risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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quaderni di geostrategia
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America Latina
DOSSIER
Riccardo Gefter Wondrich
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Il presidente del soft power
Russia
Stefano Silvestri
David J. Smith pagine 86/97
Russia, è il momento delle scelte
LA STORIA
Maurizio Massari •
La sfida (e la speranza) mediorientale
Virgilio Ilari
Andrea Margelletti
pagine 98/103
Asia, un nuovo corso è possibile •
Michael Auslin
Andrea Nativi
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pagine 104/115
L’eredità di Bush Robert Kagan pagine 4/67
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Editoriali
LIBRERIA
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Sherwin B. Nuland Mario Arpino Andrea Tani
Change we can. Ma non troppo
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A
RUBRICHE
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Beniamino Irdi Pierre Chiartano
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Michele Nones Stranamore
pagine 116/119
pagine 68/69 •
SCENARI
Lula, anti Chavez suo malgrado Roger F. Noriega
Il grande freddo Davide Urso pagine 70/85 •
SCACCHIERE Africa
Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa
DIRETTORE Andrea Nativi
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CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa
RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani
Egizia Gattamorta
Medio Oriente Emanuele Ottolenghi
Unione Europea Giovanni Gasparini
REGISTRAZIONE
TRIBUNALE
DI
ROMA N. 283
DEL
23
GIUGNO
2000
Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Abbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma
2009: L’ANNO DELLE SCELTE DI OBAMA Dopo una vittoria dalla portata storica, Barack Obama, 44esimo presidente degli Stati Uniti d’America, sarà chiamato a fronteggiare problemi di proporzioni altrettanto storiche. La priorità delle priorità sarà senza dubbio l’economia: la crisi finanziaria che proprio dagli Usa è partita col bubbone dei mutui subprime, che dalle banche ha contagiato le Borse, le imprese e i consumi e che soltanto negli Usa potrà trovare una chiave efficace di soluzione. Ma subito dopo ci sono le crisi internazionali: i conflitti in Iraq e in Afghanistan, i rischi di nuova guerra fredda con la Russia, lo stallo nel dialogo tra palestinesi e israeliani, un cambio di rotta in Asia, lo sviluppo di relazioni con Cina e India. «Era dai tempi in cui Franklin D. Roosevelt fu eletto nel 1933, nel bel mezzo della Grande Depressione, che un presidente Usa non era chiamato ad affrontare sfide così importanti fin dall’inizio del suo mandato» hanno scritto i media Usa. Noi aggiungiamo che in queste sfide entrerà anche l’Europa. Non tanto perché Barack Obama abbia per il Vecchio Continente un interesse particolare – tra l’altro è il primo presidente americano che non ha un antenato tra i Padri Pellegrini salpati nel 1620 da Plymouth a bordo del Mayflower, né tra gli immigrati europei sbarcati nel Nuovo Mondo nei secoli successivi – quanto perché l’Europa si troverà di fronte un interlocutore al quale sarà più difficile dire di no. Abbiamo scelto di illustrare il dossier con le immagini di alcuni presidenti democratici (eccezion fatta per il saggio di Kagan, che apre con la foto di George W. Bush). Nell’ordine: Andrew Jackson, pag 11 Woodrow Wilson, pag. 12 Franlklin D. Roosvelt, pag. 19 Harry Spencer Truman, pag. 20 William Howard Taft, pag. 30 John Fitzgerald Kennedy, pag. 36 Jimmy Carter, pag 50 Obama e Bill Clinton, pag. 64
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COSA CAMBIERÀ PER L’UNIONE EUROPEA E L’ITALIA CON IL NUOVO INQUILINO DELLA CASA BIANCA
IL PRESIDENTE DEL SOFT POWER DI
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STEFANO SILVESTRI
li europei sono convinti che l’elezione di Obama farà tutta la differenza. Certo, Barack Obama è popolare un po’ ovunque nel mondo, soprattutto perché sembra promettere una rottura netta con l’era di George W. Bush e con l’azzardata ideologia unilateralista dei neo-conservatori americani. Tuttavia in Cina, India o Russia non c’è
una maggioranza assoluta della popolazione che pensa che Obama sia così importante per il loro Paese. Secondo un sondaggio Gallup arrivano al 65% gli europei convinti dell’importanza cruciale dell’elezione di Obama, mentre nel resto del mondo le opinioni di questo genere si attestano sul 31%. Ma è realistico questo atteggiamento? O non ci esporrà a duri disinganni? Tutti vogliono il mutamento, e in particolare gli europei, tra cui il presidente Bush ha toccato livelli di impopolarità mai visti prima, anche tra i cittadini di quei Paesi che politicamente hanno più appoggiato la politica della sua Amministrazione, quali il Regno Unito e la Polonia. Non è stato soltanto l’Iraq a pesare sul piatto della bilancia, ma una serie successiva di scelte, a cominciare da quelle relative al controllo degli armamenti (il trattato sui missili antimissili gettato alle ortiche, l’atteggiamento sprezzante nei confronti della Russia, il rifiuto della Corte Penale Internazionale, lo svilimento delle Convenzioni di Ginevra, e così via), per continuare con le polemiche anti-europee e naturalmente anche il rifiuto di ogni accordo internazionale per la riduzione delle emissioni di CO2 (Bush venne soprannominato “il tossico”, da una larga parte del-
l’opinione pubblica europea). Ma soprattutto l’Europa non ha perdonato a Bush di averla obbligata a toccare con mano la realtà della sua debolezza di fronte agli Stati Uniti. Nello stesso momento in cui la maggioranza degli europei si schierava contro le decisioni americane, ad esempio sull’Iraq, i loro governi si dimostravano incapaci di esprimere una linea comune, si dividevano, ed in ultima analisi risultavano sostanzialmente irrilevanti. Oppositori e sostenitori delle scelte americane esprimevano le loro opinioni, avanzavano i loro suggerimenti, ma in realtà non erano seriamente consultati, né soprattutto ascoltati da Washington. E anche quando veniva espressa una preferenza precisa, ad esempio all’interno della Nato, quando l’Alleanza chiese il rinvio dell’istallazione di sistemi antimissile americani sul Vecchio Continente, anche questa posizione veniva facilmente scavalcata da accordi bilaterali diretti con Paesi più malleabili, come la Repubblica Ceca o la Polonia. Un’ulteriore dimostrazione? Poco dopo la spaccatura drammatica sull’Iraq, un gruppo di Paesi europei, guidati dalla Francia, decideva di cominciare a dare corpo ad una difesa collettiva europea vagamente più credibile, decidendo semplicemente di dare vita ad 5
Risk uno stato maggiore permanente congiunto… Apriti cielo e spalancati terra: il rappresentante permanente americano alla Nato parlò persino (senza ridere) di “minaccia mortale” per l’Alleanza, ed i reprobi furono costretti a chiudere rapidamente bottega. Ma al bullo non si perdona facilmente, specialmente quando si scopre che è poco più di un miles gloriosus, quando cioè egli si dimostra incapace di assicurare in tempi brevi la vittoria promessa. E l’amministrazione Bush, malgrado una sua più accorta correzione di rotta durante il secondo quadriennio di presidenza, è stata particolarmente carente su questo piano: tra la tragedia dell’11 settembre 2001 e la crisi economica e finanziaria scoppiata nel settembre 2008, un cerchio infernale ha visto l’avvitarsi su sé stessa della politica americana, sino alla crisi più profonda degli ultimi mesi, e alla prospettiva di possibili disastri futuri, incluso sui campi di battaglia dell’Iraq e dell’Afghanistan, che pure erano ormai stati dati per acquisiti. Come mai questo disastro? In gran parte, probabilmente, perché l’ideologia dei neo-conservatori e la pratica dell’amministrazione Bush, che ha puntato gran parte delle sue carte sulla sua enorme preminenza militare, hanno finito per sottovalutare e mettere in crisi un altro necessario fattore di potenza, quello che ormai viene chiamato soft power: la capacità di convincere, di coagulare consenso, di ispirare solidarietà, di indirizzare le scelte e i comportamenti altrui senza necessariamente puntare loro una pistola alla testa. Non si può pretendere di guidare il mondo solo o prevalentemente con la forza: è necessario avere anche la capacità di prevenire opposizioni e resistenze e di indirizzare le scelte altrui attraverso la politica. Le vittorie più grandi spesso si ottengono senza ricorrere al combattimento, risparmiando le proprie forze. Una politica di scontro continuo non è solo estremamente costosa, ma è anche molto pericolosa, e può rivelarsi inefficace nel più lungo periodo. Obama viene visto dagli europei come l’opposto esatto di Bush: è l’incarnazione del “sogno americano” degli europei, forse ancora prima e di più di quello degli stessi americani. È l’araldo del soft power, e soprattutto il vendicatore delle umiliazioni passate, poiché è quello che più ha osato dire che Bush aveva sba6
gliato tutto e che era tempo di cambiare. Per questo è stato anche il candidato preferito dagli europei. Ora però bisognerà vedere quanto tale immagine risponderà alla realtà.
Non è molto probabile, ad esempio, che Obama
inizi ad occuparsi in primo luogo di politica estera, né tanto meno di Europa. Normalmente ogni Presidente, alla sua prima elezione, si occupa in primo luogo di politica interna, e solo più tardi scopre realmente la sua dimensione e il suo ruolo internazionale (spesso solo dopo un paio d’anni, quando il suo carisma politico interno si è già un po’ appannato). Certo questo Presidente dovrà comunque affrontare subito alcuni gravosi dossier di politica estera e di difesa. In primo luogo quello dell’Iraq, dove ha promesso un ritiro relativamente rapido delle truppe americane, e poi naturalmente anche la crisi economica, con tutti i suoi grandi riflessi di governance internazionale. Ma è probabile che lo faccia ponendo attenzione più ai riflessi interni delle sue decisioni, che a quelli internazionali. Non sappiamo ancora come Obama affronterà questi impegni. È possibile che, per quel che riguarda il Medio Oriente e il Golfo, egli pensi in primo luogo ad un più stretto dialogo con l’Iran, ma la possibilità di seguire una tale strada dipenderà anche dalla risposta e dalla disponibilità di Teheran, che molto probabilmente dovrà aspettare quanto meno lo svolgimento delle nuove elezioni presidenziali iraniane, la prossima primavera, con il possibile (ma ancora tutt’altro che certo) allontanamento dal potere di Amadinejad. Anche più oscuro è il quadro dei grandi negoziati economici e commerciali. La crisi economica vedrà certamente il delinearsi di forti spinte protezionistiche, in particolare in un Congresso americano dominato da solide maggioranze del Partito Democratico. Il nuovo Presidente non ha indicato chiaramente quali siano le sue preferenze in proposito, salvo un generico impegno a rinegoziare l’accordo Nafta e una posizione critica nei confronti della Colombia. Molto dipenderà da chi deciderà di mettere a capo del Dicastero del Tesoro e da chi sceglierà come capo negoziatore per i grandi accordi commerciali, ma gli europei potrebbero trovarsi di fronte ad alcune ina-
dossier spettate difficoltà (anche se i più preoccupati si trovano certamente in Cina ed in Corea). Molto dipenderà dagli uomini che, in questo periodo di interregno tra l’avvenuta elezione e l’effettivo inizio della nuova amministrazione, a metà gennaio, il nuovo Presidente sceglierà per guidare il suo governo. Si tratterà probabilmente di personalità già ben note agli europei, sia perché avevano già ricoperto ruoli importanti nelle precedenti amministrazioni, sia perché già impegnati da tempo nei loro rispettivi settori di interesse. Diverrà quindi anche molto più facile decifrare quello che oggi appare ancora confuso ed incerto. Sarà però bene ricordarsi che, per molti versi, Obama resta comunque un politico americano, lontano, o comunque diverso, dalla sensibilità o dal modello culturale prevalente in Europa. Così è ad esempio per la pena di morte, che il nuovo Presidente non sembra avere intenzione di abolire. E il suo stesso impegno per la sicurezza sociale è ancora di stampo privatistico più che pubblico, ben lontano dal modello europeo. Per quel che ci riguarda più direttamente, il nuovo Presidente, in campagna elettorale, si è comunque lasciata aperta la possibilità di perseguire l’uso della forza militare in modo molto più ampio e decisivo di quanto è considerato accettabile dalla maggioranza dell’opinione pubblica europea. Più in linea con le speranze europee sono invece le aspettative per quel che riguarda la politica ambientale e le azioni contro il cosiddetto “effetto serra”. Il nuovo Presidente, come del resto il suo rivale, ha promesso una svolta netta. Non si tratterà certo di ratificare Kyoto, che del resto è ormai considerato superato e insufficiente anche dagli europei, ma di allinearsi rapidamente con il resto del mondo, tagliando in modo massiccio le emissioni di CO2 statunitensi. Ma c’è anche di più, e questo forse potrebbe preoccupare alcuni europei, come ad esempio l’Italia. Nel programma del nuovo Presidente c’è l’idea di un rilancio dell’economia che passi anche attraverso massicci finanziamenti pubblici alla ricerca e per l’industrializzazione di nuove tecnolo-
gie più compatibili con l’ambiente, sia per la produzione che per il consumo di energia. Ciò potrebbe finire per spingere fuori mercato tecnologie più arretrate e comunque per accrescere l’isolamento internazionale di quei Paesi che non abbiano la forza o la capacità di adattarsi rapidamente alle nuove tendenze. Una situazione che l’Italia rischia già ora di sperimentare all’interno dell’Unione Europea, e che potrebbe divenire insostenibile di fronte ad un comportamento americano da primi della classe.
Comunque vada, è certamente positivo che il pendolo americano oscilli finalmente nella direzione opposta a quella delle decisioni unilaterali. La nuova amministrazione, quali che siano le scelte che deciderà infine di privilegiare, sembra comunque ferma nell’idea che sia necessario accettare un tasso maggiore di condivisione delle decisioni e delle responsabilità, tornando a quella impostazione della governance multilaterale che aveva caratterizzato gli Stati Uniti alla fine della II Guerra Mondiale e che aveva permesso il varo di tante importanti istituzioni internazionali e un forte salto in avanti della governabilità e della legalità. Una simile svolta tuttavia ha anche un suo risvolto, che non è di tutto riposo, in particolare per noi europei. Potremmo infatti trovarci di fronte a richieste difficili da soddisfare, di maggiore impegno e partecipazione al governo della stabilità e della sicurezza internazionale.
Sarebbe un errore condizionare la politica Ue a una sorta di immagine mitica e speculare di Obama come “politico” europeo perché, pur nella convergenza di tanti interessi e nella parziale rottura con la linea Bush, la collocazione internazionale degli Stato Uniti resta punto diversa da quella di Bruxelles 7
Risk Da un lato dovremmo esserne contenti. Il mondo sta attraversando un momento di grossa confusione e gli equilibri internazionali sono in piena ridefinizione. Aumenta il peso di Paesi come la Cina, l’India o il Brasile e diminuisce di conseguenza quello dell’Europa e delle altre potenze tradizionali. In ballo c’è la scrittura di nuove regole, dal campo economico a quello ambientale passando per il settore cruciale della sicurezza, dalla lotta al terrorismo a quella alla criminalità, alla gestione degli stati fallimentari e alla progressiva riduzione delle aree di anarchia e banditismo. Né si possono dimenticare altre problematiche, come ad esempio la gestione ottimale delle pandemie, una più efficace politica dello sviluppo, l’avvio di una crescente co-responsabilità nella gestione degli inevitabili flussi migratori, eccetera. Stati Uniti ed Europa hanno molto da perdere e nello stesso tempo hanno una minore capacità di imporre le loro preferenze. In compenso hanno grandi interessi comuni. Agendo insieme, oggi, hanno ancora grandi possibilità di scrivere essi stessi le nuove regole e di plasmare il nuovo sistema internazionale in modo consono ai loro interessi e alle loro preferenze. Divisi rischiano invece di essere costretti ad accettare compromessi difficili e di dover rinunciare ad una buona fetta dei loro attuali privilegi (l’Europa probabilmente prima e più ancora degli Usa, ma anche questi ultimi sarebbero costretti a venire a patti, prima o poi, con la nuova realtà). C’è quindi un chiaro ed evidente vantaggio ad agire assieme o comunque con uno stretto coordinamento e nella stessa direzione, e il presidente Obama lo ha detto abbastanza chiaramente, anche se ha lasciato ancora molto nel vago la sostanza di un eventuale accordo. D’altro lato però una cosa è certa: sarà necessario affrontare costi importanti e l’Europa dovrà assumersi una parte rilevante dei costi e delle responsabilità di gestione che ne deriveranno. E non è detto che sia pronta a farlo. La mancata ratifica del Trattato di Lisbona (almeno sino ad oggi) e la difficoltà di individuare e perseguire politiche realmente unitarie, anche di fronte alla grave crisi economica, sono un segnale 8
negativo. L’interesse europeo richiederebbe probabilmente, a questo punto, una maggiore capacità propositiva. Proprio perché il nuovo Presidente americano non ha ancora precisato la sua politica ed esplicitato le sue richieste, l’Europa potrebbe cominciare a delimitare il campo delle possibili iniziative e contribuire così a determinare la politica della futura amministrazione americana, che entrerà in funzione solo il prossimo gennaio. Sono tempi stretti, ma potrebbero rappresentare anche la migliore “finestra di opportunità” per gli europei, ammesso che vogliano, possano e soprattutto sappiano sfruttarla.
Sarebbe invece un errore condizionare la poli-
tica europea a una sorta di immagine mitica e speculare di Obama come politico “europeo”, per le regioni che abbiamo prima elencato, ma anche e soprattutto perché, pur nella convergenza di tanti interessi fondamentali, e nella almeno parziale rottura con il precedente di Bush, la collocazione internazionale degli Stati Uniti, gli strumenti a loro disposizione e il loro stesso ruolo e rango internazionali restano comunque fondamentalmente diversi da quelli dell’Unione Europea, anche di un’Ue più propositiva e coraggiosa e più disponibile ad impegnarsi sul piano internazionale. Se quindi, da un lato, Obama rappresenta un’opportunità da non sprecare, dall’altro è anche necessario non abbandonarsi alla semplice speranza che, di colpo, tutto giri nel migliore dei modi e che le nostre aspettative vengano miracolosamente soddisfatte. Malgrado l’evidente convergenza di interessi, è probabile che la visione europea dei rapporti con la Russia, o l’analisi europea delle prospettive della situazione medio orientale, restino significativamente distinte e diverse da quelle di Washington, con la nuova Amministrazione così come con la vecchia. Ciò non impedisce certamente la possibilità di sviluppare quell’intesa che resta necessaria tra le due sponde dell’Atlantico e che Obama, forse, vede con occhio più aperto e disponibile di quanto non la abbia vista Bush, a condizione però che si mantengano i piedi ben saldi per terra.
dossier POSTICIPARE L’INGRESSO DI TBLISI NELLA NATO E NEGOZIARE LO SCUDO SPAZIALE
RUSSIA: È IL MOMENTO DELLE SCELTE DI
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MAURIZIO MASSARI
l prossimo presidente americano si ritroverà sul tavolo della politica estera oltre ai dossier che hanno impegnato e caratterizzato maggiormente l’amministrazione Bush negli ultimi otto anni - l’Iraq, l’Iran, l’Afghanistan - anche il dossier Russia, che era stato per molti anni derubricato, ma che è tornato prepotentemente alla ribalta dopo la crisi caucasica dell’estate scorsa.
Fino alla Georgia, la Russia preoccupava Washington soprattutto per la sua involuzione politica interna.La guerra nel Caucaso, agli occhi di molti americani, di entrambi gli schieramenti, ha confermato il carattere assertivo della potenza russa, e, quindi, la pericolosità anche della sua politica estera. È stata in fondo la prima volta, dopo il disastro sovietico in Afghanistan, che la Russia ha impiegato le proprie forze militari in un altro Paese. Dopo un lungo periodo in cui l’immagine prevalente a Washington era quella di “un mondo senza la Russia”, quest’ultima è tornata nell’agenda della politica estera americana. Il Segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, nel discorso al German Marshall Fund del 18 settembre scorso, ha lanciato l’allarme sullo stato dei rapporti con la Russia definendo quest’ultima una potenza «increasingly authoritarian at home and aggressive abroad». Addossare le colpe e responsabilità della crisi dei rapporti con la Russia esclusivamente all’Amministrazione americana uscente sarebbe tuttavia un errore. Bush ha ereditato una Russia ben più difficile di quella che si era ritrovato Clinton otto anni prima. I nodi del rapporto con la Russia sono venuti al pettine, perchè in realtà non sono mai stati affrontati dopo la fine della guerra fredda. Negli ultimi due
decenni si è preferito da parte americana non scegliere, evitando sia lo scontro diretto sia i rischi che avrebbe implicato la scommessa di cercare di stabilire un rapporto di autentica partnership con una potenza problematica, ma comunque non più nemica come la Russia. L’ ambiguità di questo approccio non poteva durare in eterno. La crisi caucasica, sul piano regionale, e la crisi finanziaria sul piano globale, hanno creato un nuovo e più complesso contesto che dovranno in qualche modo spingere Barack Obama, il 44esimo presidente Usa, a decidere sul “che fare” con la Russia, sul tipo di rapporto che l’America intende intrattenere con quest’ultima, ritornata al rango di potenza, anche se lontana dai fasti del periodo sovietico. Certamente il futuro di questo rapporto dipenderà anche da Mosca. Ma quest’ultima tende il più delle volte a reagire ai segnali che provengono da Washington. Mosca, forse più di ogni altra capitale, attende oggi con ansia l’arrivo del nuovo presidente americano. I rapporti russo-americani dalla fine del’Urss ad oggi sono stati caratterizzati da continui alti e bassi, crisi - la principale dopo la guerra della Nato in Kosovo - e riappacificazioni - la principale in occasione del Vertice Nato- Russia di Pratica di Mare e la creazione della “Nato a 20”. Eppure la costruzio11
dossier ne di una partnership strategica con gli Usa e l’Occidente appariva nell’ordine delle cose all’indomani della fine della guerra fredda e dell’Urss. In due grandi occasioni questa partnership sembrò effettivamente possibile. La prima, negli anni immediatamente successivi alla fine della guerra fredda, quando la Russia post-comunista di Eltsin e Kozyrev, in piena fase di “romanticismo occidentale”, auspicava un forte ancoraggio alla comunità euro-atlantica.
L’occasione andò persa oltre che per le criti-
cità, maggiori del previsto, della transizione interna russa, anche per la mancata diponibilità degli Stati Uniti e dell’Occidente ad accogliere nella propria famiglia una Russia proto-democratica, ancora troppo incerta e problematica. La risposta americana ed occidentale fu invece di allargare le strutture euroatlantiche, a partire dalla Nato ad altri Paesi, ma non alla Russia. Nel corso degli anni Novanta gli Usa e l’Occidente scelsero di sostenere ad personam Eltsin come baluardo della democrazia contro il pericolo “rosso-bruno” (Zyuganov e Zhirinovski), ma allo stesso tempo, anche se involontariamente, contribuirono ad indebolirne le credenziali all’interno della Russia, attraverso l’attivismo della Nato nell’ex- Iugoslavia (dalla Bosnia al Kosovo) e la sua espansione ad Est. La seconda occasione mancata si presentò subito dopo l’11 settembre. Putin fu il primo, tra i leader stranieri, dopo solo quarantacinque minuti dagli attentati, a telefonare a Bush per mostrare la solidarietà russa e la disponibilità a cooperare nella lotta al terrorismo, accettando de facto il ruolo di “junior partner” della Russia nella coalizione anti-terrorismo. Il presidente russo diede luce verde all’uso dello spazio delle repubbliche centroasiatiche per le operazioni della Nato contro i talebani in Afghanistan (il regime talebano era tra l’altro stato l’unico a riconoscere la Cecenia come stato indipendente) e facilitò i raccordi occidentali con l’Alleanza del Nord, la forza anti-talebana in Afghanistan che era stata in passato addestrata dai
russi stessi. Al vertice di Mosca nel maggio 2002 Putin e Bush firmarono l’intesa per la riduzione delle armi strategiche (Sort, Strategic Offensive Reduction Treaty) che lasciava intravedere l’avvio di una nuova stagione dell’agenda sul disarmo, simile a quella sviluppata da Gorbachev e Reagan alla fine degli anni Ottanta, che aveva consentito di traghettare il mondo verso la fine della guerra fredda. La luna di miele fu però presto interrotta dal ritiro unilaterale degli Usa dal trattato Abm e soprattutto dalla guerra in Iraq a cui si sono poi aggiunti l’arretramento della democrazia all’interno della Russia (i casi Khodorkovski, Politkovskaia, Litvinenko) e la ferma reazione russa alle “rivoluzioni colorate” in Ucraina e Georgia. I rapporti russo-americani sono negli ultimi quattro anni peggiorati ulteriormente. I piani di allargamento della Nato a Georgia e Ucraina, il progetto di spiegamento delle infrastrutture dello scudo anti-missilistico americano in Polonia e nella Repubblica Ceca e l’indipendenza del Kosovo, sono stati i principali irritanti per la Russia; l’uso dell’energia come strumento di pressione sui paesi vicini, il discorso di Putin contro l’unipolarismo americano alla Werkunde nel febbraio 2007, il ritiro russo dal Trattato sulle armi convenzionali in Europa (Cfe), hanno d’altra parte aumentato le riserve degli Usa e dell’Occidente nei riguardi della Russia. La breve interruzione di questo processo di deterioramento avutasi quest’anno in aprile, al Vertice di Sochi, e la firma della Dichiarazione sulla “cornice della cooperazione strategica” tra i due Paesi, è stata immediatamente superata dalla successiva crisi nel Caucaso.
