali puntando proprio su questi temi. È credibile? Certo la sua faccia perbene lo aiuta; alla gente risulta simpatico e, grazie al traino di Putin, non teme concorrenti. Sposato, ha un figlio, parla male l’inglese; non si conoscono vizi né passioni particolari. Nessuno ha ancora capito quali siano le sue idee politiche, né le sue convinzioni più profonde. Che presidente sarà? Mistero.

In ogni caso trova un Paese nominalmente in eccellenti condizioni, ma di fatto molto arretrato. E per capirlo basta chiedersi come venga usata la straordinaria ricchezza generata dalla vendita di petrolio e di gas? Solo una piccola parte è reinvestita nell’economia nazionale; un’altra fetta finisce nelle casse dello Stato, che non ha più debiti e che, all’inizio del 2008, ha creato un fondo sovrano, analogamente a Paesi che hanno una forte eccedenza commerciale e finanziaria, come la Cina e i Paesi del Golfo. Il grosso però resta nelle mani degli oligarchi e dei loro referenti politici. La lista dei miliardari giovanissimi e venuti dal nulla è lunga: Abramovich, ad esempio, patron del Chelsea e governatore della Ciukotka, nell’estremo oriente, ai tempi della perestroika faceva il cambiavalute clandestino sotto le mura del Cremlino. Come ha fatto ad assumere il controllo di una delle principali società petrolifere del Paese? Questa è una delle tante domande senza risposta nella storia recente del Paese. L’accordo tra le diverse fazioni del Kgb si fonda, essenzialmente, sulla spartizione della ricchezza. Ognuno vuole la sua parte; a quanto pare anche Putin, che avrebbe un patrimonio immenso. Lo ha rivelato recentemente uno dei suoi ex collaboratori, Stanislav Belkovski, che lo ha stimato in 40 miliardi di dollari. 10

L’uomo di fiducia del presidente sarebbe Gennady Timchenko, un discreto uomo d’affari russo, che vive a Ginevra e guida la Ganvor, una società specializzata nel trading petrolifero, praticamente sconosciuta, ma di gran successo: nel 2007 ha messo a segno un utile netto di otto miliardi di dollari, con un giro d’affari di 43 miliardi. Timchenko è di un ex colonnello del Kgb, che alla fine degli Ottanta conobbe Putin diventando uno dei suoi amici più fidati. Secondo Belkovski, il presidente russo «controllerebbe il 75 per cento della Gunvor, il 37 per cento del gruppo petrolifero Surgutneftegaz e il 4,5 per cento del colosso dell’energia Gazprom». Naturalmente «tramite una rete opaca di società e fondi offshore il cui punto finale si troverebbe a Zugo (in Svizzera) e nel Liechtenstein». In realtà la Gunvor sarebbe più potente di quanto indichino le cifre ufficiali. Creata nel 1997, in solo dieci anni è diventata il numero tre al mondo nel trading del petrolio dell’Est. Secondo uno dei fondatori, lo svedese Torbjörn Törnqvist, gestisce il 30 per cento delle esportazioni di greggio dalla Russia. Ognuno dei nomi che contano del Cremlino avrebbe un Timchenko di fiducia. La domanda fondamentale per i destini del Paese è la seguente: Medvedev sarà davvero solo il garante degli equilibri o tenterà di cambiare qualcosa nell’interesse del Paese? E affronterà il nodo delle infrastrutture che sono obsolete, anche in campo energetico? Si rende conto che questo tema non è più eludibile? Lo stesso Belkovski, da noi intervistato, traccia un quadro disastroso del Paese. «L’agricoltura ormai è azzerata e il fabbisogno alimentare della Russia dipende al 90 per cento dalle importazioni», spiega. «Nessuno problema strutturale è stato risolto negli otto anni di Putin. L’inflazione cresce, soprattutto sui beni alimentari ed erode il potere d’acquisto della gente. Il governo nel novembre scorso ha imposto il controllo dei prezzi per evitare esplosioni di rabbia popolare nel periodo elettorale, ma a marzo il costo della vita salirà ulteriormente». E ancora: «Non è stato fatto nessun investimento


dossier sugli impianti di estrazione di gas e di petrolio, né sugli oleodotti, che sono ormai obsoleti; anzi moribondi, né nella ricerca di nuovi investimenti. Se continua così nel 2011 la produzione russa di greggio calerà drasticamente e servirà a malapena a coprire il fabbisogno interno; dunque non ci saranno più esportazioni». Gli ultimi investimenti sulle infrastrutture, osserva Belkovski, sono stati fatti da Breznev. «Da allora più nulla: né autostrade, né reti ferroviarie, né impianti per la produzione di energia». Secondo l’ex consigliere del presidente anche il riarmo militare annunciato da Putin è in realtà un bluff: «L’esercito sta morendo». Belkovski è persuaso che l’attuale assetto al vertice non possa durare a lungo e che le lotte tra i clan riprenderanno presto. Nel frattampo proseguirà l’esportazione di capitali, perché in realtà tutti diffidano di tutti e se un giorno la situazione dovesse precipitare, molti si rifugerebbero in Occidente. Già, ma quando? «L’ipotesi più probabile è la primavera del 2010». Non tutti condividono il pessimismo di Belkovski: molti economisti vedono nascere una classe media e con essa un’imprenditoria slegata dal business dell’energia. I sociologi percepiscono segnali di una crescita sociale, praticamente sconosciuta nella storia del Paese. Ma è duratura? Sergej Kara-Murza è un politologo molto stimato, di scuola sovietica, esperto di manipolazione. «Il pregio di Putin è di aver svegliato il Paese dall’ipnosi collettiva in cui era caduto negli anni Novanta», spiega ricevendoci nel suo ufficio. «Sotto quell’ipnosi la Russia aveva perso fiducia nei propri mezzi, sviluppando un psicologia autodistruttiva. Il presidente ha invece ridato fiducia al popolo, risvegliando la coscienza e l’orgoglio nazionale. Ed è un miracolo che ci sia riuscito: aveva pochissime possibilità di farcela». Secondo Kara-Mourza è fondamentale che Putin resti al potere, sebbene nelle vesti di primo ministro. «Nessuno lo vede come un eroe che salva il Paese, ma i suoi interessi coincidono con quelli del popolo: senza di lui la Russia non ce la fa». E questo giustificherebbe le sue diffidenze nei confronti

dell’Occidente. «Putin ha capito che può essere rovesciato con metodi non violenti e teme una rivoluzione arancione sulla Piazza Rossa; per questo ha moltiplicato le precauzioni e le diffidenze», sa che «esistono tanti altri modi per rovesciare in modo incruento un regime, ad esempio fomentando le tensioni etniche o le spinte separatiste di alcune regioni». Si cautela come può e sa fare un ex colonnello del Kgb, stringendo la morsa sulla società.

A pagarne le conseguenze è la democrazia russa. Il Parlamento scaturito dalle elezioni farsa del dicembre 2007 esclude tutti i partiti ostili a Putin, tranne quello comunista, che però è in evidente declino e non è più in grado di mobilitare la società civile. Tutti i partiti liberali, da Yabloko all’Unione delle forze di destra, non sono riusciti a superare il quorum del 7 per cento. All’ex campione del mondo di scacchi, Garry Kasparov, che ha fondato il movimento Altra Russia, hanno impedito di presentarsi alle presidenziali appena avvenute. I media non parlano di lui e ogni manifestazione viene repressa a manganellate. Nelle regioni periferiche i suoi sostenitori vengono picchiati e perseguitati; una giornalista è stata addirittura rinchiusa in un ospedale psichiatrico, come ai tempi dell’Urss. Lo stesso Garry Kasparov è stato tenuto cinque giorni in isolamento senza nemmeno avere la possibilità di parlare con il proprio legale. La cappa politica è soffocante e non ammette voci libere. L’elenco dei giornalisti uccisi è lunghissimo o e include Anna Politkovskaja, indomabile critica del regime, freddata nell’androne di casa a Mosca. Quell’omicidio non è stato ordinato da Putin, ma è figlio del clima che il governo ha incoraggiato: il fatto che sia stata uccisa il giorno del compleanno del presidente rappresenta un chiaro messaggio nelle logiche del Kgb e della malavita. Qualcuno ha voluto fare un dono particolare al Numero Uno, che però non ha affatto gradito; visto che quell’omicidio gli ha creato gravi imbarazzi internazionali. Via Putin, tocca adesso a Medvedev. In una Russia improvvisamente ricca, ma sempre più complessa, intrigante, pericolosa. 11


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A VENT ’ANNI DA CHERNOBYL MOSCA RIVUOLE GLI ANTICHI SLENDORI

LA RINASCITA DEL NUCLEARE DI

L’

CARLO JEAN

Urss è stato uno dei Paesi più attivi nella produzione di energia elettronucleare. A parte i motivi ideologici - che ponevano l’elettrificazione come premessa alla modernizzazione del Paese - hanno agito al riguardo gli enormi spazi e le difficoltà e costi di trasporto del combustibile fossile o dell’elettricità. Nella Russia attuale, a tali motivi si aggiungo-

no sia preoccupazioni ecologiche, sia la volontà di risparmiare gas naturale - che oggi fornisce il 46 per cento dei mille miliardi di Kwh/anno prodotti in Russia - per poterlo esportare. Ciò contribuirebbe a mettere Gazprom in condizioni di onorare gli impegni assunti verso l’Europa, nonostante la diminuzione della produzione dei grandi giacimenti situati ad ovest degli Urali e in Siberia occidentale, ed i tempi necessari per l’entrata in produzione di quelli dell’Oceano Artico-Mare di Barents. Per la valorizzazione dei giacimenti artici da parte di Gazprom, l’industria nucleare russa sta mettendo a punto una soluzione innovativa: la costruzione di centrali nucleari galleggianti, con una potenza installata da 70 a 600 Mwe, sistemate a bordo di barconi da 23mila a 45mila tonnellate. L’industria nucleare - unitamente a quella degli armamenti - rappresenta uno dei pochi settori internazionalmente competitivi dell’economia russa. Entrambe evitano che la Russia si trasformi in un semplice “sceiccato petrolifero eurasiatico”, basato sull’esportazione di materie prime, soprattutto energetiche. Armi e nucleare contribuiscono alla bilancia commerciale russa rispettivamente con 7-8 miliardi di dollari all’anno per gli arma12

menti e di 6-7 miliardi di dollari per il nucleare, di cui 3-4 provenienti dall’esportazione di combustibile e altrettanti da quella di centrali e dei servizi connessi. Alla fine degli anni Sessanta fu approvato dal Gosplan un piano ambizioso che prevedeva la costruzione, entro il Duemila, di una potenza installata elettronucleare di ben 200mila Mwe. Tale piano non fu attuato per il rallentamento dell’economia sovietica prima, e per l’incidente di Chernobyl, poi. Tuttavia, la costruzione di reattori non si arrestò mai. Oggi ne sono in funzione 31 in 10 siti, con una potenza installata di circa 23mila Mwe. Una dozzina sono di prima generazione, di cui nove del tipo di quello di Chernobyl (tipo Rbmk, a grafite), e raggiungeranno il previsto limite della loro vita operativa entro il 2010. L’ultimo reattore tipo Chernobyl fu costruito nel 1979. Però, la società di gestione delle centrali nucleari - Rosenergoatom - ha deciso di prolungarne la vita di 10 anni, portandola a 40. Per i reattori di seconda e di terza generazione il prolungamento dovrebbe essere a 50 anni, con l’uso anche di tecnologie occidentali - francesi, tedesche e giapponesi - soprattutto per i sistemi di sicurezza e per quelli di comando e di controllo.


dossier Kirienko, il miglioramento dell’efficienza delle centrali elettronucleari e un loro più razionale sfruttamento hanno consentito negli ultimi due anni, di elevarne la percentuale dal 17 al 23 per cento. Il 44 per cento dell’elettricità russa del 2005 è stata prodotta con gas naturale, il 17 con carbone e il 16 per cento da centrali idroelettriche. La Russia si propone di produrre 1.500 Gwh di elettricità entro il 2015 e 2.000 Gwh entro il 2020, per tendere a 3000 nel decennio successivo. Prevede anche di produrre a lungo termine il 50 per cento della propria energia elettrica con l’idroelettrico e il nucleare, di aumentare l’uso del “carbone pulito” e di ridurre drasticamente a meno del 10 per cento l’uso del gas naturale, le cui esportazioni in Europa costituiscono il pilastro della ripresa economica e del “ritorno geopolitico” della Russia nel mondo. La diminuzione del consumo interno di gas è reso necessario dalle difficoltà che avrà Gazprom nel soddisfare gli impegni presi con i vari Paesi europei, dalla volontà del Cremlino di impiegare la potenza energetica come strumento di politica estera e dal suo timore che l’Ue incominci - dopo tante “chiacchiere” - a definire una seria politica di sicurezza energetica, cioè di diversificazione delle fonti di approvvigionamento. Essa diminuirebbe i benefici economici e il peso politico di Mosca in Europa. È da notare però che, per la realizzazione di tale enorme piano, Mosca si trova confrontata a molti elementi di incertezza. Essi non derivano solo dalle difficoltà di riattivazione dell’industria nucleare russa, duramente colpita da Chernobyl prima, e dalla crisi economico-finanziaria degli anni Novanta, poi. Derivano anche dal fatto che la Russia ha aumentato grandemente la propria presenza sul mercato mondiale del nucleare civile. Ciò assorbe Il Cremlino e la Duma hanno deciso di una parte cospicua delle capacità produttive esiaffrontare con decisione la situazione, anche con stenti. Per inciso, un rientro dell’Italia nel nucleala “rinascita del nucleare”. Nel 2005, dei circa re deve avvenire in tempi brevi, oppure non avver1.000 Mwh prodotti circa 150 (17 per cento) sono rà mai, perché il mercato sarà saturo, dati i massicstati di origine nucleare. Come affermato da ci investimenti nel settore effettuati da tutti i Paesi

Da un paio d’anni è stato definito un grandioso piano, redatto dall’ex primo ministro di Eltsin, Sergej Kirienko, nuovo capo del Rosatom (già Minatom) - la potente Agenzia federale russa per l’energia atomica - che prevede la costruzione di 40 nuovi reattori entro il 2030 e il passaggio del nucleare, nella produzione di energia elettrica russa, dall’attuale 23 al 25 per cento, nonostante che se ne preveda di triplicare la produzione, oggi insufficiente a soddisfare la domanda. La Russia - per l’estensione del territorio e la durezza delle condizioni climatiche, soprattutto nelle regioni artiche - dovrebbe consumare molta più energia elettrica di quanto fa. I suoi consumi effettivi pro capite sono all’incirca eguali a quelli italiani, ma “l’efficienza” e il “risparmio” energetici sono enormemente inferiori ai nostri. In Russia, produzione e distribuzione dell’elettricità sono monopolizzate dall’Ues, diretto da Anatoly Chubais. La produzione non riesce a fronteggiare la domanda. Frequenti sono i black-out e le industrie più “energivore” - ad esempio la Rusal, gigante mondiale dell’alluminio - lamentano la carenza di energia. Che continua peraltro ad essere venduta a prezzi “stracciati”, con gravi oneri per il bilancio federale. Il risparmio energetico è come si è ricordato - molto carente. Le dispersioni di energia nella rete di distribuzione sono enormi: ammontano a circa il 20 per cento della produzione, a cui va aggiunto un altro 20 per cento, che viene consumato nelle centrali elettriche. Di conseguenza, su una produzione di circa mille miliardi di Kwh, i consumi effettivi ammontano a 600700 miliardi di Kwh. Anche nel settore elettrico la Russia dovrà effettuare investimenti per centinaia di miliardi di dollari.

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Risk industrializzati. Questo dovrebbe servire di ammonimento a quanti da noi parlano di ritorno alla sola ricerca sul nucleare civile, come una loro grande concessione, fatta cadere dall’alto, forse per nascondere l’incapacità dimostrata da taluni nel valutare la portata del problema dei rifiuti urbani di Napoli, vera e propria vergogna nazionale, il cui peso non sembra gravare più di quel tanto.

Putin è stato molto cauto. Si è reso conto delle difficoltà di una rapida ripresa dell’industria nucleare in Russia. Per tale ragione, ha affermato che l’unica soluzione per ridurre il ricorso al gas per l’elettricità è quella di ricorrere massicciamente al “carbone pulito”, facendo ogni possibile sforzo per fissare la Co2. Comunque, solo con le centrali nucleari, la Russia potrebbe anche trarre cospicui benefici dal “mercato mondiale” dei gas ad effetto serra. Le quote Co2 hanno oggi un valore di 20-25 euro a tonnellata, ma taluni prevedono che possano salire a 50 euro nel 2013, allorquando entrerà in funzione la seconda fase di Kyoto e incominceranno a farsi sentire gli effetti della politica Ue di contenimento delle loro emissioni, ispirata dall’ecologismo più radicale ed irresponsabile. Con i suoi piani nucleari, la Russia potrà divenire un interessante venditore all’Italia di quote di anidride carbonica. Il Cremlino ha previsto sostegni finanziari massicci all’industria nucleare civile e grandi investimenti per utilizzare l’enorme potenziale idroelettrico della Siberia. I fondi - 55 miliardi di dollari per il solo nucleare in cinque anni - saranno tratti dal “tesoretto” di 200 miliardi di dollari accumulato dalla Russia con le esportazioni di petrolio e di gas e denominato “fondo di stabilizzazione”. Esso non verrà utilizzato per finanziare lo smantellamento dei vecchi reattori. Il fondo del decommissioning e di gestione delle scorie è stato “prosciugato” nei difficili anni Novanta. Esso sarà ripristinato, solo allorquando sarà possibile accantonare una parte dei profitti dell’energia prodotta dalle nuove centrali. I piani14

ficatori russi ritengono che il costo di produzione dell’energia elettronucleare sarà sempre inferiore a quello delle fonti fossili di energia primaria, i cui prezzi sono destinati a salire ulteriormente sul mercato mondiale. Aumenterà beninteso anche il costo dell’uranio. Ma esso incide sul life-cycle cost di una centrale elettronucleare - quindi su quello del Kwh - solo per il 5, contro l’80 per cento delle centrali a combustibile fossile. Di conseguenza, anche un raddoppio del prezzo dell’uranio avrà un impatto trascurabile sul costo dell’elettricità prodotta. In sostanza, il rilancio del nucleare in Russia obbedisce a motivazioni politico-strategiche, oltre che economiche. I programmi russi aprono all’Italia notevoli possibilità di collaborazione, in campo sia elettrico che nucleare. Le carenze maggiori - in Russia, come negli altri Paesi che stanno vivendo un revival del nucleare derivano dalla carenza di personale esperto. Tutti stanno infatti richiamando in servizio ingegneri e tecnici ultra-sessantacinquenni, che hanno partecipato al boom del nucleare negli anni Settanta. Per preparare un progettista, degno di questo nome, sono infatti necessari una quindicina di anni, dopo la fine degli studi universitari. Tali opportunità sono state avvertite sia dall’Enel che dalla Sogin. Il primo con un memorandum of understanding che estende la collaborazione con Ues e Rosatom dalla Russia all’intera Europa Centro-Orientale; il secondo con l’esercizio del suo ruolo di general contractor, per conto del governo italiano, per la partecipazione nazionale al programma Global Partnership, volto a disinnescare la “bomba ecologica”, rappresentata dai vecchi sottomarini e navi di superficie a propulsione nucleare della Flotta del Nord ex sovietica. Essa ha aperto a diverse imprese italiane interessanti prospettive di collaborazione con quelle russe, anche nelle esportazioni del nucleare civile, settore in cui la presenza russa è molto importante dalla Cina all’India, dall’Iran alla Bulgaria e dal Sud Africa all’Argentina. Nel secondo dopoguerra, l’Urss


dossier effettuò enormi sforzi sia nel settore della ricerca scientifica e tecnologia, sia dell’industria nucleare militare e civile. I centri di ricerca - a parte il glorioso Istituto Kurchatov di Mosca, in cui furono complessivamente costruiti dodici reattori, di cui sono ancora in funzione sei (il primo iniziò a funzionare nel dicembre 1946) - erano soprattutto destinati ad impieghi militari e situati nelle cosiddette “città chiuse”, circondate da un rigoroso segreto. Lo stesso valeva per gli impianti del ciclo del combustibile, destinati all’arricchimento dell’uranio, alla produzione del plutonio e al riprocessamento del combustibile irraggiato, in modo da recuperarne l’uranio e il plutonio. Il primo reattore sperimentale russo per la produzione di energia elettrica fu realizzato nel 1954, con 5 Mwe di potenza installata. La messa a punto e l’industrializzazione di veri e propri reattori di potenza avvenne nella seconda metà degli anni Sessanta (quando l’Italia era la terza produttrice di energia elettronucleare nel mondo, dopo Usa e Uk, e prima della Francia!) e conobbe subito una fortissima accelerazione.

Oggi - come ricordato - sono in funzione in Russia 31 reattori di potenza, di cui 12 costruiti nei primi anni Settanta, tra cui 9 sono a grafite, del tipo Rbmk (come quello di Chernobyl e, in Italia, della centrale di Latina, che ha però misure di sicurezza enormemente più efficienti). Un paio sono di seconda generazione e i rimanenti di terza generazione, eccetto uno - il Bn600 di Beloyarsk, che è un reattore veloce, unico della categoria oggi in funzione al mondo dopo la chiusura del Super-Phoenix franco-italo-tedesco. Rosatom lo gestisce con il Giappone e con la Cina, ma sta sviluppando reattori veloci molto più avanzati e potenti. Gli attuali programmi russi dell’elettronucleare prevedono - oltre che il prolungamento della durata di vita operativa dei reattori esistenti la messa in funzione di un reattore all’anno a partire dal 2009, di due dal 2012, di tre dal 2015 e di

quattro dal 2020. In totale, dovrebbero essere costruiti 25 nuovi reattori entro il 2020 e una quarantina o forse più entro il 2030. I reattori previsti dal programma saranno - almeno per i primi duetre decenni - di “terza generazione più”, del tipo Vver-1000 versione V-320, da 950-1.000 Mwe, in continuo perfezionamento da parte della società di progettazione Okb-Gydropress.

Con un territorio immensamente più grande, i consumi di energia elettrica russi sono quasi uguali a quelli italiani. Ma efficienza e risparmio sono più bassi dei nostri La costruzione di un reattore è della durata di 54 mesi. Per i sistemi di comando e controllo e di sicurezza verranno utilizzate le tecnologie più avanzate francesi (Areva), tedesche (Nukem) e giapponesi (Mitsubishi). Sono state fatte ipotesi di partecipazione anche dell’industria italiana. Esse dovrebbero essere inquadrate in un piano organico di perfezionamento e di recupero delle capacità tecnologiche nazionali nel settore nucleare. Purtroppo, sembra che il ministero competente abbia altro a cui pensare. Tenendo conto della chiusura dei reattori più vecchi, del prolungamento della vita operativa di altri e delle nuove costruzioni, la potenza elettronucleare installata in Russia dovrebbe passare entro il 2016 dagli attuali 23 a 35 Gwe, con un aumento della produzione da 150 a 240 miliardi di Kwh. In questo contesto è prevista anche la messa in servizio di 8 centrali galleggianti, di cui una è già in costruzione, con due reattori da 35 Mwe ciascuno, analoghi a quel15


Risk li impiegati per i rompighiaccio a propulsione nucleare. Altre centrali galleggianti, con potenza installata fino a 600 Mwe, sono in progettazione. Inoltre, con un consorzio con industrie cinesi e giapponesi, Rosatom sta costruendo un nuovo reattore veloce - il Bn-800 - raffreddato a sodio e che impiega barre d’uranio fortemente arricchito (20 per cento) misto a plutonio (Mox) sia di origine militare sia prodotto con il riprocessamento delle barre di combustibile esausto. Il Bn-800 dovrebbe servire come modello per la messa a punto di un numero imprecisato di reattori veloci, e per l’utilizzo del plutonio e dell’uranio militari e civili, esistenti in Russia in grandi quantità, trasformandolo così da scoria a combustibile. Le direttive impartite a fine 2006 dal Governo e dalla Duma a Rosatom per questo grandioso piano nucleare sono le seguenti: il costo del Kwh non deve superare i 3 centesimi di dollaro Usa; i costi di costruzione delle nuove centrali non devono superare mille dollari per Kwe (Gydropress sostiene però che, dato il rilevante impatto sui costi di costruzione delle nuove misure di sicurezza - safety parzialmente intrinseca e doppio contenitore - i costi delle nuove Vver 1000, tipo 320, saranno di 2.100 dollari per Kwe; la durata di servizio delle nuove centrali deve essere di almeno 50 anni; i tempi di costruzione e messa in esercizio non devono superare i 5 anni; gli intervalli per la ricarica del combustibile vanno aumentati a 4-5 anni. Dati i ritardi che subirà lo smantellamento delle vecchie centrali, esse dovranno essere messe in sicurezza. Inoltre, - utilizzando i profitti derivati dal prolungamento della vita operativa delle centrali nucleari in servizio - si procederà alla bonifica delle zone più inquinate radioattivamente, quali quelle di Krasnoyarsk nella Siberia SudOrientale (dove esiste la grande miniera di uranio), di Mayak a Sud degli Urali (dove è situato l’impianto di riprocessamento Rt-1) e di altre ancora, fra cui le “città chiuse o segrete”. Per dare un’idea del livello di contaminazione, c’è da 16

riportare il dato prodotto nelle discussioni alla Duma: nei siti sopra ricordati tale livello è pari a 40-50 curie per Kmq, rispetto ai 10-15 di Chernobyl. Altre aree su cui si concentreranno i fondi della bonifica (a parte i poligoni dove sono stati fatti esplodere ordigni nucleari in superficie o con scoppio aereo basso) sono quelle in cui l’Urss ha impiegato esplosioni nucleari per scavare canali o per creare caverne, per stoccarvi le riserve strategiche di petrolio e di gas. L’Urss effettuò 116 esplosioni nucleari “civili”, fra il 1965 e il 1988, con ordigni di potenza fra i 3 e i 10 kiloton (1 Kt = 1.000 tonnellate di tritolo). In talune zone si sono verificate preoccupanti fughe radioattive, con contaminazioni propagatesi lungo le falde acquifere. Per finanziare tali programmi - inclusa la costruzione delle nuove centrali - la Russia prevede di spendere 55 miliardi di dollari, in parte tratti, come si è ricordato dal “fondo di stabilizzazione” e di coinvolgere nel finanziamento l’Ues e le imprese “energivore”. Ad esempio, il Rusal “gigante dell’alluminio” - finanzierà la costruzione di 2 centrali da 100 megawatts, che dovrebbero consentirgli di aumentare la produzione di oltre un milione di tonnellate all’anno.

Nel periodo sovietico, il nucleare civile e quello militare erano strettamente integrati e, soprattutto, nel settore della ricerca scientifica e tecnologica, difficilmente distinguibili fra di loro. Gran parte della progettazione e costruzione degli impianti, dello stoccaggio e riprocessamento delle scorie e della produzione di barre per le centrali faceva capo al ministero dell’Industria militare. La gestione delle centrali era affidata invece agli utilizzatori. Nel 1992 si incominciò a mettere ordine nel settore con la costituzione di un ministero (Minatom), posto alle dipendenze del primo ministro. Esso fu trasformato, nel 2004, nell’Agenzia federale dell’energia atomica, dipendente direttamente dal presidente. Rosatom ha una struttura articolata per settori di


dossier attività. Le principali società dipendenti sono: Rosenergoatom (Rea), che si interessa dei generatori di potenza; Tvel, che produce il combustibile nucleare; Atomenergonash, che costruisce i reattori; Atomenergoprojekt, incaricata della progettazione; Tenex, responsabile del commercio estero di barre di combustibile, materiali radioattivi e servizi connessi; Atomstroyexport, che cura la costruzione di centrali all’estero. La Rea ha costituito all’inizio del 2006 una società destinata a curare la progettazione e costruzione dei reattori galleggianti da 70-600 Mwe, necessari a Gazprom ed a Rosneft per lo sfruttamento dei giacimenti artici. Dal presidente, non da Rosatom, dipende un’organizzazione - la Radon, analoga per molti versi alla nostra Nucleco - che cura la gestione e lo stoccaggio dei materiali nucleari di origine ospedaliera e industriale. Essa dispone di 16 siti centralizzati di stoccaggio, sparsi nella Federazione. Sempre dal presidente dipende l’organismo di licensing, di autorizzazione e di controllo della sicurezza, denominato Gan, Comitato dello Stato per la Sicurezza nucleare e radioattiva. Esso è stato recentemente ristrutturato e i suoi poteri ridimensionati, anche perché evidenziava - come spesso avviene negli organismi analoghi di tutti i Paesi, timorosi di assumersi responsabilità, dietro la scusa di alte motivazioni ecologiche o per semplice moral hazard, che privilegia l’inazione rispetto alla desisione! - inaccettabili ritardi nei suoi atti burocratici, intralciando l’azione di Rosatom, sia per la messa in sicurezza ed il prolungamento della vita operativa delle centrali, sia soprattutto per la costruzione delle nuove centrali e della gestione delle scorie radioattive. È un provvedimento che dovrebbe essere preso anche in Italia, qualora il ritorno al nucleare non si limitasse a semplici chiacchiere. Esso è preliminare ad ogni serio programma. Ne sono testimoni i ritardi per le autorizzazioni all’adozione di misure di sicurezza, chiara manifestazione di un fatalismo inaccettabile. La responsabilità già grave di chi avrebbe dovuto

provvedere potrebbe divenire del tutto insopportabile. Nel aprile 2007, in Russia, il nucleare civile è stato completamente separato da quello militare, con un decreto del presidente Putin. In esso è prevista la costituzione di una holding - Atom energo prom o Aep (chiamata anche Rosatom Corporation, per distinguerla da Rosatom agenzia federale). Ad essa faranno capo anche la produzione di uranio, la progettazione, gli istituti di ricerca e gli impianti del ciclo del combustibile. Tale decreto, dopo aver precisato che solo lo Stato può possedere materiale radioattivo, elenca le società ed enti autorizzati a trattarlo e a gestirlo. Non sono ancora ben chiari, dati i ritardi intervenuti nell’attuazione della ristrutturazione, che fine farà il Rosatom come agenzia federale e se esso ne risulterà potenziato e più autonomo dall’amministrazione presidenziale, oppure se la ristrutturazione è stata effettuata per ridimensionarne gli enormi poteri o semplicemente per consentire alle fazioni esistenti al Cremlino di prenderne più saldamente il controllo, anche in relazione all’aumento cospicuo delle sue risorse finanziarie aumentando così anche il loro potere politico. La Russia è uno dei grandi esportatori di combustibile nucleare. Dispone di consistenti risorse di uranio (possiede circa il 5 per cento delle riserve mondiali, economicamente sfruttabili ad un prezzo di 80 dollari al chilogrammo,). Esse le garantiscono un’autonomia di quasi un secolo con le attuali centrali, che utilizzano solo l’1 per cento dell’energia potenziale esistente nelle barre di combustibile. Beninteso, allorquando entreranno in funzione i reattori veloci, self-breeder, tale autonomia andrà moltiplicata per almeno 40-60 volte, in misura pari a quella dell’aumento dell’efficienza energetica nell’utilizzazione del combustibile radioattivo. Per gli impianti di arricchimento la Russia produce oltre 240mila centrifughe all’anno. Particolare interesse ha il programma From Megatons to Megawats, con il quale la Russia si è impegnata a fornire agli Usa barre di 17


Risk uranio ex militare, impoverito dal 90-95 per cento al 2-3 per cento. Tale programma, iniziato nel 1993 e dalla durata di 20 anni (finirà quindi nel 2013), soddisfa il 15 per cento della domanda globale di barre e comporterà acquisti da parte degli Usa complessivamente per 12 miliardi di dollari.

La Russia fornisce in tal modo, in parte per il tramite degli Usa, circa un terzo del fabbisogno di combustibile nucleare dell’Ue, non perché quest’ultima non disponga di sufficiente uranio (che importa dall’Africa, dall’Australia e dal Canada, oltre a produrlo nelle proprie miniere), ma per contribuire alla smilitarizzazione dell’enorme arsenale nucleare che la Russia ha ereditato dall’Urss e che desta preoccupazioni soprattutto per il rischio di proliferazione che presenta. Dal 2001, la Russia importa soprattutto dai Paesi dell’Est europeo combustibile irraggiato esausto, per riprocessarlo e riesportare l’uranio in barre riciclate dopo essere state arricchite. L’autorizzazione e il controllo dell’importazione in Russia di materiale radioattivo sono affidati ad una commissione, posta alle dipendenze del presidente e diretta dal premio Nobel per la fisica, vice presidente dell’Accademia delle Scienze e parlamentare della Duma, Zhores Alferov. Ogni operazione viene approvata con decreto presidenziale. Dal 2006 sono state però bloccate tutte le importazioni di combustibile esaurito, eccetto di quello prodotto in Russia, nonché di altro materiale radioattivo, per le ridotte capacità di riprocessamento del Rt-1 di Mayak (si prevede la costruzione di un nuovo impianto di riprocessamento - Rt2 - dalla capacità di 3.000 ton/anno, rispetto alle 400 attuali dell’Rt-1). L’esportazione e importazione di combustibile radioattivo ammonta complessivamente, come già si è ricordato, a 3-3,5 miliardi di dollari all’anno. La Russia è poi particolarmente attiva nel campo della costruzione di centrali nucleari all’estero. Ne ha costruito un numero rilevante nell’Est europeo. Inoltre, ha con18

cluso accordi con varie ditte occidentali (in Italia con l’Enel) per l’utilizzazione di tecnologie russe nei nuovi reattori in Slovacchia, Bulgaria, Lituania e forse anche Romania, dove la nostra Ansaldo Nucleare collabora per la costruzione dei nuovi reattori Candu di Cernodova con la canadese AeCl (Atomic energy of Canada limited). Tre reattori sono in fase finale di costruzione uno in Iran e due in Cina. Le esportazioni di centrali hanno consentito all’industria nucleare russa di sopravvivere negli anni Novanta (fenomeno analogo si è verificato per l’industria degli armamenti). Oggi è in atto uno sforzo gigantesco per tentare di ricostituirne totalmente le capacità progettuali e industriali, anche per penetrare in forze in un settore del mercato mondiale che sarà ricco e qualificato. La Russia partecipa o ha presentato offerte per la costruzione di una quindicina di centrali all’estero, di cui quattrp in Cina, quattro in India, due in Sud Africa, un secondo reattore a Bushehr, una centrale con più reattori in Bulgaria, e così via. Oltre che le grandi centrali di potenza (Vver-1000, competitive con le Ap 1000 della Westinghouse-Toshiba e con l’Epr di Areva), la Russia si presenta sul mercato con una gamma di centrali di piccola e di media potenza (da 35 a 600 Mwe), alcune delle quali a doppio uso per la desalinizzazione e la produzione di energia, molto simili al Mars, messo a punto dall’Università di Roma e dal Cea (Commissariat à l’energie atomique, francese), su cui andrebbero concentrate attenzione e risorse italiane, anche in relazione alle sue caratteristiche di sicurezza intrinseca e di protezione dalla proliferazione.

A quanto si sa, l’orientamento

è invece quello di privilegiare fumosi programmi di ricerca “a pioggia”, forse utilizzabili industrialmente solo nel lungo periodo, quando ormai l’Italia avrà perduto le residue capacità tecnologiche e industriali nucleari e sarà definitivamente fuori mercato. Infine, la Russia partecipa attivamente alla colla-


borazione internazionale in campo nucleare, con l’adesione all’Iter (fusione nucleare), alla Generation IV (nuovi reattori self breeder e a sicurezza completamente intrinseca) e alle attività dell’Iaea (International atomic energy agency) e della Nea (Nuclear energy agency) dell’Ocse. Si è fatta poi promotrice di varie iniziative di collaborazione internazionale. La prima, fondamentale per l’anti-proliferazione, è quella di costituire un Centro internazionale per l’arricchimento dell’uranio. Il Trattato di non proliferazione non vieta la costruzione, da parte degli Stati non nucleari, di impianti del ciclo del combustibile. Ma se tali Stati riescono a disporre delle capacità tecnologiche necessarie per arricchire l’uranio naturale, necessario per produrre barre a basso arricchimento per le centrali, oppure per riprocessare il combustibile usato, essi sono ad un passo dalla costruzione di testate nucleari. Il Centro dovrebbe garantire un sicuro approvvigionamento di tutte le barre necessarie ai Paesi non nucleari, assicurandone poi il ritorno in Russia per il riprocessamento. La seconda iniziativa riguarda la costruzione nella regione di Krasnoyarsk di un enorme deposito geologico per tutto il combustibile esaurito a livello mondiale. Si tratta di una

ripresa del progetto Pangea, fallito per l’opposizione dell’Australia di sistemare il deposito mondiale sul suo territorio, nonostante i benefici economici che ne avrebbe tratto (valutabili, come dimostrato un paio di anni fa da Claudio Virgi su Aspenia, in un aumento dell’1 per cento del suo Pil). Tale iniziativa non ha però rallentato gli sforzi effettuati da Rosatom per costruire un deposito geologico nazionale russo nel granito - rimontante all’era secondaria - della Penisola di Kola. Esso è destinato allo stoccaggio definitivo del combustibile russo sia delle centrali sia delle navi e sommergibili a propulsione nucleare. Tale progetto è tecnologicamente molto simile a quello del deposito geologico in costruzione in Svezia, in rocce aventi caratteristiche simili a quelle delle penisola di Kola. Nonostante le chiacchiere fatte sui depositi geologici europeo o mondiale, anche i russi sono persuasi che non si riuscirà a costruirli. Pertanto - seriamente - provvedono in proprio, come molti altri Paesi, persuasi dell’esigenza etica di non gravare le future generazioni con l’onere di un problema che abbiamo creato noi. Quando si pensa a quanto è accaduto in Italia, ci si convince che abbiamo da imparare molto dai russi anche sotto questo aspetto. 19



dossier

RILANCIO DELLA SPESA MILITARE E CREAZIONE DI UN ESERCITO PROFESSIONISTA

RUSSIA RESURGENS DI

I •

ANDREA NATIVI

l risorgimento in chiave nazionalistica della Russia va preso sicuramente sul serio per quanto concerne le implicazioni politiche e strategiche, ma sul piano prettamente militare la situazione è e continuerà ad essere, almeno nel medio termine, tutt’altro che preoccupante. A dispetto dei proclami, degli annunci a ripetizione sulle mirabolanti nuove tecnologie e capacità mi-

litari che, mese dopo mese, vengono messe a disposizione della ex Armata Rossa, delle bravate propagandistiche (come la ripresa dei voli da parte dei bombardieri a lungo raggio) dei lanci di prova di “nuovi” missili balistici a testata nucleare basati a terra e su sottomarini, la realtà è, fortunatamente, profondamente diversa. Malgrado la Russia possa beneficiare di una crescita economica più che robusta, con una inflazione relativamente sotto controllo, almeno per gli standard locali, e sfrutti pienamente il boom dei corsi delle materie prime - non solo petrolio e gas - nonostante il nuovo corso politico torni a rivendicare una politica estera attiva e di potenza, le capacità militari perdute dopo il collasso dell’Urss non sono state ricostituite, né è stato possibile dedicare investimenti sufficienti alle attività di ricerca e sviluppo e rinnovamento tecnologico, cosa questa esacerbata dalla perdurante inefficienza del comparto industriale. A questo si aggiunge l’esigenza di impegnare attivamente le Forze Armate in operazioni militari controguerriglia/presidio in diverse aree calde, Cecenia e Caucaso in primis, mentre la promessa exit strategy è tutt’altro che realizzata. È vero che le attività controguerriglia sono state in larga misura trasferite alle forze combattenti del ministero degli Interni ed alle formazioni di “lealisti”

ceceni, ma le Forze Armate restano coinvolte in questo ed altri teatri. La combinazione dei fattori enunciati fa si che lo strumento militare russo sia ancora modesto, sia sul piano prettamente quantitativo sia, in misura più marcata, su quello qualitativo. Del resto la nuova Russia si guarda bene dal ripercorrere la strada catastrofica che mise in ginocchio l’Urss e segnò la fine della guerra fredda: Mosca non ha nessuna intenzione di preferire i cannoni rispetto al burro. Certo, la spesa per la difesa ha ripreso ad aumentare e la Russia ha imparato a sfruttare al meglio la politica di export di sistemi militari per sostenere la crescita tecnologica domestica, mentre è sempre estremamente abile nel cercare ed ottenere tecnologia occidentale, accorciando i tempi di sviluppo e risparmiando fondi, ma ci vuole ben altro per colmare un gap che era già ampio a fine anni Novanta e che è andato progressivamente aumentando. La Russia ha decisamente rinunciato a mantenere un colossale strumento bellico largamente basato su soldati di leva, semplicemente perché sarebbe risultato impossibile ammodernare e sostenere i costi di un esercito di massa, esuberante le effettive esigenze e inadeguato per la proiezione di potenza o per contrastare fenomeni di guerriglia/terrorismo. La strada 21


Risk intrapresa è quindi quella di una progressiva, parziale professionalizzazione, con una parallela riduzione degli organici a quota 1 milione di effettivi entro il 2010. Peraltro questa politica si scontra con la difficoltà nel reclutamento di personale, in quantità e qualità adeguate e nel trattenere in servizio i volontari/professionisti con qualifiche elevate ed esperienza. Il che si traduce in reparti sottoalimentati e con seri problemi di leadership, per mancanza di quadri esperti. Con il 2008 il problema del reclutamento si farà anche più acuto se, come previsto, la durata del servizio obbligatorio sarà ridotta da 24 a 12 mesi (e la durata del servizio civile alternativo scenderà da 42 a 24 mesi). Idealmente la Russia prevede che dal 2010 i due terzi dei militari in servizio siano professionisti, ma questo obiettivo al momento appare davvero ottimistico. La prospettiva di servire in armi non è popolare, sia per i bassi stipendi, sia per la mancanza d’infrastrutture adeguate (proprio le carenze di alloggi per il personale hanno portato recentemente Putin a destituire alcuni generali), sia per i problemi di leadership ed organizzazione a tutti i livelli. Le iniziative per aumentare retribuzioni e qualità della vita danno risultati solo parziali, anche perché la disoccupazione è a tassi molto bassi, mentre ha avuto un certo effetto la riduzione dell’impegno diretto delle Forze Armate in Cecenia. A questo si aggiunge una tendenza demografica negativa, che riduce la platea dei giovani che potrebbero considerare una carriera militare. È probabile quindi che la professionalizzazione integrale riguarderà solo alcuni reparti d’elìte, la coscrizione obbligatoria, sia pure selettiva, resterà in vigore, per alimentari i ranghi della truppa, mentre uno sforzo sarà compiuto per contrattualizzare i sottufficiali, che diventeranno professionisti o soldati con contratto a medio termine. La Russia sta faticosamente cercando di incrementare la spesa per la Difesa, ma di fatto in termini di Pil, la percentuale non supera poi di molto il 4 per cento. Quello che è aumenta… è il Pil e il surplus di bilancio. Se nel 1995 Mosca spendeva il 7,4 per cento del Pil per le Forze Armate e la sicurezza, la percentuale è andata a scendere fino a toccare il 4,3 per cento del 2000. Poi è 22

iniziata la risalita, anche se con qualche battuta d’arresto, come è accaduto nel 2004. La spesa vera e propria per la difesa ammontava a circa 430 miliardi di rubli nel 2004, è salita a 550 miliardi nel 2006 e oltre 800 miliardi nel 2007. Recentemente è stato approvato un programma triennale per il bilancio difesa/sicurezza che fa crescere il bilancio a 960 miliardi quest’anno, per valicare quota 1.000 miliardi nel 2009 e 1.100 miliardi nel 2010. In pratica la spesa militare aumenterà di oltre il 500 per cento entro il 2010 rispetto al 2001. Numeri impressionanti, ma quando si va a tradurre il tutto in euro o in dollari il quadro appare ben più modesto. A dispetto della svalutazione del dollaro, il totale scende a meno di 50 miliardi di dollari. Più o meno quanto spende il Giappone. E il ritmo di crescita della spesa militare russa resta ben inferiore a quella cinese. Un confronto con il bilancio della difesa statunitense è improponibile. E se è vero che, come dicono i Russi «si fa molta più strada da noi con un rublo di quanto non si faccia in America», pur con tutti gli aggiustamenti valutari/economici, Mosca non riesce ad investire in ammodernamento, ricerca e sviluppo e ricerca di base quanto sarebbe necessario. Lo strumento militare continua ad invecchiare, malgrado si stia ridimensionando quantitativamente. E il tasso di capitalizzazione, ovvero quanto s’investe per ogni militare alle armi, è decisamente basso.

