risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
risk
47
quaderni di geostrategia
•
DOSSIER
•
S
O
M
•
M
A
SCACCHIERE
Il portavoce del Continente nero
Medio Oriente
Carlo Jean
Emanuele Ottolenghi
Con l’Europa un rapporto difficile
Unione Europea
Stefano Silvestri
Giovanni Gasparini
Mazzette e ruberie, un Paese diviso in due
Russia
Maurizio Stefanini
David J. Smith
R
•
Se l’economia va nel pallone
America Latina
Claudio Catalano
Riccardo Gefter Wondrich
Esercito forte, ma sull’orlo di una crisi
Africa
Andrea Nativi
Egizia Gattamorta
Potenza energetica a rischio black out
pagine 84/97
Davide Urso
I simboli della libertà •
Carlo Musso
LA STORIA
Cuori neri
Virgilio Ilari
Heidi Holland
pagine 98/103
•
pagine 4/51 •
Editoriali
•
LIBRERIA
•
Andrea Tani Luigi Ramponi Mario Arpino Daniel Pipes
•
Michele Nones Stranamore pagine 52/53
pagine 104/115 •
SCENARI
•
Incognita Suleiman Andrea Margelletti
•
RUBRICHE
Come cambia l’asse franco-tedesco
Beniamino Irdi Pierre Chiartano
Michele Marchi
pagine 116/119
Il mare nostrum secondo Sarkozy Mario Rino Me
Guerre stellari Giovanni Gasparini pagine 54/83
•
I
O
DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani
REGISTRAZIONE
TRIBUNALE
DI
ROMA N. 283
DEL
23
GIUGNO
2000
Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Abbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma
SPERANZA SUDAFRICA Il 2008 è stato l’anno della grande festa mondiale per i novant’anni di Nelson Mandela, Nobel per la Pace, eroe della lotta all’apartheid e primo presidente del nuovo Sudafrica multirazziale. Il 2010 sarà l’anno dei mondiali di calcio, i primi nel Continente Africano. Ma in mezzo a queste due vetrine, nel 2009, ci sono le elezioni. Il Sudafrica del postapartheid resta il gigante economico del Continente Nero, e una potenza regionale ormai entrata nel salotto buono della politica mondiale. In particolare, con l’ingresso in quell’alleanza tripartita Ibsa con Brasile e India, che si configura come sindacato dellle Potenze in ascesa del Sud del Mondo. Ma il sogno di arrivare ai mondiali con una crescita sostenuta al 6% è ormai svanito: azzoppato da un sistema di approvvigionamento energetico che si basa al 90% sul carbone, e che all’inizio del 2008 si è imballato su black-out a ripetizione. Addirittura, a metà luglio è circolata un’ipotesi Fifa di spostamento dei mondiali del 2010 in Brasile, visto il ritardo sempre più allarmante dei lavori e la constatazione della crisi, soprattutto politica, in cui il Sudafrica sta sprofondando. Il Sudafrica possiede il 40 per cento dell’intero Pil dell’Africa (con circa il 7% della sua popolazione), dispone di Forze armate e di polizia efficienti, recentemente ristrutturate proprio per interventi di stabilizzazione, ha un’efficiente diplomazia, ben preparata per la gestione della crisi e nutre l’ambizione di porsi a capo di un “rinascimento africano” e di diventare il portavoce dell’Africa nei vari consessi internazionali (fa parte del G5 e del gruppo dei 21, costituito dopo la Conferenza di Cancan dell’Omc). Un’ambizione che si sta scontrando con l’incapacità del presidente Mbeki di risolvere la questione “Mugabe” in Zimbabwe, i rigurgiti xenofobi all’interno del Paese e soprattutto la dilagante corruzione interna al suo partito (l’Anc). Riuscirà questo gigante, primo produttore mondiale di platino e cromo, secondo di oro e manganese, quinto di diamanti, sesto di carbone e ottavo di uranio, a diventare il faro del continente?
4
D
ossier
FORTE DEL PRESTIGIO DI MANDELA E DI UNA ECONOMIA DINAMICA, È IL MOTORE AFRICANO
IL PORTAVOCE DEL CONTINENTE NERO DI
P
•
•
CARLO JEAN
arlando di Africa ci si riferisce normalmente alla sola Africa subsahariana (Corno d’Africa compreso). L’Africa del Nord o Africa Bianca fa geopoliticamente parte della regione mediterranea e del grande Medio oriente. È collegata con l’Europa dal Processo di Barcellona-Unione per il Mediterraneo. A sud del continente, poi, il
il Sudafrica costituisce un caso a parte. Esercita una forte influenza oltre le sue frontiere settentrionali, fino all’Angola e al Mozambico. Il ruolo di stabilizzatore del continente africano – che sembrava volesse assumere – è oggi contestato da quando il presidente Mandela – con il suo immenso prestigio – si è ritirato dalla scena politica attiva. Altri Stati, come la Nigeria e l’Egitto, pensano di aver titolo a svolgere tale ruolo. Anche l’Angola è sempre più influente, per la ricchezza derivatagli dai suoi ricchi giacimenti petroliferi. L’Unione Africana non è in condizioni di svolgere un ruolo molto incisivo. Ha difficoltà a prendere decisioni sia per il numero degli Stati che la compongono, sia per la disomogeneità di interessi e di potenziali, sia per i contrasti esistenti fra molti suoi membri e, più in generale, per la debolezza dei governi di gran parte degli Stati africani. Predominano quindi le tendenze centrifughe. Inoltre, nella regione sono comparsi nuovi attori, che hanno diminuito l’influenza delle potenze excoloniali europee, in particolare quella della Francia. Parigi sta disimpegnandosi progressiva-
mente dal continente africano, anche perché deve fronteggiare la dinamica presenza cinese ed americana, a cui si sono aggiunte recentemente quelle indiana e giapponese. Come Pechino, New Delhi e Tokyo cercano di conferire unitarietà alla loro penetrazione nel continente africano, organizzando Summit con i Capi di Stato e di Governo dell’intero continente. Nonostante questi tentativi di approccio multilaterale, restano però essenziali gli accordi economici bilaterali, riguardanti soprattutto il settore delle commodities e delle infrastrutture che ne consentono lo sfruttamento. Dopo l’assenza di quasi vent’anni, quando la sua importanza geopolitica derivava dai tentativi americani e sovietici di accrescere le rispettive zone d’influenza, l’Africa è tornata sulla scena geopolitica mondiale. Varie ne sono le ragioni: l’aumentata richiesta e l’elevato prezzo delle materie prime, energetiche e non; il “nuovo grande gioco” fra gli Usa e la Cina che si sta svolgendo in Africa per l’influenza politica ed economica; la presenza del terrorismo internazionale di radice islamica, crescente in talune regioni; la pressione demografica 5
Risk verso l’Europa; l’interesse dimostrato per l’Africa dal G-8, a partire dal 2005, allorquando Tony Blair inserì come prioritari i problemi del continente nero nell’agenda del gruppo; il timore dell’Europa del contagio dell’instabilità africana.
L’Africa sub-sahariana non è stata ancora
coinvolta nella globalizzazione. Il flusso degli investimenti diretti esteri (Ide) riguarda soprattutto il settore minerario, per lo sfruttamento delle enormi ricchezze naturali africane. Solo negli ultimissimi anni si è verificata una loro diversificazione. Comunque, mentre il prodotto lordo è aumentato anche per effetto dell’elevato prezzo degli idrocarburi e delle altre materie prime, la sua concentrazione nelle commodities è paradossalmente divenuta una causa – forse la principale – non solo del mancato sviluppo economico e sociale, ma anche dell’involuzione politica africana. Ha infatti provocato una regressione delle timidi forme di democrazia esistenti, una crescita dell’autoritarismo e un’accentuata conflittualità sia interna che interstatale. Inoltre, la debolezza, la corruzione e inefficienza delle sue classi dirigenti facilitano le ingerenze delle potenze esterne. Le élites di vari Paesi cercano il sostegno di partner internazionali per mantenersi al potere. Li preferiscono alle altre potenze africane, verso cui nutrono numerosi sospetti e una forte avversione. Particolarmente pesante – e spesso tragica – è la situazione dei Paesi che non dispongono di materie prime e la cui agricoltura – per effetto della colonizzazione – si è specializzata in produzioni non alimentari (caffè o cacao, ad esempio) destinati all’esportazione. Tali Paesi sono particolarmente esposti agli alti prezzi del petrolio e dei prodotti alimentari. Rischiano diffuse carestie, che potrebbero provocare rivolte e guerre civili. Ma anche nei Paesi più ricchi – seppure con qualche eccezione – non si è verificato il mutamento registrato nell’Africa Mediterranea di Ide, collegato alla creazione di joint ventures o allo sviluppo di industrie manifatturiere. Gli investimenti nel settore delle commodities non migliorano – se non marginalmente – la capacità della manodopera locale. Richiedono 6
tecnici ad alta qualificazione, disponibili solo all’estero nello staff delle società petrolifere e minerarie. Si formano così vere e proprie colonie straniere scarsamente integrate nelle società locali. Il sistema è molto simile a quello che esisteva nel periodo coloniale. Ciò si verifica, in particolare, nel caso della Cina, le cui maestranze in Africa si aggirano sulle 150mila unità. Mentre i governi traggono consistenti risorse dalle royalties pagate dalle imprese minerarie – e con esse possono mantenere le forze armate e di polizia, necessarie per garantire la loro sicurezza e permanenza al potere – le popolazioni sono escluse da tali vantaggi e non hanno voce in capitolo. È la cosiddetta “maledizione del petrolio”. In essa, le finanze pubbliche non dipendono dalla riscossione delle tasse. Quindi, le élites dirigenti non devono rispondere ai “cittadini/contribuenti” del loro impiego. Il no taxation without representation, proprio delle democrazie occidentali, è ribaltato in no representation without taxation. Anche nei Paesi poveri di materie prime i governi privilegiano, rispetto a una tassazione difficile da riscuotere, i diritti di dogana alle frontiere, sia per l’export che per l’import. Tale situazione ha due effetti negativi. Il primo consiste nel fatto che le élites dirigenti – che sopravvivono e spesso prosperano grazie proprio a tale sistema – non intendono abbandonarlo. Resistono perciò alle pressioni e condizionalità poste dall’Occidente, volte a realizzare una collaborazione e integrazione economica regionale e a promuovere libertà civili, tutela dei diritti umani e rispetto delle regole della legge. Di conseguenza, le classi dirigenti – pur con qualche eccezione - preferiscono avere rapporti con gli Stati che separano nettamente l’economia dalla politica. È ad esempio il caso della Cina, che si astiene dall’imporre condizionalità politiche, sulla base della prassi espressa dal Beijing Consensus, denominato in tal modo, per contrapporlo al Washington Consensus. A quest’ultimo si attengono invece – almeno in linea di principio – gli Stati occidentali e le istituzioni finanziarie internazionali. Tale stato di cose si riflette in campo politico e in quello dei rapporti con l’Europa. Le condizionalità sono considerate da molti leader africani imposizioni inaccetta-
dossier bili – quando non veri e propri tentativi di ricolonizzazione. La resistenza a esse ha contribuito a suscitare movimenti anti-occidentali. Vi ha contribuito anche la naturale tendenza dei politici di consolidare e legittimare il proprio potere secondo i ben conosciuti meccanismi della “teoria del sospetto” (ad esempio, propagando la “voce” che le vaccinazioni siano un mezzo usato dall’Occidente per sterilizzare la popolazione e impedire che l’esplosione demografica africana minacci l’Europa) e dell’aumento della coesione interna attraverso l’invenzione di un nemico esterno. Formalmente, tale distorto sistema viene giustificato sia da Pechino che dai paesi africani, come rispetto della sovranità degli Stati e non ingerenza nei loro affari interni. Il secondo effetto negativo consiste nel consolidamento della frammentazione del continente, lungo frontiere spesso innaturali, sotto il profilo sia etnico che economico, derivate dalla spartizione dell’Africa avvenuta nel periodo coloniale. Come si è ricordato, i governi vivono sui diritti di dogana. Ciò ostacola i tentativi di integrazione regionale e quindi l’efficienza economica derivante dalla specializzazione e dalla conseguente serializzazione delle produzioni. Ne soffre anche l’efficienza delle organizzazioni inter-africane, come l’Unione Africana (Ua), incapace di intervenire efficacemente in crisi come quella del Darfur e del Kivu settentrionale. Nonostante tutte le sue carenze, l’organizzazione del continente sta però lentamente migliorando non solo per il peso dell’Ua (54 Stati) nell’Onu, ma per i migliori collegamenti oggi esistenti con la miriade di organizzazioni regionali esistenti sul continente e, soprattutto, per il crescente ruolo giocato dal Sudafrica e per il prestigio di cui godono i presidenti Nelson Mandela e, anche se in misura inferiore, Thabo Mbeki. Il Sudafrica possiede il 40 per cento dell’intero Pil dell’Africa (con circa il 7 per cento della sua popolazione), dispone di forze armate e di polizia efficienti, recentemente ristrutturate proprio per interventi di stabilizzazione, ha un
efficiente diplomazia, ben preparata per la gestione della crisi e nutre l’ambizione di porsi a capo di un “rinascimento africano” e di diventare il portaparola dell’Africa nei vari consessi internazionali (fa parte del G-5 e del gruppo dei 21, costituito dopo la Conferenza di Cancun dell’Omc). A tale ruolo e rango aspira anche la Nigeria – lo Stato africano con popolazione più numerosa – bloccata però sia dalla diffidenza che nutrono nei suoi confronti gli altri Stati dell’Africa tropicale, sia dai suoi problemi interni, nel Delta del Niger e quelli derivanti dal suo pluralismo etnico e confessionale. L’Egitto, che una volta aspirava anch’esso alla leadership africana, si sta sempre più disinteressando ai problemi sub-sahariani e concentrando su quelli del Medio Oriente e del mondo arabo, oltre che su quelli del Mediterraneo (ha assunto la co-presidenza dell’Unione per il Mediterraneo, inaugurata a Parigi il 13 luglio scorso).
Caratteristico è il diverso atteggiamento dell’Ue (e in parte degli Usa) rispetto a quello dei paesi emergenti – come Cina e India, sempre più presenti nell’economia africana – nei riguardi dei processi di regionalizzazione e d’integrazione che, seppure con le difficoltà ricordate, si stanno verificando in Africa. Gli europei cercano in ogni modo di privilegiare la dimensione integrativa e collaborativa. Fanno grossi sforzi per rafforzare le istituzioni regionali e per costituire mercati regionali. Sono disponibili a interventi puntuali in caso di crisi e conflitti, anche se la Francia – paese europeo più impegnato in Africa – sta a poco
Il Sudafrica possiede il 40% del Pil africano (con circa il 7% della sua popolazione), dispone di forze armate e di polizia efficienti, e nutre l’ambizione di porsi a capo di un “rinascimento continentale” 7
Risk a poco disimpegnandosi dal continente. La stessa linea è seguita dal Regno Unito. L’Ue sta concentrandosi sulla costruzione di una rete di trasporto, volta a facilitare la libera circolazione delle persone e delle merci, premessa essenziale di qualsiasi integrazione regionale.Concentrata com’è sull’integrazione dell’Europa centro-orientale e sulla regione mediterranea, è sempre meno disponibile a intervenire direttamente per garantire la stabilità in Africa. Privilegia il sostegno logistico e tecnico, per favorire la formazione di un’efficace forza di pace dipendente dall’Ua. Contribuisce, a tale sua tendenza al disimpegno, la resistenza che molti paesi africani dimostrano nei confronti degli interventi occidentali. Lo dimostrano soprattutto gli Stati più potenti, per il timore che tali interventi possano contrastare la realizzazione delle loro ambizioni di dominio regionali. Essi reclamano un programma del tipo “l’Africa agli africani”, preferendo il caos e l’instabilità alle ingerenze esterne. Un episodio che ben illustra tale tendenza è rappresentato dall’opposizione degli Stati africani nelle Nazioni Unite per l’adozione di sanzioni nei riguardi del dittatore dello Zimbabwe – Robert Mugabe – nonostante le loro evidenti incapacità di risolvere da soli la preoccupante crisi istituzionale di quel paese. Altro motivo di attrito è rappresentato dal ricordo dello schiavismo e dal fatto che le richieste di risarcimento all’Europa – che ne avrebbe tratto grandi ricchezze – rappresentano una tesi condivisa da molti africani e spesso utilizzata nella propaganda degli uomini politici più populisti. Incide, infine, l’irrigidimento delle politiche degli Stati europei nei confronti dell’immigrazione proveniente dal Sud e i rimpatri forzati dall’Europa degli immigranti irregolari. Insomma, nonostante gli sforzi dell’Ue di collaborare con l’Onu e con l’Ua per la stabilizzazione del continente – indispensabile per lo sviluppo di quest’ultimo– e l’ancora netta prevalenza dell’Europa nel commercio e negli investimenti con l’Africa, il ruolo europeo è in declino, per il minore dinamismo del Vecchio Continente rispetto agli Usa e ai paesi emergenti dell’Asia. Mentre l’Europa si sta disimpegnando, gli 8
Usa stanno ritornando in Africa. Si erano ritirati e, in parte, disinteressati a quanto avveniva nel continente anche come reazioni al disastroso insuccesso registrato nell’intervento in Somalia nel 1992-94. Due sono le cause principali del nuovo interesse americano: il petrolio, soprattutto nel golfo di Guinea, e la diffusione delle reti del terrorismo di matrice islamica, specie nel Corno d’Africa. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento delle priorità geostrategiche americane. Per il petrolio, esso è stato stimolato dal Rapporto Cheney sulla sicurezza energetica degli Usa. In esso, si sostiene la necessità di adottare una strategia di diversificazione geografica delle fonti di approvvigionamento, con l’aumento al 25 per cento entro il 2010 del totale delle importazioni di petrolio dall’Africa, che diventerebbero, quindi, superiori a quelle dal Golfo, considerato troppo instabile politicamente.
La lotta al terrorismo è divenuta prioritaria
dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. Per contrastarlo, gli Usa hanno messo in opera un programma di assistenza tecnica e addestrativa per le forze armate e di polizia africane (African Contingency Operations Training Assistance e Trans-Sahara Counterterrorism Initiative), nonché costituito basi in Uganda e Senegal e schierato a Gibuti il Joint Task Force-Horn of Africa (con circa 2mila effettivi). Quest’ultimo è costituito da elementi delle Forze Speciali e da reparti aerei e navali, ha il compito di sorvegliare il Corno d’Africa e di intervenire contro le “Corti Islamiche” a sostegno delle forze etiopiche e del governo somalo, con raids di comandos e con bombardamenti mirati. Inoltre, gli Usa hanno costituito – per ora a Stoccarda, a fianco dell’Useucom – l’Africom destinato a dirigere interventi più massicci in Africa. L’attuazione del progetto di dislocare l’Africom in un paese africano è stata sospesa da Washington per le proteste della Nigeria e del Sudafrica, timorosi di vedere diminuire – con la presenza americana – la loro influenza in Africa. In sostanza, mentre l’Europa fa ogni sforzo
dossier per promuovere l’integrazione politico-strategica dell’Africa – “francesizzando” gli interventi europei, come avvenuto in Congo e come sta avvenendo in Ciad – gli Usa sostengono da un lato - dal punto di vista tecnico e addestrativi - le forze africane e, dall’altro, sono orientati a svolgere azioni indipendenti, decise unilateralmente da Washington.
La penetrazione economica cinese è diffusa in
tutta l’Africa. Non è un fatto completamente nuovo. Si era verificato anche durante la guerra fredda, quando la Cina aveva sostenuto i vari movimenti di liberazione nazionale. Oggi però è economica e massiccia. Le grandi compagnie minerarie e petrolifere cinesi sono presenti un po’ ovunque, approfittando – come si è ricordato – del fatto che Pechino non subordina i rapporti economici a condizionalità politiche. Il commercio cinese in Africa è rapidamente cresciuto. Da 10,6 miliardi di dollari nel 2000, a 55 nel 2006. Si prevede che raggiunga i 100 miliardi di dollari nel 2010. Le esportazioni africane verso la Cina sono aumentate – nel periodo 2000-2005 – a un tasso del 48 per cento all’anno, superiore di due volte e mezzo a quello verso gli Usa e di ben quattro volte rispetto a quello dell’Ue. Nel 2006 la Cina ha importato più petrolio dall’Angola che dall’Arabia Saudita. Molte imprese cinesi e indiane – queste ultime si appoggiano alle diaspore presenti in Africa sud-orientale – si sono installate in Africa e, costituendo joint ventures con società locali, stanno promuovendo una diversificazione dell’economia in diversi Stati dell’Africa. Essa potrebbe preludere alla modernizzazione del
continente. La penetrazione cinese e indiana in Africa è talmente importante da porre a rischio sia le posizioni delle vecchie potenze coloniali europee, sia quella degli Usa. Taluni parlano del fatto che l’Africa rappresenti la nuova frontiera economica della Cina e dell’India, che le vie di comunicazione marittima attraverso l’Oceano Indiano costituiscano una “nuova via della seta” e che, in Africa, si stia preparando un nuovo great game geopolitico fra gli Stati Uniti e la Cina. Taluni dei commentatori più apocalittici hanno sottolineato il fatto che l’annuncio della costituzione di Africom sia avvenuto proprio in occasione di una visita in Africa del premier cinese Wen Jiabao, quasi che Washington intendesse inviare un segnale di sfida a Pechino. Uno sviluppo tanto rapido della penetrazione economica cinese ha provocato reazioni in taluni ambienti africani. La Cina è stata accusata di neocolonialismo, anche perché l’ormai consistente comunità di lavoratori cinesi in Africa vive separata dal resto della popolazione e lavora con un accanimento incompatibile con le abitudini e la mentalità africane. In conclusione, in Africa sembra abbozzarsi l’inizio di una vera e propria rivoluzione geopolitica, che potrebbe portare alla modernizzazione del continente e al suo inserimento nella globalizzazione. Con il graduale disimpegno europeo, l’Africa potrebbe trasformarsi in un terreno di incontro o di scontro fra gli Stati Uniti e i due giganti asiatici. Il futuro del continente dipenderà, quindi, grandemente dalle relazioni fra Washington, Pechino e New Delhi.
11
Risk
LE FERITE POST COLONIALI IMPEDISCONO UN CLIMA DI FIDUCIA
CON L’EUROPA UN RAPPORTO DIFFICILE DI
•
E
•
STEFANO SILVESTRI
uropa ed Africa non si intendono facilmente. Al di là della retorica sull’Euro-Africa, sul continente nero “culla dell’umanità”, e delle grandi analisi sui molti misfatti compiuti dal mondo cosiddetto “civilizzato”, dalla tratta degli schiavi agli effetti negativi del colonialismo, la nuova Africa indipendente stenta a
trovare la strada dello sviluppo economico e politico, e ricade sin troppo spesso nel dramma della guerra civile e della dittatura. Allo stesso tempo l’Europa non è sinora riuscita a proporre ed applicare un modello di sviluppo efficace, si impegna militarmente, senza peraltro in genere riuscire a risolvere le crisi in modo durevole, ed oscilla incerta su quale politica applicare nei confronti delle pressioni migratorie. L’Africa del Sud, dopo la fine del regime bianco e dell’apartheid, è in qualche modo un’eccezione (una democrazia in cui ancora convivono i discendenti, ormai africani, dei coloni europei e un paese altamente industrializzato) e una conferma di queste difficoltà. L’Ue ha stabilito con il Sudafrica, nel 2007, un “partenariato strategico”, che amplia al settore politico, della sicurezza e della pace la collaborazione già iniziata da tempo sul piano economico e commerciale. L’idea è quella di aiutare l’Africa a risolvere i suoi problemi, sia attraverso la cooperazione tra Ue e Unione Africana, sia rafforzando i legami europei con alcuni paesi chiave, più importanti e stabili, del continente. Alcuni di essi, dall’Egitto a Marocco, sono già inclusi anche nel quadro politico euro-mediterraneo, mentre altri, come appunto il Sudafrica, vengono identificati singolarmente. Tuttavia, in occasione del primo Vertice tra Ue e Sudafrica, svoltosi a fine luglio a 12
Bordeaux, il quadro delle cooperazioni non ha eliminato alcune significative divergenze, in particolare sulla crisi nello Zimbabwe. Nel comunicato finale del Vertice, e ancora di più nella conferenza stampa congiunta dei due Presidenti, il sudafricano Thabo Mbeki e il francese Nicolas Sarkozy, le posizioni sull’atteggiamento da tenere nei confronti di Robert Mugabe, il presidente delle Zimbabwe, sono state nettamente divergenti: di condanna e di rifiuto quella europea, molto più conciliante quella sudafricana. Ciò non ha impedito la convergenza su altre crisi politiche, in particolare quella del Sudan (Darfur) e quella dei Grandi Laghi (Burundi). Tuttavia è evidente come il ruolo del Sudafrica sia particolarmente cruciale proprio nella questione dello Zimbabwe, che dipende in larga misura dalla cooperazione economica con il suo potente vicino, il quale a sua volta accoglie la stragrande maggioranza dei profughi, inclusi quelli della maggiore opposizione politica (tra cui il leader Morgan Tsvangirai, che aveva probabilmente vinto le elezioni presidenziali, prima del sostanziale colpo di stato imposto da Mugabe). Le ragioni del dissenso sono molteplici e illustrano bene le difficoltà politiche del rapporto tra Europa ed Africa. La posizione del Sudafrica non è in realtà diversa da quella assunta dall’insieme dell’Ua nel Vertice di Sharm-el-
dossier Sheik a inizio luglio, ed ha già avuto una sua prima applicazione nel memorandum di intesa siglato ad Harare, la capitale dello Zimbabwe, tra Mugabe e Tsvangirai, con la mediazione di Mbeki. In pratica i governi africani, incluso quello di Città del Capo, si rifiutano di condannare il presidente Mugabe, al potere da ormai 28 anni, ma anche ex leader carismatico dell’indipendenza e della lotta anticolonialista africana. Né mancano i legami personali, come quello dello stesso Mbeki, che trascorse proprio in Zimbabwe i lunghi anni del suo esilio dal Sudafrica.
si sono esercitati gli analisti, alcuni propendendo per una sorta di “trappola” anti-russa confezionata dagli Usa, altri privilegiando la pista di un contrasto tra il nuovo Presidente russo e il suo predecessore, e attuale Primo Ministro, Putin. Quale che sia la realtà, resta il fatto che tali divergenze accrescono la libertà d’azione africana, ma anche le sue responsabilità per la soluzione delle crisi in atto. L’approccio prudente e non conflittuale di Mbeki sembra sinora riuscito ad evitare lo scoppio di una guerra civile, ipotizzando una sorta di difficile diarchia tra Mugabe e Da un lato è una questione di autogoverno: l’Africa Tsvangirai, un po’ sul modello del compromesso già ragè troppo vicina e memore della passata dominazione giunto tra le opposte fazioni in Kenya, al costo però di coloniale, per poter accettare facilmente le intromissioni accettare la violazione di ogni regola elettorale e demodall’esterno e le violazioni della sovranità nazionale (incluse quelle motivate dal cosiddetto “diritto di ingerenza” umanitario) e preferisce piuttosto ricorrere allo strumento della mediazione e del compromesso. D’altro lato è anche una questione di strumenti. Senza il contributo europeo ed internazionale, l’Africa non ha in proprio mezzi militari, di sicurezza ed economici necessari per un’efficace gestione delle crisi e cerca quindi di evitare che l’accettazione di simili aiuti si risolva in una perdita di indipendenza complessiva. Su questo scenario già abbastanza complesso si inseriscono poi i grandi giochi della diplomazia internazionale. È evidente, ad esempio, che Mugabe avrebbe molte maggiori difficoltà a resistere, se il suo paese non avesse stretto importanti accordi economici con la Cina, e se quest’ultima non fosse interessata a far diminuire l’influenza europea in Africa. L’appoggio cinese blocca ogni possibilità di intervento del Consiglio di Sicurezza cratica e di mantenere al potere il vecchio padre-padrone. delle nazioni Unite. D’altro canto non c’è solo la Cina. Alcuni sostengono che in realtà Mbeki non poteva fare di Una strana “commedia degli equivoci” si è giocata tra il più, essendo ormai giunto quasi al termine del suo seconG8 di Hokkaido (in Giappone) il Palazzo di Vetro. Al G8, do mandato presidenziale ed essendo praticamente certo il Presidente russo Medvedev aveva sottoscritto una di non poter essere rieletto. Si tratta insomma di un presimozione di condanna per Mugabe, che rinviava la palla dente debole che deve già concedere spazio al suo magal Consiglio di Sicurezza. In quella sede, però, la Russia, gior rivale, da poco eletto Presidente dell’African assieme alla Cina, si è opposta alla imposizione di sanzio- National Congress (Anc, il partito di maggioranza), ni economiche contro lo Zimbabwe. Su questa apparente Jacob Zuma. Questo leader zulù potrebbe in realtà essere contraddizione (peraltro respinta da Mosca, che afferma meno condiscendente nei confronti di Mugabe (che ha di non aver mai parlato di sanzioni, neanche in Giappone) criticato apertamente e duramente), se non altro perché
L’Africa è troppo vicina e memore della passata dominazione coloniale, per poter accettare facilmente le intromissioni dall’esterno e le violazioni della sovranità nazionale e preferisce piuttosto ricorrere allo strumento della mediazione e del compromesso
13
Risk non è stato da lui aiutato nel periodo dell’esilio e della lotta clandestina, ma potrebbe anche essere handicappato da altri problemi di tipo giudiziario (è accusato di corruzione) e familiari: poligamo (ha cinque mogli, tra cui l’attuale ministro degli Esteri sudafricano, da cui è però divorziato), con numerose storie collaterali (ha dovuto versare la dote tradizionale africana per altre tre donne) e 18 figli riconosciuti, è una figura piuttosto “avventurosa” rispetto allo standard tradizionale del paese.
In attesa di evoluzioni politiche che potranno o meno cambiare il quadro generale, comunque, la cooperazione tra Ue e Sudafrica prosegue bene negli altri campi, in particolare quelli della cooperazione commerciale, scientifica (ricerca e sviluppo, anche in settori di punta, come lo spazio) e dell’educazione. La priorità data allo “sviluppo sostenibile” si è particolarmente concentrata nel settore strategico dell’acqua potabile e dello sviluppo dell’agricoltura, in linea con i nuovi orientamenti indicati dalla Banca Mondiale. Ciò potrà avere sviluppi positivi nel più lungo termine, se contribuirà a risolvere il gravissimo problema dello sviluppo economico africano nel suo complesso. Sembra finalmente consolidarsi infatti la “svolta” auspicata per i grandi programmi di aiuto, non più tanto in direzione di grandi progetti industriali (le cosiddette “cattedrali nel deserto”) o della massimizzazione delle produzioni dedicate all’esportazione, ma in favore di una più equilibrata crescita dei mercati interni, a partire proprio da quelli agricoli (e alimentari), sino ad oggi fortemente deficitarii, anche se impiegano circa i tre quarti dell’intera popolazione africana. È una svolta necessaria e insieme non facile, perché implica una molto maggiore cooperazione con i governi africani e il re-indirizzo di molte delle loro programmazioni economiche. L’accoglienza critica con cui è stato accolta la “nuova” politica africana del Presidente Sarkozy ha certo qualcosa a che fare con la scelta “provocatoria” di alcuni suoi discorsi (come quello in cui affermava che «l’uomo africano non è ancora entrato completamente nella storia»), ma anche con le incertezze del quadro politico complessivo. È veramente certa 14
l’Africa di voler scegliere un partenariato preferenziale con l’Europa? La polemica contro le ex potenze coloniale è almeno in parte strumentale, e maschera l’interesse africano nei confronti dei suoi nuovi interlocutori strategici, gli Stati Uniti da un lato e la Cina dall’altro. L’Europa resta evidentemente il maggior punto di riferimento, ma non è più esclusivo come un tempo, e questo accresce l’importanza detentivo dell’Ue di stabilire alcune forme di “partenariato strategico”, come quello per il Mediterraneo e quello con il Sudafrica. Ma è ancora una politica incerta e priva di solidità di lungo termine. Le vicende del partenariato euro-mediterraneo sono ben note ed hanno portato al recente “rilancio”, voluto dalla Francia, dell’Unione per il Mediterraneo che però, se ha risvegliato l’interesse dei Paesi nord africani e medio orientali, ha anche ridotto le ambizioni politiche e di sicurezza che erano state affermate più di dieci anni or sono a Barcellona, al momento del varo di questa politica. La sfida attuale è quella di evitare che questo nuovo partenariato con il Sudafrica subisca la stessa sorte, registrando una divaricazione in campo politico mentre continua la cooperazione in campo economico. Molto dipenderà evidentemente dalla buona volontà e dalla disponibilità degli africani, ma molto dipenderà anche dalla capacità reale dell’Unione Europea di presentarsi ed agire come un attore unico e significativo nel campo politico e della sicurezza.
Le basi sono state poste, a cominciare dall’attività
significativa dell’Alto Rappresentante, Javier Solana, e dei suoi “ambasciatori”, in particolare quello presso l’Unione Africana, quello per la regione dei Grandi Laghi e quello per il Sudan, e naturalmente anche grazie all’azione e ai programmi gestiti direttamente dalla Commissione Europea. Tuttavia esse debbono rafforzarsi e soprattutto passare dalla gestione di una serie di politiche relativamente poco coordinate tra loro, ad una gestione unica, sulla base di un singolo indirizzo di politica estera. La cosa sarà certamente più facile se il Trattato di Lisbona riuscirà a superare la sua attuale crisi “irlandese”.
dossier DALLA MALA-GESTIONE DEL CASO ZIMBABWE ALLA CORRUZIONE DEL GOVERNO
MAZZETTE E RUBERIE, IL PAESE È DIVISO IN DUE DI
•
I
•
MAURIZIO STEFANINI
l 2008 è stato l’anno della grande festa mondiale per i novant’anni di Nelson Mandela, Premio Nobel per la Pace, eroe della lotta all’apartheid e primo presidente del nuovo Sudafrica multirazziale. Il 2010 sarà l’anno dei mondiali di calcio, i primi nel Continente Africano. Ma in mezzo a queste due vetrine, nel 2009, ci sono le elezioni. Il Sudafrica del post-apartheid
resta il gigante economico del Continente Nero, e una potenza regionale ormai entrata nel salotto buono della politica mondiale. In particolare, con l’ingresso in quell’alleanza tripartita Ibsa con Brasile e India, che si configura come sindacato dellle Potenze in ascesa del Sud del Mondo. Ma il sogno di arrivare ai mondiali con una crescita sostenuta al 6% è ormai svanito: azzoppato da un sistema di approvvigionamento energetico che si basa al 90% sul carbone, e che all’inizio del 2008 si è imballato su black-out a ripetizione. Addirittura, a metà luglio è circolata un’ipotesi di Fifa di spostamento dei mondiali del 2010 in Brasile, visto il ritardo sempre più allarmante dei lavori e la constatazione della crisi in cui il Sudafrica sta sprofondando. Poiché qualche cospicuo investimento è stato comunque già fatto, si potrebbe al massimo riservare al Sudafrica l’edizione del 2014. L’African National Congress, il partito di Nelson Mandela e del suo successore Thabo Mbeki, con il 69,69% dei voti che ha preso nel 2004 si presenta per il voto dell’anno prossimo come il sicuro vincitore. Ma al congresso del Congresso, scusate il bisticcio, il 18 dicembre scorso lo stesso Mbeki è stato battuto per 2329 voti a 1505 da Jacob Zuma, che è stato eletto presidente del partito, e che dunque dovrebbe essere il candidato ufficiale dell’Anc alle presidenziali. E Zuma è un personaggio che ha una lista di carichi giudiziari pendenti e
penduti lunga come una Quaresima. Figlio di un poliziotto, più volte arrestato e in esilio per la sua partecipazione all’ala armata dell’Africa National Congress durante l’apartheid, Zuma torna dal Mozambico nel 1990 al momento dell’apertura politica, con due assi nella manica. Primo: è un zulu, in un partito che proprio per controbattere la concorrenza del movimento etnico zulu Inkhata è costretto a riequilibrare in tutti i modi una dirigenza massicciamente xhosa. Secondo: ha l’appoggio di Chabir Shaik, un faccendiere di etnia indiana che gli girà soldi pressochè a fondo perduto. Nominato subito presidente dell’Anc, si appoggia alla sinistra del partito e alla lobby del Partito Comunista e dei sindacati Cosatu, per sfruttare lo spazio che si apre col nuovo volto moderato di Nelson Mandela. E nel 1999 diventa vicepresidente, col successore di Mandela e continuatore della sua linea moderata Thabo Mbeki. Ma nel 2005 Chabir Shaik finisce sotto processo. Gli danno tre anni per frode, proprio per il milione di rand in fondi neri, circa 154mila dollari, che ha versato a Zuma. E altri quindici anni per corruzione, per altri 185mila dollari di tangenti finiti a Zuma: 1,2 milioni di rand. E ulteriori quindici anni per una seconda accusa di corruzione, avendo cercato di estorcere soldi alla società francese Thompson-Csf appunto vantando la sua influenza su Zuma, a proposito di una contestata partita di armi per 15
Risk 4,8 miliardi di dollari con cui il Sudafrica avrebbe dovuto ammodernare le proprie Forze Armate: una scelta molto contestata anche in patria, visti i molti problemi sociali del Paese; la mancanza di minacce ai confini; la riluttanza comunque del governo a mandare i militari in peace-keeping, anche nelle pur numerosi occasioni in cui il teatro africano lo richiederebbe. Ci sono le prove di «una simbiosi che ha beneficiato a entrambi», e anche che quel giro di soldi «non può non aver generato nel ricevente un senso di obbligazione», afferna il giudice Hilary Squires. Zuma nel giugno del 2005 è prima costretto alle dimissioni da deputato, poi rimosso d’autorità da Mbeki dalla vicepresidenza. Infine a ottobre inizia formalmente il processo, ma proprio in quel momento si abbatte su di lui tra capo e collo una seconda gravissima accusa, per stupro. A tirarlo in ballo, la figlia di un amico di famiglia, che tra l’altro è pure sieropositiva. Al processo, nel febbraio successivo, si difende spiegando che la ragazza «era consenziente». Lo avrebbe capito dal tipo di succinto costume tradizionale che lei si era messo, ed è «contro l’etica zulu respongere una donna!» I giudici gli credono: o fanno finta, visti gli attivisti della sinistra dell’Anc che manifestano davanti al tribunale, minacciandoli di morte. Ad aprile è dunque assolto. Tutti i giornali lo prendono però in giro quando lui, che tra l’altro è pure presidente di una commissione per la lotta all’aids, spiega che per non essere contagiato non ha usato preservativi ma si è fatto “una bella doccia”. D’altronde anche il presidente Mbeki dopo essere stato da Mandela preposto alla lotta anti-aids si è messo da Presidente a spiegare che «l’Aids non dipende dall’Hiv» ma sarebbe una semplice “malattia della povertà”, mentre le terapie antiretrovirali che la medicina occidentale mette in campo contro questa pandemia costituirebbero «una truffa ai danni del Terzo Mondo». Per non parlare di quel ministro della Sanità Manto Tshabalala-Msimang che è andata avanti per anni a consigliare ai sieropositivi di non perdere tempo e soldi con i retrovirali, ma di mangiare piuttosto «barbabietole, limone e aglio»; di quell’altra commissione di “esperti” che come toccasana ha invece proposto di «circoncidere tutti i cittadini maschi»; e di quella superstizione popolare sudafricana secondo 16
cui il sesso con una vergine curerebbe la sindrome da immunodeficienza acquisita, da cui l’ondata di stupri in cui perde la verginità una ragazza sudafricana su tre. E il bello, come ha rivelato una recente indagine nelle scuole, è che anche due studenti maschi su cinque nella fascia di età compresa tra i 10 e i 19 hanno confessato di essere stati costretti a fare sesso: un terzo da uomini; il 41% da donne, in genere molto più anziane; il 27% da entrambi. Insomma, fose da qui si capirà il perché in Sudafrica hanno l’Hiv oltre 5 milioni e mezzo di cittadini: una persona su nove, per una popolazione di infetti seconda solo all’India.
Nel maggio del 2006, comunque, l’Anc lo reinte-
gra nel suo status di membro del partito, e nel settembre successivo il processo per corruzione è stralciato, in attesa di poter reperire nuove prove. Lui infatti ha fatto ricorso, sostenendo che le evidenze esistenti non sono valide, in quanto derivanti da due perquisizioni illegali. La querelle si risolve nel novembre del 2007: la Corte Suprema dice infatti che ha torto, e che le due perquisizioni contestate erano perfettamente conformi alla legge. In uno scenario che potrebbe ricordare certe polemiche italiane, nel dicembre del 2007 lui dà battaglia al congresso del partito e come già ricordato sconfigge Mbeki, cercando di sottrarsi alla giustizia con l’arrivare alla massima carica dello Stato prima di poter essere condannato. Ma anche la magistratura si lancia in una spirale all’italiana, rincorrendo con nuove accuse di corruzione, concussione e evasione fiscale appena dieci giorni dopo la sua elezione alla Presidenza dell’Anc. Colpo su colpo. Proprio Cosatu dal 2005 ha iniziato una campagna contro gli Scorpions: la speciale unità investigativa che Thabo Mbeki aveva costituito nel settembre del 1999, apposta per combattere la criminalità e la corruzione sempre più dilaganti. Subito famosi per le loro spettacolari irruzioni in casa dei sospettati, proprio contro i loro metodi spicci Zuma aveva basato i suoi ricorsi, e i suoi sostenitori hanno insinuato che fosse stato lo stesso capo dello Stato a muoverli. «Gli Scorpioni e i giudici sono manipolati e influenzati», avevano tuonato i sindacati. Dopo la vittoria di Mbeki al congresso dell’Anc, il conteggio alla rovescia è inco-
dossier minciato. E a giugno il ministro della Sicurezza Charles Nqakula, guarda caso proprio il presidente del Partito Comunista, ha deciso di smantellarli, rifondendoli con quella Polizia da cui erano stati selezionati. Nqakula è anche colui che di fronte alle critiche per il tasso di omicidi più alto del mondo e per il secondo tasso di stupri ha detto: «non vi sta bene la situazione dell’ordine pubblico? Lasciate il Sudafrica!». Cosa che in effetti in molti fanno, senza contare l’impatto negativo che la criminalità galoppante ha sul turismo, per cui in teoria il Sudafrica dovrebbe essere una specie di paradiso. Motivazione della decisione di Nqakula: alcune generiche accuse di “corruzione”. Ma l’Alleanza Democratica, il principale partito di opposizione, ha formulato accuse esplicite: «volete coprire le corruzione dei dirigenti dell’Anc!». A luglio la strategia di Zuma si è ulteriormente precisata, con una clamorosa visita alla township di Bethlehem: una bidonville vicino a Pretoria, dove un migliaio di afrikaners ridotti in povertà vive in baracche senza né luce, né acqua, né servizi igienici. «Sono scioccato, mi vergogno. Non è possibile che nel nostro Paese ci sia gente che viva a questo modo!», ha detto, portandosi anche appresso il ministro dello Sviluppo Sociale Zola Skweyiya. Sono ormai 400mila i bianchi sudafricani che vivono oggi in condizioni di povertà, e 130mila quelli senza casa; rispettivamente il 9 e il 3% di tutta la popolazione “europea” del Paese. La proporzione cresce ulteriormente se ci riferisce a quei tre quinti di etnia afrikaner, che rappresentano la stragrande maggioranza di questo nuovo sottoproletariato. Ma d’altra parte, anche all’inizio del secolo, dopo la Guerra Anglo-Boera, i discendenti dei coloni olandesi e ugonotti francesi si erano ridotti a una plebe miserabile e turbolenta, che inneggiava anche a Lenin contro quella minoranza anglofona da sempre costituente l’élite economica e imprenditoriale. Poi nel 1948 il voto di questo proletariato afrikaner portò infine al potere il Partito Nazionale: propugnatore con l’apartheid non solo della discriminazione razziale ma anche di una sorta di un “socialismo boero”, che privava i neri dei diritti e gli anglofoni del potere politico apposta per riservare ai “bianchi poveri”
tutti i posti pubblici. Ma dopo la transizione del 1994 questo favoritismo è saltato, mentre il governo dell’Anc faceva partire la politica del cosidetto “Black economic empowerment” (Bee): per dare capitali e facilitazioni ai neri che volessero inventarsi imprenditori. Qualcuno così è diventato addirittura miliardario, in particolare la cosidetta “Banda dei Quattro”: l’ex-segretario dell’Anc Cyril Ramaphosa, l’ex-governatore della Provincia di Gauteng Tokyo Sexwale, l’ex-membro del Comitato
L’esodo degli immigrati rischia di privare di almeno un terzo la manodopera dell’industria mineraria: tradizionale cuore pulsante in questo Paese che è il primo produttore mondiale di platino e cromo, il secondo di oro e manganese, il quinto di diamanti, il sesto di carbone e l’ottavo di uranio Esecutivo dell’Anc Saki Macozoma e l’avvocato Patrice Motsepe. E il loro curriculum spiega abbastanza bene quale ruolo l’avere le entrature politiche giuste può avere, per profittare di queste occasioni. Il grande capitale anglofono ha più o meno accettato di buon grado il Bee, acconsentendo volentieri a cadere quote e società, pur di salvaguardare il grosso dei propri asset. Piuttosto, nella borghesia imprenditoriale e commerciale di lingua inglese, nerbo storico dell’Alleanza Democratica, sono forti le perplessità sulla corruzione della Pubblica Amministrazione, e ancor di più per l’ondata di criminalità. Ma almeno un milione di afrikaner sono stati costretti ad emigrare all’estero, per mancanza di opportunità, oltre che, come abbiamo visto, in seguito 17
Risk alla criminalità galoppante: nel Regno Unito, dove a Londra esce anche un giornale in Afrikaans; in Australia, dove a Sydney vi sono diverse emittenti radio in Afrikaans e dove ci sono altre forti comunità a Perth e nel centro minerario di Mount Isa; a Amsterdam; a Bruxelles; a Auckland; a Toronto. E se accanto al ceto medio-alto anglofono e a quello indiano è cresciuto un altro ceto medio-alto nero in cui entrano almeno 100mila nuovi elementi all’anno, nel contempo il numero dei senza tetto è cresciuto tra di loro del 58% negli ultimi sei anni, e continua ad aumentare di almeno 7500 unità all’anno. Certo, non capita solo ai bianchi. Uno studio recente del South Africa’s Institute for Race Relations ha denunciato come il numero dei sudafricani costretti a sopravvivere con meno di un dollaro al giorno è cresciuto da 1,9 milioni di persine nel 1996 a 4,2 milioni nel 2005. Thabo Mbeki ha però risposto alle critiche sulla scarsità di neri che riuscivano ad approfittare del Bee lanciando una politica di Broad Black Economic Empowerment, espressamente diretta ad aumentare il numero dei beneficiari. E di recente i tribunali hanno anche acconsentito a promuovere la minoranza cinese a «neri ad honorem» per permettere loro di beneficiare a loro volta dell’Empowerment, in una smaccata lisciatina alla crescente potenza economica di Pechino (per analoghe ragioni, diciamo così, “geopolitiche” il regime dell’apartheid aveva invece promosso a “bianchi” i giapponesi….). Lo stesso Mbeki si è però finora rifiutato di varare per loro programmi assistenziali, sull’assunto che «il Sudafrica consiste in due nazioni: l’una nera e povera, l’altra bianca e ricca». Bbe e Bbbe sono stati duramente criticati dal leader dell’Inkhata Mangosuthu Buthelezi, secondo il quale l’emigrazione dei bianchi sta portando l’economia allo sfascio. E contro Mbeki ha condotto una campagna aggressiva Solidarity: un antico sindacato bianco che era nato nel 1902 tra i minatori del Witwatersrand, che nel 1997 era ridotto ai minimi termini con soli 30mila soci, ma che adesso puntando espressamente sulla rabbia dei boeri poveri è risalito fino ai 130mila affiliati. Nel 2006 Solidarity è stato ammesso nel Cosatu. L’anno prima, va ricordato, anche i resti del vecchio Partito Nazionale già protagonista dei governi del18
l’apartheid era confluito nell’Anc: dopo aver perso gran parte dei quadri e dei militanti a favore di quell’Alleanza democratica sviluppatasi dall’antico partito anti-apartheid dei liberal anglofoni, è vero; ma comunque portandosi a sua volta dietro un minimo di comunità boera.