Al di là degli episodi specifici, il problema di fondo nei rapporti russo-americani risiede nel come le due potenze si sono fin qui percepite e relazionate l’una con l’altra. Gli Usa soppesando, dopo la fine della guerra fredda, l’asimmetria di potenza con la Russia hanno pensato di poter agire prescindendo da quest’ultima. E ciò ha provocato tensioni soprattutto nel teatro europeo dove Mosca, più che 13
Risk altrove, misura il proprio status di grande potenza. L’allargamento delle strutture euro-atlantiche ha così finito per essere percepito dalla Russia come una nuova forma di containment, mentre nella guerra in Kosovo Mosca vide il pericolo di una Nato che per risolvere le crisi umanitarie potesse essere tentata di agire anche nello spazio ex-sovietico se non addirittura all’interno della Russia stessa.
Quest’ultima ha d’altra parte continuato a
rivendicare, anche dopo la perdita degli imperi “esterno” (Europa orientale) ed “interno” (Urss) uno status paritario che non era proporzionato, soprattutto nella fase di declino negli anni Novanta, alle proprie effettive capacità di potenza. Ha inoltre in questi anni soprattutto cercato, per asserire il proprio status, di bloccare le inziative occidentali, senza proporre soluzioni concrete per risolvere le diverse crisi e sfide alla sicurezza. Da ciò è derivata una politica di distacco e soprattutto damage control da parte americana, e di zig-zag tra competizione e collaborazione da parte russa. A prescindere dall’elezione di Obama, entrambi i candidati alla presidenza americana sono stati considerati internazionalisti e attivamente impegnati nel ricostruire le basi della leadership americana nel mondo. Cosa significa tutto ciò per quanto riguarda il rapporto con la Russia? McCain ha usato toni quasi da guerra fredda e proposto di fatto una strategia di contenimento contro il “revanscismo” russo. Nel suo schema di Lega delle Democrazie non c’è evidentemente posto per la Russia, che McCain vorrebbe anzi addirittura escludere dal G8. Allo stesso tempo McCain è apparso aperto sulla riduzione degli armamenti, un tema che impegnerebbe necessariamente al dialogo con la Russia. La dura retorica del candidato repubblicano ha spinto alcuni in Russia a sostenere che in caso di una sua vittoria la Russia “dovrà allacciarsi le cinture” e a far sbilanciare diversi rappresentanti delle elites russe in favore di Obama, che per ragioni anagrafiche sarebbe meno appesantito dal bagaglio della guerra fredda e, 14
come tale, più pragmatico e costruttivo, pronto per un fresh start nei rapporti con Mosca. E ciò sebbene le elites russe tradizionalmente tendano a preferire i candidati repubblicani, anche perchè questi ultimi sono in genere (anche se non sempre) meno focalizzati sull’agenda della promozione delle libertà democratiche e dei diritti umani. Le presidenze repubblicane in passato hanno inoltre consentito di realizzare importanti intese nel campo del disarmo: basti ricordare agli accordi tra Nixon-Ford e Brezhnev e tra Reagan e Gorbachev. Obama ha nella sua campagna inizialmente usato toni meno duri verso la Russia, ma la crisi georgiana ha poi finito per omologare il linguaggio critico dei due candidati . Le differenze tra questi ultimi non vanno in ogni caso esagerate. E ciò anche perché i democratici rispetto ai repubblicani hanno il peso di dover dimostrare al pubblico americano di non essere soft on security. Il momento in cui Stati Uniti e Unione Sovietica furono più vicini al confronto diretto - nel 1962 in occasione della crisi di Cuba - si verificò del resto con un presidente democratico, JFK, al quale Obama viene spesso paragonato. Inoltre, tra i consiglieri di Obama sulla Russia vi sono diversi “liberal hawks”, nostalgici dell’era Eltsin e particolarmente critici nei confronti di Putin. Per questo, anche se avesse vinto McCain, il problema di fondo che il 44esimo presidente Usa avrà di fronte, sarà quello di riprogrammare il rapporto complessivo con Mosca, a partire dalla correzione delle percezioni reciproche che risentono ancora troppo dell’eredità della guerra fredda ed individuando nuove e più razionali “rules of engagement” che siano reciprocamente accettabili. Nel reimpostare il rapporto con Mosca Barack Obama dovrà affrontare l’anti-americanismo crescente in Russia e che la crisi caucasica e la crisi finanziaria hanno ulteriormente accentuato. Mosca vede oggi gli Stati Uniti come intenti - dopo aver approfittato del suo periodo di debolezza negli anni Novanta - soprattutto ad impedire la rinascita di una Russia forte e come un alleato quasi automatico dei governi ad essa ostili. Ma la Russia non può
dossier limitarsi ad attendere passivamente un cambio di atteggiamento da parte americana. Dovrà essa stessa contribuire a creare le condizioni per la ripresa di un rapporto normale e la ricostruzione di un clima di fiducia. Il pericolo della perpetuazione delle false percezioni reciproche è forte e resta il principale impedimento all’apertura di un nuovo corso. Per gli Usa il compito è di reinterpretare in chiave meno semplicistica e più realistica il ruolo internazionale della Russia che con la sua tradizione, vastità territoriale e capacità nucleare, non può essere dismessa come una potenza in declino e non rilevante, salvata soltanto da un transeunte boom energetico; la Russia d’altra parte non deve cadere nell’illusione di un rapido declino della leadership degli Usa, nè sopravvalutare la propria ritrovata potenza: Mosca ha bisogno di un rapporto sano e aperto con Washington e l’Occidente per ricostruire le basi della propria economia e realizzare gli obiettivi fissati nella Strategia per lo sviluppo economico a suo tempo adottata da Putin, sulla cui base la Russia dovrebbe diventare entro il 2020 la quinta potenza economica globale. La crisi georgiana e quella finanziaria globale, coincisa anche con una drastica riduzione dei prezzi petroliferi, hanno dimostrato le vulnerabilità economiche della Russia che potranno essere superate solo “con” l’Occidente. Mosca deve superare la “sindrome dell’umiliazione” degli anni Novanta e guardare avanti abbraacciando l’interdipendenza ed evitando controproducenti chiusure nazionalistiche.
Se c’è una cosa che le élites russe hanno
ripetuto finora con chiarezza è che la Russia non cerca un nuovo confronto con gli Usa e l’Occidente. E ciò malgrado la crisi caucasica, che Mosca ha visto come una guerra “di necessità” più che “di scelta” sino al punto di paragonare l’8 agosto (l’azione militare georgiana in Ossezia) all’11 settembre. La Russia è concentrata sull’agenda interna, sulla modernizzazione della sua economia e non ha interesse a perpetuare situazioni internazionali di
conflitto troppo dispendiose. Nè un’America afflitta dalla crisi finanziaria e dalla minaccia di una recessione prolungata e impegnata sul piano internazionale su vari fronti, dall’Iraq all’Afghanistan, dovrebbe aver interesse ad un nuovo confronto con la Russia. Potrebbe, il cambio di Amministrazione a Washington, creare quindi una nuova finestra di opportunità nei rapporti con la Russia. Per sfruttare questa opportunità il prossimo presidente americano dovrebbe concentrarsi sull’agenda globale con la Russia. Innanzitutto, il controllo e la riduzione degli
Nel reimpostare il rapporto con Mosca Obama dovrà affrontare l’antiamericanismo crescente in Russia, che la crisi caucasica e quella finanziaria hanno accentuato. Mosca vede oggi gli Usa come una potenza tesa a impedirne una rinascita e come un alleato quasi automatico dei governi ad essa ostile armamenti, che include il negoziato per un nuovo trattato sulla riduzione delle armi strategiche che possa sostituire lo Start I che scadrà nel 2009, la ratifica da parte degli Usa del Ctbt (la Russia lo ha già ratificato), la riattivazione del Cfe (la Russia ha auto-sospeso la propria adesione), un possibile compromesso sullo scudo anti-missilistico, e l’aggiornamento del regime multilaterale sulla non proliferazione, in vista anche della Conferenza di revisione del Tnp (2010). L’agenda russo-americana potrebbe essere ricostruita anche intorno al resto dell’agenda globale: dalla guerra al terrorismo, con particolare 15
Risk riguardo all’Afghanistan, alla sicurezza energetica, al cambiamento climatico. Andrebbero riproposti anche i termini della cooperazione strategica in campo economico già contenuti nella Dichiarazione di Sochi, tra i quali anche l’adesione della Russia all’Omc, a cui andrebbe aggiunta, alla luce della crisi finanziaria in corso, la collaborazione, insieme alle altre principali potenze, per la definizione di un nuovo ordine monetario e finanziario internazionale (Bretton Woods 2). Su tutti questi temi gli Stati Uniti attraverso una nuova strategia di engagement riuscirebbero anche misurare la maturità della Russia a far parte della comunità dei “responsible stakeholders”. I postumi della crisi nel Caucaso, le divisioni interne in Ucraina ed il dibattito ancora irrisolto all’interno della Nato dovrebbero consigliare la nuova amministrazione americana ad accantonare per il momento il tema - diventato il principale irritante nei rapporti con Mosca - della concessione del Map a Georgia e Ucraina.
L’Europa ha a sua volta un chiaro interesse
ad una nuova “detente” tra Washington e Mosca. La Russia è diventata all’interno dell’Unione Europea il tema di politica estera forse più divisivo, ed un fattore che, quando peggiorano i rapporti russo-americani, si ripercuote negativamente anche sul rapporto transatlantico. D’altra parte l’Europa rischierebbe di essere marginalizzata dalla ripresa di un dialogo strategico russo-americano in stile bipolare. L’Europa deve quindi ritagliarsi un ruolo attivo nella normalizazione dei rapporti tra la Russia e l’Occidente. È qui però necessario un riavvicinamento anche tra le percezioni europea ed americana sulla Russia. Gli Usa, in quanto stato unitario, geograficamente lontano della Russia e non dipendente dall’ energia di quest’ultima hanno maggiore facilità ad assumere atteggiamenti di distacco e intransigenti (no business as usual); l’Europa è esattemente il contrario: non è un attore unitario, è contigua territorialmente e maggiormente esposta ai pericoli di instabilità della Russia e dei Paesi dell’area ex16
sovietica, è fortemente dipendente dalla Russia sul piano energetico ed è quindi particolarmente sensibile alla tenuta dei rapporti con quest’ultima. Per disinnescare le tensioni tra Usa ed Occidente da un lato e Russia dall’altro che provengono principalmente dall’area ex-sovietica (il cosiddetto “vicinato”) sarebbe necessario un dialogo strategico triangolare tra gli Usa, l’ Unione Europea (purchè riesca a parlare con una voce unica) e la Russia che fissi in maniera pragmatica i parametri per una gestione comune della sicurezza, senza ovviamente mettere in discussione il ruolo delle istituzioni esistenti - e cioè la Nato e l’Ue da un lato, e la Csi e la Csto, dall’altro. Una gestione che dovrebbe essere fondata su alcuni principi condivisi, quali il pluralismo di interessi, il rispetto dell’indipendenza e della sovranità dei Paesi dell’area, grandi o piccoli che siano, la rinuncia alle “sfere di influenza”, sia da parte russa che da parte occidentale. Un’intesa strategica e paritaria a tre sul “vicinato” vincolerebbe maggiormente la Russia ad un comportamento responsabile. Il partenariato strategico a tre a livello regionale, potrebbe estendersi anche sui alcuni principali temi dell’agenda globale, a partire soprattutto dalla sicurezza energetica: una questione che andrebbe assolutamente de-politicizzata. I progetti di costruzione di nuove infrastrutture energetiche potrebbero, se maturerà la necessaria fiducia reciproca attraverso un accordo strategico sul “vicinato”, offrire opportunità di cooperazione positiva tra compagnie americane, russe ed europee anzichè agire , come è stato finora, da fattore di competizione negativa tra l’Occidente e la Russia. Nel mondo sempre più incerto del Ventunesimo secolo Stati Uniti, Europa e Russia , al di là della retorica e delle false percezioni, non hanno in realtà veri motivi di rivalità e inimicizia sul piano strategico: condividono invece il comune interesse a rendere il sistema internazionale più stabile e a neutralizzare i “dark sides” della globalizzazione. I parametri per giudicare la Russia non possono essere quelli finora utilizzati. È questa una lezione
che dopo quasi vent’anni dalla caduta del muro di Berlino l’Occidente deve saper accettare. È illusorio pensare ad una Russia che semplicemente accetti “le cose che vogliamo noi” (che si tratti dell’allargamento della Nato o del sistema di difesa missilistico) o che funzioni secondo le regole delle democrazie liberali occidentali. Secondo Dmitri Simes, l’errore degli Usa e dell’Occidente nel dopo guerra fredda è stato di trattare e cercare di influenzare la Russia come la Germania o il Giappone dopo la seconda guerra mondiale, dimenticando che la Russia non era stata ocupata dai soldati americani, nè era stata devastata dagli ordigni atomici. Bisogna trattare la Russia per quello che è e non per quello che vorremmo che fosse, come grande potenza (anche se non ha i numeri degli Usa, nè le prospettive della Cina) e cercare di associarla in una partnership strategica, basata sugli interessi, che ne possa vincolare il comportamento internazionale in senso responsabile. La Russia è in una fase di de-ideologizzazione e chiede un’America ed un Occidente che siano meno ideologici nei suoi confronti. Riuscirà l’America a porsi in termini meno ideologici in cambio di un comportamento responsabile della Russia sul piano sia regionale che globale?
Pragmatismo e responsabilità potrebbero esse-
re i termini di un nuovo bargain tra Usa e Russia al quale l’Europa potrebbe contribuire. Del resto nel mondo complesso e multipolare l’America deve imparare a coesistere con la diversità. La Russia può essere al riguardo un test importante. Ma dovrà anch’essa farsi trovare pronta all’esame al quale il nuovo Presidente americano potrebbe sottoporla. Il pragmatismo ed un approccio basato sugli interessi non implica la rinuncia da parte degli Usa e dell’Occidente alla democrazia e i valori quali componenti essenziali della loro politica estera, anche nel rapporto con la Russia: ma la democrazia deve diventare uno strumento di dialogo e avvicinamento tra società e culture diverse, non un fattore di contrapposizione e isolamento. (Le opinioni espresse nell’articolo sono personali e non impegnano il MAE)
Risk
IRAQ, IRAN, AFGHANISTAN, BIN LADEN, AL QAEDA E LA WAR ON TERROR
LA SFIDA (E LA SPERANZA) MEDIORIENTALE DI
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ANDREA MARGELLETTI
osa succederà in Medio Oriente dopo la nomina del democratico, giovane e di colore Barack Obama a presidente? Gli Usa sono una nazione imperiale, nel senso dell’estensione dei loro interessi e delle loro responsabilità che come noto vanno ben oltre il loro solo territorio propagandosi ad ogni angolo del pianeta.
E come nazione imperiale la loro politica estera è guidata da interessi nazionali che non cambiano in modo radicale al cambiare delle Amministrazioni. Possono mutare gli approcci, ma non le linee guida. Due cose però vanno poste in evidenza. Prima di tutto è evidente che sia cambiato il clima politico internazionale. Dove questo porterà lo vedremo a breve. In secondo luogo, va fortemente sottolineato che l’economia avrà un ruolo sempre maggiore. Una caratteristica storica dei democratici, accentuata dalla crisi finanziaria in corso e dal mandato in proposito che gli elettori hanno dato ad Obama. Ma qui interessa notare come molto probabilmente l’economia sarà più di prima l’arena di confronto tra gli Stati Uniti e i loro competitor. La sicurezza nazionale resterà in cima alle preoccupazioni del nuovo presidente, ma sarà vista in una nuova ottica: non più solo il confronto politico-militare con i Paesi nemici e il terrorismo, bensì il tentativo di tornare a restituire agli Stati Uniti un benessere economico che è anch’esso elemento di sicurezza, e che potrebbe richiedere delle “guerre” di altro tipo con i rivali, ad esempio commerciali, industriali e finanziarie, usando quindi molto di più la leva economica come una 18
vera e propria arma. Senza escludere ipotesi ad esempio di neo-protezionismo. Un elemento importante verso la stessa Europa, e soprattutto verso Russia, Cina e America Latina, ma che avrà grande rilevanza anche in Medio Oriente: basti pensare al tema della dipendenza economica degli Stati Uniti anche dagli idrocarburi mediorientali, nonché a quello del surriscaldamento globale con le sue conseguenze geopolitiche (ad esempio anche in tema di migrazioni). Le linee guida di politica estera quindi non cambieranno anche con Barack Obama, pur se ha vinto in nome del “cambiamento”. Un cambiamento che ha avuto origine proprio nella diffusa avversione dell’opinione pubblica americana alla politica di Bush in Medio Oriente, ma va sottolineato che questo elemento che ha creato un clima ostile ai repubblicani è poi passato del tutto in secondo piano in campagna elettorale in relazione alle scelte specifiche. Lo stesso Barack Obama all’inizio del suo cammino elettorale aveva detto poche cose ma molto forti sul Medio Oriente, proprio per andare incontro alla richiesta di novità risolutive che venivano dagli elettori statunitensi: ritiro dei militari dall’Iraq, concen-
dossier trazione di forze in Afghanistan e nella caccia ad alQaeda, possibilità di colpire il Pakistan per snidare i terroristi, disponibilità a un dialogo diretto e senza condizioni con gli ayatollah di Teheran, una certa apertura anche a movimenti come Hamas. Tutte dichiarazioni tanto suggestive quanto dirompenti di un giovane outsider liberal che si rivolgeva alla sua vasta platea di potenziali elettori insoddisfatti di come stanno andando le cose, parlando più con la pancia che con la testa, anche in virtù della sua pochissima esperienza in campo internazionale. Ma il Barack Obama dei mesi successivi ha man mano acquisito una visione più presidenziale, dovendosi rivolgere a una platea ampia di elettori più centristi, iniziando ad accogliere i consigli di esperti del settore (e non a caso ha scelto il senatore Joe Biden come suo vice, un esperto di politica estera che certo non può essere considerato un estremista pacifista), e rendendosi conto che le sue dichiarazioni non erano più relegate a un comizio ma suscitavano reazioni internazionali che potevano direttamente influire sulla sua credibilità (ed eleggibilità) nonché sul Paese. Nel frattempo la politica dell’Amministrazione Bush da una parte si rinnovava in senso più pragmatico (esemplare il cambio di Donald Rumsfeld con Robert Gates alla Difesa) dall’altra iniziava a mietere alcuni successi. Per cui in Iraq non si parla più di situazione fuori controllo ma anzi già Bush, forte del successo del surge di Petraeus e del coinvolgimento delle tribù sunnite contro al-Qaeda, ha tracciato le linee di una exit strategy e degli accordi politicomilitari tra Washington e Baghdad. Difficile che Obama voglia ora cambiare la linea con improvvise accelerazioni e un ritiro affrettato che non piace più a nessuno né in America né tra gli alleati in Medio Oriente. Allo stesso tempo l’uscente Amministrazione repubblicana ha enormemente rafforzato la linea della diplomazia, lanciando il processo di Annapolis tra israeliani e palestinesi (o meglio addirittura arabi nel loro complesso, Siria compresa) e allo stesso tempo ha raffreddato le ipotesi di un con-
fronto militare con l’Iran, con armi americane o israeliane. Addirittura gli Stati Uniti negli ultimi mesi stanno in qualche modo facendo (sotto traccia) quello per cui Obama più di tutto è stato messo sulla graticola, quando ha detto di essere pronto ad attaccare il Pakistan: i bombardamenti dei droni statunitensi sulle aree tribali pakistane stanno diventando usuali. Dal canto suo Barack Obama ha nettamente sfumato le sue posizioni. Come concetto generale continua a dichiararsi “profeta del dialogo”, tanto all’interno della società americana quanto nei rapporti internazionali. Ma questo dialogo è stato da lui già circoscritto: vuole accentuare il canale diplomatico su tutti i fronti, dalla Russia all’America Latina al Medio Oriente, ma allo stesso tempo fino ad un certo punto. Due esempi: la via militare in Afghanistan non solo va proseguita, ma va intensificata e la caccia a Bin Laden (per ucciderlo o condannarlo a morte, ha ripetutamente dichiarato senza mezzi termini) deve essere intensificata; con l’Iran il dialogo è possibile solo alle condizioni americane, e in caso estremo l’intervento armato non può essere tolto dalle opzioni sulla sua scrivania, soprattutto, e qui sta un punto cruciale, se occorre difendere Israele.
A questo ci sono da aggiungere
alcuni aspetti rilevanti della politica estera “obamiana” e del suo impatto sul mondo. Il primo dato da sottolineare è che Obama è stato bravissimo a intercettare il sentimento degli elettori americani e anche dell’opinione pubblica mondiale: ma deve ancora dimostrare tutto. A partire dal fatto se sappia davvero fare il presidente, e come. E questo suo bisogno di dare dimostrazione potrebbe avere effetti concreti sul prossimo futuro. Gli avversari infatti potrebbero voler metterlo alla prova (è stato il suo stesso vicepresidente Biden a parlare di una probabile imminente crisi internazionale montata ad arte per valutare la vera tempra del giovane inquilino della Casa Bianca) e lui d’altro canto potrebbe sentirsi 21
Risk costretto a fare la voce grossa e a non mostrarsi debole. Nessuno pensi che Barack Obama sarà un presidente pacifista. Allo stesso tempo va preso atto che l’ondata di entusiasmo, di speranza e di apertura che Obama ha oggettivamente saputo suscitare in patria e all’estero potrebbe anche portare delle conseguenze concrete. Molti attori internazionali che certamente reclamano un ruolo maggiore ma che non vogliono riportare il mondo a un luogo di scontro e contrapposizione (penso a Russia e Cina, ma anche a molti Paesi dell’America Latina e del Medio Oriente), potrebbero puntare a una reciproca apertura di cre-
Washington spingerà sempre più per delegare all’Europa la stabilizzazione del Mediterraneo e del Medio Oriente. Come il Libano e l’intero Nord Africa. In quest’ottica la politica di Obama potrebbe trovare un contatto con la Francia di Sarkozy dito che scompagini gli assetti un po’ incancreniti con Bush e rilanci un vero dialogo su basi e condizioni nuove. Questo potrebbe forse valere davvero persino per Stati come ad esempio Iran e Cuba, a patto però che il cambiamento coinvolga anche loro, cosa che può succedere con le elezioni presidenziali del 2009 in Iran (dove Ahmadinejad sarà in difficoltà) e una maggior esposizione della linea riformista di Raul Castro. Quella quindi del dialogo e della diplomazia per Obama potrebbe non essere solo una trovata retorica, ma anche una chance reale, a patto che la nuova amministrazione democratica riesca a 22
tenere ben ferma la linea delle priorità statunitensi e sappia mostrarsi pragmatica e protagonista di questo dialogo e non ingenua e illusa come forse alcuni sperano siano Obama e la sua squadra più stretta. C’è da aggiungere che alcuni elementi apparentemente marginali dovranno essere comunque tenuti presenti. Ad esempio Obama è percepito molto positivamente dalle popolazioni arabe ed islamiche, per molteplici motivi: è il cambiamento rispetto a Bush, si chiama Hussein, ha parenti musulmani, predica il dialogo. Questo può avere un effetto enorme sulla percezione degli Stati Uniti in Medio Oriente e creare condizioni del tutto nuove di favore. Ma ci sono anche controindicazioni. A partire perfino dallo stesso colore della pelle: in certe aree mediorientali questo, che lo distingue anche visivamente (e nella loro ottica positivamente) dai “tipici” americani, può però avere anche degli effetti collaterali negativi, esistendo un certo razzismo presso molti gruppi della regione. Stesso discorso può farsi per l’immagine di un presidente di pace: bene il dialogo, purché non ci siano cenni di debolezza, in quanto la cultura “virile e guerriera” resta comunque importante per conquistare credibilità in vaste fasce mediorientali. Infine va detto che rimarrà prevalente in politica estera quella che è ormai e sempre più una scelta forte di Washington, che ha avuto il suo culmine con l’amministrazione Clinton e una pausa di parentesi solo per motivi contingenti con l’amministrazione Bush: l’interesse principale degli Stati Uniti è sempre più sull’asse del Pacifico. Questo vuol dire che Washington spingerà sempre più per delegare all’Europa la stabilizzazione del Mediterraneo, e quindi di certe aree del Medio Oriente. Penso prima di tutto al Libano, ma anche ai rapporti con Paesi “tranquilli” della regione, come il Nord Africa. In quest’ottica la politica di Obama potrebbe incontrare gli interessi ad esempio prima di tutto della Francia di Sarkozy (con l’Unione Euromediterranea) ma anche dell’Italia. D’altro canto questo potrebbe avere ripercussioni
dossier anche sui rapporti con la Siria nonché sul processo di pace tra israeliani e palestinesi. Anche qui il presidente Obama si troverà su un crinale dovendo scegliere la direzione da prendere. Cosa che in parte dipenderà dal contesto internazionale e anche dalle prossime elezioni in Israele. In parte dalle priorità che intenderà darsi. Obama potrebbe infatti decidere di impegnarsi molto, anche in prima persona, nel promuovere e accompagnare il processo di pace avviato negli ultima anni di Bush (tra l’altro ripeterebbe la storia di Clinton con gli accordi di Oslo seguiti agli assetti disegnati da Bush padre con la prima guerra del Golfo). Ma potrebbe anche mantenere un ruolo di seconda battuta lasciando all’Europa (e semmai alle Nazioni Unite) il compito di tenere sotto controllo gli sviluppi della regione. Certo comunque che l’Amministrazione democratica difficilmente invertirà il percorso di dialogo e pacificazione partito di recente, dato anche le favorevoli condizioni storiche. Semmai Obama potrebbe non impegnarsi troppo a mutare il corso delle cose nel caso in cui le elezioni israeliane da una parte e una serie di crisi e irrigidimenti arabi dall’altra portino a uno stop (magari momentaneo) nelle trattative di pace. Ma in questo contesto va detto che Obama e chi gli è più vicino si sono spesso dimostrati più aperti anche verso le istanze delle realtà meno moderate dell’area. Senza dubbio infatti si possono prevedere ulteriori aperture verso la Siria, come avrebbe anticipato lo stesso Biden. Più ancora di Bush la nuova Washington vuole fare un’apertura di credito al regime di Assad, e provare a stimolarne l’evoluzione riformista e l’allontanamento da Teheran. Anche qui bisogna capire se il dialogo verrà portato avanti in prima persona o se sarà delegato all’Europa (e alla Francia). E se lungo il cammino ci saranno intoppi che invertiranno la tendenza. Per il Libano il contesto è lo stesso, con un processo di pacificazione e stabilizzazione che Obama eredita da Bush e che ovviamente non ha alcun interesse ad invertire. Rimanendo tra libanesi, siriani e palestinesi resta di parlare di Hamas, Hezbollah e le
altre realtà simili. Difficile che in questo caso Obama, dopo le prime aperture che sapevano di gaffes, possa riabilitare del tutto queste organizzazioni. Ma sotto traccia potrebbe comunque provare a rilanciare il dialogo tramite reciproche riservate aperture di credito (e ad esempio la possibilità di una riconciliazione tra Hamas e Fatah e magari un prossimo governo palestinese di unità nazionale). Spostandosi a est l’Iraq resta una spina nel fianco per Obama. Se infatti Bush gli consegna una situazione significativamente migliore di quanto si potesse pensare a inizio campagna elettorale, resta il fatto che Obama si troverà stretto tra le promesse di veloce ritiro e le necessità strategiche da una parte e gli interessi anche dei militari dall’altra. Inoltre non si può escludere che la situazione peggiori, non solo per il venire alla luce di conflittualità comunque ancora latenti, ma anche per la possibile voglia di molti di acquistare posizioni per il dopo-occupazione statunitense nonché di mettere alla prova il nuovo presidente. Quindi le realtà locali, ma anche ad esempio l’Iran e al-Qaeda, potrebbero tornare a giocare più duro in Iraq, creando un vero banco di prova per Obama mettendo in difficoltà le sue speranze di una relativamente comoda uscita.