Dottrina militare. La Russia ha sposato l’organizzazione e le concezioni d’impiego occidentali che pongono l’accento su una spiccata integrazione interforze, questo già a livello di distretto militare, una organizzazione territoriale/operativa preposta all’impiego di tutte le forze presenti nella propria area di competenza, indipendentemente da quale siano le Forze Armate cui appartengono. Inoltre sono state costituite formazioni di pronto intervento che fanno capo al Comando delle forze mobili, posto alle dirette dipendenze dello Stato maggiore generale, che in tempi “normali” sono inquadrate nei comandi territoriali/operativi, ma che in situazione di crisi passano a disposizione delle autorità militari centrali. Esistono in


dossier particolare Forze di reazione immediata e Forze di reazione rapida, con differenti tempi di attivazione. La dottrina militare russa è intanto oggetto di una significativa evoluzione, che riflette le esperienze belliche internazionali, la riconosciuta rilevanza delle operazioni controguerriglia e di contrasto al terrorismo e lo svantaggio nel settore degli armamenti convenzionali. Se si analizzano i documenti ufficiali, emerge il distacco tra la dottrina della Federazione Russa delle edizioni del 1993 e del 1997 e quella del 2000, che rappresenta una sorta di spartiacque, in particolare per quanto riguarda il ruolo e la possibilità di ricorrere all’armamento nucleare, anche nel contesto di conflitti regionali. Con l’edizione dell’ottobre 2003 la Russia ha fatto proprio anche il concetto di guerra preventiva su scala globale, quantomeno per contrastare il terrorismo, che va colpito con determinazione, ovunque si trovino le sue basi e infrastrutture vitali. Una versione ulteriormente aggiornata del documento dovrebbe essere in corso d’approvazione e probabilmente sarà ancora più… aggressiva, mentre l’importanza attribuita alle armi nucleari, che si sperava di poter attenuare in parallelo con il potenziamento delle forze convenzionali, resterà il paradigma della debolezza militare russa.

riore mobilità e indipendenza logistica. Non ci sono più le divisioni irte di mezzi da combattimento da gettare nella fornace per sostenere avanzate frontali che avrebbero “bruciato” formazioni su formazioni nel giro di pochi giorni. Se le divisioni corazzate hanno la tradizionale struttura quaternaria, basata su battaglioni/reggimenti, le divisioni motorizzate sono molto, molto leggere, mentre è aumentata l’importanza delle

La dottrina militare cambia radicalmente rispetto al passato, in particolare riguardo alla possibilità di ricorrere al nucleare anche nei conflitti regionali

Le forze terrestri. Come tradizione per la Russia, la componente terrestre è resterà quella più importante. Ed anche se i tagli e le riduzioni hanno portato alla soppressione di moltissimi reparti ed unità, per non parlare della struttura di supporto, l’Esercito continuerà a contare su circa tre quarti degli organici complessivi. Per quanto riguarda l’organizzazione, Mosca, attraverso una serie di successive riforme, ha cercato di snellire la catena di comando e l’area di supporto, elefantiache - che non avevano più ragione d’essere mentre ha rivisto la struttura delle formazioni operative, rendendola più flessibile, bilanciata, con una supe-

unità di fanteria leggera, comprese inedite brigate da montagna, per non parlare delle forze speciali. Per quanto riguarda i mezzi però, c’è ben poco da fare. Le risorse per rimpiazzare il materiale pesante dell’era sovietica mancano. E così il carro armato più moderno, il T-90, viene prodotto a ritmo davvero ridotto, il fulcro della forza corazzata è ancora rappresentato dagli ormai superatissimi T-72 e i prototipi di nuovi mezzi, come il Black Eagle, vengono sviluppati con estrema lentezza e sono ben lungi dalla produzione di larga serie. Stesso discorso vale per i mezzi da combattimento cingolati della fanteria e persino per i più economici mezzi blindati ruotati Btr-90. Sì, arrivano ai reparti nuovi missili balistici Iskander (SS-26), lanciarazzi, veicoli da combattimento Bmd-4 migliorati e soprattutto quantitativi finalmente significativi di autocarri e mezzi logistici, però non sono sufficienti. Il Gpv-2015, il Piano statale per gli armamenti fino al 2015, approvato a inizi 2006, rimarrà inattuato e l’obiettivo di riequipaggiare completamento 40 battaglioni corazzati, 97 battaglioni meccanizzati/motorizzati e 50 battaglioni paracadutisti, sostituendo in pratica quasi la metà dei mezzi dell’Esercito, resterà solo 23


Risk un’aspirazione. I quantitativi di nuovi mezzi ordinati sono largamente insufficienti e per di più buona parte dei mezzi più aggiornati è stata logorato nelle campagne antiguerriglia e di stabilizzazione e non potrà essere rimpiazzata. L’obiettivo dell’Esercito rimane quello di riuscire a formare un nocciolo duro di unità bene equipaggiate, professionali ed equipaggiate con il meglio disponibile, costituito da una dozzina tra brigate e divisioni, mentre un’altra dozzina di grandi unità è chiamata a mantenere almeno uno dei suoi reggimenti pienamente operativo, con la capacità di portare allo standard operativo il resto delle sue pedine di manovra nel giro di un mese. Tutte le altre grandi unità sono invece sostanzialmente forze di riserva strategica, che non potrebbero essere impiegate prima di tre mesi dall’ordine di attivazione. E naturalmente questi per ora sono solo programmi.

Le forze aeree. L’Aeronautica è la forza armata che ha più sofferto del blocco degli investimenti e del rinnovamento, perché la sua efficacia dipende dalla disponibilità di macchine molto complesse, costose da gestire ed operare e che richiedono un ottimo supporto logistico e periodici aggiornamenti. La tradizionale concezione sovietica che accettava una breve vita operativa per i suoi velivoli, nella certezza di poterli sostituire rapidamente, certo non ha aiutato. Il risultato di questa situazione, protratto nel tempo, è stato un drammatico depauperamento delle linee di volo, l’accantonamento/ritiro di tutti i velivoli che non fossero almeno di terza generazione, l’impossibilità di far volare gli equipaggi per un numero sufficiente di ore, al fine di garantirne non tanto la professionalità e le qualifiche, ma semplicemente le abilità minime per non compromettere la sicurezza. E infatti gli incidenti sono all’ordine del giorno. Questo dopo anni di stasi, durante i quali l’efficienza è scesa al minimo e i reparti era costretti alla cannibalizzazione per trovare i ricambi per far volare qualche aereo, ammesso che ci fosse il carburante. Oggi la situazione è un po’ migliorata. L’Aeronautica ha però relativamente pochi aerei in servizio, sia da combattimento sia da supporto e tra24

sporto. L’obiettivo principale consiste nell’ammodernare i velivoli come i Su-27, i MiG-31, i Su-24, i Su25 per estenderne la vita operativa e migliorarne le capacità, mentre finalmente entrano in linea, con il contagocce, macchine di nuova produzione, come i Su-34 e presto i Su-35. Di fatto per quasi tre lustri l’aeronautica non ha ricevuto un aereo di nuova produzione. Un discorso analogo riguarda l’ala rotante, con gli elicotteri da combattimento Mi-24 che vengono portati allo standard Pn mentre arrivano finalmente i nuovi Mi-28n. Ammodernamento anche per gli aerei da trasporto, mentre almeno i più vecchi Antonov turboelica cominciano ad essere sostituiti da nuovi velivoli Ilyushin. Gli aerei ammodernati e quelli di nuova produzione hanno dotazioni elettroniche migliorate e possono impiegare nuovi tipi di armamenti, ma nel complesso sono sempre frutto di progetti che nel migliore dei casi hanno 25-30 anni. Che si vedono tutti, a dispetto delle piroette che i collaudatori russi effettuano con i loro aerei durante gli air show. Una nota va spesa a proposito della “riscoperta” dei bombardieri strategici: si, gli aerei sono tornati a volare e hanno messo a dura prova i dispositivi di difesa aerea occidentali che, se non fosse per la minaccia del terrorismo aereo, sarebbero stati ridotti a livelli ancor più risibili di quelli attuali. Tuttavia la Russia non ha alcun tipo di bombardiere in produzione, si arrangia con quelli prodotti ai tempi dell’Urss, cercando di rimetterne in efficienza quanti più possibile e magari completando velivoli come i Tu-160, del quale qualche esemplare era stato lasciato incompleto in fabbriche di fatto chiuse. Visto che questi aerei possono portare missili a testata nucleare e missili da crociera convenzionali, con un bell’effetto politico-psicologico-strategico, lo hanno comunque prodotto. Le cose vanno decisamente meglio nel settore della difesa antiaerea missilistica, uno dei punti di forza dell’arsenale russo. I sistemi antiaerei russi sono sempre stati stimati e temuti in occidente e Mosca ha continuato ad aggiornare i modelli più recenti, mentre, sia pure lentamente ha proseguito lo sviluppo di sistemi “nuovi”, come l’S400 entrato in servizio dopo lunghissima gestazione e


dossier presto disponibile per l’export.

Le forze navali. La Russia ha sempre avuto un rapporto particolare con le forze navali, contrassegnato da alti e bassi. Nell’Urss solo l’azione del carismatico ammiraglio Gorshkov portò all’affermazione di concetti strategici che privilegiavano la costituzione di una forte Marina con capacità alturiere e in grado di contestare il dominio degli oceani delle Marine occidentali. Oggi la Marina russa è solo l’ombra di quella grande forza navale costruita faticosamente nell’arco di qualche decennio ed anche se i responsabili della Difesa parlano di una “rifondazione” delle Forze navali, mentre una serie di importanti programmi di costruzione è in corso, in futuro la Marina russa avrà ambizioni e capacità relativamente modeste, a partire dalla rinuncia a possedere squadre navali alturiere imperniate su portaerei e relativi gruppi di scorta o formazioni d’attacco basate su grandi incrociatori. Per quanto qualche ammiraglio si ostini a parlare della costruzione di nuove, grandi portaerei. Quello che si sta cercando di fare è rinnovare una flotta che può disporre di un numero ridottissimo di unità operative da “blue water”, cercando di mantenere efficienti almeno un pugno di unità principali, anche ripristinando e rimodernando navi già vecchiotte, ma comunque con buone capacità, come è il caso per almeno un incrociatore nucleare e diversi cacciatorpediniere. Si stanno costruendo unità di superficie di nuova generazione, come le fregate leggere classe Gepard, progetto 11660, le fregate di squadra classe Gorshkov, progetto 22350, le corvette classe Steregushchiy progetto 20380, le navi da assalto anfibio progetto 11711. Si spera di poter anche costruire un nuovo tipo di cacciatorpediniere lanciamissili. Quanto alla flotta subacquea, sono in produzione i nuovi battelli convenzionali classe Lada, mentre le attività sui battelli a propulsione nucleare sono ridotte al minimo. Per ben 15

anni la Marina non ha messo in servizio una sola nuova nave, mentre le attività addestrative e i lavori periodici di manutenzione erano effettuate solo sporadicamente, con un terribile decadimento delle capacità operative. Ora la situazione è un po’ migliorata. La “nuova” Marina russa non avrà quindi reali capacità di proiezione di potenza ed avrà, al contrario, serie difficoltà a mantenere una effettiva sorveglianza/difesa delle coste e delle acque in tutti i bacini.

Le forze strategiche.

La Russia considera le forze nucleari strategiche come il fulcro del suo potenziale militare, come conferma del resto lo status di forza armata indipendente attribuito a queste componenti dello strumento militare. Ed è una scelta sensata, perché è decisamente meno costoso e impegnativo conservare ed ammodernare le forze nucleari piuttosto che quelle convenzionali. Tra l’altro l’Urss ha sempre prodotto missili e testate di buon o ottimo livello e disponeva di un arsenale immenso, di cui si può prolungare la vita operativa e mantenere intatta l’efficacia con investimenti ragionevoli, procedendo poi ad un ammodernamento graduale diluito sui tempi lunghi. Il tutto accompagnato da una nuova dottrina di impiego molto più aggressiva rispetto a quelle della guerra fredda, per rendere più credibile il deterrente. Per quanto riguarda il settore spaziale, un tempo uno dei “gioielli” sovietici, la Russia è quantomeno riuscita a ripristinare quelle capacità nel campo della sorveglianza, dello spionaggio elettronico, delle comunicazioni, del comando e controllo, del posizionamento globale che erano crollate negli anni della crisi. E certe nicchie di eccellenza, come quella dei lanciatori e della propulsione spaziale, sono comunque presidiate, come confermano le collaborazioni con l’Europa e gli stessi Stati Uniti. Certo la Russia vede con preoccupazione la militarizzazione dello spazio ad opera degli Usa, ma non è in grado di

Oggi tutti i principali gruppi industriali militari russi ricavano dall’export tra il 50 e il 90 per cento dei ricavi

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Risk contrastarla con iniziative analoghe. In compenso, a dispetto della propaganda, anche la Russia considera con preoccupazione la minaccia rappresentata dalla proliferazione dei vettori missilistici a lungo raggio dotati di armi per la distruzione di massa e, pur seguendo un approccio diverso rispetto a quello statunitense e certo meno sofisticato e completo, sta potenziando le proprie difese antimissile, a partire da quello poste a difesa della regione di Mosca, una eredità della guerra fredda che ora si sta rivitalizzando con un ruolo ben diverso da quello originale.

L’industria bellica. Il colossale complesso militare industriale sovietico che la Russia ha in parte ereditato era quanto di più inefficiente si potesse immaginare, con una capacità produttiva teorica enorme, ma con standard qualitativi miseri, afflitto poi da una eccessiva frammentazione e duplicazione a tutti i livelli, per non parlare della insostenibilità del modello che vedeva i bureau di progettazione separati rispetto alla struttura produttiva. Il crollo dell’Urss portò anche alla fine delle commesse statali e dei contratti di ammodernamento e supporto logistico e le industrie si sono trovate sull’orlo del baratro, costrette a sbranarsi per contendersi poche briciole, mentre la Russia scopriva quanto fosse difficile vendere i propri prodotti sul mercato internazionale, quando non venivano più regalati o ceduti a condizioni di favore per motivi politici e strategici. Vladimir Putin si è impegnato in prima battuta per cercare di razionalizzare l’industria della difesa attraverso concentrazioni ed accorpamenti successivi ed aprendo anche, moderatamente, le porte di queste industrie strategiche ai capitali privati, mentre tutte le società hanno ricevuto il mandato di andare a cercare all’estero i contratti di produzione indispensabili per evitare il fallimento, nonché i finanziamenti per mantenere up to date le piattaforme principali e magari per svilupparne di nuove. Oggi tutti i principali gruppi industriali militari russi ricavano dalle vendite export tra il 50 ed il 90 per cento dei propri ricavi. L’operazione, che ha riguardo tutti i settori, a partire 26

da quello aeronautico/spaziale, per poi estendersi agli armamenti missilistici, terrestri e navali, non è stata né rapida né indolore, né è stata completata. Il colosso Oak (Sukhoi, Irkut, MiG, Tupolev, Ilyushin) è nato a fine 2006, ma è lungi dall’essere integrato e deve superare enormi problemi di gestione industriale e amalgama. In campo elicotteristico Oboronprom combina Mil e Kamov, in quello missilistico la società “Missili tattici” ha messo insieme ex acerrimi nemici. Razionalizzata anche la cantieristica, l’elettronica per la difesa e, in larga misura, l’industria degli armamenti terrestri. I ritmi produttivi cominciano a crescere, tra export e le commesse nazionali, ed i russi tornano anche nell’aviazione civile, con qualche speranza di realizzare prodotti con un appeal internazionale, a partire dal Superjet 100 e del futuro Ms-21 mentre i conti non sono più disperatamente in rosso. Ma certo c’è bisogno di tagliare ancora. La Russia non ha mai cessato d’investire nello sviluppo di tecnologie ed armamenti, semplicemente non è in grado di farlo al ritmo elevatissimo e ultracostoso imposto dagli Stati Uniti, che insistono su questa strada, almeno per ora, a dispetto degli oneri dei conflitti in corso e da un ri-orientamento nelle stesse priorità della ricerca tecnologica. Mosca non può e non vuole cimentarsi in una rincorsa che sa bene impossibile, ma cerca di evitare che la superpotenza continui ad ampliare ad un passo ancora più sostenuto il suo vantaggio. Non potendosi permettere di trascurare alcun settore, pena un decadimento troppo marcato di capacità comunque importanti, la Russia “spalma” le risorse su troppi fronti e sta cercando di supplire a questa situazione acquisendo tecnologia duale e Cots ovunque possibile, continua a condurre una aggressiva attività di spionaggio industriale e accetta di mettere a disposizione di partner selezionati le proprie capacità scientifiche in cambio d’investimenti, sfruttati per condurre programmi e progetti nazionali. La collaborazione con la Cina e soprattutto quella con l’India sono significative in questo senso. Di fatto sono i grandi contratti di fornitura di armamenti di ogni tipo, aereo, navale, terrestre, missilistico che consentono di


dossier migliorare le piattaforme principali russe o di sviluppare nuovi armamenti, tecnologie elettroniche, ecc. In diversi casi la Russia finisce per esportare sistemi complessivamente superiori tecnologicamente a quelli in servizio con le proprie Forze Armate. Questo esercizio è pericoloso, l’Urss dei vecchi tempi non avrebbe mai fatto niente del genere, ed infatti sia con la Cina, abilissima a clonare ed a sua volta affamata di tecnologia, sia con l’India, ci sono costanti problemi. Basta pensare alla vicenda del missile russo-indiano Brahanos. Ma questo approccio funziona al punto che l’India parteciperà allo sviluppo di una versione export del futuro caccia T-50 Pak-Fa, il primo velivolo davvero di nuova generazione, che la Russia si appresta a far volare. Altri clienti poi, richiedono allestimenti speciali e peculiari e magari l’integrazione di tecnologie ed apparati locali od occidentali. C’è poi chi compra off the shelf, stile Venezuela ad esempio. La Russia inoltre, gioca con molta abilità la carta della collaborazione con l’Occidente. Ufficialmente è solo rivolta a clienti terzi export, ma nessuno si fa illusioni. Chi si è spinto molto su questa strada è la Francia, Thales in testa, in un po’ in tutti i settori: navale, terrestre, aeronautico, con la abituale spregiudicatezza. La Germania ha qualche ritrosia in più, specie sul militare. L’Italia ha diverse collaborazioni in corso con la Russia nel campo della sicurezza, telecomunicazioni, guerra elettronica, aeronautica, presto elicotteristica, unità navali subacquee, ma ci si muove con molti più limiti e attenzioni rispetto ai cugini transalpini. Quanto agli Usa: se possono, cercano di acquistare prodotti russi interessanti (a partire dai missili e da tecnologie spaziali), utilizzano cervelli e centri di ricerca russi e vogliono mettere le mani su materie prime preziose, come il titanio, concedendo in cambio poco, magari nel campo dell’aeronautica civile. Ma ovviamente i russi sanno bene come sfruttare ad ampio spettro quello che riescono ad imparare. 27


Risk

STRATEGIA E GEOPOLITICA DEL GAS E DEL PETROLIO

L’ENERGIA È L’ARMA DEL CREMLINO DI

L •

DAVIDE URSO

a Russia zarista non aveva altri amici al mondo oltre al proprio Esercito e alla propria Marina. Oggi il loro posto lo hanno preso il gas e il petrolio. Da una dimensione geostrategica (mai del tutto abbandonata da uno Stato dalla natura imperiale), Mosca è passata ad una nomenclatura geoenergetica del potere. Per la sua stra-

ordinaria capacità di leadership nel prendere un Paese che era nel caos e portarlo alla stabilità, l’ex-presidente Putin è stato nominato dalla rivista Time Magazine “Uomo dell’anno” 2007. È riuscito nell’intento di ereditare un Paese in rovina, umiliato economicamente e dal rango geopolitico di “potenza dimenticata”, e stabilizzarlo, senza passare per decolonizzatore della Russia, ma come “nuovo zar” di un ritrovato filo-russismo, e ponendo le basi per la nascita di un nuovo impero russo. Winston Churchill aveva definito la politica sovietica «cani che lottano sotto un tappeto». Tutto ciò sembra un lontano ricordo. La stabilità è stata realizzata con un approccio post-zarista e non postsovietico, sintomatico della natura intrinseca del popolo russo, convinto che la Russia viva nella storia e che, allo stesso tempo, la storia viva nella Russia. Viva è l’indispensabilità di sentirsi grande potenza attiva sulla scacchiera geopolitica internazionale, in nome e per conto dei propri interessi nazionali e polo sovrano e autonomo della politica mondiale. All’esterno si è ramificata una rete enorme di relazioni tale da radicare la presenza della Russia nel mondo, mantenendo vivo il naturale bi-continentalismo geografico che la storia ha riservato al Paese e che rende la Russia il possibi-

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le collante tra l’Est e l’Ovest. La politica estera della Federazione russa è multivector, e Mosca si sta avvalendo delle sue risorse di gas e petrolio come “arma politica” per spostare gli equilibri geopolitici mondiali e vedersi riconosciuto il rango di global player. La Federazione russa punta a raggiungere la dimensione di Heartland geoenergetico, come condizione preliminare per una nuova grandeur. Gas e petrolio sono utilizzati dal Cremlino per vari obiettivi: per riprendere l’influenza sulle Repubbliche dell’ex-impero sovietico - Mosca si sente circondata da un cordone sanitario che va dal Baltico fino al Mar Nero, Georgia compresa - ed evitare una seconda dissoluzione territoriale che porterebbe la Russia fuori dalla storia per qualche decennio; per favorire la formazione di un’intesa privilegiata con la Cina, anche se “Cinussia” è irrealizzabile viste le molte divergenze esistenti fra i due Stati; per influenzare il comportamento dell’Unione europea e dei singoli Stati europei; per prevenire gli Stati Uniti dal macchinare nuove “rivoluzioni colorate”, come in Ucraina, Georgia e in Kyrghizstan. Il mercato dell’energia ha permesso a Putin di fare entrare la Russia sulla “scacchiera dei Grandi” senza passare per Washington o per la creazione d’alleanze


dossier geopolitiche anti-Washington, ma attraverso allineamenti provvisori geoeconomici e proiezioni intercontinentali geopolitiche funzionali ai propri interessi nazionali. La Federazione russa è il principale esportatore mondiale di petrolio (insieme all’Arabia Saudita) e di gas naturale. Il 63 per cento delle esportazioni della Federazione è rappresentato da prodotti energetici, di cui il petrolio incide per il 34 per cento e il gas naturale per il 13 per cento. Tra il 1999 e il 2006 i proventi delle esportazioni energetiche sono aumentati di più di 10 volte (da 14 a 150 miliardi di dollari). Le riserve provate di petrolio sono di 60 miliardi di barili, soprattutto nella Siberia Orientale e nella regione compresa tra gli Urali e l’Altopiano della Siberia Centrale. La Russia possiede circa il 26 per cento delle riserve mondiali di gas naturale. La produzione di petrolio, principalmente nella Siberia Occidentale - definita negli anni Ottanta russian core per la sue immense risorse di prodotti energetici e materie prime - è in trend positivo. Continuerà nei prossimi anni con una media stimata pari a 1,5-2,5 per cento. Nelle more di investimenti per la costruzione di nuove infrastrutture e l’esplorazione di nuovi giacimenti, tale aumento di produzione sarà dovuto molto verosimilmente ad una intensificazione dello sfruttamento dei giacimenti di Sakhalin (Siberia Orientale), su cui la Russia sta cercando di ridurre la presenza di imprese straniere. Da Sakhalin si può produrre petrolio liquido e grandi quantità di gas trasportabili verso la Cina e il Giappone. Il 2007 ha fatto registrare un netto miglioramento del quadro macroeconomico del Paese, grazie alle ricadute interne delle esportazioni di prodotti energetici e al conseguente crescente interesse degli investitori stranieri. Il Pil è aumentato del 7,3 per cento - di gran lunga superiore alle aspettative previste nella legge di bilancio (+6,5%) -, con un incremento della produzione industriale del 7,7 per cento; la bilancia commerciale ha registrato un saldo attivo di 61 miliar-

di di dollari, con un flusso di capitali in entrata e in uscita di 67,1 miliardi di dollari (contro un trend negativo degli anni 2001-2004), trainati principalmente dalle esportazioni di petrolio e gas; e le riserve valutarie hanno superato i 416 miliardi di dollari, ponendo la Federazione Russa al terzo posto nella classifica mondiale, dopo Cina e Giappone. Il mondo non sta affrontando solo un peak oil, ma anche un’impennata di nazionalismo. La Federazione Russa ha avviato una politica di nazionalizzazione del settore energetico, secondo una strategia di ristabilimento della “verticalità del potere”. Nel 2005 la compagnia di Stato Rosneft ha acquisito i principali asset di Yukos e la Gazprom ha acquistato Sibneft.

Mosca ha così accentrato le proprie competenze, imponendo condizioni ai gruppi stranieri operativi sul territorio russo, adottando una politica aggressiva verso i Paesi ex-sovietici e acquisendo asset internazionali. Il Cremlino si è mosso in tale direzione senza generare protezionismi e sentimenti isolazionisti, che sarebbero deleteri per il futuro degli interessi nazionali russi. Gazprom detiene in Russia praticamente il monopolio sulle risorse e sulla produzione di gas e dei gasdotti. Prima del Summit G8 di San Pietroburgo, la Duma ha passato la legge che investe Gazprom attraverso la controllata Gazexport - del monopolio dell’esportazione di gas naturale dalla Russia. È la prima società al mondo produttrice di gas e la terza per capitalizzazione. Controlla circa un quinto delle riserve mondiali accertate di gas. Fornisce il gas a tutta l’area Russia-Csi. Copre il 25 per cento del fabbisogno dei 15 membri dell’Ue e l’80/100 per cento di quello dei Paesi ex comunisti e delle tre Repubbliche baltiche. Inoltre, Gazprom è passata da società di gas a società petrolifera. Il mercato dell’energia è fuori controllo. La relazione tra fattori strutturali e interventi speculativi hanno polverizzato il mercato dell’energia, con 29


Risk evidenti squilibri tra domanda e offerta. Indipendentemente dall’entità assoluta delle riserve esistenti, la capacità dell’offerta reale e tendenziale non è scontato riesca a soddisfare la crescente domanda di energia. É finita l’era dell’energia facile e a basso prezzo. Il prezzo del petrolio a 100 dollari al barile pesa gravemente sia sui Paesi importatori - che stanno pagando globalmente circa 500 miliardi di dollari fra effetti diretti e indiretti - sia sui Paesi esportatori. Per il gas le cose non vanno molto meglio. I consumi globali sono passati da circa 50 miliardi di metri cubi a quasi 80. Ciò ha generato una limitazione delle politiche di liberalizzazione del mercato energetico, per il monopolio di pochi produttori che non hanno alcun interesse ad aumentare il livello di concorrenza, e la marginalità del ruolo della produzione nazionale, aumentando nel breve-medio periodo il livello di dipendenza dei Paesi consumatori. Per soddisfare la domanda mondiale prevista saranno necessari investimenti in infrastrutture per l’approvvigionamento energetico pari almeno a circa 22 miliardi di dollari. Il finanziamento dei prodotti energetici è capital intensive - percezione alta del rischio con un ritorno solo nel mediolungo periodo - e ciò rende difficile per un governo accertarne la fattibilità; soprattutto oggi che l’energia non è più una commodity, come lo era nel recente passato. Le compagnie petrolifere internazionali detengono oggi circa il 20 per ecnto delle riserve mondiali di petrolio e gas, mentre i governi dei Paesi produttori controllano l’80 per cento delle riserve. Il mercato, quindi, non sarà più l’indice di stabilità dell’energia, ma il rapporto tra i governi. Aumentare il livello di interdipendenza è quindi un asset fondamentale sia per i Paesi consumatori che per quelli produttori. La soluzione per una maggiore stabilità del mercato energetico non può più pervenire dal mercato. A nulla servirebbe un rialzo della produzione da parte dei Paesi Opec - che ha perso la sua centralità strategica non rappresentando più l’ordinamento geopolitico dei 30

Paesi consumatori, Cina, India, Malesia, Indonesia, ecc. -, né un rilascio delle scorte strategiche dei Paesi Ocse. La soluzione è nelle mani della politica, attraverso decisioni dei governi e interventi sovranazionali, che puntino a migliorare il livello di efficienza e di efficacia energetico. Il Cremlino, nel gennaio 2004, ha creato il Fondo di stabilizzazione del prezzo del petrolio. Esso, alimentato dalle entrate fiscali e trainato dall’aumento del prezzo del petrolio, ha toccato quota 158 miliardi di dollari al gennaio 2008. In febbraio, verrà sostituito dal Fondo per il gas e il petrolio, su cui confluirà ampia parte delle entrate derivanti dalla tassazione sulla produzione e l’esportazione di gas naturale, in aggiunta a quelle provenienti oggi dal settore petrolifero. Il Fondo sarà suddiviso in due parti: il Fondo di riserva e il Fondo per le generazioni future. Il primo, pari al 10 per cento del Pil, servirà a tutelare il Paese in caso di isteresi dei prezzi dei prodotti energetici. Il secondo sarà costituito dalle risorse eccedenti il Fondo di riserva, che verranno investite in titoli. Lo scopo è quello di difendere gli interessi nazionali della Federazione, mantenere la stabilità politica, la crescita economica, l’aumento degli standard quantitativi e qualitativi di vita della popolazione russa, ridurre l’indebitamento dello Stato in valuta e controllare l’inflazione. Se, da un lato, il peak oil ha migliorato il quadro macroeconomico della Federazione spingendo in alto la domanda interna e portando numerose aziende estere ad investire in Russia, dall’altro, il Paese necessita sempre più delle risorse finanziarie e tecnologiche internazionali per sviluppare nuovi giacimenti e incrementare la produzione, per poter mantenere l’attuale primato energetico mondiale. La strategia energetica di Mosca è di tessere una rete d’interdipendenza energetica strutturata e connessa agli interessi nazionali russi, partendo dalle aree geografiche storicamente più vicine a Mosca. L’Europa (primo mercato al mondo di energia) e l’Asia Orientale sono i mercati privilegiati da


dossier aggredire, con minori rischi di insuccessi.

Europa.

Lo slittamento del rinnovo dell’Accordo di cooperazione e partenariato UeRussia ha avvantaggiato i russi che si stanno assicurando lunghi contratti bilaterali di fornitura di energia con diversi Paesi dell’Unione. L’Europa, dal canto suo, guarda con interesse all’area del Mar Caspio dove vi sono ingenti riserve di gas, e all’Africa Settentrionale, per ridurre la dipendenza da Mosca. Sono in fase di studio progetti per trasportare il gas in Europa attraverso la Turchia, parallelamente alla logica degli oleodotti, senza passare per la Russia. La produzione da combustibili fossili copre il 54 per cento del fabbisogno dell’Europa, contro il 33 per cento da nucleare e la restante parte da fonti rinnovabili. Oggi l’Europa importa il 50 per cento del suo fabbisogno di gas. Dipende per il 26 per cento dal mercato del gas russo. Secondo le ultime stime, nel 2010 tale percentuale salirà al 33 per cento. Il Cremlino considera l’Europa un’espressione geografica. Le divisioni interne agli Stati europei non fanno che rafforzare tale convinzione. La Russia rimarrà ancora per decenni l’asse portante dell’energia europea. L’obiettivo finale di Mosca è la nascita di una partnership strategica tra un’Europa più integrata, ma più dipendente dall’energia russa, e una Russia più imperiale. Mosca non ha alternative, visto che l’unico vero mercato di sbocco resta quello europeo. Al vertice del G-8 di San Pietroburgo del luglio scorso si è giunti ad un accordo di principio legato al valore e alla potenzialità dell’interdipendenza economica. La Russia non può lasciare che l’Unione si allontani troppo. Sta però differen-

ziando sempre più il numero dei partners energetici, anche perché, qualora l’Ue dovesse concordare attività nell’applicazione del Piano energetico del marzo 2007, la Russia si troverebbe costretta ad aprire le proprie frontiere ad imprese energetiche europee. La competizione non si gioca sui prezzi, ma sulla capacità di investire prima di altri nella costruzione di infrastrutture di trasporto dell’energia. Gazprom sta investendo enormi risorse per espandere il proprio posizionamento.

Gli obiettivi di Mosca sono chiari: riprendere l’influenza sulle Repubbliche dell’ex impero sovietico per evitare una seconda dissoluzione territoriale che porterebbe la Russia fuori dalla storia per qualche decennio; favorire un’intesa con la Cina, influenzare la Ue e impedire l’intervento Usa L’accordo Eni-Gazprom del novembre 2006 prevede per l’Eni forniture di gas russo fino al 2035 e la possibilità di operare nei giacimenti della Federazione russa, e per Gazprom l’entrata nel mercato italiano dal 2007, con un potenziale di gestione fino a 3 miliardi di metri cubi di gas nel 2010. Intende conquistare entro il 2013 una quota del 10 per cento del mercato francese. Blue Stream - gasdotto sottomarino, costruito in partnership con l’Eni e Snam progetti - collega la Russia alla Turchia portando il gas russo fino in Bulgaria, in Grecia e in Italia. Con tale gasdotto, Mosca ha inteso favorire l’Europa, rispetto al gasdotto azero e iraniano, troppo influenti sui Paesi dell’Asia Centrale. Il gasdotto baltico North 31


Risk Stream - progetto bilaterale russo-tedesco - collegherà i terminali di Vyborg, vicino San Pietroburgo, a quello anseatico di Greifswald, portando, entro il 2012, 55 miliardi di metri cubi di gas, con l’aggiunta, entro il 2011, di 15 miliardi di metri cubi di gas prodotti dal giacimento YuzhnoRusskoe, nella Siberia Nord-Occidentale. Il North Stream non è solo una questione di portafoglio, ma un fattore di rafforzamento geopolitico dell’asse privilegiato Russia-Germania. Quest’ultima sarà l’hub strategico per l’approvvigionamento energetico nell’Europa Occidentale. Non è un caso che l’ex-Cancelliere Schröder è il presidente della North Stream Ag. Mosca scavalcherà quegli Stati cuscinetto, quali la Polonia, che destano preoccupazioni e Gazprom porterà dal 25 al 30 per cento la sua quota nel mercato europeo del gas. Eni e Gazprom hanno dato origine a Sofia ad una società paritetica per la fattibilità del progetto South Stream. Il gasdotto, dopo aver attraverso il Mar Nero e la Bulgaria, sarà diviso nel ramo Sud (Grecia-Italia) e Nord (Romania-Ungheria-SerbiaAustria), convogliando in Europa 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Si colloca in opposizione ai progetti americani - Btc e Nabucco - di trasportare idrocarburi dal Kazakhstan e Turkmenistan via Turchia-Mediterraneo, aggirando il territorio russo. La società petrolifera russa Lukoil è presente in Bulgaria, Romania, Serbia e Macedonia, Finlandia, oltre a Stati Uniti e Canada. La Russia sta utilizzando l’arma dell’energia per recuperare la piena influenza sulla regione del Caucaso del Nord, compresa tra il Mar Nero e il Mar Caspio. Tale regione è un’area strategica fondamentale in quanto geograficamente solcata dalle vie del petrolio dell’area caspico-centroasiatica e vicina alla regione mediorientale. È stato costruito il gasdotto Dzaurikau-Tskhinvali, lungo 163 chilometri, che collega l’Ossezia del Nord (Federazione russa) all’Ossezia del Sud (nella ribelle Georgia). Nel settore del gas Tbilisi è totalmente dipendente da Mosca. Tra l’ottobre 32

2006 e l’agosto 2007 vi è stata l’importazione dalla Russia di 233,9 milioni di Kw/h, da centrali idroelettriche e termoelettriche. La Cecenia rivoltosa Repubblica sud-caucasica - ha un bilancio che deriva per l’80 per cento dalle sovvenzioni di Mosca. La sua economia dipende dal petrolio e dai processi di raffinazione. La capitale Grozny ha chiesto a Mosca la riscossione dei proventi da petrolio e altre risorse naturali, oltre al controllo della maggioranza delle azioni della società petrolifera cecena Grozneftegaz, in mano alla russa Rosneft. L’Azerbaigian naviga nel petrolio. L’86 per cento delle attività produttive azere sono legate al settore petrolifero. Cerca di raggiungere una quasi totale indipendenza energetica da Mosca, attraverso il rafforzamento dell’asse di collegamento con la Turchia. Il contratto con Gazprom per l’importazione di gas scade nel 2009. L’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan - ideato come alternativa alla dipendenza dal petrolio mediorientale e in parte russo - veicolerà nel 2009, a pieno carico, solamente l’1 per cento della produzione mondiale di petrolio. Il gasdotto Baku-TbilisiErzerum, che porterà in Europa il gas di Shah Deniz, ricco giacimento del Mar Caspio, potrebbe garantire un buon livello di autonomia energetica al Paese. Un’ulteriore progetto d’indipendenza è legato alla ferrovia Baku-Tbilisi-Kars. Il Kazakhstan è una oil and gas economy, situata in una zona geograficamente penalizzata dall’inesistenza di sbocchi marittimi, da catene montuose che separano il Paese dalla Cina rendendo la costruzione di pipeline estremamente complessa e dalla vicinanza di aree di crisi - Iran e Afghanistan a Sud e bacino del Caucaso ad Ovest - che ne limita l’accesso al mercato internazionale. Per tali ragioni, il Kazakhstan necessita di continui investimenti per attività di ricerca, lavorazione e trasporto. Per evitare la balcanizzazione del Caucaso e dell’area Sud (che vedrebbe Mosca scavalcata da Washington come Stato pivot dell’immensa regione), la Russia sta puntando sulla vetustà e la scar-


dossier originariamente previsto per il 2005 - spingendo la Cina a tutelarsi dal punto di vista della sicurezza degli approvvigionamenti. Pechino ha investito in Kazakhstan 600 milioni di dollari nell’esplorazione di giacimenti; ha acquistato PetroKazakhstan per più di 4 miliardi di dollari; e ha aperto l’oleodotto di Atasu-Alashankou nello Xinjang, costato circa 9 miliardi di dollari. Pechino si è accordata con il Turkmenistan per l’esportazione di 30 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Mosca ha deciso di costruire la Tayshet-Prevoznaya fino all’Oceano Pacifico. Si tratta di una pipeline di 4.130 chilometri, che passerà a 40 chilometri a nord del Lago Baikal, la più importante riserva d’acqua dolce al mondo. La costruzione dell’oleodotto costerà circa 16 miliardi di dollari e dovrebbe essere completata entro la fine del 2008. Favorirà il Giappone - che dipende totalmente dalle importazioni di petrolio, le quali provengono per il 90 per cento dalla regione mediorientale - e farà contenta Washington. Allo stesso tempo, passerà poco distante dai confini nord della Cina, facilitando la deviazione dell’oleodotto in territorio cinese. Alienare Pechino è una non opzione per Mosca. Una derivazione in partenza da Skovorodino, trasporterà fino a 30 milioni di tonnellate di petrolio all’anno all’interno della Cina, mentre il ramo principale porterà altre 50 milioni di tonnellate all’anno fino a Nakhodka, nell’Oceano Pacifico. Dal porto di Nakhodka, ammodernato per riempire petroliere con una capacità fino a 300mila tonnellate, il greggio verrà dirottato principalmente in direzione del Giappone, ma una parte dovrebbe essere canalizAsia. L’idea iniziale di Mosca era la costruzione zata anche verso pacific rim-state, quali la Corea della East siberian pipeline da Angarsk a Daqing - del Sud, l’Australia, l’India, l’Indonesia e forse dalla Siberia alla Cina - della lunghezza di 2.300 anche gli Stati Uniti, che potranno diminuire la chilometri. Sia che per ragioni strategiche, sia loro dipendenza dal petrolio mediorientale. È allo forse per non innervosire gli Stati Uniti, Mosca ha studio un progetto di un gasdotto per l’India, attrapensato di deviare la rotta della pipeline verso il verso Iran e Pakistan. Giappone. I tentennamenti russi hanno portato ad uno slittamento della costruzione dell’oleodotto - America del Sud. Il Venezuela è un “partner sa sicurezza degli impianti petroliferi e di estrazioni kazaki e azeri, sul fatto che l’esportazione di petrolio e gas dipende in larga misura dal sistema di infrastrutture ex-sovietico, sull’innalzamento dei prezzi dell’energia, offrendo contributi per i progetti di estrazione del greggio. Mosca, quindi, è in grado di impedire ad altri di commercializzare le proprie produzioni. È in corso un ulteriore rafforzamento dei rapporti energetici e commerciali russo-kazaki. Il Kazakhstan assumerà nel 2010 la presidenza dell’Osce e ciò aumenta la considerazione di Mosca verso il Paese, viste le non eccellenti relazioni tra la Russia e l’Organizzazione. L’obiettivo di Mosca è la nascita nella regione centro-asiatica di un cartello regionale a guida russa. L’istituzione nel 1996 della Shanghai cooperation organization (Sco) composta dalla Russia, dalla Cina e dalle Repubbliche centro-asiatiche - ha anche la funzione di forum di dialogo degli interessi regionali. L’Organization of central asian cooperation (Ocac) - composta da Kazakhstan, Kirgizistan, Tagikistan, Uzbekistan e Russia, con Georgia, Turchia e Ucraina nel ruolo di osservatori - ha, tra le altre cose, l’obiettivo di rafforzare lo sviluppo dell’integrazione economica nella regione. Al momento, la creazione di un cartello regionale appare un’operazione molto complessa per le distorsioni strutturali del mercato energetico regionale e globale, per le non sempre facili relazioni tra le Repubbliche centro-asiatiche e la Federazione Russa, e per le crescenti tensioni geopolitiche che governano l’intera area.

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Risk naturale” della Russia. Possiede le più grandi riserve di petrolio delle Americhe ed è l’ottavo Paese al mondo per riserve di gas. È l’unico Stato latino-americano ad essere membro dell’Opec, di cui la Russia non fa parte. Gazprom nel 2005 ha ottenuto le licenze per l’estrazione di idrocarburi nell’ambito del progetto Rafael Urdaneta per 30 anni. Parteciperà alla costruzione del gasdotto Gasoducto del Sur, di 9.283 chilometri, che collegherà Puerto Ordaz in Venezuela a Buenos Aires, passando per il Brasile. La Lukoil ha in atto progetti di esplorazione del bacino dell’Orinoco, le cui riserve ammonterebbero a circa 200 miliardi di barili di petrolio.