Insomma, il corteggiamento di Zuma ai boeri e il
suo attacco implicito a Mbeki hanno definitivamente chiarito il quadro. In mezzo appunto Mbeki, con la nomenklatura xhosa di origine mandeliana, la nuova borghesia nera nata da Bee e Bbee e i suoi rapporti di non aggressione col grande capitale anglofono. Alla sua destra un’Alleanza Democratica che dopo aver già aggregato indiani, boeri e coloured all’originale nucleo anglofono cerca ora di sfondare anche tra quei negri più preoccupati per la situazione dell’ordine pubblico. E alla sua sinistra l’ammucchiata populista che tra radicali dell’Anc, comunisti e Cosatu Zuma cerca di estendere da un lato agli zulu e dall’altro ai boeri. In teoria due partiti, ma di fatto tre, con le due ali dell’Anc che si affrontano a suon di colpi bassi. E con l’avvertenza che i concetti di “destra”, “sinistra” e “centro” vanno lì presi piuttosto cum grano salis. Vediamo ad esempio il caso Robert Mugabe: un despota radicale con cui in teoria un personaggio come Zuma dovrebbe trovarsi in sintonia. E infatti una volta lo lodava in continuazione. Ma adesso è Mbeki che mantiene con Mugabe una linea sfumata, opponendosi a ogni pressione troppo dura nei suoi confronti, e lavorando al massimo perché qualche esponente dell’Opposizione possa entrare nel governo dello Zimbabwe. E già il fatto che Mbeki dia a Mugabe una mano basta, a Zuma, per diventare anti-Mugabe. In più, gli spropositi dello stesso Mugabe hanno provocato un’ondata di profughi, da cui in Sudafrica la reazione xenofoba esplosa infine in sanguinosi pogrom. E nel blocco sociale che Zuma sta cercando di costruire anche per gli anti-immigrazione può esserci un posto di riguardo. Sono stati diversi diplomatici africani presenti in Sudafrica che in condizione d’anonimato hanno manifestato i loro sospetti su dirigenti dell’Anc, per l’origine dei moti che a Johannesburg e a Città del Capo hanno provocato 56 morti e varie centinaia di feriti, e in cui sono
dossier stati attaccati non solo zimbabweani ma anche mozambicani, kenyani, nigeriani e somali. Anche se, forse, nella lentezza delle autorità a rispondere va letta più inefficienza che malizia. Altri osservatori puntano invece il dito sull’Inkhata. Come che sia, l’esodo degli immigrati è incominciato, e rischia di privare di almeno un terzo della manodopera l’industria mineraria: tradizionale cuore pulsante in questo Paese che è il primo produttore mondiale di platino e cromo, il secondo di oro e manganese, il quinto di diamanti, il sesto di carbone e l’ottavo di uranio. La multinazionale di origine sudafricana De Beers controlla ancora il 45% della commercializzazione mondiale dei diamanti, pur essendo scesa del 75-80% che aveva ancora fino a pochi anni fa. L’altra multinazionale Anglo American, appartenente alla stessa famiglia Oppenheimer, è al primo posto mondiale nell’estrazione dell’oro, oltre a controllare il 38% di quella di platino ed a produrre anche ferro, rame zinco e nickel. Come già ricordato, il carbone assicura il 90% degli approvvigionamenti di energia elettrica, che arriva per un altro 5% dalla centrale nucleare di Koeber e per il 5% residuo da centrali idroelettriche.
Il 31 luglio, appena sei giorni dopo la spettacola-
re sortita tra i boeri poveri, Zuma è stato però a sua volta colpito in contropiede dalla Corte Costituzionale, che ha rifiutato categoricamente di invalidare i documenti a suo carico, secondo il vecchio ricorso già respinto dalla Corte d’Appello sulle persecuzioni degli Scorpions. «Di conseguenza, la decisione della Corte Suprema è valida», conclude il Presidente della stessa Corte Costituzionale, Pius Langa. Il processo per le tangenti di Chabir Shaik, formalmente ripartito fin dal 29 dicembre, va quindi avanti. L’Anc ha «riaffermato il suo sostegno» al suo presidente. Zuma dice a sua volta che il modo in cui il suo dossier va avanti «rafforza l’impressione di essere un perseguitato piuttosto che un perseguito dalla giustizia». I militanti si mobilitano per tornare a fare gazzarra davanti al tribunale. Il Partito Comunista dice che la magistratura non potrà impedire a Zuma di «diventare capo dello Stato». L’Alleanza Democratica, il cui leader è la sindaco di Città del Capo Helen Zille, plaude ai giudici.
Risk UNA CRESCITA DISCONTINUA E LA CRISI DELL’ANC IPOTECANO LO SVILUPPO
SE L’ECONOMIA VA NEL PALLONE DI
•
I
•
CLAUDIO CATALANO
l Sudafrica ha l’economia più sviluppata del Continente e rappresenta il motore per la crescita dell’intera regione. Per l’Italia, una buona penetrazione economica e rapporti solidi con il paese garantiscono l’accesso all’economia dell’intera area. Tuttavia, dopo la crescita economica sostenuta degli ultimi cinque anni, il 2008 ha avuto un inizio difficile e le pro-
spettive nel breve periodo non sono ottime. Si auspica si tratti solo di una battuta d’arresto; l’economia è solida, ma è caratterizzata da alcuni elementi strutturali deboli, di natura politica, economica ed energetica. I mondiali di calcio del 2010 saranno un’ottima occasione per ravvivare l’economia avviando piani di investimenti nelle infrastrutture, che sono uno dei settori trainanti dell’economia sudafricana. Nei primi dieci anni di democrazia, dal 1994 al 2004, il reddito pro capite è aumentato del 1,1 per cento annuo, mentre la disoccupazione è cresciuta in media dal 15 al 27 per cento. Il periodo d’oro si è avuto tra il 2004 e 2007: il reddito pro capite è quasi triplicato raggiungendo il 3 per cento annuo, mentre la disoccupazione è scesa al 25 per cento rispetto al picco del 30 per cento, raggiunto nel 2002, gli investimenti sono cresciuti in maniera moderata dal 16 al 18 per cento del Pil. L’economia sudafricana ha avuto una forte espansione con tasso medio di crescita del 5 per cento, che è stata sostenuta dalla domanda interna, da riforme strutturali e da condizioni internazionali favorevoli. Le premesse per il 2008, fanno prevedere un rallentamento generale dell’economica. I fattori cri20
tici esterni e interni sono riconducibili alle incertezze politiche ed elettorali al forte rallentamento a livello globale e alla crisi energetica che si è acuita all’inizio di quest’anno. La crisi politica del presidente Thabo Mbeki influenza negativamente l’economia e la vita sociale del paese. Negli ultimi tre anni la presidenza Mbeki ha perso consenso e i media si sono scagliati contro il presidente accusandolo di tutti i mali del paese. Nello scorso dicembre, al congresso dell’African National Congress, l’ala moderata, che sostiene Mbeki, è stata battuta dalla corrente di sinistra guidata da Jacob Zuma, eletto presidente del partito. Le elezioni presidenziali sono previste per maggio 2009, ma - sebbene ciò sembri altamente improbabile – si andrebbe a elezioni anticipate se Zuma riuscisse a far dimettere Mbeki. Alla crisi politica si aggiungono le errate previsioni economiche del governo. L’accelerazione della crescita degli ultimi tre anni, non è stata sostenibile e il tasso di inflazione è aumentato vertiginosamente. L’inflazione ha virato dall’obiettivo fissato dal governo al 6 per cento, consolidando un rialzo dell’inflazione che dura da più di un anno, che ha raggiunto il 10.4 per cento in aprile e il 10,9 per cento in maggio - il valore più alto degli
dossier ultimi cinque anni - e probabilmente raggiungerà il 12 per cento nel corso del 2008. Anche i tassi di interesse sono saliti e probabilmente aumenteranno ancora. Il Pil è sceso dal 5,3 per cento del dicembre 2007 al 2,1 per cento del primo trimestre 2008, il dato più basso degli ultimi sei anni. Sebbene il ministro delle finanze, Trevor Manuel, continui a sperare in una crescita del Pil al 4 per cento per il 2008, con un’inflazione del 9,5 per cento. Gli analisti sono orientati al ribasso e le proiezioni per il 2008 sono intorno al 3,3 per cento, che equivale al tasso di crescita sostenibile (3,5 per cento) per il Sudafrica, per cui il rallentamento gioverebbe alla riduzione dell’inflazione, ma alcuni tendono persino al 2,8 per cento. Il rallentamento durerà senz’altro più di un anno, perché gli ostacoli alla crescita nel medio termine sono elevati. Il rallentamento dell’economia globale è un altro fattore critico legato alla crescita, perché questa viene finanziata da flussi provenienti dall’estero. Si crea, anche, un forte disavanzo nelle partite correnti, il cui finanziamento da parte degli investitori esteri risente negativamente del riprezzamento del rischio a livello globale e potrebbe interrompersi all’improvviso. Le conseguenze sarebbero ancora più gravi, se l’interruzione dei flussi esteri coincidesse con un ribasso a livello globale dei prezzi all’ingrosso per categorie di prodotti. Si potrebbe ovviare in parte al problema accelerando le esportazioni, ma la crescita storica delle esportazioni sudafricane non è incoraggiante. In termini reali, le esportazioni sono cresciute di un terzo tra il 1960 e il 2004, ovvero meno dell’uno per cento annuo. Nello stesso periodo le esportazioni sono cresciute del 387 per cento in Canada, del 385 per cento in Brasile, del 238 per cento in Australia e del 390 per cento in Cile.
paese ha bisogno di un nuovo modello di crescita basato sulle “esportazioni per lavoro”. La strategia prende spunto dal fatto che solo il 42 per cento dei giovani in età lavorativa è impiegato. In altri paesi con pari sviluppo questa percentuale è superiore al 60 per cento, c’è quindi un potenziale per impiegare molte più persone, principalmente giovani donne, nere, con istruzione elementare. Il modello dovrebbe creare posti ad alta intensità di lavoro e bassa specializzazione, concentrati in attività a bassa tecnologia, soprattutto nei settori “commerciabili”. Il modello ridurrebbe il disavanzo delle partite correnti, ma avrebbe conseguenze politicamente non accettabili, perché porterebbe a una svalutazione della moneta nazionale, il Rand, una questione che i sudafricani non vogliono affrontare. L’equilibrio del tasso di cambio crea pieno impiego e migliora la bilancia dei pagamenti; in Sudafrica c’è un deficit nella bilancia dei pagamenti e un alto tasso di disoccupazione. Ciò può solo vuol dire che la moneta è sopravvalutata. Bisogna anche prendere in considerazione il costo sociale di un riequilibrio del cambio. La svalutazione del tasso di cambio porterebbe a più bassi livelli di vita per gli impieghi dei settori diretti al mercato nazionale, come la finanza e gli immobili - che ammontano ad valore totale pari al 21 per cento del Pil - e per il manifatturiero, che vale 16 per cento del Pil. Il settore manifatturiero, poi, ha avuto una leggera ripresa nell’aprile 2008, quando la produzione ha raggiunto una crescita 9.8 per cento rispetto all’aprile 2007, soprattutto nei settore altamente produttivi della chimica e plastica, che hanno raggiunto il valore più alto negli ultimi sei anni: il 15,6 per cento. Un deprezzamento del Rand potrebbe favorire le esportazioni, ma il manifatturiero come tutti i settori industriali potrebbe soffriSecondo gli economisti di Harvard, diretti da re per la crisi energetica. La crisi energetica è l’inRicardo Hausmann e Dani Rodrik, che agiscono cognita principale dell’economia sudafricana. come consiglieri del ministro delle finanze, il Negli ultimi dieci anni, il Sudafrica ha attuato una 21
Risk politica di ampliamento della rete elettrica, mantenendo le tariffe molto basse. Dall’inizio del 2008 capacità il sistema produttivo e distributivo è arrivato a un punto critico, dimostrato da continui black out. L’azienda pubblica produttrice di energia Eskom ha avviato una politica di razionamento energetico, anche per il consumo commerciale e industriale, provocando danni a interi settori. Nel gennaio 2008, Eskom ha instaurato l’obbligo di turnazione nell’erogazione di elettricità, provocando la chiusura temporanea delle miniere e la perdita del 22 per cento nella produzione mineraria nel primo trimestre del 2008.
I rapporti economici tra Italia e Sudafrica hanno preso un nuovo slancio dopo la visita in Italia del presidente Mbeki, nel marzo 2006, durante la quale è stato firmato un accordo tra le associazioni industriali dei due paesi (Busa e Confindustria) Il settore minerario è importante in termini di reddito, occupazione e di esportazioni. Le conseguenze della crisi energetica sono l’ulteriore calo della produzione industriale e possibili tagli occupazionali nel settore, per un paese che è già gravato da un tasso elevato di disoccupazione. Il presidente di Eskom Jacob Maroga ha dichiarato che la crisi energetica durerà per anni e che la turnazione nell’erogazione di elettricità continuerà «per molto tempo in futuro». Il principale problema è che il progetto di Eskom implica il rialzo del 53 per cento delle tariffe elettriche. Al rialzo 22
dei prezzi si oppongono l’industria e i sindacati (Congress of South African Trade Unions) che minacciano scioperi, se il piano regolatore energetico nazionale recepirà la proposta di rialzo. I vertici del settore minerario preferirebbero una crescita graduale delle tariffe nei prossimi cinque anni, accompagnata dall’aumento della capacità di produzione energetica utilizzando operatori del settore privato. In aprile, invece l’autorità nazionale per l’energia elettrica ha autorizzato Eskom ad aumentare le tariffe del 27,5 per cento per il biennio 2008-2009. In realtà l’aumento è inferiore del 50 o 60 per cento rispetto a quello richiesto da Eskom, ma l’azienda pubblica ha ottenuto un’autorizzazione provvisoria ad un rialzo del 20-25 per cento anche per i successivi tre anni. Se per il consumatore l’aumento dell’energia elettrica incide sul reddito, per l’industria è preferibile avere energia più costosa, ma avere la sicurezza nel rifornimento energetico. Il Sudafrica non poteva, comunque, continuare a lungo a produrre elettricità a prezzi irrisori e anzi l’aumento delle tariffe crea opportunità per investimenti da parte di produttori indipendenti o dall’estero nel settore energetico. Un raddoppio delle tariffe per tre anni consecutivi non dovrebbe recare danni permanenti sulla competitività del sistema economico, più gravi della mancanza di sicurezza energetica. Il rialzo del prezzo dell’energia inciderà sull’inflazione per almeno l’un per cento e potrebbe provocare ulteriori rialzi dei tassi d’interesse da parte della Banca centrale sudafricana.
Un’impennata che nel corso del 2008,
potrebbe aggravare la caduta dei consumi reali, soprattutto nei settore immobiliare e automobilistico. La spesa al consumo è stato il principale fattore di crescita negli ultimi anni, insieme all’innalzamento dei prezzi nel mercato globale per l’esportazione delle risorse minerarie del paese. Nemmeno l’aumento dei beni alimentari – un fenomeno di natura globale - soprattutto il raddop-
dossier piamento del prezzo del granturco, giova all’economia sudafricana, perché l’agricoltura conta solo per il 2,2 per cento del Pil e la sua crescita non è sufficiente ad arginare la discesa di produttività di tutti gli altri settori. Gli altri ostacoli alla crescita economica del breve termine, individuati dalle autorità sudafricane, riguardano le infrastrutture e logistica inadeguate; carenza di lavoro qualificato soprattutto nel settore minerario; le barriere all’ingresso e la competitività nei settori principali; e un sistema di regolamentazione inefficiente, in particolare riguardo le piccole e medie imprese. Nel 2009, lo scenario dovrebbe migliorare e nonostante gli ostacoli strutturali e la congiuntura economica internazionale, le prospettive di crescita sono positive.
Il governo ha varato programmi governati-
vi di sviluppo locale infrastrutturale e logistico (Critical Infrastructure Programme, Spatial Development Initiative, Expanded Public Work Programme, Accelerated and Shared Growth Initiative). Nell’ambito della Accelerated and Shared Growth Initiative, il governo punta ad una crescita sostenibile del 4,5 per cento per il periodo 2005-2009 e – dato meno realistico - del 6 per cento medio annuo tra il 2010 e il 2014, nonché a dimezzare la disoccupazione entro il 2014. La speranza nel breve termine è sostenuta dalle costruzioni, uno dei settori trainanti dell’economia sudafricana, che continua a registrare una crescita sostenuta, con un tasso di crescita medio annuo previsto intorno al 6,5 per cento nel periodo 20072010. Questa crescita è legata soprattutto al rialzo dei tassi di interesse e agli investimenti pubblici e privati in infrastrutture per i mondiali di calcio del 2010. Nel 2009, grazie agli investimenti in infrastrutture per i mondiali e al conseguente aumento dell’occupazione nelle costruzioni, il tasso di crescita reale del Pil dovrebbe attestarsi intorno al 4.4 per cento. Le previsioni sono frenate dalle possibili
carenze energetiche, che limitano la produzione industriale e mineraria e dal possibile rialzo dei tassi di interesse che agisce da calmiere sulla propensione al consumo. I programmi di investimenti saranno quindi lo strumento principale per superare le difficoltà congiunturali. Per i mondiali del 2010, il presidente Mbeki ha annunciato nel febbraio 2006, un programma di investimenti per il periodo 2006-2010, per un valore complessivo pari a 40 miliardi di euro, concentrati nei settori dei trasporti, dell’energia, della comunicazione, e della fornitura di servizi locali di base. Secondo le stime della società di consulenza Grant Thornton, i mondiali inietteranno nell’economia un afflusso di risorse addizionali pari a 2,4 miliardi di euro, generando un volume di investimenti e spese pari a 1,4 miliardi di euro, creando circa 160mila nuovi posti di lavoro diretti e indiretti. Secondo la principale camera di affari, Business Unity South Africa, ci si attende che il settore privato contribuisca a fornire la maggior parte del 2,3 miliardi di Rand necessari per adeguare le infrastrutture del paese in vista del 2010 con prospettive di elevati ritorni. I mondiali crea opportunità per investimenti internazionali non solo nel campo delle forniture per le infrastrutture (materiali da costruzione, attrezzature e competenze tecniche), ma per partnership con aziende pubbliche sudafricane operanti nei settori strategici quali Eskom, Transnet, Gautrain e Coega Idz. Nonostante la non proprio rosea congiuntura economica, l’economia sudafricana offre interessanti opportunità di investimenti anche per l’Italia. I rapporti economici tra Italia e Sudafrica hanno preso un nuovo slancio dopo la visita in Italia del presidente Mbeki, nel marzo 2006, durante la quale è stato firmato un accordo tra le associazioni industriali dei due paesi (Busa e Confindustria). Su invito del presidente Mbeki fu concordata una missione di imprenditori italiani in Sudafrica per il 2007. Il Sudafrica entrò, così, a far parte delle 23
Risk priorità strategiche di Confindustria per le attività di internazionalizzazione delle piccole e medie imprese. Dal 1997, infatti, alcune grandi imprese italiane come Duferco, Fiat e Iveco, Fincantieri, Luxottica, Magneti Marelli, Parmalat e Pirelli hanno investito in Sudafrica sia in impianti di produzione e che in sedi commerciali. Ad esempio, AgustaWestland società del gruppo Finmeccanica coproduce con la società sudafricana Denel Aviation gli elicotteri del programma A109 LUH per la South African Air Force, mentre per la Marina Militare sudafricana, AugustaWestland fornisce gli elicotteri Super Lynx. Per il mercato civile la società fornisce elicotteri per il trasporto di piloti portuali, ma è soprattutto attiva nel segmento degli elicotteri VIP, in particolare in virtù di un accordo di distribuzione firmato nel novembre 2007 con Helivip services. Anche molte banche italiane, sono presenti in Sudafrica: Banca di Roma del gruppo Unicredit ha un ufficio di rappresentanza, mentre Bnl, Antonveneta, Cariparma e Friuladria, dopo le recenti acquisizioni da parte di gruppi stranieri dispongono oggi di filiali e uffici di rappresentanza. La Banca Popolare di Sondrio ha stipulato un accordo di collaborazione con intermediari locali. L’Italia è uno dei primi dieci partner commerciali del Sudafrica, il nono per l’esattezza. Secondo la Camera di Commercio Italiana in Sudafrica il made in Italy rappresenta il 73 per cento delle esportazioni in Sudafrica, mentre la meccanica è il primo settore, con un volume di esportazioni di 517,8 milioni di euro nel 2006. Gli altri settori principali sono: elettronica ed elettrotecnica, prodotti chimici e fibre. L’interscambio è aumentato tra il 2004 e il 2006 del 29,5 per cento e ci sono forti prospettive di crescita. La quota di mercato italiana è inferiore rispetto a quella di altri paesi industrializzati anche perché in Italia c’è la percezione che il Sudafrica sia un paese a rischio. La missione doveva eliminare 24
questa percezione perché secondo l’ambasciatore Vincenzo Petroli, consigliere diplomatico del presidente di Confindustria, i sudafricani “sono ottimi pagatori”. La penetrazione nel Sudafrica si rivela strategica, perché si intensifica l’integrazione tra i paesi dell’Africa australe, «nel 2008 si realizzerà un’area di libero scambio, dal 2011 ci sarà un vero mercato comune. Il Sudafrica diventa una base da cui partire per fare business in tutta l’area». La conclusione dei molti accordi di libero scambio firmati con partner commerciali, rendono il Sudafrica una porta per il resto del continente, e per l’India e il Brasile. Per l’Italia, le principali opportunità individuate per la missione imprenditoriale, riguardavano – oltre al tradizionale made in Italy - soprattutto i settori turistico, minerario, edile, ambiente, energia, agricolo e alimentare (food processing), infrastrutture, della meccanica e dell’automobilistica. Il Sudafrica ha un’economia di origine mineraria e desidera crescere nel manifatturiero, si crea, quindi, il bisogno di infrastrutture a tutti i livelli e di investimenti diretti nel manifatturiero. Secondo il presidente di Federmeccanica, Massimo Calearo “l’interesse per il manifatturiero apre spazi per le aziende metalmeccaniche italiana”.
La missione di Confindustria in collabora-
zione con Ice ed Abi si è svolta in Sudafrica dall’8 al 12 luglio 2008. Le missioni di sostegno alle imprese o “missioni di sistema” - che hanno interessato la Russia, il Giappone, il Kazakhstan, il Vietnam e il Messico - sono state iniziative molto frequenti durante il governo Prodi II e la presidenza di Confindustria di Montezemolo. Si trattava di missioni finalizzate a rappresentare il sistema Italia nel mondo organizzate dal ministero degli Affari esteri, dal ministero del Commercio internazionale, e da Confindustria, Abi, Ice, Sace e Simest cui partecipavano le grandi, medie e soprattutto piccole imprese italiane. Nella delegazione italiana le piccole e medie imprese erano la
dossier maggioranza, perché, mentre le grandi imprese posseggono una rete commerciale e produttiva estesa nel paese di interesse, le piccole e medie imprese hanno bisogno del sostegno del governo, delle associazioni di settore, delle grandi imprese e delle banche – ovvero di una presenza di tutto il sistema paese - per approcciare per la prima volta il mercato internazionale o per consolidare la loro presenza. La comunità imprenditoriale sudafricana nutriva grandi aspettative sulla crescita dell’interscambio bilaterale. Inoltre, da parte del Sudafrica c’era l’interesse a conoscere meglio il sistema dei distretti industriali, come modello di sviluppo. La missione ha toccato Johannesburg, Città del Capo e Durban e ha interessato 150 imprese italiane, 14 associazioni imprenditoriali e 10 gruppi bancari. Si sono svolti 1.500 incontri tra imprenditori italiani e sudafricani. A Johannesburg, il 9 luglio, si è svolto il Forum economico sulle possibilità d’investimento. La delegazione italiana è stata invitata a visitare il cantiere di Soccer City, lo stadio Fnb che ospiterà la cerimonia di inaugurazione e la finale. Si sono svolte visite presso l’Innovation Hub e seminari tecnici di approfondimento sulle opportunità di investimento e incontri tra le imprese italiane e sudafricane operanti nelle infrastrutture e materiali da costruzione, meccanica, automobilistica, energia e ambiente, orafo e gioielleria, turismo e strumenti finanziari a sostegno degli investimenti diretti in Sudafrica. Dopo la prima tappa di Johannesburg, le imprese italiane sono state suddivise in base ai settori di appartenenza, proseguendo la missione a Città del Capo, per i settori turismo, agroindustria, macchine agricole, pesca e vino Food & Beverages processing & Packaging; a Durban - il primo porto per importanza dell’Africa e snodo strategico tra Estremo Oriente, America e Europa - per infrastrutture e logistica, materiali da costruzione, energia e ambiente, meccanica e componenti per l’industria automobilistica.
Il primo accordo della missione è stato firmato dal gruppo Maccaferri con Armco per una commessa per una condotta mineraria in Madagascar.
Secondo le stime dell’Abi - presentate al
Forum economico di Johannesburg – il sistema bancario italiano ha stanziato 800 milioni di euro per sostenere l’internazionalizzazione delle imprese italiane in Sudafrica. Il 28 per cento della quota, pari a circa 191 milioni di euro, è già stato utilizzato, prima della missione, per finanziare progetti ed iniziative nel mercato sudafricano mentre oltre 600 milioni, pari al 72 per cento, sono disponibili per finanziare nuove e ulteriori attività imprenditoriali. Di queste il 58 per cento del plafond è destinato a operazioni a breve termine, mentre il rimanente 42 per cento è collocato sul medio-lungo termine e risponde alla domanda di finanziamento, da parte delle imprese che operano in Sudafrica. La nutrita delegazione bancaria, formata da otto gruppi (Banca Antonveneta-Abn Amro, Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Popolare di Vicenza, Banca Sella, Banca Mps, Banco Popolare di Verona e Novara, IntesaSanpaolo e Unicredit) ha fornito prova dell’interesse del sistema bancario italiano per il mercato sudafricano e del supporto alle strategie di internazionalizzazione delle imprese italiane. La Sace ha firmato un accordo con la Ecic - l’analoga società sudafricana che offre un servizio di assicurazione del credito e di protezione degli investimenti - per sostenere operazioni congiunte di imprese italiane e sudafricane verso Paesi terzi. Secondo una iniziativa di consolidamento della presenza, la Sace ha inaugurato l’8 luglio 2008, la nuova sede a Johannesburg. La missione in Sudafrica è stata una occasione per avviare o rinsaldare legami di collaborazione con le imprese sudafricane. Dopo la missione in luglio, c’è stato una iniziativa di follow up, in settembre, per dare cioè continuità e consolidare i risultati ottenuti nella missione e valutare nuovi 25
Risk accordi tra le imprese, con il sostegno delle rappresentanze all’estero, dell’Ice e delle associazioni di categoria. Tuttavia, nel corso del 2007, le esportazioni italiane hanno subito un leggero calo, rispetto al 2006, attestandosi al valore di 1,5 miliardi di euro. Secondo le previsioni di Sace, nello studio sull’andamento dell’export italiano nel periodo 2008-12, per il periodo in questione le esportazioni in Sudafrica dovrebbero avere crescita media annua dell’8,1 per cento, una percentuale superiore alla media di 6,9 per cento prevista a livello globale nello stesso periodo.
I Mondiali di calcio 2010 rimangono la
migliore opportunità in Sudafrica per le imprese italiane almeno per il prossimo biennio. Infatti, gli effetti economici non saranno limitati al programma di sviluppo delle infrastrutture, ma si estenderanno ai flussi turistici, alle ricadute nel settore manifatturiero con effetti di lungo periodo sul profilo di crescita dell’economia per la riduzione della disoccupazione e infine sull’immagine internazionale del Sudafrica. In occasione della visita in Italia di Mbeki, l’allora presidente di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, commentando le buone performance dell’interscambio Italia-Sudafrica, dichiarò che “non possiamo però sentirci appagati. Esistono dei notevoli margini di incremento delle relazioni tra i due paesi” perché “un’ulteriore occasione di sviluppo è rappresentata dai mondiali di calcio che nel 2010 si svolgeranno nel paese” e rivolgendosi scherzosamente al Presidente Mbeki, Montezemolo aggiunse “noi veniamo per vincere” intendendo, forse, non solo le partite di calcio. Gli eventi sportivi contano molto per l’immagine internazionale di un paese, tanto che al Forum economico di Johannesburg del 9 luglio 2007, il vicepresidente sudafricano Phumzile Mlambo-Ngcuka ha accolto la missione italiana con l’entusiasmo “di ricevere i campioni del mondo di calcio”. 26
Altri paesi europei hanno da tempo avviato iniziative di promozione per i mondiali: il Regno Unito ha inviato una delegazione composta dal ministro dello sport e imprenditori, e sotto il profilo dell’immagine ha organizzato un campionato di calcio quadrangolare tra Manchester United e Ranger Glasgow e le due principali squadre del Sudafrica. La Germania ha avviato una serie di incontri bilaterali per aiutare le autorità sudafricane nell’organizzazione dell’evento. Secondo gli obiettivi del Comitato Organizzatore, tutti i siti per i mondiali dovevano essere completati nel periodo tra giugno e dicembre 2008, ma il piano di medio-termine del governo per i mondiali ha spostato il termine ultimo al 30 ottobre 2010. I sudafricani hanno deciso di effettuare investimenti nelle aree infrastrutturali critiche: stadi; punti di trasmissione radiotelevisiva delle gare; viabilità e trasporti; servizi Ict e infine infrastrutture turistiche, ospedali, cliniche, stazioni di polizia. Il costo previsto per gli stadi si aggira sui 600 milioni di euro, ma tale cifra è destinata a salire, mentre per le altre infrastrutture si prevede una spesa di 1,4 miliardi di euro, per le opere infrastrutturali, per l’ammodernamento e ampliamento degli aeroporti, per la rete viaria e ferroviaria. I piani preliminari relativi ai dieci siti dei campionati sono stati completati, ma si è in ritardo nella preparazione ai mondiali e le opportunità maggiori per le imprese italiane, non riguardano tanto le infrastrutture, in quanto tali, ma i servizi di qualità e soprattutto la sicurezza. L’afflusso previsto di circa 235mila visitatori richiede, infatti, eccellenti reti logistiche e di trasporti, e quindi investimenti nelle reti viarie, ma soprattutto strategie di ottimizzazione della gestione del traffico e del sistema dei trasporti, tramite soluzioni tecnologiche (interconnessione Ict tramite fibre ottiche e servizi telematici per la gestione dei flussi di traffico), offrendo opportunità per le imprese specializzate nel settore. Tra dicembre 2008 e gennaio 2009 saranno messi a punto gli
dossier ultimi ritocchi al piano per i trasporti. Gli Aeroporti del Sudafrica dovranno essere pronti a assorbire l’afflusso di visitatori. La società di gestione aeroportuale del paese, Airport Company of South Africa (Acsa) ha annunciato investimenti per circa 650 milioni di euro per i prossimi cinque anni. Tali investimenti saranno destinati all’ammodernamento e all’ampliamento dei tre aeroporti internazionali del paese (Johannesburg, Durban e Cape Town), mentre altri fondi verranno utilizzati per la ristrutturazione di altri aeroporti nazionali delle località che ospitano i mondiali. L’Italia ha avuto una presenza importante nel sistema aeroportuale sudafricano. Aeroporti di Roma ha recentemente dismesso una partecipazione in Acsa, pari al 20 per cento, oltre a un’opzione per un ulteriore 10 per cento. Selex Sistemi Integrati, società del gruppo Finmeccanica, ha fornito negli anni passati sistemi radar e sistemi per il controllo del traffico aereo, per numerosi aeroporti sudafricani e collabora con l’azienda locale Reutec per il loro ammodernamento. Gli aspetti legati alla protezione e alla sicurezza sono fondamentali per il successo dei grandi eventi sportivi. Si richiedono soluzioni tecnologiche, nelle quali le aziende italiane specializzate potrebbero fornire apparati per l’identificazione personale, la videosorveglianza e servizi software di analisi e gestione di processi per il contrasto al terrorismo e alla criminalità.
fornitura di attrezzature medico-diagnostiche e antinfortunistiche, prevenzione anti-incendio e piani di emergenza che possono essere forniti da società di servizi. Le altre opportunità nei servizi riguardano la progettazione, direzione dei lavori, valutazioni di impatto ambientale nel settore edile; l’editoria, il turismo, marketing e comunicazione per la promozione degli eventi sportivi ed i servizi finanziari ed assicurativi, consulenza legale e fiscale. A queste nuove opportunità si aggiunge il consolidamento di servizi di forniture e sub-forniture già
Secondo gli obiettivi del Comitato Organizzatore, tutti i siti per i mondiali dovevano essere completati nel periodo tra giugno e dicembre 2008, ma il piano di medio-termine del governo per i mondiali ha spostato il termine ultimo al 30 ottobre 2010
In Sudafrica la criminalità è un fenomeno
che rallentare il Pil e limita la libertà di movimento. Il governo ha deciso di migliorare la situazione della sicurezza in occasione dei mondiali. L’enorme afflusso di visitatori richiede anche misure di prevenzione quotidiane, come i programmi di protezione medico-infortunistica con la
avviati, di impianti e macchinari, di prodotti dell’elettronica e delle telecomunicazioni, oltre ai tradizionali beni del made in Italy cui si aggiungono oggetti di merchandising e gadget per l’evento. I mondiali del 2010 presentano opportunità che vanno oltre l’evento immediato e offrono la possibilità di una collaborazione stabile, continuativa e di lungo periodo. Una progressiva e costante internazionalizzazione delle imprese italiane in Sudafrica, soprattutto per le piccole e medie imprese, può portare, in una prospettiva di mediolungo periodo, a risultati stabili e durevoli sia per l’economia italiana che sudafricana. 27
dossier
ANCHE DOPO L’APARTHEID LE FORZE ARMATE SONO UN PUNTO DI RIFERIMENTO
ESERCITO FORTE, MA A RISCHIO CRISI DI
•
I
•
ANDREA NATIVI
l Sudafrica è la potenza militare più importante di tutta l’Africa Australe. Lo strumento militare di Pretoria è qualitativamente, tecnologicamente e quantitativamente valido, soprattutto in termini relativi, considerando cioè ciò di cui dispongono i vicini e gli altri paesi del Continente, anche se in termini assoluti la “lancia” è certamente meno affilata rispetto a quan-
to non lo fosse prima della fine dell’apartheid. Ma prima del 1994 il Sudafrica era un Paese in guerra, coinvolto più o meno massicciamente in conflitti con alcuni dei Paesi limitrofi e con problemi significativi di sicurezza interna e guerriglia, che peraltro era riuscito a porre sotto controllo. Con la fine del regime razzista e l’avvento del nuovo Sudafrica democratico si è avuta una delicata fase di smobilitazione bilanciata (anche le formazioni armate della guerriglia sono state sciolte), una drastica riduzione della consistenza della macchina militare, una sua conversione e una revisione totale dei compiti e dei ruoli assegnati. Un po’ come è accaduto anche in Europa dopo la fine della Guerra Fredda, c’è stata una ragionevole aspirazione a incassare rapidamente i cosiddetti “dividendi della pace”, conseguenti alla fine delle operazioni in Angola e Namibia e poi della fine dell’apartheid, mentre c’era una ragionevole diffidenza da parte dell’Anc nei confronti dei vecchi avversari. Ecco che tra il 1989 e il 1999 la spesa per la difesa è passata da 3,8 miliardi di dollari a 1,6 miliardi, mentre gli investimenti per l’ammodernamento e la ricerca si sono ridotti di un ordine di grandezza, scendendo da 2,3 miliardi a 200 milioni di dollari. Come è noto, nel settore militare è difficile, costoso e lungo il processo che porta alla creazione di credibili
capacità militari, capacità che possono essere compromesse però con estrema rapidità se si riducono improvvisamente e in modo poco meditato strutture, mezzi e organici. Questo è accaduto anche in Sudafrica, ma per fortuna il Paese non ha più veri e propri nemici alle frontiere e ha una situazione di sicurezza esterna relativamente tranquilla, fatta eccezione per il problema della immigrazione clandestina e delle tensioni crescenti che questa produce sul piano interno, come confermato dai primi episodi di violenza xenofoba su vasta scala divampati a fine 2007 nelle township, che hanno visto il Governo ricorrere all’impiego dell’Esercito in supporto delle Forze di Polizia. Inoltre la trasformazione delle Forze Armate sudafricane è stata abbastanza graduale. Non di meno la situazione si era fatta piuttosto difficile alla metà degli anni ‘90. Il governo però ha provveduto a definire una nuova politica militare e un rilancio del sistema difesa con una serie di documenti, a partire dal Libro Bianco della Difesa del 1996 e poi varando un consistente piano di investimenti per l’ammodernamento, destinati principalmente a Aeronautica e Marina e raggruppati nello Strategic Defense Package del 1999. Si è trattato di un programma della durata di 12 anni del costo complessivo di 30,3 miliardi di rand dell’epoca (saliti a 45 miliardi considerando tasse, 29
Risk costi amministrativi e finanziari), che oltre a consentire un sostanziale rinnovamento di tutti i materiali più importanti delle due Forze Armate ha avuto una valenza economico-tecnologica-strategica molto più ampia: la spesa per la difesa è stata infatti considerata come un volano per consentire la crescita dell’industria nazionale, l’acquisizione di tecnologia e di knowhow e la formazione di tecnici specializzati. E in una certa misura i risultati desiderati sono arrivati, anche perché il governo aveva richiesto pesantissimi pacchetti di offset, compensazioni industriali - comprendenti i Dip, Defense Industrial Partecipation - che in qualche caso si sperava potessero raggiungere il livello astronomico del 400 per cento (quando mediamente si considerano estremamente onerosi contratti che prevedono un 100-120 per cento di compensazioni). Sicuramente l’economia sudafricana ha beneficiato da questi programmi, ma intorno al 2011/2012 i vari fornitori completeranno gli impegni sottoscritti. I programmi di acquisizioni dell’Sdp hanno richiesto e richiederanno risorse addizionali, perché rispetto alle previsioni c’è stato uno sforamento di oltre il 5 per cento (che comunque è più che accettabile considerando quello che accade ai grandi programmi europei o statunitensi). Che accadrà dopo? Le scelte andranno al nuovo Presidente che prenderà il posto di Thabo Mbeki. In mancanza di nuovi programmi di investimento nazionali, le joint ventures e le spese effettuate nel settore aerospazio e difesa rischiano di essere vanificati. Tuttavia nell’ambito degli accordi di offset non più del 20-25 per cento dei ritorni economico/ industriale era legato al settore specifico, il resto riguardava l’economia e l’industria sudafricana in generale. Buona parte delle iniziative economiche “non difesa” potranno prosperare, a seconda di come saranno gestite, considerando che comunque l’economia del paese è in espansione, ma quelle, più pregiate per contenuto tecnologico e strategico, rischiano di soffrire. Sarà quindi interessante vedere come Jacob Zuma deciderà di affrontare la questione. Gli analisti ritengono improbabile che si arrivi a un nuovo Sdp, anche se l’Esercito deve essere completamente 30
ammodernato e riorganizzato. Zuma dovrebbe avere altre priorità, tanto più visto che con le commesse militari si è già scottato. Se il Sudafrica non ha veri e propri nemici, certo non può permettersi di abbassare troppo la guardia e rischiare di essere coinvolto in problemi di instabilità esterna, né può dimenticare quanto sia dipendente dalle linee di commercio marittimo. Inoltre il Paese vuole giocare un ruolo di potenza regionale, con la capacità di sviluppare una politica di influenza politica/economica che è anche rivolta a contrastare gli sforzi in atto da parte di paesi come la Cina (ma anche degli Stati Uniti) di “conquistare” il continente africano, con obiettivi che vanno al di là dei diritti e dei contratti per lo sfruttamento delle materie prime e delle risorse naturali africane.
Infine la situazione interna del “paese arcobale-
no” mostra perduranti e forse accresciute tensioni, tra etnie e classi sociali, con il governo che non riesce a soddisfare le aspirazioni delle masse di disoccupati e diseredati che si affastellano in baraccopoli alle periferie dei grandi centri urbani. Le Forze Armate sono un elemento di coesione e di deterrenza ed uno strumento importante cui ricorrere in caso di guai. Il Sudafrica, pur avendo una economia che continua a “tirare”, con un tasso di crescita stimato al 5 per cento, ha un approccio molto pragmatico per quanto concerne la spesa militare: il bilancio della difesa è si in crescita costante negli ultimi anni, tuttavia gli incrementi riescono soltanto a compensare l’elevata inflazione (e l’inflazione militare poi ha una dinamica, superiore a quella civile), mentre risorse cospicue devono essere destinate a migliorare le condizioni di vita dei militari e delle loro famiglie. Già, perché per quanto possa sembrare assurdo in un paese dove la priorità è quella di trovare un lavoro regolare, le Forze Armate, che applicano un sistema di alimentazione basato esclusivamente su volontari e professionisti e che sono strutturate secondo la tradizione impostazione anglosassone, con una componente in servizio attivo affiancata da una forza di riservisti, sono afflitte dalla mancanza
dossier di personale. In particolare mancano le figure con particolari competenze tecniche, ma persino tra i militari di truppa e i graduati si registrano carenze importanti. Questo perché con l’economia in espansione c’è una forte domanda non di braccia, ma di cervelli e di competenze e le Forze Armate hanno corsi di formazione di ottimo livello. Le aziende private possono offrire prospettive di carriera, qualità di vita e stipendi ben diversi da quelli militari. Ma i soldati sudafricani sono anche molto richiesti dai ministeri della difesa di altri paesi anglofoni (Australia e Nuova Zelanda in particolare), ma anche Gran Bretagna, senza contare le società private militari a caccia di contractors (a proposito, il Sudafrica ha approvato una legislazione molto restrittiva sulle Pmc, Private Military Companies, domestiche, che un tempo erano tra le più famose e spregiudicate ma questo non impedisce a cittadini sudafricani di trovare impiego presso le Pmc/Psc internazionali, a dispetto dei divieti imposti con legge, e si calcola che fino a 2mila sudafricani stiano “lavorando” in Iraq e Afghanistan): risultato? Nel solo 2007 la Sadf (South African National Defense Force) ha perso un migliaio di tecnici, il 10 per cento del totale, ha subito una pesante emorragia di piloti, esperti di manutenzioni, ufficiali di marina, ufficiali tecnici e ingegneri. Al punto che i contingenti inviati all’estero in missioni di peacekeeping non riescono a mantenere i propri mezzi e che l’Aeronautica è stata costretta a mettere a terra anticipatamente alcuni reparti di caccia perché non ha i piloti per farli volare. Le Sadf soffrono poi delle politiche volte a allinearne la composizione riflettendo la natura “arcobaleno” della società civile, cosa che ha visto il pensionamento di molti tecnici e di personale esperto bianco e progressioni di carriera a favore dei “nuovi” entrati che, ancorché politicamente corrette, hanno avuto un pesante impatto sulle capacità operative e sul morale. Persino tra la truppa un benevolo nepotismo ha portato ad arruolare elementi non in possesso delle qualità anche solo fisiche richieste per il ruolo e questo addirittura presso i reparti di elite. Intendiamoci, non siamo ancora allo sfascio e
all’inefficienza che caratterizza buona parte degli eserciti africani, ma certo la Sadf sta subendo un progressivo peggioramento qualitativo. Ciò nonostante la consistenza della componente attiva delle Forze Armate si aggiri intorno alle 60mila unità, due terzi dei quali in servizio con l’Esercito, mentre l’Aeronautica, tradizionale elemento di forza nella Difesa sudafricana, ha circa 9mila effettivi e meno di 6mila solo in servizio con la Marina. Il servizio di sanità militare, che ha status separato, ha 6mila effettivi. Considerando che la popolazione del Sudafrica supera i 45 milioni di abitanti, senza considerare gli immigrati più o meno clandestini, si tratta di organici davvero ridotti. Tanto più data l’estensione del territorio nazionale. Il quadro migliora solo parzialmente considerando che la componente di riserva può contare su circa 9mila elementi, mentre dipendono dal ministero della Difesa anche 15.700 civili.