Questo porta direttamente all’altra grande sfida di Obama: l’Iran. Qualunque amministrazione Usa non potrà accettare un Iran con armi nucleari. E allo stesso tempo Teheran è divenuta anche il perno di ogni forma di antiamericanismo, da quello “viscerale” di alcuni Paesi dell’America Latina a quello strumentale e razionale di Russia e Cina. Con l’Iran quindi Obama dovrà stare molto attento e pesare ogni passo, per non restare intrappolato e trovarsi all’improvviso o di fronte a un Iran atomico o alla necessità di una guerra complicata. Resta però aperta la via di un cambio non di regime ma di governo a Teheran. Se alle presidenziali vinceranno ancora non tanto i riformisti quanto i pragmatici, come successo alle parlamentari, potrebbero essersi create le novità che forniscono a entrambi i conten23
Risk denti la scusa per parlarsi, giustificando la reciproca apertura col fatto che non ci siano più Ahmadinejad da una parte e Bush dall’altra. C’è anche lo scenario opposto: un irrigidimento del regime iraniano potrebbe aumentare il livello di sfida agli Usa di Obama non solo nella retorica in patria, ma anche con azioni concrete in molti Paesi del Medio Oriente, dall’Iraq, al Libano, alla Palestina, al Golfo, all’Afghanistan. E proprio l’Afghanistan è un altro punto cruciale. Su questo non ci sono molti dubbi. La retorica del dialogo di Obama varrà anche qui, con un maggiore impegno politico e di ricostruzione, e persino con la possibilità di trattare con frange di talebani moderati e con le tribù (per altro è già la dottrina Petraeus in corso). Ma allo stesso tempo Obama è stato chiarissimo nel richiedere un maggiore e più deciso impegno militare. Soprattutto per dare la caccia a Osama bin Laden e ad al-Qaeda. Questa non è solo retorica che ricorda l’attualità dell’11 settembre 2001. Da una parte infatti il problema dell’estremismo islamico resta una sfida aperta per gli Stati Uniti, e ne riparliamo più sotto. Dall’altra la decisione di un maggior impegno contro al-Qaeda in Afghanistan è caratterizzante per chi vuole giustificare un possibile disimpegno da altre aree (l’Iraq e il Mediterraneo, come detto). E allo stesso tempo ha delle ricadute molto concrete. La prima che ci riguarda da vicino è che gli Stati Uniti aumenteranno le loro forze e i loro sforzi in Afghanistan, ma Obama chiederà di farlo anche agli alleati europei. Non c’è dubbio che insisterà con forza per un maggior impegno di Nato e Unione Europea in quel teatro. Chiederà più soldati e più mezzi. Certo, anche un maggior impegno politico e diplomatico, ma anche una vera e propria maggiore disponibilità a combattere. La seconda ricaduta è sul Pakistan, Paese la cui situazione è molto instabile e comunque sempre più strettamente legata a quella afghana. Il confine tra i due Stati è del tutto insignificante per pashtun e talebani, mentre vincola e lega le azioni delle forze regolari afghane, pakistane, statunitensi e 24
L’antiamericanismo può essere smorzato dalla novità, dall’entusiasmo, dal messaggio di dialogo e di speranza. Se a questo seguiranno fatti che consolidino questa direzione, può cambiare di molto il contesto in cui Stati Uniti e mondo islamico si verranno a confrontare. Obama sta ricevendo un’importante apertura di credito da parte musulmana, sia a livello popolare che dei governi
internazionali. Obama dovrà stare attento a non compiere azioni che complichino la situazione e accrescano il rischio di instabilità del Pakistan (peraltro Paese chiave della regione dal punto di vista strategico ed economico, baluardo filo-occidentale al confine iraniano e sul fronte anti-fondamentalista, nonché potenza nucleare). Ma non potrà permettersi di ignorare che ogni soluzione del problema afghano e della caccia a bin Laden non può essere trovata senza tener presente il coinvolgimento del Pakistan. Che non può essere un santuario sicuro di estremisti e miliziani, ma allo stesso tempo non può essere spinto tra le braccia dei nemici degli Stati Uniti con una politica avventata che alimenti l’antiamericanismo. Perché oltre tutto, al di là delle milizie tribali fondamentaliste, interessi commercia-
dossier li danno comunque a Paesi come Cina e Iran la possibilità e lo spunto per allungare ulteriormente le loro mani su Islamabad. Anche qui, quindi, riprendendo un tema accennato in apertura, il tema della sicurezza degli Stati Uniti e dell’occidente anche per Obama passa sì tramite un impegno militare, ma anche tramite un confronto economico serrato con molti rivali. Il tema dell’economia torna anche in relazione alle scelte che Obama farà per confrontarsi con il fondamentalismo islamico non solo in Pakistan ma anche in tutto il mondo. Uno degli aspetti drammatici della presidenza Bush è stato proprio il crescente estremismo religioso nei Paesi islamici che in qualche modo ha avuto un rapporto biunivoco con la crescita dell’antiamericanismo. Per questi motivi negli anni passati si sono registrati sondaggi in cui Bin Laden in certi Paesi era molto più popolare non solo di Bush, ma anche di qualsiasi altro personaggio e leader anche islamico (in Pakistan per un periodo “stracciava” Musharraf e la Bhutto). Questa esasperazione è andata attenuandosi già negli ultimi anni, ma allo stesso tempo si consolidava la totale avversione verso Bush e comunque il sentimento di ostilità verso gli Stati Uniti. In questo humus, insieme alla scarsa autorevolezza dei regimi di gran parte dei Paesi arabi e islamici, trovava fertile terreno prima il fondamentalismo (che crea la speranza di una società più giusta) poi l’estremismo, fino alla possibilità di creare opportunità di reclutamento per il terrorismo. Il confronto in atto è gigantesco e riguarda molti temi che vanno dai governi locali alla globalizzazione, dalle condizioni socio-economiche all’integrazione sia nei Paesi di origine sia in quelli di arrivo. C’è poi il tema della modernità. Detto questo però con Obama qualcosa cambia. Soprattutto a livello di atmosfera nel mondo, di attese anche nel mondo islamico. L’antiamericanismo può essere smorzato dalla novità, dall’entusiasmo, dal messaggio di dialogo e di speranza. Se a questo seguiranno fatti che consolidino questa direzione, può cambiare di molto il contesto in cui Stati uniti e mondo isla-
mico si verranno a confrontare. Obama sta ricevendo un’importante apertura di credito da parte musulmana, sia a livello popolare che dei governi. Tutto questo può asciugare l’acqua in cui si muovono gli estremisti, e può privarli di quel consenso sociale e di quella retorica dello scontro che alimenta l’odio, il reclutamento e la copertura dello stesso terrorismo. Il rischio però è che le attese deluse, ed eventuali politiche non adeguate, possano sul medio termine avere un effetto di riflusso, un po’ come è successo per il sogno di Bush su un Medio Oriente democratico. Quindi Obama ha una grande finestra di opportunità per franare il radicalismo islamico armato, ma corre anche dei grandi rischi.
Ovviamente da lui non c’è da attendersi nessu-
na apertura ad al-Qaeda e dintorni. Una cosa è tentare di cambiare le condizioni sociali, economiche e culturali che sono alla base dell’impulso terroristico, un’altra è rinunciare alla lotta. Magari ci sarà meno retorica sulla “guerra al terrorismo”, ma certo non meno azioni. Sia militari sia ancor più verosimilmente di intelligence. Oltre forse a un tentativo di ulteriore maggiore collaborazione con le intelligence e le diplomazie degli altri Paesi, nonché a una particolare attenzione allo sforzo di cercare di prosciugare le fonti di finanziamento di al-Qaeda. Quel che è da sperare è che Obama abbia comunque appreso la lezione dell’11 settembre e sappia dare ai servizi di informazione e sicurezza il giusto ruolo fondamentale in questo mondo, evitando di ripetere il gravissimo errore di Clinton che marginalizzò l’intelligence e in particolare annullò quella umana puntando tutto su quella elettronica, con le conseguenze tristemente note. E a proposito di Clinton e di crisi internazionali, c’è anche da augurarsi che la scelta di Obama per il dialogo, condivisibile, non si trasformi mai in disimpegno, evitando anche qui gli errori della precedente amministrazione democratica, che abbandonò lasciandoli incancrenire, Afghanistan, Balcani, Iraq, Iran e Somalia. 25
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SOLO APPOGGIANDO GLI STATI PIÙ PICCOLI OBAMA RICONQUISTERÀ UN RUOLO NELL’AREA
ASIA, UN NUOVO CORSO È POSSIBILE DI
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MICHAEL AUSLIN
entre gli Stati Uniti perdono terreno in Asia, si accende la battaglia per l’influenza su questa regione, con piccoli Stati (spesso simili) intrappolati tra nazioni autoritarie e democratiche. La pressione esercitata su di loro rappresenta una rara opportunità per Barack Obama e gli Usa di giocare il
ruolo del broker onesto, che lavora per ridurre le tensioni e promuovere il liberalismo. Adottando una nuova strategia, che io definisco del “terzo vicino”, Obama potrebbe cercare di restaurare il prestigio e il ruolo americano nel continente, interagendo più efficacemente con le democrazie emergenti, coinvolgendo più da vicino gli alleati di vecchia data e aiutando gli Stati amici a raggiungere con successo una stabilità regionale. Nonostante gli americani dicano il contrario, l’influenza Usa sull’Asia è stata erosa nel corso degli ultimi dieci anni. Gli attacchi all’immagine pubblica dell’America, insieme alla scarsa attenzione per i meccanismi politici, come la discussione sulla Corea del Nord e un’apparente riluttanza a difendere i valori liberali, hanno reso la politica Usa reattiva e non ispirata. Alcuni interpretano questo “realistico” approccio agli affari regionali, come necessario a non infastidire troppo la Cina e evitare crisi diplomatiche, ma l’effetto è stato rendere l’America una potenza con uno status quo, una che reagisce semplicemente alle iniziative provenienti da Paesi come la Cina, o risponde alle crisi come quella provocata dalla Russia. Il risultato è che, a fronte di risultati non esal26
tanti, l’America non ha mai corso così tanto. Obama dovrà far fronte al riaccendersi di tensioni geopolitiche e alla nascita di poteri autoritari nel mondo. Una delle maggiori aree di contesa è l’Eurasia, dove molti di quei poteri autoritari, incluse Cina, Russia e Iran, stanno effettivamente tentando di espandere la loro influenza e il loro potere. Allo stesso tempo, grandi stati democratici asiatici, come India e Giappone, stanno anch’essi tentando di sostenere la loro posizione e ampliare la portata della loro influenza. L’Asia è diventata una zona di importanza geopolitica centrale, il motore economico mondiale, ricca di risorse naturali, dove alcuni degli stati più importanti del mondo stanno formando alleanze, vendendo armi, ottenendo concessioni, e guardando gli stati rivali con crescente sfiducia. Nel mezzo ci sono nazioni più piccole sempre più preoccupate dei piani dei loro vicini più potenti. Gli ufficiali di molti di questi paesi, specialmente quelli delle nuove democrazie, riconoscono che la presenza degli Stati Uniti in Asia protegge la loro indipendenza, e molti vogliono rinforzare i legami con l’America per creare più opzioni politiche e sviluppare i loro sistemi politici, economi-
Risk ci e di sicurezza. Da parte sua, Washington dovrebbe dare il benvenuto a legami più profondi con questi Paesi minori, interpretandoli come un mezzo per promuovere democrazia e liberalizzazione attraverso la regione asiatico-pacifica. Questo è il nuovo modo in cui Washington potrebbe cercare di rinforzare la sua posizione e sostenere la sua influenza. Prendendo come vantaggio quello che sembra essere l’handicap maggiore dell’America in Asia, la distanza, gli Stati
Obama potrebbe cercare di restaurare il prestigio e il ruolo americano in Asia, interagendo con le democrazie emergenti, coinvolgendo più da vicino gli alleati di vecchia data e aiutando gli Stati amici a raggiungere con successo una stabilità regionale Uniti possono giocare il ruolo dell’outsider disinteressato, offrendosi di essere il “terzo vicino” a varie nazioni – anche quelle che sono già alleate – che hanno paura della Cina o della Russia o forse dell’India o del Giappone. Se coltivata con attenzione e portata avanti con creatività, questa strategia di equilibrio potrebbe evolversi in una comunità naturale e coerente di interessi tra gli stati liberali nella zona asiatico – pacifica e anche giocare un ruolo nelle varie organizzazioni multilaterali che stanno al momento fiorendo nella regione. Il risultato sarà un’Asia più libera e prospera, in cui le piccole nazioni giocheranno un ruolo sempre più decisivo. Per più di cinquant’anni, la strategia Usa in Asia è stata centrata su un modello cosiddetto hub-andspoke, con cui pochi selezionati stati chiave hanno stabilito relazioni bilaterali di difesa con Washington. Per loro e per altri, la presenza dell’America ha signi28
ficato assicurare la stabilità per decenni. Il sistema di trattati Usa ha assorbito la grande quantità di risorse e di pianificazioni di Washington nel Pacifico fin dagli anni ’50. Gli alleati più vicini all’America, Giappone, Corea del Sud, Filippine e Australia, hanno trattati di reciproca difesa formali con gli Stati Uniti; inoltre, grazie all’Organizzazione del trattato del Sud-Est asiatico (formalmente dissolto nel 1997 ma di fatto ancora attivo) continuano a proteggere la Thailandia. Per questi alleati chiave, come per altre nazioni dell’area asiatico-pacifica, l’impegno duraturo dell’America a mantenere una stabilità nella regione è stato centrale per il loro sviluppo e benessere. Inoltre, avendo quasi centomila truppe disolocate in Asia (già dala fine della Seconda guerra mondiale) per gran parte del periodo post seconda guerra mondiali, l’America ha continuamente pattugliato le vie di mare, dato assistenza nello sviluppo, offerto strumenti per la repressione delle sommosse, fornito aiuti umanitari, e promosso la democrazia e il libero commercio. Sotto questa egida, l’Asia dell’Est è diventata l’area più dinamica del globo, con quasi un quarto di tutta la produzione globale e un Pil di più di 9 miliardi di dollari.
L’estrema povertà (i dati dell’Onu la valutano
meno di un dollaro al giorno) è stata sconfitta in Thailandia, Indonesia, Malesia, Vietnam e Cina tra il 1990 e il 2003, e Cina, Filippine, Vietnam e Thailandia hanno raddoppiato il loro Pil tra il 1990 e il 2005. Allo stesso tempo, si sono gradualmente diffusi movimenti democratici nell’area, facendo particolarmente presa in Corea del Sud, Taiwan e Mongolia, mentre significative sfide si stanno portando avanti in Paesi come la Thailandia e le Filippine. Ma anche così, il ruolo di Washington non è stato risparmiato da controversie, specialmente durante la Guerra Fredda, quando sembrava che stesse forzando le nazioni asiatiche a scegliere tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica. Alcune nazioni, come l’India e l’Indonesia, trassero vantaggio dall’astenersi dalla scelta e dalla fondazione del Non-Alinged Movement
dossier del 1995, che conta ancora 118 stati membri, alcuni democratici, altri autoritari. L’abbandono americano di Saigon nel 1975 ha mostrato i limiti della fiducia in Washington, aumentando la riluttanza di molti stati del Sud est Asiatico a cercare stretti legami con gli Stati Uniti.
La fine della Guerra Fredda aveva offerto
una rara opportunità agli Stati Uniti di superare la datata struttura bilaterale del suo sistema di alleanze in Asia per formare una comunità più raccolta di stati guida più liberali e democratici. Una volta che la minaccia di insurrezioni sponsorizzata dall’Unione Sovietica si esaurì e i missili sottomarini balistici di Mosca iniziarono ad arrugginirsi nel porto di Vladivostok, Washington avrebbe potuto trarre vantaggio dai trend democratici della Corea del Sud, della Mongolia e di Taiwan, per mettere in contatto democrazie stabili ed emergenti, promuovere patti bilaterali sul libero commercio e iniziare a parlare di sicurezza nella regione. Un programma diplomatico pubblico e abile avrebbe anche annunciato a suon di tromba la nascita della democrazia e sbandierato ai quattro venti un’affascinante narrativa sul futuro dell’Asia che prevedeva libertà in tutta la regione. Invece, durante gli anni Novanta, gli Stati Uniti hanno messo le relazioni economiche in primo piano e mostrato scarsa attenzione ai movimenti politici potenzialmente dirompenti, incluse le organizzazioni multilaterali come l’Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale (Asean). Ancora più allarmante, l’alleanza strategica dell’amministrazione Clinton con la Cina come pietra angolare della sua politica asiatica. Questa supposta alleanza doveva aver luogo in un regime che meno di dieci anni prima aveva massacrato i suoi cittadini in piazza Tiananmen e che stava pervicacemente costruendo la sua armata di missili balistici, in parte rubando segreti tecnologici e nucleari all’America. Gli alleati di vecchia data come il Giappone si preoccuparono sempre di più della strategia Usa e dell’apparente volontà di Washington di tollerare orientamenti di difesa ostili in
favore di guadagni economici. Questa cecità strategica continua ancora oggi, come l’assenza di una strategia asiatica globale. Washington deve ancora definire una politica cinese coerente, e per quanto riguarda Pechino, gli interessi economici dell’America sembrano correre in senso contrario ai suoi impegni sulla sicurezza. Nonostante le intenzioni degli Usa, ogni mossa progettata per contenere il potenziale potere minaccioso della Cina, è vista dagli stati asiatici (inclusi gli alleati Usa) non puramente come contenimento, ma potenzialmente come la richiesta di scegliere da che parte stare, come fecero durante la Guerra Fredda. La maggior parte non vuole farlo, visto che i legami economici tessuti con la Cina sono ora irreversibili e contrapporsi a Pechino significherebbe perdere l’accesso ai mercati. Un’opzione che li costringe, almeno apparentemente, a mostrare una certa riluttanza agli Stati Uniti. Insomma, per usare le parole di Robert Zoellick, vice segretario di Stato, «Washington si è battuta per un approccio sensibile, cercando di modellare la Cina e farle accettare il ruolo di azionista responsabile».
Gli esperti e coloro che prendono le decisioni
politiche sembrano dividersi tra chi ancora crede alla possibilità di un’architettura grandiosa e multilaterale in Asia, che risolverà i problemi e creerà una nuova era di cooperazione, e chi vede il ritorno di un’era matchpolitik, ovvero una competizione aggressiva tra pochi potenziali egemoni. Due scenari potenzialmente fallaci e pieni di incognite. La rete di cooperazione attuale, infatti, potrebbe mascherare un piano più ardito di forte conflittualità politica. Viceversa, se venissero attuate politiche di confronto aperto e duraturo, si getterebbero le premesse per un quadro geopolitico più stabile e scevro di pericoli imprevisti. Insomma: si ridurrebbero i margini di errore (e di conflitti aperti). Al momento, l’influenza esercitata da Washington sulle scelte e le politiche dei principali attori asiatici è veramente limitata. I leader dell’area decidono praticamente tutto al netto di Washington e di qualsiasi altra nazione occidentale. Lo dimostra la 29
dossier crescente modernizzazione militare della Cina e la sua corsa a una piena sicurezza continentale. Nonostante nessuno la minacci (né dentro né fuori) e nonostante la marina militare Usa abbia sempre garantito copertura e disponibilità estrema, Pechino ha aumentato il suo budget militare di due zeri ogni anno per dieci anni. Ampliando il suo arsenale militare e integrandolo con nuovi aerei caccia, missili balistici sottomarini, reti subacquee e perfino una nuova base sottomarina recentemente scoperta nelle acque all’estremo sud del Paese, vicino alle più cruciali rotte di commercio asiatiche. Insomma, la Cina sta diventando sempre più esperta di cyber-warfare. E, anche se le forze di terra rimangono goffe e arretrate, le capacità asimmetriche della Cina hanno davvero di che preoccupare i pianificatori della sicurezza nella regione.