Lo scopo è difendere gli interessi nazionali della Federazione, mantenere la stabilità politica, la crescita economica, l’aumento degli standard quantitativi e qualitativi di vita del popolo, ridurre l’indebitamento dello Stato e controllare l’inflazione Con il Brasile è in atto un’alleanza tecnologica per la partecipazione russa alla costruzione di centrali idroelettriche. L’Argentina produce un terzo dell’energia elettrica con macchinari russi. Con il Messico è stato firmato nel giugno 2005 un Moa per la cooperazione del settore dell’energia. La Russia ha annunciato di voler cooperare con Argentina, Brasile, Cile e Messico nello sviluppo dell’energia nucleare civile. 34

In Africa la presenza di Gazprom si sta sempre più intensificando con la partecipazione a gare per lo sfruttamento di aree in Libia, Egitto e Algeria. Vi è anche un forte interesse ad entrare nel mercato dell’uranio. Vista la volontà di Mosca di non entrare in contrasto con l’azienda nazionale algerina Sonatrach, vi sarà verosimilmente una divisione delle aree d’influenza. Non si può parlare di un vero e proprio cartello, ma di un tentativo di limitare l’entrata di altri produttori. Gli Stati africani non possiedono un’industria energetica nazionale e devono importare tecnologie. L’obiettivo di Mosca è fare dell’Africa un avamposto strategico per rafforzare e integrare la posizione delle imprese russe, in modo che Gazprom possa produrre e vendere gas non solo dalla Russia, ma anche dal Nord Africa, cioè dal Mediterraneo meridionale. Vista la crescita geopolitica di tale area, Gazprom ha tutto l’interesse ad acquisire quote azionarie delle società nei Paesi in cui oggi esporta energia, tra cui anche l’Italia. La Federazione Russa sta valorizzando le vie di comunicazione marittime artiche, per allargare le rotte dei trasporti energetici, sfruttarne le risorse del fondo e del sottofondo marino, ricchissimi di petrolio e gas, in modo da rivoluzionare la geografia dell’energia. A Murmansk, nella penisola di Kola, arriva attraverso una pipeline di 1.550 miglia, in esecuzione dal 2007, il petrolio della Siberia occidentale, per essere inviato al mercato americano. L’attuale quota russa del mercato energetico Usa è del 4 per cento. Nel 2010, tale percentuale salirà al 13 per cento. La Russia esporta ogni giorno 6 milioni di barili di petrolio. Si stima che con lo sfruttamento della regione Artica, tale produzione dovrebbe aumentare di 2-2,5 milioni di barili/giorno. Mosca ha enormi difficoltà ad uscire dal vincolo energetico in un’ottica di diversificazione delle strutture industriali, essenziale nell’era della globalizzazione. Con l’attuale scenario a 100 dollari al barile - e uno apocalittico di peak oil a 150 dol-


dossier lari, qualora non dovessero essere trovati e sfruttati nuovi giacimenti -, in caso di una non accelerazione delle nuove produzioni, entro l’inverno 2010 si avrà un eccesso di domanda sul mercato interno russo del gas, con conseguente aumento del prezzo. Gli investimenti massicci di Gazprom nella costruzione di infrastrutture di trasporto in tutto il mondo, anche quando i giacimenti non sono ancora del tutto sfruttabili, hanno lo scopo di cercare di tenere il mercato stabile. Il prezzo elevato del greggio aumenta la necessità di accelerare la ricerca di nuovi giacimenti, come in Siberia orientale, nelle aree artiche e nelle zone off-shore, investendo nella costruzione di nuove infrastrutture. Il pericolo di una isteresi dei prezzi è comunque sempre possibile e imprevedibile. La Federazione russa sta attraversando il rischio di un eccessivo post-peak fields, cioè di come rimpiazzare i giacimenti sfruttati quasi nella loro totalità. Nel 2004, circa il 20 per cento (1,8 milioni di barili/giorno) della produzione di petrolio della Russia proveniva da giacimenti che avevano prodotto l’80 per cento della loro capacità. Inoltre, molte delle attuali raffinerie sono inefficienti, vetuste e con scarsi livelli di sicurezza. In più, poche imprese nel prossimo decennio saranno in grado di contribuire ad incrementare la produzione di petrolio. L’alto prezzo del greggio renderà il mix energetico una priorità assoluta. Qualora fosse mantenuta l’attuale offerta di prodotti energetici, i fabbisogni mondiali aumenterebbero, nel 2030, di oltre il 50 per cento rispetto ad oggi; del 55 per cento nel periodo 2005-2030, con un tasso medio annuo dell’1,8 per cento. Cina e India insieme conterebbero per il 45 per cento dell’aumento della domanda mondiale. I combustibili fossili soddisferanno l’84 per cento dell’aumento totale della domanda. Il petrolio pur in flessione dal 35 al 32 per cento - manterrà il primato con 17,7 miliardi di tonnellate equivalenti di petrolio (tep), rispetto ai 11,4 miliardi di tep nel 2005. La domanda di petrolio nel 2030 rag-

giungerà i 116 milioni di barili/giorno, 32 in più rispetto al 2006. La crescita della produzione industriale della Federazione Russa nel 2007 non è legata solamente al settore delle materie prime, ma anche al settore manifatturiero (+7,7 per cento nel primo semestre del 2007, rispetto al 4,4 per cento del medesimo periodo 2006). In termini percentuali il manifatturiero è cresciuto di più del settore energetico. Essendo high energy consuming, la differenza tra crescita del comparto energetico e richiesta interna di energia rischia di far registrare un andamento in calo nell’immediato futuro. Mosca sta quindi elaborando una strategia energetica che possa garantirle un rango di primo piano nel futuro scenario post-petrolifero.

La Federazione Russa

punta sul nucleare. Secondo il programma federale di «Sviluppo del complesso energetico e industriale nucleare della Russia in 2007-2010 e in prospettiva fino al 2015», approvato il 6 ottobre 2006, si suppone che entro il 2015 saranno messe in esercizio 10 nuove unità in centrali nucleari, con una potenza installata non inferiore a 9,8 Gw. È in finalizzazione la realizzazione di nuovi reattori di terza generazione (Vver-1000) tecnologicamente avanzati e con elevati standard di sicurezza. É stato siglato un contratto di fornitura di 2 unità Vver-1000 per l’impianto nucleare di Belene in Bulgaria. Per Mosca potrebbe rappresentare la testa di ponte per l’ingresso nel mercato nucleare europeo. Quattro reattori russi entreranno a breve in decommissioning. Rappresenta un business enorme per i paesi che possiedono know-how e capacità operative. L’Agenzia federale nucleare russa Rosatom sta stipulando Mou e contratti di smantellamento con le maggiori società mondiali. Per l’Italia, sono recenti gli accordi dell’Enel e della Sogin. Comunque, l’era petrolifera è ancora lontana dal terminare. 35



dossier

LE JAMAATS ISLAMICHE E IL DILEMMA CECENO

CESARE E ALLAH NEL CAUCASO DI

N •

DONATELLA SAGRAMOSO

ell’ottobre dello scorso anno, il presidente della Camera bassa del parlamento ceceno, Duvkakha Abdurakhamanov, ha annunciato che l’offensiva antiterrorista in Cecenia si era conclusa e che solo poche decine di militanti erano sfuggiti alla cattura. In altre parole, intendeva affermare che la repubblica era stata pacificata, con

il sostegno delle forze cecene fedeli a Mosca, ed era di nuovo sotto il controllo russo. Non ci sono dubbi che i combattimenti in Cecenia si siano ridotti negli ultimi anni, grazie alle brutali, seppur efficaci, azioni militari compiute dall’attuale presidente, il trentunenne Ramzan Kadyrov, insieme alle sue forze di sicurezza e alla cosiddetta Kadyrovsty. Negli ultimi anni, il livello degli scontri in Cecenia tra le truppe federali e i combattenti locali si è ridotto notevolmente. La violenza nella regione non è però cessata completamente; anzi, si è diffusa nelle regioni confinanti del Caucaso settentrionale russo. Una rete informale di gruppi violenti - in passato autonomi - conosciuti anche con il nome di jamaats islamiche, si è andata sviluppando soprattutto nelle repubbliche russe islamiche dell’Ingushezia, del Dagestan, del Karachaevo-Cherkessia e della Kabardino-Balkaria. Sebbene ispirate dal movimento di resistenza ceceno, le jamaats non sono composte da ribelli ceceni, bensì da combattenti radicali islamici indigeni che di solito operano in modo indipendente rispetto alla Cecenia e conducono azioni autonome. Questi gruppi sono tutti collegati al movimento di resistenza ceceno, come si può intuire dal giuramento di fedeltà, pronunciato dai capi di tutte le jamaats, a Doku Umarov, leader della resistenza cecena. I gruppi sono

in contatto con i combattenti ceceni e talvolta coordinano le attività, aumentando così l’impatto operativomilitare. Negli ultimi tre anni, le jamaats sono state coinvolte in un gran numero d’aggressioni violente e attività terroristiche contro forze dell’ordine, funzionari di governo e persino rappresentanti religiosi. Nel maggio del 2005, in Dagestan si sono registrati oltre cento episodi di terrorismo, tra cui l’assassinio del ministro delle Nazionalità e due attentati contro il ministro dell’Interno. Sebbene le operazioni antiterrorismo, negli ultimi anni, abbiano portato ad una certa riduzione del livello della violenza, le forze dell’ordine continuano regolarmente a cadere vittime d’attentati a livello locale. Anche la piccola repubblica dell’Ingushezia ha subito un’impennata nel numero d’attacchi contro funzionari di governo e di polizia tra il 2006 e il 2007, tra cui l’omicidio del vice ministro degli Interni e vari attentati contro il presidente. Lo scorso autunno la situazione nella repubblica è diventata talmente critica che si è cominciato a dubitare che l’Ingushezia potesse sopravvivere come entità autonoma all’interno della Russia, ipotizzando una sua possibile reintegrazione con la Cecenia. Non solo c’erano attentati quotidiani ai danni di militari e polizia, ma anche molti abitanti d’et37


Risk nia russa erano diventati bersaglio d’aggressioni. Anche la vicina repubblica della Kabardino-Balkaria ha assisitito all’inasprirsi della violenza nell’ultimo anno, anche se non con la stessa intensità. Il Paese si sta ancora riprendendo dagli eventi del 13 ottobre 2005, quando più di cento miliziani armati attaccarono contemporaneamente postazioni militari e di polizia, nella capitale Nalchik, provocando oltre cento vittime. Nella repubblica multietnica del Karachaevo-Cherkessia sono stati compiuti una serie d’attentati terroristici ai danni, non solo di funzionari di polizia, ma anche di rappresentanti ufficiali del clero islamico. Persino in Cecenia la violenza non è stata completamente eliminata. Anche se non ci sono state azioni terroristiche, dall’assedio alla scuola di Beslan nel settembre del 2004, le forze ribelli continuano a infliggere perdite alle truppe federali russe e alle forze di sicurezza cecene filorusse. Finora Doku Umarov è riuscito a rimpiazzare quasi immediatemente i capi locali che cadevano per mano dei terroristi. Questa violenza è in gran parte passata sotto silenzio nei media occidentali, e quindi la gravità della situazione è emersa.

La maggior parte degli omicidi e degli attentati nelle repubbliche del Caucaso settentrionale sono regolarmente rivendicati dalle jamaats islamiche che auspicano il ritiro della presenza russa dalla regione e la creazione di uno Stato islamico. Questi gruppi si battono per la separazione del Caucaso settentrionale dalla Russia, e per la sostituzione degli attuali regimi laici filorussi con un governo islamico fondato sulla sharia, cioé il codice di diritto islamico. Di conseguenza, gli ideali islamici sembrano fornire la guida e l’ispirazione per buona parte della violenza terrorista, anche se intersecano profondi sentimenti nazionalisti, soprattutto nei gruppi ribelli della Cecenia e dell’Ingushezia. La complessità della violenza nel Caucaso settentrionale è comunque maggiore ed è, solo in parte, riconducibile alla diffusione dell’islamismo radicale e di sentimenti separatisti. Altri fattori, come la permanenza al potere di classi dirigenti screditate e corrotte, la persistenza di gravi disagi economici, disoccupazione giovanile e 38

alienazione sociale e l’assenza di libertà politiche, sono alla base della violenza. Il sistematico abuso di potere da parte delle autorità, l’appropriazione indebita di denaro pubblico e la corruzione radicata, hanno generato un forte senso di frustrazione e di profonda ingiustizia tra la popolazione, in particolare tra i giovani. Nonostante l’esistenza di procedure democratiche formali nella maggior parte delle repubbliche, non si sono sviluppate istituzioni democratiche adeguate e una vera e propria governance. Durante gli anni Novanta, tutte le repubbliche del Caucaso settentrionale hanno adottato costituzioni a forte valenza democratica. Tuttavia negli stessi anni e nei primi anni del 2000, elezioni vere e proprie non hanno quasi mai avuto luogo. Inoltre, dopo le riforme federali dell’ottobre 2004, che hanno abolito l’elezione diretta dei governatori in Russia, anche quelle degli organi di potere esecutivo sono saltate completamente. Il tutto è stato sostituito da nomine approvate dai parlamenti locali. Inoltre, non è stata introdotta un’adeguata separazione dei poteri, con uno stato di diritto assai lacunoso nella struttura come nell’applicazione. L’autonomia dei governi locali è ridotta, i media indipendenti sono stati limitati nella loro libertà, e non sono emersi partiti politici o gruppi di interesse forti. La vita politica delle repubbliche è stata invece dominata da strutture informali come clan, reti clientelari e rapporti economici sommersi. Nella maggior parte dei casi la vecchia nomenklatura è riuscita a restare in sella utilizzando risorse pubbliche, i rapporti clientelari e l’esperienza professionale, oltre a beneficiare del sostegno del controllo federale. Tutto questo ha consentito alla classe dirigente di mantenere in piedi il “vecchio sistema” e continuando a concentrare il potere. Il Caucaso del nord è stato colpito, anche duramente, dalla profonda crisi economica che ha investito la Russia negli anni Novanta. A seguito del crollo del sistema dirigista sovietico e dell’improvvisa transizione all’economia di mercato, le vecchie aziende industriali e agricole sovietiche sono piombate nel caos e solo pochissime attività economiche le hanno sostituite. Già alla metà degli anni Novanta quelle repubbliche caucasiche erano tra le regioni più povere della


dossier Federazione russa, in termini di reddito, di crescita del Pil, di produzione industriale e disoccupazione. Nel 1998, i livelli d’occupazione reale erano stimati al 52 per cento della popolazione attiva in Ingushezia, Karachaevo-Cherkessia e Dagestan. La mancanza di lavoro e di prospettive economiche hanno generato forti tensioni tra la popolazione ed un grande senso di smarrimento, soprattutto nelle giovani generazioni. Nonostante la crescita dell’economia e dei redditi negli ultimi quattro anni - nel 2006 la regione ha fatto registrare un tasso di crescita tra l’8 e il 9 per cento - ma il quadro socioeconomico della regione non è migliorato in maniera significativa. I livelli di disoccupazione giovanile maschile, nel 2005, raggiungevano il 70, 80 per cento in alcune regioni, in particolare in Ingushezia e Cecenia. Questa zona è stata anche caratterizzata da un’acuta sperequazione dei redditi e da un crescente divario tra ricchi e poveri. A seguito del passaggio all’economia di mercato negli anni Novanta, le élites economiche tradizionali si sono disgregate ed è emersa una nuova ricchezza dalle dubbie origini. Nell’Ingushezia, per esempio, i redditi del 10 per cento più ricco della popolazione è oltre quindici volte superiore rispetto al reddito del 10 per cento più povero. Un tale quadro di disuaguaglianza economica ha inevitabilmente generato frustrazione e tensioni sociali. Questa situazione di disagio ha portato ad una certa ostilità nei confronti dei modelli di sviluppo liberaldemocratici di stampo occidentale. Di conseguenza, molti giovani musulmani si sono rivolti all’Islam per trovare migliori risposte morali e sociopolitiche. Anche se la stragrande maggioranza di questi giovani musulmani non è ricorsa a metodi violenti per imporre la creazione di uno Stato islamico, un piccolo numero si è mostrato disposto ad unirsi a gruppi radicali. L’uso della violenza è stato incoraggiato dalle idee salafite e jihadiste che si sono diffuse nella regione durante gli anni Novanta a seguito di contatti con il mondo isla-

mico. Queste idee hanno poi alimentato il risveglio religioso che ha avuto luogo in seguito. Con l’avvento della perestroika e della glasnost alla fine degli anni Ottanta, tutte le repubbliche musulmane della regione hanno assistito ad un grande revival dell’Islam. Ciò ha anche portato alla creazione di scuole e d’istituti d’istruzione superiore islamici, oltre alla pubblicazione e alla diffusione di testi religiosi. Attraverso l’hajj - il pellegrinaggio verso i luoghi sacri della Mecca e Medina in Arabia Saudita - ed esperienze di studio all’estero, i giovani musulmani sono entrati in contatto con altre visioni dell’Islam. In questo modo hanno approfondito la loro conoscenza e comprensione della cultura musulmana e, cosa ancora più importante, sono stati introdotti all’Islam salafita e ad altre versioni radicali. Le opere di Ibn Taimiya, Muhammad Abd alWahhab, Abdul Alaa Maudidi, Sayid al Kutb e alTurabi sono diventate particolarmente conosciute. Le idee fondamentali dei salafiti del Caucaso settentrionale erano in linea con molti dei principi del pensiero salafita che, all’epoca, era diventato influente in altre parti del mondo islamico. I salafiti caucasici erano intenzionati a purificare la fede islamica per liberarla da tutte le bid’a o innovazioni, oltre a ripristinare il principio centrale dell’Islam - il tawhid o monoteismo. Tutto questo li ha posti in contrasto con le forme “tradizionali” di Islam, che erano prevalenti in quella regione, ed erano caratterizzate da un’abbondanza di riti di origine non islamica. I salafiti erano anche contrari all’arcaica stratificazione sociale caucasica, basata su clan ed etnie diverse, con l’idea di sostituire il tutto con un’identità islamica più inclusiva, molto apprezzata dai giovani musulmani scontenti delle proprie condizioni. Le ideologie wahhabite si sono rivelate vincenti per quei ragazzi che si rivolgevano alla religione per rispondere a pulsioni escatologiche, ma che erano anche desiderosi di cambiare la società e “riportarla” all’ordine’. Si sono anche rivelate

Le jamaats si battono per la separazione del Caucaso dalla Russia e per sostituire i regimi laici con quelli islamisti

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Risk interessanti per coloro che erano disposti a staccarsi dalle strutture tradizionali delle società caucasiche, ritenute responsabili delle loro misere condizioni. Molti si sono mostrati desiderosi di esprimere la propria insoddisfazione e protestare, e il wahhabismo sembra aver fornito loro una risposta, non foss’altro per il suo atteggiamento egualitario e la sua attenzione nei confronti della giustizia sociale.

I salafiti moderati nella regione auspicavano la graduale re-islamizzazione della società come condizione preliminare alla successiva islamizzazione dello Stato. Ritenevano che le popolazioni musulmane locali dovessero essere educate secondo i principi fondamentali dell’Islam, prima di poter creare uno Stato musulmano. Ribadivano il loro sostegno nei confronti di mezzi pacifici di proselitismo e riconoscevano l’autorità di organi di potere laici all’interno della repubblica. Le loro idee divennero molto popolari presso i giovani musulmani durante la metà degli anni Novanta. I salafiti radicali, come Bagauddin Kebedov in Dagestan o Movladi Udugov in Cecenia, invece, consideravano i governi laici della regione come kafir (senza Dio), e quindi illegittimi, auspicando l’introduzione della legge islamica. Sostenevano l’idea di un Caucaso unito sotto il dominio islamico come fase intermedia lungo il percorso verso una futura unione piena di tutti i musulmani nella umma. Prendevano a modello di Stato i regimi del Sudan e dell’Afghanistan. Ritenevano anche che la forma più alta di jihad richiedesse una campagna per diffondere l’Islam in tutto il mondo, includendo l’uso delle armi, piuttosto che attraverso lo sviluppo spirituale dell’umanità, come sostengono i Sufi. Consideravano la jihad come una lotta armata di difesa per superare tutti gli ostacoli che i nemici dell’Islam ponevano lungo la strada della sua proliferazione pacifica. Ispirati da queste ideologie, i salafiti radicali in Dagestan, Karachevo-Cherkessia e Kabardino-Balkaria hanno creato delle comunità militari islamiche nella seconda metà degli anni Novanta. La crescente influenza e militarizzazione di quelle zone è stata, in parte, dovuta alle repressioni, contro le comunità wahhabite, 40

degli apparati di sicurezza, oltre all’insoddisfazione generale. Tuttavia, la radicalizzazione è stata anche prodotta dalla guerra cecena del 1994 e dai suoi strascichi. Lo scontro militare tra Cecenia e Russia tra il 1994 e il 1996 ha portato alla crescente islamizzazione di quel Paese e alla wahhabizzazione del movimento insurrezionale. L’arrivo in Cecenia di personaggi religiosi wahhabiti, come lo sceicco Fathi, e di combattenti arabi come ibn al-Khattab - reduce della guerra in Afghanistan - ha contribuito in modo significativo a questo sviluppo. Personalità come Fathi si sono rivelate fondamentali nel diffondere le ideologie wahhabite e jihadiste, anche se le idee salafite si erano già sviluppate in precedenza all’interno del Partito ceceno per la rinascita islamica. Aloro volta, i mujaheddin hanno fornito un sostegno finanziario, logistico e militare preziosissimo allo sforzo bellico. Ancora più importante, hanno creato campi d’addestramento dove insegnavano l’Islam wahhabita e addestravano combattenti provenienti da tutta la regione del Caucaso settentrionale. Questi campi hanno fornito una rete d’assistenza e supporto che ha agevolato la diffusione di jamaat radicali in altre repubbliche della zona, durante la fine di quel periodo. La Cecenia divenne anche un rifugio per tanti wahhabiti che fuggivano dalla repressione. Quindi, si potrebbe affermare che la Cecenia abbia fornito la capacità logistica e aggregativa per la diffusione delle jamaat radicali in tutta la regione. Nei primi anni del 2000, è rimasto comunque un centro nevralgico di supporto e mobilitazione, sebbene tante jamaat si siano poi radicate nelle rispettive repubbliche d’origine. La radicalizzazione di queste formazioni è stata anche provocata dalle misure repressive, adottate dai governi contro i gruppi islamici locali. Una politica indiscriminata delle forze di sicurezza ha spinto molte giovani vittime ad unirsi ai gruppi radicali per reazione. Questo ha portato ad un inasprimento degli abusi, contribuendo al ciclo di violenza in tutta la regione. Gran parte delle violenze rappresentano l’eredità di quelle azioni brutali che hanno funestato le ultime due guerre in Cecenia. Durante le due campagne, le operazioni militari sono state caratterizzate da un uso eccessivo e non selettivo


dossier della forza, da parte delle truppe russe, così come da guerriglia e attentati terroristici indiscriminati, realizzati dai combattenti ribelli ceceni. Durante le prime fasi del secondo conflitto, le truppe federali hanno effettuato imponenti bombardamenti aerei e terrestri provocando la morte di migliaia di civili. Durante le operazioni antisommossa, le truppe di Mosca hanno mostrato scarso riguardo nei confronti dei civili, spesso vittime solo perché sulla linea di fuoco. Gli zachistkas (rastrellamenti) dei russi erano marcati da abusi e violenze. Durante queste operazioni, molti ragazzi sono stati detenuti arbitrariamente e poi portati in campi di accoglienza temporanei dove venivano torturati e picchiati. I ribelli ceceni, a loro volta, rispondevano spesso uccidendo vittime innocenti o funzionari civili. Il caso più conosciuto è stato l’assalto alla scuola di Beslan nel settembre del 2004. Tutte queste azioni indiscriminate hanno alimentato la spirale di violenza. Spirale ha portato ad un’evoluzione significativa negli ultimi dieci anni. Da movimento ceceno, inizialmente separatista e nazionalista, il terrorismo si è trasformato in una rete di estremisti islamici, con basi in altre repubbliche della regione. Sebbene la Cecenia abbia fornito una base logistica e ideologica per lo sviluppo di queste organizzazioni, oggi questi gruppi sono in grado di operare autonomamente. L’obiettivo dei combattenti è quello di abbattere i regimi al governo per la creazione di uno Stato islamico. Il fine ultimo è quello di unire tutte le regioni musulmane del Caucaso al resto della umma. Tuttavia, questo rimane un obiettivo ideale a lungo termine. La violenza di oggi è innescata da fattori locali più specifici, come la grave situazione socioeconomica e politica, unita al regime repressivo. La combinazione di governi autoritari, inefficaci, impopolari e di povertà, privazioni e disuguaglianza, ha creato una miscela esplosiva che ha scatenato la violenza. Nonostante la forte instabilità, la comunità internazionale è tutt’ora distratta. Gran parte di queste violenze non vengono riprese dai media occidentali, per cui la gravità della situazione è sottostimata. L’area continua comunque ad avere un grande valore strategico e per questo motivo meriterebbe la giusta attenzione. Le

repubbliche russe del Caucaso del Nord, non solo forniscono alla Russia il collegamento tra due specchi d’acqua, uno dei quali - il Mar Caspio - non ha sbocchi, ma qui si trovano anche importanti direttrici che collegano la Russia alla Georgia, all’Armenia e all’Azerbaigian. In particolare, la repubblica del Dagestan ospita un oleodotto che trasporta il petrolio dell’Azerbaigian dai terminal off-shore nel Mar Caspio al porto russo di Novorossiisk. Un’altra serie di oleodotti attraversano il Caucaso meridionale, trasportando il petrolio azero attraverso la Georgia fino alla Turchia. Queste risorse, che attualmente vengono sfruttate da un consorzio occidentale, rivestono una notevole importanza per quelle economie e accrescono il valore strategico della regione. Inoltre, l’allargamento dell’Unione europea e l’inclusione dell’Ucraina e dei tre Stati del Caucaso meridionale - Georgia, Armenia e Azerbaigian - nella politica di vicinato dell’Ue hanno avvicinato le due realtà. Di conseguenza, gli avvenimenti nel Caucaso settentrionale non riguardano più esclusivamente i Paesi di quella regione. L’instabilità e la violenza potrebbero diffondersi in zone che hanno un’importanza sempre maggiore, non solo per l’Europa, ma anche per gli Usa e l’Alleanza atlantica. La Nato e gli Stati Uniti sono sempre più impegnati nel Caucaso meridionale e l’ammissione della Georgia all’interno della Nato viene presa in seria considerazione. La disponibilità da parte della leadership russa di accettare l’aiuto dell’Ue per la ricostruzione del Caucaso settentrionale, apre nuove opportunità per i Paesi occidentali. Sebbene la comunità internazionale, soprattutto Bruxelles, si stia impegnando nella ricostruzione fisica della Cecenia, non è stato fatto molto per affrontare le questioni più decisive. Inoltre, le relazioni con la Russia sono ad un minimo storico e tutto ciò ostacola qualsiasi attività di cooperazione. È fondamentale che i rapporti con la Russia migliorino affinché azioni “congiunte” possano essere intraprese. Se i problemi fondamentali non venissero risolti - attraverso lo stato di diritto, il pluralismo politico e migliorando l’efficienza del governo - si potranno realizzare pochi successi di lunga durata. 41


Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Il (nuovo) mercato della difesa

Capita raramente di leggere in un documento ufficiale le analisi e le riflessioni che normalmente vengono fatte solo dagli esperti. E questo suona tanto più clamoroso quando il tema è particolarmente delicato e sensibile sul piano politico come l’industria della difesa. Questo è avvenuto con la pubblicazione, lo scorso 5 dicembre, della Comunicazione della Commissione europea «Una strategia per una più forte e competitiva industria europea della difesa». Già il titolo chiarisce in modo inequivocabile qual è l’obiettivo che la Commissione si prefigge e che vuole portare all’attenzione del Consiglio Europeo (i governi) e del Parlamento Europeo (i rappresentanti dei cittadini europei). Il fatto che la Commissione ponga al centro della sua iniziativa l’industria della difesa conferma, cosa per altro esplicitamente dichiarata nel testo, che essa è ritenuta essere una componente fondamentale delle capacità tecnologiche ed industriali europee e una base indispensabile della politica europea di sicurezza e difesa. Se si confronta questa impostazione con la prudenza, al limite dell’ipocrisia, con la quale i decisori politici italiani affrontano questi stessi temi, si ha una conferma del ritardo anche culturale che caratterizza il nostro Paese rispetto all’Europa. Il filo logico che sottende la Comunicazione è chiaro e semplice: l’Europa deve aiutare la sua industria della difesa a rafforzarsi sul mercato europeo, ristrutturarsi in quadro di specializzazione e diventare più competitiva sul mercato internazionale perché «l’Unione europea ha bisogno di un’industria competitiva che a sua volta ha bisogno di un mercato europeo». Per puntare a questo risultato tutti gli attori devono fare la loro parte, con particolare riguardo alle istituzioni europee e agli Stati membri che intervengono nel definire le regole del mercato della difesa. Per questa 42

ragione la Commissione europea ha già inserito due provvedimenti insieme alla Comunicazione, presentandoli insieme in un Defence package. Il primo riguarda il trasferimento degli equipaggiamenti destinati alle Forze Armate dei Paesi europei e dei componenti destinati ad essere integrati in sistemi prodotti in altri Paesi europei. Grazie ad un sistema di licenze che aggiunge all’attuale licenza individuale quella globale e generale, le grandi imprese potranno scegliere i loro subfornitori indipendentemente dalla nazionalità e potranno fornire direttamente gli equipaggiamenti necessari alle singole Forze armate europee sulla base di una loro certificazione sul piano dell’affidabilità e su un’autorizzazione ad ampio spettro da parte dei rispettivi governi. Di fatto per le imprese rientranti in questo sistema di controllo sarà come se le barriere doganali non esistessero più. Il secondo riguarda la messa a punto di una normativa specifica per l’acquisto degli equipaggiamenti militari e di sicurezza. Questo toglierà agli Stati membri l’alibi di dover ricorrere alle deroghe dall’applicazione della normativa europea per tutelare le particolari esigenze di questo settore. Le nuove regole consentiranno, infatti, un ampio utilizzo della trattativa privata e l’inserimento di speciali clausole per assicurare la sicurezza delle informazione e degli approvvigionamenti. Se, come auspicabile, queste due proposte saranno definitivamente approvate senza stravolgimenti dalle Istituzioni europee, potrebbero avere nel tempo una portata rivoluzionaria per l’Europa e per la difesa. Per l’Italia rappresenterebbe una grande occasione per ammodernare le normative in vigore e l’intera macchina burocratica che oggi ne deve portare il peso, garantendo all’industria italiana della difesa condizioni di reciprocità con i competitori.


editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE

Vedi Napoli e pensi a Beirut

Non ci piace vedere il ricorso ai soldati, alle Forze Armate, in nome di una “emergenza” spazzatura campana che dura da appena tre lustri. In una Italia così prude nei confronti di tutto ciò che è militare e pervasa di buonismo quando si tratta di impiegare lo strumento militare in missioni internazionali, non suscita alcuna perplessità la decisione di ricorrere al genio militare per sgomberare i rifiuti dalle vie di Napoli e quella, ancora più grave, di attribuire all’ennesimo commissario straordinario la potestà di utilizzare i soldati per “difendere” le discariche, siti che potrebbero essere addirittura militarizzati. Poi si è precisato che i soldati non sono impiegati per tutela dell’ordine pubblico, bensì in un fantomatico ruolo “logistico”, e per fortuna finora ai manifestanti organizzati e sobillati non è venuto in mente di ricorrere alla forza per dare l’assalto alle discariche protette dai soldati. Nessuno poi sa dire se il ricorso alle truppe avrà davvero termine con lo scadere del mandato di Gianni De Gennaro, ad aprile, perché in Italia nulla è più permanente del provvisorio. Nei Paesi civili i soldati vengono spediti per le strade solo in casi di reale emergenza nazionale e se ciò è relativamente normale in caso di calamità naturale, la cosa cambia se si fa ricorso a mimetiche, elmetti e fucili d’assalto per motivi legati alla sicurezza interna. Persino nel Libano sull’orlo della guerra civile l’impiego delle Forze Armate in questo ruolo suscita polemiche, mentre è comprensibile la diffidenza nei confronti dei paesi sudamericani nei quali i soldati vengono schierati per le pubbliche vie. Democrazie immature. Certo, come no. Ma che dire allora dell’Italia? Non ci si rende conto che ordinando all’Esercito di intervenire si dichiara la bancarotta della colossale

macchina nazionale della sicurezza interna, che pure soffre di una ipertrofia davvero degna di una repubblica delle banane, costa uno sproposito rispetto agli standard europei e tuttavia è incapace di affrontare sia la normalità sia le situazioni che esulano un poco dall’ordinario. Tutto ciò diventa scandaloso con uno strumento militare (fortunatamente) professionalizzato. Un tempo l’Esercito di leva era considerato un prezioso serbatoio di manovalanza pressoché gratuita al quale attingere senza problemi. Ma oggi i soldati sono volontari con una elevata professionalità ed una retribuzione equivalente a quella dei tutori dell’ordine. E sono pochi, pochissimi: le tre Forze Armate totalizzano 185.000 effettivi e sono destinate a scendere a 160.000 perché i soldi non bastano per mantenere uno strumento militare più consistente. Non di meno, si tratti di spazzatura campana o di “emergenza” terrorismo, si fa appello alle Forze Armate spesso e volentieri, anche per compiti che sviliscono le professionalità (e il morale) dei soldati. E c’è anche chi fa lo schizzinoso, sostenendo che i soldati sono incapaci di fare in Italia quello che riescono a fare benissimo in territori infestati davvero da terroristi e da guerriglieri. Qualcuno dovrebbe chiedersi che senso abbia spedire i Carabinieri a Kabul o a Pristina e poi mandare i bersaglieri a difendere la spazzatura di Napoli. La Campania affoga nei rifiuti e si spera che responsabili locali e nazionali finalmente decidano ed impongano una soluzione. Ma parallelamente bisognerà capire perché le strutture di protezione civile e soprattutto di sicurezza interna non funzionano e non sanno svolgere i compiti istituzionali. 43


Risk

Rapporto Difesa 2000

QUALI MISSIONI INTERNAZIONALI PER LE FORZE ARMATE ITALIANE? COMITATO DIFESA 2000

Il Comitato Difesa Duemila è stato costituito all’inizio del 2002 con lo scopo di contribuire ad un approfondimento del dibattito sui temi della sicurezza e della difesa in un’ottica europea e transatlantica. Coordinato da Michele Nones, è composto da: Ferdinando Adornato, Mario Arpino, Vincenzo Camporini, Carlo Finizio, Renzo Foa, Giovanni Gasparini, Carlo Jean, Andrea Nativi, Luigi Ramponi, Stefano Silvestri, Guido Venturoni. L’obiettivo è quello di elaborare ogni anno un policy paper da sottoporre alle classi dirigenti del Paese - durante i colloqui di Venezia organizzati dalla Fondazione liberal - allo scopo di creare un’occasione annuale di confronto, per l’analisi e la proposta di concetti strategici e operativi e del loro più opportuno inserimento in una più vasta cornice legislativa e politica del sistema Paese, specialmente nelle sue proiezioni oltre i confini nazionali. I temi affrontati dai precedenti paper sono: «Ci sentiamo in guerra?» (2002); «Una nuova alleanza strategica EuropaStati Uniti» (2003); «La pace asimmetrica» (2004); «L’Occidente sotto attacco» (2005); «Un Mediterraneo più sicuro» (2006); con il documento che pubblichiamo di seguito, «Quali missioni internazionali per le Forze Armate italiane?» si affrontano, su diversi piani, i problemi delle missioni all’estero. Il primo, fra gli altri, è riferito al livello operativo, basato sull’analisi dell’efficienza tecnico-logistica della forza armata. Un altro sul piano costi/benefici, che vede l’Italia incapace di concretizzare le ricadute economiche della presenza militare all’estero. Senza dimenticare la comparazione, sul piano del diritto internazionale, fra le normative dei Trattati sottoscritti dal nostro Paese e la Costituzione nazionale. Le conclusioni sono incentrate sulla proposta di una nuova impostazione del processo direzionale per la scelta delle missioni internazionali, basato su un approccio multidisciplinare e su una nuova procedura predefinita.

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difesa2000 Le missioni internazionali negli ultimi vent’anni L’Italia vanta una lunga e consolidata esperienza nella partecipazione alle missioni internazionali, a molte delle quali ha preso parte, pur disponendo di uno strumento militare essenzialmente basato su personale di leva e quindi politicamente, anche se forse non tecnicamente, poco adatto ad essere impiegato in operazioni che talvolta presentano elevati fattori di rischio o sono esposte al mission creeping, come è accaduto ad esempio in Somalia. I nostri militari si sono complessivamente comportati in modo esemplare nel corso di queste missioni e in molti casi sono assurti a modello di riferimento internazionale. Purtroppo è, però, pressoché regolarmente mancato un approccio politicostrategico corretto nella valutazione della convenienza a impegnare o meno lo strumento militare, mentre non c’è stata la volontà/capacità di sfruttare appieno le opportunità favorevoli createsi sul piano politico, strategico ed economico a seguito dello sforzo militare. L’Italia ha condotto negli ultimi due decenni ogni tipo di missione internazionale: da quelle esclusivamente a carattere umanitario e in condizioni estremamente permissive, come è accaduto per le Pellicano in Albania nel 1991-1992, a quelle convenzionali di combattimento ad alta intensità, come accadde durante la Guerra del Golfo del 1991 o quella del Kosovo del 1999, passando per situazioni intermedie (Somalia nel 1992-1994), sino a giungere alle operazioni antiter-

rorismo/controguerriglia (operazioni navali nel quadro di Enduring Freedom - ancora in corso, almeno sotto egida Nato, e quelle terrestri in Afghanistan con le missioni Nibbio del 2003). Il palmarès delle missioni internazionali italiane comprende anche un intervento nella lontanissima Timor Est, nel 1999-2000, operazioni Neo di evacuazione di civili (Ippocampo in Ruanda nel 1994), missioni di stabilizzazione in terra d’Africa (Mozambico, tra il 1993 ed il 1994), difficili operazioni umanitarie post belliche (Airone in Kurdistan nel 1991), per non parlare delle “maratone” di stabilizzazione di cui i nostri militari sono stati tra i principali protagonisti nei Balcani, dove operano ininterrottamente dal 1995 con contingenti che hanno contato migliaia e migliaia di effettivi. Va anche ricordata una missione, Alba, in Albania nel 1997, che è oggetto di studio e analisi non solo perché è perfettamente riuscita, ma anche perché rappresenta un raro esempio di coalition of the willing formata e guidata da un singolo Paese, proprio l’Italia. Il knowhow acquisito è quindi tra i più completi e le Forze Armate italiane hanno conquistato una ottima reputazione in campo internazionale, che poi si è tradotta in significativi riconoscimenti, a partire dalla responsabilità di comando che l’Italia ha ottenuto in missioni come Sfor, Kfor, Isaf e Unifil. Solo pochissimi Paesi hanno le carte in regola per gestire missioni di questo livello. Naturalmente la consistenza e le risorse limitate delle Forze Armate hanno condizionato e condizionano la

quantità e qualità delle forze impiegabili, la durata dello sforzo e la tipologia di missioni che possono essere effettuate. Negli ultimi anni si è andata consolidando la scelta politica di impiegare prevalentemente pacchetti di forze incentrati su robusti contingenti terrestri, utilizzando le forze aeree e navali solo in ruolo di trasporto/supporto e si è volutamente cercato di evitare il coinvolgimento in missioni di combattimento, anche ricorrendo a specifiche limitazioni (i “caveat”). Non solo si è evitato di utilizzare strumenti offensivi aerei/navali/terrestri o piattaforme principali ad alta visibilità per motivi di politica interna, a prescindere dalle valutazioni tecniche o strategiche, ma si è giunti fino al punto di doversi interrogare se i contingenti in teatro dovessero essere dotati di tutti gli strumenti e armamenti necessari per fronteggiare adeguatamente e immediatamente una eventuale e repentina crescita del livello di minaccia. Tale impostazione sta ora portando non solo ad una certa atrofia delle capacità non utilizzate, se non a fini addestrativi, ma comporta anche uno scadimento del “valore” internazionale riconosciuto ai contingenti italiani, che finiscono in qualche modo per essere percepiti, indipendentemente dalla realtà, come disponibili solo per situazioni benigne o comunque non di combattimento. Il che equivale ad un declassamento strategico, operativo e politico dello strumento militare, così faticosamente costruito e mantenuto dal Paese che lo esprime. L’attivismo militare nazionale non ha, purtroppo, portato tutti i risultati teori45


Risk camente possibili. Mentre le Forze Armate si sono comportate più che bene, considerando la pochezza delle risorse a disposizione, quello che è mancato è stato l’intervento del “sistema Paese”, che avrebbe dovuto muoversi in modo coordinato sulla base di una linea strategica ben definita, per sfruttare al meglio, le opportunità favorevoli via via createsi. Ciò, purtroppo, non è avvenuto. Il che è un peccato, perché l’investimento effettuato è stato significativo, considerando sia il numero di perdite subite, che, pur non essendo particolarmente elevato, non è certo trascurabile, sia i costi vivi delle missioni, sia il logoramento al quale sono stati sottoposti mezzi e materiali, sia infine le attività di cooperazione e gli aiuti concessi a molti di Paesi dove queste missioni si sono svolte. Il costo totale è largamente superiore ad una decina di miliardi di euro. In alcuni casi la mancanza di “ritorno” è davvero incomprensibile, quando si pensi, ad esempio, all’impegno profuso nei Balcani o in Africa. La stessa partecipazione ad Iraqi Freedom, Enduring Freedom e Isaf non è stata affatto capitalizzata come sarebbe potuto accadere. Evidentemente esiste un problema di cultura: se il generale De La Billiere, comandante delle forze britanniche nel Golfo nel 1991, scrive che prima ancora che le ostilità fossero ufficialmente concluse già iniziavano, direttamente in teatro, le riunioni con la comunità industriale e finanziaria britannica per verificare come sfruttare il “bonus” di credibilità e riconoscenza conquistato nel Golfo, da noi ci si è regolarmente 46

affidati ad iniziative più o meno estemporanee e scoordinate. Eppure in tutti questi anni si sarebbe ben potuto imparare, al massimo limitandosi a copiare pedissequamente da Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, ma anche Germania, Olanda o Spagna. Manca, quindi, un approccio integrato e una visione politica, anche perché politica di difesa e sicurezza e politica estera continuano ad essere scoordinate, mentre il governo nel suo complesso sembra disinteressarsi delle opportunità che derivano dall’impegnare il Paese in missioni militari internazionali. Al massimo ci si dedica a cercare di ottenere il consenso interno o ad operazioni di immagine e mediatiche, spesso volte a “compiacere” una vivace componente pacifista della nostra opinione pubblica. Una carenza gravissima, di cui naturalmente approfittano i nostri alleati/concorrenti. E non sembrano esserci possibilità di superare il nanismo che, a dispetto degli sforzi, continua a caratterizzare l’Italia sul piano internazionale. È anche evidente che il criterio in base al quale i governi che si sono via via succeduti hanno deciso la partecipazione dei nostri contingenti militari alle diverse missioni non è né omogeneo, né frutto di un calcolo politico o strategico. Se in qualche caso si è aderito, perché non se ne poteva fare a meno (Guerra del Golfo del 1991, operazioni Nato contro la Jugoslavia nel 1999 e quindi successive missioni di stabilizzazione in Kosovo, partecipazione iniziale ad Enduring Freedom post 9/11), in altri casi si è scelto di partecipare genericamente per acquisire benemerenze con

l’Onu, per rispondere a pressioni più o meno esplicite di forti lobby/circoli politici (Timor Est è esemplare in tal senso), per cercare di conquistare un “posto al sole” nella scena internazionale. Raramente si è agito nel quadro di un disegno coerente di politica internazionale o per salvaguardare primari interessi nazionali. E proprio il fatto che si scelga di impegnare le Forze Armate senza aver ben chiare finalità, costi e benefici dell’intervento riduce la possibilità di raccogliere risultati positivi. Non vi è dubbio peraltro che almeno per le Forze Armate le missioni internazionali si siano dimostrate un banco di prova, verifica e crescita assolutamente straordinario. Grazie al confronto continuo con gli alleati si è compresa l’impossibilità di operare in consesso militare internazionale, se non si possiedono tutti gli elementi “enabling” fondamentali (dal comando e controllo al supporto logistico), si sono compiuti enormi progressi e si è riusciti a contenere il distacco, il gap, nei confronti dei primi della classe, almeno in alcuni settori chiave. Parallelamente si è forgiata una nuova classe di militari, ufficiali, quadri, professionisti abituati ad operare in contesti operativi reali e in integrazione costante con i colleghi stranieri, mentre si è sviluppata, sia pure timidamente, una mentalità joint. È per questo che per l’Italia con le stellette un ridimensionamento troppo marcato degli impegni operativi reali sarebbe catastrofico. Non solo, lezioni apprese sul campo hanno anche consentito di adeguare strutture, organizzazione, adde-


difesa2000 stramento, formazione e anche di cambiare la priorità e modificare i requisiti per i nuovi sistemi ed equipaggiamenti. Questo anche se, come accennato, nella maggior parte dei casi i nostri militari sono stati impegnati in operazioni a bassa intensità piuttosto che in missioni dichiaratamente combat. Ed è semplicemente straordinario che se nel 1991 il sistema difesa non era in grado di schierare un singolo reparto operativo terrestre nel Golfo, già da qualche anno ha dimostrato di poter agevolmente condurre operazioni reali in parallelo, in teatri difficili e lontani come Afghanistan, Iraq e Balcani. E se, sempre nel 1991, l’Aeronautica poté schierare solo i Tornado nel Golfo e i vetusti F-104 in Turchia, oggi sarebbe in grado di impiegare velivoli di ogni tipo (caccia, aerei d’attacco, da trasporto) e dotati di adeguati sistemi d’arma di precisione, mentre la Marina ha provato, con la missione Leonte, di poter condurre operazioni di proiezione di forza con tempi di preavviso minimi, mentre con anni di missioni si è dimostrata capace di operare nei mari più lontani per mesi e mesi. Le missioni internazionali sono state quindi più che positive per la Difesa. Ora la sfida consiste nel riuscire a conseguire lo stesso risultato a livello di Paese. Le missioni in corso Le forze armate italiane contribuiscono a 27 missioni all’estero in 19 Paesi, per un totale di 7.700 militari. I costi vivi (ma non quelli complessivi, ben più alti) di tale impegno ammontano a circa 1 miliardo di euro all’anno, la cui

copertura è prevista da un apposito fondo presso il ministero dell’Economia. In termini numerici, i Balcani hanno assorbito nel 2007 2.700 uomini, di cui 2.250 in missioni Nato (focalizzate in Kosovo) e meno di 400 in Bosnia sotto cappello Ue; si tratta di una presenza di lungo periodo che è però destinata a ridursi numericamente ed in intensità, man mano che i Paesi coinvolti si avviano alla normalizzazione ed integrazione nel contesto europeo. L’Italia è presente nell’area sin dalla seconda metà degli anni Novanta, in seguito all’implosione della ex-Yugoslavia e alla gravissima crisi umanitaria e al perpetuarsi di veri e propri crimini di guerra contro la popolazione da parte dei vari gruppi etnici combattenti. Le missioni in Bosnia Herzegovina sono iniziate sotto il cappello dell’Alleanza Atlantica e con l’egida delle Nazioni Unite; il primo intervento ha riguardato diverse centinaia di uomini in una situazione di conflittualità accentuata, mentre successivamente, in virtù del parziale successo del processo di pacificazione, la missione è stata numericamente e qualitativamente ridotta ed è passata sotto il controllo dell’Unione Europea, accentuandone il profilo di missione di polizia e supporto allo sviluppo delle istituzioni locali (Eufor Althea e Eump). La presenza in Kosovo, che risale al 1999, sta seguendo un percorso simile: la missione (sotto mandato Onu) Kfor per la stabilizzazione dell’area è intervenuta al termine dei bombardamenti della Nato contro la Serbia per defini-

re un quadro di sicurezza per la missione di amministrazione Onu UnMik. Kfor ha subito un ridimensionamento progressivo e si appresta a divenire una missione di sicurezza ed amministrazione civile dell’Ue, qualora la decisione politica della comunità internazionale circa lo status finale del Kosovo lo permetta. Accanto a questi due teatri principali, l’Italia è intervenuta in Albania e Macedonia, con missioni di stabilizzazione a forte carattere umanitario, successivamente divenute di assistenza alle autorità locali, man mano che la presenza militare si riduceva a favore di quella di polizia. In generale, la presenza militare nell’ex-Yugoslavia ha permesso un seppur tardivo, soprattutto nel caso bosniaco, congelamento dei violenti contrasti interetnici ed una progressiva stabilizzazione, evitando peggiori catastrofi umanitarie e perpetrazione di crimini di guerra. Rimangono però irrisolti alcuni problemi politici di fondo e si è assistito ad una scarsa capacità di governance a livello locale, che ha permesso il fiorire di attività criminali internazionali. In termini numerici, ai Balcani segue immediatamente il ben più recente (almeno nelle dimensioni attuali) impegno in Libano, dove l’Italia con 2.450 uomini è il primo contribuente e grande promotore della missione di stabilizzazione Unifil II, varata nell’estate 2006 per congelare il conflitto aperto fra Israele e Libano. È una missione Onu a guida italo-francese ma, nonostante i Paesi europei siano i principali contribuenti e l’accordo sulla composizione della forza sia avvenuto 47