Tornando al bilancio, il ministro della difesa
Mosiuoa Lekota continua a protestare perché le risorse assegnate sono insufficienti per consentire alle Sadf di svolgere i compiti assegnati, che per converso continuano ad aumentare. Pesano in particolare gli impegni militari all’estero. Il Sudafrica nel 2007 ha in media impegnato 2mila settecento soldati in missioni all’estero. Ancorché si tratti di un decremento rispetto al picco di 4mila ottocento unità registrato nell’anno precedente, mentre per l’anno in corso la previsione è di non superare di molto le 3mila cento unità medie, si tratta comunque di numeri significativi per un paese come il Sudafrica. Va infatti considerato che truppe ed equipaggiamenti devono essere periodicamente sostituiti: per schierare in permanenza un soldato occorre averne almeno 3-4 a disposizione. Il ministro ha auspicato un incremento della spesa per la difesa dall’attuale 1,2 per cento del Pil all’1,5 per cento del Pil, ottenendo un certo consenso in Parlamento (ma le scelte cruciali verranno compiute solo dopo le elezioni presidenziali) e ha anche chiesto al governo di limitare al massimo gli impegni milita31
dossier ri di peacekeeping. In effetti i soldati sudafricani sono o sono stati schierati in Congo, Burundi, Darfur con contingenti anche consistenti, mentre osservatori e ufficiali di staff sono impiegati in Liberia, Eritrea ed Etiopia. Sudan e la Liberia sono piuttosto distinti dai confini nazionali e le missioni quindi confermano l’interesse politico di Pretoria a estendere le proprie attività strategiche a buona parte della porzione subsahariana del continente. Il Sudafrica poi ha anche offerto un contributo alla creazione della Brigata stand-by della Sadc, Southern African Development Community, che, tanto per cambiare, ha incontrato sei problemi a diventare qualcosa di più di una aspirazione. La Brigata Sadc dovrebbe essere operativa dal 2010, ma è in ritardo. Come del resto è in alto mare la costituzione di altre quattro Brigate di pronto impiego, una per area regionale, che l’Unione Africana si era ripromessa di costituire per poter disporre di una capacità di reazione immediata in caso di crisi, conflitto, esigenze di peacekeeping, ferma restando la necessità di richiedere l’intervento di più consistenti forze Onu/internazionali in caso la emergenza fosse degenerata o comunque eccedesse le limitate capacità di intervento locale. La buona volontà non manca, ma c’è poco di più. Gli Usa, l’Onu e i paesi europei vorrebbero che il Sudafrica incrementasse la sua disponibilità, ma il vecchio concetto in base al quale si sperava di trasferire gradualmente la responsabilità delle operazioni di mantenimento della pace e gestione delle crisi ai “pesi massimi” del continente, come Nigeria o Sudafrica si sono rivelati utopistici. Questo è anche uno dei motivi che ha portato gli Usa a costituire il nuovo Africom, il comando per le operazioni africane, che peraltro sta incontrando significative resistenze locali (e non solo) nel suo sforzo di iniziare ad avere un ruolo negli affari africani..
che compensa solo l’inflazione, e con la l’Aeronautica che ancora una volta ottiene la fetta principale degli stanziamenti, con il 32 per cento. Il bilancio 2007 però è il primo a riflettere la nuova priorità assegnata all’Esercito, il cui bilancio dovrà crescere del 25 per cento nel corso dei prossimi tre anni, mentre continua una contrazione delle spese per il personale, che rappresentano il 35 per cento circa del totale, con l’obiettivo di scendere ulteriormente, al 30 per cento, in modo da liberare risorse per l’investimento (già al 35 per cento) e per l’esercizio (addestramento, manutenzione, operazioni). I costi per le missioni internazionali sono infatti sostenuti attingendo al bilancio ordinario, non ci sono stanziamenti separati. Questo vuol dire che oltre 850 milioni di rand sono spesi per pagare i conti delle missioni e altri 230 milioni servono a coprire i costi relativi all’impiego delle Forze Armate in supporto ed integrazione delle Forze di Polizia. A livello strategico, anche se i fondi non bastano, la Sadf sta compiendo una revisione organizzativa e dottrinaria che, un po’ come avvenuto in Europa, porta a mutare le priorità di ruoli e missioni: la difesa dei confini e della integrità territoriale non è più il fondamentale, mentre lo è la capacità di proiettare potenza e di partecipare a operazioni internazionali. Ma se la difesa da un molto ipotetico attacco esterno è comunque tutt’altro che semplice, considerando l’estensione dei confini terrestri, la natura del terreno, senza dimenticare l’estensione delle coste, per proiettare potenza occorrono reparti bene addestrati, equipaggiati, con efficiente supporto logistico, sempre poi che si disponga dei quattrini per pagare i costi vivi di operazione che possono protrarsi per anni. Inoltre la situazione della sicurezza interna è a dir poco delicata: la criminalità, organizzata o meno, è molto attiva, mentre il livello della violenza è ancora elevatissimo (18mila omicidi all’anno, anche se nel periodo immePer ora, comunque, il bilancio della difesa diatamente successivo alla fine dell’apartheid si era sudafricano per l’anno in corso si attesta a 28,2 miliar- arrivati a quota 26mila all’anno). Se a questo si di di rand, con una crescita del 7,4 per cento sul 2007, aggiungono gli scontri xenofobi a danno degli immi33
Risk grati, si comprende perché la Sadf continua a mantenere tra i compiti essenziali la sicurezza interna e il sostegno e l’appoggio alle (piuttosto inefficienti) Forze di Polizia. Anzi, con i mondiali di calcio del 2010 quasi alle porte la Sadf sarà chiamate a compiere uno sforzo straordinario, per fornire una generale cornice di sicurezza, prendendo anche in esame una
Ma anche se questi problemi sono noti sia agli stati maggiori sia al governo non ci sono alternative: non è proponibile espandere la consistenza delle Forze Armate nè razionalizzare la distribuzione delle formazioni dell’Esercito nel territorio. Piuttosto, continua il tentativo di creare una componente di riserva che possa essere utilizzata non solo in caso di mobilitazione, ma anche per affiancare la componente attiva in operazioni di peacekeeping, secondo un concetto di total force molto anglosassone, ma che per funzionare richiede comunque significative risorse per equipaggiamento e addestramento. Questo sforzo ha prodotto risultati e piccole unità di riservisti vengono ora integrate nei contingenti nazionali impegnati in operazioni di peacekeeping. In compenso si sta completando lo smantellamento dei vecchi reparti volontari di autodifesa, la Riserva Territoriale, che inquadravano 43mila uomini e che avevano un chiaro significato nel minaccia terroristica tutt’altro che eventuale. I mon- Sudafrica pre-1994, ma che ora non dovrebbero essediali sono considerati una opportunità importantissi- re più necessari. ma per il rilancio e lo sviluppo del paese (probabilmente le aspettative sono davvero eccessive) e Alle fine del secondo conflitto mondiale il Pretoria si gioca buona parte della propria credibilità Sudafrica aveva una discreta capacità industriale nel proprio sul versante della sicurezza. Tra l’altro proprio campo militare, poi con la stagione dell’apartheid e la queste esigenze di sicurezza interna impongono alla morsa sempre più stretta dell’embargo internazionale Sadf di polverizzare la propria presenza sul territorio, varato dall’Onu nel 1977 è stato costretto a sviluppadistribuendo unità e reparti un po’ ovunque, anche se re in quasi totale autarchia una struttura industriale in il “polo” di Pretoria-Johannesburg è quello cruciale. grado di equipaggiare le Forze Armate, sostenerle in Ma la localizzazione di unità separate da centinaia di lustri di operazioni ad alta e bassa intensità, mantechilometri rende abbastanza aleatorio creare grandi nendo sempre un vantaggio qualitativo, in aree speciunità realmente integrate, amalgamate e in grado di fiche, nei confronti di avversari che potevano approvoperare come moderne forze combinate. Per non par- vigionarsi dall’Urss, dai suoi satelliti e non solo. lare dei costi derivanti da una quantità di piccole basi A collaborare con il Sudafrica sul piano militare di e infrastrutture. Inutile dire che questo problema fatto rimase solo Israele (e infatti ora i rapporti sono riguarda essenzialmente l’Esercito, visto che la molto più freddi). Questa autarchia forzata ha stimoMarina e l’Aeronautica hanno un numero piuttosto lato la crescita di una industria locale che al suo apice, limitato di mezzi e piattaforme principali che sono negli anni ‘80, comprendeva quasi 1.100 aziende che impiegavano 80mila dipendenti e che disponeva di ovviamente concentrate in poche basi principali.
Dopo la seconda guerra mondiale il Sudafrica aveva una discreta capacità militare, poi con la stagione dell’apartheid e la morsa sempre più stretta dell’embargo internazionale varato dall’Onu nel 1977 è stato costretto a sviluppare in totale autarchia una struttura industriale in grado di equipaggiare le Forze Armate
34
dossier significative capacità di ricerca e sviluppo grazie alle quali ha prodotto sistemi magari rustici, ma che rispondevano perfettamente alle esigenze locali. Si pensi ad esempio a tutta una serie di veicoli protetti e blindati studiati per sopravvivere alle mine e agli ordigni esplosivi impiegati dalla guerriglia i cui successori sono oggi molti richiesti in Afghanistan come in Iraq. L’industria sudafricana però praticamente non poteva esportare. Con la fine dell’apartheid da un lato c’è stato il crollo della domanda interna, dall’altro l’apertura del mercato locale alle industrie internazionali, mentre per converso è mancata in larga misura la capacità di conquistare significative commesse export. Questo ha portato ad un drastico ridimensionamento delle industrie locali, che hanno anche subito l’impatto di una concorrenza alla quale non erano abituate. Oggi il comparto comprende meno di 80 aziende con 15mila dipendenti e genera ricavi per circa 10 miliardi di rand, dei quali 4 derivano dalla esportazione. Diverse società sono state chiuse o hanno cambiato settore, spostandosi al civile, altre sono state vendute, accorpate e ristrutturate. Una delle soluzioni che il governo ha studiato per conservare una capacità industriale nazionale è stato quello di incoraggiare i gruppi stranieri coinvolti nella serie di programmi di acquisizione Sdp a investire in Sudafrica, a costituire joint ventures con gruppi locali o a acquistare quote del capitale nelle industrie di casa. Si è poi proceduto a una robusta iniezione di fondi (quasi 4 miliardi di rand) nel principale gruppo armiero nazionale, a controllo statale, la Denel, nata dalle costole della Armscor, società responsabile di tutte le acquisizioni e ricerche militari. È stata avviata così una ristrutturazione che ha portato anche alla cessione di attività e settori a società straniere, per lo più a costo zero. In questo modo si sono preservate alcune capacità essenziali, mentre si è sgravata Denel da business che pur strategicamente importanti, finanziariamente producevano solo perdite. Ecco perché, dopo che il 51 per cento della Airmotive, che si occupa di revisione dei motori, è andato a Trubomeca/ Safran, il 70 per cento delle attività nel settore optro-
nico (ottico/elettronica) sono andate alla Zeiss lo scorso anno. Attualmente è in discussione con la tedesca Rheinmetall la costituzione di una joint venture alla quale trasferire il settore del munizionamento. È stata costituita una joint venture con Saab nel campo delle aerostrutture, nella quale la società svedese ha il 20 per cento, ma con la opzione di crescere al 51 per cento in una prima fase e quindi anche al 70 per cento. Denel poi sta cercando partners o soluzioni anche per la sua divisione missilistica, che rappresenta uno dei fiori all’occhiello tecnologici, ma che non può contare su programmi nazionali/internazionali sufficienti per sostenere lo staff di tecnici impiegati nella ricerca e sviluppo. Del resto anche dopo le cessioni e le ristrutturazioni non è che i risultati di Denel sia poi così entusiasmanti, visto che i bilanci sono ancora in rosso, quantunque le voragini degli scorsi anni sono state colmate.. La Saab ha anche acquistato il 100 per cento di Avitronics, una società specializzata nella guerra elettronica e di Grintek, specialista nelle comunicazioni militari. La francese Thales invece ha l’80 per cento della Ads, società che si occupa di sistemi di combattimento navali, ma che ha interessi e programmi anche in quello terrestre. La britannica Bae Systems ha il pieno controllo della ex Omc, il principale produttore di veicoli blindati e corazzati. Il panorama industriale si completa con la Reutech, un gruppo privato (fa capo a Reunert) che si occupa principalmente di elettronica militare e che era stato messo in vendita nel 2006. Vista la mancanza di offerte interessanti (peraltro le tedesca Eads ha acquistato una quota del 33 per cento nella divisione radar di Reutech), i proprietari hanno deciso di tenerlo in portafoglio e di cercare di rivitalizzarlo. Un’altra società privata, la Ate, sta ottenendo discreti risultati nell’aggiornamento e modernizzazione di piattaforme aeree e terrestri sia per il cliente nazionale, sia all’estero e ha recentemente costituito una joint venture con Denel (quest’ultima avrà il 60 per cento) per sviluppare velivoli senza pilota. Dato che la situazione economica delle industrie della difesa sudafricane rimane delicata, si regi35
Risk stra una forte pressione affinché il ministero della Difesa ricorra a pratiche protezionistiche nella scelta dei propri fornitori, privilegiando le industrie locali, quantomeno prevedendo che se la Difesa sceglie prodotti stranieri, la produzione sia effettuata localmente e sia accompagnata da pacchetti di trasferimento di tecnologie. Più specificamente, il 70 per cento delle acquisizioni dovrebbe beneficiare l’industria nazionale, direttamente o indirettamente. Una soluzione che rischierebbe di creare più problemi di quanti non ne possa risolvere, considerando le disastrose esperienze degli ultimi anni dell’approccio “autarchico”. Ma discorsi di questo tipo potrebbero avere facile presa alle orecchie del probabile nuovo presidente, Jacob Zuma, anche se la prudenza suggerirebbe a Zuma, a suo tempo accusato di aver ottenuto tangenti legate proprio ai programmi di acquisizione della difesa (disavventure che gli costarono a suo tempo la vicepresidenza) di tenersi lontano dal settore del procurement militare.
La Saaf sarà, nel giro di pochi anni, una delle
migliori forze aeree del continente africano, caratterizzata da un elevatissimo livello qualitativo, ma anche da numeri davvero ridotti per quanto riguarda la consistenza delle linee di volo. E questo ammesso che si riesca a risolvere il problema del reclutamento e mantenimento di tecnici e piloti. L’ammodernamento della Forza Aerea è avvenuto sostituendo la quantità con la qualità, confidando che la pochezza delle aeronautiche dei paesi vicini non crei alcun problema di difesa dello spazio aereo nazionale e di conquista e mantenimento della superiorità aerea locale. Le forze da combattimento consisteranno essenzialmente di caccia leggeri di produzione svedese Gripen, in corso di consegna, dei quali sono previsti in tutto 26 esemplari, inclusi 9 addestratori operativi. Gli addestratori a getto di produzione britannica Hawk-120, dei quali sono in linea o in consegna 24 esemplari, possono anche svolgere il ruolo secondario di cacciabombardiere leggero. Dipendono dall’Aeronautica anche elicotteri da combattimento 36
Rooivalk, nonché gli elicotteri da trasporto/assalto Oryx. AgustaWestland sta completando le consegne di 30 elicotteri da ricognizione/trasporto AW-109 LOH (altri 10 velivoli sono in opzione). Tutto qui. In compenso la Saaf sta gradualmente potenziamento le capacità nel settore del trasporto, perché gli aerei da trasporto sono cruciali per garantire una capacità di intervento rapido in caso di crisi. La Saaf prevede di acquistare 8, con la possibilità di incrementare l’ordine a 14, aerei da trasporto europei A400M, che entreranno in linea a partire dal 2011. Al momento però le forze da trasporto devono continuare a fare affidamento su una decina di C-130 ammodernati, alcuni CN-235 ed i vecchissimi C-47, ancorché rimotorizzati. Se gli stanziamenti lo consentiranno, l’Aeronautica vorrebbe acquisire alcuni velivoli radar per la sorveglianza e il comando e controllo, mentre si avvicina il momento in cui dovrà essere affrontata la sostituzione della flotta di elicotteri Oryx, che peraltro vengono aggiornati per consentirne il proseguimento della carriera fino al 2020. La nuova Marina sudafricana è già una realtà che può contare su un piccolo, ma modernissmo nucleo di unità, perfettamente adeguate a rispondere alle previste e prevedibili necessità, anche se rimangono da soddisfare alcuni requisiti, in particolare per quanto concerne la capacità di sostenere le ambizioni di proiezioni di potenza via mare. Il nucleo principale della flotta è costituito dalle 4 fregate classe Amatola, realizzate in Germania sulla base del progetto Meko A200. Si tratta di piattaforme di buon tonnellaggio e autonomia, con una dotazione “base” di sensori e sistemi d’armamento che potrà essere arricchita nel corso dei futuri lavori di aggiornamento di mezza vita. Da diversi anni è in discussione un eventuale ordine per una quinta unità. La Marina dispone poi di una valida componente subacquea, costituita da tre sottomarini tedeschi Type 209/1400, prodotti anche questi in Germania, da ThyssenKrupp, l’ultimo dei quali è stato da poco consegnato. Per quanto riguarda il futuro, il programma più ambizioso riguarda la realizzazione di una o due “navi da supporto strategico”, da
dossier
La Saaf diventerà una delle migliori forze aeree del continente africano, caratterizzata da un elevatissimo livello qualitativo, ma anche da numeri davvero ridotti per quanto riguarda le linee aeree
intendersi come unità anfirelativamente pesante, ad armi bie tuttoponte in grado di combinate, che costituirà il trasportare un elevato deterrente nei confronti di numero di elicotteri mediavversari esterni, ma che potrà pesanti, mezzi da sbarco: anche impiegare unità in misunità ideali per proiezione di sioni all’estero, e un comando forza e per condurre operadi Divisione Motorizzata (con 6 zioni di peacekeeping. Un Brigate Motorizzate) che sarà secondo programma riguaranche disponibile per compiti da una classe di pattugliatodi sicurezza interna, ma princiri oceanici, che sostituiranno palmente per operazioni di peale attuali motovedette lancekeeping. ciamissili, ai quali si Per quanto riguarda mezzi e dovrebbero aggiungere materiali, il piano di ammoderanche pattugliatori costieri nonché mezzi leggeri, una namento ha addirittura una scadenza trentennale, perquindicina, da impiegare in acque interne, fiumi e ché i fondi non consentono di rispondere a tutte le esilaghi. genze contemporaneamente. Recentemente è stato avviata l’acquisizione di 264 mezzi da combattimenL’Esercito è stato per troppo tempo la “cene- to ruotati, le cui consegne partiranno nel 2012, menrentola” tra le tre Forze Armate, soprattutto perché, tre si cerca di estendere la vita operativa dei carri nell’ottica dell’Sdp, era la Forza Armata che offriva armati, dei blindati da ricognizione e dei trasporto programmi meno allettanti in termini di contenuto truppe in servizio mediante programmi di aggiornatecnologico e valore economico. Ora però la situazio- mento. Le lezioni apprese durante le missioni di peane sta radicalmente mutando, sia perché i grandi piani cekeeping hanno suggerito di acquisire nuovi missili di investimento delle altre Forze Armate sono in via anticarro, i Milan Adt, mentre è stato avviato un prodi completamento, sia perché ci si è resi conto che il gramma per l’acquisizione di nuovi sistemi contraelivello di capacità dello strumento terrestre era troppo rei. Dopo una serie di rinvii, dovrebbe finalmente depauperato, sia infine perché l’Esercito è e sarà sem- procedere il progetto per la sostituzione di tutti i veipre più impegnato nelle operazioni militari interna- coli tattici da trasporto, mentre è prevista, nel medio zionali di mantenimento della pace, stabilizzazione e termine, l’acquisizione di un veicolo trasporto truppa contenimento delle crisi. ruotato e di artiglieria leggera e mortai con relativi La trasformazione dell’Esercito, nel quadro del pro- sistemi di direzione del tiro. Non manca un programgramma Vision 2020, annunciato lo scorso anno, pre- ma per aumentare le capacità di combattimento del vede quattro fasi, che non si concluderanno prima del singolo soldato, come sta avvenendo presso tutti gli 2015, che porteranno alla costituzione di un nuovo eserciti più avanzati, ma si tratterà di uno sviluppo stato maggiore modellato sugli standard Nato, da cui graduale e che punterà a un “kit” non particolarmendipenderanno un comando operativo, uno per il sup- te costoso né sofisticato, che comunque, nel contesto porto e uno per l’addestramento. Per quanto riguarda africano, sarebbe forse eccessivo. In ogni caso sempre le forze operative, esse consisteranno di 10 Brigate la mancanza di fondi ha costretto l’Esercito a rinviare (Pronto Intervento, Corazzata, Meccanizzata e 7 a tempi migliori la sostituzione del fucile d’assalto Brigate Motorizzate). Sarà poi costituito un comando R4, per il quale è previsto solo un intervento di di Divisione Meccanizzata (con 3 Brigate), una forza aggiornamento. 37
dossier LA GRANDE CORSA (FORSE INUTILE) PER ILLUMINARE I MONDIALI
2010
POTENZA ENERGETICA A RISCHIO BLACK OUT DI
•
D •
DAVIDE URSO
urante il periodo dell’apartheid (fino al 1994) la politica energetica del Sudafrica era basata sullo “sviluppo separato”. I servizi energetici erano spartiti sul principio della discriminazione razziale. L’embargo imposto dalle Nazioni Unite - strumento fondamentale per la caduta del regime - rendevano il Sudafrica uno
Stato abbandonato a se stesso, favorendo, di fatto, un uso discriminatorio dell’energia. Dopo le prime elezioni democratiche del 1994, l’energia ha assunto una dimensione più moderna. Il Governo ha iniziato a operare per uno “sviluppo più equilibrato”, puntando inizialmente sul settore elettrico e sui combustibili liquidi. Il primo Piano energetico del 1998 aveva individuato nel riequilibrio della struttura macroeconomica del Paese la principale area su cui investire, visti gli alti tassi d’inflazione, la debole crescita economica, il cospicuo deficit del bilancio pubblico, i rapporti con l’estero quasi inesistenti e la forte dipendenza dalle materie prime. La politica di potenziamento industriale - necessaria per aumentare l’attrattività verso investitori stranieri e favorire un iniziare ingresso di investimenti diretti esteri - ha avuto come logica premessa una politica economica di sviluppo energetico. Il quadro macroeconomico sudafricano gode oggi di una certa stabilità. In termini comparativi, a livello mondiale, il Sudafrica si colloca fra le prime trenta economie per dimensioni del Pil e fra le prime cinquanta per Pil pro capite. Inoltre, l’economia sudafricana rappresenta quasi un terzo del Pil di tutta l’Africa e supera quello di Nigeria
ed Egitto insieme. Domina il continente anche per il livello di infrastrutture e risorse finanziarie, nonché di strumenti per i modelli di sviluppo. Oggi la produzione di energia del Sudafrica (circa 170.000 milioni di kWh) supera già quella di molti Paesi europei. Inoltre, il Sudafrica produce quasi il 50 per cento dell’energia elettrica generata in Africa usando in gran parte il carbone, del quale possiede ampi giacimenti (oltre 180 milioni di tonnellate). L’approccio dello “sviluppo separato” ha prodotto solo minimi risultati. La sperequarazione sociale tra bianchi e neri è sempre molto elevata, lo sviluppo industriale non è pari alla scarsa qualità delle infrastrutture, il livello di sicurezza generale del sistema energetico non è molto moderno e i black-out sono in continua crescita. A ciò va aggiunto che la capacità elettrica del Sudafrica, che in passato registrava forti avanzi, oggi sta andando in passivo, a causa dei forti aumenti della domanda interna. Ciò ha reso necessario ripensare a una nuova politica energetica che - sulla base della stabilità macroeconomica - possa dare slancio al Paese. Il nuovo piano energetico allo studio del Governo è “integrato”, ovvero propone una visione olistica 39
dossier del ruolo dell’energia a servizio dell’intero Sistema-paese. Esso prevede investimenti in nuove capacità di generazione di energia, soprattutto attraverso cooperazioni con i principali player regionali e internazionali e il miglioramento delle condizioni di offerta interna, attraverso investimenti in attività di R&S e una maggiore diversificazione delle fonti di produzione di emergia. Ciò permetterà al Sudafrica di ridurre la dipendenza interna dal carbone e di orientare la scelta del policy energy verso lo “sviluppo sostenibile”: riduzione del gap fra ricchi e poveri, riduzione di emissioni di CO2, competitività economico-sociale delle nuove infrastrutture energetiche e riduzione dei rischi per l’ambiente e per la popolazione, mantenendo nel contempo integrità ambientale e coesione sociale. L’agenda energetica vede al primo punto l’efficienza energetica, lo sviluppo di piccole e medie imprese energy-related, lo sviluppo di progetti energetici nelle aree rurali, l’educazione all’energia delle comunità meno abbienti. Il White Paper sull’energia del 1998 stima che l’incremento di efficienza energetica potrebbe ridurre almeno del 20 per cento i consumi interni. Tale dato è stato confermato dal Governo, con l’auspicio di aumentare tale percentuale entro il 2025. Un assaggio della nuova politica sudafricana si è avuta al vertice del G8 in Giappone. Da un lato, gli Stati G8 - che da soli contribuiscono al 62 per cento delle emissioni globali - hanno annunciato l’obiettivo di riduzione del 50 per cento entro il 2050 delle emissioni e la necessità di aiuti da parte dei Paesi emergenti. Dall’altro lato, gli Stati del G5 (Cina, India, Brasile, Messico e Sudafrica) hanno sottolineato l’insufficienza degli sforzi e degli obiettivi dei Paesi sviluppati, arrivando a fissare per gli 8 Stati “ricchi” obiettivi di medio periodo: riduzione entro il 2020 del 25-40 per cento delle loro emissioni, rispetto ai livelli del 1990, e dell’80-95 per cento entro il 2050, sempre
rispetto ai livello del 1990. Insomma, dai Paesi del G-8 ci si aspetta il “buon esempio”. Il Sudafrica si è impegnato ad assumere decisioni a livello nazionale in funzione dello “sviluppo sostenibile”. I principali problemi che oggi il Sudafrica deve affrontare sono: • una coal-based energy economy. Il carbone estratto è di bassa qualità. Ciò rende il Paese carbon dioxide-intensive, uno dei più elevati Stati per emissioni di CO2. Secondo le ultime stime, senza un intervento urgente a livello politico-industriale, le emissioni di CO2 potrebbero aumentare del 75 per cento entro il 2025. Ciò rappresenta il classico conflitto dell’uso delle risorse a combustione (e non solo): minore è il costo del combustibile, maggiore è il suo sfruttamento e maggiori sono gli effetti sull’ambiente. Nel 2002, il Sudafrica è stato posizionato al 14 posto al mondo per emissioni di CO2 da combustibili fossili e al 19 posto tra le economie carbonintensive. Le emissioni per capita del Sudafrica sono più alte di molti Paesi europei e più di 3,5 volte della media dei Paesi in via di sviluppo. Nel 2002, il Sudafrica ha ratificato il Protocollo di Kyoto; • una carenza di sicurezza energetica, a causa della dipendenza dal carbone; • sistemi infrastrutturali antiquati. È necessario l’accesso ai moderni sistemi d’energia, non solo per ridurre l’emissione in atmosfera di inquinanti e ridurre il costo degli impianti e della loro gestione, ma anche per garantire l’ultilizzo di tali sistemi ai poveri. La poverty tariff (che prevede 50 kWh al mese di elettricità per le case) ha avuto un buon risultato, ma il gap tra ricchi e poveri è ancora una piaga sociale enorme. Insieme al Brasile, il Sudafrica è il paese che presenta la maggiore differenza fra il reddito dei ricchi e quello dei poveri; • carenza di combustibile per cucinare, soprattutto nelle periferie urbane e nelle aree rurali, in cui si utilizzano legname, carbone e cherosene. 41
Risk “Sviluppo sostenibile” sottende che legname e carbone per legna siano sostituiti con fonti d’energia moderne, con investimenti nell’innovazione tecnologica per migliorare l’efficienza energetica e minimizzare i rischi ambientali legati all’uso del carbone e del cherosene. Significa anche fornire elettricità al 20 per cento degli abitanti delle città ed almeno al 50 per cento delle campagne che non ne hanno accesso. Il Governo si è posto l’obiettivo ambizioso del raggiungimento dell’universalità di accesso all’energia elettrica entro il 2014 e a basso costo, soprattutto per la classe povera, e il miglioramento del livello di governance, che deve anche facilitare e incoraggiare gli investimenti del settore privato. Lo “sviluppo sostenibile” passa attraverso il rafforzamento della cooperazione regionale nel campo dell’energia. L’obiettivo è ridurre il 75 per cento di dipendenza dal carbone. A partire dal 2004, sono aumentati i traffici commerciali con il Mozambico per sostituire il carbone con il gas naturale. Lo stesso processo è oggi in atto con la Namibia. Il Sudafrica sta anche aumentando l’importazione di petrolio dalla Nigeria e costruendo con la Repubblica Democratica del Congo una centrale idroelettrica da 100 GW.
L’economia del Sudafrica è energy-intensive.
Il consumo annuale per capita è pari a 2.4 tonnellate equivalenti di petrolio. Il settore energetico contribuisce per il 16 per cento del Pil del Sudafrica, con un comparto lavorativo superiore alle 250mila unità. Rispetto ad altri Paesi in via di sviluppo, l’offerta totale di energia primaria del Sudafrica per persona è relativamente alta. I due-terzi della popolazione che hanno accesso all’elettricità consumano quasi il 50 per cento del totale dell’Africa, sebbene essi siano solo il 5 per cento dell’intera popolazione africana. L’abbondanza di carbone ha fatto sì che il Sudafrica abbia tra i più bassi costi di energia al mondo, rendendo il comparto industriale 42
molto competitivo e incoraggiando il governo a un approccio energy-intensive industry. Proprio a causa dei forti consumi energetici del settore industriale (52 per cento), i livelli di consumo del Sudafrica, particolarmente di elettricità, sono molto più alti di quelli di molti Paesi in via di sviluppo. L’energia consumata dalle famiglie rappresenta circa il 17 per cento del totale del Paese. Per lo più, essa è ottenuta da legno combustibile (circa il 50 per cento), soprattutto nelle aree rurali, in cui è concentrata la massa dei consumi domestici. Le aree rurali sono caratterizzate da un elevato livello di energy poverty. Esso è destinato ad aumentare visto l’aumento della scarsità di legno combustibile. Inoltre, pochi tra i poveri delle campagne hanno accesso all’elettricità. La rimanente parte dell’energia è ottenuta da carbone (18 per cento), paraffina per illuminazione (7 per cento) e gas liquido, anche se in minima parte. L’elettricità fornisce il 28 per cento dell’energia primaria nazionale. Il Sudafrica genera più della metà dell’elettricità dell’intero continente africano e ne fornisce quasi i due-terzi. È uno dei quattro produttori meno cari al mondo, ciò per il basso costo del carbone. Circa il 95 per cento dell’elettricità è generata dalla società Eskom. Essa è tra le prime sette per capacità di generazione elettrica, tra le prime nove in termini di vendite. Quasi il 90 per cento dell’elettricità del Sudafrica è generata in centrali a carbone. La centrale nucleare di Koeberg fornisce circa il 5 per cento della capacità elettrica. L’altro 5 per cento è fornito all’idroelettrico. In futuro la percentuale del carbone si ridurrà a vantaggio dell’eolico e del fotovoltaico. Il carbone contribuisce per il 75 per cento alla produzione di energia primaria e dei combustibili e per il 90 per cento alla produzione di elettricità. Circa il 30 per cento del carbone estratto è esportato. Sul totale consumo domestico, il 55 per cento del carbone è trasformato in elettricità, il 21 per cento in prodotti petroliferi, il 4 per cento in gas e
dossier il restante 20 per cento è usato direttamente. Il picco di produzione è atteso per il 2070. Le riserve di carbone non hanno stime certe. Nel 1987, il rapporto Bredell stimava tali riserve in 55 miliardi di tonnellate e 115 miliardi di tonnellate le risorse. Secondo le ultime stime del giugno 2007, invece, le riserve di carbone sarebbero tra i 48 e i 38 miliardi di tonnellate fisiche, con un indice di vita utile di 190 anni. Ciò pone il Sudafrica al sesto posto al mondo per riserve di carbone dopo Cina, Usa, India, Russia e Australia. Il Sudafrica è il sesto produttore al mondo di carbone, con una produzione stimata di 138 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (tep). La percentuale sul totale dei consumi interni è di 151, quinta al mondo. Il Sudafrica è anche il sesto consumatore al mondo di carbone, con 92 milioni di tep. Inoltre, le percentuali di import - ovvero il rapporto fra importazioni e consumo interno - è pari all’1 per cento, secondo solo dopo l’Australia, che ha maggiori riserve provate di carbone (78,5 miliardi di tonnellate fisiche), maggiore produzione (205 milioni di tep) e minori consumi (54 milioni di tep). Circa il 62 per cento dell’export del carbone va all’Unione Europea, il 29 per cento al Lontano e Medio Oriente e la restante parte al Sud America e all’Africa. Il gas conta per circa l’8 per cento dell’energia primaria. La maggior parte del gas consumato è prodotta dalla gassificazione del carbone. Il gas naturale e quello derivante dalla gassificazione del carbone hanno utilizzi separati nel sistema energetico sudafricano. Il primo è usato principalmente per la produzione di combustibile sintetico. Il secondo come combustibile industriale e domestico. Rispetto agli standard internazionali, il consumo di gas è molto basso. Ciò è dovuto alla scarsità delle riserve e al fatto che gli investiti per miglio-
rare l’industria del gas sono stati scarsi. Le riserve stimate di gas naturale sono di 30 miliardi di metri cubi sulla costa Sud e di 3 miliardi di metri cubi sulla costa Ovest. Non ci sono giacimenti di gas inland. È stato calcolato che il gas naturale è 60 per cento più pulito del carbone sudafricano in termini di emissione di CO2. Il Governo ha quindi adottato un piano per alzare il contributo del gas
L’obiettivo è ridurre il 75 per cento di dipendenza dal carbone. A partire dal 2004, sono aumentati i traffici commerciali con il Mozambico per sostituire il carbone con il gas naturale. Lo stesso processo è oggi in atto con la Namibia naturale al 10 per cento nel 2010. Il Sudafrica ha anche basse riserve di metano, quasi del tutto inutilizzate. Nell’ottobre 2007, la Eskom, la società nazionale, convertita in pubblica dal 1 luglio 2002, e titolare della rete elettrica nazionale, ha inaugurato due centrali a gas. Esse forniscono 1.800 MW ovvero il 6 per cento del fabbisogno elettrico del Paese.
Una pipeline di 895 chilometri è in costru-
zione per portare il gas da Temane in Angola a Secunda in Sudafrica, dove si congiungerà con la pipeline che unisce la provincia di Gauteng alle aree urbane di Durban e Secunda. Il Sudafrica ha circa mille MW di capacità dai generatori di gas a turbina. Essi sono usati soprattutto nei casi di emergenza. Il Governo del Sudafrica sta pianificando la costruzione di una serie di centrali a ciclo combinato. Esse hanno costi più bassi per kWh, alta efficienza operativa e tempi di costruzione più rapidi rispetto sia alle 43
Risk centrali a gas convenzionali, sia, soprattutto, alle centrali a carbone. Il Sudafrica importa il 70 per cento del greggio dal Medio Oriente, che contribuisce per il 20 per cento dell’energia primaria consumata, soprattutto nel settore dei trasporti. Il greggio è raffinato all’interno del Paese a un costo più competitivo. Il consumo si aggira intorno ai 500mila barili al giorno (b/g). L’importazione netta è di circa 300mila b/g. Le riserve provate di petrolio nella costa Sud sono di 49 milioni di barili. Il petrolio è un settore ben regolamentato a livello istituzionale, a parte il sistema dei prezzi, che restano legati agli alti tassi di importazione da Paesi geopoliticamente instabili e all’incremento della domanda interna di energia. Il Sudafrica ha una centrale nucleare operativa, Koeberg, trenta chilometri a Nord di Città del Capo sulla costa occidentale. Consiste in due unità di reattori ad acqua pressurizzata, ognuno con capacità di 920 MW. Il combustibile è importato ed è lavorato localmente.
La società Eskom sta sviluppando il primo
reattore commerciale pebble-bed (“a letto di ciottoli”) del mondo. Il Pebble Bed Modular Reactor (Pbmr) è un reattore modulare da 165 MW ciascuno, più sicuro, più pulito, più piccolo e gestibile di una centrale nucleare tradizionale. Inoltre, è più economico e ha il requisito della “sicurezza passiva o intrinseca”, cioè in caso di malfunzionamento del sistema, il reattore si spegne automaticamente, il calore si disperde e la radioattività è contenuta. Per costruire una nuova centrale di questo tipo ci vogliono tra i due e i tre anni, a fronte dei sei, come minimo, richiesti per la realizzazione di un impianto tradizionale. Un chilo di uranio nel combustible Pbmr ha un output di energia superiore a 430 tonnellate del miglior carbone. La tecnologia Pbmr avrebbe il potenziale di garantire al Sudafrica una generazione di potenza competitiva nelle aree costiere, con un grande risparmio eco-
44
nomico. L’intento del governo sembra di produrre 4-5mila MW di elettronucleare dal Pbmr, che equivale a 20-30 reattori da 165 MW ciascuno. Il Sudafrica dispone di abbondanti riserve di uranio che garantiscono autosufficienza energetica nel lungo periodo. I minerali auriferi - di cui il Sudafrica è tra i primi produttori ed esportatori al mondo - contengono una notevole quantita di uranio, che viene lavorato in diversi impianti. Le riserve stimate di uranio sono di circa 270mila tonnellate. Se utilizzate per generare elettricità nel Pbmr, la stima dovrebbe moltiplicarsi per 50. A oggi, circa 2mila persone sono impiegate nell’industria nucleare sudafricana. Secondo il ministro dell’Energia del Sudafrica le attuali riserve di carbone del Paese offrirebbero, nel caso peggiore, un orizzonte di soli 25 anni. Inoltre, la situazione internazionale del caro petrolio e la crescente scarsità delle fonti fossili stanno generando un incremento dei prezzi dell’energia. Per queste ragioni il governo del Sudafrica ha optato per alzare al 15 per cento il mix di energia elettrica prodotto dalle fonti rinnovabili entro il 2014. In più, il White Paper on Renewable Energy, elaborato nel 2003 dal Governo, ha posto l’obiettivo della generazione di 10mila GWh di energia entro il 2013, principalmente dalle biomasse, dall’eolico, dal solare e dall’idroelettrico. Ciò equivale a garantire elettricità a circa due milioni di famiglie con un consumo elettrico annuo di 5mila KWh ovvero a circa il 5 per cento dell’attuale generazione di elettricità ovvero a sostituire 2 unità da 660 MW delle centrali a carbone della società Eskom. Il Sudafrica è un Paese secco. Circa la metà del suo territorio è deserto o semideserto e solo l’1,2 per cento è coperto da foresta. Le condizioni per sostenere la produzione di biomasse è quindi povera e presente solo in poche aree. Eppure le biomasse sono un’importante fonte di produzione di energia sia per l’industria (raffinerie di zucche-
dossier ro e pasta per la carta), sia per l’energia domestica, principalmente per il riscaldamento delle case. Soprattutto il legno è un combustibile molto importante in Sudafrica. Le biomasse forniscono poco meno del 20 per cento del consumo di energia del Paese. Nel dicembre 2005, il governo ha approvato la “strategia industriale per il biocombustibile”. Gli obiettivi sono di creare nuovi posti di lavori, in un Paese dall’elevato tasso di disoccupazione, e di rafforzare la catena del valore delle rinnovabili, sfruttando il settore dell’agricoltura. La strategia propone che i biocombustibili raggiungano il 75 per cento del target complessivo di energia rinnovabile del Paese. Soprattutto le coltivazioni di mais, zucchero, soia e girasole sono indicate per soddisfare la produzione di biocombustibili del Paese. Una chiave importante della politica energetica del Governo è l’aumento del biodiesel nel settore dei trasporti. L’obiettivo è produrre 1,4 miliardi di litri di biodiesel entro il 2010 e raggiungere un livello di mercato di biodiesel del 9 per cento del trasporto complessivo con diesel entro il 2025. Tale politica dovrebbe consentire un risparmio medio pari a 4.500 barili al giorno di petrolio. Il Sudafrica, inoltre, sta investendo in altre colture alternative (come le alghe), per ridurre il rischio che produrre il biocombustibile dal mais possa compromettere la sicurezza alimentare nazionale: il mais è l’alimento base del Paese, consumato dall’80 per cento della popolazione, principalmente quella più povera. L’ultimo dato certo stima la capacità idroelettrica installata a circa 700 MW. In Sudafrica non esistono quasi più siti idrici economici che possono essere sviluppati per aumentare la produzione di energia. Ci sono piccoli siti potenziali - tra i 3.500 e i 5mila - per la generazione di mini-potenza idrica, principalmente nell’Est del Paese. Uno studio effettuato dal Dipartimento per i Minerali e l’Energia nel 2002 mostra come speci-
fiche aree del Paese abbiano un potenziale significativo per lo sviluppo di capacità di generazione di energia idroelettrica. Servono importanti investimenti per aumentare la produzione da energia tale fonte, che potrebbe affiancare le biomasse e ridurre, nel medio-lungo periodo, la dipendenza del Sudafrica dal carbone, riducendo le emissioni di CO2 e rafforzando il comparto industriale. Inoltre, l’energia idroelettrica generata da dighe può immagazzinare energia, che può essere utilizzata sia nei periodi di grande aumento di domanda interna, sia come energy peak per soddisfare il mercato e calmierare i prezzi dell’energia. Il principale progetto è il “Westcor Partnership” (Western Power Corridor Project). Esso è conseguente alla stipula di un Memorandum of Understanding intergovernativo, dell’ottobre 2004, tra la Repubblica Democratica del Congo, l’Angola, la Namibia, il Botswana e il Sudafrica. Il primo progetto è Inga III, un impianto idroelettrico che genererà 3.500-4.500 MW di elettricità sul fiume Congo, il cui costo complessivo è di almeno 80 miliardi di dollari. Il Sudafrica importa energia idroelettrica anche dal Lesotho, Mozambico, Zambia, Zimbabwe e Zaire.
Il tasso di radiazione solare del Sudafrica è
molto elevato. Oltre il 50 per cento degli Stati Uniti e più del doppio dell’Europa. Ciò rende le risorse fotovoltaiche del Sudafrica tra le più cospicue del mondo. A oggi l’elettricità da potenza solare non è generata per la rete elettricca nazionale. L’elettricità da fotovoltaico è usata principalmente nelle aree rurali, in forma di pannelli solari, per riscaldare l’acqua e cucinare. In totale, il riscaldamento dell’acqua per uso domestico con tecnologia fotovoltaica si aggira introno al 50 per cento. Il Governo sta operando una pianificazione per aumentare tale percentuale, a vantaggio della rete elettrica nazionale. L’obiettivo è massimizzare i benefici 45
Risk
Oggi il vento è generatore di elettricità e, quindi, il suo utilizzo è un mezzo di rafforzamento non solo del settore primario, ma soprattutto del secondario e del terziario, che sono il presente ed il futuro del Sudafrica economici e ambientali derivanti da una fonte rinnovabile e, al contempo, assicurare maggiore disponibilità di elettricità lungo la rete per finalità diverse dall’uso domestico di riscaldamento dell’acqua. Anche il settore agricolo beneficia di tale fonte direttamente tramite l’utilizzo di tecnologia fotovoltaica, senza allaccio alla rete nazionale di distribuzione di elettricità. Nel maggio scorso è stata inaugurata la prima centrale eolica sudafricana in un paese vicino a Darling, a 75 chilometri da Città del Capo. Essa garantirà l’1 per cento del fabbisogno energetico nazionale. Le dimensioni dell’impianto sono minime. La centrale eolica è costituita da quattro turbine per una potenza complessiva di 5,2 MW. L’impianto di Darling consentirà un risparmio di 100mila tonnellate di carbone ogni anno. Per anni la popolazione ha utilizzato l’energia eolica, principalmente derivante dai mulini a vento, per pompare acqua e macinare il grano. Oggi il vento è generatore di elettricità e, quindi, il suo utilizzo è un mezzo di rafforzamento non solo del settore primario, ma soprattutto del secondario e del terziario, che sono il presente ed il futuro del Sudafrica. Il Sudafrica ha un buon potenziale ventoso soprattutto lungo le aree costiere della zona occidentale ed orientale di Città del Capo. 46
dossier QUANDO LO SPORT IRROMPE NELLA POLITICA (E FA IL SUO LAVORO)
I SIMBOLI DELLA LIBERTÀ DI
•
I
•
CARLO MUSSO
l 20 ottobre 2007, allo Stade de France, dopo avere battuto l’Inghilterra davanti a 80mila spettatori, il tallonatore John Smit, capitano degli Springboks (le gazzelle), alzava al cielo di Parigi la coppa William Webb Ellis: per la seconda volta nella storia il Sudafrica era campione del mondo di rugby. Ma non c’è alcun dubbio che la prima vittoria, nel 1995, fu infi-
tamente più importante. E non tanto perché i sudafricani sconfissero in un’epica finale gli All Blacks neozelandesi, rivali di sempre, che in quegli anni schieravano una delle formazioni più forti di tutti i tempi, ma perché il rugby – sport che era sempre stato tradizionalmente un affare dei bianchi, fino a diventare uno dei simboli dell’apartheid – in quella occasione fece fare un enorme balzo in avanti al cammino di pacificazione della “nazione arcobaleno”, espressione coniata dall’arcivescovo Desmond Tutu. Quando l’International Rugby Board decise di assegnare al Sudafrica l’organizzazione della terza coppa del mondo fece una scelta certamente coraggiosa, ma non avventata: il Sudafrica, infatti, era bene avviato sulla strada delle riforme e il processo di integrazione tra bianchi e neri era ormai giunto a un punto di non ritorno. Dal maggio del 1994 alla guida del Paese c’era Nelson Mandela, un uomo che seppe trasformare quella manifestazione sportiva in un evento di portata storica, anche grazie all’appoggio del suo predecessore, Frederik W. de Klerk, l’ultimo presidente bianco del Sudafrica, colui che aveva posto fine alla politica segregazionista facendo transitare il Paese verso la democrazia e che, dopo essere stato sconfitto alle elezioni, aveva accettato la posizione di vicepresidente,
dando così un contributo sostanziale alla riappacificazione nazionale. Nel ‘93 Mandela e de Klerk hanno condiviso il premio Nobel per la pace. Il giorno della finale, mentre passava in rassegna le squadre schierate al centro del campo, Mandela, il primo presidente nero del Sudafrica, ricevette dalle mani del tre-quarti centro Hennie Le Roux un cappellino degli Springboks, il dono più afrikaan che si potesse immaginare: con un largo sorriso se lo calcò sui capelli d’argento e riprese a stringere le mani dei giocatori. In quel momento l’intera nazione si strinse intorno a quei quindici ragazzi e voltò definitivamente pagina, aprendo un nuovo capitolo della propria storia. Alla fine della partita, il capitano Francois Pienaar, ricevendo la coppa dalle mani del presidente Mandela, disse che la squadra non aveva vinto solo per i 60mila tifosi presenti all’Ellis Park, ma per 43 milioni di sudafricani – ed era assolutamente vero. Quell’edizione della coppa del mondo di rugby fu l’esempio più clamoroso di come lo sport possa avere effettivamente un grande ruolo sociale e politico. Oggi, invece, ci dibattiamo in discussioni velleitarie e sbagliate circa l’opportunità o meno di boicottare le Olimpiadi di Pechino. Sbagliate perché – come è stato detto da più parti – a pagare sarebbero prima di tutti gli atleti: tanto quelli costretti a 47
Risk rinunciare ai Giochi, che vedrebbero sfumare anni di sacrifici e di speranze, quanto gli altri, che vedrebbero sbiadire enormemente il valore delle medaglie in palio. Velleitarie perché è del tutto ridicolo pensare di potere influenzare l’esito di cruciali questioni politiche semplicemente evitando di gareggiare. Tanto per tornare al Sudafrica, a nulla valse il boicottaggio delle Olimpiadi di Montreal del 1976 da parte dei paesi africani che protestavano contro i rapporti sportivi intrattenuti – proprio in ambito rugbistico – da Nuova Zelanda e Sudafrica: ci vollero ancora quindici anni di passione e di violenze prima che Mandela venisse rilasciato dal carcere e che il Sudafrica si avviasse sul cammino dei diritti civili e della democrazia. Così come non fu certo il boicottaggio delle Olimpiadi di Mosca, quattro anni dopo, a far cadere l’Unione Sovietica e nemmeno a porre fine all’invasione dell’Afghanistan da parte dell’Armata Rossa: furono piuttosto l’azione politica del presidente Reagan e l’appassionata testimonianza di Giovanni Paolo II, insieme a una insanabile crisi del sistema, che dieci anni dopo costrinsero i sovietici a ritirarsi dal suolo afghano e fecero cadere il muro di Berlino.