Ma la Cina non è l’unico stato che desta pre-
occupazione in Asia. Più che in altre regioni, la geografia continua a giocare un ruolo preponderante nelle politiche e nella sicurezza dell’area. La Russia è temuta tanto quanto Pechino: anzi, entusiasmata dal petrodollaro, questa nazione sta cominciando a preoccupare anche di più. L’invasione da parte di Mosca della Georgia la scorsa estate è stato un duro promemoria della volontà del Cremlino di usare la forza per raggiungere obiettivi strategici, e l’inefficace, barcollante risposta dell’Occidente non ha fatto nulla per alleviare le preoccupazioni degli alleati Usa. Il fatto che una piccola nazione che ha appena abbracciato la democrazia possa essere invasa e divisa dalla Russia senza una risposta coerente da parte dell’Occidente, potrebbe ripetersi in futuro con altri stati democratizzati, che si trovino in Asia, in Europa o nel Caucaso. Ma specialmente in Asia, le dimensioni di una Cina e di una Russia autoritarie, creano una situazione unica, simile alla competizione delle grandi potenze del diciannovesimo secolo nella loro incombemte minaccia agli stati più piccoli. Oltre a ciò, le due democrazie chiave in Asia – India e Giappone – preoccupano alcuni degli stati a loro confinanti solo per la loro
enorme grandezza e potenza. Per alcuni, i ricordi della Seconda Guerra Mondiale intralciano le relazioni col Giappone e causano preoccupazioni per la prospettiva di uno sviluppo militare di Tokyo, anche se questo sviluppo è largamente mirato alle correnti minacce come quelle che arrivano dalla Corea del Nord. Le storiche relazioni tese tra India e Cina e il suo sviluppo di armi nucleari fanno sorgere la paura di un conflitto Corea–India nell’Oceano Indiano, in particolare dopo che la marina militare cinese ha espanso la sua influenza attraverso i porti marittimi birmani e pakistani. Infine, la forza delle economie indiane e giapponesi offrono enormi benefici a tutte le nazioni dell’Asia ma fanno anche sì che nazioni più piccole diventino indipendenti su quei mercati e che siano affette da sorgenti ineguaglianze interne generate da inique relazioni commerciali. Questo panorama ancora così fluido offre agli Stati Uniti l’opportunità unica (direi storica) di cambiare la sua tattica nei riguardi di alcuni Paesi, rivedere la sua strategia nell’area e raggiungere degli obiettivi di lungo termine volti sia a mantenere una leadership nella regione sia a promuovere le democrazia. Parlo di quella “Politica del buon vicino” avanzata da Herbert Hoover e più tardi colta al volo da Franklin D. Roosevelt. Un programma volto a ridurre la sfiducia verso gli Usa attraverso ampliate relazioni politico-economiche può, in questo caso, essere esplicitamente legata alla risoluzione (e difesa da) delle pressioni e minacce nella regione. Ecco perché i partner chiave di questo nuovo corso che Obama potrebbe fare suo, diventano tutti gli stati democratici o in procinto di diventarlo, che si stanno liberalizzando nella regione e che già condividono valori comuni, società (relativamente) aperte e accesso a benefici economici e sociali. Ci si interrogherà sulla possibilità che questa strategia possa essere vista davvero come neutrale. Chi progetta le strategie americane non dovrebbe dimenticare, comunque, che la sfiducia naturale tra Cina e Russia assicurerà probabilmente una tensione e una crescente competizione tra loro in Asia. Lo spettro di due pesi massimi che spianano o fanno 31
Risk pressione sui loro vicini più piccoli è più che abbastanza per dare adito a vaghe preoccupazioni per il fatto che Washington stia cercando alleati per affrontare Pechino o Mosca. Allo stesso modo, le crescenti preoccupazioni sulle mire delle democratiche India e Giappone rafforzeranno lo status disinteressato degli Stati Uniti, soprattutto circa le relazioni economiche e di sicurezza tra Washington e altri stati coinvolti. Questa mediazione dovrebbe essere promossa non solo esplicitamente ma diventare una norma nella risoluzione dei problemi regionali, riducendo così il peso (anche sotto un profilo morale) di quegli stati che minacciano o usano la forza su questioni contese. Ci sono abbastanza minacce, preoccupazioni e problemi incalzanti in Asia per giustificare una reazione cinica a questa nuova politica americana.
La strategia “del terzo vicino”
funzionerà però solo ad una condizione: se si prenderà in considerazione il disagio di quei Paesi più liberali pressati dai potenti vicini pronti ad offrirgli la loro assistenza con “annessi e connessi”. Questo significa che l’abilità degli Usa consisterà nel supportarli in questa contesa, garantirgli una difesa, un paracadute economico e un supporto politico il più possibile neutrale, quasi da arbitro. In generale, gli Stati Uniti dovrebbero impiegare un set di programmi e approcci simili, connettendo l’assistenza in campo di sicurezza a relazioni di libero commercio e sostenendo entrambe con più forti impegni nelle società civili, dall’adunanza dell’elettorato di base agli scambi tra parlamentari e intellettuali. L’enfasi e i bisogni a breve termine di ogni nazione determineranno il particolare mix da usare. L’obiettivo a lungo termine della strategia del terzo vicino è sviluppare un’ampia relazione con ognuno dei suoi partner. Ciò va al di là dei recenti tentativi degli Usa, come la Asia Pacific Democracy Partnership, fatti inseguendo risultati multilaterali attraverso progressi bilaterali. È evidente che un simile impegno richiederà un fortissimo sforzo di risorse: da quelle diplomatiche a quelle militari. Soprattutto, il prossimo presidente dovrà assumere questa strategia 32
come un impegno politico e integrarla in seno a tutte le vigenti stratehgie messe in atto verso l’Asia. Le direttive strategiche e la supervisione del progetto “terzo vicino” dovrebbero essere tenute presso la Casa Bianca e il Consiglio Nazionale di Sicurezza (Nsc), che dovrebbe anche scegliere le nazioni target dopo essersi consultato con i dipartimenti governativi in carica. Durante questo momento cruciale, dovrebbero essere coinvolti tutti gli esperti del settore a lavorare insieme a specialisti funzionali, come i consiglieri per la sicurezza e i pianificatori economici. Il direttore Nsc per l’Asia e quello per la pianificazione strategica dovrebbero lavorare fianco a fianco per decidere la politica globale, mentre la supervisione delle operazioni dovrebbe rimanere all’Asia. Gli specifici obiettivi del Paese, i tempi, lo stanziamento delle risorse, il flusso di lavoro, dovrebbero avere origine all’interno di un processo di interazione tra gruppi di lavoro del Dipartimento di Stato, del Commercio e l’Ufficio di rappresentanza degli scambi commerciali Usa. Benché scomodo e burocratico, un approccio interattivo è l’unico modo possibile di impegnare i membri del governo americano responsabili per i paesi target. Sul campo, l’attuazione di specifiche decisioni politiche dovrebbe essere coordinata dalle missioni Usa in ognuno dei paesi scelti, con un ufficiale per i servizi civili esteri dedicato o un ufficiale per le politiche militari straniere assegnato per quello scopo specifico. Una volta che tutti i pezzi di questo puzzle saranno messi insieme a Washington, quali saranno i migliori banchi di prova per un approccio del terzo vicino? Gli stati che si sentono pressati da potenze limitrofe e arroganti e desiderano una relazione più stretta con gli Stati Uniti per garantirsi un po’ di serenità, dovrebbero venire per primi. Inoltre, al meglio delle sue possibilità, gli Stati Uniti dovrebbero essere partner sia dei governi democratici sia di quelli in procinto di diventarlo, non importa quanto i loro sistemi siano imperfetti. Per quelli che non sono democratici, la strategia del terzo vicinato deve mirare esplicitamente alla liberalizzazione. Poi, gli Stati Uniti dovrebbero puntare a
dossier quei Paesi di importanza strategica, per posizione geografica, risorse naturali o correnti linee politiche che stanno avendo un effetto positivo sull’Asia. Date le risorse limitate, gli strateghi americani dovranno inventarsi un qualche parametro per determinare quale nazione possa essere più adeguata, ma anche in questa sua fase ipotetica, alcuni stati sembrano naturalmente adatti per questa strategia. Fra questi:
Mongolia. Con le sue abbondanti risorse naturali,
inclusa la miniera di carbone più grande dell’Asia ed enormi depositi di Uranio, la Mongolia è anche una stabile, benché emergente, democrazia, lodata dal presidente Bush nella sua visita nel 2005. Le accuse di patti illeciti di cui avrebbero beneficiato i partiti al governo – una volta comunista - e le paure di frode elettorali che hanno acceso le rivolte nella città di Ulan Bator, la capitale, dopo le elezioni parlamentari della scorsa primavera, forniscono alcune indicazioni degli ostacoli che questa giovane democrazia si trova ad affrontare. La Mongolia è scomodamente situata tra la Russia e la Cina e sta attivamente cercando aiuto dagli Stati Uniti per mantenere la sua indipendenza economica e strategica. In passato, la Russia ha fatto passi aggressivi verso la Mongolia perché diventasse un suo satellite economico. L’aumento dei prezzi del petrolio (il solito ricatto), e la ricerca di concessioni esclusive hanno permesso alla Russia di ricavarsi un ruolo significativo nell’economia della Mongolia. Ma il predominio va alla Cina, la cui influenza economica su Ulan Bator continua a crescere da quando ha deciso di aumentare al sua presenza nell’Asia Centrale. Washington può naturalmente essere il terzo vicino della Mongolia, espandendo il commercio e le relazioni per la sicurezza (la Mongolia ha già inviato truppe in Iraq) nello sforzo di negare il controllo strategico a Mosca o Pechino. Egualmente importante, alla luce delle sommosse dopo le elezioni parlamentari di quest’anno, l’America dovrebbe impegnare la sua diplomazia pubblica, così come incentivi economici e di difesa, per convincere il popolo della mongolia a non ritirar-
Questa strategia, che io definisco del “terzo vicino”, trasforma uno svantaggio cronico americano – la distanza geografica – in un potenziale straordinario. Portata avanti con creatività, questa politica potrebbe essere un successo si dal sentiero liberale che stanno percorrendo da ormai vent’anni. Promuovere un patto di libero commercio tra gli Usa e la Mongolia significherebbe mercati alternativi e risorse di investimenti per i mongoli e manderebbe un messaggio forte sugli interessi di Washington nel cuore dell’Eurasia.
Corea del Sud.
La Corea è un altro Stato maturo per la strategia del terzo vicino. L’alleanza di mezzo secolo dell’America con Seul rimane forte, ma i coreani dal canto loro sono preoccupati di rimanere schiacciati tra la nascente Cina e il Giappone, o potenzialmente tra l’alleanza Cino-Nord Coreana e la risposta giapponese. Con queste premesse, l’America può dire che la strada per evitare di essere sopraffatti da entrambi è aumentare la presenza e le attività del Nord Corea nella regione, dall’assistenza umanitaria alle associazioni per la sicurezza. Così l’America raggiungerebbe il suo obiettivo di promuovere le risorse della Corea del Nord e diminuire il suo senso di isolamento, e ciò concorda perfettamente con il desiderio del presidente Lee Myung-bak di una “Corea globale”. Come parte centrale di questa strategia, Washington deve spingere Seul a modernizzare le sue capacità difensive così da poter resistere a qualsiasi potenziale minaccia. Una volta fatto ciò, il livello di sicurezza della Corea aumenterà e gli Stati Uniti potranno allora supportare relazioni più strette tra 33
Risk Giappone e Corea del Sud come un modo per diminuire le paure radicate più nella loro esperienza storica che nella presente realtà. Qui, la strategia del terzo vicino sarebbe impiegata per andare oltre le divisioni esistenti tra gli stati democratici. Sviluppare legami più forti tra Tokyo e Seul sarà un test per vedere se la strategia del terzo vicino può garantire maggiori risultati che mettere i grandi stati uno contro l’altro. Rielaborare una relazione triangolare, in questo caso Corea del Sud - Cina - Giappone, riducendo le tensioni tra i due stati democratici, può portare ad un approccio più sensibile degli Usa ai problemi regionali che non debba sempre prendere in considerazione le relazioni logore tra partner naturali.
Asean. Anche il blocco regionale potrebbe benefi-
ciare di una strategia del terzo vicino. L’Asean (Associazione degli stati del Sud Est asiatico) ha guidato molti dei più innovativi sviluppi multilaterali in Asia, inclusi l’Asean Regional Forum e l’East Asia Summit (Eas). Al momento, tuttavia, l’Associazione è lacerata da una battaglia tra Giappone e Cina (entrambi membri del forum dell’organizzazione Plus3) per la supremazia regionale, ed è anche preoccupata per la rivalità a lungo termine tra India e Cina. Ad oggi, gli Usa non sono coinvolti nella maggior parte delle iniziative Asean, Eas incluso. Gli Stati Uniti dovrebbero aumentare la loro partecipazione aumentando i legami militari con gli stati liberali e cercando un accordo di libero commercio, così da offrire un partner neutrale a cui potersi rivolgere mentre cerca di modellare le relazioni nella regione. Le aree di interesse comune e specifico tra Asean e Usa includono la sicurezza marittima, visto che la nascita della marina militare cinese sta causando preoccupazioni per la libertà delle vie di comunicazione via mare e che la marina Indiana potrebbe iniziare a contrapporsi a questo trend. L’America dovrebbe offrire il suo aiuto in risposta a specifici bisogni dei leader Asean ed agire pubblicamente, così da aiutare l’organizzazione a raggiungere specifici obiettivi che diano una maggiore stabilità. Usando la sua diplomazia in 34
dossier questa direzione Washington sarà vista come la pro- tero gruppo. Per concludere nessuno dovrebbe aspetmotrice degli interessi dell’organizzazione, non dei tarsi che la strategia del terzo vicino diventi la politipropri. ca americana predominante in Asia. Non lo sarà, e in effetti non dovrebbe soppiantare le alleanze americaA dire il vero, rivolgersi all’Asean nel suo ne di lunga data o impedire a Washington di provare insieme è più difficile che lavorare con una nazione a creare relazioni più stabili con la Cina o avere singola. Inoltre, i problemi sui diritti umani in atto, approcci multilaterali quando e dove sia appropriato. come la persistente oppressione del popolo birmano Tuttavia, l’approccio del terzo vicino può permettere da parte della giunta militare, rende impossibile agli interazioni più flessibili con quel numero di stati chiaStati Uniti dialogare con alcuni stati Asean. Ora, dalle ve in Asia che sono preoccupati per la loro autosuffivecchie alleanze americane nelle Filippine ai nuovi cienza a lungo termine. L’America può offrire loro stati sulla via della democrazia, Indonesia e la geopo- una distanza geopolitica confortevole e un’apertura liticamente cruciale Singapore, Washington deve economica, e competenze esperte che rispondono ai loro bisogni. Per alcuni, come la Mongolia, l’approccio Usa può essere esplicito; per altri, come l’Asean, dovrebbe essere più discreto. Nel frattempo, ogni partner del terzo vicino riconoscerà presto i benefici di relazioni più strette con l’America e capirà che tale aiuto non è vincolato alla scelta forzata di nessuno schieramento con un’altra nazione. Inoltre, visto che questa strategia è diretta maggiormente a stati liberali o in via di liberalizzazione, è facile che nel tempo, approfondendo i loro rapporti con gli Usa, si formi tra loro una comunità naturale di valori. Ogni stato capirà che la vera minaccia all’indipendenza e al benessere viene dai regimi illiberali, e quelli preoccupati per le dimensioni di altre democrazie nella loro regione, potranno essere lentamente portati ad avere un rapporto più proficuo con quegli stati liberali attraverso i loro stretti legami con affrontare le paure di questi stati in via di sviluppo di l’America. essere usati come pedine da più grandi, unificati pote- Questo, dovrebbe essere sottolineato, non è forzare ri della regione. Molti di questi stati hanno teso una stati più piccoli a convergere su un piano Usa teso a mano all’esercito americano, ad esempio, scambian- egemonizzare l’Asia ma significa aiutare degli stati dosi informazioni e cercando in Washington segni di amici a proteggere i loro interessi e rinforzare le loro un interesse per i loro problemi. Appena l’America aspirazioni liberali. Ci vorranno tempo e risorse per applicherà la strategia del terzo vicino all’Asean, ricostruire un ruolo americano e renderlo credibile e alcuni stati diventeranno partner meno diffidenti fra affidabile. Ma è indubbio che far convergere gli inteloro, e Washington dovrebbe essere abbastanza fles- ressi americani con quelli degli tati più piccoli può sibile da iniziare e portare avanti con loro (e fra loro) essere un modo efficace per raggiungere stabilità e un dialogo comune e spingerli verso un mercato libe- rafforzare il liberalismo nella regione più dinamica ro e iniziative collettive su difesa e sicurezza con l’in- della terra.
Ci vorranno tempo e risorse per ricostruire un ruolo americano e renderlo credibile e affidabile. Ma è indubbio che far convergere gli interessi americani con quelli degli stati più piccoli può essere un modo efficace per raggiungere una stabilità e rafforzare il liberalismo nella regione
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dossier
DIFESA E SICUREZZA RESTANO LE PRIORITÀ DELL’AMMINISTRAZIONE
CHANGE WE CAN. MA NON TROPPO DI
C
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ANDREA NATIVI
on il cambio della guardia alla Casa Bianca la politica di difesa e sicurezza degli Usa subirà sostanziali cambiamenti, pur nella continuità. Perché i margini di manovra saranno relativamente ristretti a causa di fattori che non dipendono dalle scelte di Washington. La “Lunga Guerra”, piaccia o meno, continuerà, mentre gli Usa saranno costret-
ti ad affrontare una competizione globale che non può che farsi più serrata nel momento in cui l’economia statunitense, se pur lontana da una vera stagflazione, comunque non “tira” come qualche anno fa. Del resto gli estremismi anche ideologici che hanno caratterizzato la prima presidenza Bush sono ormai dimenticati, così come i dogmi (primo fra tutti quello della “trasformazione” tecnologica da perseguire a tutti i costi) introdotti da Rumsfeld. Di “esportare” la democrazia non si parla più, nessuno auspica di poter “fare da soli” fregandosene degli alleati, anzi, la Qdr (Quadriennal Defense Review), il documento di indirizzo della politica di difesa, nella sua edizione 2006 era già molto più “addolcita” ed ulteriore aggiustamenti di tiro sono arrivati con la recente, sia pure tardiva, National Defense Strategy (Nds), promulgata lo scorso giugno dal Segretario alla Difesa, Robert Gates, che fa comunque sempre riferimento ad una direttiva presidenziale, la National Security Strategy (Nss), che risale al 2006 e che necessita anch’essa una discreta “manutenzione”. La nuova amministrazione definirà i propri indirizzi con una nuova Nss, cui seguirà una Nds e quindi l’attesissima Qdr 2010.
Tuttavia la maggior parte degli analisti ritiene che occorrerebbe l’arco temporale di un doppio mandato per procedere a qualunque cambiamento radicale, ammesso che fosse ritenuto conveniente/necessario. E nessuno dei due candidati ha invece inserito alcun proposito “rivoluzionario” nella propria piattaforma elettorale….anzi, su questi temi, al di là del dibattito sull’Iraq, non ci si è particolarmente spesi, anche se McCain ha potuto ovviamente giocare d’attacco, visto la propria formazione ed esperienza, costringendo Obama ad inseguire. E non è un caso se nel proprio discorso di “incoronazione” alla convention democratica Obama abbia posto la difesa e la sicurezza come una delle sue assolute priorità, criticando chi ha mandato in guerra soldati non adeguatamente preparati ed equipaggiati. La crescita degli organici delle Forze Armate consentirà poi di ridimensionare il ruolo delle società private che forniscono servizi di sicurezza, logistici etc. Sia McCain sia Obama hanno poca simpatia per i contractors, dei quali al momento il Pentagono non può assolutamente fare a meno. In futuro però una diminuzione degli impegni opera37
Risk tivi all’estero, accompagnata da un aumento della disponibilità di reparti da combattimento, senza dimenticare la ristrutturazione e l’ammodernamento di Guardia Nazionale e Riserva, dovrebbe consentire di diminuire sensibilmente il ricorso ai servigi offerti (a caro prezzo) da società private che in questi anni hanno conosciuto un vero e proprio boom. E che spesso hanno creato gravi problemi.
Soldi e priorità.
A dispetto di una situazione economica non brillante, la spesa per la difesa, fatta salva una crisi davvero devastante, non è destinata a subire un drastico ridimensionamento, quanto piuttosto un moderato ridimensionamento e solo dopo il 2010. Questo per due motivi. Innanzitutto perché gli Usa sono e resteranno un Paese in “guerra” e alle prese con crescenti sfide nel campo della difesa e sicurezza, a partire dal fronte davvero caldo, quello del Pacific Rim, ma senza trascurare il nuovo corso delle relazioni con la Russia (siamo tornati al “Big Chill” e l’effetto della guerra in Georgia è destinato a durare a lungo) o il nodo irrisolto della stabilità del Golfo e del confronto con l’Iran. In secondo luogo perché la spesa per la difesa, sia pur rilevante in termini assoluti, non è certo insostenibile per l’economia statunitense, mantenendosi intorno al 4% del Pnl e questo includendo nel totale anche la spesa diretta per le operazioni militari in corso, che attualmente viaggia al ritmo di circa 12 miliardi di dollari al mese, ma che nel FY 2008 ha raggiunto il totale di quasi 190 e nel FY 2009 scenderà a 170 miliardi dollari (70 già richiesti). Quello che realmente conta è il bilancio core che per il FY 09 si colloca a poco più di 540 miliardi di dollari. Quasi tutti gli analisti ritengono che non si scenderà sotto quota 500 miliardi, quale che sia l’esito delle elezioni presidenziali. Anzi, in realtà a contare davvero più che la scelta dell’inquilino della Casa Bianca sarà l’esito del rinnovamento parziale del Congresso, già in mano ai Democratici. Perché è il Congresso a dare al Presidente i soldi per il bilancio della 38
difesa e l’operazione non è affatto un gioco notarile. Al momento la voglia del Congresso di ridurre la spesa militare…è nulla. Solo ipotizzando un travolgente successo democratico alle elezioni parlamentari, accompagnato da una situazione economica catastrofica che costringa davvero a cercare nei conti della Difesa (e non nell’incremento delle tasse) le risorse per finanziare i programmi di spesa in agenda potrebbe cambiare le prospettive. Diversi analisti, ai quali è stato chiesto quale potrebbe essere il livello di bilancio “core” che i due candidati cercherebbero di propugnare in caso di successo, hanno dato un responso non sorprendente: la forchetta non è ampia e varia dai 500 miliardi di dollari indicati come probabili per Obama ai 550 stimati come ragionevoli per McCain. Una variazione del 10%, pur se significativa in termini assoluti, non è tale da comportare sostanziali differenze, in un senso o nell’altro. Va detto che McCain non tollera il disinvolto ricorso del Pentagono ai fondi “addizionali” di guerra, con procedure che a suo avviso (ed ha ragione) impediscono al Congresso di esercitare appropriati controlli. In effetti il Pentagono ne approfitta per ottenere soldi per acquisizioni o programmi che nulla hanno a che fare con le esigenze di guerra. McCain cercherà di quindi di ridurre il war funding e di riportare tutto ciò che è acquisizione nel bilancio core. Obama non è entrato in questi dettagli, ma se vuole tagliare 200 miliardi di dollari dai 700 oggi spesi per la difesa i “fondi di guerra” saranno un bersaglio privilegiato. Quella che potrebbe cambiare è però la qualità e la distribuzione dei fondi core per la Difesa per riflettere nuove priorità. In particolare è presumibile che la spesa per il personale, quella per l’esercizio e per la ricostituzione della prontezza operativa crescano, mentre diminuiranno percentualmente le spese per l’acquisizione di mezzi e sistemi e anche quelle per ricerca e sviluppo. I militari però stanno svolgendo una intensa campagna affinché la spesa per la difesa rimanga ancorata alla soglia del 4%,
dossier che può sembrare elevata in Europa, dove ben pochi Paesi (certo non l’Italia) riescono ad raggiungere a quel minimo del 2% richiesto dalla Nato. Nel caso degli Stati Uniti però il 4% è considerato un livello ragionevole, ben lontano dal 14% del Pnl registrato durante la guerra del Vietnam, o il 9% della Guerra di Corea. Certo, in termini assoluti gli Usa oggi stanno spendendo nella Difesa, in termini reali, più di quanto non facessero all’apice della Guerra Fredda, eguagliando i livelli della 2° Guerra Mondiale. Ma riducendo drasticamente la spesa per le operazioni militari reali, ammettendo una ripresa dell’economia intorno al 2012 ed una inflazione sotto controllo, il bilancio della difesa core non andrà sotto il 3,6-3,7% del Pnl. E questo è senza dubbio sufficiente protrarre per gli Stati Uniti la condizione di superpotenza militare. Non solo, anche la potente Aia, la associazione statunitense delle aziende aerospaziali, sta iniziando a premere affinché i candidati si impegnino formalmente a non far scendere la spesa per la difesa sotto il 4%, ma con una precisazione: che la porzione di bilancio destinata alle acquisizione di nuovi sistemi si mantenga tra i 120 ed i 150 miliardi di dollari all’anno. E le vere azioni di lobbying devono ancora iniziare.
Più soldati per la Lunga Guerra.