Risk nell’ambito di un Consiglio europeo straordinario, non si tratta di una operazione dell’Ue o della Nato. Si tratta di una missione impegnativa d’interposizione fra forze in armi, che mira alla restaurazione della sovranità libanese sull’area di confine controllata dalla guerriglia Hezbollah e da essa utilizzata per vere e proprie azioni di guerra contro Israele. La stabilità interna del Libano e dei suoi rapporti con Israele è vista come un tassello essenziale del gioco diplomatico in Medio Oriente. La missione, quindi, pur avendo anche finalità d’aiuto alla ricostruzione e sminamento, ha carattere eminentemente politico. Sebbene sia prematuro definire un bilancio, si può notare una certa lentezza da parte delle leadership politiche nello sfruttare la finestra d’opportunità, non certo di durata infinita, garantita dalla presenza militare; ciò potrebbe rivelarsi problematico, qualora le parti in causa decidessero la ripresa delle ostilità, con conseguenze deleterie per la sicurezza del contingente. Ci si può domandare quali potrebbero essere le conseguenze di un diverso atteggiamento della Siria, dovuto ad un possibile mutamento dello scenario strategico nell’area, con inevitabile irrigidimento d’Israele e degli Stati Uniti. In definitiva, il successo di quest’operazione militare, così come di ogni altra missione di stabilizzazione, risiede nella capacità delle diplomazie di giungere in tempi ragionevoli alla soluzione dei problemi strutturali che di per sé l’intervento in armi non risolve. Altra missione di particolare importanza numerica e politica riguarda la pre48

senza in Afghanistan, attestata a 2.200 uomini, destinati forse ad un aumento a causa del peggioramento della situazione di sicurezza a partire dal 2006. La presenza nel Paese, prima solo a Kabul e poi ad Herat, dove l’Italia è responsabile del Prt, ovvero della struttura militare/civile di amministrazione e ricostruzione, risponde ad una serie di obiettivi e logiche differenti, il cui peso è variato dal 2001 ad oggi. Inizialmente, si trattava di una larga coalizione internazionale a guida Usa sotto il nome di Enduring Freedom, per il contrasto al terrorismo responsabile dell’ 9/11 e ai guerriglieri talebani. In seguito, si è affiancata la missione a guida Nato/Isaf, che in varie fasi sta tentando di riportare il failed state in condizioni di relativa stabilità, secondo una logica di presenza capillare sul territorio che si scontra con la presenza di guerriglieri soprattutto nelle zone vicine al Pakistan. Non sempre le due logiche si rivelano complementari, e la missione italiana tende ad assumere maggiormente il carattere di presenza per la stabilizzazione e la ricostruzione, privilegiando quindi gli elementi umanitari rispetto al combattimento per il controllo del territorio ed il contrasto al narco-traffico. L’esito complessivo è ancora incerto, in parte dipendente da variabili internazionali quali il ruolo del Pakistan e dell’Iran, ma il valore della missione trascende il semplice aspetto operativo, dal momento che l’Alleanza Atlantica ne ha fatto un cardine della sua sopravvivenza. La missione in Afghanistan è in cima alla lista per quanto riguarda il profilo

di rischio, e richiede una particolare attenzione, quella in Libano presenta per ora un livello di rischio medio, mentre le altre si caratterizzano per profili di rischio medio-basso, almeno nella configurazione attuale, sebbene talune possano evolvere in impegni onerosi e di alto significato, quali le missioni in Israele e Palestina, o in Africa, dove sinora prevale l’idea di supportare l’intervento di peacekeeper locali. Al di fuori delle tre aree d’intervento maggiori, ovvero Balcani, Libano e Afghanistan, vi sono una miriade di medi, piccoli e piccolissimi impegni in attività di supporto alle missioni Onu, Nato e Eu, dispersi nei quattro cantoni del mondo. Si tratta spesso di missioni di lunghissimo periodo, il cui valore è di natura largamente simbolica. Al di là di piccole presenze, non si registrano oramai da anni missioni che possano configurare un’iniziativa autonoma italiana o a guida prevalentemente italiana senza una forte presenza internazionale. La legittimazione internazionale Dopo la fine della guerra fredda, il problema della legittimazione internazionale è divenuto uno dei punti centrali dei dibattiti sugli interventi militari attuali. Il problema della legittimità non può prescindere da quello della legalità e da quello dell’opportunità politica e del consenso interno ed internazionale. Sono problemi essenziali soprattutto per gli Stati, come l’Italia, usciti sconfitti dalla seconda guerra mondiale, divisi all’interno nel corso della guerra fredda e che cono-


difesa2000 scono tuttora difficoltà nella definizione dell’identità e degli interessi nazionali. Tali problemi sono resi di difficile soluzione da due fatti. Primo: il conflitto armato (termine che si usa oggi per sottolineare il fatto che la guerra “westfaliana” fra gli Stati e le loro forze regolari ha lasciato luogo ad un situazione molto più complessa, con pluralità di attori statali e non) non scoppia più fra gli Stati forti, ma all’interno degli Stati deboli e non termina più con la debellatio del contendente più debole. È cessata anche la tacita “convenzione”, valevole da Westfalia in poi, secondo cui chi era sconfitto in battaglia riconosceva di essere stato vinto anche politicamente e accettava le condizioni di pace impostegli dal vincitore. Oggi, la guerra vera e propria e la vittoria militare è quasi sempre seguita dalla “guerra dopo la guerra”, cioè dal peacekeeping, dal peace and institutions building e dal postconflict reconstruction. Si tratta di operazioni a bassa intensità che pongono al diritto interno e internazionale complessi problemi di legalità e di legittimità, e alla politica delicati problemi di opportunità, dato che non è sempre chiaro quali siano gli interessi nazionali che si vogliono tutelare o promuovere. Si riferiscono, infatti, a fattispecie di conflitto armato che nel 1945 non si potevano neppure immaginare. In secondo luogo, né la Carta né le strutture dell’Onu (e, più in generale, neppure il diritto internazionale patrizio) si sono adeguate alla nuova conflittualità del Ventunesimo secolo, ad esempio a quella del terrorismo transnazionale che, assieme alla proli-

ferazione, costituisce il principale pericolo per le democrazie occidentali, e non solo per esse. Esso amplia in termini sia orizzontali (attacco a Stati basi del terrorismo, rendition extra-territoriali, ecc.) che temporali (difesa attiva preventiva) il principio d’autodifesa, che, va ricordato, discende direttamente dal diritto naturale, non da quello patrizio o convenzionale. Le modifiche in tal senso, proposte dall’High Level Group costituito dal Segretario generale delle Nazioni Unite, non sono state approvate. Lo scollamento della realtà degli attuali conflitti dai riferimenti del diritto internazionale rende ambigua, sotto il profilo giuridico e morale, la questione della legittimità di tutti i conflitti armati attuali. Tutti gli Stati hanno dovuto quindi risolvere pragmaticamente il problema, dato che non potevano isolarsi dal mondo, in attesa che le norme giuridiche si adattassero alle nuove realtà. Anche in ambito Nazioni Unite, si è dovuto intervenire, comunque, creando una speciale cellula strategica per il comando della missione Libano. È un’innovazione forse non molto gradita dalla segreteria generale, ma che era stata più volte raccomandata dai progetti di riforma. È, quindi, probabile che un crescente ricorso all’Onu per crisi complesse imponga delle riforme che, però, da ad hoc come oggi sono, debbono divenire strutturali. A tali problemi si aggiunge il fatto che il sistema politico italiano è particolarmente frammentato ed è carente di una solida cultura della sicurezza, basata su una ragionevole condivisione degli interessi nazionali e realizzabile con

un approccio bipartisan. Ad esso si oppongono soprattutto le forze che a sinistra (e non solo quella “antagonista”) hanno mantenuto una forte connnotazione ideologica. L’esame che segue riguarda tre punti attinenti la legittimità, beninteso in riferimento alla specifica situazione italiana: 1) le nuove fattispecie della conflittualità e le esigenze che ne derivano per il diritto costituzionale; 2) l’inadeguatezza del diritto internazionale ad affrontare le nuove forme di conflittualità e di interventi armati; 3) i sistemi con cui, in modo del tutto pragmatico e spesso contraddittorio, le difficoltà sono state superate in Italia. La Costituzione italiana prevede solamente lo stato di pace e quello di guerra (una guerra cioè di tipo tradizionale, fra gli Stati e i loro eserciti regolari, del tipo di quelle combattute da Westfalia in poi). Non tiene conto e, quindi, non regolamenta le procedure da attuare nella “zona grigia”, sempre più ampia, esistente fra le due. Non prevede stati di preallarme, di crisi e di emergenza, che configurano molte delle situazioni attuali e che andrebbero affrontate con procedure proprie di quelli che rientrano nella grande categoria degli “stati di eccezione” e delle conseguenti ricadute interne ed internazionali. Per fronteggiare adeguatamente le esigenze poste da questi ultimi, dovrebbero essere previste apposite procedure e profili costituzionali per attribuire all’esecutivo i poteri necessari ed eventualmente per imporre temporanee limitazioni alle libertà civili ed economiche per salvaguardare il bene pubblico prioritario della sicurezza. 49


Risk Innumerevoli studi giuridici e proposte di modifica della Costituzione italiana (che è una costituzione rigida, non facilmente modificabile) sono state fatte e dibattute. Nulla è stato però deciso, anzi in alcune proposte, avanzate ad esempio nella Commissione Bicamerale, si è ipotizzato un ulteriore indebolimento dell’Esecutivo. Per ogni intervento vengono quindi posti problemi, oltre che di opportunità politica, anche di legittimità costituzionale, in riferimento al “ripudio della guerra” contenuto nella prima parte dell’art. 11 della Costituzione. Tale ripudio ricorda il Patto Briand-Kellog del 1928 (che, per inciso, fu sottoscritto immediatamente dall’Italia mussoliniana), ma il suo apparente irrealismo scompare quando esso viene letto non isolatamente, ma nel contesto della Costituzione, che esclude isolamento internazionale e neutralità, e della seconda parte dello stesso art. 11, che afferma che l’Italia accetta le limitazioni di sovranità conseguenti alla sua appartenenza ad organizzazioni internazionali. Il riferimento alle Nazioni Unite (che prevedono l’impiego della forza anche non a fini di autodifesa) è più che evidente. La Costituzione italiana non esclude la guerra difensiva che, nell’articolo 52, viene definita «sacro dovere di tutti i cittadini». È interessante notare come tale aggettivazione derivò da una proposta che, tenuto conto della provenienza, era presumibilmente ispirata alla Costituzione sovietica. Ma, ancora più importante, la Costituzione esclude la neutralità e l’isolamento dell’Italia. Anzi, ne prevede la collaborazione con le 50

istituzioni internazionali, facendo implicito riferimento alle Nazioni Unite. I Costituenti del “Gruppo dei 75” furono particolarmente attenti a redigere una Costituzione compatibile con la Carta delle Nazioni Unite, che estende l’uso della forza al mantenimento “offensivo” della pace e della sicurezza internazionali, disposto con risoluzioni del consiglio di Sicurezza. L’intervento armato in tale circostanze non solo è legittimo, ma diventa quasi obbligatorio. Nonostante questo e i numerosi tentativi di risolvere in sede para-costituzionale lo scollamento determinatosi fra la Costituzione italiana (da molti considerata “pacifista” ma, per inciso, molto meno “pacifista” di quelle tedesca e giapponese, dettate dai vincitori del conflitto) e la realtà del ritorno della storia e della forza nelle relazioni internazionali, la questione non è stata veramente risolta sotto il profilo formale. Tuttavia la prassi ha consentito all’Italia non solo di mantenere dignitosamente i suoi impegni in ambito Nato (basti ricordare lo schieramento degli euromissili a Comiso), ma anche di intervenire costantemente nelle operazioni internazionali di pacificazione. Lo stesso diritto internazionale e la Carta delle Nazioni Unite si sono rilevati inadeguati a configurare la nuova situazione internazionale e la nuova conflittualità in tutta la sua complessità ed imprevedibilità. La complessità deriva anche dal fatto che non esiste più un solo Onu, ma “due”: accanto alle Nazioni Unite, spesso ridotte a semplice luogo di dibattiti, d’inefficienze e di ipocrisie, ci sono gli Stati

Uniti, unica superpotenza o iperpotenza, che dispongono invece della capacità non solo materiale, ma anche politica interna di impiegare la forza per contribuire a completare e gestire l’ordine internazionale derivato dalla fine della guerra fredda. Le previsioni e prescrizioni della Carta sono riferite alla situazione internazionale esistente nel 1945. Essa si è profondamente modificata, non solo perché i membri permanenti del consiglio di sicurezza hanno utilizzato i privilegi loro concessi per perseguire i propri interessi nazionali, ma anche perché hanno rotto la loro solidarietà post-bellica e non hanno ottemperato alle disposizioni del Titolo VII della Carta, in tema di costituzione di forze militari alla dipendenza diretta dell’Onu. Il consiglio di Sicurezza ha poi adottato nella prassi approcci e iniziative che eccedevano grandemente le sue attribuzioni. Basti pensare al fatto che il peacekeeping (soprattutto quello re-inforced previsto dal rapporto Brahimi) non è considerato nella Carta dell’Onu. Per giustificare le conseguenti operazioni, si è fatto ricorso a formule quanto meno ambigue, come l’estensibilità delle facts finding missions, previste agli articoli 34 e 99 della Carta, oppure ad ancora più ambigue missioni ascrivibili al capitolo 6 della Carta, intermedie fra il negoziato e l’intervento armato, in caso di minaccia alla pace e alla sicurezza internazionali. Si fa sempre più ricorso al concetto di “guerra giusta” per giustificare le ingerenze negli affari interni degli Stati, nonostante la salvaguardia della loro sovranità interna riconosciuta esplici-




dossier tamente dalla Carta. Ancora maggiore dissonanza, rispetto al diritto internazionale positivo, presentano le operazioni di ingerenza umanitaria. Se effettuate senza l’assenso dello Stato sul cui territorio vengono svolte, esse contravvengono al principio fondamentale, sancito dall’art. 2 commi 4 e 7 della Carta, della completa sovranità degli Stati sul proprio territorio. Il problema della legittimità è stato risolto in via pragmatico-politica. Sotto il profilo giuridico, si è cercato di affermarla nelle ingerenze umanitarie, richiamandosi alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, oppure alla necessità di fondare la pace non solo sull’ordine e sull’assenza di guerra, ma anche sulla giustizia. Il fatto che ciascuno abbia una propria concezione della giustizia, confliggente con quella degli altri, è stato sottaciuto. Si è ricorsi, al riguardo, alla retorica della “guerra giusta”, superando il peraltro ben meno sanguinoso principio dello jus ad bellum della tradizione europea. Il problema della legittimità si è posto in termini politici e di consenso dell’opinione pubblica, non in termini giuridici. L’opinione pubblica italiana ha generalmente risposto in modo molto positivo a tali sollecitazioni, anche perché il missionarismo costituisce uno dei filoni storici dell’approccio italiano alla politica estera. Ciò ha consentito di superare i dubbi avanzati sulla legittimità degli interventi, anche in quello del Kosovo, il quale presenta i maggiori dubbi di legittimità sia costituzionali, sia sotto il profilo del diritto internazionale, pur essendo del tutto giustificato sotto il

profilo della moralità e della giustizia internazionali. Dal punto di vista semantico, si è censurato ed espulso il termine guerra dal linguaggio politico. Si sono preferite espressioni come “operazioni di pace”, ingerenze umanitarie o interventi di polizia internazionale e così via. Esse hanno contribuito a smilitarizzare la political correctness, avvolgendo con un velo di ipocrisia e di ambiguità quello che viene deciso. Si è determinato al riguardo, almeno in Italia, un forte divario fra dirigenza politica e intelligentsia da un lato e opinione pubblica, dall’altro. Questo è emerso nel modo molto composto con cui gli italiani si sono comportati in occasione della strage di Nassirjia, nel novembre 2003. La massa dei cittadini è risultata molto più consapevole che nel passato delle realtà internazionali e delle responsabilità che l’Italia deve affrontare per mantenere un rango decoroso in ambito internazionale. E non è certo un caso che ancora oggi un recente studio (Transatlantic Trends) mostri che, nonostante la vivacità della componente cosiddetta “pacifista”, gli italiani sono per il 70 per cento favorevoli all’invio di forze militari per contribuire alla “ricostruzione dell’Afghanistan” nel quadro di una missione internazionale (percentuale significativamente superiore alla media europea che si attesta intorno al 64 per cento). Beninteso, sono stati fatti numerosi sforzi per conferire una trasparenza procedurale e sostanziale alle decisioni d’intervento. Pur essendo lodevoli nelle loro finalità, esse non hanno comunque prodotto risultati di rilievo,

né potevano farlo. Solo una modifica costituzionale che regolamenti gli “stati di eccezione”, cioè la “zona grigia” intermedia fra la pace assoluta e la guerra totale, potrebbe conseguire tale risultato. Questo, però, sembra per ora impraticabile. Forse solo l’adeguamento della Carta dell’Onu e della composizione del consiglio di Sicurezza (obiettivi che il summit del settembre 2005 non è però riuscito a realizzare neppure in parte) potrebbe dare uno stimolo all’adeguamento della normativa nazionale alla realtà dei conflitti armati del Ventunesimo secolo ed aumentarne la trasparenza e la legalità sostanziale. Tutto fa ritenere che le difficoltà esistenti nel campo della legittimità degli interventi armati internazionali continueranno a sussistere in Italia, senza peraltro impedire una sua dignitosa partecipazione alle iniziative dell’Occidente e dell’Onu, come è avvenuto nel passato. Giova ancora ricordare che una cosa è la legalità, altra è la legittimità. Quest’ultima si fonda sul consenso dei cittadini e sul loro sostegno ai reparti impiegati, che non è mai sostanzialmente mancato, ma che addirittura si mantiene a livello superiore alla media europea. Sarebbe beninteso preferibile che anche “le carte” fossero a posto. Ma che lo possano essere, sembra alquanto improbabile anche nel medio termine, data la frammentazione e la litigiosità del sistema politico. Ciò nonostante gli interventi continueranno a trovare una legittimità sostanziale nell’opinione pubblica, sempre più consapevole che essi costituiscano gli aspetti forse più 53


Risk qualificanti dell’attuale presenza internazionale italiana. Tutto fa pensare che potranno verificarsi anche al di fuori della “benedizione” formale di mandati dell’Onu, cioè nell’ambito dell’Ue e/o soprattutto di quello Nato, sulla cui solidità è basato il futuro di tutto l’Occidente. Quadro giuridico delle missioni e regole di ingaggio Afghanistan, Iraq e Libano rappresentano solo gli ultimi tra i numerosi impegni che le Forze Armate italiane assolvono all’estero, con modalità operative che, in termini allargati, continuiamo a chiamare “missioni di pace”. La war on terror ha infatti complicato l’analisi delle finalità di ciascuna missione, e il vivace dibattito parlamentare che caratterizza ormai ogni decisione altro non è che un nitido specchio di una situazione mutevole, complessa e non sufficientemente codificata. In questa ottica, portare medicinali, viveri e coperte ai terremotati è differente dall’interporsi con le armi tra due contendenti, e ciò è ancora diverso dall’abbattere dittature, sia pure sanguinarie e violente. A questo proposito è interessante riflettere sulle parole e i concetti espressi dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, ricevendo al Quirinale una delegazione dell’Assemblea parlamentare della Nato. «Il ruolo che l’Italia svolge per la pace e la sicurezza internazionale si basa su un’importante norma della nostra Costituzione» (dal Corriere della Sera). L’articolo 11 prevede sì il ripudio alla guerra come offesa alla libertà di altri popoli e come 54

mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, «…ma stabilisce l’impegno di partecipazione dell’Italia alle organizzazioni internazionali che perseguono gli obiettivi della pace e della giustizia tra le nazioni», tanto da prevedere per questo anche alcune limitazioni alla nostra sovranità. È per questo motivo che i nostri soldati sono «impegnati, anche con una rilevante presenza, soprattutto in tre missioni, che si svolgono nei Balcani, in Afghanistan e, da ultimo, in Libano». Il Presidente ha poi continuato dicendo che «ci troviamo nell’Alleanza Atlantica legati da un rapporto di storica solidarietà, da un costume di aperto e franco dibattito e da un principio di pari dignità». Le relazioni tra le due sponde dell’Atlantico non si esauriscono nella comune partecipazione all’Alleanza, ma rientrano ormai nel quadro più vasto del rapporto tra il Nord America e l’Unione Europea. Vi è qui il riconoscimento del significato delle missioni di pace italiane, vecchie e nuove, e del loro supporto giuridico, indicando nel contempo i temi problematici che, tra cronaca e storia, è quanto mai necessario sviluppare per una corretta ed equilibrata cognizione del fenomeno “missioni di pace”. Il quadro giuridico delle missioni italiane è quindi un perimetro unico, individuabile nella Costituzione, già citata, nella Carta dell’Onu, con particolare riferimento ai capitoli VI e VII, nelle leggi e decreti del Parlamento e del governo, nelle Convenzioni di Ginevra e, infine, nei codici militari di pace e di guerra. Il modo di concepire i conflitti si è trasformato più volte ed è normale che

tutto il sistema organizzato ne risenta sotto vari profili, non ultimo quello del diritto internazionale. Ma l’obiettivo finale, quello di eliminare il fenomeno “guerra” e di costruire un mondo più giusto e più umano, è ben lungi dall’essere raggiunto. Se l’articolo 2, paragrafo 4, della Carta dell’Onu afferma il divieto dell’uso della forza nella risoluzione delle controversie internazionali, demandando al consiglio di Sicurezza come, se e quando usarla, la trasformazione, al di là dei buoni principi ed alla prova dei fatti, sembrerebbe per ora essere riuscita ad eliminare solo la parola “guerra”, e non di certo il fenomeno. Le guerre, infatti, si fanno ugualmente, come prima, con la variante che non si chiamano più così, non essendo state ufficialmente dichiarate da ambasciatori in tight e feluca. È questa, ovviamente, la madre delle mille implicazioni giuridiche che, a cascata, ne derivano, delle quali i parlamenti nazionali devono continuamente farsi carico. Si fa spesso strada il concetto che se un’operazione di pace è richiesta dall’Onu, o è condotta sotto la sua egida, o, meglio, è condotta direttamente dai caschi blu, allora questa non solo è lecita, ma è anche buona e giusta. In realtà, non è sempre così. Gli episodi di “conflittualità non convenzionale” sono di molto aumentati dopo la caduta del muro, per cui sarebbe, per prima cosa, necessario capire quale possa essere, nel contesto giuridico internazionale, lo strumento più idoneo per combatterli, arginarli o, magari, prevenirli. La Carta dell’Onu, e le varie organizzazioni che più o meno direttamente ad essa fanno capo,


difesa2000 hanno in se tutti gli strumenti idonei a risolvere, o quantomeno a controllare, questo tipo di questioni, e la risposta sembrerebbe quindi scontata. Ma, purtroppo, non lo è affatto. L’Assemblea è infatti rappresentativa proprio di quella frammentazione d’interessi che è origine prima dei conflitti. Se, teoricamente, il Capitolo VI e il Capitolo VII della Carta, contengono tutto ciò che servirebbe per controllare il nuovo modo di concepire i conflitti, la realtà ci dimostra che, guardando indietro anche non di molto, i successi militari dell’Onu si possono forse contare sulle dita di una mano, mentre le soluzioni irrisolte, lasciate a metà, come focolai di sicuri conflitti futuri, sono un gran numero. Il concorso delle grandi organizzazioni internazionali o nazionali in possesso di una robusta struttura militare e di un valido sistema di comando e controllo continuerà, almeno nel medio termine, ad essere indispensabile. Su mandato o meno, purchè l’intervento si ispiri ai principi ed allo spirito della Carta. Principi quali il “diritto di autodifesa”, oppure “minaccia per la pace internazionale e per la sicurezza della regione” e la necessità di combattere questa minaccia “con tutti i mezzi”, come nel caso dell’Afghanistan, consentono di ricorrere anche all’uso della forza. A proposito di quest’ultimo caso, giova ricordare che il consiglio di Sicurezza è stato assai prolifico e insolitamente preciso. Con le risoluzioni del 2006, la 1659 di febbraio e la 1707 di settembre, raccomandava ai responsabili dell’Isaf, quindi alla Nato e agli Stati impegnati, di intraprendere tutte le azioni per

«combattere la minaccia dei terroristi e dei narcotrafficanti, con particolare riferimento a quella posta dai Talebani, da al-Qaeda e da altri gruppi estremisti e di prendere ogni misura necessaria per adempiere al mandato». Queste ultime risoluzioni nel nostro dibattito parlamentare vengono solitamente sottaciute. Il carattere parlamentare del nostro ordinamento comporta che l’indirizzo politico, ivi compreso l’impiego delle Forze Armate, spetti alle Camere ed al governo, legati da un rapporto fiduciario. Su circa novanta missioni militari, compresi i rinnovi, cui abbiamo partecipato nel dopoguerra, l’intervento del Parlamento si è verificato in circa settanta casi, attraverso strumenti e procedure tra loro diverse. La prassi del passaggio parlamentare non è quindi costante, e qualche governo lo ha addirittura omesso limitandosi a una “informazione” nel quadro di autorizzazioni precedenti, o dando per scontato ampio e unanime supporto, specie nei casi di “obbligo internazionale” quando piccole operazioni sono state disposte direttamente dall’Onu. Vi sono, poi, dei casi in cui l’intervento parlamentare si è svolto successivamente all’inizio della missione, come, per esempio, nel caso della missione umanitaria Nato Afor (Allied Harbour) svoltasi in Albania dall’8 aprile 1999, contestualmente alle operazioni di guerra in Kossovo. Il dibattito parlamentare ha ultimamente assunto aspetti di ampio rilievo a seguito della situazione venutasi a creare con l’11 settembre 2001, con particolare riferimento alla legittima-

zione delle cosiddette “guerre preventive” e al ruolo delle Nazioni Unite, della Nato e, in genere, delle organizzazioni internazionali. La stessa definizione di “missioni di pace” per alcune delle attività militari in atto è stata in più occasioni posta in discussione. Ciò nonostante, la percezione sociopolitica delle missioni da parte dell’opinione pubblica sembra essere positivamente crescente. Ogni volta che una delle nostre missioni trova un intoppo parlamentare o è funestata da qualche incidente, si riaccende la polemica sulle “regole di ingaggio”, dall’espressione inglese Rules of engagement (Roe, secondo l’acronimo in uso). L’espressione sta a significare “norme da osservare per graduare l’uso della forza nel corso di un impegno operativo in tempo di pace, di crisi o di guerra”. In pratica, quando si decide di partecipare ad un’operazione multinazionale, ne vengono anche fissate le condizioni generali. In una prima fase, che è politica, si decidono i contorni generali della missione. Di massima, si origina all’Onu o in altre organizzazioni multinazionali, ma può anche avere un’origine tutta nazionale, come nel caso dell’operazione in Albania nel 1997. Di regole di ingaggio si comincia poi a parlare in fase politico-militare, che si conclude normalmente in sede internazionale con l’approvazione su mandato dei ministri della Difesa, degli Esteri e, quindi, dei Governi o dei rispettivi rappresentanti diplomatici. L’ultima fase, le norme di dettaglio, viene concordata direttamente dai comandanti sul campo, trat55


Risk tandosi di regole operative spesso segretate. Prevalgono, naturalmente, quelle dettate dai comandanti di grandi unità alle cui dipendenze operano i diversi contingenti nazionali. Nel caso attuale dell’Afghanistan, trattandosi di operazione della Nato, le regole non possono che derivare dal manuale delle regole di ingaggio delle Nato, alle quali anche i nostri soldati sono bene abituati. È però facoltà di ogni Paese partecipante dettare alcune condizioni cui si uniformerà il comportamento del proprio contingente. In genere le regole applicate, integrate e corrette dai così detti national caveat, rispecchiano la politica del singolo Paese contribuente. È ovvio che la flessibilità o meno dell’intero complesso di forze, e quindi la sua efficacia operativa, è inversamente proporzionale al numero ed alla tipologia dei singoli caveat dei diversi contingenti nazionali, che in Afghanistan sono ben trentacinque. Va tuttavia riconosciuto che regole di ingaggio e caveat servono anche a tutelare, sotto il profilo giuridico, sia i singoli militari sia i comandanti. Infatti, fermo restando il diritto all’autodifesa, in genere tutti i casi che si possono presentare sono compresi, anche se può capitare a un singolo militare di dover decidere se è il caso o meno di aprire il fuoco, e contro chi. In queste missioni si usano volontari esperti e bene addestrati proprio per questo: si tratta di soldati che sanno valutare con fermezza e forza d’animo, proprio perché sono stati addestrati a comportarsi così nel momento del rischio. Non va dimenticato, ed è bene che anche i cittadini lo 56

sappiano, che i militari italiani che partecipano a questo tipo di missioni devono poi rispondere di eventuali trasgressioni alle regole di ingaggio, secondo il codice penale militare di fronte al Tribunale militare di Roma, la cui Procura è responsabile delle relative inchieste. Inizialmente si applicava il codice penale militare di pace, poco adatto, però, alle esigenze dei comandanti sul campo. Successivamente è stato possibile utilizzare il codice penale militare di guerra, dal quale, con un provvedimento legislativo, era stata tuttavia espunta la pena di morte. L’attuale legislatura ha ritenuto di ripristinare, in queste missioni “di pace”, l’applicazione del codice penale militare di pace, pur se non offre la stessa tutela nei confronti della popolazione civile eventualmente coinvolta. La “trasformazione” dello strumento militare italiano Trasformazione, più che il leit motiv della fisiologica evoluzione dei moderni strumenti militari, è diventata un “mantra” pressoché rituale, da tutti evocato, a volte senza avere bene approfondito tutti gli aspetti multidimensionali di una serie di processi connessi tra di loro, ma che raramente vengono considerati nel loro insieme. Si parte sempre, ovviamente, dal crollo del muro di Berlino, come se durante la guerra fredda i mezzi, le dottrine, la stessa strategia globale fossero stati per quarant’anni dati inamovibili ed immutabili: certo è che la “scomparsa” del nemico storico del mondo occidentale ha tolto ai pensatori politi-

ci ed ai pianificatori militari una serie di elementi di base e che questa mancanza ha fatto dissolvere certezze e presupposti, aprendo peraltro nuovi orizzonti tutti da esplorare. Svanita presto l’illusione di essere entrati in una nuova era di pace, in cui lo sviluppo economico, finalmente libero da pastoie ideologiche, avrebbe fatto progressivamente giustizia di rivalità e conflitti, compreso che il “dividendo della pace” conseguente allo smantellamento degli eserciti, non più necessari, sarebbe stato ben più modesto di quanto ipotizzato, si è avviata una nuova stagione d’elaborazione strategica e dottrinaria che prendeva gradualmente coscienza di quanto le nostre società benestanti fossero in realtà solo un’isola in una realtà globale dominata da ostilità ancestrali, odi secolari, miserie irrimediabili e che solo una politica attiva che favorisse ricomposizioni, che incentivasse alla convivenza pacifica, che garantisse le condizioni minime di sicurezza per uno sviluppo economico più diffuso possibile, avrebbe potuto salvaguardare al meglio le nostre stesse società. Fra i vari strumenti disponibili per la concretizzazione di tali politiche, quello militare, pur con i suoi limiti d’efficacia, è stato, proprio per la sua immediata disponibilità, quello cui più facilmente si è fatto ricorso; ma ci si è ben presto accorti che gli eserciti creati per difendere i territori nazionali dall’invasione dell’Armata rossa mal si prestavano ad un impiego ottimale nei nuovi scenari, per una serie di motivi, sia connessi con le strutture organizzative, sia per le modalità di arruolamen-


difesa2000 to, sia per il tipo di utilizzo che se ne poteva immaginare. Bisognava quindi “trasformare” gli eserciti statici, progettati per difendere le frontiere, in organizzazioni dotate di grande mobilità in modo da poter essere proiettate, da poter operare, da poter essere supportate logisticamente dovunque se ne rendesse necessario l’impiego, anche a grande distanza dalle basi stanziali, pur senza pregiudicare la difesa nazionale. Forze Armate il cui utilizzo più frequente fosse quello di partecipare ad operazioni in coalizioni internazionali ben al di fuori dei propri confini non potevano più essere basate sulla leva: se la difesa del territorio nazionale ben si può definire un sacro dovere di tutti i cittadini (e tale rimane anche oggi) il coinvolgimento in spedizioni che pure rispondono al principio della salvaguardia degli interessi nazionali, inquadrati nell’appartenenza alle Nazioni Unite, alla Nato e all’Unione Europea, ha una pregnanza etica meno intensa. Da un punto di vista più pragmatico, poi, per questo tipo di operazioni è necessaria una preparazione tecnica, professionale, culturale, che sarebbe impossibile impartire ad un giovane in pochi mesi. Altra radicale “trasformazione” è poi quella relativa alla capacità di imparare ad operare fianco a fianco con truppe dei Paesi più diversi, cosa che durante la guerra fredda avveniva in modo del tutto marginale e solo con i membri dell’Alleanza Atlantica. Ne deriva la necessità di una conoscenza non superficiale dell’inglese anche a livello truppa e la necessità di armonizzare procedure, modalità d’impiego,

manualistica, in modo da assicurare che le operazioni, anche in teatri ostili, vengano condotte nel modo più integrato possibile, escludendo fraintendimenti ed incomprensioni che in determinate circostanze possono risultare addirittura letali. Si osservi che le “trasformazioni” cui si è finora fatto cenno si sono rese necessarie per il solo mutamento del quadro strategico e non tengono ancora conto del tumultuoso sviluppo tecnologico di cui tutta la nostra società è pervasa e da cui le Forze Armate traggono motivo per evoluzioni dal carattere davvero rivoluzionario, con conseguenze non solo sui mezzi impiegati, ma sulle loro stesse strutture organizzative e sulla filosofia di base all’origine delle stesse. Su questo terreno occorre tuttavia procedere con una certa cautela, per non cadere nella diabolica tentazione dell’illusione tecnologica, causa non ultima degli ormai riconosciuti limiti della strategia Usa in Iraq. Fra i vari aspetti di questo sviluppo tecnologico, due sembrano quelli più significativi: la connettività e la capacità di ingaggio preciso. La prima consente uno scambio d’informazioni e una consapevolezza della situazione in precedenza impensabili e quindi consente una decentralizzazione esecutiva che potenzialmente rivoluziona lo stesso concetto di catena gerarchica, a patto che la qualità del personale sia di adeguato livello e che la sua formazione professionale risponda al nuovo ambiente. La seconda dà una nuova dimensione al concetto clausevitziano di concentrazione degli sforzi, che oggi, invece che esse-

re basato sulla massa, può essere realizzato con una convergenza istantanea di sistemi fisicamente fra loro separati. Un ultimo aspetto della “trasformazione” che merita di essere evocato (ultimo per trattazione, ma non certo per importanza) è la crescente complessità della relazione tra livello operativo e livello politico, con il ruolo sempre più marcato dei mass media e un coinvolgimento dell’opinione pubblica nella stessa fase attuativa delle operazioni, il che influenza in misura determinante non solo le modalità pratiche di intervento, ma lo stesso atteggiamento etico dei militari sul terreno, con conseguenze di vario ordine e non trascurando l’aspetto giuridico. In questo quadro complesso, come si pongono le Forze Armate italiane? La loro evoluzione si può considerare in armonia con i lineamenti qui descritti? La risposta è sostanzialmente positiva, anche se il quadro è molto variegato, con luci ed ombre e con un trend che non dà alcuna certezza. Il compito è stato sicuramente più arduo per l’Esercito che da forza di guarnigione, arroccato nella fortezza Bastiani a guardia della “soglia di Gorizia”, ha attuato un poderoso sforzo di aggiornamento ed adeguamento al nuovo quadro strategico. Mentre nel 1991 una sua partecipazione diretta alla Prima Guerra del Golfo sarebbe apparsa un azzardo insostenibile, prima ancora che inaccettabile, solo pochi anni dopo esso poteva schierare nei teatri operativi balcanici e poi in Afghanistan ed in Iraq (senza dimenticare la breve ma intensa esperienza a 57


Risk Timor Est) contingenti con picchi che sono andati oltre le 10000 unità, con una “utilizzabilità” secondo i criteri Nato ben superiore a quella della maggior parte degli alleati. Il passaggio dalla coscrizione obbligatoria al solo reclutamento su base volontaria non è stato vissuto in modo traumatico, anche grazie al fatto che la qualità dei volontari, favorita anche dagli incentivi connessi con l’arruolamento, si è stabilizzata su livelli assai elevati, il che ha permesso di consolidare una cultura operativa, diffusa a tutti i livelli, basata su un uso consapevole della minima forza necessaria, con ciò definendo standard comportamentali che sono diventati riferimento per tutti. Anche dal punto di vista degli equipaggiamenti le scelte fatte ancora durante la guerra fredda si sono rivelate tecnicamente adeguate, anche se i drammatici problemi finanziari del Paese hanno indotto i decisori politici ad attingere senza riserve alle quote del bilancio della difesa (già fortemente penalizzato rispetto a quelli degli alleati da sempre considerati come riferimento), impedendo così sia sufficienti approvvigionamenti di nuovi mezzi, sia, soprattutto, il ripristino di quelli rapidamente usurati da un impiego la cui intensità è andata bene al di là di ogni ragionevole previsione. Più agevole è stato il percorso per Marina ed Aeronautica, da sempre bene integrate nel dispositivo della Nato e con una decennale consuetudine ad operazioni in ambiente internazionale. Per queste Forze Armate, però, assume se possibile rilevanza ancora maggiore il tema finanziario, atteso il più elevato livello 58

di investimenti necessario per assicurare l’adeguatezza tecnico-operativa di navi ed aerei; anche in questi casi, si patisce in modo drammatico l’impossibilità del ripristino dell’efficacia operativa e del mantenimento in efficienza dei mezzi, logorati da un impiego più intenso e in condizioni operative più critiche rispetto a quanto pianificato. Quando però si passa ad uno sguardo di insieme il quadro si fa assai più preoccupante: l’integrazione interforze avviata dieci anni fa con la cosiddetta nuova “legge sui vertici” ha avuto un successo solo parziale, soprattutto per motivi interni alle stesse Forze Armate, ciascuna delle quali è molto attenta alle sue peculiarità e che, strumentalizzando formulazioni a volte ambigue della normativa di riferimento, non hanno fatto nessun passo avanti, ad esempio, nel campo delle organizzazioni territoriali, in quello della gestione dei beni demaniali, in quello della logistica sia di base che dei sistemi d’arma, in cui pure le moderne tecnologie informatiche permetterebbero “trasformazioni” delle strutture con sostanziali risparmi in termini economici così come in termini organici. La “trasformazione” delle componenti operative delle Forze Armate, così efficace e radicale non è stata dunque accompagnata da un’altrettanto radicale riforma delle sovrastrutture negli altri settori. È qui che è indispensabile da un lato che si dia nuovo impulso alla razionalizzazione interforze, da realizzarsi anche mediante la concretizzazione del concetto di lead service (chi è capace di far bene qualcosa, la fa per tutti), dall’altro che siano rimossi

gli ostacoli dei vari localismi che, in nome di un preteso impatto economico sul territorio, si oppongono a qualsiasi operazione di razionalizzazione che comporti la chiusura anche del più piccolo ente militare. Passi avanti in questi due ambiti possono risultare decisivi per l’ottimizzazione della spesa militare, liberando risorse finanziarie che possono a loro volta mitigare gli effetti dei tagli operati nei precedenti esercizi a danno dell’ammodernamento dei mezzi e soprattutto del loro mantenimento in efficienza, così come delle risorse destinate all’addestramento, senza il quale le Forze Armate, anche dotate degli strumenti più moderni, sarebbero sostanzialmente inutili. Il processo decisionale per la scelta delle missioni internazionali L’area d’impiego dello strumento militare italiano è, come si è visto, ampia e differenziata. Pur avendo disponibile il riferimento geografico/geopolitico sviluppato nel Concetto strategico del capo di Stato maggiore della Difesa, tale impiego si è in realtà sviluppato principalmente sotto la spinta a contribuire ad interventi man mano proposti nelle organizzazioni multilaterali in cui si colloca la nostra politica di sicurezza. In effetti, il criterio prevalente sembra essere quello della dimensione europea ed euro-atlantica delle missioni all’estero, di massima legittimate da un mandato, quando non anche da un invito a contribuire, da parte delle Nazioni Unite. Il quadro istituzionale e legale di riferimento assume dunque


difesa2000 un’importanza del tutto particolare e pervade ogni momento decisionale, sia esso di natura più squisitamente politica che operativa. La partecipazione italiana alle missioni internazionali di stabilizzazione assume quindi un’importanza particolare per lo status internazionale del Paese e diviene di per sé uno strumento di politica estera che trascende le finalità immediate dell’intervento. Inoltre, bisogna riconoscere la sostanziale incapacità di sviluppare una missione internazionale su base esclusivamente nazionale, non solo dal punto di vista della legittimità, ma anche da quello delle risorse e delle capacità operative. L’impegno viene normalmente qualificato con forti riferimenti, non solo retorici, in senso umanitario, e quindi universale, secondo una impostazione che risente, come già detto in precedenza, di una vivace componente “pacifista” della nostra opinione pubblica e della conseguente pressione dei mass media. La tendenza all’impegno universale è legata ad un’impostazione idealista della politica estera e ad una concezione di sicurezza e difesa collettiva tanto ampia, da identificarsi con un concetto di sicurezza comune. Ciò, però, comporta una difficoltà oggettiva di selezione dell’impegno e drammatica allocazione di risorse economiche, umane, politiche e militari. In mancanza d’obiettivi intermedi determinati da interessi reali pur compatibili con la missione generale, si sperimenta inoltre una certa difficoltà a coordinare l’azione politico-diplomatica con l’intervento militare, che pertanto è troppo spesso chiamato a “con-

gelare” la situazione, ma non può per sua natura risolverlo da solo, rischiando conseguentemente una situazione di stallo che costringe a presenze di lungo periodo in contesti in cui l’escalation è sempre possibile. La maggior parte delle missioni richiede impegni di lungo e lunghissimo periodo, a volte per l’ambizione del mandato (stabilizzazione in contesti particolarmente difficili), a volte per la mancanza di una strategia complessiva che ne governi l’azione, coordinando civili e militari nonché soft e hard power. È quindi inevitabile porsi la questione del livello dell’impegno e delle sue modalità. Si deve in sostanza decidere in quale fase intervenire, con quali mezzi, con quali regole di ingaggio, quanto sia importante ottenere una posizione di comando o comunque di rilievo nella missione. Davanti alla difficile trasformazione delle Forze Armate italiane e alla crescente pressione internazionale a fornire contributi importanti in un numero sempre maggiore di missioni all’estero, vi è l’esigenza di selezionare gli impegni secondo una metodologia di valutazione che tenga conto, non solo di principi e valori generali, ma anche degli interessi specifici e dei vincoli interni ed esterni e dell’effettiva capacità di “fare la differenza”. È innegabile comunque che ciò comporti una forte pressione internazionale finalizzata ad accrescere la proiettabilità delle forze, tuttora troppo bassa (circa 30mila uomini complessivi su 190mila) a causa dell’ormai storico gap di capitalizzazione ed addestramento, nonché di una struttura del per-

sonale sbagliata ed insostenibile. Ne risente la capacità di gestire le turnazioni e di garantire la sicurezza delle truppe inviate e la capacità di tempestivo rinforzo in caso di necessità, ma anche una penalizzazione del profilo internazionale del Paese, particolarmente grave poiché in Italia le missioni militari assumono particolare rilevanza nella politica estera del Paese. La questione delle risorse diviene centrale e i meccanismi sinora previsti non sembrano favorire la cooperazione internazionale; nel caso delle missioni a guida Ue è associato un meccanismo di finanziamento denominato Athena, secondo cui ad eccezione di alcuni costi comuni ciascun Paese finanzia direttamente il proprio impegno, secondo la formula cost lies where they fall che informa anche le operazioni Nato. Il ruolo italiano nelle missioni internazionali rimane, comunque, importante ed è destinato ad aumentare ulteriormente, ma è messo in forse dalla cronica mancanza e spreco di risorse e anche dall’assenza di una forte identità nazionale e coesione politica interna, data la disomogeneità della coalizioni al governo e la loro litigiosità, anche su questioni di politica estera. Le missioni militari all’estero rappresentano una delle componenti più delicate della nostra politica internazionale, ma probabilmente anche quella più positivo. Abbiamo recuperato, grazie alle Forze Armate, un peso e una credibilità che sono state e sono regolarmente compromesse dal nostro modo di gestire la politica internazionale, dalla mancanza di continuità e coeren59