L’errore che si è fatto in quei casi, e che si
sta ripetendo per le Olimpiadi di Pechino, è proprio quello di chiedere allo sport qualcosa che esso non è in grado di fare, ossia sostituirsi alla politica. Ci si è illusi che l’assegnazione dei Giochi potesse aprire una linea di credito del mondo occidentale verso il governo cinese, dando una qualche forza morale alle richieste del primo nei confronti del secondo. Ma non è così: è ingenuo e sbagliato al tempo stesso pensare di utilizzare lo sport come leva per costringere o – per essere più chiari – per ricattare qualcuno. Lo sport può – e deve – dare sempre un contributo positivo, mai negativo, anche quando cerca di dare voce alla protesta. Il pugno chiuso guantato di nero di Tommy Smith, a Mexico City nel 1968, divenne un’icona delle rivendicazio-
48
ni civili dei neri d’America solo perché venne dopo le sue braccia levate al cielo al termine di una favolosa gara dei 200 metri coronata da uno strepitoso record del mondo. Se Tommy Smith non avesse gareggiato – e vinto –, se non fosse salito sul podio, quell’immagine così evocativa e dirompente non sarebbe mai giunta fino a noi.
Sono queste – quella del campione olimpico
Tommy Smith e quella dello springbok Nelson Mandela – le lezioni che non dovremmo dimenticare. Quello che si doveva fare nel caso della Cina era di utilizzare la carta dei Giochi quando ancora si aveva un reale potere contrattuale, e cioè prima di assegnare l’organizzazione delle Olimpiadi. Si sarebbero dovuti pretendere non solo impegni e promesse, ma concreti e significativi risultati sul terreno dei diritti civili, e, al raggiungimento di quelli, condizionare la scelta, essendo disposti, se necessario, a rimandarla nel tempo. Ci si può legittimamente domandare se una simile decisione non solo avrebbe fatto svanire un numero cospicuo di lucrosi affari, ma avrebbe anche provocato pesanti effetti negativi in campo economico. Forse sì. D’altra parte, solo se si è disposti a correre dei rischi e a fare dei sacrifici – anche grandi – è possibile raggiungere dei risultati importanti, come proprio lo sport insegna. Ma, purtroppo, le Olimpiadi sono governate sempre meno secondo un logica di sport e sempre più secondo le regole del business. E forse è anche per questo che il rugby – che proprio fino ai mondiali sudafricani era rimasto l’unico, tra gli sport maggiori, a essere ancora dilettantistico – non ha mai voluto che venisse annoverato fra le discipline olimpiche. La speranza è che, alla fine, gli atleti siano lasciati liberi di gareggiare e che, magari, proprio da uno di loro, forse dal gradino più alto del podio, venga un gesto o una parola capace di dare voce alla richiesta di libertà che, oggi più che mai, esige una risposta vera. Non solo in Cina.
dossier XENOFOBIA E RAZZISMO, PREGIUDIZI TRAMANDATI DA MADRE IN FIGLIO
CUORI NERI DI
•
L
•
HEIDI HOLLAND
e recenti violenze nei sobborghi impoveriti del Sudafrica sono il prodotto del fallimento del governo, che non ha saputo evitare gli effetti della repressione del presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe, ma le radici del fenomeno risiedono anche nelle condizioni sociali dell’apartheid. La xenofobia e il razzismo, infatti, si apprendono nel-
l’infanzia con il latte materno; molto prima di essere in grado di formulare un pensiero autonomo, si crea una falsa predisposizione mentale, nota come pregiudizio, che mina i sentimenti e la percezione degli altri. Questo condizionamento asociale si è diffuso nel Paese per decenni, ed ha virtualmente contaminato le persone per tutta la durata della vita; alcuni lo hanno assorbito in dosi maggiori, mentre altri riescono a tenerlo sostanzialmente sotto controllo. Mia madre, svedese, racconta una storia su di me di quando avevo tre anni che le ha creato imbarazzo durante la prima visita ai nonni di Zurigo. Mi avevano regalato una casa per le bambole, e, poiché ero nata in Africa, avevano messo due bambole, una nera e una bianca, sul divano. Non appena aprii il dono, tolsi la bambola nera dal divano e la buttai per terra, perché nel mio mondo non era ipotizzabile che le due condividessero il divano, e il posto appropriato per la bambola nera era solo il pavimento. È ovvio che le percezioni razziste di una bimba di tre anni non siano una sua colpa; siamo tutti forgiati dall’ambiente che ci circonda, e infatti la percezione della popolazione sudafricana del valore relativo delle persone non deriva da osservazioni obiettive, ma dalla visione ricevuta dai loro genitori. Alcuni, nella vita adulta, lottano contro il pregiudizio discriminatorio, mentre altri, pur riconoscendo l’elemento pregiudiziale, lo accettano come male inevitabile. I presupposti
tipici del razzismo e della xenofobia, l’idea di superiorità e inferiorità, quella linea colpevole di confine lungo il quale si consuma il ricorso alla violenza nella vita sociale del Sudafrica, sono presenti nella nostra vita giornaliera, oltre che nei nostri cuori, ma solo quando si materializzano visioni terribili come quelle delle persone bruciate vive nelle borgate di Gauteng delle ultime settimane, solo allora proviamo un moto di repulsione e ci rendiamo conto che dobbiamo trovare dei rimedi. Il caos che si va diffondendo nelle comunità più povere delle province del Sudafrica - la xenofobia unita a opportunismo politico, proteste e criminalità – è essenzialmente dovuto non solo alle politiche fallimentari di Thabo Mbeki nei confronti dello Zimbabwe, ma anche all’incapacità di alleviare il peso della povertà del Paese, la cui conseguenza è la scarsità delle risorse disponibili che i poveri del Sudafrica devono condividere con milioni di cittadini dello Zimbabwe in fuga verso uno Stato indifferente, dal quale non ricevono assistenza come rifugiati. Questo, in poche parole, è il detonatore piuttosto che la causa scatenante il razzismo strisciante. I cittadini del Sudafrica devono compiere uno sforzo per capire quello che sta avvenendo. Avendo vissuto per tre secoli in una società permeata da razzismo e violenza, essi non riescono a vedere gli aspetti positivi della diversità degli altri, che di conseguenza vengono 49
Risk percepiti come un pericolo. Condizionati da un sentimento di vendetta e di insoddisfazione dovuto alla mancanza di leadership e di servizi caratteristici dell’era Mbeki, oggi gli abitanti delle città vedono stranieri più istruiti avviare attività commerciali e imprenditoriali di successo, ma invece di gioire per l’arrivo di nuove forze economiche, provano un senso di inadeguatezza e di frustrazione che si sperava sarebbe scomparso insieme all’apartheid. I bianchi del Sudafrica sentono un vuoto di potere esasperato da alti livelli di criminalità come pure dall’incompetenza del governo, ma tendono a dimenticare il loro personale contributo alle carenze governative.
Certamente ci sono molte spiegazioni all’attuale
instabilità del Sudafrica, ma vi saranno nuove cause scatenanti nuovi disordini se non si affronta il problema latente della xenofobia. Impennate di razzismo come quello che ha portato all’omicidio del giovane Johan Nel a Skieliek, o le opinioni insensate del giornalista David Bullard - nonostante sia stato pubblicamente redarguito per aver ampiamente superato il confine dell’intolleranza - potranno solo provocare un senso collettivo di vergogna, colpevolezza e vendetta per molto tempo. Cosa sperano i cittadini del Sudafrica mentre contemplano le agitazioni nelle borgate, reminiscenza delle morti causate dall’apartheid negli anni Ottanta? Che il loro incapace governo trovi soluzioni per neutralizzare futuri scoppi di violenza dopo aver fermato gli attuali disordini? La sua stessa ambivalenza nei confronti degli stranieri richiede un’analisi urgente, così come le ben note molestie della polizia verso gli immigrati clandestini, ma come farà il Sudafrica a disinnescare i suoi impulsi distruttivi nel lungo termine? I genitori di Johan Nel non sono riusciti a creare un senso di appartenenza nel figlio, e la sua comunità continua a riflettere generazioni di estranei tra le razze del Sudafrica. Vi saranno sempre opportunisti come Bullard ad alimentare la sistematica applicazione dei codici della negazione dell’apartheid, che ha permesso così a lungo ai bianchi di differenziare facilmente il concetto di essere umano da ciò che loro considerava50
no subumano. Il giornalista valuta un problema ridicolo il fatto che i sudafricani debbano rinnegare la loro umanità per essere funzionali al regime di apartheid, quando ciò che i bianchi – in qualità di ex classe dominante - hanno realmente dimostrato al mondo è il livello cui le persone disumanizzate possono arrivare non avendo le loro stesse conoscenze. La maggiore sfida del Paese, malgrado il generoso esempio di Nelson Mandela, è ancora quella di gestire l’impatto della politica sugli individui.
Solo attraverso l’istruzione i sudafricani potranno
avviare con successo un processo di riforme. I bambini devono imparare che il rispetto della dignità è una delle principali barriere contro la crudeltà, in particolar modo se vedono i genitori impartire ordini in modo rude alle persone che lavorano nelle loro case e giardini, o ascoltano adulti che insultano gli stranieri. L’inclinazione umana a mostrare rispetto per la dignità di qualcuno, o disgusto per l’umiliazione di un altro, è stata erosa in modo disastroso. Questo è quello che gli abitanti del Sudafrica devono pretendere urgentemente per i loro figli, ma gli attuali insegnanti scolastici non possono farsi carico di un compito così cruciale perché sono loro stessi contaminati da pregiudizi precedenti. Le autorità dovrebbero condurre un’indagine nazionale per identificare volontari di tutti i settori della società civile, assegnando alle classi delle comunità rurali quelli che comprendono il danno all’umanità dei loro concittadini provocato dall’ignoranza delle suppliche dei poveri. Fino a quando un concetto di lealtà etnica con un senso più ampio di umanità non si farà strada, il Sudafrica sarà afflitto dal razzismo e dalla xenofobia. Dovunque un gruppo calpesti la dignità di un altro, spazzando via le proprie inibizioni, la brutalità proseguirà in una tragica escalation. Ironicamente, alcuni commentatori delle recenti elezioni in Zimbabwe avevano previsto un’eruzione di violenza in stile kenyota che invece è esplosa inaspettatamente in Sudafrica, per quanto in parte dovuta alle stesse pressioni politiche. La tensione che risale la china degli antichi odi minaccia tutti.
dossier
51
Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES
Tagli alla Difesa: una storia già vista La decisione del Governo di tagliare la spesa pubblica coinvolge pesantemente anche il ministero della Difesa imponendo una riduzione di due miliardi di euro nel prossimo triennio e un analogo taglio della richiesta avanzata per il prossimo anno che avrebbe dovuto, invece, consentire di tornare progressivamente sopra il livello di guardia in cui eravamo precipitati nella prima metà di questo decennio. Il nuovo Ministro non ha fatto nemmeno in tempo ad entrare nella complessa realtà della Difesa che già il suo collega dell’Economia gli ha tolto il tappeto da sotto i piedi: mentre il primo dichiarava la sua volontà di far crescere la spesa militare all’1,04% del Pil nel 2009 per arrivare nel medio periodo all’1,25%, il secondo procedeva inesorabilmente ad un primo taglio. Ridurre contabilmente il bilancio della Difesa senza intervenire strutturalmente è, come si è già visto in passato, un errore che mentre risolve un problema, ne apre molti altri. L’efficienza dello strumento militare richiede un modello di difesa coerente ed equilibrato. Da qui bisogna partire anche per ridurre il livello della spesa militare e non al contrario. La sua rigidità interna è molto differenziata e un intervento esclusivamente finanziario finisce col colpire in modo disordinato solo alcune attività. Fra le tre aree di attività e di spesa, quella del personale è ovviamente la più rigida. La parte “flessibile” è legata al reclutamento. Ridurlo o bloccarlo significa, però, non alimentare più il flusso di giovani a ferma breve che consentono il turn-over delle missioni internazionali e di aspiranti ufficiali che servono per svecchiare lo strumento, evitando salti generazionali. Quella dell’investimento è vincolata dai programmi in corso. A saltare sono i programmi nuovi, il che significa interrompere l’ammodernamento tecno52
logico degli equipaggiamenti in dotazione, e i contratti che, per diverse ragioni, sono ancora in via di definizione, indipendentemente dalla loro importanza ed urgenza. Quella dell’esercizio, infine, è la più elastica anche perchè fatta in parte di contratti limitati nel tempo, ma non per questo meno importanti. Può essere, a questo proposito, esemplificativo guardare alla spesa per il carburante. È evidente che solo con contratti a lungo termine ci si può tutelare dagli aumenti, spesso imprevedibili e ingiustificabili, ma per farlo bisognerebbe poter contare su una programmazione finanziaria certa e pluriennale e su una pianificazione delle attività militari altrettanto certa e pluriennale, a parte, naturalmente, le emergenze. Il cliente, inoltre, dovrebbe poter pagare entro tempi ragionevoli senza scaricare sui fornitori extra-costi finanziari. Nel caso italiano, invece, mancano tutti questi presupposti e l’acquisto deve essere fatto a breve termine con pagamenti a lungo termine. Il risultato è che, con i pochi fondi disponibili e con i tagli improvvisi e imprevisti, manca persino il carburante necessario per l’addestramento e per le stesse attività istituzionali. Il risultato di questa manovra sarà un’inversione di tendenza della nostra spesa militare non solo verso il basso in termini assoluti e in relazione al Pil, cancellando il faticoso recupero tentato nello scorso biennio per risalire dallo 0,83% del 2006 allo 0,96% della previsione 2008, ma sconvolgendo il tentativo di riportare ad un equilibrio accettabile il rapporto fra le tre aree si spesa. Contro un modello di riferimento che prevede 40-30-30 eravamo arrivati, due anni fa, a 72-15-12 e puntavamo quest’anno a 59-17-23. Adesso torneremo pesantemente indietro a meno che Governo e Parlamento non definiscano al più presto nuove scelte in materia di politica di difesa e sicurezza.
editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE
Il nuovo corso italiano in Afghanistan Sarà completato entro ottobre il “riassetto” del dispositivo italiano in Afghanistan, che riguarda in effetti sia la consistenza sia il ruolo dei nostri soldati. Terminato il nostro turno di comando delle forze Isaf schierate a Kabul, si è proceduto da un lato a rimpatriare parte dei soldati schierati nella capitale, dall’altro si sono ridislocati circa 500 soldati nella regione occidentale del Paese ed in particolare a Farah, la provincia che si trova a ridosso dell’area dove talebani e guerriglieri sono più attivi. Si costituirà così una seconda forza di manovra e reazione, di cui c’è disperato bisogno, vista anche la pochezza delle forze afgane. Ad Herat rimarranno 1.200 uomini, a Kabul 500, a Delaram altri 200. In tutto 2.400 soldati rispetto ai 2.600 presenti nel Paese in precedenza. In compenso arriveranno anche un po’di Carabinieri e Finanzieri in più per compiti di addestramento delle forze di sicurezza locali. Anche gli assetti aerei sono stati riposizionati, è arrivato un elicottero da combattimento in più, un Mangusta a Herat e 3 AB-212 sono spostati a sud da Kabul. Dipenderà dalla disponibilità di soldi invece la ventilata dislocazione di 4 aerei Tornado in ruolo ricognizione, per sostituire gli analoghi velivoli tedeschi. Il comandante della forza Nato Isaf, il generale statunitense McKiernan, è soddisfatto, anche se naturalmente aveva chiesto di più. Non si può tuttavia lamentare, considerando che anche la Germania sta inviando un migliaio di soldati addizionali, portando il totale a ben 4.500, così come la Francia, mentre anche la Gran Bretagna irrobustisce il suo contingente. Ci sono poi contributi di diversi altri Paesi, tutti preziosi. Non quello che i comandanti sul campo desideravano, ma c’è un indubbio miglioramento, che peraltro è controbilanciato da una accresciuta aggressività della guerriglia, anche grazie alla situazione sicuramente delicata che si è venuta a creare in Pakistan. Come era pre-
vedibile, anche se l’Italia ha provveduto a eliminare buona parte dei “caveat” che condizionavano la possibilità di Isaf di disporre l’impiego dei nostri soldati ove necessario, riducendo i tempi di risposta in caso di richiesta da 72 a 6 ore, di fatto questa facoltà non è stata esercitata, perché, fortunatamente, non ve ne è stato bisogno. Il nuovo corso della missione in Afghanistan aumenta il fattore di rischio per i nostri militari ed è un peccato che il Governo abbia “sorvolato” su questo aspetto. Nel Paese la situazione è difficile, le statistiche mostrano che pur con un numero di soldati ben inferiore a quello presente in Iraq, il numero di perdite è eguale o superiore, con un rapporto quindi più sfavorevole. Ed anche se l’intelligence non ha registrato un immediato incremento di “attenzioni sgradite” da parte di terroristi e talebani contro i nostri soldati, le cose sono destinate a cambiare quando i nostri reparti inizieranno a svolgere il loro compito, anche solo pattugliando, considerando poi che anche le regole di ingaggio sono state adeguate. Ciò avrebbe dovuto suggerire alle autorità politiche (che i militari lo sanno benissimo) di potenziare il contingente afgano con un po’più di muscoli (artiglieria ad esempio) e magari velivoli da combattimento. Ma il bellicismo del nuovo governo e i costi addizionali, almeno se si parla di mezzi aerei, hanno fatto soprassedere. Certo rimane sorprendente che il contingente in Libano sia tutt’ora più “robusto” di quello afgano. Andrebbero potenziati entrambi, visto che non tira una buona aria neanche in Libano, ma se ciò fosse troppo per il governo, almeno si potrebbe portare anche la forza afgana ai livelli di quella libanese. Per una volta, sarebbe bene prendere qualche precauzione in più prima che si verifichino scontri a fuoco, attacchi o incidenti e non dopo, tanto più visto che l’Afghanistan non è proprio dietro l’angolo 53
S
CENARI
LIBANO
T
INCOGNITA SULEIMAN DI
ANDREA MARGELLETTI
roppo ottimismo dopo gli nuovo governo, nodo strutturale accordi di Doha. A fine per la stabilizzazione del Paese. maggio, grazie alla mediaContemporaneamente, ha assistizione dell’Emiro del Qatar, era to alla riapertura delle trattative sembrato che il Libano avesse trocon Israele, per lo scambio dei vato la quadratura del cerchio per prigionieri tra quest’ultimo ed i suoi problemi. La pace, sottoHezbollah. scritta da tutte le confessioni reliEntrambi i casi, per le rispettive giose e dai partiti nazionali, aveva modalità di risoluzione, hanno stabilito l’elezione del Presidente dimostrato quanto il Libano viva della Repubblica, nella persona ancora in una fase di estrema preDopo l’elezione dell’ex Capo di Stato Maggiore carietà. E soprattutto quanto non a presidente alcune delle Forze Armate, il Generale sia sufficiente avere un nuovo sue scelte lo hanno Suleiman. Di conseguenza, le canPresidente per risolvere problemi indebolito: l’abbraccio il potere a Samir Kuntar, cellerie occidentali e quelle del che ristagnano ormai da decenni. concesso a Hezbollah, Medio Oriente erano state attraverAndando a ritroso e partendo dal lo stallo per la nomina sate da una ventata di speranza che, più recente tra questi due punti, il del governo. Eppure il Generale è ancora la finalmente, il Libano potesse intramodo in cui Hezbollah ha restituicarta migliore del Paese prendere la strada della normalizzato a Israele i corpi dei due soldati zione. Era desiderio di tutti che la rapiti nel 2006 – casus belli della crisi politica, il vuoto di potere dal novembre 2007 e “guerra dei 34 giorni” – in cambio del rilascio di soprattutto il rischio di guerra civile – con l’ultimo e suoi miliziani, ha sollevato molte perplessità presso più preoccupante rigurgito dei disordini di metà i governi occidentali. Certo, il fatto in sé risulta posimaggio – potessero essere archiviati definitivamen- tivo. Le trattative fra il governo Olmert e il “Partito te. Con Suleiman presidente, il Libano avrebbe potu- di Dio” ci sono state e sono andate a buon fine. to intraprendere la via giusta per la ricostruzione. Entrambi, poi, hanno ottenuto quanto richiesto. Purtroppo, però, molte di queste aspettative sono L’episodio, però, ha confermato come Hezbollah sia andate disattese. E nell’arco di pochissime settima- una realtà parallela allo Stato libanese, capace di agire indipendentemente dalle istituzioni di Beirut e ne. Subito dopo la sua nomina a nuovo Capo dello Stato, di presentarsi come interlocutore del tutto autonomo Suleiman ha dovuto affrontare la formazione di un nell’intero processo di pace, sia di fronte agli avver-
54
scenari sari sia ai negoziatori. Le trattative, portate avanti dall’intelligence tedesca (Bnd), si sono sviluppate senza che il governo di Beirut potesse minimamente intervenire. Nemmeno il Presidente del Parlamento, lo sciita Nabih Berri, ha avuto voce in capitolo. Hassan Nasrallah, in questo modo, ha inviato un messaggio ben preciso al premier Siniora. E cioè che i meccanismi decisionali libanesi sono “a senso unico”. Il “Partito di Dio” può governare a Beirut perché ne ha il diritto. È una forza politica costituzionalmente garantita! Ma Beirut non può interferire nelle questioni che riguardano le milizie sciite. Ne è conseguito che l’immagine del Segretario di Hezbollah, sensibilmente sbiadita dopo la guerra del 2006 contro Israele, sia tornata a risplendere per il suo carisma. Dopo mesi di assenza dalla piazza, egli stesso ha accolto le salme dei “martiri”, caduti negli ultimi 25 anni di scontri con Israele, che quest’ultima ha restituito, ma soprattutto ha abbracciato i 5 detenuti, fra un terrorista quale Samir Kuntar, il cui curriculum di sangue è tristemente noto ovunque, giunti vivi in Libano. Paradossalmente, di fronte a questa delegittimazione delle istituzioni libanesi, il presidente Suleiman ha reagito avvalorando queste trattative che hanno indebolito lo Stato di cui lui è il vertice. Anzi, per molti aspetti si può dire che tutto il Paese abbia assunto un atteggiamento di passiva accettazione dell’accaduto. Il Libano, infatti, ha accolto con feste e scene di giubilo il ritorno di Kuntar. Suleiman stesso si è addirittura mostrato a fianco di questo omicida. Ma una manifestazione di unità nazionale, se promossa per accogliere un assassino di bambini, non è ammissibile. Anzi, delegittima chi l’ha sostenuta. Tant’è vero che le aspettative sull’operato futuro del presidente libanese sono state sensibilmente ridimensionate proprio come conseguenza di questa inopportuna presa di posizione. A onor del vero, le sue quote di popolarità si erano ridotte già al momento dell’insediamento come Capo dello Stato, quando aveva ringraziato Hezbollah per il sostegno alla sua elezione e lo aveva salutato come “movi-
mento di unità nazionale”, sorprendendo così i governi alleati in Europa e negli Usa, i quali credevano di aver puntato su una personalità di cui fidarsi. Va detto però che era allora il miglior candidato possibile per tutti e oggi resta il leader con cui tutti sono disposti a parlare, in quanto è sufficientemente debole da non scontentare nessuno. A sua volta, la conferma di Siniora alla leadership del nuovo esecutivo è stata osteggiata fino all’ultimo da parte di chi si era opposto alla politica eccessivamente “filo-occidentale” assunta dal Primo Ministro uscente. Hezbollah, in primis, non poteva accettare di tornare sotto lo stesso premier contro il quale aveva organizzato, alla fine del 2006, l’imponente sit-in nella Piazza del Serraglio. Vero è che a Doha il “Partito di Dio” aveva strappato quel potere di veto che da sempre pretendeva e che appariva condicio sine qua non per rientrare nel governo. Ma questo non bastava. L’idea di avere ancora Siniora al potere risultava inaccettabile. Da qui la nuova empasse, dopo quella infinita per la scelta del Presidente. Un vuoto di potere che ha rischiato, anche in questo caso, di degenerare in scontri di piazza. Era successo prima di Doha, con lo sciopero generale indetto dalla Confederazione sindacale contro il carovita e poi trasformato in protesta anti-governativa da Hezbollah, nel momento in cui era stata scoperta la sua rete di controllo audio-video autonoma all’interno dell’aeroporto “Rafiq Hariri” di Beirut. Il peggio non è accaduto per il semplice motivo che i negoziatori hanno preferito non cedere all’intransigenza. Non è un caso che, mentre il “partito di Dio” trattava per quanti e quali seggi avere nell’esecutivo, le sue milizie non hanno sparato un colpo. A tenere impegnato l’esercito, infatti, erano gli alawiti di Tripoli, alleati sì degli sciiti e ovviamente filo-siriani, ma formalmente distaccati da Hezbollah. Quest’ultimo, sempre con l’intenzione di presentarsi alla comunità internazionale come una forza politica a tutti gli effetti – disposta a perseguire i suoi obiettivi con gli strumenti della democrazia e delle elezioni regolari – non ha voluto compromettersi e 55
scenari non si è sporcato le mani con altro sangue. Una scelta che ha portato i suoi frutti. Infatti, con la nascita del secondo governo Siniora, all’inizio di luglio, il mondo ha tratto un nuovo sospiro di sollievo. E il “partito di Dio”, o per meglio dire l’intero blocco della precedente opposizione, ha incassato un ennesimo punto di vantaggio. Dei 30 ministri, ben 11 sono stati scelti tra Amal, Hezbollah e i cristiani maroniti che fanno capo all’ex generale Michel Aoun. E tutti con incarichi di rilievo. Infatti, controllando i dicasteri di Industria, Telecomunicazioni, Lavoro (gestito direttamente dal movimento di Nasrallah), Sanità, Affari Sociali e Riforme Amministrative, questi tre partiti gestiscono l’intero Walfare State libanese. Cosa non da poco in un Paese da sempre dinamico da un punto di vista economico e che oggi cerca di risollevarsi da una pluridecennale crisi industriale, dovuta ai suoi trascorsi di guerra. Oltre a questi centri di comando nevralgici per la guida interna del Libano, la coalizione si è aggiudicata anche la leadership della diplomazia. L’esponente di Amal, lo sciita Fawzi Salukh, è tornato alla guida del ministero degli Esteri. Un riconoscimento diretto, questo, al presidente del Parlamento e leader di Amal, Nabih Berri, che si è speso in prima persona per la riuscita delle trattative a Doha. Dalla distribuzione degli incarichi è riuscito a guadagnarci anche Aoun, considerato da tutti il grande sconfitto a Doha, visto che la sua candidatura alla Presidenza della Repubblica, inizialmente appoggiata da Hezbollah e da Amal, è stata bruciata per il potere di veto accordato agli sciiti in cambio dell’elezione di Suleiman. Il leader del “Movimento Patriottico Libero” (Cpl), al contrario, è riuscito a incassare i ministeri delle Telecomunicazioni e degli Affari Sociali. Interessante notare come il primo gli sia stato concesso come una sorta di premio da parte di Nasrallah. Aoun, infatti, è stato il primo a prote-
stare e le sue forze a scendere in piazza contro le indagini avviate sul sistema di controllo dell’aeroporto di Beirut gestito da Hezbollah. In questo modo, da una parte è stato gratificato il Cpl per la sua fedeltà alla “causa sciita”, dall’altra Nasrallah ha ottenuto la garanzia di avere un alleato fedele in un ministero chiave. Tuttavia, la vittoria politica di Hezbollah non si esaurisce nel fatto di essere tornato nella “stanza dei
La debolezza del fronte sunnita è quella che salta più agli occhi. Non si può dimenticare infatti che la nascita del nuovo esecutivo e il potere di veto riconosciuto a Hezbollah abbiano il sapore di una grossa sconfitta politica per il “Fronte 14 marzo” bottoni” e, da qui, poter controllare i settori strategici per l’economia libanese. Ben più consistente è il riconoscimento di quel diritto di veto, tanto richiesto e reclamato. Affiancando quotidianamente Siniora, i diretti rappresentanti di Nasrallah possono governare, ma soprattutto non far governare. Così com’era prima del 2006, l’opposizione è tornata nell’esecutivo. Del resto, la potenziale ingovernabilità era più che prevista. Non solo perché gli accordi di Doha avevano permesso questo gattopardesco rientro della coalizione anti-Siniora nel governo, ma anche perché la stessa maggioranza era e rimane divisa al suo interno. Il “Siniora 2”, con 10 ministri confermati, appare come il rimpasto del precedente. Ma si presenta anche come una complessa fotografia dell’altrettanto difficile panorama partitico-religioso libanese. I ministri cristiani sono 15. Di questi, 6 sono maroniti, altrettanti greco-ortodossi, 2 sono armeno-ortodossi e l’ultimo è un greco-cattolico. Poi ci sono i 57
Risk sunniti: 5 più lo stesso premier. Infine i drusi, che si sono aggiudicati 3 dicasteri. Difficile governare con una frammentazione di forze tanto marcata. Sebbene le alternative siano ridotte, in quanto è la stessa Costituzione libanese a imporre la rappresentanza delle più numerose comunità religiose al governo. In particolare è la debolezza del fronte sunnita quella che salta più agli occhi. Non si può dimenticare infatti che la nascita del nuovo esecutivo e il potere di veto riconosciuto a Hezbollah abbiano il sapore di una grossa sconfitta politica per il “Fronte 14 marzo”, il quale ha dovuto cedere dopo un anno di empasse operativa e di assedio da parte dei manifestanti nella Piazza del Serraglio. Se poi a questo si aggiunge l’occupazione dei quartieri sunniti nella capitale, da parte delle milizie sciite durante i disordini di maggio, la sconfitta politica si sovraccarica di una cocente disfatta militare. Suleiman e Sinora, inoltre, sono stati costretti a scegliere personalità difficili da gestire. Si prenda il caso di Bahia Hariri: unica donna nella compagine governativa, ma soprattutto sorella dell’ex premier Rafiq, assassinato il 14 febbraio 2005 e sulla cui morte l’Onu ha aperto un’inchiesta sospettando il coinvolgimento siriano. La sua nomina a ministro dell’Istruzione non potrà che scontrarsi con i rappresentanti di Hezbollah e con tutti coloro che auspicano una ripresa delle relazioni con la Siria. Tra questi, al momento, si può contare lo stesso Siniora, il quale caldeggerebbe una nuova distensione con Damasco. Condizione anch’essa precipua per governare in armonia con gli sciiti e con i loro alleati stranieri. L’ultima incognita è data dalla componente palestinese. A un anno quasi esatto dai disordini nel campo profughi di Nahr el-Bared, generati dalla penetrazione del gruppo vicino ad al-Qaeda di Fatah al-Islam, è giunta la notizia della morte di Shehadeh Jawhar, comandante militare dell’organizzazione Jund alSham, presso il campo di Ein el-Hilweh. Il caso è interessante perché, secondo alcuni, l’uccisione si può far risalire ad al-Fatah, quella del Presidente palestinese Abu Mazen. Un’attribuzione difficile, 58
scenari questa. Chi è pratico del Libano sa che Ein elHilweh è uno dei posti più insicuri al mondo. Una sorta di Bronx del Medio Oriente, dove Jund alSham svolge il ruolo di milizia armata che controlla tutto il territorio e che difficilmente scende a trattative con l’avversario. Ne consegue che un ordine operativo del movimento di Abu Mazen, per un’eliminazione fisica, suoni anomalo. Tanto più che il presidente dell’Anp, così com’è impegnato nel processo di pace, non può compromettere al-Fatah in simili episodi di spargimento di sangue. Di conseguenza, è più probabile che la morte di Jawhar sia dovuta a Fatah al-Islam, militarmente attiva in Libano e ben più operativa. Se così fosse, avremmo a che fare non tanto con un “regolamento fra bande rivali”, bensì con l’avvisaglia di una potenziale escalation di violenze all’interno della comunità palestinese in Libano (circa 400 mila persona), soggetta a una condizione di vita che rasenta quotidianamente la crisi umanitaria. Il rischio è che i gruppi armati, che controllano la sicurezza dei campi ormai da tempo, si scontrino con altri “non autoctoni”. In questo caso la linea politica di resistenza armata dei palestinesi in Libano, espressa nella fattispecie da Jund al-Sham e finalizzata essenzialmente alla creazione di uno Stato palestinese indipendente, troverebbe dall’altra parte della trincea soggetti che sposano una strategia ancora più integralista e globale, com’è per Fatah al-Islam, con derive ideologiche che travalicano i confini dei Paesi arabi e si collegano con il Jihad. Un progetto politico, però, che trova ben poco consenso nei campi del Libano. Qui la popolazione palestinese non vive ispirata dall’odio contro l’Occidente, sentimento che è proprio di al-Qaeda, ma con la speranza – tenuta in vita ormai da sessant’anni – di far ritorno nella propria terra. Da questo scenario a tinte così fosche, però, spicca un bagliore di ottimismo. Il governo precedente, prima della defezione dei ministri sciiti, aveva dimostrato una certa funzionalità. Il fatto che tutte le forze fossero interessate a risollevare economicamente il
scenari Paese aveva generato una spinta propulsiva e produttiva per l’intero governo. L’ostacolo contro cui si era abbattuto verteva sul “caso Hariri”. Oggi, nella prospettiva delle elezioni parlamentari del prossimo anno e con l’obiettivo di arrivarvi con una nuova legge elettorale – svincolata dai legami religiosi tra elettorato e candidati – l’auspicio è che il nuovo governo scelga la strada della cooperazione e non dello scontro interministeriale. Inoltre, non è da sottovalutare l’opportunità che si offre a Siniora e a tutto il fronte sunnita, in campo diplomatico, di essere coinvolti in quell’operazione portata avanti dai partner mediorientali del Libano di reazione alla rivalsa sciita. Beirut potrebbe trarre i benefici dall’iniziativa comune che dall’Arabia Saudita, dall’Egitto e dalla Giordania sta partendo e ha come obiettivo la ridefinizione di una politica estera comune, impostata sul dialogo con l’Occidente – Israele compreso – esplicitamente contraria all’Iran e favorevole alla normalizzazione di Paesi dove la comunità sunnita è tradizionalmente forte, ma oggi è vittime di collassi politici e militari. È il caso dell’Iraq, ma anche del Libano. Non è una semplice coincidenza, allora, che il nuovo premier stia cercando il dialogo oltre i confini del Paese. Sahad Hariri è fresco di una visita a Baghdad, in preparazione di un incontro ufficiale tra Siniora e la sua controparte irachena al-Maliki. Entrambi i governi devono destreggiarsi in un precario equilibro fra le comunità religiose che li caratterizzano, oltre che in contesti di insicurezza. Facile pensare, quindi, che Libano e Iraq cerchino un reciproco sostegno. Ma ancora più interessanti appaiono i segnali di disgelo con Damasco. Appena giunto a Beirut, il ministro degli Esteri siriano, Walid Moallem, ha invitato formalmente Suleiman in Siria. Si tratta di un gesto di alta disponibilità, in controtendenza con le frizioni di questi ultimi anni. Ma soprattutto specularmente contrario con i tentativi, mai mascherati, che la Siria ha sempre compiuto di ingerire nella politica interna libanese. Nel 2005, il ritiro delle truppe siriane dal Libano giunse solo in seguito alle pressioni interna-
zionali, in quanto sul regime Baath gravava il sospetto di essere colluso nell’“omicidio Hariri”. Sempre sulla scia dei buoni propositi, appaiono le possibilità di dialogo con Israele. Finora queste erano interrotte per motivi che Olmert attribuiva unicamente al Libano. E certo il vuoto di potere non ha giovato. Oggi però, con le istituzioni in ordine – ma soprattutto con la volontà di fare la pace espressa continuamente da Israele – di giustificazioni ne rimangono ben poche. Non per nulla la questione dei prigionieri è stata in qualche modo risolta. Il nodo da sciogliere verte unicamente sulle Fattorie di Shebaa, attribuite in modo incerto a Libano e Siria, ma occupate da Israele nel 1967. Se anche questo contenzioso territoriale venisse a mancare, per i due Paesi sarebbero poche le ragioni di attrito. Tanto più che, a guardar bene, entrambi sono alleati dell’Occidente e sostenuti dagli Usa. Nonostante resti il problema di Hezbollah. Infine la questione Unifil. L’argomento è assai delicato, perché i Caschi blu – comandati dal generale Claudio Graziano – sono esposti a due rischi: uno operativo e l’altro politico. I continui se non giornalieri sorvoli, da parte dell’Aeronautica israeliana nei cieli del Libano del Sud, e il contrabbando di armi gestito a terra dalle milizie sciite introducono una componente di forte instabilità nel territorio in cui operano i nostri soldati. A questo si aggiunge il rischio di strumentalizzazione. Da una parte, Israele pretenderebbe maggiore aggressività, in particolare con Hezbollah, affinché vengano scalzate le sue milizie con le armi. Ma questo non è possibile. Prima di tutto perché l’Unifil è in Libano per conto dell’Onu, sulla base della Risoluzione 1701, la quale non prevede un intervento così invasivo. Dall’altro lato, il quotidiano rapporto tra i militari e le municipalità locali, prevalentemente sciite, pone il problema sul fatto che il solo interlocutore dell’Onu è lo Stato sovrano libanese e non le istituzioni locali che tendono a riceve ordini da Hezbollah. Questo è quanto. Il Libano è un Paese bellissimo. Il problema è tornare a farlo risplendere dei suoi colo59
Risk ri di natura selvaggia e di storia plurimillenaria. Ma anche dell’armonia delle sue genti e delle tante culture. Dopo tanti decenni di tragedie, è necessario quindi che tutti, dalla classe dirigente nazionale alla comunità mondiale, si impegnino sinceramente affinché il Libano torni a essere un Paese normale. L’elezione di Suleiman è stata certamente un successo. Come pure il compromesso per la formazione del nuovo governo e lo scambio di prigionieri tra Hezbollah e Israele – per quanto dalle modalità così discutibili – rappresentano un concreto passo avanti rispetto a tutte le esperienze precedenti. Ma questo non basta. Adagiandosi ottimisticamente sugli allori – che poi allori non sono – si rischia di perdere nuovamente il controllo della situazione. Al contrario, guardando e agendo in una prospettiva di breve periodo, ci si rende conto dei rischi e al tempo stesso delle opportunità che sono a disposizione del Libano. Il nuovo governo è essenzialmente di unità nazionale. È un dovere per tutti i suoi ministri, maggioranza quanto di opposizione, farlo lavorare come tale. La ricostruzione economica e la nuova legge elettorale devono costituire per tutti le priorità assolute, in attesa delle elezioni del prossimo anno. In questo senso il ritorno al benessere rappresenta un’opportunità di riscatto, oltre che il metodo più efficace per emancipare la popolazione e sottrarla dalle derive radicali e violente alle quali è esposta. A sua volta, svincolare l’elettorato e i candidati all’Assemblea Nazionale dai legami religiosi significa completare quel processo di modernizzazione politica necessario per fare del Libano la seconda democrazia del Medio Oriente. D’altra parte, la Comunità Internazionale deve permettere al Libano di crescere. L’impegno di Unifil, in questo senso, va sostenuto, senza che subisca modifiche in direzione di una maggiore operatività militare. Certo, la sicurezza deve essere garantita. Ma questo è possibile grazie al contributo da parte di tutti i Paesi confinanti. Un contributo che dev’essere essenzialmente di tipo politico, reso concreto dal dialogo e dalle relazioni diplomatiche. 60
scenari
scenari
FRANCIA
COME CAMBIA L’ASSE FRANCO-TEDESCO
«S
DI
MICHELE MARCHI
ono certo che queli leader, basti pensare alle copsto trattato passerà pie de Gaulle-Adenauer, Gisalla storia come card-Schmidt e Mitterrand-Kohl. uno dei più importanti e più La fine della guerra fredda e la significativi del dopoguerra e scomparsa di una generazione di che svolgerà un ruolo benefico leader che aveva vissuto in per i due popoli, per l’Europa e prima persona le traumatiche la pace nel mondo». Con queste lacerazioni della guerra europea parole l’ex cancelliere tedesco dei trent’anni comportano necesKonrad Adenauer commentava sariamente una risistemazione nelle sue Memorie del 1966, la dei parametri che hanno regolato stipula del Trattato dell’Eliseo il rapporto franco-tedesco e di È una “storia di coppia” quella che lega Parigi tra Francia e Germania, avveconseguenza una rivalutazione e Berlino: de Gaulle nuta il 22 gennaio 1963. Da del ruolo che la «coppia» potrà Adenauer, Giscard questo momento in poi la copavere per lo sviluppo futuro Schmidt, Mitterand-Kohl, ChiracSchröder, Sarkozypia franco-tedesca istituzionadell’Ue. Anche se il quadro è in Merkel. Con un distinguo: lizza un legame privilegiato piena evoluzione, perlomeno a terminata l’ansia da che, andando al di là di ogni partire dai primi anni Novanta e fratelli-coltelli si sta passando a un rapporto alternanza politica, da un lato al momento si possono delineare tra primi inter pares garantisce pace e stabilità nei solo scenari ipotetici, il primo rapporti bilaterali tra i due anno di presidenza Sarkozy qualPaesi, nemici storici dalla metà dell’Ottocento, e che indizio lo ha lasciato. L’impressione è che, venudall’altro funge da vero e proprio motore per lo svi- te meno parti delle costrizioni legate alle dinamiche luppo della costruzione europea. Insomma a partire di guerra fredda e delineatisi differenti sviluppi ecodalla metà degli anni Sessanta del Novecento nomici nelle due realtà, l’approccio dialettico si stia Francia e Germania fissano il loro modello virtuoso imponendo su quello consensuale e quello che di riconciliazione e contemporaneamente vengono Markus Kerber ha definito «disaccordo mascherato» ad incarnare il cuore pulsante del processo, lento finisca per occupare la scena politica così come le ma inesorabile, di integrazione europea. Nel corso prime pagine dei quotidiani di Parigi e Berlino. dei quarantacinque anni che ci separano dalla firma Quando il 6 maggio 2007 Sarkozy ha solennemente del Trattato dell’Eliseo le relazioni franco-tedesche parlato di «ritorno della Francia in Europa» è stato sono state determinante da una congiuntura legata inevitabile volgere lo sguardo oltre-Reno, certi che al contesto di politica internazionale globale e da una nuova parentesi stava per aprirsi nelle relazioni questioni meno strutturali e più emozionali, diretta- tra Francia e Germania e di conseguenza, probabilmente dipendenti dai rapporti creatisi tra i principa- mente, anche all’interno dell’Ue a 27. La fase di rico61
Risk struzione post-bellica dell’Europa occidentale ruota senza alcun dubbio attorno al progressivo riavvicinamento e alla definitiva riconciliazione tra le due sponde del Reno. Una delle motivazioni che spinsero Robert Schuman e Jean Monnet ad elaborare la dichiarazione del 9 maggio 1950 era proprio quella di avviare un percorso parallelo di abbattimento delle frontiere economiche tra i principali Stati europei e di progressiva cooperazione franco-tedesca. Mai più guerre in Europa implicava innanzitutto la necessità di scongiurare le tensioni belliche tra
La fase di ricostruzione postbellica dell’Europa occidentale ruota attorno al progressivo riavvicinamento e alla definitiva riconciliazione tra le due sponde del Reno le due sponde del Reno. Una volta firmati i Trattati di Roma nel solco della Dichiarazione Schuman di sette anni prima, Francia e Germania, ad avvio anni Sessanta, completano il loro percorso di riconciliazione con l’istituzionalizzazione del loro rapporto attraverso la firma del Trattato dell’Eliseo. Ecco però il primo mito da sfatare. In realtà dietro allo schermo della riconciliazione i due protagonisti dell’accordo celano motivazioni ben differenti. Da un lato troviamo Adenauer il quale ha bisogno di fissare la cooperazione tra i due Paesi all’interno di un quadro vincolante dal quale il suo probabile successore (il Ministro dell’Economia Ludwig Erhard) non possa poi recedere. Dall’altro lato del Reno c’è invece il generale de Gaulle, con il suo progetto di associare in maniera solida Francia e Germania, in particolare per ciò che riguarda la politica estera e di difesa, nel desiderio nemmeno troppo celato di sottrarre progressivamente Bonn dalla sfera di influenza americana. Che l’interesse gollista per la forma62
scenari lizzazione del rapporto della cosiddetta coppia franco-tedesca sia legato alla più complessiva politica estera di grandeur del Generale è ulteriormente confermato se si osservano con attenzione le date. La firma tra de Gaulle e Adenauer è del 22 gennaio 1963. Otto giorni prima il Generale, nel corso di una conferenza stampa, ha bocciato senza appelli la domanda inglese di adesione alla Cee. Dunque nel tentativo di arginare la costruzione di un’Europa troppo «filo-atlantica» il legame privilegiato con Bonn diventa un passaggio fondamentale. In realtà questa fase è decisiva per comprendere una «smagliatura delle origini» alla base del legame franco-tedesco, una costante, anche se sotto-traccia, pronta poi ad emergere in maniera palese una volta compiuta la riunificazione e soprattutto una volta Berlino assurta al ruolo di potenza non solo economica ma anche politica dell’Europa. La percezione gollista che l’ingresso della Gran Bretagna nel Mercato comune europeo possa tramutarlo in una mera area di libero-scambio, alla mercé degli interessi statunitensi, è alla base della sua decisione di boicottare l’adesione di Londra almeno quanto il timore che gli Usa vogliano inserire la Francia in un meccanismo di difesa integrato per controllare meglio il suo arsenale atomico. Al «no» a Londra corrisponde automaticamente l’accelerazione del rapporto con Bonn e la convinzione che il rapporto franco-tedesco possa diventare il fulcro di un’integrazione europea fuori dall’influenza anglo-americana. In realtà se la visione del Generale è sostenuta con grande rispetto dal «gollista Adenauer», non altrettanto si può dire del suo successore Erhard e di gran parte dei parlamentari socialdemocratici, liberali e anche cristiano-democratici pronti a battersi per i principi di libero scambio e soprattutto non disposti ad accettare una visione ristretta ed escludente del rapporto privilegiato tra Francia e Germania. Il Trattato dell’Eliseo viene così ratificato inserendo però nel suo preambolo richiami espliciti al legame tra la Repubblica federale tedesca e gli Stati Uniti,
scenari sia per quanto riguarda gli approcci di politica estera, sia per quello che concerne la delicatissima questione della difesa. Nato dunque con l’idea francese di istituzionalizzare un’Europa ristretta, continentale e il più possibile indipendente economicamente e militarmente dagli Usa, la coppia franco-tedesca si presenta in realtà fin dagli anni Sessanta come asse portante di un processo di integrazione continentale da concepire nello spazio di sviluppo del blocco occidentale, con due punti di riferimento ben precisi: il libero-scambio e la risorsa difensiva del Patto Atlantico. L’uscita di scena di Adenauer apre dunque una fase di riflusso nei rapporti franco-tedeschi, che non mutano in meglio nemmeno di fronte al sostegno (in realtà più di facciata che sostanziale) di Pompidou alla Ostpolitik di Brandt. In questa congiuntura a Parigi si teme che Bonn sia disposta a troppe concessioni pur di ottenere il via libera sovietico alla riunificazione. Il vero e proprio rilancio della cooperazione francotedesca è però opera delle coppie Giscard-Schmidt e Mitterrand-Kohl. In questo caso, forse più che nella congiuntura gollista, è evidente come l’asse franco-tedesco si tramuti in motore del processo integrativo europeo.