Già la seconda presidenza Bush aveva avviato un programma di potenziamento e ridistribuzione degli organici tra le diverse Forze Armate, privilegiando in particolare le Forze Speciali (che negli Usa sono quasi una quinta Forza Armata), l’Esercito ed il Corpo dei Marines, ovvero le componenti che sono state e rimangono in prima linea per combattere i conflitti in corso in Iraq come in Afghanistan. Parallelamente è stata decisa una graduale riduzione degli organici di Marina ed Aeronautica, ma che non compensa l’espansione delle altre due Forze Armate. La tendenza è stata confermata anche nella richiesta di bilancio per il FY 2009, che prevede un aumento di 7mila soldati per l’Esercito e
di 5mila Marines, portando il totale rispettivo a quota 532.400 unità e 194mila unità (numeri questi che si riferiscono alle sole componenti in servizio attivo, alle quali vanno aggiunte la Riserva e la Guardia Nazionale). Mancano dunque altri 26mila uomini (e donne) per raggiungere l’obiettivo
La nuova Amministrazione definirà i propri indirizzi con una nuova Nss, cui seguirà una Nds e quindi l’attesissima Qdr 2010. Tuttavia la maggior parte degli analisti ritiene che occorrerebbero almeno 8 anni (un doppio mandato, dunque) per procedere a qualunque cambiamento radicale in ambito difesa “Bush”, fissato a quota 752mila. Obiettivo che sarà confermato, visto che entrambi i candidati hanno affermato il proprio sostegno per questa iniziativa, che ha anche molti estimatori al Congresso. Può anche essere che McCain si spinga oltre, perché in alcune occasioni il Senatore ha affermato che la componente attiva delle Forze Armate potrebbe essere aumentata addirittura fino a 900mila unità, cosa che comporterebbe o un massiccio incremento del bilancio o una drastica riduzione delle spese che non siano connesse al personale ed alla sua formazione. Il tutto si accompagna ad una riorganizzazione dell’Esercito volta ad aumentare il numero delle unità operative, potenziando la componente combat e creando Brigate meno pesanti e più numerose. Naturalmente ancorché il programma sia stato lan39
Risk ciato in risposta alla carenze numeriche evidenziate dal duplice impegno in Iraq e in Afghanistan e con il sottointeso riconoscimento che se in Iraq fossero state schierate fin dall’inizio più truppe forse il conflitto avrebbe avuto una piega diversa, tutti sono ben consci che i risultati concreti, ovvero un incremento della consistenza delle forze impiegabili, non può che essere graduale perché i soldati “aggiuntivi” devono essere addestrati e equipaggiati, mentre devono aumentare anche i quadri dei sottufficiali e degli ufficiali. Ecco perché alcuni critici sostengono che, al solito, ci si sta preparando per affrontare la guerra che…si è appena conclusa. La realtà è diversa: le truppe addizionali sono davvero indispensabili per consentire agli Usa di impegnarsi a fondo in conflitti a bassa intensità e di lunga durata, ma avendo a disposizione forze e truppe in quantità tale da preservare una riserva senza la quale le opzioni percorribili qualora si verificassero ulteriori crisi militari sarebbero davvero limitate (gli Usa hanno grattato il fondo del barile tra 2002 e 2008 e per fortuna nessuno dei potenziali avversari/competitors ha osato approfittarne). Inoltre si può ridurre la durata dei turni di servizio “al fronte” e di aumentare il “pool” di truppe cui attingere, offrendo ai soldati più tempo a casa tra un turno e l’altro, senza ricorrere alle odiate pratiche di rafferma obbligatoria. In questi anni, infatti, Esercito e Marines sono stati vicino al punto di rottura ed hanno imposto ai soldati e alle loro famiglie un prezzo altissimo. Naturalmente, come accennato, aumentare la consistenza del personale non è facile, specie se l’economia mostrasse già a breve segni di ripresa, né a buon mercato: i costi del personale sono molto elevati, soprattutto per quanto riguarda le professionalità pregiate e il Pentagono deve offrire condizioni competitive, anche in termini di assistenza sanitaria, benefits, qualità della vita, per trovare i candidati con le qualità richieste (peraltro gli standard sono stati abbassati per supplire alle esigenze più urgenti). I soldati poi devono essere addestrati 40
Gli Usa sono e resteranno un Paese in “guerra” e alle prese con crescenti sfide nel campo della difesa e sicurezza, a partire dal fronte davvero caldo, quello del Pacific Rim, ma senza trascurare il nuovo corso delle relazioni con la Russia (siamo tornati al “Big Chill” e l’effetto della guerra in Georgia è destinato a durare a lungo) o il nodo irrisolto della stabilità del Golfo e del confronto con l’Iran
ed istruiti e questo comporta una crescita dei costi di esercizio e di manutenzione dei mezzi e materiali. E si deve considerare che ogni Brigata in più richiede un investimento iniziale di 6-8 miliardi di dollari, se la si vuole equipaggiare con i materiali più moderni. Ma il “consensus” sul “piano Bush” è davvero bipartisan e non vi è dubbio che la crescita programmata sarà raggiunta. Occoreranno poi diversi anni per consolidarla.
Riforma del procurement e industria. Il
Pentagono se la è cercata ed ora ne dovrà pagare il prezzo: il sistema in base al quale gli Stati Uniti definiscono i requisiti per mezzi e tecnologie, arrivano a selezionare i fornitori e quindi procedono all’acquisizione e introduzione in servizio dei nuovi materiali è in crisi profonda e sarà certamente rivoluzionato, cosa che crea non poche preoccupazioni al complesso militare-industriale. In particolare McCain è considerato una specie di
dossier “babau”, perché negli ultimi anni si è rivelato una vera spina nel fianco sia per l’amministrazione sia per l’industria aerospaziale e della difesa. Del resto si sono verificati episodi di tale gravità che non potevano essere nascosti o insabbiati, non almeno in un sistema come quello statunitense che prevede un effettivo scrutinio parlamentare delle scelte della amministrazione e delle forze armate, così come dell’andamento delle gare e dei programmi di ricerca di sviluppo e di acquisizione. Si è visto di tutto. Dai casi di corruzione, che hanno, ad esempio, portato all’annullamento e al nuovo avvio della gara per l’acquisizione dei velivoli da rifornimento in volo per l’Aeronautica, ai casi di spionaggio industriale tra concorrenti, per non parlare di fatture da centinaia di milioni di dollari pagate due volte senza che nessuno al Pentagono si accorgesse dell’errore, fino a quando chi ha ricevuto i quattrini a sua volta ha “scoperto” e comunicato il piccolo disguido. Innumerevoli programmi sono finiti sotto accusa perché hanno registrato drammatici ritardi, problemi o vere e proprie deficienze tecniche (a partire dai giubbotti antiproiettile fino ad elicotteri, missili e navi e persino satelliti spia) e incrementi dei costi.
Non solo, anni di sanguinosa guerra guer-
reggiata in Iraq ed Afghanistan hanno dimostrato come la formidabile macchina bellica statunitense fosse impreparata ad affrontare proprio il tipo di conflitto più probabile e fosse poi incapace ad adattarsi rapidamente alle nuove esigenze. Un esempio in questo senso è rappresentato dalle tecnologie e dai sistemi in grado di aumentare le capacità di sopravvivenza dei soldati sul campo di battaglia, malgrado le “nuove” tecnologie “asimmetriche” (ad esempio ordigni esplosivi improvvisati fissi e mobili) usate dall’avversario siano tutt’altro che sofisticate o imprevedibili… quando non si tratta di minacce del tutto tradizionali, quali razzi non guidati, bombe da mortaio o…tiro di cecchini. Il versante più Hi-Tech di questa sfida è
rappresentata dai mezzi in grado di fornire un continuo monitoraggio della situazione e un flusso di informazioni intelligence. Si tratta dei sistemi Isr (Intelligence Surveillance Reconnaissance) che si sono rivelati anche quantitativamente insufficienti rispetto alle esigenze. E una volta sparito di scena “Rummy” Rumsfeld e la sua tecnocrazia esasperata, accompagnata da un decisionismo fin troppo pervasivo (fin troppi i paralleli con McNamara) il suo successore, Robert Gates, ha, sia pure a fine corsa, imposto una sterzata violenta, entrando in conflitto con i vertici militari incapaci o poco disponibili ad eseguire direttive e ordini che tendevano a definire nuovi requisiti, ai quali veniva attribuita massima priorità. Lo scontro si è infiammato al punto da portare Gates a chiedere ed ottenere le dimissioni del Segretario e del Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica, i quali continuavano a premere sul Congresso per ottenere fondi per programmi Hi-Tech per futuri conflitti ad alta intensità, mentre il Segretario chiedeva di mettere in linea e al più presto sistemi Isr e d’attacco robotici. Ma c’è di peggio: ormai non c’è programma di acquisizione militare che non si concluda con una serie di ricorsi da parte dei concorrenti usciti sconfitti, ricorsi che spesso sono accolti perché chi ha gestito la gara ha commesso errori o violazioni più o meno evidenti delle regole e delle specifiche fissate dalla stessa amministrazione della difesa. Una situazione insostenibile che riguarda in particolare i programmi aeronautici e missilistici, e che provoca ritardi, disfunzioni ed incrementi dei costi. Entrambi i candidati sono intenzionati a cambiare regole, procedure, controlli e questo proprio quando l’industria si sta dichiarando non più disponibile ad assumere i rischi derivanti da contratti e programmi a costo fisso, sostenendo quindi un ritorno a pratiche di “cost plus” che sarebbero più adeguate a progetti che chiedono prestazioni e caratteristiche avanzatissime e l’impiego di tecnologie di punta. Una sostanziale divergenza di opinioni e valutazioni della realtà. 41
dossier McCain su questo terreno è particolarmente ferrato ed aggressivo, Obama ha giocato invece la carta del “protezionismo”, sostenendo che bisogna si sostenere competizioni aperte e corrette nella scelta di sistemi ed equipaggiamenti, ma che al contempo bisogna anche difendere l’industria della difesa nazionale. D’altro canto Obama, affermando che i soldati Usa non sono equipaggiati ed attrezzati a dovere, non può che chiedere a sua volta che il “sistema” fornisca davvero il prodotto migliore, il più rapidamente possibile e senza per questo spendere cifre folli. E una delle sue proposte, quella di condurre su base competitiva l’assegnazione di qualunque contratto militare del valore superiore ai 25mila dollari (del tutto inapplicabile) indica la volontà di intervenire pesantemente sul processo di procurement. McCain ha anche detto che non intende accettare le famigerate pratiche di pork barreling, che nel gergo congressuale statunitense indicano i provvedimenti di spesa grazie ai quali i deputati riescono proteggere un programma di cui beneficia il proprio collegio elettorale/stato, minacciando altrimenti di bloccare grandi progetti o iniziative politiche. L’intento è lodevole, ma McCain troverà ostacoli formidabili se davvero, come è nel suo stile, cercherà di passare dalle parole ai fatti.
Anche l’industria della difesa si sta prepa-
rando al nuovo corso. Pur nella consapevolezza che il bilancio della difesa statunitense continuerà ad essere molto ricco, ci saranno cambiamenti nelle priorità di spesa e tagli, ridimensionamenti e cancellazioni di programmi. In alcuni settori risulterà impossibile mantenere una base industriale con più fornitori nazionali, semplicemente perché non ci saranno abbastanza programmi per tutti. In particolare nel settore navale l’unico escamotage risulta quello di mettere in gara i gruppi cantieristici nella produzione di lotti di unità, una volta che è stato selezionato il progetto vincente, ma la
cosa è tecnicamente difficile e comunque costosa. Qualcosa del genere potrebbe essere effettuato anche in campo missilistico, per quanto in questo settore i giocatori siano almeno tre, ed è già una realtà, in forma diversa, nel campo dei lanciatori spaziali. Persino nel settore aeronautico ci si chiede fino a quando sarà possibile per Boeing, Lockheed Martin e Nortrhop Grumman continuare davvero a competere su ogni progetto quando di fatto Boeing rischia di uscire dal settore dei velivoli da combattimento tattici e dei velivoli senza pilota da combattimento, Lockheed Martin da quello dei velivoli da trasporto militare, mentre Northrop Grumman potrebbe concentrarsi sui velivoli senza pilota e sui bombardieri. Nel settore dell’ala rotante, Boeing, Sikorsky e Bell rimangono attivi, con Bell in posizione più debole, mentre Lockheed Martin vorrebbe conquistare uno spazio al sole dopo aver vinto, con Agusta Westland, il programma per l’elicottero presidenziale. Nel settore degli armamenti terresti è probabile che si assista ad un ulteriore consolidamento e riassestamento, in conseguenza dei programmi di emergenza lanciati per dotare di veicoli protetti il più rapidamente possibile le truppe al fronte. Questi programmi hanno portato alla ribalta diversi nuovi nomi, in parte peraltro già fagocitati dai colossi come Bae Systems. In teoria per mantenere in vita una vitale competizione pur in un contesto di razionalizzazione industriale gli Usa dovrebbero aprire sempre più le porte alle industrie ed ai prodotti stranieri. Tuttavia il Congresso non è affatto disponibile a favorire un processo in questa direzione, a meno che non le industrie straniere in questione non siano “americanizzate” e quindi i soldi del contribuente americano continuano ad essere spesi, in larga misura, negli Usa. Proprio per questo Bae Systems e Finmeccanica, più che vendere negli Usa quanto producono in Europa, hanno acquisito o stanno acquistando aziende Usa o creano nuove entità negli Stati Uniti. L’industria poi 43
dossier teme che per reazione a tutti gli scandali, gli sprechi e i pasticci di questi anni la nuova amministrazione torni ad applicare controlli estremamente rigidi e puntuali e specifiche superdettagliate, che comporterebbero costi e ritardi e renderebbero burrascosi i rapporti industria-cliente. Più controlli sono inevitabili e financo benvenuti, ma senza esagerare e anche su questo aspetto una operazione di “sensibilizzazione” dei candidati è in corso. Nella consapevolezza che con McCain c’è poco da fare.
Tecnologia, ricerca e investimenti.
I cambiamenti descritti avranno anche un impatto su entità e natura degli investimenti tecnologici. Non è un mistero che già oggi la carne al fuoco è troppa. Ovvero i programmi di acquisizione e di sviluppo in corso sono sottofinanziati. La coperta è corta anche per il Pentagono. In realtà il Pentagono raramente riesce a compiere scelte drastiche, cancellando tout court un progetto, a meno che non si verifichino clamorose deficienze, mentre quasi tutti i tentativi di condurre programmi di acquisizioni “congiunti” per soddisfare con un unico prodotto requisiti identici o molto simili di più Forze Armate o falliscono tra liti furibonde, con il risultato che ciascuno finisce per sviluppare, a caro, prezzo il proprio sistema o procedono solo perché il Congresso lo impone (è il caso del velivolo da trasporto tattico C-27J italiano scelto dall’Army e quasi subito dall’Usaf). Entrambi i candidati hanno promesso che effettueranno una rigorosa revisione dei programmi di acquisizione e sviluppo in corso e non si esclude qualche decisione eclatante. In generale ci si aspetta uno spostamento di attenzione e di fondi dalla Aeronautica e dalla Marina (quest’ultima in particolare è in difficoltà perché non riesce ad avviare un solo programma per unità di superficie che non incontri problemi e sia fermato, ristrutturato o cancellato) in favore dell’Esercito e dei Marines, tradizionalmente considerate un po’ le
“cenerentole” tecnologiche. Ma ora il vento è cambiato, al punto che i programmi aerei e navali che hanno più probabilità di proseguire senza intoppi sono quelli che hanno rilevanza per le forze terrestri. Sullo sfondo c’è poi lo scontro tra i fautori della superiorità tecnologica senza compromessi, per mantenere ed anzi ampliare il vantaggio nei confronti dei potenziali avversari, Cina innanzitutto, e chi invece ritiene che si sia stia esagerando e che un conflitto ad alta intensità combattuto con forze convenzionali ad alta tecnologia da parte di attori statuali sia e oggi (e resterà anche nel medio termine) una eventualità abbastanza remota, mentre è pressante l’esigenza di sviluppare mezzi e tecnologie in grado di assicurare alle forze statunitensi una supremazia nelle operazioni Coin (controguerriglia), con particolare attenzione per il miglioramento della protezione e delle capacità di sopravvivenza dei soldati. Dopo che Rumsfeld è uscito di scena, i paladini della trasformazione e della corsa tecnologica hanno meno ascolto, ma ancora recentemente il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Mike Mullen, si espresso in favore di uno strumento militare bilanciato, che soddisfi le esigenze pressanti della guerra guerreggiata, ma che, tenendo conto del lunghissimo ciclo di sviluppo dei nuovi sistemi d’arma, consideri l’intera gamme delle possibili sfide e minacce future.
Sia McCain sia Obama però continuano a ripetere che proteggere il soldato americano (inteso come fuciliere) e garantirgli tutti gli strumenti per combattere, sopravvivere e trionfare contro qualunque avversario. Questo vuol dire più soldi per programmi poco “sexy”, come l’acquisizione di autocarri corazzati e a prova di mina o di razzo, piuttosto che per armi esotiche. Intendiamoci, il Pentagono continuerà a ricevere i gadget hi tech sui quali investe da anni, comprese le armi ad energia diretta, i supermissili intelligenti e via discorrendo, ma dovrà soddisfare anche le esigen45
Risk ze dei fantaccini. Magari sempre ricorrendo a sistemi sofisticatissimi, perché la tradizione Usa vuole che si punti sempre e comunque su soluzioni ipertecnologiche anche quando non è strettamente necessario o conveniente. È probabile quindi che in diversi settori la corsa militare Usa possa rallentare, sempre senza compromettere il vantaggio su nemici ed alleati, visto che il divario, ad esempio nel settore spaziale o nelle tecnologie strealth, è immenso. Non verrà a mancare il sostegno per tutti quei progetti che si propongono di ridurre l’esposizione dei soldati agli orrori della battaglia: la robotizzazione della guerra non conoscerà soste, anche perché se gli Usa non sono così restii a ricorrere alle armi, non sono (almeno, non lo sono i grandi media e buona parte della politica) disposti a sostenere il costo in vite umane che una guerra, qualunque guerra, comporta. I robot, aerei, navali e terrestri, eliminano questo spiacevole “inconveniente” (e quindi per assurdo rendono la guerra più accettabile e quindi più praticabile per chi siede nella stanza dei bottoni o nello Studio Ovale).
Un settore a proposito del quale i due candi-
dati hanno visioni diverse è, more solito, quello della difesa antimissile, tradizionale “pallino” repubblicano fin dagli anni di Reagan, tenacemente avversato dai democratici. McCain sostiene la necessità di proseguire massicci investimenti in questo campo, Obama è molto più cauto. Obama probabilmente chiederebbe una revisione degli innumerevoli programmi condotti dalla Missile Defense Agency e verosimilmente potrebbe decidere di cancellarne più d’uno, considerando che in effetti ci sono non poche duplicazioni e fin troppe iniziative concorrenti. Tuttavia neanche Obama arriverà ad imporre tagli davvero drastici, perché la minaccia missilistica è una realtà incontestabile (troppi Paesi, a partire dall’Iran e dalla Cina, ma senza dimenticare, la Russia investono in programmi missilistici) e perché dopo anni di riluttan46
za, Nato ed alleati europei hanno riconosciuto che la difesa antimissile è prioritaria, hanno deciso di sostenere il programma statunitense di “scudo antimissile” (che di “stellare” ha ben poco) ed il prossimo vertice dell’Alleanza Atlantica vedrà gli alleati prendere qualche prima decisione concreta. Inoltre, dopo lustri di investimenti, diversi sistemi antimissile stanno finalmente diventando operativi, si tratti degli intercettori basati a terra o di quelli imbarcati sulle unità navali. Sia Obama sia McCain non nutrono invece nessun entusiasmo nei confronti dei tentativi del Pentagono di sviluppare una nuova generazione di armi nucleari, siano esse armi speciali anti-bunker o nuovi ordigni a bassa potenza. Il Congresso del resto ha bloccato regolarmente tutti i tentativi in questa direzione, anche se “travestiti” da programmi di ricerca. Non sarà su questo terreno quindi che la nuova amministrazione vorrà tentare un braccio di ferro. Al Pentagono dovranno rassegnarsi.
Global Engagement.
Tradizionalmente si tende a pensare che un presidente democratico sia più incline a coinvolgere gli Usa in operazioni militari “umanitarie”, mentre un presidente repubblicano, almeno prima dell’ 9/11 e delle conseguenti nuove crociate, sia si favorevole a mantenere una america militarmente forte, ma non a impegnarla in conflitti in giro per il mondo, a meno che non siano in gioco interessi nazionali primari. Oggi una simile distinzione non è più possibile, né avrebbe molto senso. Gli Stati Uniti sono in guerra e anche se il ruolo americano in Iraq si andrà a ridurre, gradualmente, così non sarà per quello in Afghanistan, mentre non mancano certo altri potenziali focolai di crisi che possano richiedere interventi militari di lunga durata e consistente impegno. In un contesto del genere, anche se McCain fosse eletto difficilmente vedremmo affermarsi una dottrina basata su concetti NeoCon all’insegna della “esportazione della democrazia” e del “cambio di regime”.
dossier Quanto ad Obama, almeno inizialmente aveva fatto del ritiro dall’Iraq quasi una bandiera, compensando poi questa linea con l’insistenza sulla necessità di proseguire lo sforzo in Afghanistan, dove vorrebbe inviare almeno due brigate addizionali, circa 10mila uomini, che sarebbe il vero fronte della lotta al terrorismo, dal quale gli Usa sono stati distolti per via dell’avventura in Iraq. Successivamente Obama ha moderato le sue posizioni, condizionando il ritiro delle truppe da Bagdad e dintorni ai progressi ottenuti ed alla situazione sul campo. La linea del governo guidato da Al Maliki, volta, per motivi di politica interna, a definire “a priori” un calendario per la riduzione e il rimpatrio dei soldati Usa, in una certa misura lo agevola, ma al contempo lo lega ad una tabella temporale che arriva fino al 2011, cioè ben oltre quanto propugnato dal candidato democratico. In ogni caso Obama sa benissimo che accelerare i tempi del disimpegno potrebbe avere conseguenze destabilizzanti. McCain invece non ha problemi a sostenere che bisogna rimanere in Iraq fino a quando il “lavoro” non sia completato e non manca di evidenziare che se di ritiro si può parlare è solo grazie ai risultati ottenuti “surge”, l’incremento dei soldati Usa per un anno, che ha portato (insieme ad un radicale cambio di strategia) ad un miglioramento della situazione, sia pure non consolidato. In realtà per McCain non dovrebbe essere troppo difficile trovare un accordo con Al Maliki, perché, arrivando al 2011, il ritiro potrebbe essere abbastanza graduale da consentire un effettivo passaggio totale di responsabilità alle forze di sicurezza irachene. McCain ovviamente è a sua volta favorevole a proseguire l’intervento in Afghanistan ed ad aumentare la presenza di soldati statunitensi, senza però
sguarnire l’Iraq. Entrambi i candidati tengono una linea abbastanza rigida nei confronti dell’Iran. In particolare Obama, che è stato accusato di simpatizzare un po’ troppo per la causa musulmana e per Teheran, ha affermato che non è possibile consentire all’Iran di dotarsi di armi nucleari. Ovviamente McCain è ancora più deciso al proposito. McCain poi ha una tradizionale avversione nei confronti della Russia, per esperienza diretta, for-
Già la seconda presidenza Bush aveva avviato un programma di ridistribuzione degli organici tra le diverse Forze Armate, privilegiando in particolare le Forze Speciali (che negli Usa sono quasi una quinta Forza Armata), l’Esercito ed il Corpo dei Marines, ovvero le componenti che sono state e rimangono in prima linea per combattere i conflitti in corso in Iraq come in Afghanistan mazione culturale ed anagrafe. Ed ovviamente quando Vladimir Putin diceva che l’attacco della Georgia in Ossezia è stato “pilotato” per ragioni di politica interna Usa al fine di favorire uno dei due candidati, aveva in mente, pur senza averlo nominato, il concorrente repubblicano. Obama è invece decisamente meno “acceso”. Un fronte che vede entrambi i candidati muoversi con prudenza è quello cinese: nessuna dichiarazione bellicosa, grande attenzione e segnali di disponibilità, accompagnati da fermezza. Insomma, tutte le opzioni restano aperte. 47
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Le idee migliori sono proprietà di tutti. Seneca
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DELLE IDEE
dossier LA WAR ON TERROR È STATA GIUSTA. E IL NUOVO PRESIDENTE NON LA SOSPENDERÀ
L’EREDITÀ DI BUSH DI
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I •
ROBERT KAGAN
l mondo non appare oggi come la maggior parte di noi aveva previsto dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Si riteneva che la competizione fra grandi potenze avrebbe ceduto il posto ad un’ era di geoeconomia. Si riteneva che la competizione ideologica fra democrazia ed autocrazia sarebbe terminata con la “fine della storia.” Erano in pochi a prevedere che il pote-
re senza precedenti degli Stati Uniti avrebbe dovuto affrontare così tante sfide, non soltanto da parte delle potenze emergenti, ma anche di vecchi e cari alleati. Fino a che punto questo destino era già scritto nelle stelle e fino a che punto nella natura stessa degli americani? E che cosa può fare ora l’America a tale riguardo – ammesso che qualcosa possa fare? Per quanto possa essere difficile da ricordare, i problemi degli Stati Uniti con il resto del mondo — o, piuttosto, i problemi del mondo con gli Stati Uniti – iniziarono ben prima che George W. Bush andasse al potere. Il Ministro degli Esteri francese, Hubert Védrine, si lamentava di questa “iperpotenza” già nel 1998. Nel 1999, in queste pagine, Samuel Huntington affermava che gran parte del mondo considerava gli Stati Uniti una “superpotenza canaglia,” “invadente, interventista, sfruttatrice, unilateralista, egemonica ed ipocrita.” Sebbene Huntington ed altri ne attribuissero la colpa al fatto che l’amministrazione Clinton si vantasse costantemente della “potenza americana e della virtù americana,” non erano stati i Clintoniani ad inventare il moralismo americano. L’origine del problema andava ricercata nel cambiamento geopolitico che era seguito al crollo dell’Unione sovietica ed ai sottili effetti psicologici che questo cambiamento
ebbe sul modo in cui gli Stati Uniti e le altre potenze percepivano se stesse ed i loro reciproci rapporti. Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, si parlava già di una crisi delle relazioni transatlantiche e, nonostante i reciproci scambi di accuse, la causa fondamentale era semplice da individuare: gli alleati non avevano più bisogno gli uni degli altri come in passato. La spinta a cooperare durante la Guerra Fredda era per un quarto dovuta ad una sorta di illuminata virtù e per i restanti tre quarti ad una fredda necessità. La dipendenza reciproca, e non certo l’affetto reciproco, erano state il fondamento dell’alleanza. Quando venne meno la minaccia sovietica, le due parti furono libere di andarsene ognuna per conto proprio. Ed in un certo qual modo esse lo fecero. L’Europa, liberata dalla minaccia e dalla paura dell’Unione sovietica, si concentrò con tutte le sue forze nella difficile opera di creazione della nuova Europa. Negli anni novanta del secolo scorso, l’Unione europea definì un nuovo corso dell’evoluzione umana, dimostrando che le nazioni possono mettere in comune le loro sovranità e sostituire il potere della politica con il diritto internazionale. Ciò ha contribuito ad alimentare un’era caratterizzata dalla codificazione di norme e dalla creazione di istituzio51
dossier ni internazionali. In molti paesi del mondo, ma in particolar modo in Europa, un nuovo dibattito internazionale in tema di “governo globale” soppiantò i vecchi timori dell’epoca della Guerra Fredda. Le preoccupazioni relative ai cambiamenti climatici portarono all’elaborazione del Protocollo di Kyoto. Una nuova Corte Penale Internazionale era in fase di gestazione. In molto operarono a favore della ratifica internazionale del Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari (CNTBT), di un rafforzamento del regime di non-proliferazione nucleare e della redazione di un nuovo trattato per la messa al bando delle mine anti-uomo. Il primo Ministro britannico Tony Blair parlava di una “dottrina della comunità internazionale” nella quale gli interessi comuni della comunità internazionale avevano la meglio sui singoli interessi delle nazioni.