Risk za delle nostre iniziative e dalla scarsità di risorse umane e finanziarie che vi destiniamo. Diversa può essere la valutazione sul piano qualitativo perché non sempre è stata chiara in tutti questi anni la strategia che ha determinato la nostra partecipazione e, soprattutto, le sue caratteristiche. Gioca al riguardo - è opportuno ricordarlo ancora - la conflittualità esistente nel nostro bipolarismo imperfetto. In qualche modo la componente militare ha surrogato quella politica sia nella proiezione internazionale, sia nella fase operativa del processo decisionale. Mentre solleva non poche perplessità la gestione delle decisioni che ci hanno portato nei più disparati angoli della terra, dal momento in cui la scelta è stata compiuta le Forze Armate hanno dimostrato una considerevole capacità di metterla in pratica. Sembra, però, essere mancata troppo spesso una consultazione preventiva volta ad acquisire tutte le necessarie informazioni sulle nostre effettive capacità operative e su tutte le implicazioni per la direzione operativa e spesso anche tattica delle operazioni. Ma il maggiore problema è dato dall’incapacità di procedere ad una valutazione del contesto globale dell’intervento e ad una sua impostazione e realizzazione globale, militare e civile. Il comprehensive approach, che ormai ha sempre più spazio nel dibattito sul futuro della Nato, trova la sua ragion d’essere anche in campo nazionale, dove ogni intervento in una qualsiasi area esterna al territorio nazionale dovrebbe essere valutato in un contesto che vede, fin dall’inizio, il coinvolgimento congiunto e convinto 60

di tutte le sue componenti, non solo cioè di quella militare. Potrebbe, quindi, essere utile allargare la riflessione sulle modalità con cui dovrebbero essere prese le decisioni politico-strategiche, auspicando che al termine del necessario approfondimento si possa arrivare a formalizzare una qualche procedura da utilizzare in futuro. Come tutte le procedure, è inevitabile una certa “ingegnerizzazione”, pur nella consapevolezza che l’azione politica, tanto più in campo internazionale, comporta una valutazione di ordine generale di più ampio respiro. Senza alcuna pretesa di essere esaustivi, si possono indicare alcuni primi elementi da tenere in considerazione. Le motivazioni sono fondamentali per giustificare un’eventuale decisione positiva. Dato per scontato che vi è sempre un nostro interesse generale alla stabilizzazione delle aree di crisi, resta da vedere se vi è un interesse per lo specifico intervento in rapporto alla nostra collocazione nel quadro geopolitico. Dovrebbe, quindi, essere valutata, innanzi tutto, la coerenza della scelta con le direttrici fondamentali della nostra politica estera attraverso cui dovremmo esprimere i nostri interessi nazionali. Se ci siamo dati delle priorità, sarebbe bene cercare di rispettarle evitando di impegnarci in aree che non vi rientrano. In quest’ottica un’attenzione particolare andrebbe data alla nostra dipendenza dalle fonti di produzione dell’energia e dal suo trasporto. Va tenuto presente che si stima in circa l’85 per cento la nostra dipendenza diretta e indiretta dall’estero nel campo

energetico (93 per cento del petrolio, 86 per cento del metano, 97 per cento del carbone, 15 per cento dell’energia elettrica), anche a causa dell’uscita dal nucleare (che in Europa copre circa il 15 per cento dei consumi di energia). Più in generale, andrebbero considerate le tendenze caratterizzanti il processo di internazionalizzazione della nostra economia. Emergono, infatti, delle aree prioritarie di cui tener conto. Non vi è mai stato nella decisione italiana di partecipare ad una missione un interesse economico diretto. Si può, anzi, dire che in realtà non vi è stato nemmeno un interesse indiretto. Se si analizza la quota di importazioni di questi Paesi dall’Italia nel decennio a cavallo del nostro intervento si può vedere che non si registrano miglioramenti. Bisogna, però tener conto che molti di questi teatri non sono tornati alla normalità o è passato troppo poco tempo e, quindi, non si registra alcuna ripresa economica. In termini d’immagine questo “disinteresse” italiano è positivo perché conferma che alla base delle scelte effettuate vi sono state solo motivazioni politiche e strategiche. Forse siamo, però, fin troppo prudenti, o, secondo alcuni, ingenui, nel non valorizzare l’intervento a favore del nostro sistema economico, per lo meno per alleviare in parte i costi delle missioni. Ha influito anche la parcellizzazione e frammentazione delle competenze, un’insoddisfacente coordinamento fra i vari dicasteri e il mancato coinvolgimento di quelli dello Sviluppo economico e del Commercio estero. È quanto meno singolare che nemmeno negli investimenti pubblici


difesa2000 di questi Paesi si registri una qualche forma di attenzione verso l’Italia in considerazione dell’aiuto fornito. Su questo potrebbe incidere anche la nostra mancanza di adeguate strutture di coordinamento che gestiscano fin dall’inizio tutti gli aspetti del nostro intervento e che proseguano l’attività anche quando la componente militare si riduce o scompare. Se non vi è, infatti, una continuità di presenza dopo il superamento della fase più acuta della crisi, è molto difficile poter valorizzare lo sforzo che abbiamo sostenuto. Ma, forse, su questa “mancanza di ritorni” incide anche una ipocrita iniziale “mancanza di interessi”, derivante da una esaltazione dell’approccio “umanitario” al momento della decisione dell’intervento, approccio che preclude la programmazione di incisive azioni volte a cogliere e valorizzare, a posteriori, le opportunità favorevoli che si possono creare a seguito dei nostri interventi. Dovrebbero, inoltre, essere valutate le possibili conseguenze politiche per la Nato e per l’Unione Europea: mantenimento e rafforzamento dell’integrazione europea e della collaborazione transatlantica dovrebbero essere due valori da salvaguardare sempre, rispetto ai quali subordinare ogni decisione specifica e limitata. Non è un problema formale, ma sostanziale. Anche quando l’Italia si è mossa per prima, o al limite e all’inizio quasi da sola, lo ha fatto in accordo con i nostri partner. Tener conto e privilegiare la dimensione europea e transatlantica dovrebbe, dunque, essere sempre un punto fermo. Infine, dovrebbero essere con-

siderati gli impegni già assunti. Il “lenzuolo” italiano è limitato (sia che lo si consideri sul piano militare, sia, e ancor più, su quello di una capacità globale di intervento). Tirarlo da una parte rischia di lasciarne scoperta un’altra. E limitare all’osso ogni capacità di riserva alza troppo il livello del rischio per l’intero Paese. È vero che sul piano militare le missioni rappresentano anche un’attività di formazione permanente che, se non altro, sostituisce le esercitazioni, molto più ridotte e “virtuali”, sul territorio nazionale o, sporadicamente, all’estero. Così come consentono di offrire qualche beneficio economico ai militari impegnati in modo da compensare parzialmente l’inadeguato livello retributivo. Ma comportano anche un logoramento dei mezzi che rischia di compromettere ogni tentativo di pianificare l’ammodernamento e di cui non si tiene conto nel definire il loro finanziamento. Sarebbe, quindi, opportuno che governo e Parlamento tenessero in considerazione questa esigenza quando decidono il bilancio della Difesa. La scelta dipende solo in parte dalla disponibilità delle forze che si intenderebbero schierare. Il vero problema è “politico” perché mentre le Forze Armate spingono tendenzialmente per avere i maggiori margini di sicurezza operativa, i decisori politici tendono a ridurre al minimo l’impegno in termini di quantità di uomini, tipologia di equipaggiamenti e regole di ingaggio. Deve, quindi, essere trovato un punto di equilibrio fra le due tendenze divaricanti. Nell’esperienza di questi ultimi quindici anni il problema del

“come” è stato quasi sempre più determinante di quello del “perché” e del “se”. Innanzi tutto, il “come” è sempre entrato contemporaneamente anche nella prima fase, un po’ perché governo e Parlamento ne sono stati condizionati, un po’ perché lo hanno spesso usato strumentalmente per ridurre il dissenso. Su questo tema ogni governo ha una grandissima responsabilità perché, al di là della doverosa correttezza verso l’opinione pubblica e verso gli stessi militari e civili impegnati sul campo, si devono creare le basi per la tenuta del “fronte interno” che, peraltro, in Italia ha dimostrato maggiore solidità che in altri Paesi una missione internazionale, proprio perché non è facilmente percepibile come una guerra difensiva in senso stretto, richiede un grosso sforzo per ottenere il necessario consenso nell’opinione pubblica e nelle forze politiche che in qualche modo la rappresentano. Il “fronte interno” ne rappresenta il “tallone d’Achille”: se le perdite sul campo sono più elevate di quanto un Paese possa accettare, il rischio di dover rientrare sale proporzionalmente. Di questo sono consapevoli anche terroristi e le bande armate che sono, quindi, incentivati ad elevare il costo umano degli attacchi nel tentativo di far crollare questo “fronte interno”. In questo caso si vanificano i costi e le perdite subite, ma se la classe politica non è capace di resistere a questa pressione, la battaglia è persa. Sarebbe, quindi, indispensabile evitare di creare, all’inizio di ogni missione, illusioni sull’assenza di rischi e, piuttosto, dare una migliore informazione 61


Risk sulle ragioni dell’intervento. Un’attività informativa che dovrebbe essere costantemente portata avanti in modo da non lasciare l’opinione pubblica impreparata e quasi ignara delle iniziative in corso. La strumentalizzazione a fini politici interni acuisce il problema dell’opinione pubblica. Si è, infatti, rotto durante quest’anno il tacito impegno a non fare delle missioni internazionali l’ennesima occasione di rissa politica interna. Se sulla latente deriva pacifista o, meglio, isolazionista e localista della nostra opinione pubblica si aggiungono anche i tatticismi delle forze politiche, la situazione rischia di diventare incontrollabile. Si alimenta così anche una forte tendenza all’antipolitica, molto forte in questi tempi nel nostro Paese. Vi è nella nostra opinione pubblica una componente pacifista, legata in parte ad una certa tradizione cattolica e, in parte, al terzomondismo. Difficile valutarne le dimensioni perché, essendo un atteggiamento ideologico, è legato non alla forma “armata” dell’intervento, ma alla sua natura. Così fu solo in parte contraria all’iniziale intervento in Afghanistan e non è stata contraria all’operazione in Libano l’estate scorsa. Ma, in realtà, il problema maggiore è quello del disinteresse, se non rifiuto, verso i problemi internazionali. La globalizzazione viene da molti percepita come un fenomeno negativo e, quel che è peggio, come una scelta. È, quindi, forte l’illusione che basti estraniarsi da una crisi per non esserne coinvolti. Le missioni internazionali vengono percepite come il nostro legame con queste aree di crisi: basterebbe 62

reciderlo per potersene dimenticare. È diffusa l’idea di un’Italia e di un’Europa che si chiudono in se stesse come una fortezza, indifferenti a quanto avviene attorno. Questo approccio, anche culturale, andrebbe sistematicamente contrastato, perché rischia di rendere più difficile e complesso ogni sforzo per creare il necessario consenso nei confronti delle missioni internazionali a cui partecipiamo. L’importanza del “come” è legata anche al fatto che la scelta non si esaurisce al momento della decisione iniziale, ma si ripropone continuamente. Soprattutto se, come è nella nostra tradizione, si preferisce iniziare sempre la missione con un basso profilo, anche quando sarebbe meglio non centellinare quantità e tipologia di uomini e mezzi. Così è stato in Iraq, così è oggi in Afghanistan. In questo modo vengono frammischiate le responsabilità politiche con quelle operative e si fa venir meno il confine fra il ruolo di governo e Parlamento nel decidere e definire le linee guida della nostra partecipazione alle missioni internazionali, assegnando le necessarie risorse finanziarie, e il ruolo dei vertici militari nel metterle in pratica sulla base della loro responsabilità tecnica. In questo quadro ci si può domandare se non dovremmo sempre inserire, fin dall’inizio, le missioni militari all’estero nel quadro di un progetto globale di intervento. Bisognerebbe, quindi, coordinare la presenza delle forze militari e di sicurezza e gli investimenti pubblici e privati, tenendo anche conto delle organizzazioni non governative. Per ogni operazione potrebbe essere

costituito un gruppo di lavoro interministeriale che, con un approccio il più possibile informale, dovrebbe assicurarne, fin dall’impostazione, la gestione e il monitoraggio con conseguente circolazione delle informazioni. Senza mettere in piedi faragginosi e costosi carrozzoni, si potrebbe cercare di rafforzare il ruolo di questi gruppi di lavoro con alcuni piccoli accorgimenti: assegnarne la responsabilità ad un dirigente di fiducia del governo che, possibilmente libero da incarichi amministrativi, possa seguire i lavori a tempo pieno e che, sulla base della sua nomina da parte del presidente del Consiglio, riesca a superare la barriera delle singole competenze ministeriali; indicare il ministro di riferimento per la singola missione (anche tenendo conto della sua evoluzione) che possa operare a nome dell’intero governo; fare in modo che sia data continuità all’informazione verso il governo e il Parlamento in modo da favorire il loro massimo coinvolgimento. Nell’auspicata definizione di una procedura, un altro elemento dovrebbe essere rappresentato dal fattore temporale. In primo luogo la decisione deve, infatti, riguardare il “quando” di un intervento. Anche in questo caso vi è un aspetto militare legato alla disponibilità delle forze da impiegare e un aspetto politico legato alla valutazione d’ordine generale in termini sia di politica interna, sia di politica estera. In secondo luogo vi è il problema del “fino a quando”. È un aspetto molto delicato e che, fino ad ora, non si è potuto nè saputo affrontare adeguatamente. In assenza di un’effettiva capa-


difesa2000 cità di controllo da parte del Parlamento nei confronti del governo, nel campo delle missioni internazionali il ruolo parlamentare si è concentrato sul loro finanziamento. Questa impostazione ha dato luogo a tre conseguenze negative: ha impostato la discussione sugli aspetti di dettaglio della missione anziché sugli aspetti generali; ha costretto a ridiscutere con eccessiva frequenza gli obiettivi delle missioni; ha ridotto la proiezione temporale del nostro intervento, riducendone la credibilità nei confronti dei nostri partners, del governo locale e degli stessi gruppi armati che devono essere contrastati. Non si capisce per-

ché le missioni, dopo l’iniziale approvazione in termini politici e, limitatamente al periodo che arriva alla fine dell’anno, in termini finanziari, non debbano essere inserite nel Bilancio annuale, seppur con carattere straordinario. Una volta varato il Bilancio, il dibattito dovrebbe rimanere sul piano esclusivamente politico, salvo eventuali nuovi riesami nel caso di sopravvenuti cambiamenti del quadro di riferimento. Per assicurare l’esercizio del potere di controllo del Parlamento, il governo potrebbe fornire con regolarità le necessarie informazioni alle commissioni competenti. Se, come sembra

auspicabile, l’Italia vuole continuare ad assicurare una sua adeguata partecipazione alle operazioni internazionali per il mantenimento e il ristabilimento della pace, bisognerà in qualche modo sistematizzare meglio questa attività. Solo uscendo dall’attuale impostazione caso per caso, riusciremo ad inquadrare le singole missioni in una strategia complessiva di perseguimento degli interessi nazionali e ad inquadrare la componente militare in una logica globale di intervento che, assicurandone una maggiore continuità, potrà valorizzare sia gli sforzi e i sacrifici delle Forze Armate, sia l’impegno del sistema Paese.

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S

CENARI

PAKISTAN

NON TOCCATE MUSHARRAF DI

MARIO ARPINO

ualche volta il nostro noi l’interesse nazionale è assai Occidente risulta un po’ difficile da capire, non lo conodifficile da capire. Come sciamo, e l’etica democratica l’altro, quello oltre Atlantico. spesso si confonde con l’ideoloEntrambi, forse perché in realtà gia. Quella che conta, che porta sono uno solo, si comportano da la gente in piazza, è ovviamente autolesionisti, e non di rado giodi sinistra. D’altra parte, anche cano a farsi male. Lo fanno gli le repubbliche popolari di buona americani, questo l’abbiamo memoria si sono sempre autodevisto. Ma noi lo facciamo molto finite democratiche. Così, a predi più, soprattutto perché non scindere dai nostri interessi, Dietro il generale avendo la stessa forza e potenza dividiamo regimi e dittatori tra c’è una strategia economica, certi lussi declaratori buoni e cattivi. Quelli comunisti, che va perseguita. non ce li possiamo permettere. Il come Fidel Castro e Chavez, o L’alternativa è la vittoria di al Qaeda guaio è che, almeno a parole, quelli integralisti, come e la realizzazione siamo un po’ talebani anche noi. Ahmadinajed, sono buoni e, del califfato globale Talebani della democrazia, quella quindi, sacri. Da noi, poi, c’è una autoreferenziale, a senso unico. I forte tendenza a confondere la dittatori, si sa, non piacciono a nessuno, a meno democrazia con le elezioni. Se un dittatore di siniche non tornino utili. È questione di pragmatismo e stra o integralista islamico va al potere perchè eletdi interesse nazionale, se in certi momenti quest’ul- to, allora per noi diviene veramente intoccabile. Se timo prevale sull’etica e sul senso morale. È qui è anche anti-occidentale, ci godiamo. Siamo stati che ci differenziamo dagli americani. Loro abbatto- capaci di applaudire la vittoria elettorale di Hamas no Noriega e Saddam, salvano Gheddafi, corteg- e il consenso di cui gode Hezbollah in Libano. Se giano il dittatore nordcoreano, fanno una guerra vinceranno le elezioni, applaudiremo anche loro, e per abbattere Milosevic, se potessero (ci hanno li considereremo dei nostri. Cioè, democratici. provato) abbatterebbero Fidel Castro, suo fratello e Esattamente come stiamo facendo per Asif Alì farebbero sparire Chavez e Ahmadinejad (questi Zardari e Nawaf Sharif, entrambi personaggi assai ultimi “democratici”, in quanto eletti). Per motivi discussi, che però nelle elezioni del 18 febbraio di interesse nazionale, si intende, a volte ammanta- scorso hanno battuto il partito di Musharraf ed ora to di giustificazioni morali. Per noi è diverso. Da si stanno associando per farlo decadere dalla carica

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scenari di presidente. Ma questi, in fondo sono casi semplici, naturali, in Paesi come il nostro (ma in Europa non siamo soli) dove si considera la democrazia elettiva un “idolo” invece che un sistema perfettibile, utile per “tendere” ad una democrazia sostanziale, per certi versi “culturale”. Dopo questa premessa, in realtà ardita e forse provocatoria, siamo pronti a discorrere sul caso del generale Musharraf. Chi è Musharraf? In Italia e in Europa Musharraf, per il solo fatto di essere un generale al potere, è stato sin dall’inizio guardato con grande sospetto. Non importa che sia in Pakistan, Paese diverso dall’Italia e dall’Europa. Essere militare, essere assurto al potere senza elezioni, possedere la bomba atomica, non essere di sinistra e neppure di sicura fede democratica sono automaticamente fattori discriminanti più che sufficienti per meritare, senza indugio, l’iscrizione sulla lavagna nella colonna dei cattivi. Esattamente come i generali turchi. Approfondire perché si trovi al potere con tanto di valigetta nucleare non è necessario, è una perdita di tempo. È cattivo, e basta. Il giudizio è inappellabile. Sapere qualcosa della sua formazione, della sua cultura, della sua vita, della sua visione dei problemi regionali potrebbe invece essere interessante e utile non solo per comprendere il suo atteggiamento nel passato, ma anche per prevederne gli sviluppi nella crisi regionale oggi in piena evoluzione. Pervez Musharraf è nato l’11 agosto 1943 a Delhi, in India, come secondo di tre fratelli, da una famiglia musulmana, in cui il padre era un impiegato amministrativo del ministero degli Esteri e la madre, laureata con master alla Lucknow University, era insegnante alla scuola pubblica. Borghesi non ricchi, ma dignitosi, i genitori avevano deciso di lavorare entrambi per assicurare ai tre figli la migliore educazione possibile, e farli così progredire. Per questo motivo, Pervez ed il fratello maggiore, Javed, frequentavano una scuola materna che faceva capo alla Church high

school di Delhi. Nel 1947, quando il Pakistan divenne uno Stato-nazione separato dall’India e Karachi ne divenne la capitale, la famiglia, come migliaia di famiglie musulmane, emigrò nel nuovo Stato, dove il padre di Pervez continuò il suo lavoro di impiegato amministrativo presso il nuovo ministero degli Esteri. In un suo recente libro di memorie Musharraf ricorda ancora i giorni dell’esodo, un lungo viaggio su un treno affollatissimo attraverso il Punjab, i reciproci massacri dei sikh e dei musulmani lungo la ferrovia, il terrore della madre e la preoccupazione del padre, che doveva custodire una scatola con 700mila rupie, quale prima dotazione per il nuovo ministero. I due fratelli maggiori vengono iscritti alla Saint Patrick’s school, retta da missionari cattolici. Un paio d’anni dopo la famiglia si trasferisce ad Ankara, in Turchia, dove rimane per nove anni, nei quali il padre diviene capo del servizio amministrativo della nuova ambasciata. Qui i nuovi pakistani avvertono subito affinità culturali con i nuovi turchi, quelli di Kemal Ataturk. Sono gli anni formativi, quelli che lasceranno traccia indelebile nella vita del futuro generale. Lo stesso Musharraf racconta : «(...) ci sono due caratteristiche del popolo turco che mi hanno lasciato una particolare impronta nella mente. Una è il loro profondo patriottismo e l’orgoglio per tutto ciò che è turco. L’altra è il loro visibile amore ed affetto per il Pakistan e i pakistani». In Turchia frequentano una scuola privata, mista, retta da una direttrice tedesca sposata a un turco. Sono anni felici, dove Pervez impara a rapportarsi con ragazzi e ragazze di diversa nazionalità, religione ed estrazione sociale. Nel 1956 la famiglia rientra a Karachi, ed i tre fratelli frequentano nuovamente la Saint Patrick’s School, della quale il generale conserva tuttora un affettuoso ricordo, per completare poi le scuole medie superiori a Lahore presso il Forman christian college, retto da missionari americani. Poi, come spesso succede, è la madre a decidere. Il figlio più grande prosegue con l’università per diventare un 65


funzionario civile dello Stato, il più piccolo studia per medico e quello medio, Pervez, fa il concorso per l’ammissione all’Accademia militare. Lo vince, si impegna nello studio e nella disciplina, diventa sottotenente di artiglieria, tra i primi del corso e percorre, sul campo e in numerosi incarichi, tutta la carriera militare. In guerra è ufficiale coraggioso, molto seguito, ammirato e benvoluto dalla truppa. Meno da alcuni superiori, sopra tutto da quelli più politicizzati e proni al potere. Passa esperienze singolari, come quella di addetto al controllo dell’applicazione della legge marziale in aree turbolente, dove si oppone alle procedure assai sbrigative che applicano alcuni suoi superiori per compiacere il potere politico senza grattacapi. Il contatto con il mondo politico, comunque, non manca mai quando un ufficiale ricopre incarichi elevati, ma questi a Musharraf non erano particolarmente graditi, tanto che gli capitò di rifiutare la nomina a consigliere militare del primo ministro, Benazir Bhutto, propostagli dal marito di lei, il ricchissimo Asif Ali Zardari, oggi agli onori della cronaca, avendo il suo partito vinto le elezioni.

Un incontro gradevole

Fu però l’allora primo ministro Nawaz Sharif a promuoverlo da capo dell’Esercito a capo delle Forze armate, nell’ottobre del 1998, e in questa veste (l’incarico era parallelo al mio in Italia) ho avuto l’opportunità di incontrarlo a Rawalpindi a metà novembre del 2000. C’era già stato il pasticcio con Sharif e il generale aveva appena assunto anche l’incarico di capo dell’Esecutivo (chief executive), ma non ancora quello di Presidente, con il quale invece mi ha accompagnato in visita di cortesia a Islamabad. Ricordo colloqui aperti e approfonditi. La mia era stata la prima visita di un capo delle forze armate di un Paese occidentale in epoca di embargo sui materiali strategici. L’aveva coordinata l’ambasciatore pakistano a Roma, Mr. Ajub, poi destinato alla sede di Kabul. Abbiamo parlato di un possibile ripristino delle libertà costituzionali, già in parte 66


scenari sospese da Nawaz Sharif, della lotta alla corruzione, della strategia nucleare, della guerra per il Kashmir e del particolare rapporto con i talebani. Ho perfino avuto modo di partecipare a un seminario-dibattito presso il loro Istituto militare di studi strategici, equivalente al nostro Centro alti studi della difesa, dove aveva destato un certo interesse una mia improvvisata conversazione, a richiesta, sul rapporto tra la nascente Europa della difesa, la Nato e gli Stati Uniti. Ricordo di essere rientrato da quel primo incontro con Musharraf con un concetto assai positivo, non solo del generale, ma anche convinto della necessità di una sua continuità nel riordino complessivo di un Paese molto difficile e complicato, sotto tutti gli aspetti. Qui la democrazia, avevo pensato, è meglio che attenda ancora un po’, se deve nuovamente manifestarsi attraverso le abitudini oligarchiche dei Bhutto, degli Sharif e delle loro “famiglie”. Va tuttavia onestamente detto che anche i generali, predecessori di Musharraf, non si erano comportati molto meglio.

Il Pakistan, bello e difficile Se Benito Mussolini, alla fine, si era reso conto che «(…) governare l’Italia non è impossibile, è inutile», è probabile che Musharraf sia spesso tentato di pensare allo stesso modo. Speriamo che non sia così, e che, in ogni caso, perseveri almeno come capo dello Stato e non si lasci scoraggiare dalle autobombe, dagli attentati, dalle critiche degli americani che lo accusano di non fare abbastanza, dagli europei, che i militari (nazionali, turchi o pakistani che siano) non li possono proprio sopportare, da alQuaeda che lo vuole morto, dai baluchi che non ne riconoscono l’autorità, dagli integralisti metropolitani che, dopo i fatti della Moschea Rossa, ritengono di aver un conto da saldare, dai talebani che, dopo anni di flirt con i suoi predecessori, con i servizi (Isi, Inter service intelligence) e con le grandi famiglie del potere, lo ritengono un traditore. In effetti, dopo l’11 settembre è stato chiesto quasi l’impossibile, senza volergli dare neppure il tempo

necessario per tentare di farlo. L’economia è riuscito a risanarla, soprattutto con la lotta alla corruzione, dopo che i potentati degli Sharif e dei Bhutto gli avevano lasciato le casse vuote. Sta combattendo al-Quaeda nelle aree tribali, dove l’esercito ha subito molte perdite, ma ha anche guadagnato numerosi successi. Ha cercato, sinora senza riuscirci, di confinare i talebani nelle aree pashtun, subendo critiche interne ed esterne mentre cercava di rimediare a colpe non sue. È lo stesso Ahmed Rashid, insospettabile, massimo ed indiscusso esperto in materia, ad affermare che i talebani hanno stretti legami con il Pakistan, in quanto molti di loro sono cresciuti e continuano a crescere nelle scuole coraniche dirette dal maulana Fazlur Rehman e dal suo partito Jamiat-ulema islam (Jui), un partito fondamentalista già alleato del primo ministro Benazir Bhutto, con accesso al governo, all’Esercito e all’Isi. È vero, e lo ammette lo stesso Musharraf, che ai tempi della guerra contro i russi in Afghanistan i capi mujaiddin avevano rapporti esclusivi con l’Isi e la Jui, ma nessun contatto con le altre lobby politiche ed economiche. Viceversa, già alla fine degli anni ’90, con Sharif primo ministro, i talebani godevano, più di tanti pakistani, di accesso a numerosi gruppi di potere e lobby assai influenti in Pakistan. Questo accesso senza precedenti - afferma Ahmed Rashid - ha permesso ai talebani di contrapporre una lobby all’altra, e di estendere ancora di più la loro influenza. In qualche occasione - continua - hanno potuto sfidare l’Isi servendosi dell’aiuto di ministri al governo o della mafia dei trasporti. Mentre avveniva l’espansione del movimento talebano, diventava sempre più difficile stabilire se fossero i pakistani a dirigere i talebani, o se accadesse invece il contrario. Il Pakistan, anziché essere il padrone dei talebani, stava in realtà diventandone vittima. Secondo una “predizione” dello storico francese Oliver Roy, autore nel 1997 di un apprezzato studio regionale, un riflusso dall’Afghanistan porterà prima o poi alla talebanizzazione del Pakistan: 67


Risk i talebani delle aree tribali non offrono “profondità strategica” al Pakistan, ma sarà il Pakistan a offrire profondità strategica ai talebani. È quantomeno ingeneroso incolpare Musharraf di tutto ciò che è accaduto prima di lui. E, prima, c’erano i governi di Benazir Bhutto e di Nawaz Sharif, che, pur odiandosi, si alternavano in una tragica competizione. La Bhutto, ad un certo punto, aveva avvertito il pericolo, cercando di prendere le distanze. Oggi Musharraf, in evidente difficoltà, dopo aver mantenuto quanto possibile delle sue promesse, pur di formare un’alleanza difficile, ma nelle circostanze assai utile, la aveva richiamata in Patria, cassando le accuse di corruzione sino ad allora pendenti. Poteva essere un’alleanza efficace, ma, come si è visto, è stato mal ripagato sin dall’inizio. È stato un errore tattico, sfruttato da coloro che invece hanno una strategia di destabilizzazione da seguire. La Bhutto ora è morta, ma Musharraf aveva scelto lei, e non suo figlio o suo marito, né tantomeno, Nawaz Sharif. Strano concetto di democrazia ereditaria, quello dei Bhutto e dei loro sostenitori! Eppure, i pachistani che hanno votato hanno scelto gli eredi Bhutto e Sharif. Dice un proverbio che se la natura utilizzasse regole democratiche, prevarrebbero le ortiche. Ora che Musharraf è rimasto solo a combattere estremismo e corruzione, l’Occidente non lo deve abbandonare. Il Pakistan deve essere salvato dall’islamizzazione integralista, e non si sa quanto i vincitori delle elezioni sapranno o potranno essere fermi in questo proposito.

Il problema del nucleare Tra i tanti problemi, appena sfiorati o nemmeno accennati, c’è quello della sicurezza dell’armamento nucleare, di cui il Pakistan è riuscito a dotarsi grazie alla caparbietà di un generale filo-islamista, Zia ul Haq e all’ambiguo attivismo di un ingegnare metallurgico londinese, Abdul Qadeer Khan che, fatta esperienza presso uno stabilimento olandese di arricchimento dell’uranio, già nel 1975 offrì i suoi servizi 68

al Pakistan. La questione veniva trattata direttamente dall’allora primo ministro Zulfikar Ali Bhutto e, successivamente, dal generale presidente Zia ul-Haq, fino alla sua morte nell’”incidente” aereo del 1988. Subentrò come presidente un civile, Ghulam Ishaq Khan, il quale per la prima volta coinvolse nel circuito nucleare alcuni militari, transitando la responsabilità del programma al capo dell’Esercito, che per il controllo si avvaleva di un maggior generale che era il capo dell’organismo che corrispondeva alla nostra Direzione generale degli armamenti. A questo generale, e solo a questo, l’ingegner Khan riferiva direttamente, mantenendo però intatta la sua libertà d’azione e la sua responsabilità sulla sicurezza dei piani tecnici e dei materiali. Questa situazione d’assoluta fiducia nell’ingegnere metallurgico e nella segretezza dei suoi laboratori (Khan research laboratories, Krl) non venne meno neppure con l’alternarsi dei governi “democratici” di Benazir Bhutto e di Nawaz Sharif. Fiducia, come poi si è visto, irresponsabilmente mal riposta: la questione nucleare era condotta come se si trattasse di una faccenda privata. La capacità militare nucleare pakistana si rese palese al mondo nel 1998, in uno dei momenti di maggiore crisi con l’India, che fece esplodere cinque ordigni nucleari tra l’11 e il 13 maggio. La risposta pakistana fu immediata, con lo scoppio di sei ordigni pochi giorni dopo, tra il 29 e il 30 maggio. Già all’atto della nomina da parte di Sharif a capo delle forze armate, Musharraf aveva rappresentato al primo ministro l’irregolarità della situazione, proponendo una struttura di controllo, ma senza risultato. Un anno dopo, avendo assunto anche l’incarico di Chief executive, il generale finalmente attivò la struttura di controllo tuttora in atto, istituendo una National command authority (Nca) che comprende il presidente (allora era un civile), il primo ministro, alcuni ministri federali, i capi militari e alcuni scienziati. Questo è il vertice responsabile per tutte le questioni di policy, incluse quelle riguardanti lo sviluppo e l’impiego degli assetti


scenari strategici. Sotto il profilo tecnico-operativo, un nuovo organismo, la Divisione per i piani strategici, assiste l’Nca nell’attuazione dei piani e nella supervisione e controllo degli assetti strategici (missili con capacità nucleare). Sul campo, il controllo tattico degli assetti è responsabilità di specifici comandi per le operazioni strategiche delle tre forze armate, mentre il controllo operativo rimane centralizzato a livello Nca. Così, Musharraf ha messo ordine anche in questo settore, e il pericolo che il controllo del nucleare possa venir meno in caso di avanzata degli islamisti per ora non c’è. Resta però un incubo, certamente condiviso anche dall’India, che aveva dato il via alla corsa nucleare nella regione. Il possesso della bomba atomica quale riequilibratore regionale certamente è stato utile nel raffreddare nel 1998 e nel 2002 il conflitto con l’India, ma certamente la “bomba islamica” (così è definito impropriamente l’armamento nucleare pakistano) è chiaramente un fardello ingombrante per tutti, compreso Musharraf che, se mutasse radicalmente la situazione con l’India, ne farebbe volentieri a meno. In effetti, nonostante i disordini e le incertezze seguite all’assassinio della Bhutto, il Pentagono sembra assai meno preoccupato degli europei della custodia degli assetti (si parla di un numero di bombe rilevante, tra 50 e 200), e continua a gettare acqua sul fuoco. «La nostra valutazione - ha affermato testualmente il colonnello Gary Keck, portavoce del ministero della Difesa - è che l’arsenale nucleare pakistano sia sotto controllo. In questo momento, non abbiamo motivi di preoccupazione». I casi sono due: o il Pentagono, come si ha ragione di ritenere, si fida di Musharraf, o ha già in tasca altre (improbabili) soluzioni.

Chi ha paura di Musharraf? Non si tratta di fare l’avvocato d’ufficio del generale Musharraf, anche se, così come è stato isolato dai media e dai fanatici della “democrazia a tutti i costi” dell’Occidente politically correct (in questo unito nel coro a talebani e quaedisti), forse ne avrebbe bisogno. Certamente ha necessità di sostegno, questo sì. Non si può pensare che un Paese come il Pakistan, per quanto assai diverso dall’Afghanistan, possa essere graziato per incanto con l’instaurazione di una democrazia di tipo occidentale, come desiderano tanto le anime candide. Dovrebbe ormai essere noto che in un Paese sotto-culturato, feudale, tribale e settario, l’applicazione tout court delle regole

La capacità nucleare si è compresa nel 1998. Alle esplosioni indiane, cinque ordigni atomici in tre giorni, Islamabad rispose con sei bombe in quarantott’ore. Immediatamente l’India capì di avere un problema e l’Occidente guardò al generale con altri occhi democratiche può mostrare un lato negativo. Gli eletti non lo sono solo per merito effettivo, ma, più spesso, risalgono la gerarchia politica per connessioni familiari o dovizia di risorse.

Eppure Musharraf, a modo suo, ci stava provando, anche se pochi sono disposti a riconoscerlo. Ha la cultura, la forza, il carisma e l’onestà sostanziale per farlo, ingredienti di cui non sembra trovarsi riscontro nei suoi antagonisti vecchi e nuovi. Aveva capito che doveva rompere l’isolamento, ha mantenuto le sue promesse rinunciando ad alcune cariche e all’uniforme, così indigesta agli occidentali, ha richiamato in patria Benazir Bhutto per condividere le responsabilità di gover69


Risk no e cominciare ad introdurre, solo due musulmani laici lo avrebbero potuto fare, il seme della democrazia. Ma Benazir lo ha ripagato male, lasciandosi sommergere dal populismo e aizzandogli contro le folle. Gli integralisti, sempre attenti a non perdere occasioni dopo lo smacco subito alla Moschea Rossa, hanno fatto il resto, ma non sono riusciti a prevalere alle elezioni. Il generale era sulla buona strada. Ha risanato le casse dello Stato, ha sradicato gli estremisti dal governo, ha rilanciato l’economia, ha creato una partnership pubblica-privata (National commission on human development) per salute e pubblica istruzione, un’altra commissione per l’istruzione superiore, ha reso la scuole pubbliche gratuite, ha cercato, sebbene con scarso successo, di imporre programmi statali alle scuole coraniche. Rimanendo nel settore sociale, ha creato una commissione nazionale per i diritti delle donne, ne ha favorito l’inserimento nella pubblica amministrazione, anche in posizioni elevate, nella magistratura e nelle forze armate. Nell’aviazione la carriera di pilota è aperta ora anche alle donne, e il parlamento ha votato una legge (in Italia è accaduto solo pochi anni addietro) che mette al bando la pratica dell’”omicidio d’onore”, ancora assai comune in molte aree del Paese. È poco in sette anni, si dirà, e molto di quanto fatto è rimasto non applicato. È vero, ma chi altro, tra compromessi, legami affaristici, ipocrisie religiose e corruzione avrebbe avuto la capacità di farlo? Senza Musharraf, forse, tutto ciò non avrebbe nemmeno potuto iniziare. È una fase preparatoria indispensabile per una “democrazia pachistana” che, forse, verrà. Dietro il generale c’è una strategia che deve essere proseguita. L’alternativa, è la vittoria della strategia di al-Quaeda, anche questa precisa, determinata e a lungo termine: la realizzazione del califfato globale, la umma, dopo aver conquistato il nucleare del Pakistan e il petrolio dell’Arabia Saudita. Forse, chissà, se l’Occidente si svegliasse, chiudesse ogni tanto un occhio sul politically correct, e decidesse di sostenere un po’ di più i suoi amici e di favorire un po’ di meno i suoi nemici, non farebbe proprio nulla di sbagliato. Non è certo l’Occidente a dovere aver paura di Musharraf. 70


scenari

KOSOVO

BELGRADO SI APPELLA ALL’ONU DI

RODOLFO BASTIANELLI

rata» dalla comunità internazioall’estate del 1999, ovvero nale, essendo impraticabile l’ipodalla conclusione dell’intesi di un ritorno del Kosovo sotto tervento militare effettuato il controllo serbo ed il proseguidalla Nato in risposta alla represmento dell’attuale amministraziosione compiuta dal regime di ne internazionale, mentre la proMilosevic contro la popolazione spettiva di una piena sovranità albanese, il Kosovo ha rappresenviene per il momento esclusa in tato uno dei nodi più delicati sullo quanto il governo locale non semscacchiere balacnico. Ora, dopo bra in grado di soddisfare alcuni essere stata retta per quasi nove requisiti quali la gestione dell’ecoanni da un’amministrazione internomia e la tutela dei diritti della nazionale e da un governo locale Il governo serbo minoranza serba presente all’inprovvisorio, la regione ha proclanon vuole abbandonare i suoi 130mila terno dei confini kosovari. Questo mato unilateralmente la sua indipenconnazionali punto, insieme a quello della protedenza dalla Serbia. In questa analisi e chiede una regione autonoma o quindici zione dei luoghi sacri ortodossi, è si ripercorreranno le tappe più signimunicipalità stato fin dall’inizio l’argomento sul ficative della vicenda, partendo dalle quale si è maggiormente incentrata posizioni espresse da Belgrado e Pristina per descrivere poi il peso politico delle mino- l’attenzione dei negoziatori serbi. Secondo un memoranze albanesi presenti nei Balcani e per terminare randum presentato da Belgrado, dalla fine del conflitsull’atteggiamento avuto dalla comunità internaziona- to ad oggi sarebbero oltre 200mila i serbi costretti ad abbandonare la regione e solo una parte trascurabile di le verso la questione kosovara. essi è rientrato nelle zone d’origine, mentre non va Considerato la culla della nazione serba, il dimenticato come dal 1999 ben 112 luoghi sacri sono Kosovo proprio per la sua importanza storica riveste stati distrutti o seriamente danneggiati, cifra alla quale agli occhi della popolazione un enorme valore simbo- vanno aggiunti i trenta colpiti durante le proteste lico, tanto che quasi nessun esponente politico del esplose nella primavera di cinque anni fa. Paese era (ed è) disposto a prendere in considerazione Il governo serbo ha sempre dichiarato di non voler l’ipotesi di una sua indipendenza. Davanti alla presen- abbandonare i 130mila suoi connazionali che ancora tazione del piano Ahtisaari, la risposta di Belgrado è risiedono nel Kosovo, proponendo come soluzione o stata negativa. Esposto dopo oltre un anno e mezzo di la creazione di una regione autonoma serba dotata di lavori preparatori ed incontri a livello tecnico tra le larga autonomia interna oppure l’istituzione di almeno due parti, il rapporto dell’inviato speciale delle 15 municipalità alle quali spetterebbero le competenNazioni Unite afferma come l’unica opzione valida ze in materia di insegnamento, sanità e controllo delle per la regione sia quella di un’«indipendenza monito- forze di polizia, una richiesta questa respinta non solo

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Risk dagli albanesi, per i quali in questo modo si verrebbe a creare un sistema giudiziario e di sicurezza svincolato da quello centrale, ma anche dall’Onu che ritengono la formazione di un numero così elevato di piccoli comuni insostenibile sul piano finanziario. Il piano Ahtisaari, nel tentativo di proporre una soluzione che mediasse tra le richieste avanzate dalle parti, ha sostanzialmente ripreso quanto deciso negli incontri tecnici tra le due delegazioni tenutisi a Vienna nel 2006 sotto l’egida dell’Unosek in cui si era giunti ad un’intesa che prevedeva la creazione di ulteriori cinque comuni serbi che si sarebbero affiancati agli altrettanti già presenti ed ai quali venivano attribuite le competenze in materia culturale insieme alla possibilità di avviare programmi di cooperazione tecnica con Belgrado in alcuni settori, mentre la municipalità di Mitrovica Nord, istituita separandola dalla parte meridionale della città a maggioranza albanese, avrebbe potuto disporre di un’università di lingua serba. Tuttavia diversi osservatori hanno evidenziato come questa proposta crei i presupposti per un’ulteriore instabilità, essendo quantomai diverse le prospettive tra le quattro municipalità situate a nord del fiume Ibar e confinanti con la Serbia e quelle localizzate nelle zone a maggioranza albanese. Anche nella prospettiva di un Kosovo indipendente, mentre le prime potrebbero comunque sempre contare su un rapporto di cooperazione con Belgrado data la loro vicinanza geografica ai confini serbi, ai residenti nelle aree interne non resterebbe invece che trasferirsi nelle municipalità a maggioranza serba situate nella parte settentrionale della regione oppure emigrare in Serbia. Non meno complesso si presenta il problema della tutela dei luoghi santi, in quanto sia Belgrado che le autorità religiose ortodosse hanno sempre affermato che lo status dei siti deve essere assicurato da un obbligo internazionale non modificabile unilateralmente da una delle parti e non invece lasciato ad un futuro accordo bilaterale da concludere tra il governo serbo e quello kosovaro il cui negoziato potrebbe trascinarsi per anni senza giungere ad una conclusione. Nelle proposte preparate dal rappresentante delle 72

Nazioni Unite, si ribadisce così il rispetto dell’autonomia interna della Chiesa ortodossa ed il mantenimento di un contingente internazionale per assicurare la protezione del patriarcato di Pec e degli altri siti più importanti, riaffermando inoltre la validità dell’ordinanza emessa dall’Unmik nel 2005 con cui a tutela del monastero di Decani si istituiva un’ “area protetta” in cui la costruzioni di edifici commerciali e lo sfruttamento economico del territorio venivano limitati. Le indicazioni del piano Ahtisaari sono state però respinte da Belgrado, che in alternativa ha formulato per la regione un progetto di autonomia all’interno della Serbia che, riassunto nella formula «più dell’autonomia, meno dell’indipendenza», assicurerebbe al Kosovo un sistema legislativo e giudiziario autonomo lasciando al governo centrale solo le competenze in materia di difesa, politica estera ed emissione della moneta. Secondo quanto più volte affermato dagli esponenti politici serbi, la perdita del Kosovo non solo potrebbe portare alla destabilizzazione dell’intera area balcanica ma con ogni probabilità causerebbe il collasso dell’attuale governo e la sua sostituzione con uno di tendenze radicali e nazionaliste ostile all’Occidente.