La nascita del Serpente monetario europeo del
1973 e la più complessiva armonizzazione delle visioni politiche, economiche e monetarie di Francia e Germania sono opera del Presidente Giscard e del cancelliere Schmidt. Proprio questo impulso porterà alla nascita del Consiglio europeo e alla prima elezione a suffragio universale del Parlamento di Strasburgo. Ancora nella linea dell’armonizzazione dei sistemi economico-finanziari deve essere ricordato il lancio nel 1978 del Sistema monetario europeo, che mantiene le valute che vi partecipano a livelli di cambio stabili e avvia il percorso che nel 2002 porterà alla circolazione dell’euro. La coppia Mitterrand-Kohl si impegna alacremente sulla via della cooperazione militare, in par-
ticolare nella fase in cui il Presidente francese sostiene pubblicamente Bonn nella sua decisione di dispiegare gli euromissili, in conformità con la doppia risoluzione Nato del 1979. La cooperazione militare ha negli anni successivi ricadute concrete, nonostante non venga mai chiarito il rapporto tra la cooperazione militare franco-tedesca e l’integrazione delle forze tedesche nella Nato. Il passaggio dell’unificazione, infine, testimonia del carattere saldo del rapporto e del suo fermo ancoraggio alle dinamiche di unificazione europea anche se, anche in questa occasione, l’immagine più rispondente alla realtà è quella del baratto (euro e fine della Bundesbank in cambio dell’unificazione) piuttosto che quella della «intesa cordiale». La questione della riunificazione e del successivo allargamento dello spazio di integrazione europea porta però nuovamente in superficie l’ambiguità di fondo sulla quale poggia il legame franco-tedesco. Le iniziative franco-tedesche fungono certamente da impulso al processo di costruzione dell’Europa. Nel momento però in cui questa ha completato il suo dispiegamento sembra venire meno il ruolo decisivo dell’asse franco-tedesco. Nell’Europa post 1989 ha ancora senso parlare di asse franco-tedesco? Per cercare una risposta fondata a questa domanda è necessario affrontare in maniera più attenta le dinamiche del post ’89 e in particolare le due fasi decisive dominate dalla coppia Mitterrand-Kohl e da quella altrettanto ambiziosa, ma non allo stesso modo efficace, Chirac-Schröder. Il crollo del Muro di Berlino libera una serie di dinamiche all’interno dell’Europa rimaste come congelate alla fine del secondo conflitto mondiale. È chiaro però ai principali protagonisti politici dell’epoca che una soluzione virtuosa non è né scontata, né deterministicamente certa. Tra l’altro gli avvenimenti del 1989 vengono a contraddire una legge non scritta e applicata in maniera esplicita per la prima volta dal cardinale Richelieu secondo la quale la stabilità del continente esige la divisione della Germania. Ogni volta che la Germania prova la sua unificazione l’instabilità 63
Risk finisce per regnare sovrana nel Vecchio Continente. Di fronte a questa situazione la scelta di Mitterrand è quella di ripartire dalle origini, dall’intuizione di Schuman e Monnet degli anni ’50: contenere la Germania unificata all’interno di un più complessivo approfondimento comunitario. Dopo il crollo del Muro la Francia non può più svolgere il ruolo di fonte di legittimazione per l’oramai ex Repubblica federale tedesca, ma può continuare a svolgere quello di partner fedele nel cammino verso l’integrazione europea. Insomma, come afferma con un’immagine ricca di fascino Silvio Fagiolo, Mitterrand comprende come il gioco possa tramutarsi a somma positiva se il «gigante provinciale», cioè Parigi, e il «nano universale», Berlino, decidono di unire le loro forze. Ecco motivato il «no» francese alla creazione di un nuovo ipotetico asse con la Gran Bretagna di Margaret Thatcher, assolutamente contraria all’unificazione tedesca. Serve «più Europa», secondo il presidente socialista, se non si vuole avere «troppa Germania». Al protagonismo di Mitterrand deve essere accostato quello altrettanto decisivo di Kohl. Il cancelliere comprende immediatamente che la nuova acquisizione di potenza da parte di Berlino provoca più di un malumore nel resto dell’Europa. Dietro l’angolo si affaccia il rischio che l’instabile equilibrio europeo possa di nuovo essere travolto dal risorgere dei vecchi nazionalismi. La prima risposta del cancelliere cristianodemocratico è quella di ribadire la sua fedeltà ai principi dell’europeismo così come a quelli dell’atlantismo. Di fronte alle numerose soluzioni di sviluppo geopolitico che gli si aprono, Kohl opta per l’approfondimento europeo. Sull’altare dell’europeismo arriva persino ad immolare il marco e il primato della Banca centrale tedesca. Kohl comprende che l’unità politica del suo Paese deve essere incardinata in quella più complessiva a livello continentale. Però contemporaneamente all’accelerazione europeista, Berlino non prospetta solo rinunce. Attraverso l’Europa la Germania riesce ad imporre, addirittura anche alla statalista e centralista Francia, 64
il trionfo del liberalismo economico e della cosiddetta economia sociale di mercato, sintesi virtuosa tra capitalismo renano e bavarese. L’uscita di scena prima di Mitterrand, nel 1995, e poi di Kohl, nel 1998, ma soprattutto gli eventi successivi all’11 settembre 2001 inaugurano una fase nuova nei rapporti franco-tedeschi e nel modo in cui la coppia si pone di fronte agli eventi di politica internazionale. Il consolidarsi del rapporto Chirac-Schröder e la loro opposizione all’intervento Usa in Iraq mostrano in maniera esplicita quanto il funzionamento dell’asse franco-tedesco sia legato al rapporto che ciascuna delle due componenti intrattiene con l’alleato americano. In epoca di Guerra fredda, come si è potuto notare anche in occasione della firma del Trattato dell’Eliseo, per Bonn l’europeismo non è altro che un sottoinsieme dell’atlantismo. D’altra parte l’attitudine di Parigi, una volta spogliata dell’accentuato simbolismo gollista (una sorta di non allineamento e di rapporto critico senza mai giungere però alle estreme conseguenze di ciò che in realtà si dichiara), non si discosta molto da un mix indispensabile di europeismo e di partecipazione, anche se critica, alla comunità occidentale. Con la campagna di opposizione allo storico alleato statunitense condotta da Chirac e supportata dal cancelliere socialdemocratico Schröder, la coppia franco-tedesca si candida a vera e propria avanguardia creativa finalizzata alla definizione di un nuovo principio identitario europeo, che trova la sua ragione di esistenza nella contrapposizione frontale al modello di gestione dei conflitti ma anche di way of life rappresentato dagli Stati Uniti. Nell’ottica franco-tedesca del periodo 2001-2005 l’Europa si presenta come una grande comunità geopolitica che trova la chiave della sua definitiva unità proprio nel contrapporsi allo storico alleato, innanzitutto da un punto di vista valoriale. L’ambiguo concetto di «Europa potenza civile» si contrappone a quello degli Usa impegnati nella «guerra al terrore» e trasformati nella cosiddetta «fortezza americana». Ben presto l’artificiosità di questa supposta identità euro-
66
scenari pea costruita a partire dalla mera contrapposizione agli Usa mostra tutti i suoi limiti. Tra i suoi critici più autorevoli si può citare quel Giuliano Amato che nel 2005 arriva a parlare, a proposito della frattura euro-atlantica e dell’atteggiamento di alcuni leader del Vecchio Continente, di un «gollismo con il pantografo declinato in maniera duplice: l’Europa può avere una politica estera solo se è contro gli americani, l’Europa deve avere una politica estera per opporsi agli americani». In realtà le fugaci fortune ell’asse Chirac-Schröder faticano a mascherare quella che lo storico Piero Craveri non esita a definire «sindrome dell’autolimitazione», una vera e propria reazione anomica, una specie di fuga dalla realtà, un tentativo quasi di disperato di chiudersi nello spazio asettico di gestione della società del benessere, così come edificata all’indomani della seconda guerra mondiale, ma oggi drammaticamente inadeguata a gestire le dinamiche politiche, economiche e sociali della globalizzazione. Il 2005 è l’anno della vera sconfessione della strategia della coppia Chirac-Schröder: il «no» al Trattato costituzionale e la sconfitta elettorale dei socialdemocratici tedeschi (anche se di misura e con la successiva formazione del governo di grande coalizione) segnano una definitiva battuta d’arresto del protagonismo franco-tedesco così come concepito negli ultimi anni. In realtà l’uscita di scena dei due leader (quella di Chirac tarderà ancora due anni, costellati però da una serie impressionante di crisi interne, dalle banlieues al Cpe) ripropone l’interrogativo di come il binomio franco-tedesco si possa riproporre in un mondo lontano anni luce da quello in cui il rapporto era nato.
Chiusa la parentesi mitica della riunificazione
(e dell’allargamento a est dell’Unione europea) e archiviata la breve ma intensa fase dell’«antiamericanismo ideologico», Parigi e Berlino si trovano nuovamente alle prese con la necessità di conciliare il ruolo tradizionale della Francia, in quanto motore
politico dell’Europa, con quello nuovo di una Germania potenza economica, ma anche oramai pronta a far pesare politicamente tutto il suo potenziale. Se dunque i parametri del bilateralismo e della geopolitica europea in genere sono notevolmente mutati negli ultimi venti anni, la relativizzazione dell’asse franco-tedesco (in parte dovuto all’allargamento, ma in parte anche legato alla svolta filoatlantica imposta dal presidente francese Sarkozy) non può significare una sua scomparsa come motore dell’integrazione. L’impressione è che, spogliato dall’artificiosità ideologica dell’epoca di Guerra fredda e da quella strumentale degli ultimi dissennati anni del cosiddetto «Atlantico più largo», oggi l’asse franco-tedesco possa rigenerarsi a partire da questioni concrete e da un’immagine meno artefatta, dove l’idea di un’attrazione irresistibile tra Bonn e Parigi, lascia spazio a quella di una scelta razionale e di necessità. Proprio il «no» francese del 29 maggio 2005 ha contemporaneamente evidenziato limiti e forza dell’asse franco-tedesco. Da un lato infatti nell’avvicinarsi all’allora Trattato costituzionale Parigi e Berlino hanno mostrato i loro differenti approcci alle questioni europee. Per la Germania il desiderio di crescita organica e lo spirito di sussidiarietà, connaturati alla costruzione europea, ben si sposano con l’impianto federale e competitivo. Per quanto riguarda Parigi, una volta scomparsa la necessità di imbrigliare il vicino tedesco e definitivamente tramontata l’ipotesi dell’Europa «terza via», ha finito inevitabilmente per emergere quel giacobinismo di fondo e quel culto della nazione che finiscono per concepire la Ue come una perdita di autonomia e una limitazione delle prerogative di potenza. A questo dato deve poi aggiungersi una situazione economica agli antipodi, con una Germania che ha raggiunto l’equilibrio di bilancio nel 2007 e può vantare un tasso di disoccupazione di 2 punti percentuali più basso rispetto a quello francese. Si è parlato dei limiti, ma non si devono trascurare i punti di forza: la Germania infatti ha legato l’uscita dall’impasse 67
Risk europeo post 29 maggio 2005 alla guarigione dell’«uomo malato d’Europa» e ha dunque puntato nettamente su Nicolas Sarkozy come candidato alle presidenziali dell’aprile-maggio 2007. Come la stampa tedesca ha mostrato lungo tutta la campagna elettorale il candidato Sarkozy non solo ha goduto di un ottimo trattamento, perché ha sin dall’avvio promesso un voto soltanto parlamentare sulla nuova versione del Trattato europeo, ma anche perché le sue ricette di politica economica ed in generale il suo volontarismo sono parsi un atto di coraggio politico dal quale tutta l’Ue poteva trarre benefici. Una volta eletto alla presidenza il candidato neogollista, la coppia Sarkozy-Merkel ha dato prova di grande lavoro di squadra nell’ottenere l’unanimità sul Trattato di Lisbona, quell’impulso necessario al rilancio europeo in parte poi affossato dopo il «no» irlandese. Se si elude però la materia istituzionale, l’euforia iniziale ha finito per tramutarsi al di là del Reno in critica velata per poi divenire negli ultimi mesi vera e propria lamentela ufficiale. Sembrano due i nodi veramente intricati alla base di quella che Le Monde ha definito «la danza dei coccodrilli, dove dietro ai sorrisi, si celano in realtà sfiducia e soprattutto una sorda rivalità per assumere la leadership dell’Europa». Innanzitutto il nodo delle differenti strategie economico-industriali e i loro riflessi all’interno dello spazio di governance economica dell’Ue. Ad una Germania che sta raccogliendo i frutti della radicale riforma economico-sociale impostata dal cancelliere Schröder nel 2003 e proseguita dal governo di grande coalizione guidato da Merkel, corrisponde una Francia in pieno tentativo di ristrutturazione condotta dal nuovo inquilino dell’Eliseo. Da un punto di vista dei meccanismi di controllo economico dell’Ue l’offensiva si è condensata, a partire dall’Ecofin presieduto da Sarkozy non appena eletto ai primi di luglio del 2007, nella critica all’approccio antinflazionistico della Bce e nell’annuncio di uno spostamento al 2012 la data per il raggiungi68
scenari mento dell’equilibrio di bilancio. Al timore tedesco che Sarkzoy finisca per creare un precedente negativo sulle questioni legate all’equilibrio di bilancio e possa essere imitato da altri Paesi membri si è poi aggiunta la querelle relativa alla scomparsa dal Trattato di Lisbona del richiamo alla «concorrenza libera e non falsata». Se a questo dato teorico si aggiunge poi il caso concreto della fusione a guida statale di Suez e Gaz de France, l’impressione che il «patriottismo economico» di Sarkozy si stia tramutando in nuovo protezionismo pare sempre più diffusa oltre-Reno. Peraltro l’idea che le divergenze economiche e le rivalità industriali potessero creare importanti crepe all’interno della coppia era stato confermato anche dalla crisi insorta al momento di nominare i nuovi vertici del gruppo aerospaziale Eads, per non parlare dei contenziosi all’interno del gruppo farmaceutico Aventis, spesso considerato come esempio di cooperazione e oggi acquisito dal concorrente francese Sanofi-Synthélabo, sotto lo sguardo compiaciuto del governo parigino. In secondo luogo le prospettive di politica estera dei due partner, che al momento mostrano alcune divergenze significative. In realtà parlare di vere e proprie discrepanze non è forse ancora lecito.
L’impressione è quella dell’incontro-scontro tra
due attivismi. Da un lato quello della diplomazia tedesca, che risale agli anni di Joschka Fischer al ministero degli Esteri e che si può condensare nell’immagine di una Germania finalmente libera dal suo timore di presentarsi al mondo come «media potenza» in grado di svolgere un ruolo attivo nelle principali aree di crisi (anche se da questo punto di vista fondamentale dovrà essere un incremento della quota di Pil destinata alla politica di difesa). Dal lato francese il work in progress è ai suoi passi iniziali, ma la gestione spesso spettacolare dell’Eliseo non deve finire per distrarre dal fatto che concrete novità stanno prendendo forma nel nuovo disegno di politica estera e di difesa. I recenti libri bianchi su
scenari Politica di difesa e Politica estera, se letti con la dovuta attenzione, mostrano come la discontinuità impressa da Sarkozy su alcuni punti decisivi (basti pensare naturalmente alla svolta filo-atlantica) finiranno per strutturare in maniera differente l’asse franco-tedesco. Non a caso il braccio di ferro sul lancio dell’Europa mediterranea, poi divenuta Europa per il Mediterraneo, è stato solo l’anticipazione di un rapporto dialettico e, come amano definire i francesi, décomplexé. Questo significa dichiarare la morte cerebrale dell’asse franco-tedesco e la sua scarsa rilevanza per le dinamiche di costruzione europea? Assolutamente no, non foss’altro perché Parigi e Berlino possono contare su strutture di cooperazione uniche al mondo, come i Consigli dei ministri congiunti che si svolgono semestralmente dal 2003 o come lo scambio tra diplomatici al ministero degli Esteri che avviene regolarmente da oltre venti anni. L’asse franco-tedesco può certamente ancora svolgere un importante ruolo propulsivo anche all’interno di un’Europa fluida come quella odierna a 27. L’errore da non commettere è quello di guardare alla coppia franco-tedesca con le categorie interpretative del periodo pre-1989 o con quelle forse ancor più distorte del post 11 settembre 2001. È giunto il momento, una volta tenuto nel giusto conto il portato storico delle relazioni tra i due Paesi, affrontare la situazione per come si presenta attualmente. In pieno semestre di presidenza francese dell’Ue determinante sarà vedere come l’asse funzionerà su alcuni dossier chiave quali quello della Pac, della politica energetica comune (e della strettamente legata questione delle emissioni di CO2 nell’atmosfera) e della politica di difesa comune dopo il riavvicinamento francese agli Usa e alla Nato. Magari, come suggerito da Martin Winter di recente sulla Süddeutsche Zeitung, si potrà finalmente prendere le distanze dagli eccessi opposti, ansia da direttorio/fratelli-coltelli per passare ad un più equilibrato rapporto tra primi inter pares. 69
Risk
EUROPA/1
P
IL MARE NOSTRUM SECONDO SARKOZY DI
MARIO RINO ME
er affrontare le tematiche Quello che i Romani definivano dell’area mediterranea semplicemente Mare Magnum e, occorre, innanzitutto, defidopo la piena padronanza, Mare nire il contesto, dal momento che Nostrum, entrambe derivate dalla è acquisito dalle leggi della sociodenominazione greca, era già ricologia che non si governa bene ciò nosciuto dal filosofo Anasche non si conosce. L’occasione è simandro (verso il 570 a.c.) con la fornita dal battesimo di Parigi caratteristica di “Mare chiuso”. In della “Unione per il Medivirtù della sua conformazione, terraneo” (Upm), nata francese e Cesare Balbo (Della Storia d’Italia,1852) e Pietro Silva (Il ora inserita a pieno titolo nell’alMediterraneo. Dall’unità di Roma veo dell’Unione Europea, che all’Impero Italiano, 1937) lo defipone il quesito sulle possibilità di L'Unione niscono rispettivamente, “lago” e dare concreta realizzazione a uno per il Mediterraneo è l’occasione giusta “Gran Mare interno”. Alla fine “spazio mediterraneo” nell’attuale per la Ue, in cerca dell’Ottocento, il geografo francecontesto geopolitico. Uno spazio di una politica estera se Grégoire, tratteggiando gli elecomplesso, inserito nel processso coerente dal crollo dei due blocchi, menti salienti dell’habitat mediterdi una globalizzazione che, nelle di possedere raneo, mette in evidenza la duplice parole del Segretario generale un embrione di “great design” e di essere natura del complesso terracqueo: dell’Onu Ban Ki Moon, fa si che pronta ad assumersi issues cross bejond borders, e, in crocevia (centro dei movimenti e responsabilità concrete linea con la parola d’ordine deldelle civiltà), ripreso successival’interdipendenza, ha intrecciato i mente nelle envolées lyriques di nostri destini. In questo quadro, turbolenze locali, Fernand Braudel (La Méditerranée l’Espace et l’Histoire, ancorché minime, possono coinvolgere, prima o 1977) e ambito interconnesso, strutturalmente, attraverso le poi, tanti. E in un contesto di shifting power ad Est «tre grandi penisole, Iberica, Italiana e Greco–Turca (che) e a Sud, caratterizzato dalle emerging powers del si protendono verso Sud come ad incontrare l’Africa e complesso sino-indiano e dal Cono Sud del conti- l’Asia» (La Méditerranée: ses grandes divisions; Mers nente americano, viene da chiedersi cosa rappre- qu’elle forme. Détroits, Isles »,” Géographie Générale, senti l’ambito Mediterraneo a fronte della vastità Physique, Economique ,1876). Una “vita mediterranea” del perimetro strategico e della portata delle nuove nel senso di genti che, sulle due rive e sulle isole, erano dinamiche. Per poter essere relevant il giunte, dal periodo neolitico, ad un certo grado di organizMediterraneo deve essere inquadrato in una pro- zazione e civiltà e ad attività di contatti e di scambio attraspettiva geo-strategica e ciò pone non poche diffi- verso il mare, nell’ambito del bacino occidentale, è testicoltà, giacché, oltre agli aspetti fisici della geogra- moniata da una molteplicità di reperti presenti nei vari fia, occorre mettere a sistema altri fattori di rilievo. musei dell’area. Ma la regione Mediterranea, nella quale maturarono le prime grandi civiltà e organizzazioni statali Tanto vale allora partire dalle definizioni. 70
scenari è quella le cui rive si affacciano al mediterraneo Orientale ed al Mar Egeo. E l’interazione delle civiltà ha dato origine e alimentato lo scenario di contraddizioni e contrasti; nel chiaroscuro mediterraneo quando si parla di stabilità, si pensa subito alle dispute, crisi congelate e alle riedizioni in chiave moderna. A partire dai vicini Balcani, siamo ancora ben lungi da condizioni di stabilità.
Sotto il prisma della sicurezza, il Bacino
Mediterraneo, che con le sue appendici euro-africane dell’Atlantico Centro-Orientale da una parte, e del Mar Nero e Vicino Oriente dall’altra, definiamo Mediterraneo Allargato, è ora più coerentemente inteso come un security complex. Il termine sta ad indicare un continuum eterogeneo di spinte ed interessi differenti (fattori etnici, religiosi e socio-economici), che hanno generato e possono generare seri ed imprevedibili rischi per la sicurezza dei Paesi rivieraschi e del sistema internazionale, ma nel cui ambito si possono trovare anche le soluzioni. A conferma di questa teoria, non si può non rilevare che progetti come “l’Alleanza delle Civiltà”, proposta dal premier spagnolo Zapatero all’inizio dell’anno, varie iniziative autoctone, quali la mediazione della Turchia tra Israele e Siria, l’intensa attività diplomatica dell’Egitto, Qatar e dell’Arabia Saudita nella crisi Israelo–Palestinese ed Hamas, accreditano, sul piano geopolitico, l’esistenza di opzioni mediterranee per l’uscita dagli stati di crisi. Per poter sperare in un successo, queste “vie” dovranno muoversi, però, in sinergia con “vecchi” e noti attori, sempre attivi nell’area e indispensabili alla sicurezza regionale. In primis, le organizzazioni regionali dell’area EuroAtlantica con i rispettivi partenariati “mediterranei”, quindi gli Stati Uniti con il loro ruolo “insostituibile” e la Russia, realtà politico-energetica, che non può essere relegata al solo Mar Nero. Né si possono trascurare le potenzialità diplomatico-finanziarie del Golfo. Vediamo, per un attimo, lo spirito dei due processi regionali avviati nel 1994 e 1995 dall’Alleanza Atlantica e dall’Unione Europea. Il Dialogo Mediterraneo (Dm) si pone l’obiettivo di contribuire
alla sicurezza e stabilità della regione mediterranea, al raggiungimento di una maggiore comprensione reciproca tra le due sponde del bacino, come pure di porre le basi per la risoluzione dei problemi del Medio Oriente. In linea con la sua evoluzione verso una configurazione d’Organizzazione di Sicurezza, l’Alleanza abbina il dialogo politico alla cooperazione tecnicomilitare. Il fine ultimo è la modernizzazione delle strutture di difesa\sicurezza e la preparazione di forze interoperabili, come premessa per impiegare queste risorse, preziose ai fini dell’intermediazione culturale, nelle operazioni a guida Nato. Dal canto suo, il Partenariato Euro-Mediterraneo (Pem) mira a raggiungere gli obiettivi ambiziosi della Dichiarazione di Barcellona: sviluppare un’area comune di pace e stabilità, creare un’area di prosperità condivisa, sviluppare un partenariato nelle dimensioni sociale, culturale e umanitaria. Dopo l’ultimo allargamento del 2004, il menù della Ue è stato arricchito con l’iniziativa European Neighbourood Policy (Enp), volta al miglioramento delle relazioni con il nuovo vicinato europeo e mediterraneo. Il risultante processo Euro-med, ha un respiro globale, declinato nei tre volets originari politico/sicurezza, economico e socioculturale, e di giustizia & affari interni (di fatto la quarta area), che mettono in relazione l’insieme degli stati membri della Ue con i Paesi mediterranei. Tuttavia, nonostante il clima favorevole degli accordi di Oslo del 93 e le buone intenzioni, il successivo fallimento di Camp David nel 2000, la seconda Intifada, e il deterioramento del quadro internazionale hanno, di fatto, portato il Processo Euro-Med in condizioni di stallo; stallo ma non fallimento, giacché l’esperienza e i risultati sin qui raggiunti (i cosiddetti acquis, ad es. in materia di scambi commerciali) non sono del tutto trascurabili. A sua volta, il Dialogo Mediterraneo, a seguito delle attività di upgrade verso un partenariato vero e proprio, avviate a Istanbul nel 2004 e a Riga nel 2006, ha cominciato a registrare timidi passi avanti. Nel caso del Pem l’eterogeneità delle agende di sicurezza si intreccia con altri fattori che rendono la formula poco adatta a progressi nel campo della sicurezza, 71
Risk come per esempio l’esclusione, sin dal principio, di Stati come l’Iraq, l’Iran e l’Arabia Saudita, la cui politica incide fortemente sugli equilibri di sicurezza regionali. Quattro sono le cause riconosciute dello stallo del processo di Barcellona: • la priorità conferita dall’agenda europea all’allargamento verso est, per motivi di ordine economico e di prossimità storico-culturale; • le ripercussioni su scala regionale del conflitto israelo-palestinese che paralizza ogni “audace” iniziativa; • l’assenza di una cooperazione Sud-Sud, dove gli scambi tra i Paesi Magrebini non rappresentano che l’1% di quelli tra i Paesi Mediterranei; • la lentezza dei processi riformatori al Sud.
In sintesi, la storia dell’ambito Mediterraneo ha
sempre messo in risalto le difficoltà di pervenire a piattaforme comuni, propedeutiche a forme di cooperazione regionali, a causa della complessità e varietà delle dinamiche sub-regionali e dei loro intrecci. Molti degli ostacoli principali appaiono riconducibili anche alle complicazioni che insorgono allorquando si devono dare risposte valide per le diverse realtà regionali e locali, in un clima caratterizzato da divergenze di interessi e percezioni e da incomprensioni. Un clima che, pur mantenendo aperto il dialogo in tutti i fori, non ha consentito di sprigionare il potenziale del bacino; e, a partire dalle risorse (tecnologiche, finanziarie, dei servizi da una parte, demografiche ed energetiche dall’altra) c’è n’è davvero tanto! Pur vivendo nel villaggio globale della diffusa tecnologia dei mezzi di comunicazione e della informazione, manca spesso la capacità di comprendersi reciprocamente e di tener conto anche delle percezioni degli altri. Audiatur altera pars dunque, a premessa di ogni genuina cooperazione. E proprio qui “comincian le dolenti note” a farsi sentire. I paesi della Riva Sud, prima fonte e ora vittime anch’essi del fenomeno dei flussi migratori provenienti dall’area sub-sahariana, sono consapevoli di dare un’immagine non certo delle migliori (immigrazione clandestina, terrorismo, regimi autoritari etc). Non amano essere considerati l’origine 72
di un poco verosimile arco delle crisi, collocato più a Sud, nell’ Africa Sub-Sahariana\Sahel. Peraltro, nonostante le difficoltà dell’attuale congiuntura (economie in difficoltà, caro prezzi etc ) comuni ad ambo le rive, le statistiche del Fondo Monetario Internazionale riconoscono al versante Sud un tasso di crescita dell’ordine del 5,8% per il 2007, con proiezione al 6% nel biennio successivo, valori decisamente superiori a quelli europei. In questa atmosfera di malintesi, il complesso delle iniziative avviate autonomamente dalla Nato e dalla Ue sono viste in competizione l’un l’altra. Del resto, la più volte professata “complementarietà” tra le due Organizzazioni del teatro europeo, non ha mai avuto seguiti concreti, in termini di accordi reciproci sulla ripartizione degli oneri della cooperazione (burden share, ad esempio sulla base del comparative advantage) con la sponda Sud, al fine di evitare inutili duplicazioni. Considerate singolarmente, le proposte di cooperazione, sono interpretate one way street. Nel caso della Nato, non si è ancora riusciti a sottoscrivere una dichiarazione congiunta che suggelli il carattere di joint undertaking, condiviso da ambo le parti; peraltro, vision politica e strategie sono considerate come diretta emanazione delle policies Usa. L’Ue è vista anch’essa interessata primariamente alla propria sicurezza o al rischio di mancanza di sicurezza nel suo near abroad; in questa prospettiva, la Riva Sud vede i sistemi di cooperazione come mezzi per proteggere le frontiere europee, ma non come qualcosa di interesse reciproco. L’opera di “sécurisation” al Nord (politiche sui visti, gestione immigrazione etc), sebbene rispondente al continuum tra sicurezza interna ed esterna dei nuovi scenari, appare al Sud come un’ulteriore giro di vite a tutela del proprio benessere, ma a detrimento degli sforzi per attenuare la cosiddetta “frattura della sviluppo”. In definitiva, appare chiaro che contenuti e metodiche dei processi istituzionali non hanno sortito risultati conformi alle aspettative. Eppure, gli atti del partenariato euro-mediterraneo mettono in risalto una diagnostica sulle sfide, rischi e minacce alla sicurezza sempre più convergente tra le due rive. Ma non basta; nella continua ricerca di coo-
scenari perazione e di partner sotto l’ombrello del “multilateralismo efficace”, invocato nel testo della European Security Strategy di Solana, i toni prescriptive del linguaggio europeo di autoreferenzialità si sono attenuati. Ferma restando l’esigenza di un’analisi esaustiva sulle manchevolezze, ivi inclusa l’efficacia della comunicazione strategica alle popolazioni della riva Sud, resta ancora molto da fare sul piano del Dialogo, in quanto fiducia e confidenza reciproca costituiscono la premessa indispensabile per l’avvio di una fruttuosa cooperazione. Ma anche sul piano degli strumenti operativi, in quanto l’impianto ordinativo di Barcellona necessita di adattamenti per facilitarne gli sbocchi applicativi. Limitandoci alla Ue, vediamo da vicino l’approccio fin qui seguito. Nel lancio delle varie proposte di cooperazione, l’Unione, percepita come realtà tecnico-finanziaria ricca ma non potente, rivolgendosi agli Stati, ha seguito un approccio istituzionale, esterno. Da qualche tempo, tuttavia, la nozione statica della sicurezza, imperniata su termini spaziali-militari dello stato (state-centric), sta evolvendo per considerare le dinamiche incentrate sul sociale (socio-centric). Pur nell’attuale fase di dibattito sulla definizione del temine human security, si registra una generale convergenza sulla necessità di contemperare i diritti individuali, della comunità e degli Stati. Il concetto, si sa, è strettamente legato allo sviluppo, tanto che gli esperti parlano di securisation of development, nel senso che insicurezza e sottosviluppo creano condizioni di instabilità, prodromiche a situazioni di crisi e conflitti. Dunque la sicurezza si configura come prerequisito allo sviluppo (e non il viceversa). Il concetto, pienamente acquisito in ambito Unione Africana, vale anche per il Mediterraneo, in relazione ai freni ed ostacoli frapposti, nella Riva Sud, al suo regolare sviluppo; da una parte dalla lentezza nell’introduzione delle auspicate riforme, e dall’altra, da forme di islamismo politico ed integralismo religioso sulle rive Maghrebine e del Levante. Freni e ostacoli che poco hanno a che vedere con le società civili vibrant di quell’area. Il progetto di “Unione per il Mediterraneo” segna un deciso cambio di gioco nell’interazione con la Riva
Sud; lo si riscontra già dall’appellativo che avvalora il principio della solidarietà e coesione. E qui torniamo alla duplice natura del Mediterraneo, evocata al principio. La prima di crocevia tout azimut di popoli, ma anche di interessi strategici distinti, con conseguenti diverse rappresentazioni: scorciatoia di passaggi marittimi e corridoio di proiezione del potere per le global powers del passato e del presente, fianco sud dell’Alleanza Atlantica ai tempi della guerra fredda, fonte di vita (risorse alieutiche, turismo etc) per le popolazioni rivierasche. La seconda, riconducibile alla metafora di Braudel («mille cose per volta.. …dove è passato di tutto e tutto è stato assorbito»), di concetto formativo-organizzativo. Oggi siamo ritornati in un contesto che restituisce alla geografia del Mediterraneo la rilevanza strategica, più volte dimenticata, e dà parimenti pertinenza alle tematiche regionali. Nella geografia delle risorse energetiche, le statistiche di varie fonti si commentano da sé: in Mediterraneo transitano circa 750 mil. di tonnellate\anno, il 25\30% del petrolio mondiale, 2\3 del fabbisogno energetico europeo. Per di più, con l’integrazione degli oleodotti mediterranei, l’interesse strategico è destinato ad accrescere.
Nel merito delle tematiche regionali, l’Upm si
prefissa l’obiettivo ambizioso di elaborare un’agenda euro-mediterranea sui generis, con dinamiche complementari e compatibili con il Processo e gli acquis di Barcellona, partendo dalla mobilitazione delle risorse su progetti concreti, da sviluppare alla guisa di cantieri comuni. Invero, il progetto politico di partenza si è ispirato un modello relazionale di tipo “idealistico”; difatti esso poggia sull’assunto che, nell’incontro di realtà diverse, percezioni comuni su aree di omogeneità possano determinare una sorta di identità funzionale, concorrenza e non tensione tra i punti di forza. Scommessa geopolitica dunque, che qualche maitre à penser d’oltralpe non ha esitato a definire Projet entre rêve et utopie. Ma non si può tralasciare anche il respiro geo-strategico di chi ha intravisto l’émergence di uno spazio euro-mediterraneo tra le pieghe dello scenario geopolitico in evoluzione. L’Upm si inserisce dunque in un 73
Risk clima di human security, applicato ad un contesto che il già citato che Braudel, anticipando la problematica odierna dello sviluppo sostenibile, definiva di source vivrière mesurée. Di fatto, il common ground d’intesa è identificato nella tutela dei “beni comuni”, che, in virtù delle possibilità di relazioni offerte dalla natura del Mediterraneo, facilitano le interazioni tra le parti in causa. In breve, si declina il concetto di Mediterraneo come piattaforma di aggregazione. Stati, regioni, popolazioni rivierasche e imprese sono pertanto coinvolti, de facto, nelle tematiche multilaterali che accumunano le società (esigenze di sicurezza a garanzia dello sviluppo, sostenibilità ambientale etc). Così facendo si intende di sopperire alla carenza di integrazione Sud-Sud, e dare a tutti gli attori visibilità e padronanza (ownership) dei processi. Ne deriva una fisionomia di organismo interstatuale, votato alla corresponsabilità, messa a sistema, condivisione e compartecipazione, che conferiscono una matrice comunitaria a ogni progetto. Se vogliamo andare un po’ a fondo, questo genere di approccio non è una novità. Già nel 1936, nella sua opera Il Mediterraneo e la Civiltà Mondiale, l’ammiraglio Guido Vannutelli, a proposito di problemi “di carattere societario per gli stati del Mare Interno” scriveva: «non è ammissibile che le questioni relative sieno trattate e sistemate con la prevalenza degli interessi di questa o quella potenza … Possiamo paragonare la situazione mediterranea nei riguardi dei tre passaggi (Suez, Gibilterra, Dardanelli n.d.r.) a quella di una casa di condominio nella quale si debbano organizzare i servizi comuni e la portineria, le cui norme non possono essere concordate se non a parità assoluta di diritti e di doveri tra tutti gli inquilini». In virtù delle sue caratteristiche fondanti (partecipazione volontaria a geometria variabile, condivisione di progetti, evoluzione progressiva), l’Upm assume la connotazione di “Progetto in divenire”, i cui contenuti saranno via via definiti nel tempo. Le sfide da superare sono di varia natura. Ad esempio, sul piano dell’agenda comunitaria, si pone l’esigenza di conciliare (in termini di compatibilità di contenuti e andamento) le dinamiche europee (Balcani, Turchia) con quelle mediterra74
nee; dopotutto, il principio della sussidiarietà è la parola d’ordine dell’Ue. Nel medio termine, resta da vedere, inoltre, l’impatto dell’aggregato dei progetti e dinamiche di sicurezza nel Mediterraneo sull’evoluzione dei sistemi di Difesa\Sicurezza collettiva euro-atlantico e continentale. Qui la sfida si pone in termini di capacità di adattamento delle policies di difesa e sicurezza del Nord al framework trans-mediterraneo che si sta formando. Non si può trascurare poi la problematica delle risorse finanziarie a sostegno dell’impresa, così come occorre essere consapevoli dei caveats: first and foremost, si deve tener presente che probabili differenti percezioni su tematiche regionali, quali la spinosa issue israelo-palestinese, possono bloccare lo sviluppo dell’iniziativa in qualsiasi momento. In secondo luogo, la complessità del caleidoscopio geopolitico del Levante, che appare influenzato anche dalla fase di riequilibrio strategico dell’intero Medio Oriente.
Infine, gli elementi programmatico-temporali e i
contenuti del “Progetto”, che qualcuno chiama già “Barcellona2”, dovranno corrispondere alle attese delle popolazioni per seguiti concreti e coerenti alle dichiarazioni politiche. E non vi è dubbio che, nel quadro generale delle growing expectations, l’Upm abbia suscitato non poche speranze. In un clima di disincanto per l’Ue, la mancata risposta a queste attese potrebbe compromettere il tanto atteso incontro tra le due rive. E in questa difficile congiuntura, che vede la nave europea “senza nocchiero in gran tempesta”, potrebbero derivarne pesanti ripercussioni. In questa luce, l’Iniziativa Informale 5+5 Difesa (Mauritania, Marocco, Algeria, Tunisia, Libia + Portogallo, Spagna, Francia, Italia, Malta), come esempio di cooperazione e laboratorio esperienze per consessi allargati, può costituire un riferimento ed un catalizzatore. Dopo tutto, principi fondanti dell’Iniziativa, quali il pragmatismo, la risposta ad esigenze comuni, sviluppo progettuale, cooperazione paritetica, sono ripresi nell’concetto dell’Upm. La nuova iniziativa potrebbe allora svilupparsi gradualmente, raccordando i suoi progetti con quanto esistente nel framework del
scenari
scenari Processo madre di Barcellona. Peraltro, le sue caratteristiche fondanti e l’ambito geografico di prossimità, che sottende la crescente interdipendenza del Mediterraneo Allargato, oltre a fornire un quadro politico d’azione, assicurano, nel contempo, capacità potenziali di crescita vero il Medio-Oriente. La dimensione Difesa, attiva, da sempre nell’ambito delle cooperazioni bilaterali e multilaterali, potrebbe fornire un contributo alla crescita dell’impianto genera-
luogo a un impianto flessibile e dinamico, articolato su una sorta di federazione di geometrie variabili. Quanto alla presunta dicotomia tra i formati, bilaterale versus multilaterale, l’esperienza ha mostrato la fattibilità non solo della coesistenza, ma anche della complementarietà. Difatti, la cooperazione multilaterale si arricchisce delle caratteristiche del “particulare” e, a sua volta, la bilaterale trae beneficio dagli spill over dei formati più ampi. Si sa che nei processi contano molto le dinamiche; peraltro l’esperienza dell’Iniziativa 5+5 Difesa ha messo in luce tre lezioni da apprendere a livello politico-militare: occorre partire con piccoli passi e obiettivi concreti, perseguibili; ciò vale in particolare in contesti sottesi da vision di gran respiro; la dimensione pratica è strumentale all’avvio di forme di cooperazione, e qui, la componente militare può svolgere un ruolo di motore; ogni forma di cooperazione se non sorretta da una dimensione pratica é destinata a uno sterile esercizio verbale. Ultimo, ma non meno importante, il collegamento in rete, e ai vari livelli, degli attori della dimensione operativa (comprensiva dei centri di comando e controllo) e della dimensione educativo-formativa inizia a generare una sorta di spirale policentrica di cerchi virtuosi, strumentale all’auto-sostentamento dell’intero processo. In questo quadro, il progetto del Think-Tank Strategico Euro-Maghrebino, in fase di sviluppo nell’ambito dell’Iniziativa 5+5, si configura, in virtù della sua vocazione di outil delle leaderships politiche, come contributo value added per Progetti di cooperazione regionale. Occorre pertanto sostenere i progetti costitutivi della nascente Unione e partire con decisione nei cantieri appena individuati (autostrade del mare - comprensiva di sicurezza marittima - e autostrada maghrebina, disinquinamento, protezione civile, fonti energetiche alternative, università), giacché l’Upm ci dà un’occasione da non perdere; pertanto, come dice Jacques Attali: ne renonçons pas à l’utopie.
Sotto il prisma della sicurezza, il Bacino Mediterraneo, che con le sue appendici euro-africane dell’Atlantico Centro-Orientale da una parte, e del Mar Nero e Vicino Oriente dall’altra, definiamo Mediterraneo Allargato, è ora più coerentemente inteso come un security complex. Il termine indica un continuum eterogeneo di spinte e interessi differenti le della sicurezza, il baricentro dell’intero progetto. Sul piano operativo, si potrebbe ipotizzare, case by case, l’ampliamento dello scope geografico, in particolare verso il Levante, del cluster di cooperazioni pratiche in corso. Le Marine, presenti nei dispositivi di sorveglianza e intervento nazionali (definiti nel lessico militare Maritime Security Operations, Mso) con la maggior parte dei mezzi, possono ricoprire un ruolo di rilievo nella governance del mare per la tradizionale vocazione all’interoperabilità, nell’ambito del sistema nazionale e in contesti internazionali. Attività bilaterali e multilaterali di coordinamento tra dispositivi militari e di scambio di informazioni sulla situazione in atto, possono fornire un contributo determinante alla sicurezza marittima. L’aggregato di tutte queste attività, combinandosi con i progetti dell’Upm, potrebbe quindi dar
77
Risk
EUROPA/2
C
GUERRE STELLARI DI
GIOVANNI GASPARINI
olpire e distruggere un prol’alveo dell’Alleanza. Non solo, i iettile. Con un altro proietmissili da dispiegare in Polonia tile o con un raggio d’enersono stati ridisegnati per consentire gia potentissimo: a questo difficile una reazione più rapida e permettetraguardo tecnico è legato il sucre così (almeno in linea di principio) cesso di una delle iniziative stratela difesa dell’Europa centrale e setgiche e tecnologiche più radicate tentrionale da eventuali attacchi della politica di difesa americana, missilistici provenienti dall’Iran, ma la difesa antimissile. Il progetto, non sembrano adatti a coprire il terinfatti, nelle sue diverse declinazioritorio meridionale (e quindi ni, ha ormai quasi 30 anni di lavori l’Italia). La Polonia vorrebbe anche alle spalle, ed è passato attraverso dispiegare il sistema americano di la fine della guerra fredda e ben 4 difesa di teatro Thaad (Terminal Lo scontro diversi inquilini alla Casa Bianca. High Altitude Area Defense) destisullo scudo antimissile Usa da impiantare Ora la presidenza Bush, ormai agli nato a intercettare missili in volo in Polonia crea forti sgoccioli, tenta di portare a casa nella zona alta dell’atmosfera, a cui tensioni con la Russia, qualche risultato di rilievo e focaguarda anche l’Italia. ma coinvolge tutte le cancellerie Ue. lizza gli sforzi diplomatici nei conSfortunatamente, sebbene ci riguarPerché lascia scoperta fronti di Polonia e Repubblica di da vicino, il dibattito sul significauna porzione dell'Europa, Italia Ceca, per raggiungere accordi che to strategico, politico, militare, ecoinclusa. E sarebbe permettano di dispiegare in quei nomico ed industriale della difesa meglio ragionarci Paesi una batteria missilistica e un missilistica è ristretto a pochi attori e radar, a completamento del sistema rimane una questione di nicchia, che di difesa nazionale americano. Si tratta di accordi raramente giunge ad un più ampio pubblico, salvo che puramente bilaterali che fanno infuriare la Russia, la in occasione di dibattiti pro o contro l’impostazione quale per ragioni di prestigio, influenza geopolitica ed della politica di difesa americana. Sarebbe invece utile inferiorità tecnica, sente minacciati i propri interessi, superare questo approccio ideologico per poter valunonché la credibilità di lungo periodo del proprio arse- tare col distacco necessario le implicazioni, i costi ed nale nucleare. i benefici (strategici, economici, tecnologici) risultanPeraltro, la Russia non è l’unico grande escluso: gli ti dalla partecipazione o meno ai diversi progetti in cui accordi bilaterali faticosamente cercati e tutt’altro che si declina l’insieme delle iniziative che ricadono sotto definitivi tagliano fuori anche la Nato, che è però il cappello delle difese antimissile. impegnata politicamente ad evitare lo scollamento Il primo elemento da prendere in considerazione è (decoupling si sarebbe detto una volta…) fra i suoi l’evoluzione della minaccia. La molteplicità di soludiversi membri e tenta, con un programma d’interfac- zioni tecniche proposte deriva dalla necessità di concia comune, di inquadrare le iniziative americane nel- frontarsi con diversi tipi di missili, a corto, medio o 78
scenari lungo raggio, lanciati secondo traiettorie e con velocità di caduta e di reazione diverse, e quindi intercettabili in fasi diverse del loro percorso verso il bersaglio (fase iniziale di lancio, fase intermedia di volo, fase terminale di rientro). Inoltre, una cosa è difendere delle truppe dislocate in territori lontani o delle istallazioni critiche da potenziali avversari più o meno noti ed in uno stato di crisi prevedibile, altra cosa è proteggere l’intero territorio di uno stato da lanci improvvisi, legati ad errori di valutazione (lanci non autorizzati, falsi allarmi) o perdita del controllo di armamenti a favore di entità non statuali (ad esempio, armi nucleari e missili pakistani nelle mani di terroristi golpisti fondamentalisti) o supposti atti “irrazionali” (si citano per esempio atti di fanatismo religioso). Negli ultimi anni si è verificato un incremento della proliferazione di missili a corta e media gittata, soprattutto in Asia e in Medio Oriente. A ciò si aggiungono i tentativi (nel caso nordcoreano coronati da successo) di dotarsi di armi di distruzioni di massa (in particolare nucleari) da parte di diversi stati. Il caso iraniano, su cui si basa principalmente l’argomento americano in favore delle batterie antimissile in Europa, in parte supporta questi timori. Vi è però in generale una certa tendenza a focalizzare l’analisi sulla disponibilità dell’equipaggiamento tecnico (missili e relative testate nucleari o chimiche), occupandosi meno dell’analisi delle intenzioni e del quadro decisionale che potrebbe portare ad un lancio, pur in considerazione del rischio di rappresaglia (anche nucleare e massiccia) cui l’attaccante si esporrebbe. In realtà, uno degli scopi di una difesa missilistica è di evitare il blackmailing, ovvero il ricatto dal debole al forte: la pur remota possibilità di un lancio di armi di distruzione di massa può ridurre significativamente la capacità d’intervenire con forze convenzionali, mettendo quindi in dubbio la supremazia militare americana ed atlantica. La scelta se e come dotarsi di difese antimissile dipende quindi del mix dissuasione-difesa adottato; 79
Risk pertanto, questi sistemi non vanno valutati singolarmente, ma nell’ambito di una complessiva strategia che comprenda anche il ruolo delle armi nucleari atlantiche. L’Europa non può sperare di difendersi da un attacco missilistico massiccio da parte russa o cinese, mentre altri attacchi potrebbero più facilmente essere portate da vettori non missilistici, sfruttando la prossimità dei nostri paesi (e dell’Italia in particolare) al Mediterraneo e al Medio Oriente. In passato, per rispondere alla minaccia dei missili SS-20 sovietici, l’Italia e la Germania, in un contesto euro-atlantico, non puntarono sulle difesa antimissile, ma sul dispiegamento di altri missili (Pershing II e Cruise), per ristabilire la dissuasione. Fu una mossa vincente, poiché portò alla conclusione di un importante Trattato di disarmo con l’Urss. Il ricordo di tale posizione basata sulla dissuasione non può non avere un peso anche per le scelte future.