Negli Stati Uniti, il dibattito rimase di natu-
ra più tradizionale. I funzionari dell’amministrazione Clinton condividevano la prospettiva europea, ma ritenevano altresì che gli Stati Uniti avessero un ruolo speciale da svolgere quali garante della sicurezza internazionale – il leader “indispensabile” della comunità internazionale – secondo modalità tradizionali, orientate al potere e stato-centriche. Di fronte alle crisi su Taiwan o in Iraq ed in Sudan, inviavano portaerei e lanciavano missili, spesso in modo unilaterale. Persino Bill Clinton non avrebbe avallato il Trattato sulle mine anti-uomo o il Tribunale Penale Internazionale senza salvaguardie per garantire il ruolo speciale degli Stati Uniti a livello mondiale. Ammoniva sul fatto che esistessero ancora “predatori” internazionali, terroristi e “nazioni fuorilegge” alla ricerca di “arsenali di armi nucleari, chimiche e biologiche nonché dei missili necessari ad utilizzarle.” Neppure i funzionari dell’amministrazione Clinton riuscivano a nascondere la loro insofferenza nei confronti di ciò che consideravano una mancanza di serietà da parte dell’Europa in relazione a questi pericoli, in special modo l’Iraq. Come ebbe a dire l’allora Segretario di Stato
Madeleine Albright, “se dobbiamo usare la forza è perché siamo l’America. . . . Vediamo oltre, guardiamo al futuro.”
La fine della Guerra Fredda dette a tutti la
possibilità di guardarsi con una prospettiva nuova ed agli Europei, in particolare, non piacque ciò che videro. La società americana appariva loro grossolana e brutale – proprio come era apparsa ai loro predecessori del XIX secolo. Védrine chiedeva all’Europa di opporsi all’egemonia degli Stati Uniti in parte come forma di difesa contro il diffondersi dell’Americanismo. Dichiarò: “Non possiamo accettare . . . un mondo politicamente unipolare” e “questa è la regione per la quale stiamo lottando per un mondo multipolare”. Alla fine degli anni novanta del secolo scorso, i tempi del multipolarismo sembravano maturi. Anche le relazioni degli Stati Uniti con la Cina e la Russia si stavano inasprendo. Per lungo tempo i cinesi si erano lamentati delle ambizioni “superegemoniche degli Stati Uniti” e Beijing legittimamente riteneva Washington ostile nei confronti del crescente potere della Cina. Il nazionalismo anti-americano esplose dopo il bombardamento accidentale dell’ambasciata cinese a Belgrado nel 1999 da parte di piloti statunitensi durante la guerra in Kosovo, che sia i cinesi che i russi ritenevano illegale. Il Ministro degli esteri russo, Igor Ivanov, definì quella guerra la peggiore aggressione verificatasi in Europa dalla Seconda Guerra mondiale. A questo sentimento russo non contribuiva di certo il fatto che il 1999 fu anche l’anno in cui la Repubblica ceca, l’Ungheria e la Polonia entrarono a far parte della Nato. Stavano finendo i giorni di una Russia quiescente, desiderosa di integrarsi nell’Occidente liberale, alle condizioni dell’Occidente stesso. Nell’agosto del 1999 il Presidente russo Boris Yeltsin nominò primo Ministro Vladimir Putin che, a settembre, invase la Cecenia ed in meno di un anno passò a guidare la Russia con una politica più nazionalistica e meno democratica. 53
Risk George W. Bush salìal potere in questo mondo sempre più diviso. Anche prima di essere eletto, i vignettisti lo ritraevano come un cowboy texano con la rivoltella a sei colpi ed il laccio. Il politico francese Jack Lang lo definì “assassino seriale”. Il 7 gennaio 2001 Martin Kettle del Guardian scrisse sul Washington Post che “la crescente insofferenza del mondo” nei confronti degli Stati Uniti risaliva a ben prima di Bush, ma che la sua elezione rappresentò quella del “miglior sergente reclutatore che il nuovo anti-Americanismo avesse mai potuto sperare.” Ironia della sorte – una delle tante – fu che Bush salì al potere con la speranza di ridurre le pretese degli Stati Uniti a livello mondiale. In politica estera il realismo era di moda. Durante i dibattiti elettorali per le presidenziali, quando veniva chiesto quali principi avrebbero dovuto ispirare e guidare la politica estera degli Stati Uniti, il candidato democratico, Al Gore, affermava che si trattava di una “questione di valori”, mentre Bush affermava che si trattava di capire “cosa fosse nel supremo interesse degli Stati Uniti.” Gore dichiarava che gli Stati Uniti, il “leader naturale” a livello mondiale, dovevano avere la “consapevolezza di dover svolgere una missione” e fornire agli altri popoli “una sorta di modello che li avrebbe aiutati ad essere più simili a noi”. Bush affermava che gli Stati Uniti non sarebbero dovuti “andare in giro per il mondo dando lezioni su come comportarsi necessariamente in ogni situazione” e che questo era “un modo per non farci più considerare, una volta per tutte, i cattivi americani.”
Ma neppure il realismo dell’amministrazione
Bush si rivelò in grado di guadagnarsi consensi ed alleati a livello mondiale. I funzionari dell’amministrazione Bush avevano sprezzo per il dibattito internazionale degli anni novanta del secolo scorso. Nei primi nove mesi, l’amministrazione si ritirò dal negoziato di Kyoto, dichiarò la propria opposizione nei confronti della Corte Penale Internazionale e del Trattato sulla messa al bando degli esperimenti
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nucleari (CNTBT) ed iniziò a ritirarsi dal Trattato sui Missili anti-balistici (ABM). Alcuni di questi trattati erano già morti e sepolti all’epoca di Clinton, ma mentre quest’ultimo aveva cercato di placare la rabbia a livello internazionale tenendo viva la speranza che gli Stati Uniti avrebbero potuto in fondo ratificarli in futuro, Bush vi si opponeva in via di principio. Come negli anni venti del secolo scorso, i Repubblicani temevano quegli accordi che avrebbero potuto ridurre la sovranità americana. Su queste stesse pagine nel 2000, Condoleezza Rice, l’allora consigliere di Bush in materia di politica estera, che si auto-definiva una “seguace della Realpolitik,” ebbe a lamentarsi di tutto quel gran parlare di “interessi umanitari” in un dibattito superficiale ed affettato. La politica estera degli Stati Uniti doveva essere radicata nel “solido terreno degli interessi nazionali” e non negli “interessi di un’illusoria comunità internazionale.”
Alla base della nuova impostazione vi era un
calcolo realistico: nel nuovo mondo successivo alla fine della Guerra Fredda, gli interessi e gli obblighi degli Stati Uniti si erano ridotti. Si rendeva necessaria una politica estera più circoscritta e basata sugli interessi nazionali. La maggior parte dei funzionari dell’amministrazione concordavano con la critica del politologo Michael Mandelbaum, pubblicata anch’essa su queste pagine nel 1996, secondo la quale l’amministrazione Clinton si era impegnata in una sorta di “opera sociale” internazionale nei Balcani e ad Haiti, dove non erano in gioco interessi nazionali vitali. Rispondendo alla domanda se avrebbe inviato truppe in Rwanda, il candidato Bush affermò che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto “inviare truppe per fermare la pulizia etnica ed il genocidio in paesi al di fuori della portata dei nostri interessi strategici.” Una volta saliti al potere, i realisti dell’amministrazione Bush – dal Vice-President Dick Cheney a Condoleeza Rice, dal Segretario alla Difesa Donald Rumsfeld al Segretario di Stato Colin Powell – erano tutti concordi nel ritenere che gli interventi umanitari e quelli di
dossier creazione, ricostruzione e consolidamento delle nazioni andassero evitati.
La strategia era quella di trasformare gli Stati
Uniti in qualcosa di simile ad un fattore di equilibrio d’oltremare, un salvatore di ultima istanza,o, per dirla con le parole di Richard Haass, uno “sceriffo riluttante.” Durante la campagna del 2000, la Rice parlò di una “nuova divisione del lavoro,” nella quale le potenze locali avrebbero dovuto mantenere la pace a livello regionale, mentre gli Stati Uniti avrebbero fornito sostegno logistico ed informativo, ma non truppe di terra. Richard Perle invocava una nuova posizione militare nelle quale le forze di terra americane sarebbero state dimezzate. I problemi mondiali sarebbero stati affrontati non con gli eserciti, bensì con i missili di precisione. L’unica minaccia immediata – proveniente dagli stati canaglia muniti di missili a lungo raggio – avrebbe potuto essere affrontata unilateralmente tramite la difesa missilistica. Era il momento di una “pausa strategica,” durante la quale gli Stati Uniti avrebbero potuto alleggerire il peso dei loro oneri a livello mondiale e prepararsi ad affrontare le minacce che avrebbero potuto emergere di lì ai prossimi venti o trenta anni. Secondo il parere dei realisti, un mondo nel quale gli interessi nazionali americani non fossero gravemente minacciati era un mondo nel quale il potere e l’influenza degli Stati Uniti avrebbero dovuto ridursi. Per dirla in altri termini, gli Stati Uniti non erano più impegnati ad essere leader mondiale, per lo meno non come lo erano stati durante la Guerra Fredda. Nel 1990, a seguito della sconfitta del comunismo e dell’impero sovietico, Jeane Kirkpatrick sosteneva che gli Stati Uniti avrebbero dovuto cessare di accollarsi il peso di quegli “insoliti fardelli” che la leadership comporta e, “con il ritorno alla ‘normalità’, . . . tornare ad essere un paese normale.” Come scrisse John Bolton in un suo saggio del 1997, era
giunto il momento “di riconoscere che la nostra maggiore sfida ce la eravamo ormai lasciata alle spalle.” Ormai il mondo era in grado di badare a se stesso e lo stesso valeva per gli Stati Uniti. Questa fu essenzialmente la politica che Bush adottò nei primi nove mesi del suo mandato ed il resto del mondo comprese rapidamente il messaggio. Secondo un sondaggio effettuato dal Pew Research Center pubblicato nell’agosto del 2001, il 70% degli
L’invasione dell’Afghanistan, a differenza della guerra in Kosovo e della prima guerra del Golfo, aveva come primo obiettivo la sicurezza degli Stati Uniti e non la creazione di un “nuovo ordine mondiale” europei occidentali intervistati (l’85% in Francia) riteneva che l’amministrazione Bush adottasse le sue decisioni “soltanto in base agli interessi americani.”
Era questo il sentimento prevalente all’epoca
in cui vi fu l’attacco terroristico dell’11 settembre 2001. Naturalmente gli attentati portarono ad una modifica della politica estera dell’amministrazione Bush, ma non si trattò di una vera rivoluzione dottrinale. L’amministrazione non abbandonò la sua impostazione basata sugli interessi nazionali. Il fatto era che la tutela d’interessi definiti in modo ancor più restrittivo – quali la difesa della madrepatria – richiesero all’improvviso una strategia più espansionistica ed aggressiva a livello mondiale. La “pausa strategica” era terminata e gli Stati Uniti si lanciavano di nuovo in un’estesa operazione di coinvolgimento a livello mondiale in quella che divenne nota come “guerra al terrorismo.” Ciò significava dunque che gli Stati Uniti erano tornati ad impegnarsi in un’attività di leadership mondiale? 55
dossier L’amministrazione Bush ritenne di sì. Tuttavia, nel mondo successivo alla fine della Guerra Fredda ed all’attacco dell’11 settembre , gravi ostacoli si frapponevano sulla via del ritorno al vecchio stile di leadership dell’epoca della Guerra Fredda. Uno di questi era il comprensibile ripiegamento su se stessi degli americani e dei loro leader a seguito dell’11 settembre. Le prime avvisaglie del fatto che non si sarebbe facilmente ricreata la vecchia solidarietà nei confronti degli Stata Uniti vennero dall’Afghanistan. L’invasione dell’ Afghanistan – a differenza della Guerra in Kosovo e della prima Guerra del Golfo – aveva come primo obiettivo la sicurezza degli Stati Uniti e non la creazione di un “nuovo ordine mondiale.” A differenza della guerra del Golfo nel 1991, quando George H. W. Bush cercò in tutti i modi di chiamare a raccolta la comunità internazionale, nella guerra in Afghanistan, la seconda amministrazione Bush, con molte delle sue figure di spicco ancora in posizioni di rilievo, si preoccupò di eliminare le basi di al Qaeda e di rovesciare il regime dei Talebani. Ciò significò agire rapidamente e senza quei problemi di gestione dell’alleanza che avevano assillato il Generale Wesley Clark in Kosovo.
Questo approccio più restrittivo
non sorprende affatto, considerato il panico e la rabbia degli Stati Uniti. Ma non sorprende neppure il fatto che il resto del mondo non considerasse gli Stati Uniti un leader mondiale alla ricerca del bene a livello mondiale, bensì un furioso Leviatano esclusivamente concentrato a distruggere coloro che li avevano attaccati. Il mondo dimostrava meno comprensione e sostegno per questa iniziativa. E questo fu il secondo ostacolo che si frappose sulla via del ritorno al vecchio stile di leadership americana nel mondo: il resto del mondo, ivi compresi i più stretti alleati degli Stati Uniti, era anch’esso ripiegato e concentrato su se stesso. Non si trattava di una fuga dalla realtà del dopo 11 settembre. Ciò che era accaduto agli Stati Uniti era accaduto soltanto a loro.
In Europa e nella maggior parte degli altri paesi del mondo, la gente reagì con orrore, dolore e comprensione. Ma gli americani attribuirono a queste manifestazioni di solidarietà un significato molto maggiore rispetto al loro effettivo significato. La maggior parte degli americani, indipendentemente dalla loro appartenenza politica, ritennero che il mondo condividesse non soltanto la loro sofferenza ed il loro dolore, ma anche i loro timori, le loro ansie e paure nei confronti della minaccia terroristica e ritennero altresì che il mondo si sarebbe unito ad essi in una risposta comune. Alcuni osservatori americani ancora si aggrappano a questa illusione. Ma, in realtà, il resto del mondo non condivideva né i timori americani né la loro urgenza nel reagire. Gli europei provarono solidarietà nei confronti della superpotenza americana all’epoca della Guerra Fredda, quando l’Europa stessa era minacciata e gli Stati Uniti garantivano sicurezza. Ma con la fine della Guerra Fredda, ed anche dopo l’11 settembre, gli europei si sentivano relativamente sicuri. Soltanto gli americani erano spaventati. Quando lo shock e l’orrore vennero meno, apparve chiaro che l’attentato terroristico dell’11 settembre non aveva modificato il fondamentale atteggiamento del mondo nei confronti degli Stati Uniti. I risentimenti restavano. Un sondaggio del Pew Research Center effettuato nel dicembre 2001 su un campione di leader d’opinione rivelò che se, da un lato, la maggior parte di essi “si doleva della triste esperienza che l’ America aveva dovuto affrontare”, dall’altro , un numero altrettanto vasto di essi (il 70% degli intervistati nel mondo ed il 66% nell’Europa occidentale) riteneva che fosse “un bene per gli americani sapere cosa vuol dire essere vulnerabili.” Molti leader d’opinione in tutto il mondo, ivi compresa l’Europa, affermarono di ritenere che “le politiche e le azioni americane nel mondo” fossero state una delle “cause principali” degli attacchi terroristici e che, in un certo senso, quelle azioni si erano loro ritorte contro. Molti ritenevano altresì che gli Stati Uniti stessero intraprendendo la lotta contro il terro57
Risk un giustificabile timore di sfidare troppo la sorte hanno impedito all’amministrazione Bush di attribuirsi il merito di ciò che sette anni fa la maggior parte di noi avrebbe considerato quasi un miracolo. Inoltre, molti dei successi dell’amministrazione Bush sono stati resi possibili da una vasta cooperazione internazionale, in special modo con le potenze europee nei settori dello scambio di informazioni, delle attività di polizia e della sicurezza interna. Indipendentemente da eventuali insuccessi dell’amministrazione Bush, va rilevato che essa è riuscita a proteggere gli americani da un ulteriore attacco in patria. La prossima amministrazione potrà ritenersi fortunata se potrà dire altrettanto – e sarà perdente nel confronto con l’amministrazione Bush nel caso in cui non possa farlo. Il problema insito nel paradigma della “guerra al terrorismo” non è il fatto che essa abbia fallito nel suo principale obiettivo di vitale importanza. Il problema è che il paradigma sul quale basare tutta la politica estera degli Stati Uniti era e rimane insufficiente. In un mondo di stati e di popoli egoisti – qual è il mondo attuale – la domanda che ci si pone sempre è: “Cosa ce ne viene in tasca?” L’inadeguatezza del paradigma della “guerra al terrorismo” deriva dal fatto che ben pochi paesi a parte gli Stati Uniti ritengono che il terrorismo sia la sfida principale che essi debbano raccogliere. La battaglia degli Stati Uniti non è stata considerata una battaglia per il “bene pubblico” internazionale della quale il mondo possa essere loro grato. Al contrario, la maggior parte dei paesi ritiene di fare un favore agli Stati Uniti quando invia truppe in Afghanistan (o in Iraq) e spesso hanno l’idea di star sacrificando i loro stessi interessi. Ovviamente tutti i paradigmi di politica estera hanno le loro pecche. Anche il paradigma del contenimento in funzione anti-comunista era inadeguato in quanto dal 1947 al 1989 stava accadendo molto di
La guerra al terrorismo non ha mai attirato una forte lealtà internazionale. La Cina e la Russia la hanno accolta con favore in quanto distoglieva da esse l’interesse strategico americano e gli consentiva di intervenire in due realtà spinose: la Cecenia e gli Uiguri rismo esclusivamente nel loro interesse. Nell’Europa occidentale, il 66% dei leader d’opinione intervistati affermava di ritenere che gli Stati Uniti stessero pensando solo a se stessi. Ciò non sorprendeva affatto considerato il fatto che l’amministrazione Bush stava facendo ben poco per convincere gli alleati del contrario o trasformare la lotta in Afghanistan in una lotta per l’ordine internazionale.
Tuttavia gli americani
non si percepivano affatto come egoisti ed interessati soltanto a se stessi. Un buon 70% dei leader d’opinione americani intervistati affermava di ritenere che gli Stati Uniti stessero agendo anche nell’interesse dei loro alleati. Questa discrasia delle relative percezioni metteva in luce uno dei problemi fondamentali del paradigma della “guerra al terrorismo”. Gli americani, ritornati improvvisamente a svolgere un’opera di vasto coinvolgimento a livello mondiale, ritenevano di essere tornati anche a svolgere il ruolo di leader mondiale. La maggior parte dei paesi nel mondo non condividevano questa convinzione. Giudicata di per sé, la guerra al terrorismo è stata di gran lunga il maggior successo di Bush. Dopo l’11 settembre nessun serio osservatore avrebbe immaginato che sarebbero trascorsi sette anni senza che si verificasse un ulteriore attacco terroristico sul suolo americano. Solo una nuda e cruda partigianeria ed
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dossier più nel mondo che non la sola lotta fra il comunismo ed il capitalismo democratico. Certo l’anti-comunismo tendeva ad attirare la lealtà degli altri paesi nei confronti degli Stati Uniti ed a persuaderli ad accettare la leadership americana. Ciò era più importante dell’immagine stessa degli Stati Uniti, che non era sempre specchiata, pura ed incorrotta. Se la guerra del Vietnam non provocò nelle alleanze degli Stati Uniti quelle stesse spaccature provocate dalla guerra in Iraq, la ragione non sta non sta nel fatto che l’America di Lyndon Johnson e di Richard Nixon fossero più amate dell’America di Bush. Il motivo è che gli Stati Uniti stavano allora fornendo qualcosa di cui gli altri popoli ritenevano di aver bisogno – in primo luogo protezione dall’Unione sovietica – e che non fece loro prestare attenzione alle azioni americane in Vietnam e ad una cultura americana che, nello spazio di soli sette anni, riuscì a produrre l’assassinio di Martin Luther King Jr. e di Robert Kennedy, le rivolte di Watts, le sparatorie della Kent State ed il Watergate.
La guerra al terrorismo non ha mai attirato
quello stesso tipo di lealtà internazionale. La Cina e la Russia la hanno accolta con favore in quanto distoglieva da esse l’interesse strategico degli Stati Uniti – e poichè entrambe avevano compreso l’utilità di una guerra al terrorismo che per Mosca ha significato una guerra contro i ceceni e per Beijing una guerra contro gli ughuri. Ma per la maggior parte dei tradizionali alleati degli Stati Uniti, essa è stata, nella migliore delle ipotesi, un’indesiderata distrazione dalle questioni alle quali tengono maggiormente. In Europa, si è rivelata essere ben più di una semplice distrazione. Gli americani ritengono che gli europei condividano le loro preoccupazioni in materia di Islam radicale. Ma le preoccupazioni europee sono di diversa natura. Per gli americani, il problema sta principalmente “laggiù,” in quelle terre lontane da dove i terroristi islamici radicali possono sferrare i loro attacchi e pertanto la soluzione è anche “lag-
giù.” Per gli europei, il radicalismo islamico è innanzitutto una questione nazionale, per capire se ed in che modo i mussulmani possano essere integrati ed assimilati nella società europea del XXI secolo. Agli occhi degli europei, le azioni americane possono soltanto infiammare ulteriormente i problemi dell’Europa. Quando gli Stati Uniti vanno a stuzzicare un nido di vespe, suscitando un vespaio, tutto ciò si ripercuote sull’ Europa, o per lo meno questo è ciò che gli europei temono. Per dirla in breve, la guerra al terrorismo è stata più fonte di divisione che di unità. Gli Stati Uniti, che negli anni novanta del secolo scorso erano già considerate da molti una potenza egemonica prepotente ed arrogante, a seguito dell’attentato dell’11 settembre sono stati considerati una potenza egemonica prepotente ed arrogante, ripiegata e concentrata su stessa, che non presta attenzione alle conseguenze delle sue azioni. Questa è stata la prospettiva dalla quale molti hanno valutato la decisione di attaccare l’Iraq nel 2003. E questa è un’altra ironia della sorte. Il rovesciamento del regime di Saddam Hussein è stata una delle azioni meno egoiste degli Stati Uniti dopo l’11 settembre e più in linea con l’immagine di leader mondiale attivo e responsabile che gli Stati Uniti avevano di se stessi prima di quel terribile evento rispetto alla più ristretta politica estera di Bush, attenta esclusivamente agli interessi americani. L’ invasione fu parzialmente correlata alla guerra al terrorismo. Anche l’amministrazione Clinton si era preoccupata dei legami che Saddam aveva con il terrorismo ed aveva utilizzato questi presunti legami per giustificare la sua azione militare nei confronti dell’Iraq nel 1998. Clinton stesso aveva messo in guardia in merito al fatto che se gli Stati uniti non avessero intrapreso azioni contro Saddam, il mondo sarebbe stato “maggiormente esposto a quel tipo di minaccia che l’Iraq pone oggi – quella di uno stato canaglia con armi di distruzione di massa, pronto ad utilizzarle o a fornirle a terroristi, trafficanti di droga o membri della criminalità organizzata che vanno in 59
Risk giro nei nostri paesi, passando inosservati.” Dopo l’11 settembre , un livello notevolmente minore di tolleranza nei confronti delle minacce ci aiuta a spiegare il perché realisti quali Cheney, che in passato avevano ritenuto che Saddam potesse essere arginato e tenuto a bada senza correre rischi cambiarono improvvisamente idea. La stessa logica spinse la Senatrice democratica dello Stato di New York, Hillary Clinton, e molti altri Democratici e Repubblicani in Congresso ad autorizzare l’uso della forza nell’ottobre del 2002, provocando lo sbilanciato voto al Senato di 77 a 23. Fu questo il motivo per il quale una chiara e manifesta opposizione alla guerra fu così rara. L’editorialista del Time, Joe Klein, rispecchiò quel sentimento prevalente in un intervista alla vigilia della guerra: “Prima o poi, questo tipo dovrà essere scovato. . . . Bisogna lanciare ora questo messaggio perché in caso contrario . . . si rafforzerebbe qui qualsiasi potenziale Saddam e qualsiasi potenziale terrorista.” Tuttavia, i principali presupposti alla base della decisione d’invadere l’Iraq risalgono a ben prima della guerra al terrorismo ed anche del realismo di Bush. Erano coerenti con una visione più ampia degli interessi americani che erano prevalsi negli anni dell’amministrazione Clinton e durante la Guerra Fredda. Negli anni novanta del secolo scorso l’Iraq era considerato non una minaccia diretta per gli Stati Uniti, bensì un problema di ordine mondiale nei confronti del quale gli Stati Uniti avevano una speciale responsabilità. Come affermò l’allora Consigliere per la Sicurezza Nazionale, Sandy Berger, nel 1998, “il futuro dell’Iraq influenzerà il modo in cui il Medio Oriente, ed il mondo arabo in particolare, evolveranno nel prossimo decennio e ben oltre.” Ecco perché nel 1998 personalità quali Richard Armitage, Francis Fukuyama e Robert Zoellick poterono firmare una lettera che richiedeva la rimozione forzata di Saddam. Ecco perché, come Bill Keller del New York Times (oggi direttore esecutivo di questo giornale) scrisse all’epoca, i liberal in quello che egli definì “The I-Can’t-Believe-I’m60
dossier a-Hawk Club” (quelli del non posso credere di far parte del Club dei falchi) sostennero la guerra, ivi compresi “quelli del New York Times e del Washington Post, i direttori e gli editori del New Yorker, del New Republic e di Slate, gli editorialisti di Time e Newsweek,” nonché molti ex-funzionari dell’amministrazione Clinton.