Le posizioni delle parti restano quindi quantomai distanti. Se il Gruppo di Contatto nel suo documento in 14 punti recentemente presentato sul Kosovo esclude esplicitamente l’eventualità che la regione possa tornare sotto sovranità serba, il governo di Belgrado al contrario nelle sue controproposte ribadisce la validità della Risoluzione 1244 delle Nazioni Unite in cui si afferma l’appartenenza del Kosovo alla Jugoslavia (ora Serbia ) e il rispetto da parte di tutti gli Stati membri dell’Organizzazione dell’integrità territoriale del Paese, dichiarando allo stesso tempo la sua intenzione di concedere alla regione una larga autonomia interna nonché l’impegno delle autorità serbe a non interferire nei settori di competenza dell’esecutivo kosovaro. Ma la preoccupazione della comunità internazionale è che un peggioramento della situazione in Kosovo possa riflettersi anche sulla Bosnia


scenari Erzegovina ponendone a rischio i delicati equilibri istituzionali. Poche settimane fa, il primo ministro serbo Vojislav Kostunica ha espresso il suo sostegno al presidente serbo bosniaco Milorad Dodik il quale aveva duramente criticato il progetto avanzato dall’blto rappresentate internazionale Miroslav Lajcak di abbassare il quorum parlamentare che rende possibile ai rappresentanti di un gruppo nazionale di esercitare il loro diritto di veto su un progetto di legge ritenendolo una minaccia ai diritti del popolo serbo. Pur senza gli accenti radicali usati dal partito socialista, che è arrivato ad affermare come Belgrado dovrebbe riconoscere l’indipendenza della Republika Srpska qualora il Kosovo proclamasse unilateralmente la sua sovranità, le parole di Kostunica hanno comunque riacceso tra gli osservatori il timore che la Serbia punti a collegare il problema kosovaro con quello bosniaco mettendo in discussione le intese sottoscritte a Dayton nel 1995. Il distacco della Republika Srpska sancirebbe di fatto la fine della Bosnia Erzegovina, in quanto nell’altra entità statale, la Federazione della Bosnia Erzegovina, la componente croata quasi certamente deciderebbe di rompere l’unione con i musulmani per creare uno Stato autonomo nell’Erzegovina occidentale contando sul tacito sostegno di Zagabria. Il governo di Belgrado sembra comunque intenzionato a seguire la linea politica fin qui tenuta, come dimostra l’approvazione da parte del Parlamento serbo il 26 Dicembre di una risoluzione - votata quasi all’unanimità e respinta solo dai Liberaldemocratici e dalla Lega dei Socialdemocratici della Vojvodina - in cui si riafferma l’integrità territoriale del Paese nonché l’impegno da parte di tutte le istituzioni a difenderla. Nei giorni scorsi poi anche il Presidente Boris Tadic ha ribadito la sua contrarietà alla piena sovranità del Kosovo ed a qualsiasi soluzione imposta dalla comunità internazionale alla Serbia contro la sua volontà, sottolineando

inoltre come un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza da parte di Pristina avrebbe difficoltà ad essere applicata a tutto il territorio kosovaro. Inoltre, lo stesso Tadic ha riaffermato come Belgrado punta a riaprire il dibattito alle Nazioni Unite per arrivare ad una soluzione di compromesso accettata da entrambe le parti e che le Forze Armate serbe non avvieranno alcuna operazione militare, ricordando però che queste potrebbero comunque intervenire con il consenso della comunità internazionale per tutelare i propri connazionali presenti nella regione qualora la Kfor non fosse in grado di farlo. Alcuni osservatori non escludono però che Belgrado possa attuare delle ritorsioni qualora Pristina proclamasse la sua indipen-

Il piano Ahtisaari è stato respinto da Belgrado. La preoccupazione principale della comunità internazionale è che il peggioramento della tensione in Kosovo metta a rischio i delicati asset istituzionali conquistati denza, la più pesante delle quali sarebbe l’interruzione delle forniture idriche ed elettriche assicurate alla regione dal lago Gazivoda. Situato nella zona nord occidentale a maggioranza serba, il bacino rappresenta la principale risorsa energetica del Kosovo ed un eventuale taglio dell’erogazione lascerebbe almeno il 15 per cento della popolazione senza acqua potabile e l’intero territorio privo di corrente elettrica. Per opposti motivi, le stesse considerazioni vanno fatte per gli albanesi. Nessun esponente kosovaro è disposto a prendere in considerazione l’eventualità di un ritorno della regione sotto il controllo serbo e tutti i principali partiti locali hanno appoggiato il progetto di un’indipendenza monitorata considerandolo il primo passo verso la piena sovranità. Proprio per que73


Risk sto, gran parte degli analisti teme che un’eventuale ritardo nella definizione dello status possa portare ad un aumento della tensione nonché a gravi problemi per la sicurezza dello stesso contingente internazionale. Nei mesi passati si sono registrati violenti scontri che hanno opposto i reparti dell’Unmik agli esponenti dei gruppi nazionalisti più radicali, quali il movimento Vetevendosje (Autodeterminazione) di Albin Kurti, che invocavano la piena indipendenza per il Kosovo e la fine dell’amministrazione delle Nazioni Unite. Non mancano comunque tra i commentatori quelli che guardano con scetticismo o con aperta contrarietà all’eventuale sovranità, ritenendo che un Kosovo indipendente possa trasformarsi in una sorta di “stato mafia” controllato dai gruppi legati alla criminalità organizzata albanese. I critici fanno notare come l’economia della regione rimanga in uno stato di profonda crisi con un reddito pro capite diminuito dal 2004 da 1.116 a 1.105 dollari ed una disoccupazione oscillante tra il 46 per cento e il 59 per cento, sottolineando inoltre il basso standard qualitativo e le accuse di corruzione rivolte alle autorità locali.

Ma l’incognita maggiore che pesa sui negoziati per il futuro status del Kosovo sono i riflessi che il loro esito potrà avere sulle minoranze albanesi dei Paesi limitrofi, a cominciare da quelle presenti in Serbia nella valle di Presevo poste vicino ai confini kosovari. Strategicamente importante in quanto attraversata dalla principale ferrovia serba e situata lungo il progettato “Corridoio 10” che dovrebbe collegare la Grecia all’Europa centrale, la zona è abitata prevalentemente da albanesi concentrati nelle località di Presevo, Bujanovac e Medvedija, anche se in quest’ultima, stando alle statistiche ufficiali fornite da Belgrado, i serbi risulterebbero invece maggioritari. Terminato il conflitto in Kosovo, nella regione venne creata una zona di sicurezza (Ground Security Zone) di cinque chilometri interdetta alle forze militari e di polizia di Belgrado al fine di tutelare la popolazione albanese oggetto di una dura repressione durante gli anni del regime di Milosevic. Gli scontri esplosi in 74

Macedonia tra la maggioranza slava della popolazione e la minoranza albanese presente nelle zone occidentali del Paese riaprirono però le tensioni etniche nella regione. Presero così avvio tra il 2000 ed il 2001 le azioni dell’Esercito di Liberazione di Presevo, Medvedija e Bujanovac (Ucpmb ), un gruppo nazionalista albanese sospettato di fornire appoggio agli insorti dell’Esercito di Liberazione Nazionale (Nla) attivo nelle aree albanofone della Macedonia, la cui attività spinse la comunità internazionale a negoziare con Belgrado un accordo che autorizzava le forze di sicurezza serbe a ridispiegarsi nella regione proprio per evitare un possibile allargamento degli scontri al Kosovo. Dopo il raggiungimento di un’intesa tra le autorità serbe e gli insorti nella quale l’Ucpmb accettava di deporre le armi in cambio di un’amnistia e la formazione di un polizia multietnica, le parti in seguito sottoscrissero un nuovo compromesso, denominato piano Covic dal nome dell’allora vicepremier serbo, nel quale Belgrado si impegnava a favorire l’integrazione degli albanesi nell’amministrazione unitamente alla fine di ogni atteggiamento discriminatorio nei loro confronti. Anche se in questi ultimi anni la tensione è sensibilmente diminuita, il timore oggi è che un peggioramento della situazione in Kosovo possa ripercuotersi sulla regione e destabilizzarla. La stragrande maggioranza della popolazione albanese rimane attratta dalla prospettiva di un’unione con un Kosovo indipendente pur ritenendola quantomai improbabile e diversi esponenti politici kosovari hanno dichiarato che, nel caso le municipalità serbe a nord del fiume Ibar si distaccassero dalla regione, agli albanesi della valle di Presevo dovrebbe essere consentito di unirsi al Kosovo in segno di compensazione. L’altro Paese in cui gli effetti della crisi kosovara potrebbero essere maggiormente avvertiti è la Macedonia. Al momento della nascita nuovo Stato macedone la minoranza albanese si mostrò assai tiepida verso l’indipendenza, tanto che nei distretti occidentali dove era concentrata la popolazione albanofona nel 1992 venne organizzato un referendum in cui si approvò uno statuto di autonomia per la regione con la




scenari prospettiva di una futura unione con il Kosovo, mentre diverse municipalità si spinsero fino a proclamare una secessionista Repubblica Autonoma di Illirida. Negli anni seguenti le tensioni interetniche andarono progressivamente inasprendosi fino ad esplodere nella primavera di sette anni fa in un aperto conflitto conclusosi con un accordo, firmato nell’agosto del 2001 ad Ohrid sotto gli auspici della comunità internazionale, in cui si concedeva l’autonomia per le aree a maggioranza albanese e si introducevano importanti modifiche costituzionali tese a garantire i diritti della popolazione albanofona. Da allora, mentre sul piano internazionale Skopje ha potuto contare sul sostegno degli Stati Uniti che cinque anni fa decisero di riconoscere il Paese con il nome di Repubblica di Macedonia invece della sigla Former Yugoslav Republic of Macedonia (Fyrom) usata dalle Nazioni Unite e dalla stessa Unione Europea allo scopo di rafforzare il governo alla vigilia di un referendum - poi fallito - indetto dalle forze nazionaliste macedoni per abolire gli accordi di Ohrid, su quello interno i rapporti con la minoranza albanese continuano a rimanere difficili. Se da un lato, secondo un sondaggio pubblicato dal Dipartimento di Stato americano, gli albanofoni dichiarano di desiderare la sopravvivenza dello Stato macedone auspicando però allo stesso tempo un’unificazione di tutti gli albanesi residenti nei Balcani da raggiungere comunque attraverso mezzi pacifici, dall’altro il leader del Partito Democratico degli Albanesi Arben Xhaferi in passato ha più volte affermato che alla minoranza albanese dovrebbe essere consentito di esercitare il suo diritto all’autodeterminazione proponendo la creazione di un’Albania federale, anche se la sua formazione dopo le elezioni legislative del luglio 2006 è entrata nell’esecutivo formato dai nazionalisti macedoni del Vmnro/Dpmne. Tuttavia, la recente decisione presa dalla Corte Suprema di Skopje con cui si impedisce ai comuni albanofoni l’uso della bandiera albanese negli edifici pubblici, rischia di riaprire nuovamente le tensioni. Assai meno critico si presenta lo scenario in Montenegro, dove gli albanesi, concentrati nella parte

meridionale del Paese e rappresentanti quasi il 7 per cento della popolazione nazionale, si limitano a richiedere una maggiore autonomia amministrativa e culturale essendo storicamente più integrati nella società locale. Un discorso a parte va fatto invece sulla presenza albanese in Grecia. Fino al secondo conflitto mondiale, una minoranza albanofona - indicata con il nome di Çamë da Tirana e di Tsàmides da Atene - risiedeva nell’Epiro settentrionale regione dalla quale venne allontanata nel 1944 a causa degli eventi bellici. La disputa si basa essenzialmente sulla richiesta, avanzata dai discendenti degli abitanti allora rifugiatisi in Albania, di rientrare in possesso delle proprietà sequestrate dalle autorità greche nel dopoguerra per l’accusa di collaborazionismo verso i tedeschi rivolta agli albanesi. Il governo di Atene, che riconosce lo status di minoranza solo ai musulmani della Tracia occidentale, considera chiusa la questione anche se ha consentito agli albanesi di adire i tribunali locali per illustrare le loro richieste. Va poi ricordato come una minoranza greca sia presente in Albania. Abitante nelle regioni meridionali del Paese e stimata ufficiosamente in 120.000 persone, in passato è stata oggetto di discriminazioni ma in questi ultimi anni la situazione è sensibilmente migliorata dopo che il governo albanese nel 1997 ha permesso l’insegnamento in lingua greca e poi autorizzato nel 2002 l’apertura di scuole secondarie elleniche.

Ma se la comunità internazionale teme che un’ondata nazionalista albanese possa propagarsi in tutti i Balcani nel caso in Kosovo si aprisse una crisi, al contrario quasi tutti gli analisti ritengono invece improbabile l’esplosione del panalbanismo nella regione. In Albania, fatta eccezione per delle piccole formazioni ed alcuni esponenti accademici, ben pochi guardano con favore alla prospettiva di una Grande Albania e la stessa idea di un’unificazione con il Kosovo riscuote scarsa approvazione al di fuori delle aree settentrionali del Paese che ne trarrebbero dei vantaggi economici. 77


Risk Negli ambienti politici si fa poi notare non solo che la riunificazione porrebbe Tirana in una posizione secondaria rispetto a Pristina, ma anche come questa modificherebbe gli equilibri etnici interni rendendo il gruppo dei ghegs residenti nel nord nettamente più numerosi dei tosks abitanti nelle zone meridionali. Ed anche tra le forze politiche kosovare solo il Movimento Popolare del Kosovo ( Lpk), gli ultranazionalisti del Balli Kombetar ed altri partiti dal seguito trascurabile sostengono l’idea di una fusione con l’Albania, mentre pure l’attività dell’Armata Nazionale Albanese (Aksh), un gruppo armato radicale panalbanese resosi responsabile di diversi attacchi terroristici e le cui azioni avevano suscitato non poca preoccupazione tra gli osservatori, sembra essersi considerevolmente ridotta dopo che numerosi suoi appartenenti sono stati arrestati in Macedonia, Kosovo ed Albania. Sul piano diplomatico, le posizioni espresse dalle diverse cancellerie differiscono notevolmente. Fin dall’inizio gli Stati Uniti hanno appoggiato il piano Ahtisaari facendo intendere che non si opporrebbero ad un’eventuale dichiarazione unilaterale d’indipendenza del Kosovo, un gesto questo con cui l’amministrazione Bush intenderebbe ringraziare l’Albania per il sostegno offerto all’azione militare in Iraq e avvicinarsi ad una popolazione musulmana dopo le tensioni avute con il mondo islamico in questi anni. Ma se Pristina può contare sul sostegno di Washington, al contrario Mosca, storica alleata di Belgrado, ha sempre dichiarato che ogni soluzione dovrà ricevere il consenso di entrambe le parti. In una recente intervista rilasciata a The Voice of Russia, il viceministro degli Esteri russo Vladimir Tikhonov ha ricordato come la Risoluzione 1244 in cui si afferma la pre78

servazione dell’integrità territoriale serba sia tuttora valida, sottolineando tra l’altro che un’eventuale indipendenza kosovara potrebbe creare un precedente e favorire analoghe spinte separatiste tra i numerosi movimenti autonomisti presenti in altre parti del pianeta. E quasi a voler ricordare quali incognite aprirebbe la prospettiva di un Kosovo indipendente, l’agenzia Ria Novosti ha pubblicato un articolo nel quale si evidenzia come in Europa potrebbero in futuro sorgere dieci nuove nazioni autonome disgregando così gli Stati attualmente esistenti. La posizione russa ha però suscitato irritazione a Washington, dove alcuni commentatori, tra i quali l’ex inviato nei Balcani Richard Holbrooke, fanno notare come in realtà dietro l’intenzione di Mosca di riaffermare i legami panslavi con la Serbia ci sia la volontà di dimostrare il nuovo ruolo di leadership assunto dalla Russia. Pur se con accenti diversi, anche la Cina Popolare ha espresso il suo scetticismo verso il piano Ahtisaari. Per Pechino, in linea con il principio della non ingerenza negli affari interni seguito nella sua politica estera, una decisione delle Nazioni Unite sull’indipendenza del Kosovo creerebbe un precedente che potrebbe in futuro essere utilizzato anche per le regioni cinesi dove più sono attivi dei movimenti separatisti, quali il Tibet, il Sinkiang e, soprattutto, Taiwan. Allo stesso modo, anche Israele si è dichiarato contrario all’indipendenza kosovara. Il governo di Gerusalemme non solo ritiene che se si accetta il principio per cui con un intervento esterno si può procedere al distacco del territorio di uno Stato sovrano senza il suo consenso questo un domani potrebbe essere invocato per i territori palestinesi, ma soprattutto pensa che un Kosovo indipendente, in quanto Paese a maggioranza musulmana, si trasformerebbe in un rifugio

In Serbia appare sempre più evidente la dissonanza tra il presidente filo-occidentale ed europeista Boris Tadic e il premier nazionalista Vojislav Kostunica, ma anche sugli assetti istituzionali bosniaci in previsione del prossimo referendum


scenari per gli esponenti dei gruppi jihadisti più radicali incrementando così l’influenza islamica in Europa. Negli ultimi mesi poi alcuni commentatori avevano proposto come soluzione o quella di distaccare i quattro comuni serbi a nord dell’Ibar Mitrovica, Leposavica, Zvecan e Zubin Potok consentendogli di ricongiungersi con Belgrado oppure quella, avanzata dal Woodrow Wilson Center ed illustrata quattro anni fa su Foreign Affairs, di istituire dei cantoni e delle municipalità autonome per i serbi residenti in Kosovo ai quali doveva inoltre essere concesso il diritto di conservare la cittadinanza serba e di mantenere una relazione speciale con Belgrado. Ed anche l’ex - Ambasciatore britannico a Roma Ivor Roberts, in un suo editoriale apparso agli inizi di dicembre sul quotidiano The Independent, aveva dichiarato come la divisione del Kosovo avrebbe rappresentato la soluzione migliore, essendo ormai evidente non solo come il progetto di creare nella regione una società multietnica era fallito, ma che privare la Serbia del 20 per cento del suo territorio e di una regione considerata la culla della sua civiltà avrebbe avuto il solo risultato di indebolirne le istituzioni democratiche e favorire il riemergere del nazionalismo. Dopo la proclamazione dell’indipendenza da parte del Parlamento kosovaro lo scorso 17 Febbraio, lo scenario però è radicalmente cambiato e gran parte delle soluzioni precedentemente avanzate appaiono ormai difficilmente proponibili. Così se da un lato il governo e la Corte Suprema di Belgrado hanno dichiarato nulla ed illegale la dichiarazione d’indipendenza kosovara sostenuti in questo da

Mosca per la quale la secessione di Pristina rappresenta una violazione del diritto internazionale, dall’altro il governo di Pristina ha già ottenuto il riconoscimento della maggioranza dei Paesi europei e degli Stati Uniti, nonché quello della Turchia e dell’Australia. La stessa Unione Europea appare comunque divisa al suo interno, tanto che Bruxelles ha lasciato ai singoli Stati di decidere se procedere o meno al riconoscimento del nuovo Stato. Tra questi se Italia, Gran Bretagna, Francia e Germania si sono espresse favorevolmente, al contrario Cipro, Romania, Slovacchia e Spagna hanno dichiarato la loro contrarietà all’indipendenza del Kosovo temendo che le minoranze nazionali presenti nei loro confini possano avanzare analoghe aspirazioni autonomiste, mentre la Grecia auspica invece una soluzione condivisa da entrambe le parti e la Bulgaria si attende dal nuovo governo kosovaro il rispetto delle disposizione contenute nel piano Ahtisaari e delle garanzie per la propria minoranza residente nella regione. Ma il timore della comunità internazionale è che la crisi kosovara possa ripercuotersi non solo sulla scena politica interna serba, dove appare sempre più evidente la dissonanza tra il Presidente filo-occidentale ed europeista Boris Tadic ed il Premier nazionalista Vojislav Kostunica, ma anche sugli assetti istituzionali bosniaci, visto il voto con cui il Parlamento della Republika Srpska ha autorizzato a convocare un referendum sull’ indipendenza dell’entità serbo-bosniaca che potrebbe porre fine all’esistenza stessa della Bosnia Erzegovina. Vedremo come finirà.

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Risk

GRAN BRETAGNA

GLI INGLESI FRA NECESSITÀ E VIRTÙ DI

CLAUDIO CATALANO

biscotti italiani sono migliori ra commerciale e il libero mercadei migliori d’Inghilterra, to sono caratteristiche che la stodiceva D’Annunzio. Ciò ria ha reso più anglosassoni che detto, è vero che i britannici continentali. Per questo il New hanno qualcosa da insegnarci Chapter del 2002, pur indicando nella politica di Difesa, soprattutla necessità di aumentare i fondi to nel campo del procurement. Per per la difesa - ma sapendo che si questo Finmeccanica ha deciso di trattava di una pura dichiarazione dedicare la prima pubblicazione di principio - suggeriva di dei suoi Occasional Paper promigliorare il rapporto qualitàprio alla riforma delle strategie prezzo nel procurement. industriali e per le tecnologie L’iniziativa Smart procurement della Difesa in atto nel Regno nasceva quindi per far fronte ai Il processo di riforma della politica di difesa Unito. La società è, negli ultimi ritardi, alle inefficienze e ai costi britannica, iniziato oltre anni, diventata il secondo fornitore elevati di alcuni programmi e dieci anni fa, vuole del MoD ed è pienamente integrata migliorare la pianificazione dava il via ad un nuovo rapporto all’estero con le sue aziende Augutra industria e MoD. Si definiva il delle Forze Armate staWestland e Selex Galileo nella concetto di approccio a ciclo di base industriale e tecnologica per la vita intera (through-life) dei proDifesa britannica. Avendo i piedi in due staffe, deve dotti. Il procurement non doveva più tenere conto adeguarsi alle due diverse realtà, ma può anche solo del costo d’acquisto del prodotto finito, ma svolgere un ruolo di trasmissione delle dottrine bri- coprire anche i costi di sviluppo e i costi di gestione tanniche in Italia. in servizio, compreso l’aggiornamento tecnico, fino Il processo di riforma della politica di difesa britan- all’uscita dal servizio operativo, ovvero per un nica dura ormai da oltre dieci anni. È iniziato con la periodo di circa 20-30 anni. Il costo di acquisto era Strategic Defence Review del 1997, una revisione quindi solo una piccola parte del costo totale “a vita voluta dal governo laburista per migliorare la piani- intera”. Per fare un esempio di facile comprensione ficazione della proiezione all’estero alla luce delle sarebbe come se, quando si acquista un’auto con realtà strategiche. In quell’anno, una combinazione finanziamento a lungo termine, nel prezzo totale di obiettivi di bilancio e di politica estera ha ridotto fossero incluse le riparazioni (per usura, non per significativamente il budget della Difesa, mentre è incidente), nonché tutti gli aggiornamenti del aumentato l’impiego operativo delle forze armate. modello nella meccanica e nell’elettronica, finché Anche i britannici, come noi italiani, si sono dovuti l’auto diventa “d’epoca”. abituare a fare di più con meno risorse. Se l’arte di Questo approccio tende ad abbattere i costi nel arrangiarsi è una virtù prettamente italiana, la cultu- lungo periodo, oltre a spingere l’industria verso piat-

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scenari taforme di più lunga durata. Ma lo scopo del MoD era anche quello di far assumere all’industria i costi e i rischi: per questo diventava essenziale un accordo stabile tra MoD e industria. A questo punto, però, dovevano mutare sia la struttura ministeriale, e diventare più imprenditoriale, sia la struttura aziendale, e acquisire maggiori capacità sistemistiche e progettuali. Sul fronte governativo nacquero la Defence Procurement Agency (Dpa) e la Defence Logistic Organisation (Dlo), che si fusero nel 2006 dando vita alla Defence Equipment & Support (De&s), mentre l’industria della Difesa si adeguò ai mutamenti nella struttura del procurement militare. Dallo Smart procurement sono derivati le Private Finance Initiative (Pfi) contratti di outsourcing una moda di cui è stato vittima anche il nostro ministero della Difesa - che però sono risultati validi solo per alcuni servizi di fornitura (alloggi, mense e vestiario), e soprattutto il concetto di partnership tra Stato e industria, sviluppato e perfezionato nei successivi documenti sulla Defence Industrial Policy (Dip, 2002), sulla Defence Industrial Strategy (Dis, 2005) e sulla Defence Technology Strategy (Dts, 2006), queste ultime due volute dall’allora sottosegretario per il procurement militare Lord Drayson. La Dip instaura il principio guida secondo il quale si deve soddisfare «la necessità di fornire alle forze armate l’equipaggiamento che esse richiedono, in tempo,ed assicurando il miglior rapporto qualitàprezzo per il contribuente». Con la Dip, il procurement competitivo tipico degli anni Ottanta e Novanta, pur rimanendo formalmente il principio informatore della politica di Difesa, in realtà evolve verso nuove forme di partnership, con l’adozione, in determinati settori strategici, di un fornitore unico, selezionato senza gara d’appalto, ma comunque sulla base di criteri di trasparenza. Questi accordi con l’industria risultano fondamentali per una più efficiente gestione delle capacità “a vita intera” (through-life capability management), come viene anche sancito dalla Dis: in futuro la progettazione e produzione di nuove piattaforme è destinata

a diminuire - perché i programmi che stanno per entrare in servizio, come il Jsf, rimarranno in linea per almeno i prossimi 30 anni - a vantaggio delle attività di manutenzione e aggiornamento tecnologico, con il crescere della vita operativa delle piattaforme. L’affidamento ad AugustaWestland del contratto di partnership a lungo termine per il supporto “a vita intera” del settore elicotteristico dimostra che la rinuncia ad un approccio competitivo non ha nulla di protezionistico e che l’apertura anche ad imprese non britanniche è assoluta. Questa considerazione ci introduce alla seconda rivoluzione introdotta da Dip e Dis. Secondo il principio della appropriate sovereignty (competenza sovrana) e in particolare per il suo corollario “sovranità operativa”. Secondo il principio della competenza sovrana dichiarato nella Dis, i britannici considerano strategico: «mantenere un grado appropriato di sovranità sulla esperienza, sulle capacità, sulle competenze e sulla tecnologia dell’industria per garantire l’indipendenza operativa a fronte delle varie operazioni che si vuole condurre». Non significa, tuttavia, creare un “procurement autarchico”, ma al contrario in alcuni settori è necessario basarsi su risorse disponibili esclusivamente all’estero. Per questo è necessario definire le questioni critiche che devono essere mantenute fermamente nella madrepatria per assicurare la indipendenza operativa e la realizzazione dell’approccio a vita intera. Un valore aggiunto è rappresentato da quelle capacità che assicurano al Regno Unito un vantaggio o influenza strategia in termini militari, industriali o diplomatici.

A tale fine, è necessario mantenere nella madrepatria: le tecnologie sensibili, la proprietà intellettuale, i posti di lavoro e gli investimenti; se questi vengono garantiti, la struttura proprietaria diventa irrilevante. A differenza di quanto avviene in altri Paesi europei - ove l’industria della Difesa deve rimanere saldamente nazionale, quando non è controllata dallo Stato - nel Regno Unito è sufficien81


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scenari te che si assicuri la sovranità operativa, ovvero standard tecnologici e disponibilità per le richieste operative (Urgent Operational Requireemnts) in modo da poter operare, mantenere e aggiornare autonomamente i sistemi d’arma. La Dis è anche un avvertimento a Bae systems, che per incrementare i profitti, vorrebbe trasferirsi oltre atlantico. Drayson ha dato il nulla osta a Bae purché questa assicuri la sovranità operativa. La Dis è un incoraggiamento ad investire per le grandi imprese estere, americane ed europee, come hanno già fatto le imprese americane, nonché Thales, Eads e Finmeccanica.Un mercato aperto alle aziende estere contribuisce enormemente alla concorrenza, rendendo più efficienti le imprese nazionali e allargando il bacino a cui attingere per gli investimenti nella base industriale e tecnologica per la Difesa. Secondo la Dts, ad esempio, AugustaWestland dovrà sviluppare le nuove tecnologie per il settore elicotteristico utilizzando anche «finanziamenti privati, investimenti del ministero della Difesa italiano, esportazioni militari, programmi per elicotteri civili e partnership con altri produttori di elicotteri». Questo approccio consente di avere accesso a risorse utili a mantenere livelli tecnologici elevati anche a fronte di una diminuzione dei finanziamenti per la R&S, sfruttando le ricadute tecnologiche che derivano dalle commesse estere. Questo circolo virtuoso ha subito una improvvisa battuta di arresto, quando, con il cambio della guardia a Downing Street, Lord Drayson ha pensato che per lui fosse venuto il momento di dedicarsi alle corse automobilistiche, e ha lasciato il timone del procurement della Difesa per… il volante di una Aston Martin. Il Defence Technology Plan, atteso per tradurre in realtà le tecnologie identificate nella Dts, e l’aggiornamento della DIS, la versione 2.0, tardano ad uscire, mentre il trattato tra Regno Unito e Stati Uniti sulla cooperazione nel mercato della difesa deve essere implementato. Non bisogna dimenticare che il processo è in pieno svolgimento da più di dieci anni, sostenuto sia dal MoD che dall’industria, e quindi la partenza di Lord Drayson, cui si deve una forte accelerazione delle riforme, non dovrebbe metterlo in discussione: in altre parole, per i prossimi passi non si tratta tanto del “se”, ma piuttosto del “quando”. La pubblicazione del budget triennale Defence Planning Round 08, pur prevedendo nuovi tagli ai programmi, potrebbe essere una buona occasione per superare l’impasse. Altrimenti il “patto”, creato da Drayson con la Dis, sarà stato solo una breve parentesi nei rapporti tra militari e industria.

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lo scacchiere

Medio Oriente/ la longa manus dell’iran

sta creando un fronte israeliano-sunnita Ma il principio del nemico comune non darà la pace alla regione DI

EMANUELE OTTOLENGHI

a pubblicazione, lo scorso febbraio, del rapporto dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea) permette di fare il punto sul dossier nucleare iraniano. Il rapporto è stato invocato dai rappresentanti del governo iraniano come una vittoria diplomatica. Come era prevedibile invece, i rappresentanti dei governi occidentali lo hanno letto come una conferma della necessità di una terza risoluzione Onu contro Tehran. Al di lá della retorica, prevedibile, il testo riflette l’ambiguitá e la lentezza del processo diplomatico nel far chiarezza sulla natura e sul progresso del programma nucleare iraniano. Secondo il direttore dell’Agenzia, Mohammad El Baradei, gli iraniani hanno risposto alla maggior parte, ma non a tutti gli interrogativi da lui sollevati. Ma alcune delle spiegazioni offerte lasciano a desiderare e sorprende che l’Agenzia si sia ritenuta soddisfatta delle prove presentate da Tehran. In particolare, colpisce l’accettazione di El Baradei della versione dei fatti iraniana per

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quanto riguarda gli studi condotti sul polonio-210 – un elemento vitale in un programma nucleare per la sua funzione scatenante di una reazione a catena, se combinato con il berillio, un metallo utilizzato per la costruzione di ordigni atomici. Ma El-Baradei non ha affrontato la questione, nonostante la presenza di berillio nel contesto del programma nucleare iraniano, che El-Baradei ha deciso di ignorare fin dal 2004. Il secondo elemento che lascia perplessi nel rapporto è il laconico riferimento a un documento con le istruzioni per produrre emisferi di uranio dall’uranio arricchito. Il rapporto di El Baradei dice soltanto che secondo l’Iran ‘questo documento fu ricevuto insieme ai documenti per le centrifughe P-1 nel 1987 e non era stato richiesto dall’Iran.’ Il fatto che non fosse stato richiesto naturalmente non nega che l’Iran l’abbia ricevuto e ne possa fare tesoro. La documentazione a cui si riferisce proveniva dalla rete dello scienziato pakistano A.Q. Khan, colpevole d’aver proliferato tecnologia nucleare a vari paesi tra cui l’Iran. El Baradei si limita a


dire che l’Agenzia sta verificando la versione iraniana con i propri contatti in Pakistan, ma l’Iran non nega d’aver ottenuto documenti che spiegano come costruire un componente critico di un ordigno atomico. E anche se l’Iran si fosse trovato il progetto per costruire una bomba senza aspettarselo tra i documenti acquistati clandestinamente dal Pakistan la conoscenza scientifica accumulata dagli iraniani, insieme alle acquisizioni tecnologiche e ad altri aspetti del programma nucleare non possono che destare preoccupazioni. Ne consegue che, in terzo luogo occorre preoccuparsi del fatto che il rapporto spiega come le prove prodotte dall’Iran in tema di approvigionamento di componenti tecnologiche necessarie in un programma militare non sia “inconsistente” con quanto scoperto dall’Agenzia. Certo, il linguaggio cauto e diplomatico del rapporto indica che l’Agenzia non consideri incredibile la spiegazione di certi acquisti iraniani – secondo l’Iran gli scopi sono didattici – ma l’opacità del linguaggio indica che non è nemmeno del tutto credibile. Specialmente perchè finalmente l’Agenzia ha verificato la componente militare del programma iraniano – sulla base di informazioni fornite da vari paesi membrei dell’Aiea e sulla scia della National Intelligence Estimate americana del dicembre scorso. Lungi dall’esonerare l’Iran, il rap-

porto mette in luce tutta una serie di elementi incriminanti con il quale gli iraniani sono stati confrontati e sul quale si rifiutano di commentare. Questi aspetti comprendono il progetto per una testata nucleare compatibile con il missile iraniano Shihab 3 in dotazione alle forze armate iraniane dal giugno 2003. Secondo il rapporto, «questo progetto è stato giudicato dall’Agenzia con tutta probabilità in grado di accogliere una testata nucleare». Ma gli iraniani per tutta risposta si sono barricati dietro l’accusa di informazioni false e fabbricate a bella posta. Ancora più preoccupante quello che il rapporto non dice – non solo El Baradei ha fatto lo sconto agli iraniani in merito al berillio e ha chiuso il capitolo riguardante il polonio (e delle miniere di uranio di Gchine), ma omette ogni riferimento a siti sospetti che gli iraniani non aprono alle ispezioni – Khajir a Tehran e Parchin vicino a Qom tra gli altri. Tutto questo sarebbe già abbastanza per confermare la necessità di ulteriore pressione sull’Iran – visto e considerato che l’Iran continua ad arricchire uranio in contravvenzione con le risoluzioni Onu 1696, 1737 e 1747 e visto che l’Iran, come confermato dall’Agenzia, sta installando una nuova generazione di centrifughe per l’arricchimento dell’uranio più efficienti delle attuali P-1. Invece la comunità internazionale sembra titubante e 85


Risk l’Agenzia, almeno nella persona di El Baradei, continua a offrire all’Iran vie d’uscita che finiscono con dare più tempo all’Iran di progredire nel suo progetto nucleare. El Baradei senza dubbio crede di lavorare per la pace. Offrendo agli iraniani il tempo necessario per chiarire i dubbi della comunità internazionale e fornendo argomenti agli scettici con il suo rapporto parzialmente scagionante, El Baradei spera

di evitare un attacco militare americano – cosa che evidentemente teme di più che una bomba nucleare in mano iraniana. Ma il mestiere di El Baradei non è di far da paciere, è di attuare il suo mandato a capo di un’agenzia responsabile per la non proliferazione. E forse, dopo questo rapporto e grazie al suo temporeggiare a favore di Tehran, le due cose saranno irrimediabilmente incompatibili.

Unione Europea/ il rilancio dell’europa?

difficile senza un disegno strategico I Paesi Ue tardano a riconoscere quanto è sotto gli occhi di tutti DI

GIOVANNI GASPARINI

a forza con cui il cancelliere tedesco Angela Merkel ha ripreso in mano il discorso istituzionale, all’inizio del semestre di presidenza tedesca dell’Unione europea, lascia ben sperare coloro i quali non si accontentano di “tirare a campare” in un’Ue che gioca al ribasso, stretta fra un processo d’allargamento mal digerito e un rinascente nazionalismo fuori tempo massimo. Dei 27 Paesi dell’Ue, la maggioranza (18) ha già ratificato il TrattatoCostituzione, mentre 2 lo hanno bocciato; si lavora ora ad una soluzione di compromesso che consenta all’Unione di progredire, eliminando probabilmente il carattere costituzionale e conservando invece la natura di trattato. La necessità di innovare il quadro istituzionale, al fine di garantire l’efficacia dell’azione politica, è particolarmente sentita in due settori vitali: quelli della politica estera e di sicurezza e difesa. Senza le innovazioni istituzionali introdotte dal Trattato non sarà infatti possibile fare quel salto di qualità nella partecipazione alla vita e alla sicurezza internazionale che gli stessi cittadini dell’Unione e i Paesi alleati, Stati Uniti inclusi, chiedono all’Europa. La politica estera e di difesa sarebbe infatti destinata ad essere sporadica e reattiva, come avviene oggi, ostaggio di questo o quel veto. Ciò ha

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comunque permesso all’Ue di impegnarsi in una discreta quantità di missioni militari e di sicurezza in diverse parti del mondo, ma senza un vero disegno strategico e coerenza politica a sostegno. La dimensione militare segna il passo ed incontra i limiti istituzionali dei trattati ora in vigore, ma non è l’unica: l’intera funzione di rappresentanza all’estero è largamente insufficiente e tutta una serie di problematiche di sicurezza di natura non strettamente militare, quali la gestione dei confini, il contrasto al terrorismo internazionale e alla criminalità internazionale, eccetera, non potranno trovare risposta. Inoltre, i mesi invernali hanno nuovamente reso evidente il “solito” problema energetico: i Paesi europei, chi più chi meno, non sanno garantirsi la propria sicurezza energetica agendo su base strettamente nazionale o bilaterale, come avvenuto sinora, ma tardano ancora a riconoscere quanto è sotto gli occhi di tutti e di conseguenza bloccano lo sviluppo di una vera politica comune, nel nome di una incomprensibile difesa della sovranità nazionale che essi stessi sono evidentemente incapaci di esercitare. Urge decidere. Anche a costo di sviluppare cooperazioni a geometria variabile o di porre i Paesi non aderenti al nuovo trattato ad una scelta difficile: dentro o fuori.


scacchiere

Russia/ la diarchia di putin con medvedev

potrebbe cambiare lo stile del cremlino Oppure riportarlo ai tempi dell’Unione Sovietica DI

DAVID J. SMITH

gli ultimi due addii di Putin - soprattutto quello dalla presidenza - non rivelano fondamentalmente niente di nuovo. Invece, il suo discorso dell’8 febbraio, sullo Sviluppo strategico fino al 2020 e quello della “superconferenza” stampa del 14 febbraio, presentava un uomo forte del Cremlino, perseverante, popolare e combattivo che in misura sempre maggiore descriveva la Russia come un castigamatti delle potenze straniere. È questo un punto su cui focalizzare la nostra attenzione. La strategia di Putin sul lungo periodo, «per i prossimi dodici anni» - per usare le sue parole - deve aver riportato il sorriso sul volto di tutti i nostalgici del tempo dei soviet. “Roba” da congresso del Partito comunista d’altri tempi: denuncia del passato, rapporti sugli sfolgoranti progressi, critiche indignate di anonimi funzionari, una sincera discussione su ciò che deve essere ancora fatto e per finire un pizzico di paranoia. La Russia di Putin sembra sempre più assomigliare all’Urss o forse, alcuni di noi solo ora si sono accorti di quanto russa fosse l’Unione sovietica. Oggi, naturalmente, Putin miscela capitalismo e socialismo. Investimenti, capitalizzazione del mercato azionario e Pil stanno crescendo a razzo. E la Russia ha compiuto i maggiori progressi nei settori della metalmeccanica, dei trasporti, dell’edilizia abitativa, dell’educazione e della sanità. Un clima di un tale ottimismo di maniera che ci si potrebbe addirittura aspettare di vedere delle giovani contadine danzare attraverso il palcoscenico con cestini traboccanti di cibo per tutti! Comunque il discorso di Putin dell’ 8 febbraio è stato più interessante per le omissioni che per ciò che ha affermato. Il futuro primo ministro della Russia non ha nominato Dimitry Medvedev, l’uomo che ha scelto affinché venga eletto dai russi presidente il 2 di marzo. Sembra che Medvedev abbia poco a che fare con la strategia di Putin

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per restare al Cremlino. Nella conferenza stampa di San Valentino, sebbene durata ben 4 ore e mezza, Putin ha detto solo poche parole su Medvedev. Ma possiamo stare tranquilli che il primo ministro Putin appenderà sul muro la foto del presidente Medvedev. «Stabiliremo un rapporto personale» ha affermato Putin, «vi assicuro che non ci saranno problemi». Non ci saranno problemi perché Putin ha riletto la Costituzione russa per ottenere un’interpretazione che lui stesso ha eluso durante gli otto anni di presidenza. «La prima autorità del Paese è il governo, che è guidato dal primo ministro». La diarchia di Putin con Medvedev potrebbe cambiare alcune dinamiche e lo stile del Cremlino, ma egli aggiunge «se dovessi accorgermi che in questa posizione posso continuare a realizzare i miei obiettivi, ci lavorerò più a lungo possibile». Sebbene la mossa inaspettata di Putin possa sembrare sbagliata a molti occidentali, la sua permanenza al Cremlino piace alla maggior parte dei russi. A meno di due settimane dall’elezioni presidenziali, Medvedev rifiuta di partecipare a dibattiti e fare campagna elettorale, facendo affidamento che la popolarità di Putin lo porti alla presidenza. E ci aspettiamo che lui immediatamente nomini Putin primo ministro. Con questo genere di popolarità non era fuori luogo organizzare il 14 febbraio una conferenza stampa in stile Castrista. Una giornalista adorante gli anche fatto un regalo di San Valentino - un servizio fotografico ha immortalato Putin che, abbandonando la scena, teneva stretto un cuore rosso e rosa. In questo clima sdolcinato, le preoccupazioni per la regolarità delle lezioni e il controllo degli osservatori internazionali erano fuori luogo. A dire il vero, non c’era neanche un osservatore dell’Osce, la più importante organizzazione per il monitoraggio di questi eventi. Alla domanda sul perchè del disprezzo dell’Osce per la tornata elettorale del 2 marzo, replicava 87


Risk un combattivo Putin: nel caso gli osservatori avessero voluto insegnare qualcosa avrebbero potuto «insegnare alle loro mogli come cucinare il Shchi (zuppa di cavoli russa)». E su questo binario c’è stato molto altro. A chi gli domandava della corruzione, replicava che erano voci che i giornalisti «prendevano da un (naso?) per spalmarle sui loro articoli». Questi commenti si potrebbero liquidare come una semplice flessione di muscoli ad uso interno, ma la combattività di Putin accende più gravi preoccupazioni, se considerata, in apparenza, con la sempre maggiore paranoia sulla scena internazionale. «Non potrei dire che poche parole... sulla nostra politica estera», la dichiarazione di Putin verso la fine del suo intervento sulla politica strategica. Cui non faceva seguito alcun accenno ad una strategia in politica estera. Niente sul commercio, sui Paesi vicini, sulla pace nel mondo, sui cambiamenti climatici o uno dei soliti temi. Invece, Putin riepilogava le ben note accuse contro l’Occidente: il sistema di difesa missilistica dislocato nell’Europa dell’est, «la nuova spirale nella corsa agli armamenti», le supposte violazioni dei trattati internazionali e l’allargamento della Nato. Poi aggiungeva: «si sta svolgendo una feroce battaglia per le risorse e l’odore del gas e del petrolio sta dietro molti conflitti». Nella sua conferenza stampa, Putin ha legato le critiche occidentali sulle elezioni in Russia con i problemi del Kosovo: «Chi ascolterebbe la posizione della Russia sul Kosovo se fosse considerata essa stessa un Paese non democratico?». Su molte di queste materie la posizione di Mosca e totalmente sbagliata. Sul Kosovo il Cremlino ha un suo punto di vista, e la poco attenta diplomazia occidentale è solo questo, disattenta, non esiste un complotto antirusso. Le critiche sul deficit di democrazia in Russia sono ben fondate e non collegabili al Kosovo. Ma questi argomenti assai convincenti nuociono solo all’immagine che Putin si sta costruendo. «Siamo stati costretti in una situazione per cui dobbiamo reagire, dove non abbiamo scelta, se non quella di prendere le decisioni necessarie». Non si può sfuggire al timore che Putin non stia classificando le sfide della politica estera russa - perfino le lamentele - per categorie, ma stia semplicemente definendo l’immagine della Russia attraverso la lente delle sue paranoie. 88


scacchiere

Brasile/ big sur energetico, luci e ombre

di un complesso equilibrio produttivo Petrobras punta a entrare nella top ten del petrolio DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

el novembre scorso il governo brasiliano ha reso pubblica una notizia che ha fatto rapidamente il giro del mondo: la scoperta da parte della società petrolifera nazionale Petrobras di un giacimento di greggio leggero a 300 chilometri dalla costa dello Stato di Rio de Janeiro, a 7mila metri dal livello del mare e 5mila metri al di sotto del fondale oceanico. Le stime indicano un volume tra 5 e 8 miliardi di barili, associati ad un 15 per cento di gas naturale. Si tratta del maggior ritrovamento di petrolio in un unico giacimento negli ultimi 20 anni, destinato a duplicare i volumi di greggio brasiliani e a proiettare il Paese sudamericano tra i primi dieci produttori del mondo, vicino a Norvegia e Nigeria. All’annuncio della scoperta, il valore delle azioni della Petrobras -leader mondiale nelle esplorazioni petrolifere off shore - è cresciuto del 14 per cento. Nella zona sono in corso ulteriori perforazioni e alcune fonti governative parlano addirittura di un totale di 60-85 miliardi di barili e di 1628 trilioni di metri cubi di gas. L’operazione d’esplorazione, estrazione e trasporto del petrolio e del gas naturale è costosissima e presenta difficoltà tecniche del tutto inedite: il petrolio si trova infatti al di sotto di uno strato di sale alto più di duemila metri e di consistenza pastosa, con una temperatura di 80 gradi superiore a quella del fondale marino. La messa in azione del primo pozzo ha richiesto 8 mesi di lavoro e 240 milioni di dollari d’investimento. Con gli attuali valori del barile di greggio e i volumi di petrolio in questione, il finanziamento bancario per lo sfruttamento del giacimento non è tuttavia un problema, e il Brasile si può candidare per un posto all’Opec come futuro esportatore di petrolio.