La dissuasione è quindi un fattore di cui tenere
ancora conto, sebbene oggi la situazione sia resa più complessa dall’apparente incapacità della Nato di adattare la strategia dissuasiva alle nuove minacce. La credibilità delle armi nucleari americane (bombe d’aereo) che restano in Europa e probabilmente in Italia è bassa, e la loro capacità dissuasiva è quanto meno dubbia. Esse infatti sono vulnerabili ad attacchi di sorpresa, la loro prontezza operative è discutibile, la loro capacità di penetrare le difese avversarie è incerta, il loro raggio d’azione insufficiente. Ma le posizioni americane espresse dalla presidenza Bush ritengono che la deterrenza non consenta di difendersi da alcune minacce “irrazionali” e che pertanto lo scudo antimissile debba avere una valenza strategica forte; da qui la decisione di procedere al dispiegamento dei sistemi di difesa a lungo raggio anche contro il parere russo e di diversi stati europei. Il problema della difesa campale o di area contro attacchi missilistici tattici, che riguarda la sicurezza delle forze dispiegate oltremare o la protezione di pochi e ben individuati obiettivi di alto valore strategico, è valutato in maniera assai diversa e assai più cogente, 80
tanto che gli operatori militari italiani ed europei sono già coinvolti in diversi programmi e si dicono certi della necessità di disporre di tali sistemi tattico-operativi. Da un punto di vista strategico-militare vi è il tentativo di valutare il rischio di attacchi missilistici da parte di Paesi canaglia in relazione agli altri rischi e alle priorità della politica di sicurezza euro-atlantica. Vi è la coscienza che le difese antimissile che potrebbero venir dispiegate in Europa servirebbero a contrastare un minaccia circoscritta e specifica. Ci si domanda se questo non andrebbe a discapito di altri investimenti maggiormente prioritari e se non potrebbe portare ad una sottovalutazione di altre minacce, più urgenti e probabili di quella presa in considerazione. In altri termini, in una situazione di strutturale insufficienza delle risorse disponibili per la difesa, la valutazione di quanto è opportuno dedicare a questa minaccia risulta non particolarmente appetibile per il decisore politico. Al di là degli aspetti militari, la più ampia valutazione di politica estera prende inoltre in considerazione il quadro strategico complessivo e spinge a valutare anche le eventuali conseguenze del dispiegamento dei sistemi missilistici sulla stabilità internazionale. Vi è da parte europea un forte disagio legato alla dura reazione di Mosca all’annuncio del dispiegamento, che ha già portato alla crisi degli accordi sul controllo degli armamenti convenzionali in Europa. Come diversi altri Paesi europei, l’Italia è un forte partner commerciale ed energetico della Russia e ritiene di dover evitare frizioni non indispensabili. Inoltre, non si sottovaluta la minaccia russa di rimettere in discussione il Trattato Inf (che aveva portato allo smantellamento totale degli “euromissili”). Un eventuale riarmo russo in quest’area comporterebbe una nuova gravissima crisi di sicurezza dell’Europa cui non potrebbero fare in alcun modo fronte eventuali difese antimissile, ma che richiederebbe probabilmente un processo di riarmo nucleare: con tutte le difficoltà e conseguenze politiche che ciò comporterebbe. L’argomento principale a favore dello sviluppo di uno scudo antimissile riguarda il potenziale offensivo
scenari dell’Iran. Gli esponenti politici sono assai divisi in merito: quelli più vicini alla visione della presidenza americana ne sottolineano la quasi-imminenza, mentre altri ritengono la minaccia missilistica iraniana contro l’Europa incerta e comunque relativamente lontana, e quindi rallentabile o fermabile tramite strumenti diplomatici e di deterrenza. La valutazione degli organi tecnici militari parla però di una minaccia potenziale da non sottovalutare, poiché destinata a presentarsi, in caso di accelerazione della crisi, in tempi non biblici. Si avverte in quegli ambienti il peso della proliferazione missilistica e
grazie ad offerte di collaborazione diretta; in definitiva, si ha la coscienza che il sistema debba essere multilateralizzato al massimo e che debbano essere ridotti al minimo i potenziali di confronto con la Russia. Rimane però irrisolta la questione circa la ownership di un futuro sistema integrato di difesa missilistica, attualmente in mani americane, questione tutt’altro che secondaria del punto di vista politico, nonché tecnologico ed industriale. Sebbene il Pentagono abbia elaborato un strategia di difesa anti-missile a più strati, composta da una serie di strumenti, la discussione sinora si è focalizzata sui sistemi di valore strategico basati a terra, già pronti per il dispiegamento. L’attenzione degli esperti militari è invece a tutto campo, con anzi una certa distorsione a favore delle difese d’area ad elevato valore tattico-operativo, rispondenti ad esigenze più immediate e probabilisticamente meno remote. L’approccio americano, infatti, prevede un sistema di sistemi che può essere sviluppato anche in modo frazionato, ma che dovrebbe successivamente essere in grado di venire interconnesso, sino a creare una difesa flessibile, adattabile a diversi tipi di minacce. Anche i quadri militari ed industriali italiani seguono le vicende legate alle difese missilistiche con interesse; l’Italia infatti è anche coinvolta in alcuni programmi. L’interesse italiano per sistemi che intervengono nella fase di lancio (boost phase, dalla durata di 2-5 minuti), in cui il missile è facilmente identificabile con sensori infrarossi, sono essenzialmente circoscritti alle difese imbarcate su navi, su cui il dibattito è alle prime fasi. Lo sviluppo di sistemi spaziali d’osservazione e allerta potrebbe in qualche modo svolgere qualche funzione, data la capacità tecnologica italiana nell’ambito della sensoristica, ma anche questi aspetti rimangono largamente riservati alla fase concettuale. Più sviluppati sono gli studi collettivi a livello Nato; le
Da un punto di vista strategicomilitare vi è il tentativo di valutare il rischio di attacchi missilistici da parte di Paesi canaglia in relazione agli altri rischi e alle priorità della politica di sicurezza euro-atlantica. Vi è la coscienza che le difese antimissile che potrebbero venir dispiegate in Europa servirebbero a contrastare un minaccia circoscritta e specifica delle armi di distruzione di massa avvenuta negli ultimi anni. La preparazione tecnica per fronteggiare tale minaccia richiede infatti tempi lunghi, e pertanto è necessario predisporre degli strumenti necessari, sia per quanto riguarda l’ambito della ricerca e degli studi che dell’industrializzazione dei sistemi, a partire da quelli necessari per la sicurezza delle truppe dislocate fuori area. La proposta europea sembra convergere sullo sviluppo delle capacità potenzialmente necessarie in ambiti multilaterali, vincendo le resistenze russe
81
scenari soluzioni in questo ambito si concentrano sui possibili sviluppi futuri delle testate cinetiche, mentre non vi sono allo studio armi ad energia diretta (laser). Le esperienze dirette italiane sono relative al Meads, sistema trasportabile di difesa d’area, che agisce nella terza fase, quella di rientro (terminal phase), della durata inferiore a 1 minuto, quando la testata rientra seguendo una traiettoria balistica e colpisce l’obiettivo. Si tratta quindi di un sistema non strategico, particolarmente adatto alle difesa delle truppe anche in teatri lontani e di assetti particolarmente privilegiati, basato sull’esperienza dei lanci di Scud iracheni nel 1991. L’Italia ovviamente partecipa alle attività in ambito Nato, la quale a sua volta sta definendo una piattaforma comune di integrazione tra diversi sistemi di difesa missilistica di teatro (Altbm). Il contributo italiano all’architettura Nato si concentra sui sensori radar, il Meads e i sistemi di C4 e Battle Management delle unità navali di ultima concezione. La partecipazione italiana però è oggi limitata al lower layer, a causa delle scarse risorse economiche, sebbene vi sia per la Marina Militare un potenziale ruolo legato alle nuove navi Orizzonte. Sono invece più avanzate le iniziative pluri-nazionali relative alle difese mobili destinate a proteggere truppe proiettate in teatri di operazione lontani, come appunto il Meads, iniziativa tri-nazionale Usa, Italia, Germania, gestita da un’apposita agenzia della Nato. Ma gli ostacoli esistenti in ambito transatlantico per il trasferimento di tecnologie americane ritenute sensibili, hanno sinora limitato le cooperazioni industriali anche in questo ambito delle difese “tattiche”. L’impostazione politica multilaterale si avverte anche in ambito tecnologico ed industriale; si prediligono programmi internazionali, in particolare ove l’industria basata in Italia può contribuire con elementi d’eccellenza (sensoristica radar, sistemi missilistici in ambito Mbda, lanciatori Avio, ecc..). Ma l’avanzamento tecnologico ed industriale è messo in pericolo da un alto dal dominio americano delle informazioni e della tecnologia, derivate dai superiori investimenti nel tempo, dall’altro dalla perenne insufficienza delle risorse europee.
Uno dei principali punti critici delle prospettive di sviluppo del settore delle difesa missilistiche riguarda infatti la scarsità delle risorse economiche. Un incremento della spesa militare italiana ed europea per fare fronte a nuovi programmi particolarmente dispendiosi è improbabile e le difese missilistiche strategiche, nonostante le pressioni americane e la nuova posizione francese, favorevole allo sviluppo di un programma nazional-europeo, non sono considerate prioritarie. Per di più, alcune forze politiche vedono nel progetto un segno “dell’imperialismo” americano, o rimangono scettiche circa la fattibilità e la realizzabilità di un tale sistema, valutando negativamente il costo economico e politico di tali scelte. La realtà dei conti non lascia ben sperare: i sistemi missilistici richiedono infatti investimenti nell’ordine delle decine di miliardi per i prossimi 20-25 anni.
Da parte della difesa vi è una più o meno esplicita richiesta di risorse aggiuntive che permettano, grazie ad una maggiore consapevolezza politica e dell’opinione pubblica, investimenti più forti nel settore delle difesa antimissile, permettendo così di andare al di là delle attuali esperienze. In generale, mentre la protezione delle forze militari tramite sistemi antimissile è vista come un elemento (anche se non il più urgente) complementare e rispondente ad una minaccia attuale, investire in sistemi di difesa strategica è simile a stipulare un’assicurazione per un evento assai improbabile ma decisamente catastrofico: un lusso che pochi possono permettersi. Ma se la collaborazione dovesse avviarsi in contesti multilaterali forti e con partner di primo livello, potrebbe essere razionale contribuire, da un lato per una ragione di condivisione dei costi, dall’altro (in un contesto di maggior equilibrio) per poter permettere lo sviluppo di un contributo industriale e tecnologico significativo. Con la speranza implicita che le difese antimissile, qualora venissero effettivamente dispiegate su ampia scala e per proteggere la popolazione contro vettori di armi di distruzione di massa, non debbano mai provare la loro infallibilità. 83
lo scacchiere
Medio Oriente/ La guerra contro Israele
Ecco come finirebbe l’attacco iraniano
Usando il nucleare, potrebbero morire 28 milioni di persiani in tre settimane Nel corso degli ultimi anni, una copiosa retorica di vari esponenti del regime iraniano alimenta il timore che l’acquisizione d’armi nucleari da parte della Repubblica Islamica porterebbe a un loro uso per uno scopo ben preciso – la distruzione dello stato d’Israele. Si tratta naturalmente soltanto di retorica – ma essa si è accompagnata ad altre azioni ostili nei confronti d’Israele e di obiettivi israeliani ed ebraici all’estero. Le ripetute affermazioni
del presidente iraniano, Mahmoud Ahmadinejad secondo cui Israele deve essere ‘eliminato dalla mappa’ precedono la sua presidenza e sono comuni alla leadership iraniana. Il Leader Supremo Ayatollah Ali Khamenei ha già dichiarato di voler vedere sparire Israele. Nel dicembre 2000 egli affermó che «Iran’s stance has always been clear on this ugly phenomenon [Israel]. We have repeatedly said that this cancerous tumor of a state should be removed from the region». Nel febbraio 2001, Khamenei chiarì come l’eliminazione d’Israele era un obiettivo politico della Repubblica Islamica: «It is the mission of the Islamic Republic of Iran to erase Israel from the map of the region». Nella primavera dello stesso anno definì Israele, «the Zionist regime», «the symbol of bloodthirstiness [and] barbarianism» e i suoi leaders delle «wild beasts». E in un discorso pro-
scacchiere nunciato il 24 aprile 2001, Khamenei procedette anche a negare l’Olocausto, dicendo che «There are documents showing close collaboration of the Zionists with the Nazi Germany, and exaggerated numbers relating to the Jewish Holocaust were fabricated to solicit the sympathy of world public opinion, lay the ground for the occupation of Palestine, and to justify the atrocities of the Zionists». Mohammad Khatami, da molti ritenuto il leader dei riformisti, nel 2000 definì Israele uno «illegal state». Conferendo coll’allora leader palestinese, Yasir Arafat, disse che il processo di pace era destinato a fallire e che «All of Palestine must be liberated». Il 25 Aprile 2001, Khatami disse che Israele «is a parasite in the heart of the Muslim world». E sotto la sua presidenza, fu fondato il Movimento Antisionista Internazionale, guidato da Mohsen Rezaie, l’ex capo delle Guardie Rivoluzionarie, con il preciso mandato di sabotare il processo di pace arabo-israeliano. In un comunicato, Rezaie chiedeva al mondo islamico «to mobilize to destroy Israel and create problems for those governments who defend it» sottolineando che l’Iran «will continue its campaign against
Zionism until Israel is completely eradicated». Anche il predecessore di Khatami, Hashemi Rafsanjani, che molti vedono come un un possibile futuro interlocutore dell’Occidente, dichiarò nel dicembre 2001 che, «If a day comes when the world of Islam is duly equipped with the arms Israel has in possession, the strategy of colonialism would face a stalemate because application of an atomic bomb would not leave any thing in Israel but the same thing would just produce damages in the M u s l i m world.» L’attuale presid e n t e , Mahmoud Ahmadinejad, in un discorso del 26 ottobre 2005 a un convegno intitolato ‘Un mondo senza sionismo’ disse, tra l’altro che: «There continues a historic 85
Risk war between the World Arrogance and the Islamic world, the roots of which go back hundreds of years. On some occasions, the Muslims had the upper hand and advanced. Regrettably, in the past three hundred years, the Islamic World has been on the retreat in the face of the World Arrogance. One hundred years ago the last trench of Islam fell, when the oppressors went towards the creation the Zionist regime. It is using it as a fort to spread its aims in the heart of the Islamic world. There is no doubt that the new wave in Palestine will soon wipe off this disgraceful blot [Israel] from the face of the Islamic world». Ed evocando il fondatore della Repubblica Islamica, aggiunse: «O dear Imam (Khomeini)! You said the Zionist Regime that is a usurper and illegitimate regime and a cancerous tumor should be wiped off the map. I should say that your illuminating remark and cause is going to come true today. The Zionist regime faces a complete dead end and under God’s grace your wish will soon be materialized and the corrupt element will be wiped off the map». Ahmadinejad più di recente ha definito Israele come un «filthy germ» e una «savage beast». Il suo ministro degli esteri Manouchehr Mottaki, di fronte alle risentite e sorprese reazioni occidentali del resto sottolineó il giorno dopo il discorso di Ahmadinejad che il presidente iraniano non diceva nulla di nuovo rispetto a quanto l’Iran ha sostenuto sin dalla Rivoluzione del 1979. E tanto per mettere in chiaro le cose, il portavoce delle Guardie Rivoluzionarie, Seyyed Massoud Jazayeri aggiunse che «If this cancer (Israel) is not removed from the Islamic world, Muslims will sustain immense harm. This wound was opened more than half a century ago and has still not been healed, because in the Islamic world, some leaders and regimes, which have not been democratically elected by their own people, continue to rule, with the help of Western imperialism. A world without Zionism, and the obliteration of 86
Israel from the face of the earth, is not only the objective of Iran, but of the whole Muslim world». L’allora presidente del Majlis, il parlamento iraniano, Adel Gholam Hadad, annunció a febbraio del 2008 che ‘il conto alla rovescia per la distruzione d’Israele’ era cominciato. Gli aveva fatto eco l’ex comandante delle Guardia Rivoluzionarie, Rahim Safavi, che, commentando l’uccisione del terrorista libanese Imad Mughniya a Damasco auspicava come «With such anger, the definite death of Israel will arrive sooner.» Infine, l’ex viceministro degli esteri, Mohammad Larijani, fratello di Ali Larijani, attuale presidente del Majlis, ha dichiarato a Berlino, durante un convegno organizzato da un istituto tedesco a giugno del 2008, che «il progetto sionista ha solo causato violenza e atrocitá» e dovrebbe essere «cancellato». Tale linguaggio alimenta i fondati timori israeliani che una bomba iraniana colpirà centri urbani israeliani. Potrebbe verificarsi un lancio di missili nucleari, accompagnato e seguito da un attacco militare congiunto da parte di Hezbollah da nord e Hamas da sud. Israele è munito di un sistema antimissile «Arrow» che può bloccare missili balistici da grandi distanze ma non garantisce un’impenetrabilità al cento per cento. Se un missile sfuggisse alla rete tesa da Arrow cadendo sull’area suburbana intorno a Tel Aviv l’esplosione causerebbe decine di migliaia di morti e una paralisi del paese. Secondo il professor Anthony Cordesman, esperto di affari militari e strategici del Center for Strategic and International Studies di Washington e autore di uno studio sulle possibili conseguenze di un conflitto nucleare in Medio Oriente, l’attacco causerebbe da un minimo di 37,000 a un massimo di 132,000 vittime nelle prime 48 ore dall’impatto. Le radiazioni si diffonderebbero rapidamente, raggiungendo fino a 60-100 chilometri di distanza sull’asse nord-sud lungo la costa. Nel caso di
scacchiere un attacco sulla zona costiera di Tel Aviv la nube radioattiva sarebbe in parte contenuta nella zona a est dell’aeroporto, allorché la pianura costiera cede il posto ai rilievi montuosi. Ma si sposterebbe rapidamente verso sud e nord, un vento da nord-est per esempio porterebbe la nube radioattiva rapidamente lungo la costa fino ai porti di Ashkelon e Ashdod e oltre, fino a Gaza, investendo altri 200.000 abitanti d’Israele prima di raggiungere l’oltre milione di palestinesi a Gaza. Se l’Iran decidesse di attaccare Israele, ci si può aspettare un lancio multiplo di testate nucleari sull’asse costiera Tel Aviv-Jaffa-Haifa. L’altra possibilità naturalmente è che l’Iran ‘presti’ un ordigno nucleare a Hezbollah, subappaltando il compito di obliterare Israele a un commando suicida. Israele riuscirebbe in fretta a risalire a chi ha prodotto il materiale fissile della bomba esplosa. Israele lancerebbe una dura rappresaglia contro l’Iran, visto che la marina israeliana possiede sottomarini probabilmente armati di testate nucleari. È anche possibile che, alla vista di un’Israele in ginocchio, si risvegli l’entusiasmo nei paesi arabi per riconquistare la Palestina, trascinandoli a denunciare trattati di pace e modus vivendi con Israele per sferrare il colpo di grazia allo stato ebraico. In quel caso Israele avvertirebbe i paesi vicini e le altre potenze regionali sulla natura della possibile risposta. In caso la dissuasione non funzionasse, Israele potrebbe procedere a un ulteriore lancio contro paesi arabi come la Siria che potrebbero sfruttare la debolezza israeliana risultante dall’attacco iraniano. La regione potrebbe sprofondare rapidamente in un conflitto, ma anche un attacco israeliano né accompagnato né seguito dalla decisione di governi arabi di sfruttare lo sbaraglio momentaneo israeliano per dare a Israele il colpo di grazia avrebbe conseguenze da non sottovalutare. Israele colpirebbe i siti e le installazioni nucleari iraniane. Ha già le capacitá per farlo oggi con
mezzi convenzionali, e potrebbe già decidere di colpire preventivamente questi obiettivi in Iran ricorrendo alla propria aviazione. Ma di fronte al paesaggio devastato delle sue cittá distrutte da un ordigno nucleare, Israele opterà probabilmente per lanciare missili con testate non convenzionali contro decine di obiettivi in Iran, chiarendo che nessuno può colpire Israele a morte e sperare di sopravvivere. Si tratta della cosiddetta ‘Opzione Sansone’, in riferimento all’eroe biblico. Israele potrebbe scegliere di colpire centri urbani come Tehran, ma anche il reattore nucleare di Bushehr, il porto di Assaluyeh con le sue importanti raffinerie, il porto di Bandar Abbas e l’isola di Qaeshm, nel Golfo Persico, che ospitano importanti basi navali e istallazioni militari oltre che terminali petrochimici. La distruzione di Bushehr, se accadesse dopo l’attivazione del suo reattore, prevista tra la fine del 2008 e l’inizio del 2009, formerebbe un’immensa nube radioattiva che contaminerebbe la sponda meridionale del Golfo sterminando decine di migliaia di persone in Kuwait, Bahrein, Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita e danneggiando le economie di alcuni di questi paesi. Così la spirale di prezzi petroliferi provocherebbe in pochi giorni una crisi economica mondiale senza precedenti. Nel colpire i principali centri urbani in Iran, Israele potrebbe decidere di prediligere gli obiettivi propriamente persiani e risparmiare le minoranze non del tutto fedeli al regime. Comunque sia, una risposta israeliana all’aggressione nucleare iraniana ricorrerebbe all’arsenale nucleare. Israele potrebbe infliggere all’Iran perdite tra i 16 e i 28 milioni nelle prime tre settimane dalla risposta, devastando l’intera infrastruttura civile e militare del paese e lasciando l’Iran in rovina e con scarsissime possibilità di ripresa anche nel lungo periodo. Sarebbe la fine della civiltà persiana di cui gli iraniani vanno tanto orgogliosi. 87
scacchiere
Risk
Europa/Parigi affronta il Trattato
C
e gli euroscettici targati UK
Parigi affronta il Trattato e gli euroscettici targati UK DI
GIOVANNI GASPARINI
on il mese di luglio ha inizio il semestre di presidenza francese dell’Unione Europea; le aspettative per il rilancio del processo d’integrazione europea, anche nei settori della politica estera e di difesa erano alte e si riteneva che la presidenza avrebbe lavorato per predisporre al meglio l’entrata in vigore del nuovo Trattato di Lisbona. Il compito di Parigi sarà invece ben più arduo e si preannuncia tutto in salita. Il dibattito politico è infatti dominato dal problema della mancata ratifica irlandese del Trattato, tramite un referendum (l’unico condotto in Europa) che a metà giugno ha registrato l’ostilità della maggioranza della popolazione votante. Il referendum irlandese è stato votato da 1,6 milioni di persone (pari al 53% dell’elettorato), il distacco a favore dei “no” è stato di 110 mila voti (meno degli abitanti della Val d’Aosta, per intenderci…). Purtroppo, opporre a tale risultato la ratifica da parte di altri 19 paesi, rappresentanti diverse centinaia di milioni di cittadini europei, serve a poco. Finché infatti prevarrà la logica secondo la quale le istituzioni europee sono il frutto di trattati internazionali “normali”, che necessitano pertanto il consenso di tutti gli stati contraenti, basta l’opposizione di un solo stato membro a paralizzare tutto. E’ magra consolazione constatare che in questo modo nemmeno gli Stati Uniti d’America sarebbero mai nati (la Convenzione di Philadelphia prevedeva l’entrata in vigore già una maggioranza di solo 9 dei 13 stati), fatto su cui dovrebbe meditare anche quella non irrilevante parte di politici ed esperti americani di area “neocon” che applaudono agli irlandesi come difen-
88
sori della libertà. In realtà, l’Europa bloccata, divisa ed incapace di decidere che si prospetta senza le riforme previste dal nuovo Trattato è sicuramente un alleato degli USA ben più malleabile e accomodante, ma anche debole e solo marginalmente utile. In tempi di crisi economiche, politiche e strategiche come quello che stiamo vivendo oggi, probabilmente farebbe comodo avere invece un alleato forte; di certo, sarebbe utile per i cittadini europei, i quali però vengono sempre più spinti dalla rispettive leadership nazionali a pensare che solo arroccandosi nel proprio particulare si potranno evitare gli aspetti negativi del processo di globalizzazione. Se a qualcuno ciò ricorda le storia dei comuni e dei micro-stati italiani, è sulla giusta strada: il risultato finale è noto, lo scudo è troppo piccolo per resistere e l’irrilevanza politica sulla scena mondiale sempre più vicina. La logica del progetto di Costituzione Europea, affossato nel 2005 dai referendum francese e olandese, voleva superare proprio questa impasse del trattato da ratificare all’unanimità, ma ne è stata la prima vittima. Ora il no irlandese ha ringalluzzito gli spiriti degli euroscettici in Polonia (paese in cui un presidente illiberale si ostina a non controfirmare la ratifica parlamentare), ma soprattutto Repubblica Ceca e Regno Unito, che ancora si devono esprimere. Quali sono dunque le difficili prospettive future? La presidenza francese sta lavorando per mettere una pezza nel breve periodo, forse garantendo all’Irlanda delle clausole di non adesione ad alcune politiche (cosiddetti “opt out”), e continuando ad operare “come se” il Trattato di Lisbona debba comunque entrare in vigore, seppure con qualche ritardo. Tutto bene dunque? Crisi superabile con pochi accorgimen-
scacchiere ti tecnici? La realtà di fondo e le prospettive di lungo periodo purtroppo sono ben diverse: l’Europa è vittima dei nazionalismi che si fanno più forti in periodo di crisi. Il processo di allargamento affrettato ha aggravato questo stato. Non è una novità, ma sappiamo bene a cosa questo processo abbia portato in passato: contrasti, mancate opportunità e due guerre mondiali. Certo, anche in assenza di un progetto realmente federativo, forse si potrebbe avanzare in gruppi ristretti di paesi più volenterosi, mantendo una base comune rappresentata dal mercato interno e, per molti paesi l’Euro e Schengen. I Paesi che non desiderano avanzare, potrebbero sempre far parte dell’European Economic Area (EEA). Se fosse possibile, sarebbe corretto porre un quesito referendario quindi fra due alternative: aderire ad un nuovo progetto europeo d’integrazione, più avanzato dell’attuale Trattato di Lisbona e in linea col processo della Costituente Europea, o recedere dall’UE per rimanere comunque legati nelle forme indicate. Ma ciò richiederebbe una leadership forte ed illuminata, convinta del progetto federale, altrimenti il progetto si tradurrebbe in avanguardie separate di nazionalismi, con relative tenta-
zioni di dominio di un membro sugli altri in un contesto fintamente comunitario ma sostanzialmente intergovernativo. Non sembra che la Francia di Sarkozy, ispirata ad un gollismo di fondo che tende a nascondere con la targhetta europea progetti francofrancesi, sia posizionata al meglio per svolgere questa funzione di traino positivo, tanto che gli altri stati membri sembrano già piuttosto recalcitranti a farsi trascinare verso obiettivi in cui il beneficio comune non è evidente, come avvenuto per l’iniziativa nei confronti del Mediterraneo. Realisticamente, ci si dovrà accontentare di soluzioni di stampo intergovernativo e di corto respiro ai problemi più urgenti, anche e soprattutto nell’ambito della politica estera e di difesa, nonché delle politiche energetiche. Nell’attesa, speriamo non vana, che emerga una leadership futura, formata dal progetto Erasmus nel corso degli studi degli anni ’80 e ’90, conscia dell’insegnamento dei nonni che fecero l’Europa e dei padri fondatori americani: un Unione sempre più stretta e perfetta è essenziale per la difesa. della libertà, la giustizia ed il benessere dei cittadini.
Russia/Con la spinta di Kissinger
la Nato guarda a Kiev. E a Tblisi
Washington apre all’ingresso di Georgia e Ucraina nel Patto DI
DAVID J. SMITH
margine del summit Nato di Bucarest dello scorso aprile, il primo Ministro francese, Francois Fillon aveva affermato a radio France Inter: «Ci opponiamo all’ingresso di Georgia e Ucraina, perchè pensiamo non sia la scelta giusta per gli equilibri europei e per quelli fra Russia ed Europa. Sull’argomento vorremmo aprire un dialogo con Mosca». Il Quay d’Orsay ha fatto poi sapere in maniera informale che questa posizione non corrisponde alla politica francese. Ma non può sfuggire il significato del lapsus freudiano di Fillon, che rive-
A
la quanto gli europei siano contrari ad ulteriori allargamenti della Nato. A Bucarest Francia e Germania – appoggiati da un gruppo di altri Paesi, compresa l’Italia – ha fatto fallire il Membership action plan (Map) per Georgia e Ucraina. Nonostante il presidente George Bush e alcuni nuovi leader Nato - del periodo post guerra fredda insistano, e abbiano scritto un passaggio pieno di promesse nella Dichiarazione del summit di Bucarest: «La Nato da il benvenuto alle aspirazioni euroatlantiche di Georgia e Ucraina per una loro 89
Risk
90
scacchiere
scacchiere adesione all’Alleanza». La faccenda non si è esaurita qui. L’impegno della Nato è stato notato a Kiev, Tblisi e... Mosca. Dopo due settimane il presidente russo, oggi primo ministro, Vladimir Putin mostrava i muscoli contro la Georgia. Decretando l’espansione dello spazio economico, amministrativo e legale russo nella regione georgiana dell’Abkhazia. Mosca aveva dispiegato prima un contingente di 600 uomini, definendoli peacekepeer, in realtà unità di paracadutisti con equipaggiamento pesante. Inviando solo successivamente i 400 militari del genio ferrovieri. Una campagna agitprop aveva poi indicato la Georgia come pronta per un’invasione. La tensione era poi salita con l’abbattimento, da parte di un caccia russo, di un velivolo da ricognizione senza pilota Uav (Unmanned air vehicle) e con l’arresto di una fantomatica spia georgiana nel Nord del Caucaso. Appena erano arrivati a Tblisi il segretario di Stato Usa, Condeleezza Rice e i rappresentanti dell’Osce e delle Nazioni Unite, in Abkhazia erano cominciati gli attacchi con bombe e armi automatiche, mentre i leader separatisti avevano bloccato il confine amministrativo col resto del Paese. Tutto questo mentre sulla capitale dell’Ossezia meridionale, Tskhinvali, ronzava una formazione di caccia russi, e venivano registrati attacchi con mortai e armi leggere in diverse parti del territorio. Episodi che facevano montare una tensione già alta. Al posto delle solite smentite, Mosca dichiarava sfacciatamente: «A chiarimento della situazione, confermiamo che aerei appartenenti all’Aeronautica russa hanno eseguito una breve missione sul territorio dell’Ossezia del Sud». C’è poi il dialogo di Fillon con la Russia – in questo poco opportunamente accompagnato dell’ex segretario di Stato, Henry Kissinger. Un ulteriore allargamento della Nato, scrive Kissinger sull’International Herald Tribune del 2 luglio, «deve essere messa sul tavolo senza forzature, in maniere che altre issue possano procedere», in modo particolare l’aiuto di Mosca per contrastare le ambizioni nucleari iraniane. «Lo spostamento del
sistema di sicurezza occidentale dal fiume Elba verso Mosca, porta con sé l’idea di una Russia in declino. In un modo da generare sentimenti russi che potrebbero impedire la soluzione di altri problemi». Kissinger è convinto che occorra fermarsi «perché, sotto molti punti di vista, stiamo assistendo ad uno dei periodi più promettenti della storia russa». Quest’approccio politico sarebbe un guaio per la Georgia, per l’Ucraina e... per l’Occidente. Di più, sarebbe in aperta contraddizione con i precisi insegnamenti su cui Kissinger ha fondato la sua brillante carriera diplomatica. Riguardo la sua recente visita moscovita, Kissinger scrive: «non ho incontrato russi, dentro o fuori dal governo, che dubitino che sia in atto un certa redistribuzione del potere». Nessun attento osservatore avrebbe dubbi che il tandem tra il presidente Medvedev e Putin non porterà alcun cambiamento nel regno di zar Volodja. Comunque il problema vero è se il cambio di politica interna russa sarà sufficientemente positivo da far togliere lo stivale russo dalla gola di Paesi vicini come la Georgia. Su quest’argomento Kissinger dichiara, «l’elezioni presidenziali segnano una transizione, da una fase di consolidamento a un periodo di modernizzazione». Il tandem potrebbe «retrospettivamente, sembrare come l’inizio di un’evoluzione verso forme di bilanciamento dei poteri prima sconosciute». Nel frattempo lo stivale rimane al suo posto e con il rinvio della membership Nato di Georgia e Ucraina viene lasciata sul tavolo anche la loro indipendenza, che Kissinger per altro sponsorizza. Si rinviano anche le decisioni sugli interessi geopolitici occidentali nel Mar Nero, nel Caucaso e nel Caspio, nella speranza di un’evoluzione positiva della politica russa. Per incoraggiare questa evoluzione, scrive Kissinger, l’Occidente, l’America in particolare, deve cambiare «la politica di ingerenza attiva in ciò che la Russia considera far parte di se... Possiamo influenzare (la Russia) più con la pazienza e la comprensione storica che con l’offeso disimpegno e la critica pubblica». 91
Risk Il problema è che, oggi, l’identità russa prospera calpestando quella altrui. Kissinger ne è sicuramente cosciente. Propone una scommessa geopolitica, realista. Se le sue più rosee supposizioni sulle prospettive di una democrazia russa, si rivelassero vere, la Russia smetterebbe di calpestare l’identità altrui e l’Occidente avrebbe delle buone relazioni con Mosca. Se – come è probabile - questa teoria fosse sbagliata, la Russia continuerebbe a calpestare i piccoli Stati, come la Georgia, e l’Occidente continuerebbe ad avere rapporti cordiali con Mosca. Come Kissinger ha ben sottolineato nel suo capolavoro del 1957, A World Restored, la geopolitica è una corrente di pensiero largamente influenzata da un punto di vista soggettivo, non si basa su regole universali. Ciò che i georgiani pensano sui complotti fra Putin e Bush non hanno più importanza di quanto i Sassoni intuivano circa le macchinazioni tra Castlereagh e Metternich alla fine delle guerre napoleoniche. Ma la coscienza di Woodrow Wilson, da tempo, ha sostituito il genio di Metternich. «Ai falchi, veterani della diplomazia europea, fondata sull’equilibrio della forza» scrive Kissinger nel suo tour de force editoriale del 1994, Diplomacy, «la visione wilsoniana di un fondamento etico della politica estera, appariva strana, se non ipocrita. Il wilsonismo è ancora vivo, mentre la storia ha superato le critiche dei suoi contemporanei. Ciò è vero in America come in Europa. Una politica antietica che permetta allo stivale russo di schiacciare i progressi della democrazia, in un Paese come la Georgia, è inaccettabile. È inaccettabile innanzitutto perché contraddice il pragmatismo dell’insegnamento di Kissinger. L’articolo del 2 luglio lo colloca nella ciurma di travét della diplomazia europea a caccia della chimera di una cooperazione russa sulla proliferazione nucleare, che affermano che il consenso stia emergendo «sulla natura delle sfide portate dalle armi nucleari in mano all’Iran». Se ciò fosse vero, non avremmo bisogno di una diplomazia così attentamente costruita per assicurarci il sostegno della Russia. La realtà è che Mosca 92
scacchiere sta facendo di tutto per salvaguardare i propri interessi commerciali nell’impianto nucleare di Busher in Iran. Mentre ritarda e diluisce i tentativi dell’Occidente di bloccare il programma nucleare iraniano». Perchè? Perché la Russia è contenta della sfida che l’Iran pone a un ordine internazionale dominato dall’Occidente, più di quanto non tema l’impatto dei missili iraniani su Mosca. Le proteste russe sull’ordine mondiale esistente vanno ben oltre l’Iran, le stereotipate lamentazioni sulla Nato e il sistema di difesa missilistica Usa. Intervenendo allo sfarzoso Economic forum di San Pietroburgo del 9 giugno, Medvedev denunciava «le aggressive politiche finanziarie delle più grandi economie mondiali» e si scagliava contro la World bank e l’International monetary fund. Mosca si tirava indietro anche da un impegno preso da Medvedev al summit G-8 di Hokkaido, per imporre sanzioni contro il regime fuorilegge di Robert Mugabe nello Zimbabwe. E la lista continua... Kissinger illustra le conseguenze di una situazione internazionale simile in A World Restored: «Quandunque esista un potere che considera oppressivo l’ordine internazionale o il modo di legittimarlo, le relazioni fra esso e le altre potenze saranno di tipo rivoluzionario (...) In questi casi, in ballo non ci sono dei correttivi a differenze interne al sistema, ma il sistema stesso (...) La caratteristica distintiva di un potere rivoluzionario è che si sente minacciato (...) in una maniera per cui nulla lo potrà far sentire al sicuro (...) Così il desiderio per la sicurezza assoluta di una potenza, significa assoluta insicurezza per tutte le altre (...) la diplomazia, l’arte della continua ricerca di nuove strade nell’esercizio del potere, non può funzionare in questo contesto (...) I diplomatici potranno ancora incontrarsi, ma non potranno convincere, perchè ormai non parlano più la stessa lingua». Un po’ come Metternich quando voleva che la Francia controbilanciasse la Russia. Imparò che non poteva legittimare un ordine mondiale con
scacchiere Napoleone, perché l’imperatore francese rifiutava quel tipo di ordine che il principe austriaco voleva restaurare. Allo stesso modo, Putin – e il suo meno sfolgorante impero zarista - rifiuta quel tipo d’ordine che Kissinger vorrebbe restaurare. I diplomatici professionisti potrebbero ironizzare. «La principale difficoltà di un periodo rivoluzionario è convincere coloro che non hanno preso posizione, che la rivoluzione sia davvero rivoluzionaria», scrive Kissinger. «Chi ci avvisa in tempo contro il pericolo è consi-
derato un allarmista». Quelli che, come Kissinger «consigliano un adattamento alle circostanze, sono considerati equilibrati e saggi». Il tandem russo può gridare alla pace in casa e all’estero. Poi, come fece la restaurazione monarchica francese, la Russia potrebbe partecipare alla ricostruzione di un legittimo ordine internazionale, in un mondo restaurato. Nel frattempo però, non ci possono essere compromessi con lo “stivale”, va tolto.
America Latina/Il Venezuela
scalza gli Stati Uniti
La posizione della Bolivia la rende ago della stabilità del Sud America DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
a Bolivia è lo Stato più povero e uno dei meno popolosi dell’America meridionale. Ciononostante, la posizione geografica, la matrice etnica della popolazione e le riserve energetiche del suo sottosuolo fanno sì che la crisi politica la affligge in questi mesi possa avere ricadute a livello regionale. La fragilità delle istituzioni democratiche è una caratteristica endemica del paese andino, e va riconosciuto al presidente Evo Morales il merito di essere riuscito nei primi due anni e mezzo di governo a mantenere la situazione relativamente sotto controllo. Almeno fino ad ora. La sua forza sta nella capacità di rappresentare le popolazioni indigene, che si identificano in lui e gli perdonano molti errori. Tuttavia, il progetto riformatore in senso socialista che sta portando avanti è espressione di interessi troppo diversi da quelli delle forze politiche ed economiche dell’Oriente del paese, nelle mani dell’opposizione. Da un lato un centralismo nazionalista e indigenista, dall’altro una proposta federalista e conservatrice, figlia della crescita dell’agroindustria e dello sviluppo del settore energetico. Morales ha trascurato i rapporti con la classe media
L
urbana e non è riuscito a soddisfare la domanda di riforme concrete che aveva accompagnato il suo trionfo elettorale. L’elemento razziale è centrale nella crisi boliviana, e l’esito di questo braccio di ferro può avere ripercussioni in paesi quali Perù ed Ecuador caratterizzati da un’alta percentuale di popolazione di matrice indigena che vive al di sotto della soglia di povertà. All’origine della spaccatura sociale in Bolivia vi è il progressivo spostamento dell’asse economico dall’industria mineraria tradizionale della regione andina verso la produzione agricola e l’estrazione di gas e petrolio nei dipartimenti orientali al confine con Argentina, Paraguay e Brasile. Così, al progetto di riforma costituzionale del governo ha fatto da contraltare una serie di referendum auto-convocati e di dubbia legalità promossi nei dipartimenti di Santa Cruz, Pando, Beni e Tarija. Le consultazioni elettorali si sono svolte nei mesi di maggio e giugno, in maniera sostanzialmente pacifica, e hanno rafforzato il controllo politico dell’opposizione in questi territori. Successivamente, alle elezioni amministrative del 29 giugno l’opposizione ha guadagnato anche il 93
Risk controllo del centrale dipartimento di Chuquisaca, dove ha sede l’antica capitale del paese, Sucre. Lo stallo politico rischia di rompersi il prossimo 10 agosto, quando è prevista la realizzazione di un “referendum revocatorio” che coinvolge contemporaneamente il Presidente, il suo vice e i nove prefetti (governatori) del paese. Si tratta di una consultazione popolare sui generis, del tutto nuova in Bolivia ma già utilizzata da Hugo Chávez in Venezuela. Il referendum era stato proposto dal governo nel dicembre scorso. La formula elettorale favorisce chiaramente la ratifica del Presidente, che era stato eletto con il 53% dei suffragi, e penalizza alcuni dei governatori eletti con meno del 40% dei voti. Per essere revocati dall’incarico, infatti, basta che il numero di voti negativi sia superiore a quello dei suffragi ottenuti all’ultima tornata elettorale. L’opinione pubblica è divisa tra chi considera questo strumento addirittura anticostituzionale poiché in antitesi con il concetto stesso di elettorato passivo e mandato popolare, e chi invece ammette che sia l’unico mezzo oggi in grado di sbloccare la paralisi politica in cui è caduto il paese. Nel frattempo si va rafforzando l’abbraccio economico-militare del Venezuela. Evo Morales ha riconosciuto che i finanziamenti venezuelani arrivano direttamente attraverso l’ambasciata dello Stato caraibico, senza passare per il ministero del Tesoro, e sono utilizzati per progetti di assistenza a diversi gruppi, tra cui contadini e militari. L’appoggio politico e finanziario del governo venezuelano sta gradualmente scalzando l’influenza dell’ambasciata e dei programmi di cooperazione statunitensi in Bolivia. È un fatto che Washington guardi con favore alle posizioni di Santa Cruz e dei dipartimenti autonomisti: il loro successo porrebbe un freno al progetto socialista e filo-venezuelano di Morales e faciliterebbe gli investimenti esteri nel settore degli idrocarburi. In più occasioni nei mesi scorsi il governo boliviano ha denunciato i tentativi dell’ambasciatore americano di fomentare l’instabilità interna, finanziando i gruppi oppositori attra94
verso l’agenzia di cooperazione Usaid. A fine giugno Usaid è stata obbligata a sospendere le attività, con l’ambasciatore Philip Goldberg richiamato a Washington per consultazioni. La task force militare impegnata nella distruzione delle piantagioni di coca nella regione del Chaparé ha interrotto le operazioni adducendo mancanza di risorse economiche e pressioni da parte dei coltivatori di coca. L’altro fattore importante è quello energetico. Con il petrolio a livelli record, il gas boliviano assume un’importanza strategica soprattutto per i due principali paesi importatori: Brasile e Argentina. Procede la costruzione di nuovi gasdotti e l’ampliamento di quelli esistenti, ma i volumi di gas estratti dal sottosuolo boliviano permangono stazionari. Nel caso dell’Argentina, la situazione energetica è estremamente delicata. Il complesso scenario della crisi boliviana mette alla prova l’efficacia della leadership regionale del Brasile. Nonostante i grandi investimenti di Petrobras nell’estrazione e trasporto del gas e dei proprietari brasiliani nel settore agro-industriale, il governo Lula sostiene la posizione del presidente Morales e l’unità del paese andino. Un intervento delle Forze Armate boliviane e venezuelane per reprimere un tentativo di secessione delle province orientali minerebbe la stabilità dell’intera regione, con un possibile effetto emulazione in Perù ed Ecuador dove vi sono regioni che lottano per aumentare la propria rendita petrolifera. Anche per evitare quest’ipotesi, varie agenzie brasiliane stanno implementando progetti di coesione sociale e sviluppo economico nelle zone di frontiera, prendendo esempio dalle iniziative comunitarie finanziate dal Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Considerando la debolezza di istituzioni regionali quali il Mercosur, la Comunità Andina e l’Organizzazione degli Stati Americani, questo approccio appare più consistente ed efficace al fine di ridurre l’esclusione sociale e la disparità economica che alimentano la polarizzazione politica in Bolivia.