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Il petrolio al di sopra dei 90 dollari sta avendo importanti conseguenze sulla matrice energetica di molti Paesi latinoamericani. Mentre il Brasile accelera le attività di ricerca di nuovo greggio e parallelamente spinge sul bio-diesel e il bio-etanolo, e il Venezuela finanzia la sua aggressiva politica estera e le acquisizioni militari grazie agli enormi proventi del petrolio, altri Paesi puntano sul gas naturale proprio per non dover dipendere dalle importazioni di greggio. Si prevede che la domanda di gas naturale nei Paesi del Cono Sud sia destinata a crescere nei prossimi 30-40 anni. Meno inquinante del petrolio, più efficiente e versatile per l’uso industriale e domiciliare, anche se più difficile da trasportare e conservare, il gas naturale ha visto il suo valore quasi raddoppiare negli ultimi quattro anni. Il 31,4 per cento della matrice energetica primaria latinoamericana si basa sul gas naturale, contro il 10,8 per cento dell’Asia o il 21 per cento dell’Africa (dati 2006). Le riserve regionali assicurano la disponibilità di energia per circa 40 anni, eppure l’equilibrio tra produzione, domanda e offerta di gas è assai complesso da costruire. Non esiste una cornice giuridica chiara nel settore energetico, la pianificazione di medio periodo è inadeguata e il settore risente negativamente dell’instabilità politica interna (in Bolivia), della mancanza d’investimenti (Argentina), e di relazioni bilaterali tuttora problematiche (Argentina - Cile; Cile Perù; Bolivia - Cile). Al centro dello scenario regionale c’è il gas della Bolivia, la cui produzione è bloccata a 41-42 milioni di metri cubi/giorno, non abba3 stanza per coprire la domanda interna (7 Mm ) e rispettare contemporaneamente gli impegni di forni3 3 tura al Brasile (32 Mm ) e all’Argentina (7,7 Mm ). Il governo di Evo Morales ha dichiarato che non 89



scacchiere potrà rispettare gli impegni di fornitura di gas sottoscritti con Brasile e Argentina, a causa di insufficienti investimenti e di notevoli ritardi nel piano di estrazione e trasporto. Una legge sulla nazionalizzazione degli idrocarburi che disincentiva gli investimenti delle società petrolifere straniere si somma alla crisi politica interna in cui versa il Paese e alle spinte autonomiste dei ricchi dipartimenti orientali dove sono ubicati i giacimenti di gas. Anche l’Argentina, dal canto suo, sta pagando l’insufficienza degli investimenti nel settore energetico degli ultimi anni. A fronte dell’aumento dei consumi energetici sotto la spinta della crescita economica, il nuovo governo di Cristina Kirchner ha deciso nel dicembre scorso di re-introdurre l’ora legale dopo quindici anni, per cercare di risparmiare energia. Le importazioni di gas boliviano sono fondamentali, e il governo di Buenos Aires assicura di voler investire 1.700 milioni di dollari per la costruzione di un nuovo gasdotto nel nordest del Paese, che tra cinque anni dovrebbe poter permettere di importare ulteriori 3 20 Mm di gas boliviano al giorno. Ovviamente, ciò dipenderà da un importante incremento di produzione nel Paese andino. Nel frattempo, sono diffuse le preoccupazioni sulla disponibilità d’energia elettrica per uso industriale e privato durante il prossimo inverno. In realtà, nonostante la retorica dell’integrazione regionale e il manifesto desiderio della Bolivia di acquisire lo status di membro pieno del Mercosur, vi sono seri dubbi circa la capacità del Paese di sfruttare in maniera efficiente i ricchi giacimenti gasiferi del proprio sottosuolo. Per questo, il Brasile ha dovuto dotarsi di impianti di ri-gassificazione galleggianti per importare gas extra-regionale per un totale di 20 Mm3. Lo stesso sta facendo il Cile, nella località di Quinteros e probabilmente in un altro porto nella regione settentrionale, per non dover dipendere totalmente dalle esportazioni argentine. Anche l’Argentina - a Bahia Blanca - e l’Uruguay si stanno attrezzando per importare gas liquefatto via nave per il mercato interno. In questa

situazione, il mega-gasdotto dal Venezuela all’Argentina al momento resta poco più di un annuncio politico di Hugo Chávez, incongruente con la strategia energetica brasiliana e con l’ampliamento o la costruzione ex-novo di gasdotti dalla Bolivia all’Argentina e al Brasile. Da questo scenario preoccupante è escluso invece il Perù, che recentemente ha annunciato un aumento della proprie riserve gasifere del 23,4 per cento, grazie alla scoperta di un giacimento nel dipartimento di Cuzco da parte del consorzio composto dalla spagnola Repsol Ypf e dalla brasiliana Petrobras. Si stima che le riserve peruviane possano raggiungere i 7 trilioni di metri cubi, sufficienti per garantire il consumo interno d’energia per i prossimi 40 anni e per esportare parte della produzione. Nel futuro sono previsti importanti investimenti anche nel settore idroelettrico nella regione amazzonica. Resta da vedere in che modo il governo peruviano intenderà capitalizzare l’aumento delle entrate provenienti del settore energetico e da quello estrattivo (rame e oro). In conclusione, l’auge attuale delle commodities sta favorendo quei Paesi latinoamericani ricchi di materie prime e risorse energetiche. In alcuni casi l’industria nazionale e le casse dello Stato ne stanno ampiamente beneficiando. La brasiliana Petrobras punta a diventare una delle prime cinque imprese integrate di energia del mondo, con un piano di investimenti in patria e all’estero di più di 110 miliardi di dollari nei prossimi cinque anni. La società cilena del rame Codelco ha fatto registrare nel 2007 esportazioni per 38 miliardi di dollari, con una crescita del 18 per cento rispetto all’anno precedente. In altri casi, tuttavia, l’instabilità politica e l’insicurezza giuridica non aiutano ad attrarre gli investimenti internazionali necessari per garantire la catena di esplorazione - estrazione - raffinazione e trasporto degli idrocarburi, e le società statali non hanno dimensione economica, competenza e autonomia sufficienti per poter prescindere dagli investimenti delle multinazionali del settore. È questo il caso della Bolivia e dell’Argentina. 91


Risk

Africa/ la “neve“ che arriva

dal continente nero

In netta ascesa il mercato della cocaina in Senegal, Ghana, Guinea e Nigeria DI

EGIZIA GATTAMORTA

ono sempre più evidenti i contatti operativi tra Unione africana, organizzazioni regionali africane, dipartimenti continentali dell’Unodc (Un office on drugs and crime), agenzie locali specializzate nella lotta al traffico di stupefacenti. Secondo fonti ufficiali e dati delle Nazioni unite, il continente è ormai divenuto una plaque tournante nel commercio e nel traffico di droghe naturali e sintetiche. In provenienza dall’America latina o dall’Afghanistan “la merce” approda sulle coste africane occidentali e orientali prima di riprendere il tragitto vero l’Europa. Diversi sequestri rilevanti nell’ordine di 600-700 chilogrammi ciascuno, in Senegal e Guinea Bissau, tra il 2006 ed il 2007 hanno attirato l’attenzione delle autorità competenti ed hanno aperto la via ad indagini più approfondite. Sequestri, tra l’altro, di cui poi si sono perse le tracce e in cui sono stati coinvolti alti ufficiali, conniventi con i network criminali. Diversi i motivi che avrebbero spinto i trafficanti a selezionare e privilegiare le coste del black continent, in particolare quelle dell’area occidentale: l’obbligo di una ricerca di rotte alternative a quelle solitamente utilizzate, la posizione geografica privilegiata, porosità dei confini, un ambiente di lavoro agevole e senza eccessivi controlli. Il rigore delle leggi spagnole (accesso tradizionale consolidatosi nel tempo), i controlli rafforzati in Francia e Germania, l’azione mirata e coordinata delle polizie europee nonché le operazioni di Europol hanno spinto i rivenditori sud americani a cercare percorsi inediti ed ad agire attraverso canali più facilmente manovrabili, raggiungibili senza troppi problemi dal Venezuela e dal Brasile,

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soprattutto aree in cui il sistema legislativo è lento e l’amministrazione della giustizia è debole. Non indifferente è stato l’alto tasso di corruzione, endemica e pervasiva in molti stati africani, sempre presenti ai livelli più alti delle classifiche di organizzazioni come Transparency international e parallelamente ai livelli più bassi nelle graduatorie dei livelli di governance. Quali i protagonisti della nuova stagione dei traffici? Senegal, Gambia, Capo Verde, Guinea Bissau, Liberia, Sierra Leone e Nigeria. La Guinea Bissau in particolare, nel giro di pochi anni, è divenuta il primo narco-trafficante africano: le vicende degli ultimi anni, i frequenti putsch, le difficoltà dell’amministrazione pubblica nel pagare i propri dipendenti hanno favorito l’inserimento ed il proliferare di un nuovo tipo di “affari”, una nova economia sommersa. Se nel settembre 2006 è stato bloccato un quantitativo pari a 670 chilogrammi di cocaina, per un valore di circa 39 milioni di dollari, nell’aprile 2007 è toccato ad un carico di 635 chilogrammi interrompere il percorso malavitoso. Dalle coste occidentali, il movimento della merce si dirige in un secondo tempo verso il Niger, il Burkina Faso ed il Mali. In questo tratto di terra interno, si consumano numerosi traffici illeciti. Ne è prova, ad esempio, quello bloccato nell’aprile 2007 dalle autorità del Burkina Faso che hanno impedito il passaggio di 49 chilogrammi di cocaina attraverso il confine con il Mali. Per arrivare al versante settentrionale si utilizza un ennesimo canale d’esportazione, in particolare verso il Marocco e la Mauritania. Da qui, partono i prodotti per la meta finale. Lo scorso maggio è


scacchiere stato scoperto dalla polizia mauritana un carico di 630 chilogrammi di cocaina stivati in un aereo abbandonato nelle vicinanze di Nouadhibou, a 500 chilometri dalla capitale. Quale nel dettaglio il tipo di prodotto? Quale sostanza è in crescita? Cocaina, eroina, ecstasy, cannabis e khat vengono trasportati attraverso piccoli battelli, yacht privati, aerei bimotore. A volte, solo per piccole quantità, il materiale viene ingerito dagli “agenti speciali” (più o meno il 7 per cento del materiale bloccato negli aeroporti) in altre occasioni viene inserito nei bagagli. In base a dati raccolti in ambito Unodc, su 822 casi di sequestro di cocaina in aeroporti europei nel 2006, 122 (vale a dire il 13 per cento) riguardavano voli provenienti dall’Africa, di questi 117 provenivano dalla regione occidentale. Tra tutte le sostanze, se il khat è il protagonista indiscusso (nella produzione e nel consumo) nell’Africa orientale, l’hashish regna sovrano sulle coste del Marocco, ma è in declino ed è il mercato della cocaina quello in netta ascesa. Nei primi sette mesi del 2007 sono state prese nello spazio occidentale africano 4 tonnellate di cocaina, contro le 2 tonnellate del 2006. Istituzioni deboli, incapaci di garantire il rispetto delle leggi hanno favorito, negli ultimi anni, la creazione di network criminali ed il loro raccordo anche con organizzazioni transoceaniche. Come evidenziato negli ultimi report Unodc ed in alcuni articoli di esperti internazionali, si sono sviluppate diverse strutture operative del narcotraffico, divisibili in tre grandi gruppi: quello degli attori stranieri (in particolare colombiani, venezuelani, messicani, francesi, libanesi, spagnoli ed italiani) che controllano il territorio attraverso diversi “cartelli”; quello dei trafficanti locali (per lo più della Nigeria e del Ghana) connessi con corrieri locali che rivendono i prodotti in arrivo dalle coste americane; quello di operatori indipendenti (sia europei che africani) che si propongono come “imprenditori” e si inseriscono privatamente e con propri investi-

menti iniziali nella catena. Il vero problema sotteso al traffico di stupefacenti è quello di un raccordo con la corruzione locale, con la gestione dei traffici illeciti, con la tratta degli esseri umani, con il controllo della prostituzione, con la vendita delle armi. Non solo raccordo, purtroppo anche alimentazione di questi centri che minano lo sviluppo africano e non gli permettono di decollare, di inserirsi in un circolo virtuoso, di entrare come protagonista nell’economia globale. È inoltre breve il passo che ricollega il traffico di droga al diffondersi dell’Aids: l’uso di una stessa siringa è facilmente prevedibile in situazioni d’estrema povertà ed indigenza. I rischi, che si ripercuotono sul settore sanitario e sociale, sono quindi ancor più evidenti e gravi di quelli indicati precedentemente. Il posizionamento del continente come nuovo attore di riferimento nel traffico della droga è già stato preso in considerazione dalle organizzazioni africane, che hanno provveduto a promuovere diverse conferenze e numerose iniziative per contrastare il fenomeno. Il primo documento di rilievo può senz’altro essere identificato nel Piano d’azione sul controllo delle droghe adottato nel 1996 da Organizzazione per l’unità africana. Tale testo è stato discusso e perfezionato in occasione della prima Conferenza ministeriale dell’Unione africana sul controllo della droga, svoltasi a Yamoussoukro (Costa d’Avorio) nel 2002 e della seconda conferenza panafricana di Mauritius nel 2004. Sulla medesima scia, lo scorso dicembre si è svolta a Addis Abeba la terza edizione della conferenza «for drug control and crime prevention», co-organizzata dal Dipartimento degli affari sociali, da quello della pace e sicurezza e da quello degli affari politici dell’organizzazione panafricana. Tra gli incontri promossi su piano regionale, non sfugge il lavoro del Cilad, l’apposito Comitato interministeriale di lotta anti-droga, creato in ambito della Cedeao (Communauté économique des Etats de l’Afrique de l’Ouest), il cui ottavo incontro si è 93


Risk svolto dal 3 al 6 settembre a Ouagadougou con lo scopo di elaborare un piano d’azione rafforzato per rispondere alle minacce che gravano sulla regione. Cosa potrebbe servire effettivamente per interrompere il circuito? In quale modo è possibile disinnescare questo processo che potrebbe danneggiare ulteriormente il continente? Sfortunatamente non ci sono ricette magiche. Non si può, ad esempio, parlare della necessità di una maggiore governance perché dove questa è forte prospera ugualmente il mercato degli stupefacenti (vedi gli Stati Uniti). Certamente è necessaria una maggiore cooperazione tra le polizie internazionali, un raccordo tra le forze dell’ordine dei Paesi americani, europei, africani ed asiatici. Nel combattere i corrieri internazionali della droga, possono aiutare donazioni di equipaggiamenti e kit di drug testing (come fatto nel luglio 2007 dal governo inglese nei confronti Nigeria drug law enforcement Agency - NdleA) ma soprattutto sono essenziali programmi di capacity building, formazione e trasferimento di know how (codici di sicurezza per controllo merci e vettori in strutture a rischio). È questa l’unica vera cooperazione concreta che può servire all’Africa, non altro. 94


scacchiere

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la libreria


LE AFFLIZIONI TRIBALI IN MEDIO ORIENTE Per quale motivo il Medio Oriente è così tanto in conflitto con la vita moderna, ritardatario in ogni cosa dall’alfabetizzazione agli standard di vita, dalle capacità militari allo sviluppo politico? Un accurato volume fresco di stampa, scritto da Philip Carl Salzman, docente alla McGill University, dal titolo illusoriamente chiaro Culture and Conflict in the Middle East (edito Prometheus) offre un’ardita e originale interpretazione dei problemi che affliggono il Medio Oriente. Da antropologo, Salzman inizia con il delineare due schemi di massima: l’autonomia tribale e il centralismo tirannico che dominano storicamente il Medio Oriente. Il primo paradigma, arguisce l’autore, è una peculiarità della regione e ne costituisce un elemento chiave di comprensione. L’autogoverno tribale si fonda su ciò che Salzman definisce «l’opposizione bilanciata», un meccanismo attraverso il quale quei mediorientali che vivono nei deserti, sulle montagne e nelle steppe si preservano la pelle facendo affidamento sui loro estesi nuclei familiari. Questo sistema estremamente complesso e ingegnoso si riduce a ogni persona che fa affidamento su parenti dal lato paterno (chiamati agnati) per la propria tutela e a gruppi di agnati delle stesse dimensioni che si fronteggiano. In questo modo, un nucleo familiare si scontra con un altro nucleo familiare, un clan è in contrasto con un altro clan e così via dicendo fino a livello metatribale. Un celebre adagio mediorientale riassume in tal modo questi scontri: «Io contro mio fratello, io e i miei fratelli contro i miei cugini, io e i miei fratelli, insieme ai miei cugini, contro il mondo». Dal lato positivo, la solidarietà di affiliazione prevede un’indipendenza dignitosa dagli

Daniel Pipes

Philip Carl Salzman Culture and Conflict in the Middle East Prometeus pp. 250 • $ 34,95 La cultura per meglio comprendere il puzzle mediorientale. La fitta rete di architetture tribali che regolano i rapporti personali come quelli “politici” sono lungi da essere superati e sostituiti dalle moderne dinamiche dello state bulding. È questa, in estrema sintesi la cifra per comprendere il lavoro di Salzman. «Io contro mio fratello, io e miei fratelli contro i miei cugini, io i miei fratelli, insieme ai miei cugini, contro il mondo» è un altro passaggio del libro che ci immerge nella umma culturale di un islam molto lontano dall’Occidente.

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Risk Stati repressivi. Il lato negativo è che ciò implica un interminabile conflitto; ogni gruppo ha molteplici nemici giurati e spesso le faide vanno avanti per generazioni. L’autonomia tribale guida la storia mediorientale, come osservava oltre sei secoli fa il grande storico Ibn Khaldum. Quando un governo vacillava si costituivano delle ampie confederazioni tribali, le tribù lasciavano le aride zone desertiche e assumevano il controllo delle città e dei terreni agricoli. Una volta impossessatesi dello Stato, le tribù sfruttavano implacabilmente il proprio potere per promuovere i loro stessi interessi, profittando in modo crudele delle popolazioni asservite, finché a loro volta esse incespicavano e il ciclo ricominciava. Lo sforzo di Salzman sta nell’ammodernamento del pensiero di Ibn Khaldum, nel dimostrare come lo schema binario dell’autogoverno tribale e del centralismo tirannico continui a dominare la vita in Medio Oriente e ad utilizzarlo per spiegare le caratteristiche maggiormente peculiari della regione, come l’autocrazia, la crudeltà politica e la stagnazione economica. Esso spiega altresì la guerra di annientamento contro Israele e, più in generale, «i confini insanguinati» dell’Islam: la diffusa ostilità verso i non musulmani. Lo schema binario spiega perfino gli aspetti chiave della vita familiare dei mediorientali. Salzman arguisce che l’imperativo di aggregare il maggior numero di agnati rispetto al numero messo insieme dai vicini implica l’elaborazione di tattiche per ottenere la superiorità numerica sulla progenie maschile. Ciò ha varie implicazioni: dare in matrimonio le figlie a cugini, come un modo per la famiglia di trarre beneficio dalla loro fertilità. Praticare la poliginia, in modo da beneficiare della fertilità di molteplici donne. Tenere d’occhio le donne di altre famiglie, con la speranza di coglierle in flagrante in un atto immorale, costringendo in tal modo i loro uomini a ucciderle e a rinunciare alla loro fertilità. Questo ultimo punto sta a indicare che l’opposizione bilanciata spiega 98

ampiamente la notoria usanza mediorientale del «delitto d’onore», in nome del quale i fratelli uccidono le sorelle, i cugini ammazzano le cugine, i padri eliminano le figlie e i figli abbattono le madri. È significativo il fatto che la mancanza di discrezione delle donne sia tollerata all’interno della famiglia e che induca ai delitti quasi esclusivamente nel caso in cui via sia una fuga di notizie al di fuori dell’ambito familiare. In linea di massima, l’opposizione bilanciata implica che il Medio Oriente manchi di principi astratti con cui quantificare le azioni «contrarie ai criteri generali, a prescindere dall’affiliazione di particolari attori». Piuttosto, il forte particolarismo comporta che un membro della famiglia appoggi un parente più stretto contro uno più lontano, senza badare a chi abbia torto. I membri delle tribù e i sudditi abitano la regione, e non i cittadini. Il fatto che la maggior parte dei mediorientali nutre questa mentalità del «noi contro loro» condanna l’universalismo, la supremazia della legge e il costituzionalismo. Intrappolate in questi schemi vetusti, Salzman scrive, le società mediorientali «vanno male per quanto concerne i più comuni criteri sociali, culturali, economici e politici». Dal momento che la regione non riesce a modernizzarsi, essa rimane regolarmente ancora più indietro. Essa può evolversi solo infrangendo l’arcaico sistema della solidarietà di affiliazione. «Ciò è fattibile non attraverso il rimpiazzo dei gruppi tradizionali con dei gruppi concepiti in modo nuovo (come i partiti politici), bensì tramite il rimpiazzo dei gruppi con gli individui». Ma l’individualismo farà dei passi in avanti tra i mediorientali solo quando «ciò a cui essi sono favorevoli sarà più importante di ciò che rigettano».Per la realizzazione di questo cambiamento basilare potrebbero occorrere decenni o perfino secoli. Ma la profonda analisi di Salzman rende possibile comprendere la strana malattia sociale di quella regione e individuarne la soluzione.


libreria

LE VICENDE DELLA “MONTEROSA” La divisione alpina: un’intera classe di coscritti deliberatamente ceduta ai tedeschi dopo il ‘43

Mario Arpino volontari, molti giunsero al campo d’addestramento di Muensingen l 9 ottobre 1943, un mese dopo (Baden-Wuerttemberg) dalla Francia, l’annuncio armistiziale, il generale dai Balcani e, per libera scelta, dai Rodolfo Graziani, assieme al colon- campi di concentramento in nello tedesco Eugen Dollmann, Germania già alla fine di ottobre e decollava dall’aeroporto di Guidonia, nelle prime settimane di novembre diretto al quartier generale di Hitler 1943. La divisione alpina «Monteper chiarire la questione della costitu- rosa», pur essendo la prima grande zione delle Forze armate della neona- Unità a costituirsi (Pavia, 1° gennaio ta Repubblica sociale italiana. Dopo 1944) assunse la denominazione di lunghe trattative, si giunse all’accor- 4ta divisione, dopo la 1ma divisione do che ufficiali e sottufficiali avreb- bersaglieri «Italia», la 2da divisione bero dovuto essere tutti volontari, granatieri «Littorio» e la 3za divisione mentre la truppa, volontari o coscrit- di fanteria di marina «San Marco». ti, doveva essere scelta tutta tra ele- Non è male qui ricordare che per menti giovani, proveniente dalle clas- volontà dello stesso Graziani, allora si 1924, ultimo trimestre, e 1925. ministro delle Forze armate della Rsi Tutti, reclute e quadri, avrebbero gli articoli 18 e 19 della «legge costidovuto essere sottoposti ad un ciclo tutiva dell’Esercito nazionale repubcompleto di addestramento in blicano» ne imponevano l’assoluta Germania, vuoi per motivi pratici, apoliticità e prevedevano espressavuoi per costituire una parziale garan- mente che i militari, sino a quando in zia almeno contro il ripetersi di un servizio attivo, non potessero iscrivoltafaccia. Di fatto, fu deliberata- versi al Partito fascista repubblicano. mente ceduta un’intera classe di Il 1mo Reggimento della Monterosa coscritti nelle mani dei tedeschi. È lo comprendeva i battaglioni alpini stesso Graziani ad ammetterlo (atti «Aosta», «Bassano» e «Intra». Al del processo, disponibili all’archivio rientro dalla Germania, dopo lo sbardi Stato) quando afferma che «(...) co degli Alleati nella zona tra Cannes per un accordo con i tedeschi la rior- e Tolone (15 agosto 1944), il Basganizzazione doveva avvenire in sano, e nel marzo successivo anche Germania. Essi lo vollero, per il timo- l’Aosta, furono schierati sul confine re che si creassero minacce alle loro nella zona tra l’Argentera e il spalle» e nell’eventualità che si veri- Monviso, per l’eventuale contrasto ficasse «un nuovo tradimento». Tra i alle forze franco-americane che pro-

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CLAUDIO BERTOLOTTI Storia del Battaglione Bassano Divisione alpina Monterosa Rsi, 1943-1945 Lo Scarabeo pp. 260 • € 21,50 La storia del battaglione alpini «Bassano»: dalla provincia di Vicenza, sede storica, all’addestramento in Germania, fino allo schieramento in Liguria per contrastare lo sbarco alleato in Provenza, al fronte alpino occidentale e nelle valli Varaita e Maira. Dalla guerra combattuta contro un nemico in divisa, alla più atroce delle situazioni, come la guerra civile. Le pagine di questo libro avvicinano la verità su alcuni avvenimenti grazie a un grande lavoro di ricerca, superata la retorica di uno storicismo ideologico e di parte. Bertolotti ha così messo in discussione vicende ed episodi fino ad oggi ritenuti non discutibili. Nel libro non si parla di avvenimenti che condizionarono le sorti della guerra, ma di singoli individui che fecero una scelta o che furono travolti dagli eventi. Giovani o uomini maturi che si trovarono a condividere un momento decisivo della loro esistenza. Una ricerca, approfondita e dettagliata fino alla descrizione d’azioni e comportamenti di pochi uomini, che vuole richiamare l’attenzione su tutti quei reparti militari che combatterono per un senso del dovere che oggi risulta difficile capire, ma che allora rappresentava il bagaglio culturale di una intera generazione.

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Risk cedevano verso nord-est. Qui rimasero sino alla fine della guerra. La storia della divisione Monterosa è già stata scritta, e la documentazione non manca. Ma riscrivere la storia, magari in chiave revisionista, non era certo nelle intenzioni dell’autore, anche se la sua ricerca, approfondita e vasta, mette di frequente in discussione vicende ed episodi sinora ritenuti intoccabili e inattaccabili. Non si trattava, come asserisce lo stesso Bertolotti, di scrivere un libro che esplori il quadro strategico globale, con dovizia di concetti operativi e grandi unità in movimento su teatri a largo respiro, ma di arrivare a comprendere stati d’animo e motivazioni di scelte individuali, che tuttavia hanno ancora oggi un impatto riflesso nel modo di fare politica nel nostro Paese. Per arrivare a questo, seguire il profilo del Diario storico del battaglione Bassano, e ricercare conferme tentando di intervistare, in Italia e all’estero, i superstiti delle vicende nelle valli piemontesi Varaita e Maira è stato lavoro lungo, paziente, ma certamente ben rispondente allo scopo preposto. Non mancano certo riflessioni a carattere generale, ma queste sono più spesso lasciate alla cultura, al modo di intendere ed alla sensibilità del singolo lettore, che su queste strade accidentate Bertolotti riesce a portare per mano. Io stesso, che all’epoca dei fatti ero un ragazzino di otto anni che viveva in una regione diametralmente opposta in termini geografici, il Friuli nordorientale, leggendo mi sono a volte deconcentrato per frugare nella memoria, alla ricerca di analogie nelle sensazioni, nei fatti e negli eventi. Come, d’altro canto, si scopre a fare lo stesso autore, giovane poco più che trentenne, quando alpino nei Balcani e successivamente in Afghanistan, si accorge che aver provato di persona la paura dell’imboscata, o il timore di essere sotto il tiro di un cecchino, sono preoccupazioni che solo chi è stato in zona di operazioni può comprendere, avvertire e condividere. «Questa esperienza», racconta, «ha contribuito in parte a capire meglio lo stato d’animo di chi allora ebbe tali sensazioni e desiderava 100

soprattutto tornare a casa dai propri cari, vivo». Nel libro, infatti, non si parla di avvenimenti che condizionarono le sorti della guerra, ma di uomini, singoli individui che fecero una scelta o che, al di fuori dalla loro volontà, furono travolti dagli eventi. Coinvolgente, specie per il lettore che abbia almeno un’infarinatura di cose militari, è tutta la descrizione degli eventi che segnarono quei venti mesi di guerra. Dura, spietata e dolorosa è l’analisi degli accadimenti degli ultimi giorni, dove si vede come fosse sbagliata la convinzione di chi sperò, trattando, di ottenere condizioni più favorevoli da parte dei partigiani italiani piuttosto che dagli alleati: errore di valutazione pagato caro perché, oltre all’inganno e alla beffa, alcuni prigionieri furono trucidati con processo sommario quando era già in vigore il divieto di procedere con tali sbrigative procedure. A questo proposito, fa rabbrividire leggere la documentazione allegata, tratta da copie originali. Il libro, concepito in modo organico, logico e scritto in modo scorrevole, si articola in undici capitoli, di cui i primi quattro, che trattano della situazione prima e durante gli eventi dell’8 settembre, del momento delle scelte, della Monterosa e della storia del Bassano, possono considerarsi una sorta di ampia premessa. Di particolare rilievo, soprattutto per i lettori più giovani, che possono avere qualche difficoltà nell’inquadrare problematiche il cui significato sinora è giunto loro alterato, è il capitolo dedicato alle «scelte». Sono solo otto pagine, che meritano però attenzione e meditazione. Il quinto capitolo, che in una dozzina di pagine descrive l’addestramento in Germania, è trattato dall’autore con evidente competenza professionale. Ricco di fotografie e di particolari inediti, è di estremo interesse sotto il profilo tecnico-addestrativo, soprattutto per i già “iniziati”. I successivi quattro capitoli, dal sesto al nono, entrano nel vivo del ciclo operativo del battaglione Bassano durante il suo schieramento a nord-ovest, in prossimità del confine, con grafici e pagine inedite sui combat-




libreria timenti con i francesi di De Gaulle, sostenuti dagli sbarchi americani di agosto 1944, e con i particolari dei primi scontri con le forze partigiane italiane, in un clima di ambiguità e incertezza. Orrore di una guerriglia, italiani contro italiani, alla quale non avevano mai pensato e non erano psicologicamente preparati, che faceva ritener loro privilegiati quegli italiani che, da entrambe le parti, combattevano con la stessa asprezza sulla Linea

gotica, ma contro eserciti stranieri che stavano calpestando la loro terra. Gli ultimi due capitoli rappresentano l’epilogo e la resa, che tuttavia costarono più morti degli stessi combattimenti. Claudio Bertolotti è nato a Cuneo nel 1975. Ufficiale degli alpini, laureato in Storia Contemporanea all’Università di Torino, è ricercatore appassionato e sostenitore del confronto culturale tra Occidente e Islam moderno.

IL NAUFRAGIO DELLE AMBIZIONI DEL SOL LEVANTE Una visione d’insieme del trapasso dei poteri tra il Giappone e le potenze vincitrici della II Guerra mondiale Andrea Tani messe di documentazione inedita, in gran parte frutto di memorialistica recentemenuesto avvincente libro sviluppa un te pubblicata e dell’apertura di archivi argomento - il trapasso dei poteri fra nazionali. In quasi tutti gli scacchieri coinil Giappone e le potenze vincitrici nell’im- volti si trattò di una vicenda analoga: mediato dopoguerra asiatico - che è poco annuncio inaspettato dell’armistizio; fretconosciuto in Europa, almeno nei Paesi tolosa messa in opera di un dispositivo non coinvolti nella riconquista delle pro- militare alleato che consentisse il salvatagprie colonie asiatiche occupate dalle arma- gio dei propri prigionieri di guerra allo te del Tenno. E anche in questo caso, ognu- stremo, il disarmo dei giapponesi e - per le no conosce i casi che lo riguardano - i fran- potenze coloniali - il ripristino della potecesi l’Indocina, gli inglesi la Malesia, gli stà imperiale; fallimento delle varie iniziaolandesi l’Indonesia - ma in genere solo tive, in genere per scarsa consapevolezza quelli. Una visione d’insieme mancava, delle situazioni locali e insufficienza delle almeno per il grande pubblico. Nel colma- risorse assegnate; infine collasso di qualre la lacuna Ronald Spector - autore fra siasi fonte d’autorità nei Paesi interessati. l’altro di Eagle against the sun, una essen- Nei vari caos che seguirono s’innescò un ziale ricerca sulla guerra del Pacifico ‘41- po’ dovunque - quando non era già in ’45 - analizza gli eventi seguiti alla resa corso - una catena di focolai insurrezionali dell’impero nipponico in Estremo Oriente, di tutti contro tutti, attizzati in genere dalle con l’appoggio di una impressionante organizzazioni comuniste appoggiate da

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RONALD H. SPECTOR In the ruins of empire The Japanese surrender and the battle for postwar Asia Random House. pp. 358 • $ 27,95 A sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale l’Asia continua ad essere influenzata dalle sue conseguenze. Al contrario dell’Europa che ha cercato di superare gli errori del passato creando istituzioni che la unificassero economicamente e politicamente, l’Asia sembra abbia voluto seguire un’altra strada. L’autore sostiene che nel primo anno successivo la sconfitta del Giappone si sia determinato il futuro di tutta l’area e che sia stato in larga parte gestito male dalle potenze alleate vincitrici. Wishfull thinking e buone intenzioni hanno lastricato la strada di molti insuccessi dell’Occidente in Asia, dal confronto fra nazionalisti e comunisti in Cina, alla gestione dei conflitti indocinesi. È un po’ questo il leit motiv del libro di Spector anche secondo una bella recensione uscita sulle colonne di Commentary dello scorso agosto. «Tutti gli eventi chiave per gli sviluppi successivi in Asia accaddero dopo il 1947 e nessuno fu preordinato» è uno dei pochi accenni critici della rivista neocon al lavoro di Spector che viene comunque considerato un’eccellente opera d’analisi storica.

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Risk Mosca. I militari giapponesi, tutt’altro che disarmati, rimasero sullo sfondo e vennero spesso utilizzati dagli Alleati o dall’una o dall’altra fazione per appoggiare le proprie operazioni (non pochi disertarono e si unirono alle varie guerriglie nazionaliste). Il risultato complessivo fu lo stabilirsi di una caotica conflittualità fra i movimenti di liberazione e i loro nemici endogeni o esterni, con un esito quasi sempre favorevole ai primi, seppure con diverse modulazioni. Raramente si verificò un pareggio, che in genere si formalizzò in una ripartizione delle varie zone di influenza lungo confini geografici conquistati con le armi o con diktat diplomatici. Le popolazioni furono le principali vittime di questi sconvolgimenti. Per loro si sarebbe trattato di un periodo più duro di quello dell’occupazione giapponese e delle stesse vicende belliche che l’avevano preceduta, quasi incruente per i civili (a parte la notevole eccezione della guerra in Cina). Ma proviamo a puntualizzare brevemente il susseguirsi degli eventi. Per la storia e anche per il comune sentire la Seconda Guerra Mondiale finì il 14 agosto 1945, la data fatidica che segnò il naufragio delle ambizioni egemoniche del Sol Levante. Per molti Paesi asiatici assoggettati alla cosiddetta Sfera di Co-prosperità Asiatica stabilita dai governanti di Tokio nel 1942 l’epilogo fu assai diverso. Se pace vi fu, in quel lontano agosto, essa fu breve ed effimera. Nei casi peggiori, non si sarebbe consolidata che dopo una trentina d’anni (Vietnam), o addirittura neanche oggi, almeno sul piano formale, come nel caso della penisola coreana e di Taiwan. Nel sud dell’Indocina e nell’isola di Giava, al tempo Indie Orientali Olandesi, la sospensione delle ostilità durò meno di due mesi. In Cina meno di un anno. Nel Tonchino quindici mesi, in Corea tre anni. La ragione per un esito così fallimentare del dopoguerra asiatico, completamente differente a quello del suo omologo europeo, risiedono - secondo l’autore - nel formidabile scontro di opposti interessi geopolitici e pretese di legittimità, accentuato da una disastrosa gestione della transizione dei poteri. Giocarono un ruolo importante anche la divergenza di strategie ed interessi fra gli alleati occidentali - Stati Uniti. Gran Bretagna&dominions, Francia e Olanda - nel loro ambito e nei confronti della 104

straripante Unione Sovietica. Tutti si accapigliavano per acquisire di zone di influenza che oltre a salvaguardare per alcuni le rispettive vestigia imperiali dalla predazione delle nuove superpotenze “acronimiche”, Usa e Urss, preconizzavano una imminente guerra fredda. Sul campo risultarono decisive la scarsa comprensione delle specificità locali da parte dei nuovi occupanti (quasi comica è la descrizione della pretesa dei marines americani sbarcati in Corea di orizzontarsi con il solo ausilio di alcune vecchie carte turistiche, ripiegando poi, come guide, sui soldati giapponesi da rimpatriare e relativi collaborazionisti coreani) nonché l’inadeguatezza logistico-operativa delle forze destinate alla presa di controllo dei vari territori e al disarmo delle armate di occupazione. Ovvero il meglio dell’esercito imperiale, milioni di orgogliosi guerrieri mai sconfitti in battaglia e quindi potenzialmente forieri di problemi, che poi non ci furono, proprio per la compattezza militare e la tenuta gerarchica dei reparti. Fu l’unica cosa che non andò storta. Niente di nuovo sotto il sole - l’autore sottolinea più volte - rispetto a vicende molto vicine ai contemporanei, come i primi rovinosi anni della recente occupazione americana dell’Iraq, i quali sembrano riacquistare una loro “normalità” storica nel solco di una consuetudine che vede gli eserciti dare il meglio di sé nelle campagne di conquista piuttosto che nelle stabilizzazioni successive, sempre più complicate e problematiche. Almeno gli eserciti attuali, dato che nell’antichità si è visto di meglio, forse perché le dinamiche erano più lente, le nazioni da soggiogare meno vaste e complesse, e i condizionamenti etici e umanitari decisamente inferiori (i media e le opinioni pubbliche non esistevano). È centrale, nell’opera di Spector, la descrizione approfondita delle specifiche peripezie dei cinque Paesi protagonisti. In Cina i “liberatori” sovietici devastarono la Manciuria, brutalizzarono la popolazione civile e depredarono il tessuto economico di quella che era una delle regioni più sviluppate dell’Asia, la perla delle colonie giapponesi sul Continente. Poi consegnarono quello che rimaneva a Mao Tse Tung. La lotta fra nazionalisti e comunisti si era riaccesa, dopo la relativa stasi determina-


libreria ta dalla resistenza comune all’invasore nipponico, e avrebbe di lì a poco dato luogo alla resa dei conti finale. Gli americani tentarono una mediazione, impegnando le loro migliori risorse organizzative e professionali, fra le quali il generale George Marshall, prestigioso capo di Stato maggiore dell’Us Army in guerra e di lì a poco segretario di Stato, che fu inviato in missione in Cina. Fallirono completamente e persero per sempre il Paese per il quale erano entrati in guerra contro il Giappone. Marshall ci rimise quasi la reputazione e l’imminente carriera politica. Nel Tonchino indocinese un movimento politico indipendentista che inneggiava strumentalmente alla falce e martello per assicurarsi utili appoggi internazionali, senza subire soverchi condizionamenti internazionalisti, driblò abilmente fra giapponesi, americani, inglesi e revanscisti francesi per raggiungere i suoi obbiettivi. Il leader nazionalista, il carismatico artefice del risorgimento vietnamita Ho ci Min alla fine trionfò sui soldati francesi, valorosi, ma frustrati anche perché comandati da boriosi proconsoli completamente d’antan che contribuirono non poco alla sconfitta finale. Il trionfo sarebbe stato completo un quarto di secolo più tardi, contro altri soldati valorosi comandati da leader inadeguati. In Indonesia gli olandesi non riuscirono neanche a conseguire quella temporanea riappropriazione formale che i francesi e i britannici avevano conseguito, fugacemente i primi in Indocina e con qualche spessore i secondi in Malesia, che fu l’unico scacchiere dove gli europei non subirono una sconfitta sul campo. La vittoria della counter-insurgency dell’Union Jack viene ancora studiata nelle scuole di guerra, e citata come uno dei pochi esempi nei quali una controguerriglia riuscì a conquistare gli «hearts and minds» della popolazione civile, ovvero del mare nel quale maoisticamente nuotano i pesci rivoluzionari. Ma l’esito finale non fu molto diverso da quelli degli altri, come gli spietati metodi impiegati per cercare di evitarlo. Di lì a poco lo stesso Union Jack sarebbe stato ammainato dai pennoni malesi. Singapore sarebbe rimasta come base della Royal Navy fino agli anni Sessanta nel quadro del containment antisovietico e anticinese della guerra fredda, venendo utilizzata anche come scudo

della neonata Malaysia dalle mire indonesiane (“Konfrontasi” del 1963-65). Più che l’ultimo hurrah del Leone britannico, finì per diventare uno strumento al servizio della nuova egemonia yankee. In Corea, infine, la guerra fredda ebbe inizio da subito, senza la patetica sceneggiata della tentata riconquista della potenza coloniale, a sua volta colonizzata dal generale Mac Arthur. I sovietici occuparono il Paese da nord, più o meno fino al 38esimo parallelo, e lo stesso fecero gli americani, da sud. Entrambe le operazioni dettero luogo ad una tale accumulazione di tensioni e fraintendimenti da far considerare lo scoppio della guerra del 1950 come un epilogo inevitabile. Tutte le vicende descritte furono condizionate dalla personalità dei leader coinvolti, che l’autore descrive con molta incisività e un tratto sicuro: Truman, Mao Tse Tung, Mountbatten, Marshall, Sukarno, MacArthur, Ho Chi Min, Chang-kai-Shek, Donovan, Leclerc, Chu-en-lai, Gunther, d’Argelieu e molti altri. Spesso gli avvenimenti presero una piega o l’altra a seconda del manico, del carisma o dell’ intuizione dei vari decisori, anche se nei vari scacchieri le possenti forze della storia travolgevano ogni cosa e le masse asiatiche facevano sentire la loro energica spinta sia su coloro che le assecondavano che sulla retroguardia ottocentesca che non aveva capito nulla. Questo enorme insieme d’accadimenti concretizzò uno dei passaggi più cruciali che l’Asia abbia affrontato nella sua storia. Influenzò in modo determinante lo sviluppo del sessantennio successivo, non solo in Oriente. La vicenda nucleare della Corea del nord è erede diretta di quei lontani fatti e così il contenzioso fra la Cina e Taiwan, senza parlare della guerra del Vietnam e delle conseguenze della vittoria comunista a Pechino, che riverberano ancora oggi. Se per l’assetto dell’Europa furono cruciali soprattutto gli anni delle guerre mondiali - per qualche Paese le fasi finali della Seconda, caratterizzata dalla politicizzazione del conflitto, nonché, più tardi, la caduta del muro di Berlino - nel lontano Oriente fu decisivo quello che successe all’indomani della fine delle ostilità. È un gran merito di Spector, fra i tanti di questa opera, quello di aver messo in luce questa non evidentissima realtà 105


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UNA NUOVA CAMPAGNA D’ITALIA

Occupando le colonie francesi, l’Europa del Sud divenne la base d’attacco alla potenza germanica

RICK ATKINSON The Day of Battle. The War in Sicily and Italy 1943-1944 Henri Holt & Company, pp. 791 • $ 35,00 È il secondo volume di una trilogia dedicata alla liberazione dell’Europa (The Liberation Trilogy) durante il Secondo conflitto mondiale. Narra la storia della risalita delle armate inglesi, americane e canadesi dalla Sicilia fino alla capitale. «Monumentale… con questo libro, Rick Atkinson consolida la sua posizione fra gli storici più popolari d’America, nella tradizione di Bruce Catton e Stephen Ambrose», un commento tratto dalla recensione pubblicata sul Washington Post, testata per cui l’autore ha lavorato a lungo come corrispondente e redattore. Per le forze americane la campagna d’Italia fu la svolta intermedia della guerra, che inevitabilmente risentì della strategia che puntava tutto sullo sbarco in Normandia per arrivare nel cuore della Germania nazista. L’operazione Husky, l’invasione della Sicilia – che causò la caduta del governo di Mussolini - fu un successo che portò alla vittoria in poche settimane il generale Harold Alexander, sotto il cui comando congiunto operarono George Patton e Bernard Montgomery, cui fece seguito una serie d’errori che permisero al grosso delle truppe tedesche di ritirarsi attraverso lo stretto di Messina, grazie anche alla Marina italiana, e riorganizzare una difesa dello stivale che rese complicata la risalita delle truppe alleate.

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Ludovico Incisa di Camerana battaglia delle Ardenne. La stasi per quasi un anno sul fronte italiano, Le campagne militari svolte dagli danneggerà l’Italia, inasprendo la Stati Uniti nell’ambito della Seconda guerra civile interna. La rinuncia a guerra mondiale non seguono lo stes- fare dell’Italia la base militare di so modello del loro intervento nella un’Europa liberata dall’egemonia Prima guerra mondiale, centralizzato tedesca e nel contempo sostegno nel territorio del basso Reno, del con- della regione meridionale balcanica, fine franco-tedesco, modello che tramonta nel rallentamento della subordina all’esito in tale area quello campagna d’Italia e nell’assoluta dei confronti armati nella periferia assenza nella struttura politica e milidel continente europeo e delle rivali- tare degli alleati anglo-sassoni di tà dei maggiori Paesi occidentali progetti sul compito da assegnare nella lontana Asia. Nella Prima guer- all’Italia, salvo l’unico effetto positira mondiale l’intervento americano si vo: l’imposizione della conversione presenta come un supporto di allean- alla democrazia, già accettata senza ze già vincenti, come un fattore di discussione dal governo italiano accelerazione della vittoria della coa- legale. Il quasi suicidio dell’Italia, lizione franco-tedesca. Nella vittima della «resa senza condizioni» Seconda guerra mondiale accade il imposta dagli alleati anglo-sassoni, contrario: sono gli Stati Uniti che, con l’armistizio del settembre 1943, occupando le colonie francesi farà dell’Italia un elemento del tutto dell’Africa mediterranea, nel 1943, secondario nell’attrezzatura dell’ascon la conquista dell’ultimo caposal- setto europeo alla fine della Seconda do italo-tedesco, la Tunisia, sembra- guerra mondiale, dopo aver assistito no dimostrare l’intenzione di elegge- con assoluta impotenza allo scempio re come base d’attacco alla potenza del proprio territorio, adoperata come germanica l’Europa del Sud. Questa campo di battaglia dagli eserciti intenzione viene confermata dallo occupanti, guidati militarmente nel sbarco in Sicilia e dal crollo militare campo occidentale da professionisti dell’Italia, ma proprio, quando mediocri e senza idee sulle sorti futurespingendo i tedeschi, è liberata re della penisola, come i personaggi Roma, viene annunciato lo sbarco in che avrebbero dovuto definire, fin Normandia. Fronte classico del con- dal momento dell’armistizio, il ruolo flitto generale torna ad essere il Nord di un’Italia più libera. A suo tempo la dell’Europa, teatro della disperata diplomazia italiana quando si delinea controffensiva della Germania con la la sconfitta militare cerca di rafforza-


libreria re i propri legami con i Paesi balcanici, in particolare con l’Ungheria e la Romania, in vista di un distacco comune dall’alleanza contro la Germania, evitando, con il passaggio alla pace con le potenze occidentali, la caduta dell’Europa orientale nell’orbita di un’Unione Sovietica ancora in fase difensiva. La verità è che con uno sbaglio monumentale Stati Uniti e Gran Bretagna, appoggiati dalla Francia gollista, decisero la priorità dell’Europa occidentale della valle del Reno, abbandonando all’Urss parte della Germania, la Polonia, la Cecoslovacchia, insomma, gettando le basi di mezzo secolo di confronto aperto tra l’Europa dell’ovest e l’Europa dell’est. Una decisione questa, che fin dall’estate del 1943, dall’invasione della Sicilia e dallo sbarco nella Penisola, riduce al minimo sia il ruolo della diplomazia italiana sia l’impiego delle forze armate residue. Gli aspetti negativi della campagna d’Italia, la noncuranza dei bombardamenti per la popolazione civile e per le opere d’arte, le difficoltà frapposte alla ricostruzione del nostro esercito, le umiliazioni subite dalle nostre popolazioni per i soprusi di formazioni mercenarie coloniali, inducono ad approfon-

dire gli aspetti di una guerra che, dopo l’armistizio del ’43, è prevalentemente straniera, come risulta recentemente dalla ricostruzione dedicata dallo storico americano Rick Atkinson alla guerra in Sicilia e nell’Italia peninsulare. Purtroppo il ruolo delle forze tedesche e dei loro capi militari è talmente alimentato e privilegiato dagli avversari sia americani che inglesi da minimizzare una manovra come il traghettamento, organizzato dalla Marina italiana, di intere divisioni tedesche e italiane nello stretto di Messina. Un episodio che ricorda la tanto decantata impresa di Dunkerque. Viceversa Atkinson trascura la partecipazione militare italiana nella difesa del territorio. Solo alcune unità italiane, come la divisione Livorno impegnata nella battaglia di Gela, vengono citate sotto l’ombra della preponderanza tedesca. Risultano infine tendenze che si sono ripetute in eventi bellici più recenti: la riluttanza degli eserciti americani ad assumere strategie a tempi lunghi. Si conta sempre di sbrigarsela al più presto, come si voleva fare ancora a Kabul e a Bagdad. Viceversa si rischia come era accaduto nelle guerre in Italia a lunghe ed incontrollabili attese, ritardando il risultato definitivo. 107


La storia

AVANTI SAVOIA, PER LO ZAR di Virgilio Ilari ncora negli anni Sessanta del secolo scorso, tra gli argomenti della propaganda anticomunista c’era la profezia di Nostradamus sui cavalli dei cosacchi che si sarebbero un giorno abbeverati a piazza San Pietro. In realtà, a parte il Coro dell’Armata rossa e qualche collega di Mitrokhin, gli unici militari russi arrivati a Roma per servizio furono 800 religiosissimi marines greco-ortodossi venuti a piedi da Napoli per restaurare Pio VII: entrarono dalla via Appia il 3 ottobre 1799 e sfilarono dal Campidoglio al Vaticano tra gli applausi dei papalini che inneggiavano allo zar. Questo era ancora Paolo I, che aveva conferito il titolo di “principe d’Italia” al maresciallo Suvorov, comandante dell’Armata austro-russa in Svizzera e Piemonte e dato ospitalità a San Pietroburgo ai cavalieri di Malta scacciati nel 1798 da Napoleone, dei quali si proclamò gran maestro per rivendicare l’arcipelago riconquistato dagl’inglesi. Proprio il rifiuto dell’Inghilterra di restituire Malta all’Ordine gerosolimitano provocò il ritiro della Russia dalla Seconda coalizione e il riavvicinamento alla Francia. Questa politica fu bru-

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storia scamente interrotta dalla brutale uccisone di Paolo I, sof- dunque, la scelta di restare o tornare al servizio austriafocato il 25 marzo 1801 in una congiura di palazzo ordi- co o russo fu molto probabilmente dettata da ragioni ta dal partito europeista e avallata dal figlio ed erede pratiche prima che ideologiche. Alessandro, mentre Kronstadt era sotto la minaccia della squadra inglese comandata da Nelson. François Xavier e Rodolfo de Maistre. In una nota Il primo atto del nuovo zar fu di richiamare i 30mila dei sudditi sabaudi che nel 1813 si trovavano al servizio cosacchi che stavano marciando verso la Persia con l’in- russo, redatta a Cagliari da Michaud de Beauretour, sono tenzione di attaccare i domini inglesi in India. Era un elencati altri ventiquattro suoi colleghi (manca però grandioso piano strategico, basato sull’illusione che i Faussone). Il personaggio oggi più famoso è il savoiardo miseri resti dell’Armée d’Orient - in quel momento già François Xavier de Maistre (1763-1852), già ufficiale disfatta dalle epidemie e bloccata in Egitto dall’armata del reggimento «La Marina» nella guerra delle Alpi e di sir Ralph Abercromby - fossero ancora in grado di scrittore. Trasferitosi a Pietroburgo al seguito di Suvorov, riprendere la marcia verso l’India fu valorizzato solo con l’arrivo del lungo la via della Seta. La possifratello Joseph, inviato straordinabilità di un’alleanza globale tra la rio sardo. Addetto al ministero Con la pace Russia e la Francia continuò tutdella Marina e nominato nel 1805 di Tilsit del 1807 tavia a condizionare il corso delle direttore della biblioteca e del sembrò realizzarsi guerre napoleoniche e sembrò di museo dell’Ammiragliato, coml’alleanza globale nuovo realizzarsi con la pace di batté nel Caucaso, dove fu ferito, e Tilsit del 1807. Tra le clausole vi raggiunse il grado di maggior tra la Russia furono la rinuncia della Russia a generale. In Russia lo accompagnò e la Francia Corfù e l’evacuazione delle resianche il nipote Rodolfo, capitano che ha due forze dal Mediterraneo: non di stato maggiore ad Austerlitz, condizionato venne meno, però, l’appoggio dove meritò una spada d’onore, si il corso diplomatico dello zar alle corti distinse in Finlandia nel 1808 guasabauda e borbonica rifugiatesi a dagnando la croce di Sant’Anna di delle guerre Cagliari e a Palermo. Meno 3a classe. “Cornetta” nel regginapoleoniche numerosi dei colleghi passati al mento (grado militare, all’epoca servizio austriaco, almeno due diffuso in cavalleria, ndr) cavallegdozzine di ufficiali piemontesi combatterono contro geri guardie, tornò in patria col grado di maggiore. Napoleone sotto le bandiere zariste. Quelli che raggiunsero il grado di generale sono stati poi ricordati e celebra- Il marchese Filippo Paolucci. Già sottotenente del ti dalla tradizione militare sabauda, ma si dovrebbe esa- 2do battaglione delle Guardie, prigioniero a Collardente minare caso per caso. Occorre infatti tener presente che, nell’aprile 1794 e al Bricchetto due anni dopo, cavaliere dopo la sconfitta austriaca a Marengo (14 giugno 1800), mauriziano, passato al servizio francese e poi a quello il secondo governo franco-piemontese sottopose ad una russo, il marchese modenese Filippo Paolucci (1779rigorosa discriminazione politica gli ufficiali che, rom- 1849) combatté in Crimea contro turchi e tatari nel pendo il giuramento di fedeltà alla Francia del 12 dicem- 1810. Comandante delle truppe nel Caucaso nel 1811, bre 1798, avevano combattuto insieme agli austro-russi; difensore di Riga contro MacDonald nel 1812, è ricordae molti altri d’artiglieria e genio furono epurati nell’ago- to in Guerra e pace (III, IX) come il principale portavosto 1801, quando le truppe piemontesi furono definitiva- ce degli ufficiali che, alla pari di Clausewitz, si opposero mente incorporate nell’armata francese. In qualche caso, invano alla costruzione del campo fortificato di Drissa. 109


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Capo di stato maggiore dell’Armata Occidentale, fu lui a condurre le trattative col generale prussiano Ludwig Graf Yorck e a firmare la famosa convenzione di Tauroggen del 30 dicembre 1812. Generale aiutante, nel 1814 ebbe un ruolo importante nel convincere lo zar ad opporsi all’insediamento di un principe austriaco in Piemonte. Governatore della Livonia e Curlandia dal 1821, lo fu poi - nuovamente al servizio sardo - di Genova, dove nel giugno 1833 represse la cospirazione mazziniana, con la fucilazione di due sergenti e di un vecchio maestro di scherma. Gli ufficiali di cavalleria: Faussone, “Vanangon” e Galateri. Nobile di Mondovì, “cornetta” dei dragoni Regina, combattente nella guerra delle Alpi con altri sei fratelli, di cui tre caduti all’Authion, a Tolone e alla ridotta di Fels, Giacinto Faussone di Germagnano (1765-1850) passò al servizio russo nel 1801, raggiungendo il grado di tenente colonnello di cavalleria. Aiutante di campo del principe Potemkin, fu decorato della spada d’oro di Russia (1807) e degli Ordini di San Giorgio e Mauriziano (1815). Tenente colonnello di cavalleria era pure il conte “Vanangon” (Trinchieri di Venanzone), decorato della croce di Sant’Andrea per la 110

campagna di Austerlitz e impiegato agli ordini del duca di Richelieu. “Cornetta” dei dragoni di Piemonte nel 1778 e veterano della guerra delle Alpi, il conte Giuseppe Gabriele Maria Galateri di Genola e di Suniglia (1762-1844) passò al servizio russo nel 1799, al seguito di Suvorov. Noto nella storia militare russa col nome di “Galaté” o “Joseph Galatte”, ufficiale degli ussari di Pavlograd (il reggimento caro a Tolstoj), guadagnò la croce di San Vladimiro nell’azione del 23 ottobre 1805 per incendiare il ponte sull’Enns. L’impresa è narrata in Guerra e Pace, libro II, capitoli VI-IX, dove è attribuita al colonnello «Karl Bogdanich Schubert», probabilmente un nome fittizio: in realtà il reggimento era comandato dall’oriundo irlandese Joseph Kornilovich O’Rourke, distintosi ad Austerlitz ed Eylau. Galateri non prese parte a tali battaglie, essendo stato in precedenza gravemente ferito alla testa. Il 24 ottobre 1806, il tenente colonnello Galateri presentò al generale aiutante conte di Lieven, anche a nome di altri ex ufficiali piemontesi, un ingenuo piano per provocare un’insurrezione in Toscana e Liguria: suggeriva di inviare una fregata, quattro cutter (piccoli vascelli monoalbero, ndr), alcuni trasporti e mille «hommes de bonne volonté» con 34mila fucili per armare gl’insorti e immaginava il con-


storia corso del re di Sardegna, in possesso di «galères montées par des soldats intrépides et très aguerris et commandés par des Marins d’un mérite et d’une bravoure rares». Cinque giorni dopo ebbe ordine di partire per Corfù e, sotto gli ordini dell’ammiraglio Senjavin, nel 1807 meritò l’ordine di San Giorgio. Membro dello stato generale del seguito dello zar, impiegato presso Riga nel 1812 e promosso generale, il 26 novembre 1813, da Brema, scriveva al generale aiutante barone di Wintzingerode di trasmettere allo zar la richiesta di essere inviato presso l’Armata austriaca in Italia col suo capitano d’ordinanza Liprandi e, possibilmente, con un reggimento di cosacchi del Don. Riammesso nel 1816 al servizio sardo col grado di maggior generale, Galateri raggiunse nel 1832 il grado di generale di cavalleria e fu insignito del collare dell’Annunziata (1833). Fu comandante della divisione di Nizza (1819), governatore di Cuneo (1822) e di Alessandria (1824) e ispettore generale di fanteria e cavalleria (1838). La fucilazione ad Alessandria, il 15 e il 22 giugno 1833, di 4 sergenti furieri e dell’avvocato Andrea Vochieri, da lui inquisiti per la cospirazione mazziniana, lo fece poi diventare una delle bestie nere della storiografia risorgimentale, bollato d’infamia anche nella Storia militare del Piemonte di Ferdinando Pinelli. Gli ufficiali del genio: Gianotti, Michaud, Teseo, Rana, Parecchia. Torinese, sottotenente degl’ingegneri nel 1782, poi docente alle Regie scuole teoriche, veterano delle campagne del 1793, 1794, 1796 e 1797, Luigi Gianotti (1759-1826) provvide alla difesa del forte di Demonte e cooperò a vari lavori di fortificazione a Torino e Alessandria. Ritiratosi a vita privata sotto la dominazione francese, passò al servizio russo nel 1804, partecipando alle campagne di Austerlitz (1805), di Corfù e Cattaro (1806-07) e di Moldavia (1808-09). Impossibilitato a dirigere l’assedio di Ismailov a seguito del morso di un animale, nel 1810 fu destinato dal generale Oppermann a insegnare arte della fortificazione ai granduchi Nicola e Michele, che accompagnò poi in Germania e in Francia nel 1814 e 1815. Promosso maggior generale e comandante del genio russo, nel 1816 fu incaricato di dirigere i lavori di fortificazione a

Sebastopoli. Tornato al servizio sardo nel 1817, fu prima comandante e poi presidente (dal 1824) del consiglio del genio. Nato a Nizza Marittima nel 1772, a vent’anni il conte Alessandro Michaud de Beauretour armò trecento volontari contro la Francia. Ferito tre volte nella guerra delle Alpi, combatté a Pallanza contro i repubblicani e a Magnano (1799) contro gli austriaci. Passato al servizio russo dopo Marengo, distintosi a Ragusa e in Moldavia, decorato dell’ordine di San Vladimiro e promosso colonnello, combatté nel 1812 e 1813 contro Napoleone. Aiutante generale dello zar e suo influente consigliere, perorò la causa della restaurazione sabauda e nel 1814 accompagnò Vittorio Emanuele da Cagliari a Torino. Capo di stato maggiore generale russo, fu comandante in capo dell’artiglieria e del genio nella campagna contro i turchi del 1829. Morì nel 1844 a Palermo. Nella nota del 1813, Michaud scriveva di aver lasciato a Corfù, «dangereusement malade et marié», il fratello minore, maggiore del genio, che nel 1807 era stato impiegato per le fortificazioni di Santa Maura verso il litorale albanese. Nel genio russo servirono anche il tenente colonnello Teseo, il maggiore Giovanni Antonio Rana (m. 1835) e il capitano Parecchia di Saluzzo. I primi due furono impiegati nella campagna di Austerlitz e poi per due anni a Tiflis (Tbilisi, ndr) in Georgia. Nella citata nota del 1813 si legge che Rana, «quoique sincèrement attaché à la Maison de Savoye, a du rejoindre son épouse en Piémont, où il vit rétire. Le chevalier Theseo se proposait il y a 3 mois d’aller en Sardaigne». Nipote dell’ingegnere Carlo Andrea (1715-1804), Rana era entrato come sottotenente nel genio sardo nel 1783 e aveva fatto le campagne del 1792-1800. Tornato al servizio sardo come capitano, divenne colonnello nel 1819, membro del consiglio militare del corpo nel 1823 e maggior generale nel 1831. Pavecchia era decorato della croce di San Vladimiro per essersi distinto nella presa dell’isola e dei forti di Tenedo e poi nella loro difesa contro quattromila turchi (1807). Gli artiglieri: i fratelli Vayra e Zino, Manfredi e De Zundler. Secondo la memorialistica filo sabauda, Michele Antonio Piano, già comandante dell’omonima 111



storia centuria cacciatori e il capitano d’artiglieria Sappa «ruppero le loro spade per non servire i francesi». Sembra però difficile che Sappa lo abbia fatto già nel dicembre 1798, dal momento che tutti gli ufficiali d’artiglieria, sia pure per quieto vivere e legittimati dall’ordine del re, prestarono il giuramento repubblicano. Altre due famose coppie di fratelli artiglieri, Vayra e Zino, anch’essi come Piano e Sappa illustratisi nella guerra delle Alpi e in particolare all’Authion, nel 1800 restarono al servizio russo. Il più anziano dei secondi, distintosi nel 1807 nella difesa di Santa Maura contro Alì Pascià di Tepelena, poi maggiore nello stato generale del seguito imperiale e impiegato a Odessa, morì di malattia nel 1814 essendo di guarnigione a Francoforte sul Meno. Contro il pascià di Giannina combatté anche, nella squadra dell’ammiraglio Senjavin, il cavalier Manfredi di Savona, ferito e decorato della croce di San Giorgio nella presa dell’isola e dei forti di Tenedo (Bozcaada, piccola isola turca dell’Egeo di fronte l’antica Troia, ndr). Nell’elenco figura anche un maggiore De Zundler, decorato della croce di San Vladimiro, impiegato a Cronstadt e sulle coste del Baltico per piantare e dirigere batterie. Nella lettera sopra ricordata sono inoltre citati: il conte Ettore Martin d’Orfengo di Torino (1790-1866), entrato al servizio russo nel 1810, ferito alla Beresina (battaglia della ritirata napoleonica di Russia, ndr) e poi ancora nella guerra russo-turca del 1828, ammesso al servizio sardo nel 1829 come tenente colonnello e collocato a riposo nel 1849 come maggior generale, dopo aver comandato la divisione di Genova (1844) e la 2a divisione provvisoria di riserva (1848); un Davico, di Savona, già ufficiale della Legione truppe leggere, poi capitano nello stato generale del seguito dello zar, veterano delle campagne in Prussia (1807) e Finlandia (1808.09); un Mussa, già ufficiale del Reggimento Saluzzo, tenente

dello stato generale del seguito imperiale, ferito e decorato di spada d’oro al valore; il capitano Luigi Raiberti, consigliere di collegio nel deposito degli ufficiali stranieri e membro della commissione delle prede; un Borelli di Torino, consigliere di corte e cavaliere di San Vladimiro, addetto al dipartimento di commercio; infine un Des Geneys. Non sono purtroppo in grado di precisare il numero dei sudditi sardi che entrarono nella Legione straniera costituita alla fine del 1812 a Orel coi disertori e prigionieri italiani, francesi e olandesi, e ancor meno nota (in Occidente) della coeva Legione russo-tedesca: rinvio perciò al saggio di V. R. Aputhin, Formirovanie Legionov is plennych Franzusov, Italianzev i Gollandzev v Gorode Orel v 1812-13 Godach, cortesemente segnalatomi dall’amico Sergei Sergeev. Sotto comando russo, ma al soldo inglese, la legione contava al 7 gennaio 1813 tre sole compagnie, nuclei di altrettante brigate, la 3a delle quali italiana. Peraltro nel febbraio di quell’anno il lager di Orel fu decimato da una terribile epidemia. Fra le seimila biografie di militari dell’Armata sarda 1799-1821 che ho messo insieme quest’estate per una serie di opere su quel periodo, ho trovato solo due ufficiali che avevano servito nella legione russo-italiana, il sottotenente Lorenzo Emanuele Nocetto, di Chiavari, catturato mentre serviva nei Veliti napoleonici di Torino (truppe leggere istituite da Napoleone nel 1805, ndr), e l’aiutante Federico Giuseppe Antonio Costa, di Alessandria, già al servizio spagnolo (probabilmente nella divisione del marchese della Romana, spedita in Russia da Giuseppe Bonaparte, re francese di Spagna): entrambi presero poi parte alla campagna austro-sarda del 1815 in Savoia e furono epurati a seguito dei moti costituzionali del 1821.

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Risk U S C I T I • SERGIO DELLA PERGOLA Israele e Palestina: la forza dei numeri. Il conflitto mediorientale fra demografia e politica Il Mulino, 2007 Partendo dalla considerazione delle componenti demografiche, Sergio Della Pergola rilegge la complessa storia di arabi ed ebrei e i conflitti che ne hanno marcato la convivenza nell’ultimo secolo, arrivando ad analizzare le future opzioni politiche. Dalle proiezioni sugli andamenti demografici nei territori israeliani e palestinesi emerge che nel 2050 gli ebrei saranno circa il 35 per cento delle popolazione complessiva. «Per salvaguardare l´aspirazione fondamentale di Israele di conservare una società coesa attorno a «ben riconoscibili parametri culturali ebraici e quindi - nel nome della democrazia - basata su una chiara e permanente maggioranza ebraica nella popolazione totale» è necessario rinunciare non solo al sogno della “Grande Israele”, ma anche ai territori occupati dopo la guerra dei sei giorni, ridefinendo i propri confini con alcune delicate operazioni chirurgiche di scambio territoriale con lo Stato palestinese. Tra gli ispiratori 116

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della svolta politica che ha portato al ritiro israeliano da Gaza, Della Pergola in questo libro mostra, attraverso il prisma della popolazione, come cambiano gli equilibri di una convivenza difficile ma inevitabile, e suggerisce una riflessione complessiva che può portare a un credibile processo di pacificazione. • LEOPOLDO NUTI La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991 Il Mulino, 2007 Per tutta la durata della guerra fredda, l’Italia ha avuto un’importante politica nucleare militare ed è stata una delle principali basi nucleari europee dell’Alleanza Atlantica. Utilizzando un’ampia base documentaria, largamente inedita, questo volume ricostruisce il modo in cui la politica estera italiana si è rapportata con la crescente importanza delle armi atomiche. Leopoldo Nuti passa in rassegna le principali tappe della politica nucleare militare italiana, dal primo dopoguerra fino allo schieramento degli euromissili, fornendo un contributo importante al dibattito storiografico sulla guerra fredda e sul rapporto tra l’Italia e i suoi principali alleati.

a cura di Beniamino Irdi

• ROMANO CANOSA Mussolini e Franco. Amici, alleati, rivali: vite parallele di due dittatori Mondatori, 2008 Romano Canosa ripercorre, sulla base di un’accurata e ricchissima raccolta di documenti (lettere, promemoria interni, dispacci militari, incartamenti diplomatici), le vicende dei rapporti italo-spagnoli, dal momento dell’intervento del governo italiano a fianco di Franco fino alla definitiva caduta del regime fascista. Sebbene la fornitura di materiale bellico e la partecipazione militare italiana abbiano avuto un ruolo di primo piano nell’assicurare la vittoria finale ai franchismi, terminata la guerra civile, Mussolini non riuscì mai a convincere Franco a schierarsi a fianco dell’Asse. Come riuscì Franco a respingere ogni pressione e a mantenersi fuori dal conflitto? Quali erano i rapporti fra i due dittatori? L’intervento della Spagna avrebbe potuto cambiare le sorti del conflitto? Romano Canosa fornisce una risposta a tali interrogativi ed esplorando, anche dal punto di vista psicologico, le “vite parallele” di questi due protagonisti

del Novecento, getta nuova luce su un capitolo, ancora poco conosciuto, della storia contemporanea. • GAETANO QUAGLIARIELLO La Francia da Chirac a Sarkozy. Cronache (2002-2007) Rubbettino 2007 I cambiamenti e le trasformazioni politiche in Francia dalla presidenza di Jacques Chirac alla nuova destra di Nicolas Sarkozy. Su questo binario si sviluppa l’analisi condotta da Gaetano Quagliariello che, senza abbandonare la vivacità della cronaca, analizza i principali passaggi di questa complessa fase della politica francese: dallo «strano turno elettorale» al «il trattato europeo», dal «dissidio con l’America ai tempi della guerra in Iraq» all’ «emergenza islamica e la crisi del laicismo alla francese». Sullo sfondo il sentimento di declino, avvertito e tematizzato da molti intellettuali, che aiuta a comprendere perché l’potesi Sarkozy si sia presentata agli elettori come un’alternativa valida alla politica del suo predecessore, nonostante il comune richiamo alla tradizione gollista.


riviste L A

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STEPHANIE KLEINAHLBRANDT e ANDREW SMALL Foreign Affaire Foreign Affairs January/February 2008 La Cina è stata spesso accusata di aiutare una serie di dittature dedite alla proliferazione nucleare e al genocidio, difendendole dalla pressione internazionale. Impedendo così ogni progresso verso i diritti umani e politici. Secondo i due ricercatori autori dell’analisi, la prima del Council on foreign relations, padrino di FA, e il secondo del German Marshall fund, negli ultimi due anni questa tendenza del governo di Pechino starebbe cambiando. La Cina ha denunciato i test nucleari nordcoreani e insieme a Washington ha promosso le sanzioni dell’Onu contro il governo di Pyongyang. Ha votato a favore dell’inasprimento delle sanzioni all’Iran, ha facilitato il dispiegamento delle forze congiunte Onu e Unione Africana in Darfur e avrebbe condannato il comportamento del governo birmano durante le proteste dei monaci buddisti. Già su questo poker di affermazioni ci sarebbe da obiettare. È stata proprio la mancanza di una

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forte presa di posizione cinese ad impedire una svolta in Birmania, ribattezzata Myanmar dalla giunta al potere. Ragion per cui la leader dell’opposizione Aung San Suu Kyi è ancora segregata, agli arresti domiciliari, al numero 54 di viale dell’Università a Yangon (già Rangoon). Sull’Iran la posizione è molto ambigua, perché viene sostenuto economicamente col mega accordo sul gas, con la vendita di armi e la diffusa presenza delle imprese di Pechino nel settore delle infrastrutture. L’ambiguità cinese in Iran affonda le radici fin dalla guerra Iran-Iraq, dove vendeva armi ad entrambi, pur negandolo fino al 2003 e con cui ha firmato numerosi protocolli “segreti” per forniture di tecnologie nucleari. In Darfur la posizione descritta nell’articolo è dovuta più alla difesa dei grandi interessi economici, che i cinesi hanno in quella zona, che da una volontà di essere attore politico responsabile sullo scenario mondiale. Solo sulla vicenda coreana, la stance politica di Pechino, può essere considerata all’impronta di un responsabile impegno, fin dalla seconda metà degli anni Novanta. Certamente legato alle preoccupazioni che una degenerazione della situazione sociopolitica porterebbe, specialmente sui flussi migratori lungo il confine fra i due Paesi. Convinzione degli autori è comunque che la Cina stia forzando questi Stati, definiti dagli autori pariah, a rendersi più accettabili verso la comunità internazionale e, sulla carta, così parrebbe. Dove l’analisi appare credibile è quando affronta la natura di questi cambiamenti.

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a cura di Pierre Chiartano

Sarebbero legati alla mutazioni degli interessi economici e politici di Pechino. In pratica i grandi investimenti economici in questi Paesi pariah e la forte presenza di propri cittadini, starebbe consigliando un approccio più sofisticato del semplice appoggio incondizionato e acritico in situazioni democraticamente incerte e spesso fragili. Dove, proprio a causa di questa debolezza, gli interessi cinesi potrebbero subire dei rovesci imprevisti. Da non dimenticare le aspettative che si sono create verso la Cina, dopo il 17esimo congresso del Partito comunista, le prossime Olimpiadi e le future elezioni presidenziali a Taiwan. Tutti appuntamenti chiave per capire la vera natura del dragone asiatico e come il cambiamento di forma saprà diventare sostanza democratica.

MUHAMMAD YUNUS Credit for the Poor Harvard International Review Fall 2007 «L’affidabilità dei poveri», è in estrema sintesi il concetto rivoluzionario emerso dalla trentennale esperienza di Muhammad Yunus, inventore del microcredito con la sua Grameen Bank, vincitore del premio Nobel per la pace nel

2006, che già nel 1994 aveva ricevuto il World Food Prize. Superare un sistema creditizio e finanziario che tende a vessare chi ha bisogno di credito, sfruttando le condizioni che il mercato offre, senza però alcun riguardo per la dignità umana, è qualcosa che può essere ben compreso non solo nel subcontinente indiano o nei Paesi del Terzo mondo, ma anche in Occidente dove le regole dei sistemi macroeconomici fanno sempre più fatica a dare risposte “umane” ai problemi legati alle grandi trasformazioni sociali ed economiche degli ultimi anni. Un mondo da cui eliminare «l’estrema povertà», è questo l’obiettivo dell’autore dell’articolo, che non evita una profonda critica all’attuale sistema che ha provocato una frattura fra le istituzioni finanziare e i cittadini. Pur riferendosi a realtà molto differenti il suono risulta familiare anche alle nostre ben più fortunate latitudini. La Greem Bank, un progetto partito più di trent’anni fa, oggi ha ispirato numerose iniziative simili in giro per il mondo. Un’alternativa al modo tradizionale di fare banca che ha nel cuore e nella propria struttura operativa i più poveri. Schiere di funzionare mandati in giro per i villaggi per contattare i potenziali clienti, una burocrazia cartacea ridottissima e semplificata per il livello d’istruzione dei futuri clienti-non guasterebbe neanche in Italia una tale semplificazione-e soprattutto l’eliminazione della minaccia di rappresaglie legali, in caso d’inadempienze, con tutto ciò che ne consegue rispetto alla creazione della nuova categoria di

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“schiavi” del debito bancario. Il microcredito è alla base dell’autoimpiego, della creazione di piccolissime attività che possono aiutare molti ad uscire dallo stato di povertà Yunus ci fa un esempio: «Una donna che per motivi familiari è costretta a stare in casa, può chiedere un prestito per comprare delle galline e poi vendere le uova». Potremmo affermare che, data la eclatante semplicità dell’esempio, legata al successo che questa filosofia ha ottenuto, siano «le uova di Yunus» quelle che tante iniziative occidentali di sostegno al Terzo mondo non abbiano compreso. Spese d’apparato elefantiache, migliaia di rivoli che si perdono nelle tasche nei conti delle oligarchie corrotte è un approccio culturale sbagliato, sono state alla base del fallimento di molte politiche di sostegno. Oggi questo banchiere indiano ci spiega con estrema semplicità i nostri errori e propone un modello che, mutatis mutandi, potrebbe servire come indicazione per una riforma del sistema creditizio. Chiaramente parliamo di un meccanismo no-profit che può ridurre i tassi d’interesse applicati al minimo indispensabile alla sostenibilità del sistema, che elimina le conseguenze legali verso gli inadempienti e può continuamente rimodulare la restituzione del debito. Ciò che stupisce è che ha funzionato e che l’affidabilità delle fasce più sfortunate della popolazione non è direttamente proporzionale al loro stato sociale ed economico.

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MARIO VARGAS LLOSA The Paradoxes of Latin America The American Interest January/February 2008 Bell’analisi sulla «balcanizzazione» dell’America Latina scritta dal grande intellettuale peruviano, potremo definirlo il “William Faulkner” latinoamericano. Traccia una carta antropologia del Sud America, leggendo cultura e tradizione e ne scopre la cifra per un futuro migliore, attraverso una lettura originale dei suoi «paradossi». C’è una parte del continente «che è occidentalizzato parla spagnolo, portoghese e inglese ed è cattolico, protestante ateista o agnostico». Poi esiste una realtà «indigena» che in Paesi come Messico, Guatemala, Ecuador, Perù e Bolivia comprende milioni di persone che a loro volta sono composti da elementi non omogenei. Llosa sottolinea la differenza fra le culture Quechua e Aymara e quelle amazzoniche. Questo mosaico etnico e culturale, che è stato assorbito in Nord America dalle tredici colonie confluite nella federazione americana, è la causa principale, secondo l’autore, del sottosviluppo, ma potrebbe rac-

R I V I S T E chiude la soluzione per il futuro. A salvare la situazione è stato il «meticciato» (mestizaje), che in Messico ha ridotto i ceppi nativi ed europei a minoranze. È questa una prima linea rossa sulla carta che funziona meglio dei confini nazionali e viene proposta come modello per una società sempre più immersa nella rete della globalizzazione, visto che «se ci sia avvicina al passato dell’America Latina senza pregiudizi, presto scopri che le nostre radici culturali sono sparse in tutto il mondo» dall’Asia all’Europa. Vargas Llosa poi argomenta una tesi sull’identità dei popoli che da quelle parti ha fatto scorrere fiumi d’inchiostro ed ha alimento polemiche infinite sul confronto fra nativi e popolazione d’origine occidentale. Polemiche che riemergono come un fiume carsico, in modo «schizzofrenico e razzista» con tutto il manicheismo che comportano, pronte a diventare la “benzina” per ogni demagogo sudamericano. Una maniera per semplificare problemi complessi. Complessità che, si intuisce nella mente dello scrittore, potrebbe essere la chiave di volta per risolvere le difficoltà del presente e del futuro. Non esiste un’identità sudamericana che possa essere tracciata senza cadere nello schematismo superficiale e ogni tentativo di tracciarla escluderebbe automaticamente milioni di persone. «La salute dell’America Latina poggia nel suo essere molte cose contemporaneamente», un microcosmo in cui tutte le razze e le culture del mondo coesistono. I pronipoti dei conquistadores

come degli iatliani, tedeschi giapponesi, cinesi e faricani sono oggi più «nativi» dei loro fratelli discendenti di aztechi, toltechi, maya, aymara, quechua o caraibici. Per non parlare dell’influenza della cultura africana che ha messo radici un dappertutto dalla religione alla cucina alla musica. In pratica il colonialismo, essendosi innestato in una realtà culturale forte, ne avrebbe solo scalfito la superficie facendosi poi contaminare fin nel profondo e mantenendola viva in un corpo nuovo.

PETER COLLIER Backbone, Berman and Buruma: a Debate that Actually Matters World Affairs Winter 2008 Illuminsimo e radicalismo islamico, sono due facce- razionale e trascendente-dello stessa tendenza al dogmatismo? L’autore prova a far rispondere i protagonisti del confronto culturale. Che sia Garton Arsh che si lambicca nel giusta definizione della guerra dell’islam all’Occidente o Ian Buruma che critica la società olandese, come ipocrita e permeata di falso mutliculturalismo. «Non ha creato


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Mohammad Bouyeri (l’assassino di Theo van Gogh, ndr) ma ha fatto poco per prevenirlo». Per Buruma-come afferma nelle pagine del suo libro Assassinio ad Amsterdam - in Olanda si sconterebbero due radicalismi, quello secolare e quello religioso. E su quella triste vicenda di van Gogh s’innesta un’altro personaggio, contro la quale si è dimostrata l’ipocrisia olandese: Ayan Hirsi Ali. Anche se, sempre per Buruma, nel fervore laicista della Ali si percepirebbe un certo radicalismo figlio di un suo fugace contatto con i Fratelli musulmani - anche se breve e superficiale. Questa commistione l’avrebbe poi portata verso una versione ortodossa dell’Illuminismo. Garton Arsh ha poi sposato questa descrizione di Hirsi Ali (anche se poi ha pubblicamente chiesto scusa, ndr) pronosticando una fine assai prossima delle democrazie europee. Insomma il radicalismo secolare avrebbe poco da offrire, come risposta ai problemi innescati dal confronto con l’Islam e la ripresa dei valori della trascendenza, sarebbe un «gioco a somma zero». Le polemiche sono poi montate fra gli intellettuali europei e nella blogsfera, dove la critica maggiore ai due scrittori era quella di voler avvicinare due mondi, un’Europa morente e quella nuova con le sembianze musulmane che lotta per prendere vita, destinate a non incontrarsi mai. Di base ci sarebbe la contestazione verso Arsh e Buruma e la delegittimazione del multiculturalismo che loro ritengono male o poco utilizzato nel dialogo col mondo musulmano, tanto da

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ritenere Tariq Ramadan, il tipo d’intellettuale islamico da coinvolgere nel confronto culturale. Un «salafita riformista» che vedrebbe nel futuro europeo una sorta di «parlamentarismo all’inglese islamocentrico». Anche se il nipote di al Banna - fondatore dei Fratelli musulmani - parla due lingue, una rivolta ali liberali europei e un’altra tarata sulle corde islamiche dei credenti. Per l’autore, comunque, sono giustificati i timori di Buruma quando avverte l’arrivo delle prime ombre di un nuovo spirito di Monaco.

JOEL D. BARKAN Kenya’s Great Rift Foreign Affairs January 2008 web exclusive La violenza scatenata dalle elezioni del 27 dicembre in Kenya, ha radici storiche profonde e avrà bisogno di un’analisi accurata per essere compresa. L’autore dell’articolo, che ha fatto parte degli osservatori internazionali, nella disputa elettorale tra il presidente uscente Mwai Kibaki e il leader dell’Orange democratic movement (Odm),

R I V I S T E Raila Odinga, ci propone una realtà non semplice. Gli elementi per una soluzione cruenta era già presenti in precedenza. Il Kenya che ha ottenuto le sue prime elezioni democratiche pluripartitiche solo dal 1992 ha vissuto una precedente presidenza, quella di Daniel Arap Moi, caratterizzata dalla stagnazione economica. Sia nell’appuntamento del ’92 che nel 1997 c’erano stati problemi d’ordine pubblico. Molti kenyoti non avevano dubbi sul fatto che, se non ci fosse stata una vigilanza sulle procedure elettorali - garantite dal Election commission of Kenya (EcK) e dagli osservatori internazionali - si sarebbero scatenata una risposta violenta. A quanto spiega Barman tutta la parte iniziale del voto si sarebbe svolta regolarmente, i problemi sarebbero nati durante il conteggio delle schede. La partecipazione era stata molto alta vedendo quasi il settanta per cento degli aventi diritto prendere parte al voto. Nessun problema sarebbe sorto neanche durante la campagna elettorale e l’afflusso alle urne avrebbe garantito a tutti l’espressione di voto. Il conteggio avviato vicino ai seggi era controllato dagli osservatori nazionali e stranieri garantendo una certa trasparenza. Con lo spoglio vicino al novanta per cento dei seggi Odinga stava conducendo per 370mila voti. Due giorni più tardi l’EcK annunciava la sua sconfitta per solo 200mila schede. La Ue, il Commonwealth e il Forum keniano di monitoraggio chiesero subito un riconteggio, ma troppo

tardi, il caos era già cominciato con quasi mille morti e 250mila kikuyu sfollati. Secondo l’analisi, Kibaki avrebbe governato con l’aiuto di un gruppo di maggiorenti chiamati la Mafia di Mount Kenya. Questi avrebbero favorito il gruppo etnico kikuyu, il più rappresentato all’interno della pubblica amministrazione, il meglio educato e rappresentante delle classi professionali e delle economiche più agiate, ai danni degli altri gruppi. La regione più calda nei tumulti è stata quella a nord. Un tempo abitata dagli agricoltori bianchi, le cui fattorie invece che essere poi distribuite tra gli abitanti locali furono rivendute grazie all’aiuto del governo - ad appartenenti dell’enclave kikuyu. Proprio in questa regione si sono avuti gli scontri più violenti. Quindi alla base ci sarebbe una sperequazione delle risorse economiche del Paese. Infatti l’Odm aveva lanciato come programma elettorale un progetto di politica federale che ridistribuisse le risorse del Paese a favore dei gruppi etnici più sfavoriti dai precedenti governi. Il 7 gennaio Kibaki proponeva un governo d’unità nazionale offrendo all’opposizione di Odinga molti dicasteri, ma per l’Odm serviva il premierato e una reale capacità di governo. Insomma per l’autore in Africa serve una sorta di federalismo etnico che garantisca, con le libertà politiche ed economiche, la strada verso la democrazia.

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