Africa/Food crisis:
scacchiere
l’ennesimo paradosso africano La crisi energetica colpisce il continente nero, che paga con la fame DI
EGIZIA GATTAMORTA
egli ultimi mesi si è registrato uno stravolgimento dei mercati internazionali, dovuto per lo più ad un aumento incontrollabile dei prezzi delle materie prime eNdi quelli dei generi alimentari. A una domanda crescente di prodotti energetici e derrate (in particolare da parte di Cina e India) si è contrapposta un’offerta rigida di tali beni. La conseguenza automatica è stata l’impennata del costo della vita e quindi la perdita di potere d’acquisto dei consumatori mondiali. Se i paesi sviluppati hanno risentito particolarmente del rialzo del petrolio che si è tradotto per il cittadino medio nel raddoppio della spesa per il pieno di benzina, quelli in via di sviluppo hanno avvertito soprattutto la difficoltà per l’incremento del valore dei prodotti di prima necessità. Particolarmente colpite sono state le fasce più deboli, che si sono trovate a devolvere il 60-70 % dei loro proventi per l’acquisto di riso, grano, mais, cereali, latte e soia. Da Haiti alla Cambogia, dalla Corea del Nord all’Eritrea, dalle Comore al Niger, dall’Argentina all’Etiopia si sono registrati dei peggioramenti nella dieta alimentare quotidiana di milioni di famiglie, che si sono viste decurtare le loro capacità di spesa. L’Africa in particolare è stata colpita da tale realtà e si è trovata a vivere un paradosso inimmaginabile neanche per il più scaltro economista dello sviluppo. Condannata in passato da una situazione in cui i prezzi dei beni primari sembravano destinati ad un continuo declino in rapporto a quelli dei manufatti, oggi in teoria dovrebbe essere avvantaggiata in una situazione di incremento anomalo di soft commodities. Tuttavia, il settore agricolo non è stato sempre al centro di politi-
N
che di sviluppo, perciò il continente si trova meno attrezzato a sfruttare l’impennata dei prezzi della produzione dei beni alimentari, così come stanno facendo invece Brasile e India. Si fanno invece sentire – se si escludono alcuni paesi quali, Ghana, Mali, Senegal, Tanzania, Zambia che hanno scelto di implementare strategie alternative- gli effetti negativi di questa nuova situazione. Oltre tutto, le difficili condizioni ambientali, l’avanzare della desertificazione, la siccità, le carestie, l’inquinamento, sono un ulteriore fattore di debolezza del settore e comportano la necessità di importare dall’estero grandi quantità di prodotti agricoli. Il continente si trova infatti in un circolo vizioso da cui non è capace di uscire. Energia-ambiente-alimentazione sono tre anelli di una catena che sta strozzando le singole economie. Numerosi sono gli esperti che attribuiscono gran parte della responsabilità di questa situazione alla produzione dei biocombustibili, che seppure si propone di svincolare le economie dai ricatti petroliferi mediorientali e di incidere in modo limitato sull’effetto serra, tuttavia toglie disponibilità di spazio alla coltura di beni destinati ad uso alimentare. Foreste e pascoli vengono distrutti e riconvertiti per la produzione di biocarburanti. Come riportato dalla Fao, si prevede che la produzione di biodiesel aumenterà da 11 miliardi di litri nel 2007 a 24 miliardi di litri nel giro di 10 anni; quella di etanolo dovrebbe arrivare a 127 miliardi di litri all’anno nel 2017. Gli incentivi proposti dagli Stati Uniti, determinati da scelte politiche mirate a tutelarsi dalle politiche energetiche dei paesi Opec, hanno un prezzo troppo alto in termini di sviluppo futuro del Sud del mondo. C’è poi un problema di tutela ambientale che non deve 95
Risk essere sottovalutato. La spinta forzosa all’industrializzazione e la produzione di gas nocivi determinano dei danni irreparabili all’atmosfera, danni che si riflettono in catastrofiche alluvioni o all’opposto in periodi di aridità, fenomeni questi che producono impoverimento della terra e dei suoi beni. Il degrado delle terre coltivabili è in aumento, la siccità comporta direttamente un crescita dei prezzi dei generi alimentari. Cosa dire poi dei problemi collegati al settore idrico? L’impoverimento della portata di acqua di fiumi o al contrario le inondazioni provocano conseguenti danni all’agricoltura locale, ulteriori elementi questi da prendere in considerazione. Da non trascurare inoltre i danni provocati dall’inquinamento dell’acqua che determinano malattie letali per l’infanzia e provocano la decimazione di braccia e forza lavoro. Come sta reagendo l’Africa di fronte a tale ennesima emergenza? Due sono gli elementi da prendere in considerazione: da una lato le rivolte popolari, dall’altro le risposte dei singoli governi e dell’organizzazione panafricana. In questi ultimi mesi si sono registrate numerose tensioni sociali in Egitto, Senegal, Mozambico, Cameroon, Burkina Faso, Etiopia, Cote d’Ivoire, Niger. La gente è scesa in piazza per protestare contro l’aumento dei prezzi del pane e si è scontrata con le forze dell’ordine. In Egitto, il Presidente Mubarak nel tentativo di arginare la rabbia ed evitare che la violenza degenerasse si è visto perfino costretto a far distribuire il pane alla folla dagli uomini della polizia locale. I governi africani hanno fornito risposte diverse nei confronti dell’emergenza alimentare. Pochi esecutivi (come il Malawi) hanno cercato di utilizzare la politica dei sussidi nel settore dei fertilizzanti per agevolare i contadini locali; la maggior parte si sono visti spiazzati nella tempistica della programmazione e hanno cercato di deferire in toto il problema all’Unione Africana. L’organizzazione panafricana ormai da alcuni anni sta affrontando il problema attraverso la creazione di una Commissione apposita per l’Economia rurale e l’Agricoltura. Tra i suoi compiti si annoverano quello della promozione di politiche e strategie nel settore, del miglioramento dei sistemi agricoli, della facilitazione 96
degli studi sul cambiamento climatico. Ad essa spetta inoltre di promuovere il raccordo e una linea comune dei ministeri africani responsabili. Un lavoro importante e mirato, che ha portato a promuovere diverse conferenze come quella del luglio 2003 di Maputo, in cui la sicurezza alimentare è stata vista come una delle critical focal areas all’interno del New Partnership for African Development (NePad). In tale occasione i presenti hanno adottato il Comprehensive Africa Agriculture Development Programme (Caadp) e hanno raccomandato un approccio integrato, auspicando un rafforzamento del trasferimento tecnologico e la promozione di centri di eccellenza. Altro incontro determinante quello del workshop di Pretoria del maggio 2008 che si è proposto di assistere i governi per formulare un framework appropriato per la sicurezza alimentare e ha saputo individuare alcune opportunità dalla crisi in atto. Sotto l’egida delle Nazioni Unite e la Fao si è svolta invece la conferenza di Nairobi del giugno scorso, che si è posta come obiettivo il miglioramento della gestione dell’acqua per stimolare la produzione agricola ed il rafforzamento del commercio interafricano. Anche in questo caso la partecipazione di tutti i ministri africani ha permesso uno scambio di idee sui meccanismi che hanno causato la crisi alimentare mondiale, con un’analisi particolare sulle vicende locali. Tentativi rilevanti ma comunque bisognosi di supporto e di attenzione esterna. Attenzione che in parte è stata data in occasione del vertice Fao (3-5 giugno), che ha riunito a Roma i rappresentanti di 181 nazioni. Per rispondere ad una crisi che ha colpito 862 milioni di persone, sono stati messi a disposizione oltre 12 miliardi da alcuni donatori e organizzazioni internazionali, in aggiunta ai 6 miliardi stanziati precedentemente dall’organizzazione. Troppo poco, tuttavia, rispetto all’obiettivo di 30 miliardi di dollari l’anno necessari per raggiungere i Millennium Development Goals. Oltre all’impegno economico, è stata adottata una dichiarazione che esorta all’azione, all’applicazione di misure concrete e soprattutto ad una rinnovata attenzione da parte della comunità internazionale per i paesi
scacchiere in via di sviluppo. Significativo il fatto che in una mappa della vulnerabilità in cui sono stati individuati 22 paesi a rischio, ben 18 sono africani. Considerato un fallimento da taluni e un ennesimo incontro privo di rilevanza da altri, sta di fatto che il vertice ha richiamato per alcuni giorni l’attenzione dei media e ha proposto un quadro realistico della crisi in atto. Per ciò che concerne specificatamente il continente africano, un focus particolare sulla sicurezza alimentare è posto dal Giappone in ambito della Tokyo International Conference on Development (Ticad) e del G8. Le due recenti edizioni hanno cercato di strutturare gli aiuti e di assumere impegni rilevanti. C’è da chiedersi giustamente se sia un interesse di pura facciata o meno, tuttavia tra i player internazionali si distingue per autenticità e pragmatismo quello del regno del Sol Levante. Quello che oggi serve è un approccio di dual track, che permetta di rispondere subito all’emergenza in atto ma che preveda anche una policy di medio-lungo periodo, atta a indurre i governi a rafforzare: la Ricerca & lo Sviluppo, il trasferimento tecnologico, la promozione di centri di eccellenza, riforme istituzionali appropriate, maggiori finanziamenti nel settore agricolo. Sementi, fertilizzanti e attrezzi devono essere riportati nelle mani dei contadini; le infrastrutture rurali devono essere migliorate; i sistemi di irrigazione devono essere potenziati. C’è molto da fare per arginare la crisi. Seppure la situazione si presenti come un’ennesima emergenza, potrebbe risolversi in una benedizione per l’Africa. Gli ingenti guadagni del settore agricolo potrebbero infatti attirare nuovi investimenti, portare a una specializzazione dei piccoli proprietari terrieri, rafforzare figure come quelle dei commercianti, dei grossisti e degli addetti alle vendite all’estero, ampliando quindi la catena degli attori coinvolti. Un settore privato forte, unito ad un business mirato potrebbe rilanciare lo sviluppo africano. E’ dall’Agricoltura che può nascere la possibilità per una veritiera rinascita del continente! 97
La storia
KULI KHAN, IL NAPOLEONE DELLA PERSIA
S
di Virgilio Ilari
hugborough Hall nello Staffordshire, residenza dei conti di Lichfield, deve la sua fama al bassorilievo dei Pastori d’Arcadia che riproduce la prima versione (1627, Chatsworth House) del celeberrimo quadro di Nicolas Poussin. Com’è noto è soprattutto su questo quadro che si fonda il mito, inventato nel 1967 da Pierre Plantard e Philippe de Chérisey e romanzato da Dan Brown in chiave femminista, del preteso Priorato di Sion, custode del segreto rosacrociano di Gesù sopravvissuto alla crocifissione, capostipite della dinastia merovingia e sepolto dai Templari in uno sperone roccioso presso Rennes le Chateau. Costruito probabilmente nel 1759, e in realtà ispirato dalla passione per lo stoicismo di Lady Anson, moglie del Primo Lord dell’Ammiragliato, lo Shepherds Monument è solo l’ultimo degli otto, tra cui la Pagoda Cinese, il Tempio 98
storia Dorico e l’Arco di Adriano, che ornano il giardi- toria all’alleata zarina, un ricchissimo bastone di no. comando e una sciabola all’imperatore Carlo VI e L’unico visibile dagli Shepherds, essendo posto in il proprio pugnale al principe Eugenio di Savoia cima ad una colonna, è il Cat’s Monument: un (1663-1736), condottiero delle forze imperiali, gatto sornione accovacciato su un orcio rotondo, che lo regalò poi al barone lituano Otto von dalla cui base fanno capolino quattro caprette. Rehbinder, primo maresciallo di Savoia (1730Progettato da Elizabeth Yorke già nel 1749, un 43). Nadir fu il terzo e ultimo conquistatore indianno dopo le sue nozze con sir George Anson geno dell’Asia Centrale dopo Gengis Khan e (1697-1762), alluderebbe al gatto dell’HMS Tamerlano, ai quali espressamente si ispirava. Centurion, il vascello col quale il futuro ammira- Rasa al suolo l’antica Kandahar, poi ricostruita glio compì, dal 1740 al 1744, la prima circumna- nei pressi col nome di Naderabad, nel 1739 umivigazione del globo. (Oggi è più famosa liò l’impero Moghul e occupò Delhi, massacranHenriette, The Cat who covedo 30mila insorti e riportando red the World, dal titolo del in patria immense ricchezze, Terzo e ultimo libro dedicatole nel 2000 dal tra cui il trono del Pavone, i conquistatore suo padrone, il corrispondendue diamanti più grossi della te estero del Times terra (“Montagna di luce” e dell’Asia centrale Christopher S. Wren; ma il “Mare di luce”) e gli altri 850 dopo Gengis Khan e Guinness spetta all’anonimo minori usati per tempestare Tamerlano, ai quali felino del Centurion, soprav“La Spada di Tutte le si ispirava, rase al vissuto al giro del mondo Conquiste”. Alla sua prima suolo l’antica insieme a molte bottiglie di biografia – un aggiornamento Madera che Lord Anson condei lavori di Claustre del 1728 Kandahar e umiliò tinuò poi per anni ad offrire ai e 1732 tradotto in italiano già l’impero Moghul suoi ospiti). Secondo un’altra nel 1740 – ne seguirono altre versione, però, il Cat’s due ad Amsterdam (Histoire Monument commemorerebbe invece il gatto per- de Thamas Kouli-Kan) nel 1741 e a Londra (The siano e il gregge di capre corse dell’eccentrico History of Nadir Shah, un peana dello scozzese fratello maggiore nonché futuro erede dell’ammi- James Fraser, 1713-1754) nel 1742, quando Nadir raglio. Celibe, astronomo, architetto, e, come rivendicava il dominio dell’Asia Centrale sposanGeorge, membro del parlamento e della misterio- do la principessa di Bukhara discendente da sa setta segreta del Bungalow, Thomas Anson Gengis Khan, e del Golfo Persico, creando una (1695-1773) non si spinse oltre l’Italia e l’Egitto. marina e conquistando Bahrain e Oman. Nel setE il suo gatto si chiamava Kuli Khan. tembre 1746, mentre i turchi ottenevano la pace In Occidente oggi è un Carneade; ma ai suoi cedendo la città santa di Najaf, il governatore tempi il turcomanno Thamas Kuli Khan, poi austriaco Antoniotto Botta Adorno spiegava ai Nadir Shah Afshar (1688/98-1747), era famoso suoi sgomenti concittadini che l’esoso tributo di pure in Europa. Fin dal 1728, quando apparve un guerra preteso dall’Austria per evacuare Genova anonimo instant-book (Histoire de la Révolution applicava la strategia di Kuli Khan, che aveva de Perse) poi attribuito all’abate André de finanziato le campagne contro gli Ottomani col Claustre; ma soprattutto dal 1732, quando, dopo bottino indiano, valutato da Claustre ad oltre 5 aver sconfitto i turchi, aveva inviato messi di vit- miliardi di lire francesi (circa 630 miliardi di euro, 99
Risk quasi metà dell’attuale Pil italiano). Ad Anson e Nadir dedicò tre dei suoi venti Discorsi militari il veneziano Francesco Algarotti (1712-65), il famoso poeta e saggista bisessuale, amante di Lord e Lady Hervey e poi di Federico II, geniale divulgatore di Newton, che Voltaire chiamava “il caro cigno di Padova” e al quale la rivista Babilonia dedicò nel 1998 un “saggio di storia gay”. Dovrebbe però rivendicarlo, e con pari orgoglio, anche la maggior parte dei collaboratori di Risk, ed io per primo, a cagione della sua appassionata e coltissima dimostrazione della superiorità dei dilettanti sui professionisti dell’arte della guerra: «colui che non professando altrimenti la guerra, conosce quello, ch’ella può ricevere di più perfetto, è forza ne abbia penetrato la natura, e la essenza medesima. Nell’uno, per quanto acconciamente ragioni, potrebbe la guerra esser solamente un mestiero; conviene nell’altro che sia una scienza» (Lettera XIX sopra la scienza militare di Machiavelli, 12 settembre 1759). Di Kuli (Khan!) Algarotti s’interessò durante il suo soggiorno a Potsdam (1742-46), quando si divertì a ricostruire, insieme al feldmaresciallo James Francis Edward Keith (1696-1758), un mercenario scozzese al servizio prussiano, la campagna del 1729 contro gli afgani. Questo studio divenne poi il VI dei Discorsi: al 100
storia quale Algarotti aggiunse una gustosa e onestissima nota finale, in cui riconosceva, sulla base di un saggio del mercante inglese Jonas Hanway comparso nel 1762 (The Revolutions of Persia), di aver completamente “cannato” il luogo della battaglia finale (settembre 1729), «che io fo combattere verso il Golfo Persico, e non lungi da Schirass», mentre in realtà si era svolta «dalla banda del Caspio vicino alla città di Damgoon (Damghan) non molto lungi dalle frontiere del Korassan» ed era stata seguita da un’altra, questa sì decisiva, a Murchakor. Il Discorso VII analizza invece la battaglia di Leilami presso Bagdad (2122 ottobre 1732), dove Nadir sconfisse il seraschiere turco Topal Osman Pasha attirandolo abilmente sotto il tiro di batterie predisposte in una valletta alle spalle del campo persiano; la descrizione di Algarotti suggerisce al lettore il paragone scontato con la pugna Cannensis, ma con la sottile eleganza di non farne alcun esplicito accenno. È da notare che i Discorsi VI e VII seguono quello “sulla impresa disegnata da Giulio Cesare contro a’ Parti”; Algarotti scrive che Cesare l’avrebbe sicuramente condotta con gli stessi sistemi usati ai suoi tempi dai generali russi Munich e Lascy contro i Tartari, ad esempio con marce di fanteria in formazione quadrata, «a guisa di ben munita fortezza», catene di fortini e altri sistemi per neutralizzare una mobile armata a cavallo nemica. Pura chiacchiera da terme (o, modernamente, da caffè) gli sembrava invece il disegno, attribuito a Cesare da Plutarco, di proseguire le conquiste dopo la sconfitta dei Parti, tornando a Roma per il Daghestan, il Caucaso, il Volga, la Sarmazia e – “di palude in palude” – la Germania e la Gallia. Tutti e tre questi discorsi (come pure il IX, su Carlo XII di Svezia), sono indirizzati a don Giuseppe Pecis, consigliere del governo lombardo, soprintendente alle acque, strade e confini e incaricato di un’ispezione amministrativa nel Ducato di Parma; egli pure storico militare e sag-
gista, ma anche poeta, e col nome di APA (Andrea Pastor Arcade). Il che, volendo, potrebbe riportarci al gatto Kuli Khan che dal suo orcio caprino traguarda la scritta ET IN ARCADIA EGO! sullo Shepherds Monument, e la criptica iscrizione O.U.O.S.V.A.V.V su cui si sono invano scervellati gli ultimi due superstiti di Bletchley Park, ormai ottuagenari (in realtà significa banalmente Orator ut Omnia sunt vanitas vanitatum: dal che si deduce incidentalmente che per rendere indecrittabili le comunicazioni cifrate non occorre tradurle in Navajo, basta il latino). In attesa del Codice Algarotti (il prossimo best seller di Dan Brown, in libreria a settembre), segnalo al lettore anche il Discorso XII, “sopra l’Ammiraglio Anson”, e l’XI, «sopra la potenza militare in Asia delle compagnie mercantili di Europa», indirizzato al signor Prospero Jackson («il mercante bibliofilo e colto che portava il nome dell’illustre padrino, l’allora cardinale Prospero Lambertini», v. Anna Vittoria Migliorini, Diplomazia e cultura nel Settecento: echi della guerra dei sette anni, 1984, p. 57). Chiedendosi «come è mai che una piccola mano di milizie Europee al soldo di quelle compagnie possa far fronte agl’interi eserciti dei re Indiani», Algarotti risponde «con l’ajuto di un loro libretto Inglese che mi è novellamente capitato alle mani», e da cui trae varie spiegazioni tecniche: la mancanza di una fanteria disciplinata e agguerrita, i problemi logistici moltiplicati dal codazzo delle famiglie e dei mercanti aggregati all’esercito, la vulnerabilità degli elefanti alle «artiglierie Europee, meglio maneggiate assai, e più maneggevoli delle Asiatiche»; ma, soprattutto, una mentalità refrattaria all’innovazione, abituata, fin dall’epoca degli “Eunuchi” di Ciro, a «piegare il collo sotto al più duro dispotismo senza mai aver tentato di respirare la dolce aura della libertà». Questo giudizio sotteso di disprezzo spiega perché gli europei, e in particolare la Compagnia delle Indie, monopolista sin dal 1619 del com101
Risk
La tattica di Voltaire Voltaire espresse in versi la teoria della guerra “male necessario” (La Tactique et autres pièces fugitives, Ginevra, 1774). Il suo libraio Caille (qui, dans son magasin, n’a souvent rien qui vaille) lo convince ad acquistare un nuovo libro, sage autant que beau; La Tattica. Lo legge avidamente, aspettandosi di trovarvi calore e filantropia, e invece …: «Mes amis! C’était l’art d’égorger son prochain». Corre indignato a riportarlo da Caille: “Allez; de Belzebut détestable libraire!”; datelo al cavalier de Tott (“il fait marcher les Turcs au nom de Sabaoth”), a Romanzoff, a Gustavo Adolfo di Svezia, a Eugenio di Savoia, a Federico II di Prussia soprattutto («et soyez convaincu qu’il faut davantage, Lucifer l’inspire bien mieux que votre auteur»). Odio tutti gli eroi!, sbotta finalmente. Da un angolo della libreria lo osserva un giovane curioso: ha lo sguardo sicuro, ma tranquillo e dolce, le spalline da ufficiale; è il cavaliere de Guibert, autore del libro. «Capisco – dice a Voltaire – l’estrema ripugnanza che un vegliardo filosofo, amico del mondo intero, prova nel suo cuore intenerito per il mio mestiere. È poco umano, ma necessario. Caino uccise suo fratello, i nostri fratelli Unni, Franchi e Vandali ci invasero, e non avrebbero desolato le rive della Senna se avessimo meglio saputo la tattica romana. Lamentate forse che ci si difenda? Esistono, credetemi, le guerre legittime. La Lega era nel torto, Enrico IV nel giusto. E non vi ricordate la giornata di Fontenoy? Quando la colonna inglese marciava a passo cadenzato attraverso la nostra armata, mentre voi, a Parigi, facevate la guerra per burla ai grandi spiriti? Che ne sarebbe stato delle loro canzoni,che avrebbe fatto Parigi se quel mattino Luigi non fosse passato sul ponte di Calone? Se tutti i vostri Cesari, a quattro soldi al giorno, non avessero affrontato l’Inglese in partita senza ritorno?». Il filosofo non replica: avverte tutto l’imperio della retta ragione, riconosce che la guerra è la prima delle arti. Ma fa voti che questo bel mestiere non si eserciti mai, e che infine l’equità faccia regnare sulla terra l’impraticabile pace dell’Abbé de Saint Pierre. Dalla Correspondance (éd. Th. Besterman, Paris, 1978-86) emerge tuttavia un tratto meno pacifista. 102
Dichiarando di non voler essere da meno del monaco ignorante che aveva inventato la sanguinaria polvere da sparo, si mise in testa di far adottare dall’esercito francese il carro falcato (currodrepanus) descritto in un anonimo testo bizantino (de rebus bellicis), utilizzato per la redazione di varie voci dell’Encyclopédie. Nonostante l’appoggio del duca di Richelieu e del marchese di Florian e la presentazione di un modellino di carro al ministro francese della guerra, d’Argenson, Luigi XV non prese in considerazione l’impiego dei carri falcati durante la guerra dei sette anni. Il 26 febbraio 1769 Voltaire li propose a Caterina II di Russia contro i Turchi: «non basta fare una guerra vittoriosa contro questi barbari – scriveva – e poi concluderla con una pace qualsiasi; non basta umiliarli, bisogna distruggerli». Anticipava la tattica americana dello shock and awe (2003): la vista dei carri «riempirebbe i Turchi di stupore, e quello che stupisce soggioga”. Pressata dalle insistenze del filosofo, la zarina gli rispose finalmente il 20 maggio 1770 “di aver ordinato la costruzione di due prototipi secondo la descrizione e il disegno di Voltaire e che avrebbe personalmente assistito al collaudo. De questo ordine e di questi propositi è lecito dubitare: l’imperatrice precisò infatti, nella stessa lettera, che i suoi esperti militari ammettevano che i carri sarebbero sì stati efficaci contro truppe serrate, ma osservavano pure che i Turchi combattevano in ordine sparso …” (v. Andrea Giardina, “Introduzione”, in Le cose della guerra, a sua cura, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1989). Che stupisce soggioga». Pressata dalle insistenze del filosofo, la zarina gli rispose finalmente il 20 maggio 1770 «di aver ordinato la costruzione di due prototipi secondo la descrizione e il disegno di Voltaire e che avrebbe personalmente assistito al collaudo. De questo ordine e di questi propositi è lecito dubitare: l’imperatrice precisò infatti, nella stessa lettera, che i suoi esperti militari ammettevano che i carri sarebbero sì stati efficaci contro truppe serrate, ma osservavano pure che i Turchi combattevano in ordine sparso …» (v. Andrea Giardina,“Introduzione”, in Le cose della guerra, a sua cura, Fondazione Lorenzo Valla, Milano, 1989).
storia mercio della seta in Persia e succeduta nel 1622 ai portoghesi nel controllo dell’Isola di Hormuz, non si preoccupassero della fulminea ascesa di Nadir Shah. Capivano, senza nemmeno doverci ragionare troppo, che quella restaurazione del terzo impero islamico avrebbe avuto il solo effetto di sgretolare gli altri due, l’Ottomano e il Moghul, favorendo la penetrazione europea in Medio Oriente e in India. «Ora cammelliere, ora capo di ladri, ammazzatore di un primo suo padrone che presentì voler fare a lui la medesima festa, ora rivestito degli onori del trionfo, ed ora fieramente bastonato sotto alle piante dei piedi, uccisore di un suo zio, della cui opera si era servito»; così lo definiva Algarotti negli ozi militar-misogini di Potsdam (D. VI). Un ritratto che a noi evoca la teoria contemporanea dell’our son of a bitch e la figura di Saddam Hussein, resa tragica dalla sconfitta e dalla fine ignominiosa. Simile fu la politica religiosa di Nadir, tesa a distruggere il potere dei mullah e ad attenuare la rigorosa ortodossia sciita imposta dalla dinastia Safavide, puntando alla riconciliazione coi sunniti ottomani anche per rifinanziare l’esercito con le tasse sul pellegrinaggio dei suoi sudditi alla Mecca. Simili furono pure la crescente ferocia e gli assassinii di familiari, culminati, il 19 giugno 1747, con l’uccisione dello stesso Nadir in un complotto ordito dal nipote e successore. Travolto dalle faide di corte, il regime non sopravvisse che
pochi mesi e l’impero si sfaldò in una serie di satrapie provinciali, parzialmente riunificate non prima del 1760. Bagdad, che nel 1732 aveva resistito al blocco postole da Nadir, ospitò a partire dal 1758 un residente inglese, con una piccola guarnigione di sepoys. Nel 1759 morì Mirza Mehdi Khan Astarabadi, il Tareq Aziz di Nadir, la cui guida persiana alla lingua turca fu pubblicata lo stesso anno con prefazione di Sir Gerard Clauson. Astarabadi, che sotto il regime aveva avuto un rango superiore a quello di primo ministro (Vazir-e-Darbar), lasciò pure una storia delle guerre di Nadir (Tarikh-eJahangoshay-e-Naderi). Nel 1768, durante una visita in Inghilterra, re Cristiano VII di Danimarca ne prese una copia e ne commissionò una traduzione francese a Sir William Jones (17461794), orientalista e specialista di storia antica indiana, pubblicata nel 1770 (Histoire de Nader Chah) e tradotta in inglese nel 1773 (The History of the Life of Nader Shah) con prefazione di Jones. Nel 1996 il libro fu oggetto di un seminario dell’Accademia navale americana di Annapolis, diretto da Ernest Tucker, docente di storia del Medio Oriente presso l’Accademia e recensore del Journal of International Society for Iranian Studies. Il più recente biografo di Nadir (Michael Axworthy, The Sword of Persia: Nader Shah, from Tribal Warrior to Conquering Tyrant, 2006) l’ha definito il “Napoleone della Persia”. Ma nelle Ultime Lettere di Jacopo Ortis Ugo Foscolo scrisse che era Napoleone ad atteggiarsi a Kuli Khan. 103
la libreria
libreria
CINA E INDIA LO YIN E LO YANG DELL’ECONOMIA ORIENTALE
C
Andrea Tani
inque anni fa Tarun Khanna, un giovane e brillante professore di origine indiana che insegna Strategy, Leadership & Governance alla Harvard Business School, richiamò l’attenzione degli Asia watcher con un articolo su Foreign Affaires «Can India overtake China?», scritto in collaborazione con un collega di origine cinese, Yashen Wang, docente al Massachussets Institute of Technology. Nel lavoro si avanzava una tesi piuttosto audace: ovvero che per Paesi in via di sviluppo, dalle capacità e dimensioni dei due colossi asiatici, poteva non essere necessario disporre di ingenti investimenti esteri per progredire rapidamente. Avendo a disposizione un talento imprenditoriale ricco e consolidato da secoli, di multiforme attività nonché fecondato dal giusto clima di libertà per farlo fruttare. Era evidente il riferimento al rapporto fra il dragone cinese - che intercetta da decenni la maggior parte degli investimenti planetari e li indirizza nello sviluppo dirigistico delle sue potenzialità, con i risultati strabilianti che sappiamo - e l’elefante indiano, che riceve una porzione esigua di tali risorse, ma può contare su uno straordinario fermento delle proprie scaturigini economiche, lasciate libere di correre senza alcun condizionamento dall’alto, non tanto per una scelta precisa quanto per le difficoltà amministrative della sgangherata governance indiana a provarci. Il messaggio complessivo dell’articolo era che, come ha scritto Economic Times, «l’approccio bottom up dell’India poteva risultare più redditizio e fruttifero di quello top down utilizzato dalla leadership comunista in Cina». In altre parole, poteva non finire come tutti preconizzavano, ovvero con il consolidamento dell’egemonia cinese. Tutte le opzioni erano aperte. La tesi s’inseriva nel clima di riscoperta di una
TARUN KHANNA Billions of Entrepeneurs Yale University Press pp. 224 • euro 14,90 Osannato dall’Economist e dal Financial Times il libro di Khanna è un merger ben riuscito fra lavoro sul campo e analisi. L’autore non ha parlato con «billions» d’imprenditori, ma ha avuto la fortuna di colloquiare con centinaia di operatori che vivono quotidianamente i problemi dello sviluppo economico. I «miliardi d’impreditori» sono quelli indiani e cinesi, ognuno con caratteristiche diverse e difetti ancor più variegati. Sono loro, insieme, che stanno provocando quei profondi cambiamenti nell’economia mondiale cui accennava Robert Rubin, durante la recente vista romana.
105
Risk India parente prossima della «famiglia dei popoli» di lingua inglese in voga negli Stati Uniti all’inizio del millennio. Prima delle attuali difficoltà, cioè dell’annacquamento dell’alleanza strategica fra Washington e Delhi e del fallimento annunciato dell’intesa sul nucleare civile. Eccetto che nel lungo termine, nel quale la composizione demografica della forza lavoro indiana - fra qualche anno più giovane e vigorosa di quella della Cina - poteva giocare un ruolo decisivo, la stessa tesi risultava tuttavia alquanto improbabile per la difficoltà di poterla sostenere in presenza di fatti incontrovertibili. Il pil di Pechino è tre volte quello indiano, le distanze economiche aumentano invece di ridursi, la cultura del fare, nei due contesti, è incomparabile, come i risultati connessi. Gli indicatori di sviluppo sono sempre più differenziati: dal tasso di alfabetizzazione alla quantità giornaliera di calorie e proteine ingerite dal cittadino medio, alla vita media, alla qualità dell’inurbamento, alle infrastrutture, al reddito procapite, all’accesso dei rispettivi mondi rurali all’acqua corrente e alla telefonia, alla diffusione di pc, eccetera. La Cina appare sempre più irraggiungibile per la sua inesausta capacità di combinare, a marce forzate, sviluppo e stabilità, accumulazione di ricchezza e frugalità, grandi visioni ed estremo realismo nel conseguirle. Il fatto che la disciplinata concordia sociale che rende possibile tutto ciò sia imposta dall’alto, ha meno importanza di quanto non sia percepito in Occidente, che sostiene un’idea di democrazia che, in certi contesti, significa soprattutto ipocrisia e rappresentazione, al di là delle pur nobili intenzioni dei suoi propugnatori. L’autoritarismo oligarchico cinese è largamente interiorizzato da millenni d’enfasi culturale diffusa sull’armonia, la disciplina e l’assenza di conflitti. Obiettivi imposti dall’alto, come supremi traguardi comportamentali dell’uomo e della società. Il rosso militante del marxismo-leninismo è una vernice recente, che ha fatto egregiamente presa sul rosso imperiale di tradizioni molto più antiche, non solo metaforicamente. Oggi fa soprattutto aggio sul rosso delle grandi vendite natalizie dei supermercati di Shangai e Hong Kong. Il risultato complessivo è incontrovertibile: Pechino fa 106
grande politica internazionale, è una superpotenza globale che interagisce attivamente con settanta Paesi e lo fa, non già con le basi militari, le portaerei, il rubinetto del credito internazionale e le agenzie di rating di alcuni competitori, ma con progetti infrastrutturali, interscambi di energia imprenditoriale e petrolifera e macrofinanziamenti dei propri giganteschi fondi governativi. Tutte iniziative, peraltro, caratterizzate da un’indifferenza assoluta alle loro implicazioni etiche. Pecunia non olet, sostenevano gli antichi, contemporanei dell’Impero di Mezzo; gli epigoni attuali della medesima istituzione continuano ad essere affetti dalla stessa anosmia. Piuttosto che l’India, i rivali veri della Cina risultano sempre più l’Unione Europea e il Giappone, in attesa di veder salire sul ring gli Stati Uniti in persona. Anche i recenti tumulti tibetani e il terremoto del Sichuan, che l’autore non poteva prevedere (almeno il secondo), dimostrano come Pechino mantenga il saldo controllo della situazione interna a dispetto di tutti i tentativi dell’uomo e della natura di strapparglielo di mano. Non così inverosimile sarebbe invece un aggregato di interrogativi sul genere di quelli avanzati da «Can India overtake China?», nel contesto di specifici settori economici, nei quali le realtà produttive indiane hanno dimostrato di possedere una capacità di innovazione superiore a quelle delle omologhe cinesi. Si tratta di certe nicchie legate ai servizi, alla finanza, all’informatica, all’infotainment, alla creazione di miti e riti postmoderni - al soft power, come schematizza l’autore, parafrasando Joseph S. Nye. Questo succede anche perché i corrispondenti settori cinesi - non ci sono nicchie in Cina, sarebbe una contraddizione ideo-praxeologica - soffrono, oltre che dell’ingessamento imposto dal regime autoritario che regna a Pechino, della tabula rasa della creatività individuale determinata da quaranta anni di repressione maoista, che ha annientato il pregresso dell’Impero di Mezzo, del tutto corrispondente all’omologo indiano. Nessuna innovazione significativa, a parte la pirateria intellettuale su vasta scala e l’agopuntura, è infatti venuta dalla Cina in questi decenni. Anzi, non si è vista dai tempi della carta, della stampa, della ceramica e
libreria della polvere da sparo - per inciso, questa terra bruciata dell’ispirazione non è affatto percepita in Occidente, che non approfondisce più di tanto, in presenza di un labour così cheap. L’Economist cita come esempio recente del divario di creatività fra i due giganti il progetto dell’auto globale a bassissimo costo/prezzo di Tata, un prodotto rivoluzionario realizzato proprio nel terreno di caccia favorito dei cinesi, il manifatturiero. Un breaktrough che non ha alcun corrispettivo in qualsiasi altro comparto merceologico, nel quale i medesimi esercitino un ruolo rilevante, ma che non può modificare il divario complessivo fra le due economie, che nei cinque anni dalla pubblicazione dell’interrogativo di Khanna e Wang si è andato ampliando. Billions entrepeneurs non può quindi che mettere da parte la pur suggestiva ipotesi di un sorpasso dell’India a favore di un approccio più sobrio e distaccato. Invece di chiedersi chi arriverà primo, l’autore ora bada al concreto e si concentra sull’analisi delle strategie e dei percorsi di gara dei due contendenti, o meglio co-protagonisti del futuro dell’Asia e del mondo. Si tratta delle differenze nelle rispettive traiettorie di sviluppo, dei punti di forza e debolezza, delle influenze che i vari modelli potranno avere all’esterno, dei rapporti con le rispettive diaspore nazionali - che formano due lobby autorevolissime in campo internazionale, ma sono state trattate assai diversamente dalle rispettive Madrepatrie - della definizione di modelli di business e rapporti di interazione per l’imprenditoria straniera. I risultati delle analisi, scaturite nel corso di vari anni di viaggi, indagini e interviste dell’autore con centinaia di personalità, ma anche con l’uomo della strada, sono affascinanti, perchè espressi in modo stilisticamente mirabile. La prosa di Khanna riesce a fondere l’essenzialità dell’inglese, con la ricchezza della cultura indiana dalla quale egli proviene, con risultati sorprendenti, in chiarezza e profondità. Le conclusioni sono penetranti, molto differenziate e tutt’altro che scontate. Mai come in questo caso vale l’assunto che i libri importanti vanno letti per intero e non per recensioni. Esse confermano la difformità delle due vicende, corrispondenti a mondi antitetici più che a singole costruzioni istitu-
zionali. Cina e India non potrebbero essere più diverse, realmente yin e yang, come asiaticamente schematizza il professore di Harvard. La prima è «assurdamente pluralista» e si compiace di quella che considera una suprema dialettica, ma che in realtà è un’inconcludente anarchia. La seconda è «disperatamente rigida»; si rende conto che alla lunga potrebbe spezzarsi ma non sa come diventare più flessibile o magari solo morbida. Entrambe devono il loro successo a fenomeni che altrove avrebbero portato alla catastrofe già da tempo. Il caos indiano va al di là di ogni immaginazione, e fa sembrare la cintura vesuviana un cantone svizzero di lingua tedesca. Eppure la stessa anarchia ha generato direttamente, insieme al più corrotto e inefficiente apparato politico del mondo - dove un quarto dei funzionari eletti hanno precedenti penali conclamati - e alle più sconquassate infrastrutture dell’Asia, un mercato azionario solido, efficiente e vitale, un sistema finanziario di livello internazionale, una vivacità imprenditoriale straordinaria e le nicchie di eccellenza alle quali abbiamo fatto cenno. Come se la cintura vesuviana avesse generato il Neorealismo, Tiscali, Piazza Affari, la Bocconi, il Politecnico di Torino e Mediobanca, e non solo la criminalità organizzata e «a’ munnezza». Aonor del vero presenti anch’esse in India in copiosa misura. Analogamente - ma all’inverso - in Cina si sono affermati un impianto politico spietatamente autoritario e uno economico misto, comprendente componenti statali gestite con criteri privatistici e altre completamente deregolate. Un mix che altrove era stato etichettato come fascismo, scomunicato politicamente e liquidato nel giro di qualche lustro. Mentre nella terra degli Han sta mostrando una performance straordinaria, almeno da un quarto di secolo, in barba a tutte le teorie generali sui massimi sistemi. E nessuno si sogna di scomunicarlo, di chiamarlo fascista o auspicarne una liquidazione che farebbe collassare la struttura economica del pianeta. Sia in India che in Cina, le contraddizioni sono la regola. Tanto da far dubitare delle nostre certezze che sono poi certezze greco-romane, giudeo-cristiane, anglo-sassoni e così ancora “binomiando”. E forse equivocando, perché non è scritto da 107
Risk nessuna parte che l’umanità debba scorrere sui binari dimensionati, in Inghilterra, su carriaggi che avevano stabilito il loro passo dai solchi lasciati sulle strade dagli antichi colonizzatori romani. Se i carri fossero stati cinesi o indiani, lo scartamento e quindi i treni sarebbero stati diversi. In Russia è così, e forse non a caso, a parte le ragioni militari. La mutazione sta prendendo corpo sotto i nostri occhi. Sembra arrivato il momento di riconoscere che le rotaie sulle quali scorrerà il mondo che si sta configurando non avranno necessariamente le misure imposte dai binomi di cui sopra, ma quelle che scaturiranno dall’intera-
zione dei milioni di rivolgimenti in atto nelle varie parti del pianeta, che sono largamente rappresentati nelle contraddizioni cinesi e indiane. Prima lo capiranno gli abitanti del nostro primo mondo, arrogante quanto ignorante, meglio sarà. Ben vengano quindi questi sprazzi di verità, con i quali il meticciato intelligente dell’est e dell’ovest illumina le nostre coscienze. Conferendo un’autentica valenza conoscitiva alla globalizzazione. È da auspicarsi che essa penetri in profondità e scuota dalle fondamenta tutte le sicurezze: quelle di chi comincia ad avere qualche sospetto e quelle di chi non ha proprio capito.
LE GUERRE CHE NON ESISTONO Gli italiani e le operazioni di pace, nei rapporti fra politica e media Luigi Ramponi
i già numerosi libri sulle operazioni di pace che sono stati pubblicati negli ultimi anni e che hanno costituito nel complesso una valida e preziosa testimonianza delle caratteristiche, dello sviluppo, del significato, dei rischi e delle avventure vissute dai nostri soldati, se n’è aggiunto di recente uno nuovo dal titolo: IraqAfganistan guerre di pace italiane, scritto da Gianandrea Gaiani. Certamente ogni nuovo libro ha caratteristiche proprie, ma questo di Gaiani presenta molti aspetti diversi, non limitandosi (come peraltro fa egregiamente) a raccontare, ma inserendo anche
A 108
considerazioni e concetti che suscitano grande interesse, entrano nel profondo dei problemi, spiegano le ragioni di certi discutibili atteggiamenti del nostro Governo ed offrono nel complesso al lettore un quadro globale e assai completo della situazione relativa alle operazioni internazionali italiane. Già nel titolo, il libro presenta un modo inconsueto di definire le operazioni internazionali italiane in Iraq e Afganistan, chiamandole “Guerre di Pace”; e per tutto lo sviluppo della narrazione, l’autore vuole dimostrare come in realtà tali operazioni, in determinati momenti, abbiano comportato situazioni operative tali da essere più correttamente considerate operazioni di combattimento in ogni senso. Una cosa
GIANANDREA GAIANI Iraq-Afghanistan, guerre di pace italiane Studio Lt2 Editore pp. 260 • Euro 18,00 Alla ricerca della via italiana alla guerra. Schierare le truppe e poi fare esercizi di diplomazia ed equilibrismi tattici per non dispiacere governi nazionali ultrapacifisti e alleati sul campo affamati di truppe combat ready. In molti teatri bellici il nostro Paese ha schierato militari in numero insufficiente, con armamenti leggeri, inadeguati per affrontare milizie e terroristi. Altre volte ha inviato contingenti ben dimensionati, ma non autorizzati a combattere, cioè a fare il loro mestiere. L’autore scopre realtà e ipocrisie di un Italia “pacifista”, chiunque governi. La realtà dei combattimenti in Afghanistan e l’ipocrisia di non poterne parlare. Censura mediatica sui conflitti e oblio sociale sui nostri eroi di guerra. Brutte figure e lutti. Il libro è un’analisi approfondita sui temi operativi, politici e di comunicazione legati alle nostre missioni militari fuori area. Scritto da un esperto che collabora con numerosi quotidiani nazionali fra cui Il Foglio, Il Sole24Ore, Panorama e Radio Capital ed ha insegnato all’Istituto superiore di stato maggiore interforze (Issmi). Dal suo lavoro scaturisce un quadro che sottolinea quanto questo comportamento “ambiguo” stia inesorabilmente condizionando la politica estera italiana, spingendo l’Italia ai margini dell’Occidente.
libreria deve essere subito ben chiara: non vi è alcun dubbio che tali operazioni non sono condotte per fare la guerra né all’Iraq, né all’Afganistan. Esse si propongono di assicurare pace e accettabili condizioni di vita a povere popolazioni in situazione di grave emergenza e per difendere tali popolazioni a volte, sono impegnate in combattimento contro terroristi e insorgenti che vogliono ribellarsi ai governi legittimi, riconosciuti dall’Onu. Sono operazioni per mantenere o riassicurare la stabilità e la pace, ma è vero che in molte occasioni hanno assunto la caratteristica di operazioni belliche e non certo per loro iniziativa. Nei confronti della partecipazione italiana all’operazione Enduring Freedom contro i Talebani in Iraq, l’autore nel sottolineare il fatto che i nostri alpini prima e i paracadutisti successivamente furono impiegati in una vera e propria zona d’operazioni, denuncia l’atteggiamento perennemente oscillante delle nostre autorità governative, sempre tentennanti tra la necessità di rispondere positivamente alle richieste di partecipazione degli alleati e il proprio desiderio di non impegnare le nostre truppe in operazioni di combattimento. In molti casi ne sono derivate carenze nel tipo di armamenti portati al seguito e caveat operativi che spesso ne mortificarono lo spirito e la professionalità. Tipico è stato il caso degli Incursori d’Esercito e Marina che hanno partecipato all’operazione ma nel modo così descritto da Gaiani: «l’Italia schierò forze speciali in Afganistan, nell’ambito di una operazione di guerra ma cercò con ogni escamotage e caveat di evitare che queste fossero coinvolte nel conflitto e che venissero impiegate per le loro reali capacità...». Parlando dell’operazione Antica Babilonia in Iraq, l’autore, a ragione, stigmatizza la non necessaria e non vera indicazione della operazione come operazione “umanitaria”. Personalmente ricordo il disappunto provato in quella occasione! Certamente tale errore fu dettato da uno sciocco timore di chiamare l’operazione con il suo vero nome e cioè operazione di peace keeping e non solo “umanitaria”. Nel tratteggiare i fatti più significativi occorsi durante Antica
Babilonia, da una parte emergono la dedizione e la capacità professionale messa progressivamente in luce da parte dei nostri soldati a tutti i livelli, dall’altra ancora una volta, Gaiani denuncia e critica la inaccettabile lentezza dimostrata dalle autorità nazionali, sempre condizionate da irresponsabili e incompetenti “ragioni politiche” nell’assicurare alle forze sul campo, la disponibilità di sistemi d’arma adeguati a contrastare le minacce. Anche qui emerge l’allora errata convinzione che dotando le nostre forze di armamenti leggeri e inadeguati, se ne potesse limitare il loro impegno bellico. E intanto i terroristi sparavano su di loro con mortai e razzi a volontà! Un aspetto che mi piace evidenziare, si riferisce all’assoluta indipendenza dell’autore da condizionamenti di carattere politico - soprattutto di sinistra - manifesti o più o meno celati che hanno sino ad oggi accompagnato l’opera dei molti che hanno scritto sull’argomento, facendo perdere loro credibilità ed affidabilità da parte dei lettori. In questi ultimi tempi il popolo Italiano si è assai stancato di favole e bugie, e, se mi è consentita una licenza dialettal-lessicale, ormai è ora di capire che «accà nissciuno è...». Coerentemente con tale atteggiamento, l’autore, nel criticare il comportamento censorio sulle notizie dai vari teatri d’operazioni internazionali, scrive: «se il Governo Berlusconi ha la responsabilità di aver inaugurato la stagione della censura, sulle missioni di pace a maggior conflittualità, il governo Prodi e riuscito nella difficile impresa di peggiorare ulteriormente la situazione (...) grazie alle iniziative del ministro della Difesa Arturo Parisi, preoccupato di non fornire utili spunti non tanto all’opposizione di centro destra, quanto all’ala comunista e pacifista dell’Unione». Non come consolazione, ma per onestà intellettuale si deve affermare che certi atteggiamenti censori si verificano anche in altri Stati e per ragioni analoghe e comunque assolutamente non giustificabili. Riprendendo il discorso su quanto espresso nel libro, non si può fare a meno di constatare l’alto livello di preparazione e di competenza di cui l’autore si può avvalere, sia nel raccontare e valutare episodi autenti109
Risk ci, sia nell’analizzare ragioni,motivazioni eventualmente errori di carattere politico ma anche operativo che costituiscono il contesto nel quale si sono sviluppati i fatti. Soprattutto negli ultimi due capitoli del libro, rispettivamente intitolati «L’Europa imbelle» e «Un nuovo 8 settembre?», l’autore offre la misura della sua preparazione in sede politica militare e diplomatica. Nel primo, quello concernente l’Europa critica l’atteggiamento, appunto «imbelle» al limite della codardia, dei vari stati europei, ad eccezione della Gran Bretagna, nel loro impegno per difendere l’Occidente dalle minacce portate dall’odio xenofobo degli estremisti e dei terroristi. Gaiani arriva anche a ridicolizzare certe scuse addotte per non partecipare in modo corretto e deciso alla lotta per la difesa della nostra civiltà,pur di riuscire ad ottenere il minimo impegno possibile. Nel secondo, quello
sul «nuovo 8 settembre» - chiaramente riferito all’Italia - documenta con dovizia i ripetuti atteggiamenti ondivaghi del nostro Paese in politica estera e militare. Censura certi tentativi ricorrenti di tenere il piede in due staffe, prescindendo da ogni giudizio sul merito e sui diritti delle parti in conflitto. Solo preoccupato di non esporsi troppo e di non correre alcun rischio, neppure per il trionfo della giustizia o per la difesa del buon diritto. La conclusione come si vede è amara. Pur nell’abbondanza di denuncie di episodi e di atteggiamenti non proprio esaltanti, la lettura è sempre molto attraente e interessante. In fondo l’autore attraverso la verità, a volte scomoda e amara, stimola al recupero del coraggio e della dignità. La svolta politica di recente avvenuta in Italia pare andare in questa direzione. Speriamo di saper cogliere il momento.
LE STELLETTE A SEI PUNTE DI MUSSOLINI
L
Storia dei soldati ebrei nell’esercito fascista Mario Arpino
’antisemitismo non esiste in Italia. Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente. Essi occupano posti elevati nell’esercito. Tutta una serie sono generali». Così si esprimeva Benito Mussolini nel marzo del 1932. Primo
«
110
tra questi Giuseppe Ottolenghi, già tutore militare del futuro Vittorio Emanuele III e ministro della Guerra del Regno d’Italia. Solo sei anni dopo, era il 17 novembre 1938, veniva firmato dallo stesso Vittorio Emanuele III, e controfirmato da Mussolini, Ciano, Solmi, De Revel e Lantini, il regio decreto legge n. 1728, sottotitolato «Provvedimenti per la difesa della razza italiana». All’articolo 10 il decreto recitava testualmente: «i cittadini di
GIOVANNI CECINI I soldati ebrei di Mussolini Mursia pp. 280 • euro 17 La legislazione antiebraica del 1938 portò, tra i tanti sciagurati provvedimenti, anche alla totale espulsione dalle Forze armate italiane di tutti i militari di religione ebraica. Tragedie personali e familiari all’ombra del grigioverde nazionale. Dopo anni in cui lo stesso regime fascista li aveva perfettamente integrati nell’istituzione nazionale, cui facevano parte di buon diritto fin dal Risorgimento, con l’avvicinamento a Hitler, la nascita dell’Impero e la virata totalitaria, arrivò il contrordine. Il contributo di questa componente di italiani fu attiva anche nella guerra d’Etiopia e nella guerra civile spagnola. Il regime fascista arrivò persino ad appoggiare alcune frange «sioniste revisioniste», per ostacolare la presenza britannica in Palestina. Molti di coloro che sopravvissero alle epurazioni trovarono il modo per combattere di nuovo per l’Italia o nel ricostituendo Esercito regio nel sud del Paese o nelle fila della Resistenza. Lavoro accurato ed analitico della presenza ebraica nelle Forze armate del Ventennio.
libreria razza ebraica non possono: a) prestare servizio militare in pace e in guerra; b) esercitare l’ufficio di tutore o curatore di minori o di incapaci non appartenenti alla razza ebraica». Cosa era successo, nel breve lasso di sei anni, per un mutamento così radicale? Nel suo libro Giovanni Cecini cerca di capirlo e farlo capire, e ci riesce con successo. È ovvio che, trattandosi di un’opera basata su una paziente ricerca, per non perdersi bisogna lasciarsi un po’ guidare dall’autore, che approfondisce prodromi, contesto politico e storie personali di singoli attori. In effetti, l’improvvisa impennata mussoliniana del 1938 non è in linea con la storia politica italiana, almeno dal Risorgimento in avanti, né con la storia del fascismo prima maniera. Così come la firma sul decreto di Vittorio Emanuele non è affatto in linea, anzi tradisce, la tradizione di casa Savoia, che, con decreto luogotenenziale del 15 aprile 1848, sull’onda costituzionalista dell’epoca, stabiliva «(…) gli israeliti regnicoli saranno quindi innanzi ammessi a far parte della leva militare, di conformità alle leggi e disciplina esistenti». I soldati ebraici in effetti si comportarono bene in tutte le guerre risorgimentali, in quelle coloniali e durante la grande guerra. Non mancarono episodi di vero valor militare e spirito patriottico, come quando, nelle battaglie della guerra 1848 – ‘49, bersaglieri israeliti dell’8va compagnia recuperarono alla Bicocca la bandiera reggimentale o quando altri correligionari si distinsero a Milano nel salvataggio di Carlo Alberto, durante l’assedio di casa Greppi. E’ evidente che la situazione in Italia era ben diversa da quella di altri Paesi europei, dove gli ebrei erano tagliati fuori – è il caso di Germania e Russia – o mal tollerati, come in Gran Bretagna o nella Francia della terza repubblica. Quì, la vergognosa condotta del caso del capitano israelita Alfred Dreyfus portava in superficie un profondo scontro socio-cuturale, inimmaginabile in un Paese che si dichiarava laico, democratico e liberale. La derisa “italietta”, tra le tante magagne, era esente almeno da questo. E’ proprio dall’affaire Dreyfus che prende il via il percorso d’indagine di
Giovanni Cecini, che, come hanno fatto altri storici, forse con più ampio respiro ma certo con meno meticolosità analitica, distingue tra gli eventi accaduti prima e dopo l’8 settembre 1943. Ciò porta a evidenziare quello che casa Savoia e il fascismo hanno fatto autonomamente prima di questa linea di demarcazione, e ciò che invece il fascismo ha compiuto, o ha lasciato che accadesse, collaborando con i tedeschi dopo tale data. Il parallelismo tra antisemitismo italiano e quello tedesco non giova certo all’immagine dell’Italia, anche se si tratta di un periodo sostanzialmente assai limitato della sua storia. In ogni caso, casa Savoia e fascismo ne escono senza ombra di dubbio condannati, e senza appello. Il libro, corredato da ampie note, estesa bibliografia e utile indice dei nomi, è scorrevole, metodologicamente ben organizzato e piacevole da leggere, o, se si vuole, anche da scorrere con meno impegno. C’è da dire che, una volta iniziata le lettura, è difficile fermarsi, o non tornarci sopra attraverso le note. L’opera, agile anche se è evidente la fatica della ricerca, si articola in una sostanziosa introduzione, sette capitoli e tre appendici, che riportano nell’ordine il decreto luogotenenziale del 1848, il testo dei cosiddetti provvedimenti per la difesa della razza e quello, successivo, per le disposizioni esecutive nei confronti dei militari israeliti. Una lettura attenta del primo capitolo, «1848-1935: dalla Nazione al nazionalismo», è essenziale per comprendere lo spirito informatore dell’opera. Il lettore troverà una quantità di nomi e di dati numerici inediti sulla partecipazione degli israeliti italiani, militari, volontari o civili, a tutti gli eventi della formazione dell’Italia come Stato–nazione, dai moti carbonari sino alle guerre coloniali. Secondo Mario Toscano, ampiamente citato nelle note e nella bibliografia, «l’ora della prova» della fedeltà degli ebrei rimane comunque la prima guerra mondiale, con circa 5.500 partecipanti, oltre 250 morti, e cinque medaglie d’oro. Spiccano personaggi che faranno parlare di sé anche negli anni seguenti, come Aldo Finzi, pilota in guerra e primo fondatore dell’Aeronautica, il generale 111
Risk Emanuele Pugliese, che fu parte avversa durante la marcia su Roma, ed il generale Guido Liuzzi, per lunghi anni uno dei militari ebrei più illustri e rappresentativi. Anche il secondo capitolo è di stimolante interesse, per la quantità di notizie spesso inedite, quindi sconosciute ai più, che è possibile reperire. Quanti dei nostri lettori, ad esempio, sanno che tra il 1935 e 1936, ai tempi della guerra d’Etiopia, accanto all’ordinariato militare funzionava ed esisteva un rabbinato militare? Nel capitolo terzo, 1936 -38, l’autore passa ad esaminare le premesse della legislazione antiebraica in Italia, facendo notare come, dopo la guerra d’Etiopia e durante quella di Spagna, durante le quali si distinsero molti militari israeliti, nel Paese e nella dottrina fascista non vi fossero ancora elementi di antisemitismo, ma, semmai, di culto delle così dette “virtù italiche” di romana discendenza. Fu con l’avvicinamento a Hitler, forzato dall’isolamento in cui si era venuta a trovare l’Italia a causa delle sanzioni, che il culto della romanità e dell’orgoglio nazionale si trasformò in culto della razza, della sua difesa e, quindi, di crescente diffidenza verso gli ebrei. C’è da dire che, fino all’emissione delle leggi, il fenomeno stentò ad attecchire nelle forze armate. Il quarto capitolo, che prende in esame il periodo tra il 1938 e il 1940, dopo, cioè, l’emanazione delle leggi, cerca in qualche modo di dare un razionale alla loro applicazione nell’ambito militare. Nella riunione del 6 e 7 ottobre del Gran consiglio del fascismo il triunviro Italo Balbo, in opposizione agli intransigenti, cercò di far passare il concetto di “discriminazione” di quei militari ebrei – e delle relative famiglie – che nelle guerre regnicole erano stati decorati al valor militare o avevano ben meritato. Lasciamo scoprire al lettore quale fu l’esito di questa diatriba “applicativa”, segnalando solo che il termine “discriminazione” era allora usato in positivo, comportando la possibilità di mantenere dei privilegi. Una vera miniera di aneddoti e di episodi quantomeno curiosi è il capitolo quinto, riferito al periodo bellico 1940 – 1943, dove si vede il progressivo irrigidi112
mento dell’applicazione delle leggi, con i paradossi e le storture che, ovviamente, ne derivavano. Il penultimo capitolo, il sesto, che tratta la dicotomia tra le due Italie tra il 1943 e il 1945, ne mette in evidenza una seconda: mentre sul territorio metropolitano l’applicazione delle leggi era molto rigida, e in alcuni casi anche spietata, nei territori stranieri ancora occupati dalle nostre truppe e gestiti dalle nostre autorità si cercava di sottrarre con ogni artificio i cittadini ebrei dalle violenze dei nazisti. Impressionanti, tra cronaca e storia, sono le pagine che Giovanni Cecini dedica alle vittime ebraiche della reazione nazifascista alla Resistenza, tra le quali il colonnello pilota Giuseppe Montezemolo, il maggiore dei paracadutisti Umberto Lesena e lo stesso Aldo Finzi, già citato come firmatario dell’atto costitutivo dell’Aeronautica, accomunati nella sorte alle fosse Ardeatine. «La memoria in chiaroscuro nel secondo dopoguerra» è il titolo dell’ultimo capitolo, il settimo, quello che, a mio avviso, da un senso a tutto il libro. Tanto che, forse, bisognerebbe leggerlo per primo, come vera chiave di interpretazione. Oppure, rileggere il libro. Perchè c’erano tanti militari ebrei durante il fascismo? Perché, dopo le leggi, molti di essi non vollero rassegnarsi a lasciare l’uniforme e continuarono ad amare una Patria che aveva dimostrato loro tutta la propria ingratitudine? Perché tutto questo è stato rimosso nel dopoguerra dalla memoria collettiva nazionale e, forse, anche da quella degli stessi ebrei italiani? E’ un libro che va letto con attenzione: le risposte ci sono tutte. «A partire dall’11 settembre, in Europa, sono stati effettuati 2.300 arresti legati al terrorismo islamista, contro la sessantina compiuti negli Stati Untiti». Così scrive Marc Sageman nel suo autorevole volume fresco di stampa Leaderless Jihad: Terror Networks in the Twenty-First Century (edito University of Pennsylvania Press). Questo paragone statistico induce Sageman, in un capitolo da lui titolato «Lo Spartiacque Atlantico», a trarre le generiche conclusioni riguardo al maggior numero di casi legati ai
libreria musulmani d’America. «La percentuale pro capite di arresti per accuse di terrorismo fra i musulmani è sei volte maggiore in Europa rispetto agli Stati Uniti». Il motivo di questa discrepanza, arguisce l’autore, «sta nel grado di radicalizzazione di queste rispettive comunità musulmane». Sageman elogia «l’eccellenza culturale americana», esorta i governi europei «a non commettere degli errori che potrebbero condurre alla perdita della buona volontà presente nelle comunità musulmane» e invita gli europei a trarre insegnamento dagli americani. Le argomentazioni di Sageman si rifanno a quanto scritto da Spencer Ackerman in un articolo di copertina apparso su New Republic alla fine del 2005. Vale a dire che «la crescente cultura musulmana di estraniazione, di emarginazione e jihadista presente in Europa non affonda le radici» negli Stati Uniti. Ma l’intera tesi di Sageman si fonda sulle cifre dei 2.300 e dei 60 arresti. A prescindere dalle altre possibili spiegazioni causali di tali differenze, come ad esempio il sistema giudiziario europeo che lascia più spazio agli arresti per terrorismo, tali numeri sono ancora esatti? L’autore da una conferma, limitandosi a una breve ed elusiva nota a pie’ pagina: «per un aggiornamento, Eggen and Tate, 2005; Lustick 2006; 151-152 in accordo a questa stima». «Eggen and Tate, 2005» si riferisce a un articolo in due parti apparso su un quotidiano e «Lustick, 2006» si richiama a uno screditato scritto estremista. In effetti, i numeri forniti da Sageman sono vergognosamente imprecisi. Gli arresti europei. Le cifre prodotte da Sageman riguardo l’Europa sono gonfiate. L’Europol, l’Ufficio europeo di polizia, ha diffuso i dati statistici che mostrano che, nel 2007, 201 islamisti sono stati fermati nell’Unione europea (oltre che in Gran Bretagna) per accuse legate al terrorismo di contro a 257 fermi del 2006. Le precedenti statistiche dell’Europol sono meno chiare, ma un’accurata indagine condotta per mio conto da Jonathan Gelbart della Stanford University dimostra che nel 2005 sono stati compiuti 234 arresti, nel 2004 ne sono stati effettuati 124 e, nel 2003, 137. In tutto, l’ammontare complessivo
degli arresti per reati di terrorismo effettuati nell’Europa Occidentale sembra essere inferiore ai 1.400 fermi. Gli arresti americani. Secondo il dipartimento di Giustizia statunitense, le cifre prodotte da Sageman riguardo l’America andrebbero moltiplicate almeno per dieci. Il portavoce del dipartimento Sean Boyd, secondo un reportage di Fox News, ha rivelato che «527 imputati sono stati incriminati per terrorismo oppure sono stati riconosciuti colpevoli in processi legati al terrorismo in seguito ad indagini principalmente condotte dopo l’11 settembre. Tali processi hanno portato a 319 verdetti di colpevolezza, con altre 176 cause pendenti». Inoltre, come da me documentato nell’articolo «Negare il terrorismo (islamista)», i politici, le forze dell’ordine e i media sono riluttanti ad ammettere gli episodi di terrorismo, pertanto le cifre reali degli arresti per terrorismo sono decisamente più elevate. Visto che la popolazione musulmana presente negli Stati Uniti è di circa un settimo della sua controparte presente in Europa Occidentale - 3 milioni contro 21 milioni - servirsi delle cifre che rilevano 527 arresti negli Stati Uniti e 1.400 in Europa denota che la percentuale pro capite degli arresti di musulmani accusati di terrorismo in America è 2,5 volte maggiore rispetto all’Europa e non, come asserito da Sageman, di 6 volte inferiore. In effetti, Sageman - al quale è stata offerta la possibilità di replica a questo articolo, ma senza successo – ha sbagliato di un valore che è circa 15 volte superiore. Il suo errore ha delle importanti implicazioni. Se negli Stati Uniti il terrorismo pro capite è di 2,5 volte maggiore rispetto all’Europa, malgrado i musulmani presenti godano di una posizione socioeconomica decisamente migliore, è improbabile che i miglioramenti socio-economici risolvano i problemi del Vecchio Continente. Questa conclusione include un argomento più vasto, vale a dire che l’islamismo ha poco a che fare con questioni di natura economica e non solo. Detto in maniera diversa, le idee rivestono più importanza delle condizioni personali. Come da me asserito nel 2002: «i fattori che induco113
Risk no l’Islam militante al declino o al progresso sembrano avere molto più a che fare con questioni legate all’identità piuttosto che all’economia». Chiunque accetti la visione islamista (o comunista oppure fascista) – che sia ricco o povero, giovane o vecchio, uomo o donna – accetterà altresì l’infrastruttura ideologica che in fieri conduce alla violenza, incluso il
terrorismo. In termini politici, gli americani non hanno motivo di compiacersi. Sì, è vero, gli europei dovrebbero in effetti trarre insegnamento dagli Stati Uniti per migliorare l’integrazione della loro popolazione musulmana, ma non dovrebbero aspettarsi che così facendo questo mitigherà i loro problemi con il terrorismo. Al contrario, ciò potrebbe peggiorarli.
IL TERRORISMO ISLAMICO È MADE IN USA O IN UE? Storia, dati controversi e lotta al radicalismo musulmano nei due continenti
Daniel Pipes negli Stati Uniti. Ma l’intera tesi di Sageman si fonda sulle cifre dei 2.300 e dei 60 arresti. A pre«A partire dall’11 settembre, in Europa, sono stati scindere dalle altre possibili spiegazioni causali di effettuati 2.300 arresti legati al terrorismo islamista, tali differenze, come ad esempio il sistema giudiziacontro la sessantina compiuti negli Stati Untiti». rio europeo che lascia più spazio agli arresti per terCosì scrive Marc Sageman nel suo autorevole volu- rorismo, tali numeri sono ancora esatti? L’autore da me fresco di stampa Leaderless Jihad: Terror una conferma, limitandosi a una breve ed elusiva Networks in the Twenty-First Century (edito nota a pie’ pagina: «per un aggiornamento, Eggen University of Pennsylvania Press). Questo parago- and Tate, 2005; Lustick 2006; 151-152 in accordo a ne statistico induce Sageman, in un capitolo da lui questa stima». «Eggen and Tate, 2005» si riferisce a titolato «Lo Spartiacque Atlantico», a trarre le gene- un articolo in due parti apparso su un quotidiano e riche conclusioni riguardo al maggior numero di «Lustick, 2006» si richiama a uno screditato scritto casi legati ai musulmani d’America. «La percentua- estremista. In effetti, i numeri forniti da Sageman le pro capite di arresti per accuse di terrorismo fra i sono vergognosamente imprecisi. Gli arresti euromusulmani è sei volte maggiore in Europa rispetto pei. Le cifre prodotte da Sageman riguardo agli Stati Uniti». Il motivo di questa discrepanza, l’Europa sono gonfiate. L’Europol, l’Ufficio euroarguisce l’autore, «sta nel grado di radicalizzazione peo di polizia, ha diffuso i dati statistici che mostradi queste rispettive comunità musulmane». no che, nel 2007, 201 islamisti sono stati fermati Sageman elogia «l’eccellenza culturale americana», nell’Unione europea (oltre che in Gran Bretagna) esorta i governi europei «a non commettere degli per accuse legate al terrorismo di contro a 257 fermi errori che potrebbero condurre alla perdita della del 2006. Le precedenti statistiche dell’Europol buona volontà presente nelle comunità musulma- sono meno chiare, ma un’accurata indagine condotne» e invita gli europei a trarre insegnamento dagli ta per mio conto da Jonathan Gelbart della Stanford americani. Le argomentazioni di Sageman si rifan- University dimostra che nel 2005 sono stati comno a quanto scritto da Spencer Ackerman in un arti- piuti 234 arresti, nel 2004 ne sono stati effettuati colo di copertina apparso su New Republic alla fine 124 e, nel 2003, 137. In tutto, l’ammontare comdel 2005. Vale a dire che «la crescente cultura plessivo degli arresti per reati di terrorismo effettuamusulmana di estraniazione, di emarginazione e ti nell’Europa Occidentale sembra essere inferiore jihadista presente in Europa non affonda le radici» ai 1.400 fermi. Gli arresti americani. Secondo il 114
libreria dipartimento di Giustizia statunitense, le cifre prodotte da Sageman riguardo l’America andrebbero moltiplicate almeno per dieci. Il portavoce del dipartimento Sean Boyd, secondo un reportage di Fox News, ha rivelato che «527 imputati sono stati incriminati per terrorismo oppure sono stati riconosciuti colpevoli in processi legati al terrorismo in seguito ad indagini principalmente condotte dopo l’11 settembre. Tali processi hanno portato a 319 verdetti di colpevolezza, con altre 176 cause pendenti». Inoltre, come da me documentato nell’articolo «Negare il terrorismo (islamista)», i politici, le forze dell’ordine e i media sono riluttanti ad ammettere gli episodi di terrorismo, pertanto le cifre reali degli arresti per terrorismo sono decisamente più elevate. Visto che la popolazione musulmana presente negli Stati Uniti è di circa un settimo della sua controparte presente in Europa Occidentale - 3 milioni contro 21 milioni - servirsi delle cifre che rilevano 527 arresti negli Stati Uniti e 1.400 in Europa denota che la percentuale pro capite degli arresti di musulmani accusati di terrorismo in America è 2,5 volte maggiore rispetto all’Europa e non, come asserito da Sageman, di 6 volte inferiore. In effetti, Sageman - al quale è stata offerta la possibilità di replica a questo articolo, ma senza successo – ha sbagliato di un valore che è circa 15 volte superiore. Il suo errore ha delle importanti implicazioni. Se negli Stati Uniti il terrorismo pro capite è di 2,5 volte maggiore rispetto all’Europa, malgrado i musulmani presenti godano di una posizione socio-economica decisamente migliore, è improbabile che i miglioramenti socio-economici
risolvano i problemi del Vecchio Continente. Questa conclusione include un argomento più vasto, vale a dire che l’islamismo ha poco a che fare con questioni di natura economica e non solo. Detto in maniera diversa, le idee rivestono più importanza delle condizioni personali. Come da me asserito nel 2002: «i fattori che inducono l’Islam militante al declino o al progresso sembrano avere molto più a che fare con questioni legate all’identità piuttosto che all’economia». Chiunque accetti la visione islamista (o comunista oppure fascista) – che sia ricco o povero, giovane o vecchio, uomo o donna – accetterà altresì l’infrastruttura ideologica che in fieri conduce alla violenza, incluso il terrorismo. In termini politici, gli americani non hanno motivo di compiacersi. Sì, è vero, gli europei dovrebbero in effetti trarre insegnamento dagli Stati Uniti per migliorare l’integrazione della loro popolazione musulmana, ma non dovrebbero aspettarsi che così facendo questo mitigherà i loro problemi con il terrorismo. Al contrario, ciò potrebbe peggiorarli.
MARC SAGEMAN Leaderless Jihad University of Pennsylvania Press pp. 208 • dollari 24,95 I musulmani europei battono in radicalismo quelli americani a guardare le statistiche – molto discutibili - degli arresti a partire dall’11 settembre 2001. E forse abbiamo qualcosa da imparare dallo «spartiacque atlantico». Ma come si sta evolvendo il terrorismo islamico di matrice qaedista? Ce lo spiega un ex case officer della Cia, uno psichiatra forense e sociologo, che i mujihaidin li ha conosciuti sul campo, durante gli anni Ottanta. Classifica l’organizzazione suddividendo i suoi componenti i tre gruppi. Il primo, quello militare dei veterani della guerra antisovietica, che si sono uniti a bin Laden negli anni Ottanta per formare «al Qaeda central». Poi l’ondata degli uomini addestrati nei campi afghani, negli anni Novanta. La terza generazione si sarebbe formata dopo gli attentati del 2001, a causa del rovesciamento dei talebani e dell’invasione dell’Iraq. Questa avrebbe costituito una vera e propria rete sociale. Pur avendo perso le basi e i campi d’addestramento, sarebbe più pericolosa perché pervasiva della comunità musulmana dove s’insedia. Il libro è stato definito il «gold standard» sugli studi su al Qaida dal Washington Times e consigliata la lettura a molti politici che si occupano di terrorismo dal Washington Post. La novità dell’analisi sta nella lettura dei meccanismi che costruiscono l’identità radicale dei giovani musulmani. Solo invertendo questo schema, secondo l’autore, potremmo vincere definitivamente il terrore islamico.
115
Risk U S C I T I • DEMETRIO VOLCIC Il piccolo Zar Laterza 2008
Nelle pagine de Il piccolo Zar, l’autore racconta il nuovo volto di un impero, quello russo di Vladimir Putin, che mantiene intatte molte delle caratteristiche di quello antico. L’autore dipinge, in sostanza, uno Stato autoritario fortemente centralizzato, refrattario a qualunque intromissione occidentale nei propri “affari interni” e dotato di enormi risorse minerarie e petrolifere, concentrate però nelle mani di pochissimi oligarchi vicini al Cremlino. Il gap fra questa realtà e quella percepita, di una Russia “occidentale” ormai integrata nel club delle democrazie, ha permesso a Mosca, secondo Volcic, si trasformarsi nell’unico vero e proprio “impero”, con la complicità dell’opinione pubblica internazionale, la cui attenzione è stata risucchiata dalla politica estera e militare degli Stati Uniti. • DALAI LAMA Il mio Tibet libero. Un appello di umanità e tolleranza. Apogeo 2008
Questo volume raccoglie per la prima volta i testi dei discorsi più significativi pronunciati dal Dalai Lama sul conflitto con la Cina per l’indipendenza del Tibet. Un testo completo, in cui alle considerazioni sull’evoluzione dei difficili rapporti sino-tibetani, si uniscono le riflessioni sul legame tra 116
N E L
M O N D O
l’uomo e la terra e sulle relazioni tra buddismo e democrazia. Le parole del Dalai Lama sono indicazioni non banali sui tanto abusati concetti di coesistenza e dialogo, scevre da ogni pacifismo dogmatico “senza se e senza ma”. • GUIDO OLIMPIO Alqaeda.com Bur 2008
Lo stretto e inquietante rapporto tra Al Qaeda e internet è al centro del nuovo volume di Guido Olimpio, esperto di terrorismo internazionale del “Corriere della Sera”. L’Autore illustra i meccanismi tramite cui “La Base” ha trovato, nella rete, un mezzo ormai irrinunciabile per mantenere viva la propria strategia della tensione e un potentissimo strumento di amplificazione, capace di conferire forza reale a minacce virtuali, di reclutare nuovi affiliati, di diffondere il terrore e mantenere viva l’attenzione mondiale sia sulla sua ideologia che sul suo Sceicco del Terrore, Osama bin Laden. • PATRICK J. BUCHANAN Churchill, Hitler, and “The Unnecessary War”: How Britain Lost Its Empire and the West Lost the World Crown 2008
Buchanan, consigliere di tre diversi Presidenti degli Stati Uniti e due volte candidato alla nomination repubblicana, si domanda se le due guerre mondiali fossero conflitti
a cura di Beniamino Irdi
“inevitabili” o, al contrario, semplicemente il frutto di una serie di catastrofici errori di giudizio. L’autore sostiene provocatoriamente che, se non fosse stato per gli errori della classe politica inglese – ed in particolare di Winston Churchill – gli orrori delle due guerre si sarebbero potuti evitare, così come l’olocausto, e l’impero britannico non sarebbe caduto in rovina. Ancora, Buchanan cita fra l’altro il trattato di Versailles e le sanzioni inflitte all’Italia nel 1935 per descrivere gli errori di una politica estera britannica senza la quale, sostiene, mezzo secolo di tirannia comunista non si sarebbe materializzato ed il ruolo centrale dell’Europa negli affari internazionali avrebbe resistito fino ai giorni nostri.
• BILL EMMOTT Asia contro Asia Rizzoli 2008
L’Asia di oggi è un campo di battaglia conteso fra tre grandi potenze - Cina, India e Giappone - che concorrono tra di loro per la conquista di risorse, mercati e posizioni strategiche. Bill Emmott, noto editorialista europeo ed esperto di politiche orientali, ricostruisce i caratteri di questa corsa e ne analizza i possibili futuri scenari nel campo dell’economia, della diplomazia, della competizione militare e dell’ambiente. Indipendenti economicamente dall’America e dall’Europa, determinate ad emergere e dotate di un ampio arsenale nucleare, lo
scontro fra le grandi potenze asiatiche rischia di travalicare i confini del continente ed investire l’intero equilibrio mondiale. “Asia Contro Asia” descrive, inoltre, le opportunità e i rischi che da questo scontro scaturiscono per l’Occidente, suggerendo anche la via da seguire per fronteggiarli. • ZAKI CHEHAB Hamas. Storie di militanti, martiri e spie. Laterza 2008
Zaki Chehab, giornalista palestinese cresciuto in un campo profughi delle Nazioni Unite in Libano, ripercorre in questo libro la storia di Hamas, dalle origini alle sorprendenti elezioni del 2006, che segnarono il trionfo del gruppo terroristico alla guida del popolo palestinese, interpretata come la definitiva sconfitta “postuma” di Yasser Arafat. Il testo affronta anche tematiche poco note quali gli spietati metodi di addestramento dei kamikaze, e ventila la possibilità di un presunto “tacito appoggio” dei servizi segreti israeliani alla nascita del Movimento Islamico, mirato all’indebolimento del Fatah di Arafat. L’autore tocca infine il sempre più attuale tema delle relazioni fra Hamas con altri gruppi come Hezbollah e Al Qaeda, tracciando il quadro di un gruppo politico spietato le cui azioni sono guidate dalla sete di potere, piuttosto che dall’ideologia e dalla religione.
riviste L A
R I V I S T A
BARBARA DAFOE WITHEHEAD A Nation in Debt The American Interest July/August, 2008
Sembrerebbe una immagine oleografica, mai esistita nella realtà, ma è l’America di Frank Capra, quella di It’s a Wonderfull Life ad essere scomparsa. Ne è convinta l’autrice dell’articolo. Nel soggetto holliwoodiano il perfido banchiere Potter, contro la comunità di Bedford Falls, perdeva. Era una società, nel 1946, appena emersa dalla Grande Depressione e dal Secondo conflitto mondiale, quella raccontata dal protagonista del film, George Bailey. In quel periodo tutti erano coscienti che il risparmio fosse socialmente utile e che le istituzioni legate all’edilizia popolare lavorassero per il bene e la sicurezza delle famiglie. Il capitale costituito con gli istituti di risparmio era in qualche modo al sicuro dalle speculazioni e non andava a vantaggio di pochi. Cosa è successo a quel mondo, cosa è successo all’America? Prova a rispondere Dafoe Withehead dimostrando che la buona tradizione di guardare negli occhi i problemi, la cultura statunitense l’ha mantenuta salda, vitale e
D E L L E
probabilmente la salverà dal prossimo abisso economico e morale. Ciò che è cambiato drammaticamente è l’accesso a delle istituzioni nate, sì per promuovere l’economia e l’impresa, ma soprattutto per raccogliere il risparmio delle famiglie e proteggere quelle più deboli: dare loro i mezzi per acquistare una casa, una lavatrice a rate e un auto. La capacità di risparmio americana non è lontanamente paragonabile con quella italiana, naturalmente. Noi siamo un popolo di risparmiatori. Dall’altra parte dell’Atlantico il denaro ha sempre circolato più velocemente, restando poco nelle mani dei vari signori Bailey, Smith o Litton. Oggi ci sono 70 milioni di impiegati nel mondo del lavoro Usa, su 153 milioni di buste paga, senza un piano pensionistico. Invece di essere corteggiati dalle società assicuratrici, sono diventati il bersaglio dei venditori dei cosiddetti mutui spazzatura, ninja loans o subprime che si voglia. Decine di milioni di lavoratori americani che avrebbero potuto diventare una classe media di risparmiatori, sono stati trasformati in debitori e giocatori d’azzardo sulla roulette delle speculazioni. Serve capire che parliamo di un Paese dove il credito al consumo era nato a cavallo della Guerra civile, con l’istituto dell’anticipo su stipendio. Un sistema che verso il 1911 aveva raggiunto tassi d’interesse a breve molto alti. Allora la riforma cercò di mediare fra la necessità di mantenere attivo il credito al consumo senza vessare chi ne faceva uso. Oggi ci troveremo in una situazione, mutatis mutandi,
R I V I S T E
a cura di Pierre Chiartano
simile. Serve ricostruire una cultura del risparmio bilanciata con quella della spesa al consumo in un Paese con un alto debito pubblico e un’attitudine al risparmio quasi scomparsa.
PAMELA ANNE SMITH Gulf Food Security The Middle East July 2008
Benzina per i ricchi o cibo per i poveri? Nei Paesi del Golfo dove si starebbe concentrando gran parte degli introiti derivanti dal decollo del prezzo del petrolio qualcosa non funziona. Dal grano al riso, dalla frutta agli ortaggi tutto sta diventando irrimediabilmente caro. Segue la dinamica dei prezzi in salita un po’ in tutto il mondo globalizzato. La sicurezza alimentare sta diventando un argomento primario anche per i governi degli sceicchi del greggio. Occorre garantire le forniture a prezzi accettabili. Il risultato è che sia le aziende pubbliche che quelle private stanno investendo nel settore. In Sudan, Algeria, e Pakistan, cercando di introdurre nuove tecnologie che possano migliorare la produttività agricola, ma anche quella degli allevamenti di bestiame, polli e
pesce. I prezzi del cibo sono raddoppiati negli ultimi tre anni, secondo le stime della World Bank. Mentre la Fao ha calcolato che per i Paesi in via di sviluppo le importazioni alimentari, nel 2008, costeranno il 40 per cento in più. I prezzi saliranno ancora e potrebbero far stringere ulteriormente la cinghia a una popolazione mondiale di 854 milioni di individui. Il più grande importatore di grano al mondo, l’Egitto, ha visto crescere il suo prezzo del 50 per cento lo scorso anno. Le file davanti ai forni per il pane possono diventare il preludio a ben peggiori tumulti sociali. I Paesi del Golfo, da un lato sono alla cassa per il petrolio, dall’altra devono mettere mano al portafoglio per garantire il pane sulla tavola dei propri cittadini. Il prezzo? Circa 10 miliardi di dollari all’anno per importare il 90 per cento di derrate alimentari necessarie. Il riso basmati del Pakistan e dell’India, elemento chiave della dieta in quella regione, ha visto levitare il prezzo del 70 per cento in un anno. In Quatar nel primo trimestre 2008, il prezzo medio degli alimenti è salito del 19 per cento. Non c’è dubbio per gli esperti che gran parte della colpa di questa dinamica dei prezzi sia legata alla produzione di etanolo per carburanti il cosiddetto biofuel. E alcuni governi, come quello degli United arab emirates, stanno correndo ai ripari con misure drastiche. Prezzi bloccati nei supermercati per 30 prodotti base. Anche le grandi catene di distribuzione come Carrefour, Lulu, Banyas co. e l’Unione delle cooperative hanno calmierato la spesa delle 117
Risk L A
R I V I S T A
famiglie. Nonostante tutte queste misure, le previsioni danno l’aumento intorno al 40 per cento per fine anno. Il Sudan diventerà il centro, il mercato che dovrà fornire di cibo i Paesi del Golfo e non solo. Si stanno preparando piano d’investimento infrastrutturali per dighe e sistemi irrigui e una lotta senza quartiere alle intermediazioni. Filiere corte e bando delle speculazioni. Almeno queste sarebbero le intenzioni. Thailandia e Filippine stanno posizionandosi come fornitori di riso per il Bharein, mentre l’Arabia saudita ha finanziato con 500 miliardi di dollari il World food programm dell’Onu di cui saranno beneficiari Kenya, Yemen, Etiopia e Somalia.
MICHAEL J. GREEN The Iraq war and Asia: assessing the legacy The Washington Quarterly Spring 2008
Un fallimento americano nella stabilizzazione dell’Iraq potrebbe avere in Asia conseguenze sulla credibilità e sulla leadership di Washington più che addirittura nello stesso Medio Oriente. Questa la tesi contro118
D E L L E
corrente della lunga analisi, come è tradizione di TWQ, del professore di relazioni internazionali alla Georgetown University. Proprio l’intervento americano su Saddan Hussein ha sponsorizzato l’idea e i principi di democrazia nell’area asiatica. Mai come oggi quelle idee e quei principi stanno trovando rispondenza e mettendo radici nel continente asiatico al contrario di quanto si possa credere. Un repentino abbandono del campo in Iraq provocherebbe un contraccolpo sul teatro estremorientale. Amici e nemici incomincerebbero a valutare la reale volontà d’intervento di Washington al fianco di alleati e contro i Paesi più aggressivi della regione. Ne peserebbero la capacità e potenza d’intervento in un teatro così lontano. Le conseguenze sull’attuale assetto e sugli equilibri delle alleanze ne sarebbe devastato. Oggi che questi rapporti non sono mai stati così saldi, in primis col Giappone. L’attuale amministrazione ha proseguito la cosiddetta Nye Iniziative avviata dalla presidenza Clinton verso Tokyo. Una politica di enfatizzazione della presenza militare in Asia basata sui rapporti con i giapponesi. Il documento preparato nel Duemila da Richard Armitage e Joseph Nye ne era stato il presupposto. Quando, nel 2001, Junichiro Koizumi divenne premier ne condivise il nocciolo, basato su una più stretta relazione bilaterale per il rafforzamento della sicurezza regionale. Quasi un ribaltamento rispetto a una nouvelle vague che aveva preso piede dopo la fine della guerra fredda. Alcuni politici e intellet-
R I V I S T E tuali giapponesi avevano pensato di utilizzare i rapporti con la nuova Cina per controbilanciare, in pratica per emendarsi dall’abbraccio – per alcuni – troppo stretto dell’alleato di Washington. La rapida crescita di Pechino come attore militare e la scoperta dei rapimenti da parte dei nordcoreani di molti cittadini giapponesi, hanno fatto pendere la bilancia verso gli Usa. Politica e opinione pubblica hanno considerato che, forse, una più stretta vicinanza con l’America avrebbe meglio servito gli interessi della sicurezza giapponese. L’articolo corredato da un sondaggio Gallup-Yomiuri Shimbum sul gradimento delle alleanze internazionali della popolazione del Sol Levante, è un’interessante keynote per valutare la politica estera statunitense. Troppi in Europa pensano alla guerra in Medio Oriente guardando solo agli equilibri regionali. Una valutazione geopolitica, dimenticando che gli Usa hanno sempre ragionato in termini strategici. La Cina invece guarda alla guerra in Iraq come alla possibilità di giocare di sponda, senza troppo scoprirsi, mentre lo «strategic competitor» - gli Usa secondo Condoleezza Rice - pare impantanato in una situazione che lo consuma dal punto di vista dei rapporti internazionali. Ma non esiste solo la Cina. Anche gli altri Paesi dell’area ricoprono una certa importanza non fosse altro che per la loro componente islamica della popolazione. Indonesia, Malesia, Singapore e Filippine giocheranno un ruolo non secondario negli assetti regionali che interessano Washington. E le posizioni dell’opi-
nione pubblica non è totalmente antiamericana, ma basata su elementi in cui si nota un sempre più marcata libertà di valutazioni. In pratica la guerra irachena non avrebbe, secondo l’autore, indebolito l’immagine americana né la saldezza delle sue alleanza, ma potrebbe farlo nel caso di una ritirata “spagnola”.
INTERVIEW WITH ROBERT PAARLBERG In Need of a Green Revolution Harvard International Review Summer 2008
L’Africa e l’agricoltura. Esiste un deficit nella rete dei trasporti: generalmente gli agricoltori portano il loro raccolto sulla testa per raggiungere i mercati. Produttività per ettaro coltivato: è un decimo di quella dei Paesi industrializzati e un terzo di quelli asiatici. Inoltre i semi piantati sono quelli tradizionali che fanno nascere piante poco sensibili all’acqua e ai fertilizzanti. Manca l’elettricità e qualsiasi meccanizzazione delle lavorazioni. È questo il quadro africano di una delle produzioni al centro della rivoluzione speculativa degli ultimi mesi. Produrre cibo sta diventando centrale per ogni area geografica, così come
riviste L A
R I V I S T A
distribuirlo. Il Continente nero ha enormi carenze in entrambi i settori. Ma il modello non dovrebbe essere quello dei Paesi sviluppati, sottolinea il professore di Harvard. Eccessivo utilizzo di fertilizzanti chimici e neanche ciò che propongono Ngo come l’olandese Friends of earth, che vorrebbe l’azzeramento dei fertilizzanti a base azotata, sarebbero la giusta ricetta. In molte zone d’Europa, come la Francia e la Germania, si corre il serio pericolo di inquinare le falde acquifere con questi prodotti chimici, ma per l’Africa che quasi non conosce i fertilizzanti, l’obiettivo moltiplicare per cinque l’attuale bassissimo utilizzo, sarebbe già un successo per la produttività dei terreni. Sui prodotti geneticamente modificati (Ogm) gli Stati africani sono costretti a seguire l’Europa. Esportando gran parte del prodotto nel Vecchio continente, dove le norme attuali sono molto vincolanti sulla produzione di Ogm, i Paesi africani temono ricadute negative sull’export. Solo il Sudafrica ne fa uso, per il resto gran parte dei programmi agricoli sovvenzionati sono gestiti dalla Ue o direttamente da Paesi europei. I governi non finanziano, né promuovono la sperimentazione di Ogm in Africa. L’unica Ngo a muoversi in senso contrario è la Gates foundation con il finanziamento di 45 milioni di dollari per la ricerca di cultivar resistenti alla siccità. Secondo Paarlberg è auspicabile che determinate tecnologie genetiche possano diventare disponibili per le col-
D E L L E
tivazioni africane, per abbassare l’impatto ambientale e una migliore la gestione delle scarse risorse primarie come l’acqua. Non ci sono segnali di una capacità autonoma dei governi locali di sviluppare tecnologie agricole senza il supporto straniero. «Non ci sono fondi extra», sottolinea il professore di Scienze politiche. Insomma, per il momento niente ricerca autoctona per combattere fame e carestie. E sarebbe proprio questa mancanza e non le speculazioni sulle commodity a causare una sempre più profonda crisi alimentare nel Continente. La prima reazione porterà solo all’aumento degli aiuti umanitari, ma è auspicabile che inneschi anche una nuova politica di sviluppo agricolo, anche in termini d’investimenti sulla ricerca. Sia il governo inglese che la World Bank si stanno ora muovendo in questa direzione. Non resta che aspettare che parte la Green revolution anche per l’Africa.
FRED BERGSTEIN A Partnership of Equals Foreign Affairs July/August 2008
Per essere una superpotenza economica oggi serve rispondere a
R I V I S T E dei requisiti particolari. Gli unici protagonisti del mercato con queste caratteristiche sono gli Usa, l’Ue e la Cina. L’America è ancora quella più ricca e dinamica, con una divisa di riferimento mondiale e resterà ancora per molti anni il maggior attrattore d’investimenti esteri. L’Europa sta crescendo e forse ha un’economia e un interscambio commerciale estero più grande di quello statunitense e con una moneta sempre più competitiva rispetto al dollaro. La Cina è il nuovo membro del club. Pone alcune sfide agli altri due, ma è ancora povera, con un mercato ancora poco sviluppato se consideriamo l’intero territorio cinese e con un regime politico di tipo autoritario. Spesso viene associata all’India, come gigante economico emergente, che ha però un pil che è meno della metà di quello cinese. Fin dall’inizio della sua crescita così spettacolare ci si chiedeva se, una volta entrata nel Wto, ne avrebbe accettato le regole o avrebbe voluto cambiarle. Oggi, dopo il fallimento del Doha round abbiamo la risposta. È la prima volta, dal secondo dopoguerra, che il commercio internazionale subisce una battuta d’arresto così significativa. Quasi esclusivamente per colpa di Pechino, che non ha voluto accettare le regole del multilateralismo insite nel Wto. Si è inventata come scusa l’essere un recently acceded member per non volere rispettare le regole del gioco. Poter continuare ad agire come Paese in via di sviluppo, evitando le responsabilità di un partner di rango globale. Di più, con tutta una serie di accor-
di bilaterali in Asia, ha deragliato rispetto allo spirito del libero mercato perché, di fatto, questi trattati sono nati più per esigenze politiche che per necessità di tipo commerciale. Un esempio è il free trade con l’Asean, firmato per tranquillizzare quei Paesi spaventati dal gigante asiatico, senza valore di carattere economico. Mettendosi così in competizione con l’asse Giappone, Corea del Sud e Asean. Per l’autore sarà molto più difficile recuperare Pechino al tavolo del consesso internazionale di quanto lo fu per il Giappone. Inoltre la sua politica commerciale regionale mina alle basi la struttura del trading internazionale fondata nel 1994 a Marrakesh. È una sfida aperta della Cina al sistema a guida statunitense, lanciata già nel 2006 al forum di cooperazione economica asiatico dell’Apec. Un confronto che come nel domino prima o poi coinvolgerà altre istituzioni mondiali, come l’International monetary fund. Pechino agisce ancora con un approccio politico da Paese emergente, come se le sue azioni non avessero un impatto globale, soprattutto nel settore commerciale. Nessuna responsabilità, nessun impegno. Serve ammettere che anche il protezionismo agricolo di Usa e Ue ha dato una mano nel fallimento di Doha, allo stesso modo l’Imf ha fatto poco per l’affermazione di regole più stringenti in campo monetario. Secondo l’analisi, Cina e Usa avrebbero più fattori convergenti che elementi conflittuali, per non tentare un confronto positivo e cercare di rimodellare un sistema mondiale dell’economia. 119
L
E
F I R M E
del numero
MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato maggiore della Difesa CLAUDIO CATALANO: analista di relazioni internazionali
EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo
GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali e il CeMiSs RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina HEIDI HOLLAND: giornalista e scrittrice sudafricana
VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore
MICHELE MARCHI: analista presso il Centro Studi per il Progetto Europeo ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali CARLO MUSSO: capo ufficio studi Finmeccanica
DAVID J. SMITH: senior fellow al Potomac Institute for Policy Studies di Washington e direttore del Georgian Security Analysis Center di Tbilisi CARLO JEAN: presidente del Centro Studi di geopolitica economica, docente di Studi Strategici presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles
DANIEL PIPES: direttore del Middle East Forum, editorialista del New York Post e del Jerusalem Post
LUIGI RAMPONI: senatore, Commissione Difesa MARIO RINO ME: ammiraglio
MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore
STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) ANDREA TANI: analista militare, scrittore DAVIDE URSO: esperto di geopolitica
120