Quei liberali e progressisti
favorevoli alla guerra contro l’Iraq lo erano principalmente per gli stessi motivi per i quali erano stati favorevoli alla guerra nei Balcani: la ritenevano necessaria a preservare l’ordine internazionale liberale. Preferivano che gli Stati Uniti ottenessero il sostegno delle Nazioni Unite alla guerra, ma sapevano anche che ciò si era rivelato impossibile nel caso del Kosovo. La loro principale preoccupazione era che l’amministrazione Bush, dopo aver rovesciato il regime di Saddam, non adottasse un approccio strettamente realista nell’affrontarne le conseguenze. Come ebbe a dire il Senatore democratico dello Stato del Delaware, Joe Biden, “Alcuni non sono qui per creare, ricostruire e consolidare una nazione.” Un ex-funzionario dell’amministrazione Clinton, Ronald Asmus, si chiedeva: “è una questione di potere americano o è una questione di democrazia?” Riteneva che se fosse stata una questione di democrazia gli Stati Uniti avrebbero “avuto un sostegno più vasto a livello nazionale e più amici ed alleati a livello internazionale.” Tuttavia, questo stesso vasto consenso di conservatori, liberali, progressisti e neo-conservatori americani, non si registrò nel resto del mondo. Per gli europei vi era una grande differenza fra il Kosovo e l’ Iraq. Non era un problema di legalità o di imprimatur da parte delle Nazioni Unite. Il problema era la collocazione geografica. Gli europei erano pronti ad entrare in guerra senza l’autorizzazione delle Nazioni Unite su una
questione che li riguardava tutti, vale a dire la loro sicurezza, la loro storia e la loro morale. L’Iraq era tutta un’altra storia. Per i liberal americani quali l’editorialista del New York Times, Thomas Friedman, “il cinismo e l’insicurezza dell’Europa, spacciati per superiorità morale,” erano “intollerabili.” Per lungo tempo, l’Iraq era stata una questione controversa, causa di divisioni. Negli anni novanta del secolo scorso, si era aperto un ampio divario fra il Regno Unito e gli Stati Uniti da un lato, che favorivano la politica di contenimento dell’Iraq tramite sanzioni e pressioni militari e la Cina, la Francia, la Russia e la maggior parte degli altri paesi dall’altro, che erano favorevoli a porre fine alla politica di contenimento. Nel 2000, l’amministrazione Clinton temeva che la politica di contenimento stesse diventando insostenibile, ma aveva già perso la battaglia volta a convincere gli altri che così fosse. La situazione non era di molto cambiata nel 2003. Il livello di tolleranza dimostrata dal resto del mondo nei confronti dell’Iraq di Saddam non si era ridotto a seguito degli attacchi dell’11 settembre, a differenza di quello degli Stati Uniti. Al contrario, era il livello di tolleranza del resto del mondo nei confronti degli Stati Uniti che era diminuito.
Per gli europei vi era una grande differenza fra il Kosovo e l’ Iraq. Non era un problema di legalità o di imprimatur da parte delle Nazioni Unite. Il problema era la collocazione geografica. Gli europei erano pronti ad entrare in guerra senza l’autorizzazione Onu su una questione che li riguardava tutti, vale a dire la loro sicurezza 61
Risk Nel 2003, pochi paesi erano animati dalla consapevolezza dell’urgenza di una guerra al terrorismo, dagli interessi umanitari in Iraq o dal desiderio di vedere gli Stati Uniti alla guida di una crociata internazionale per ripristinare l’ordine con la forza, come era accaduto con la Guerra del Golfo nel 1991. Erano in pochi a credere che gli Stati Uniti, specialmente nell’era di Bush, stessero improvvisamente agendo avendo a cuore l’ordine mondiale. Pertanto molti potevano soltanto spiegare le ragioni di quella guerra come una guerra per il petrolio, per Israele, per l’imperialismo americano o per tutto fuorché ciò che i suoi sostenitori, in tutto l’arco politico statunitense, ritenevano che fosse: una guerra sia nell’interesse degli Stati Uniti che nell’interesse nella parte migliore dell’umanità.
Chi può dire che cosa sarebbe successo se
alti funzionari dell’amministrazione Bush ancora mantenevano come retaggio degli anni novanta del secolo scorso e della prima fase dell’amministrazione Bush stessa . Gli alti funzionari del Pentagono erano ancora ancorati al concetto della “pausa strategica” ed ostili nei confronti di un’eccessiva dipendenza dalla forze di terra. Inoltre, come aveva temuto il Senatore Biden, persisteva l’allergia dei realisti Repubblicani nei confronti della ricostruzione del paese. Le conseguenze sia in Afghanistan che in Iraq furono lo spiegamento di un numero troppo ridotto di truppe per poter ottenere il commando effettivo di quei paesi e porre fine alle inevitabili lotte di potere conseguenti alla caduta delle precedenti dittature ed alla troppa scarsa capacità dei civili di intraprendere quella massiccia rigenerazione sociale ed economica necessaria per adempiere al compito ineludibile della ricostruzione nazionale successiva alla guerra. In Iraq questi errori divennero evidenti pochi mesi dopo l’invasione. Ci sono voluti altri 4 anni all’amministrazione Bush per adeguarsi ed aggiustare il tiro. L’amministrazione Bush ha infine adeguato la sua strategia e pertanto le prospettive di successo in questo paese sono di gran lunga migliori oggi rispetto a quanto apparisse possibile un paio di anni fa. Ma gli Stati Uniti hanno pagato un prezzo altissimo per il fatto di avere esitato e sbagliato per anni. Indipendentemente dal danno che l’invasione stessa possa aver arrecato all’immagine degli Stati Uniti, il danno inferto da 4 anni d’insuccessi – ivi comprese le manifestazioni più sensazionali di questo fallimento, quali lo scandalo della prigione di Abu Ghraib – è ben maggiore. In un mondo che si divide sempre più, l’unica cosa peggiore di una potenza egemonica ripiegata e concentrata solo su se stessa è una potenza egemonica incompetente, ripiegata e concentrata solo su se stessa.
gli Stati Uniti avessero scoperto quelle armi, quei materiali e quei programmi che tutti, ivi compresi gli europei ed i detrattori di quella guerra, ritenevano che fossero in Iraq? Anche nel caso in cui non fossero state scoperte armi, come avrebbe reagito il mondo se gli Stati Uniti avessero rapidamente riportato un certo ordine ed una certa stabilità in Iraq? L’allora Segretario di Stato Colin Powell riteneva all’epoca che “una volta vinta la guerra rovesciando il regime di Saddam e una volta che la gente si fosse resa conto del fatto che era intenzione degli Stati Uniti garantire una vita migliore al popolo iracheno,” sarebbe stato possibile modificare “piuttosto rapidamente” l’opinione mondiale. Ovviamente ciò non è accaduto. Gli Stati Uniti, dopo aver rovesciato il regime di Saddam, hanno immediatamente iniziato a brancolare nel buio, annaspando nel tentativo di riportare ordine e stabilità nell’Iraq del dopo Saddam. Sono molte le ragioni alla base di questo insuccesso, ivi compreso l’effetto combinato di errori di valutazioni e di sfortuna che si possono verificare in ogni guerra, nonché le La prossima amministrazione ha la possibidifficoltà insite nella società irachena così divisa. lità di apprendere dagli errori dell’amministrazione Ma una parte del problema stava nell’idea che molti Bush, nonché di fare tesoro dei progressi che l’am62
ministrazione Bush ha fatto nel correggerli. Oggi la posizione degli Stati Uniti nel mondo non è poi cosÏ
dossier negativa come qualcuno sostiene. Le previsioni in base alle quali altrr potenze si sarebbe unite in uno sforzo volto a controbilanciare l’influenza della superpotenza canaglia si sono rivelate inesatte. Altre potenze stanno emergendo, ma non si stanno affatto unendo in funzione anti-americana. La Cina e la Russia hanno tutto l’interesse e la voglia di ridurre il predominio americano e ricercano più potere relativo per se stesse, ma restano altrettanto diffidenti e sospettose l‘una nei confronti dell’altra di quanto lo siano nei confronti di Washington. Altre potenze in ascesa, quali il Brasile e l’India, non stanno cercando di controbilanciare l’influenza degli Stati Uniti. In realtà, nonostante i sondaggi negativi, geopoliticamente la maggior parte delle grandi potenze a livello mondiale si sta sempre più avvicinando agli Stati Uniti. Alcuni anni fa, la Francia di Jacques Chirac e la Germania di Gerhard Schröder avevano accarezzato l’idea di rivolgersi alla Russia per controbilanciare il potere americano. Ma oggi Francia, Germania e resto d’Europa tendono verso un’altra direzione. Ciò non è dovuto ad un rinnovato affetto nei confronti degli Stati Uniti. La politica estera maggiormente filo-americana del Presidente francese Nicolas Sarkozy e del Cancelliere tedesco Angela Merkel riflettono la loro convinzione che relazioni più strette con gli Stati Uniti, anche se non esenti da critiche, rafforzino il potere e l’influenza europea. Al contempo, i paesi esteuropei sono preoccupati dal risorgere della Russia.
Gli stati dell’Asia e del Pacifico si sono sempre più avvicinati agli Stati Uniti, per lo più in quanto preoccupati del crescente potere della Cina. Alla metà degli anni novanta del secolo scorso, l’alleanza fra Stati Uniti e Giappone era a rischio di erosione. Ma a partire dal 1997, la relazione strategica fra i due paesi si è rafforzata sempre più. Alcuni dei paesi del Sud-est asiatico hanno anche iniziato a proteggersi dall’ascesa della Cina. (L’Australia può rappresentare l’unica eccezione a questa tendenza prevalente, in quanto il suo nuovo governo si sta spostando verso la Cina ed allontanando dagli Stati Uniti e dalle altre
potenze democratiche della regione.) Lo spostamento più evidente si è verificato in India, ex-alleato di Mosca, che oggi intrattiene buone relazioni con gli Stati Uniti quale fattore importante per il conseguimento dei suoi più vasti obiettivi strategici ed economici. Persino in Medio Oriente, dove l’anti-americanismo divampa ai massimi livelli e dove le immagini dell’occupazione americana ed il ricordo di Abu Ghraib continuano a bruciare nell’immaginario popolare, l’equilibrio strategico non si è modificato a svantaggio degli Stati Uniti. Egitto, Giordania, Marocco ed Arabia saudita continuano ad operare a stretto contatto con gli Stati Uniti e lo stesso dicasi per i paesi del Golfo Persico preoccupati dall’Iran. L’Iraq è passato dall’ implacabile anti-americanismo dei tempi di Saddam alla dipendenza dagli Stati Uniti e, negli anni a venire, un Iraq stabile sposterebbe decisamente l’equilibrio strategico in direzione filoamericana in quanto l’Iraq ha vaste risorse petrolifere e potrebbe diventare un’ importante potenza in seno alla regione. Questa situazione contrasta fortemente con le principali battute d’arresto subite dagli Stati Uniti in Medio Oriente negli anni della Guerra Fredda. Negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, un movimento nazionalista pan-arabo si diffuse nella regione e spianò la strada ad un coinvolgimento sovietico senza precedenti, ivi compresa una quasi alleanza fra l’Unione sovietica e l’Egitto di Gamal Abdel Nasser, nonché un’alleanza sovietica con la Siria. Nel 1979, venne meno uno dei pilastri fondamentali della posizione strategica americana nella regione quando il regime iraniano filoamericano dello scià fu rovesciato dalla virulenta rivoluzione anti-americana dell’Ayatollah Ruhollah Khomeini. Ciò portò ad un fondamentale spostamento dell’equilibrio strategico nella regione del quale gli Stati Uniti stanno ancora soffrendo. Niente di simile si è ancora verificato a seguito della guerra in Iraq. Coloro che oggi proclamano che gli Stati Uniti siano in una fase di declino spesso immaginano un passato nel quale il mondo danzava al ritmo di una solenne e maestosa musica 65
Risk americana. Questa è un’illusione. Cresce la nostalgia per la meravigliosa era dominata dagli Stati Uniti a seguito della Seconda Guerra mondiale. Tuttavia, anche se gli Stati Uniti hanno avuto successo in Europa, hanno subito disastrose battute d’arresto altrove. Ciascuno di questi avvenimenti – quali la “perdita” della Cina a seguito dell’instaurarsi del comunismo, l’invasione nord-coreana della Corea del Sud, la sperimentazione sovietica della bomba ad idrogeno, le agitazioni del nazionalismo postcoloniale in Indocina – è stato una calamità strategica di immensa portata ed è stata compreso all’epoca come tale. Ciascuno di essi ha notevolmente determinato il resto del XX secolo e non di certo per il meglio. E ciascuno di essi si è chiaramente rivelato sfuggire al controllo e persino alla capacità di gestione degli Stati Uniti. Nessun singolo avvenimento dello scorso decennio può essere minimamente paragonato alla portata di uno qualsiasi di questi eventi che hanno segnato una battuta d’arresto per la posizione americana nel mondo. Gli strateghi cinesi ritengono probabile che l’attuale configurazione internazionale duri ancora per qualche tempo e probabilmente hanno ragione. Finché gli Stati Uniti resteranno al centro dell’economia internazionale e continueranno ad essere la potenza militare dominante ed il principale apostolo della filosofia politica più popolare nel mondo, finché l’opinione pubblica americana continuerà a sostenere il predominio americano, come ha fatto coerentemente per sessant’anni, e finché i potenziali concorrenti ispirano più timori che comprensione fra i paesi vicini, la struttura del sistema internazionale dovrebbe restare immutata, con una superpotenza e molte grandi potenze. Tuttavia, sarebbe altresì illusorio immaginare che si possa facilmente ritornare a quella leadership americana ed a quella cooperazione fra gli alleati degli Stati Uniti che avevano caratterizzato l’epoca della Guerra Fredda. Non vi è più un’unica minaccia simile a quella costituita in passato dall’Unione sovietica, che possa fungere da collante nei confronti degli Stati 66
Uniti e degli altri paesi e li porti ad unirsi in un’alleanza quasi permanente. Oggi il mondo sembra più simile a quello del XIX secolo che non a quello dell’ultima parte del XX secolo. Coloro che ritengono che questo sia positivo dovrebbero ricordare che l’ordine del XIX secolo non finì bene come quello della Guerra Fredda. Per evitare un tale destino, gli Stati Uniti e gli altri paesi democratici dovranno avere una visione più generosa ed illuminata dei loro interessi rispetto a quella che avevano anche ai tempi della Guerra Fredda. Gli Stati Uniti, quale paese con la più forte democrazia, non dovrebbero opporsi, ma piuttosto accogliere con favore, un mondo più coeso caratterizzato da una riduzione della sovranità nazionale. Hanno ben poco da temere e molto da guadagnare in un mondo che aumenti leggi e norme basate sugli ideali liberali e volte a salvaguardarli. Al contempo, le democrazie asiatiche ed europee devono riscoprire che il progresso verso questo più perfetto ordine liberale dipende non soltanto dal diritto e dalla volontà popolare, ma anche da nazioni potenti che possano sostenerlo e tutelarlo.
In un mondo egoista, questo tipo di saggezza
illuminata può andare ben al di là delle capacità di tutti gli stati. Ma se esiste davvero una speranza, essa risiede in una rinnovata comprensione dell’importanza dei valori. Gli Stati Uniti e gli altri paesi democratici condividono un’aspirazione comune nei confronti di un ordine liberale internazionale, costruito su principi democratici e tenuto ben saldo – seppure in modo imperfetto – da leggi ed accordi fra paesi. Questo ordine sta progressivamente subendo pressioni man mano che le autocrazie delle grandi potenze crescono in forza ed in influenza e man mano che attecchisce la lotta anti-democratica del terrorismo islamico radicale. Se la necessità per le democrazie di sostenersi reciprocamente appare meno ovvia che in passato, si rivela ben maggiore la necessità per queste nazioni, ivi compresi gli Stati Uniti, di “guardare oltre, verso il futuro”.
Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES
Manteniamo il controllo delle industrie strategiche La recente crisi finanziaria e il crollo delle borse sta riproponendo, fra il resto, il problema del controllo delle industrie strategiche in modo da evitare scalate sgradite. Questo rischio non riguarda solo le imprese dell’aerospazio, sicurezza e difesa, ma qui assume una particolare rilevanza. Agli aspetti strategici sul piano economico e politico si sommano, infatti, quelli militari. La componente tecnologica e industriale rappresenta uno dei tre vertici del sistema-difesa, insieme alla politica militare, definita da Governo e Parlamento, e alla componente operativa, costituita dalle Forze Armate e dalla loro organizzazione. Mantenerne il controllo significa assicurare che le attività “chiave” continuino ad essere svolte sul territorio nazionale, vengano sviluppate tenendo il passo con l’innovazione di processo e di prodotto, non vengano utilizzate per esportare tecnologia e prodotti, sotto qualsiasi forma, verso destinazioni non gradite per ragioni militari o strategiche. In passato il problema è stato risolto attraverso il controllo delle imprese da parte di gruppi industriali o finanziari nazionali, spesso familiari o semi-familiari e in ogni caso profondamente radicati su quel mercato, o da parte dello Stato, a livello centrale o periferico o tramite istituzioni ed enti da esso dipendenti. Solo negli Stati Uniti ed in alcuni Paesi europei, Regno Unito e Francia, da molti decenni sono stati definiti specifici sistemi per controllare eventuali acquisti esteri di imprese ritenute strategiche. Più recentemente si sono aggiunti altri Paesi europei, fra cui Germania e Spagna. Le procedure sono diverse, ma hanno un tratto comune: quello di prevedere un controllo caso per caso in cui il margine di valutazione “soggettivo” da parte dell’Autorità politica è molto elevato, il coinvolgimento dei massimi livelli politici e la possibilità di calibrare le misure di tutela in ragione del rischio. È, infatti, chiaro che le situazioni sono, insieme, imprevedibili e altamente differenziate. Le soluzioni non possono pertanto essere pianificate in teoria, ma devono essere costrui68
te in ogni specifico caso. Basti pensare alle differenze legate alla natura della produzione o alla provenienza dell’investimento estero o alla sua tipologia o, ancora, alla sua dimensione. Flessibilità della risposta e valutazione caso per caso sembrano essere due componenti essenziali di ogni antidoto. Nello stesso tempo, la formazione di grandi gruppi industriali ha da tempo richiesto il ricorso al mercato per trovare i mezzi finanziari necessari alla loro crescita. Negli Stati Uniti e nel Regno Unito il modello delle grandi imprese, e non solo di queste, è diventato la public company. In Francia, Italia e Spagna lo Stato ha continuato a svolgere il ruolo di azionista di riferimento, anche se, dopo le privatizzazioni, non più di maggioranza. In Svezia permane un controllo privato, così come in Germania, dove però un ruolo importante è svolto anche dai Land. Ma tutti i grandi gruppi europei hanno comunque la maggior parte del capitale quotato in borsa. Questo comporta che, al valore attuale delle azioni, quote consistenti potrebbero essere acquistate da imprese, banche e istituzioni finanziarie estere. In alcuni casi, come per Finmeccanica, vi sono dei limiti alla dimensione di tali quote (nel suo caso il 3%), ma possono essere superate con l’assenso del Governo. Quello attuale diventa, quindi, un nodo strategico perché non si può certamente tornare indietro e “nazionalizzare” le imprese della difesa, ma non si può nemmeno rischiare che finiscano sotto il controllo di investitori non affidabili e sgraditi. Di qui la necessità di una forte attenzione e di un tempestivo e continuo monitoraggio del mercato, anche attraverso un’informale attività di consultazione transatlantica che consenta lo scambio di informazioni riservate sui movimenti finanziari. Su questa stessa base si potrebbero definire strategie condivise fra i Governi dei maggiori produttori di equipaggiamenti militari per attivare temporanei interventi pubblici a tutela dei settori strategici, pronti a tornare sul mercato non appena la tempesta finanziaria si sarà placata.
editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE
Georgia, il ruggito del topo
Di primo acchitto pensare alla Georgia che attacca la Russia fa venire in mente una pregevole pellicola di Jack Arnold, il Ruggito del topo, dove si narra del granducato di Fenwick che dichiara guerra agli Stati Uniti per essere sconfitto e godere poi di aiuti per la ricostruzione. Se il presidente georgiano Mikhail Saakashvili voleva far occupare la Georgia dalle truppe di Mosca…beh, ci è quasi riuscito. Se invece alla base della sconsiderata decisione di lanciare le sue truppe verso la conquista di Tskhinvali c’era l’idea di creare una situazione che portasse ad una internazionalizzazione e ad una soluzione diplomatica favorevole della crisi, si è trattato di un clamoroso errore strategico, che non si concluso con l’ingresso dei T-72 russi a Tbilisi solo perché i Russi non sono più quelli di una volta. In realtà la “Guerra dei 5 giorni” ricorda per certi aspetti il conflitto arabo-israeliano del’73, con la coalizione araba che si gettò all’attacco per ottenere vantaggi territoriali, salvo subire devastanti sconfitte e rischiando di perdere città chiave. Le truppe georgiane hanno ottenuto un iniziale successo tattico, ma hanno poi subito una rapida disfatta strategica, sia a causa della superiorità numerica russa, sia per le deficienze del sistema di comando e controllo e l’inettitudine dei quadri politici e militari. Con la sconfitta sul campo è arrivata quella politica, perché Mosca, che non aspettava altro, ha applicato ad Abkhazia e Ossezia il modello Kosovo, riconoscendo l’indipendenza delle due province secessioniste. Ecco, questa è una differenza cruciale rispetto a quanto accadde in Medio Oriente: mentre gli Israeliani hanno sempre occupato territori ostili, la Russia ha “liberato” le province secessioniste, con l’appoggio entusiastico della gran parte della popolazione locale. Dal punto di vista militare Mosca non ha mostrato niente di che, vista la pochezza dell’avversario, mentre la tempestività e l’efficacia del suo intervento (per gli standard russi) ha confermato che l’offensiva georgiana era preventivata e si era (quasi) pronti a rispondere. Cosa che doveva essere chiara anche ai georgiani, inutilmente dissuasi da Usa
ed Europa. Ora la Georgia (ma anche l’Ucraina sempre più vicina alla guerra civile) possono scordarsi l’ingresso nella Nato, cercato esclusivamente per un motivo: la clausola di mutua difesa prevista dall’Art. 5 in caso di aggressione esterna. A dicembre, quando la Nato riesaminerà la questione, difficilmente si potrà concedere la partecipazione al Map (anticamera alla Nato), anche perché una delle condizioni per accedervi è quella di non avere contenziosi in atto con i vicini… Per la Nato quanto è accaduto nel Caucaso è più che salutare. Ha ricordato a tutti che il valore di questa organizzazione sta nella sua natura militare, non in quella politica. Di organismi internazionali “politici” ce ne sono a bizzeffe, dalla Osce all’Onu, per non parlare dell’Unione Europea: non servono quasi a nulla. Ecco perché non si può continuare ad annacquare la Nato, che per contare ha invece bisogno di una riforma che le consenta di superare il meccanismo decisionale per consenso. E proviamo a pensare a cosa accadrebbe ad una Nato allargata a Ucraina e Georgia se queste ultime decidessero di fare a botte con Mosca: si sfascerebbe la Nato (più probabile) o si combatterebbe la terza guerra mondiale. Una Nato poi che non deve considerare la Russia come Paese amico (c’era solo Berlusconi che nel ’99 straparlava di ingresso di Mosca nella Alleanza), ma che non deve neanche essere considerata un nemico. È solo un Paese che fa i suoi interessi, con il quale si può competere per certi aspetti e collaborare per altri. Tanto più visto che l’unico soggetto che può veramente applicare “sanzioni” è proprio la Russia: basta che chiuda i rubinetti di gas e petrolio. Una nota infine sulla posizione politica italiana nel corso della crisi: visto che siamo “amicissimi” di Mosca e Putin, ma anche di Washington e Bush, ci siamo trovati nei guai, con pericolose oscillazioni. Alla fine ne siamo usciti “all’Italiana”, ma anche a Washington convengono che può essere utile avere un alleato che può mediare ed avere un accesso privilegiato al Cremlino. Analisi tanto più vera dopo l’elezione di Obama alla presidenza Usa. 69
S
CENARI
BRASILE
LULA, ANTI CHAVEZ SUO MALGRADO
Q
DI
ROGER F. NORIEGA
uando arriva dall’Amedovere - nei confronti della sua rica Latina una “buona gente e della sua stessa eredità notizia non è mai di farsi carico di una moltitudine buona”, ma il Brasile, ultimamendi riforme economiche e politite, si è guadagnato talmente tanti che durature per rendere il commenti positivi che questa Brasile più aperto e orgoglioso. massima andrebbe riscritta. La Con 190 milioni di abitanti conpotenza più popolosa del Sud centrati attorno ai confini di un America è riuscita ad unire in Paese un po’ più grande dei 48 pochi decenni una politica econoStati Uniti minori, il Brasile posmica sana e un governo pluralisiede gli ingredienti essenziali Una politica economica sana sta, ed è diventata un esempio di per avere successo nell’odierna e un governo pluralista come una democrazia multietnica e economia globalizzata. A diffehanno cambiato il volto l’economia di mercato possano renza della maggior parte degli del Paese e il seggio Onu al Consiglio di Sicurezza aiutare milioni di persone a tirarsi stati del Nuovo Mondo, questa è l’ultimo tassello fuori da uno stato di povertà. Il pre- di un grande successo. Che nazione non ha ingaggiato una sidente Luiz Inacio Lula da Silva, ha ancora bisogno di riforme guerra armata contro il potere il Sur. e che deve contagiare sindacalista divenuto statista, ha colonialista, ma ha semplicemenAl posto del Venezuela. compiuto notevoli passi avanti te dichiarato l’indipendenza dalla durante il suo mandato. In un periocorona portoghese nel 1822, e do in cui alcuni protagonisti della regione stanno nonostante le diverse etnie e la forte ineguaglianza sprecando tempo ed energie insistendo su un’agen- economica, la razza non è mai stata causa di divisioda che crea divisioni, il governo di Lula è stato lar- ni o ostilità. Inoltre il Brasile è stato governato dalgamente caratterizzato da un solido pragmatismo. l’esercito dal 1964 al 1985, ma per tutto questo La sua azione ha dimostrato che i programmi con- periodo un’assemblea legislativa, composta da tro la povertà sono un buon affare e che la crescita membri civili eletti, ha continuato a svolgere le sue economica è obiettivamente migliore quando le funzioni, e da quando José Sarney ha assunto la preopportunità che essa porta sono divise più equamen- sidenza, nel 1985, il Paese è stato governato da una te, ma rischia di sprecare i trenta mesi di governo serie di leader democraticamente eletti che – a parte che gli rimangono se si crogiola nello splendore dei Lula – provenivano dai partiti moderati. Oggi, il suoi riconoscimenti e diventa compiacente. Ha il Partito dei Lavoratori al governo e l’opposizione di 70
scenari centro hanno un legame comune per aver combattuto contro decenni di ordinamento militare. A differenza della maggior parte dei Paesi dell’America Latina, le istituzioni politiche relativamente forti del Brasile riflettono il conservatorismo della sua società, e – nonostante i periodi di indebitamento e alta inflazione degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta abbiano ostacolato la sua crescita economica di lungo termine – il Brasile figura ancora tra le prime dieci economie del mondo. L’ascesa alla presidenza di Lula è stata caratterizzata da pragmatismo e buon senso, e il suo attuale successo è basato sul duro lavoro dei suoi numerosi predecessori. Come fondatore del Partito dei Lavoratori, Lula ha adottato la retorica della sinistra sudamericana tradizionale nelle sue prime te campagne presidenziali, ma - dal quarto tentativo nel 2002 - ha riconosciuto la moderazione dell’elettorato brasiliano, ha abbassato i toni ed è stato eletto presidente promettendo di mantenere le politiche di macroeconomia ortodosse che avevano garantito misure ben accette di stabilità. Lula ha governato nel pieno rispetto delle istituzioni democratiche e delle politiche pluraliste del suo Paese, sviluppando un insieme di programmi contro la povertà ma respingendo l’estremismo del suo stesso partito. Il suo istinto di sindacalista gli è stato utile, in particolare perché ha rifiutato le inutili formule in cui sono caduti i tradizionali leader populisti. Ha, per esempio, bilanciato la stabilità macroeconomica con la spesa sociale, riuscendo ad aprire l’economia brasiliana mentre si occupava delle disparità interne, e ha stabilito un sorprendente rapporto con il presidente americano Gorge W. Bush, mantenendo al contempo relazioni amichevoli con il venezuelano – veementemente antiamericano – Hugo Chavez.
Arminio Fraga, ex presidente della Banca Centrale brasiliana, ha recentemente lodato i notevoli progressi che il Brasile ha fatto negli ultimi vent’anni, ma ha avvertito che “I divari maggiori ancora esistono, quindi non c’è spazio per compiacersi troppo”. Il Brasile non è mai stato in grado di affrontare alcuni problemi che si porta dietro da sempre e che già una volta hanno rallentato il ritmo sostenuto delle riforme di Lula, ma i brasiliani si aspettano miracoli da lui, e molti cominciano a preoccuparsi per l’avvicinarsi della scadenza del suo secondo mandato. Nell’aprile 2008, Standard & Poor’s ha promosso la valutazione del debito brasiliano al “livello di investimento”, rilevando il notevole miglioramento della situazione del debito estero, del quadro fiscale e della bilancia commerciale. Lula ha chiamato questo voto di fiducia “una conquista che i brasiliani hanno aspettato per molti, molti anni”. In effetti, l’economia brasiliana potrebbe crescere del 4-5 percento quest’anno dopo il 5.4 del 2007, mentre l’inflazione è al 4.5 percento, e gli esperti tengono questo dato sotto osservazione. Per resistere all’impatto della crisi americana, inoltre, si è fatto carico di 200 miliardi di zavorra di riserve internazionali, ed ora è un Paese creditore, molto meno vulnerabile alla crisi del debito che l’avrebbe tormentato fino a non toppo tempo fa.
Sebbene Lula e la sua rispettata squadra di
economisti abbiano acquisito grande credito per questi risultati, le fondamenta di questa solida economia sono state poste dai presidenti precedenti e rafforzate da una situazione internazionale favorevole. Molte delle prove positive del Brasile, in particolare i 40 miliardi di dollari della bilancia commerciale, sono dovute all’alto livello dei prezzi dei prodotti agricoli esportati e delle fiorenti riserve L’ottimismo cresce in Brasile. Un anziano petrolifere, ma il rallentamento economico globale diplomatico brasiliano mi ha detto, all’inizio di que- minaccia di cancellare alcune delle condizioni st’anno: «Per la prima volta nella mia vita sono otti- esterne favorevoli che il Brasile ha dato per scontamista riguardo il futuro del mio Paese», mentre te. Ora più che mai, il Brasile deve affrontare i vec71
scenari chi problemi per sbloccare la crescita economica. Qualcuno osserva ironicamente che questi risultati positivi mostrano ciò che il Paese è in grado di fare se i suoi politici - semplicemente si trattengono dal fare stupidaggini, ma se Lula si limiterà ad essere contento di evitare errori politici, i suoi sforzi cadranno nel vuoto. La stabilizzazione economica non coincide con la sua modernizzazione. La valutazione di Standard & Poor’s non dice nulla sul mondo degli affari del Brasile e sulla sua capacità di attrarre investitori interni e esteri. Cosa è rimasto dell’economia brasiliana dopo la fine della manna proveniente dagli elevati prezzi dei prodotti? Questa semplice domanda dovrebbe essere sufficiente a spingere Lula a riflettere. Gli investimenti diretti esteri in Brasile sono relativamente scarsi – solo nel 2007 il Paese ha portato il flusso degli investimenti ai livelli del 2000 – e fortemente concentrati nell’estrazione di risorse naturali.
Lula ha dimostrato che le iniziative contro la povertà sono un buon affare, e che i Paesi non devono scegliere tra spesa sociale e buona economia, ma una burocrazia crescente minaccia la stabilità fiscale tanto quanto la sua capacità di investire nel benessere dei più poveri
Questo è un po’ sorprendente
(ma molto preoccupante) per coloro che hanno familiarità con il difficile ambiente commerciale interno, che rende conveniente investire solo a chi può rischiare molto nel gioco delle merci. Il sistema fiscale del Paese è leggendario per complessità e livello degli oneri. Lo studio della Banca Mondiale Doing Business 2008, ha rilevato che ci vogliono in media 2.600 ore per preparare e pagare la tassa sulle società (la peggiore di qualsiasi Paese preso in esame dallo studio), che assorbe il 69,2 percento dei profitti. Lo stesso rapporto – che valuta la semplicità della procedura per aprire un’attività commerciale, la situazione dei dipendenti, la cessione del credito, l’iscrizione delle proprietà ed altri indicatori – ha posizionato il Brasile al 172esimo posto su 178 Paesi, tra l’Honduras e l’Indonesia e più in alto solo di quattro Paesi dell’emisfero occidentale.
Lula riconosce la necessità di coltivare la crescita economica del Paese, e aveva promesso, nel suo secondo mandato, di affrontare alcuni degli ostacoli più grandi. Nel gennaio 2007 ha annunciato un pacchetto da 240 miliardi di dollari per accelerare la crescita e una collaborazione tra pubblico e privato per investire in infrastrutture estremamente necessarie come porti, aeroporti e strade per implementare la produzione dei prodotti agricoli e industriali. Il finanziamento pubblico può giocare un ruolo vitale nell’accelerazione dei progetti, ma senza la cessione di incentivi per investire in infrastrutture (una procedura che l’Economist ha definito “un’avventura a livello giuridico e normativo”), il Paese continuerà a combattere le stesse battaglie. Il governo di Lula ha anche promesso di semplificare la cascata di imposte statali e federali che scoraggiano gli investimenti e le importazioni, ma è stato lento a mettere in atto queste promesse. Invece di mettere mano per semplificare il labirinto delle normative tributarie, Lula ha lavorato per mantenere alcune di queste imposte nel tentativo di mantenere il passo con un sempre crescente bilancio federale. Sebbene il Congresso abbia ultimamente votato contro l’estensione di una tassa temporanea sulle transazioni finanziarie finalizzata a sostenere iniziative sanitarie pubbliche, Lula ha dedicato molto tempo a salvare questa imposta predatoria che è diventata una fonte di reddito buona per tutte le 73
Risk spese contingenti. Lula, ovviamente, si rende conto delle sfide che affronta il suo Paese, e non ignora il potere dell’impresa per alleviare le persone dalla povertà, ma fino ad ora il suo secondo mandato è sembrato propenso a spendere più soldi nello sviluppo di programmi sociali che sulla riforma di un sistema che reprime la crescita economica. L’inefficienza e le norme troppo gravose, insieme ad un alto prelievo fiscale per finanziare la crescente attività di governo, minacciano di annullare i progressi fatti sotto il primo mandato. Julo Sergio Gomes de Almeida, ex ministro dell’Economia, ha avvertito che «l’industria sta andando bene nonostante e non grazie al governo… ora è il momento di assicurare la crescita di domani, ma non vedo alcun segno di riforme economiche… il Brasile si sta già sedendo sugli allori». In una intervista alla giornalista del Newsweek Lally Weymouth, Lula ha commentato, riguardo la sua elezione, di aver assaggiato il pane per la prima volta quando aveva sette anni. Nessuno può mettere in dubbio l’impegno personale di un uomo simile a combattere la feroce povertà che avrebbe annichilito chiunque. Si è ripromesso di espandere gli interventi sociali mirati ad eliminare la fame nel suo Paese, incentivare le famiglie a partecipare ai programmi a favore della nutrizione e dell’istruzione e ampliare le cure sanitarie basilari. Grazie alla sua iniziativa Bolsa Famìlìa, più di 11 milioni di famiglie – un quarto della popolazione brasiliana – con entrate inferiori ai 68 dollari al mese hanno beneficiato di un piccolo introito mensile come supplemento ai loro guadagni, con lo scopo di aumentare la presenza scolastica e il consumo alimentare, e ridurre il lavoro minorile. Nonostante una partenza a rilento che molti attribuiscono all’inesperienza dei beneficiati, negli ultimi sei anni 20 milioni di brasiliani sono riusciti ad uscire da uno stato di estrema povertà, in gran parte grazie a questi interventi sociali, anche se, indubbiamente, uno dei maggiori fattori del miglioramento del potere d’acquisto è stato il rapido calo dell’inflazione, dovuta ai sani 74
scenari principi economici applicati nei decenni precedenti. Incoraggiando la presenza scolastica e una migliore cura e alimentazione, Bolsa Famìlìa è più di una semplice elemosina, ma non può sostituire ancora a lungo gli investimenti nel capitale umano. L’ineguaglianza economica brasiliana è famigerata, ma meno conosciuta è la dilagante ineguaglianza nell’accesso e nella qualità dell’istruzione, e questo elemento, da solo, aggrava la distribuzione iniqua della ricchezza. Mentre l’accesso è stato migliorato, meno della metà dei giovani che vivono nelle aree rurali finisce la scuola primaria, e meno della metà dell’intera popolazione termina la secondaria. L’ineguaglianza è inoltre esacerbata dalle lezioni libere nelle università, di cui beneficiano gli studenti benestanti molto più dei poveri o della classe media, per i quali è molto meno probabile finire il liceo ed essere nella condizione di avvantaggiarsi da queste lezioni, ed anche la qualità dell’istruzione è fonte di preoccupazioni. Se è vero che i migliori si cimentano in competizioni internazionali, il 50 percento degli studenti brasiliani non riesce a raggiungere un livello accettabile persino nella lettura e comprensione, e solo un quarto di loro supera gli esami di matematica.
Non ci sono facili soluzioni al problema del-
l’ineguaglianza, ma l’intera struttura fiscale del Paese esclude la possibilità di una riforma seria. Tolto l’onere del debito, il governo federale spende il suo denaro soprattutto per tre cose: pensioni, sovvenzioni agli stati e ai governi locali, e macchina burocratica. Il sistema pensionistico brasiliano non è solo goffo – paragonato ad altri Paesi sviluppati e non – ma premia i cittadini più ricchi in modo sproporzionato. Lula ha cominciato un coraggioso cammino per aumentare l’età minima pensionabile degli impiegati pubblici, ma il sistema ha disperatamente bisogno di riforme più radicali. Il sistema delle sovvenzioni agli stati e a governi locali – originariamente pensato per aiutare a diminuire il divario tra stati ricchi e poveri – non ha incoraggiato una distri-
scenari buzione più equa dei servizi sociali, come si voleva, mentre ha finanziato una crescente rete di burocrati e amministratori, che sono pagati meglio dei lavoratori del settore privato in quegli stati che ricevono molto del loro reddito dal governo centrale. Per finire, la burocrazia in generale è cresciuta in modo incredibile durante il governo di Lula, che ha creato migliaia di cariche per riempire 37 ministeri, sedici dei quali creati dal 2002.Lula ha dimostrato che le iniziative contro la povertà sono un buon affare, e che i Paesi non devono scegliere tra spesa sociale e buona economia, ma una burocrazia crescente – specialmente una nata sulla convinzione che i problemi del Paese possano essere risolti solo con gli interventi statali – minaccia la stabilità fiscale del Paese tanto quanto la sua capacità di investire nel benessere dei cittadini più poveri e affrontare le disuguaglianze dilaganti. Lula non può essere biasimato per lo stato attuale delle cose – una situazione generale che ha ereditato – ma è giusto aspettarsi che riduca il carico fiscale sul settore privato e porti maggiore responsabilità nel settore pubblico. Forse nessuna misura è più importante, per la costruzione dell’eredità di Lula quale leader del cambiamento, che portare a termine una serie di riforme che instillino trasparenza e responsabilità nella politica brasiliana. Così come il mercato nero domina le economie di molti Paesi in via di sviluppo, la corruzione mina il buon governo e la responsabilità politica dei Paesi deboli. Un cospicuo numero di politici brasiliani – incluso il capo di stato maggiore e membri del Partito dei Lavoratori – sono stati accusati di corruzione negli ultimi anni, e alcuni brasiliani puntano il dito contro una cultura dell’impunità che mina la fiducia nei loro politici. Per esempio, mentre numerosi scandali hanno recentemente obbligato alti funzionari a rassegnare le dimissioni, pochi, poi, hanno affrontato l’azione giudiziaria. Oltre alle forme di corruzione, la mancanza di responsabilità e i deboli partiti politici rallentano l’evoluzione del Brasile in una nazione più prospe-
ra e giusta. Anche i partiti più importanti sono poco sviluppati, con poche o nessuna organizzazione di base e, di conseguenza, poca o nessuna responsabilità tra i rappresentanti eletti. Per questo è difficile imporre un processo decisionale coerente e fattibile – in particolare tra i legislatori federali e statali – e convertire l’opinione pubblica ad una sana politica pubblica, e per questo gli elettori sono diventati cinici verso i loro leader, che a turno minano il senso di responsabilità che è essenziale ad ogni moderno ordinamento politico.
Lula ha fatto molto poco per far fronte a que-
ste carenze fondamentali, ma un tribunale elettivo federale - con una sentenza confermata successivamente dalla corte suprema - ha dichiarato illegale il passaggio da un partito all’altro, che è diventata una pratica ben nota come merce di scambio per favori politici. Questa consuetudine stava indebolendo i partiti politici e l’azione della corte era intesa ad accrescere il senso di responsabilità, ma deve essere fatto di più. L’ambasciatore brasiliano negli Stati Uniti, Antonio Patriota, ha recentemente osservato che Lula ha accumulato il tipo di credito politico essenziale per accollarsi lo spinoso problema delle riforme, ma – pur avendo denunciato una serie di scandali politici durante la sua amministrazione - il suo lascito dipende dal portare a termine cambiamenti di sistema che impongano le regole del diritto e chiedano conto alla responsabilità personale dei funzionari per abuso della fiducia pubblica. Queste riforme sono una parte di un’agenda più ampia di diffusione delle regole del diritto. Una volta diventate più forti, istituzioni democratiche più responsabili renderanno più facile ai brasiliani indigenti reclamare la loro parte di opportunità economiche, e a tutti i cittadini avere un governo affidabile. Non c’è un programma contro la povertà più urgente che combattere la corruzione e i privilegi finanziati dallo Stato, che generano ineguaglianza e disaffezione tra chi vive ai margini della società. I progetti sociali possono fare molto per mitigare il 75
Risk
scenari
progetto protezionista dell’India e per radunare il mondo in via di sviluppo affinché faccia pressione sull’Europa e sul Giappone perché accettino l’abolizione dei sussidi all’agricoltura, cosa che il presidente Bush ha già promesso. Infine, il Ceo Forum brasiliano-statunitense ha proposto una serie di indicazioni pratiche intese ad aprire il commercio e gli investimenti tra questi due giganti economici. Tra queste c’era il compimento di un trattato bilaterale sui dazi per eliminare la doppia tassazione e facilitare il commercio e l’afflusso di capitali tra i due Paesi. Il Forum ha inoltre promosso e aperto lo scambio di informazioni sulle opportunità di investimento per facilitare il lavoro dei fondi d’impresa. Questo dialogo, avviato da Lula e Bush nel marzo 2007, è stato salutare e promettente, ma il punto essenziale è che entrambi i governi tengono conto del consiglio de membri del Ceo, che sono ansiosi di vedere la loro economia crescere insieme in tutti i sensi. Nonostante il governo di Lula abbia ampliato il ruolo del Brasile sulla scena mondiale – incluso un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza dell’Onu – il presidente brasiliano rifiuta l’ipotesi che il suo Paese pretenda di “guidare” l’America Latina. “Non stiamo cercando di trovare un leader della regione”, ha detto in una intervista del settembre 2007. “Non mi preoccupa essere il leader di nulla. Quello che voglio è governare bene il mio Paese”. Il fatto è che, nonostante Lula non sia ansioso di essere visto in competizione con Hugo Chavez per la supremazia in America Latina, il confronto tra i due è inevitabile. Finalmente, in una regione assediata dai falsi profeti del populismo, i brasiliani hanno intenzione di C’è molto lavoro da fare anche sul palco- dimostrare che il capitalismo, governato dalle regoscenico globale. Lula potrebbe fare tanto per spro- le del diritto, è l’unica cura efficiente per la forma nare l’economia mondiale – compreso il settore peggiore di profonda e persistente ineguaglianza. Di agricolo del Brasile stesso, dipendente dalle espor- questo passo insegneranno ai loro vicini - come solo tazioni – attraverso il perseguimento di accordi loro possono - l’importante lezione che non è necescommerciali internazionali. Il Brasile e il suo presi- sario sottomettere la libertà politica per ottenere dente hanno una credibilità unica per impedire il opportunità economiche. dramma della povertà, ma le riforme del sistema politico per costruire uno Stato moderno e affidabile, capace di applicare le regole del gioco senza timori o favoritismi, sono essenziali per risolvere il problema. Lula dovrebbe studiare il lavoro della Banca Mondiale Doing Business 2008, e decidersi a migliorare le performance del suo Paese in ogni categoria. Questi criteri sono la ricetta per il rafforzamento economico di tutti e per far partire una crescita sostenibile e generale. Un impegno pubblico per questo obiettivo inciterebbe i politici e i legislatori ad agire. È lodevole che Lula abbia impegnato risorse sostanziali per modernizzare le infrastrutture brasiliane, in modo che l’economia possa crescere al pieno delle sue possibilità. Il finanziamento pubblico può imprimere lo stimolo per questi enormi progetti, ma creare le condizioni per attirare grandi capitali privati – interni ed esterni al Brasile – è una cosa altrettanto buona per l’economia. A dire il vero, il Brasile ha già migliorato la sua reputazione come destinazione relativamente sicura per i capitali esteri, ma il governo può fare di più per rassicurare gli investitori modernizzando il suo antiquato codice tributario, controllando la trasparenza delle transazioni pubbliche, adottando regimi normativi trasparenti e prevedibili, adottando ottime protezioni per la proprietà intellettuale e liberalizzando il mercato del lavoro e dei capitali. Peraltro, alcuni investitori internazionali stano scoprendo che alcuni governatori, sostenitori del commercio, hanno approfittato del loro considerevole potere per adottare misure che rendono le loro regioni attraenti per gli investimenti.
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scenari
UNIONE EUROPEA
L’
IL GRANDE FREDDO DI
DAVIDE URSO
energia è oggi il fattodovuto all’espansione dei Paesi re produttivo più emergenti; le sole Cina e India importante dell’ecoincideranno per metà. Per assicunomia mondiale. Essa pesa per rare adeguate forniture di enercirca il 10% della formazione gia, saranno necessari ingenti del reddito globale e per oltre il investimenti in infrastrutture e in 15% del commercio internazioefficienza energetica. Secondo la nale. I consumi energetici del IEA sono richiesti investimenti mondo nel 2007 sono stati di per 22mila miliardi di dollari tra circa 12 miliardi di tep (Mtep), il 2006 e il 2030. Le ultime anain aumento del 2,4% rispetto al lisi prevedono che per soddisfare 2006. Il petrolio ha contribuito la domanda di energia nel Nel 2030 il mercato dell’energia per il 35,6%, il carbone per il mondo, l’offerta dovrebbe radsarà diverso dall’attuale: 28,6%, il gas naturale per il doppiare nel 2050. Il primo picco l’Unione conterà poco 23,8%, il nucleare per il 6% e le di domanda di energia primaria rispetto ai colossi energivori rinnovabili idem. Ad oggi, il dovrebbe esserci intorno al 2020, e vedrà salire al 62% 50,2% di tutta la produzione sebbene alcune regioni potranno la sua dipendenza energetica mondiale è destinata ridurre il fabbisogno sviluppandalle esportazioni. E questo limiterà ai 30 Paesi industrializzati adedo tecnologie energy efficient. Il la sua sicurezza problema non è tanto il quantitarenti all’Ocse. Il 9,3% è destitivo di riserve e risorse di energia nato ai Paesi dell’ex blocco sovietico e il 40,5% al resto del mondo. Percentuali disponibile nel mondo, quanto come riuscire a sfrutdestinate a cambiare. Il trend in crescita dei consu- tarle nel rispetto dell’ambiente e della salute dei citmi è costante: negli ultimi dieci anni questi, a livel- tadini. Purtroppo, con le attuali tecnologie, compelo mondiale, sono aumentati del 24,6%. tenze professionali e strategie nazionali, questo obietConsiderando la crescita demografica e gli effetti tivo appare irrealizzabile. I combustibili fossili contidella globalizzazione in termini di riduzione delle nueranno a mantenere il primato tra le energie primadiseguaglianze tra Nord e Sud del mondo e la con- rie nel mondo, almeno fino al 2050, e non è pensabiseguente richiesta di energia dei futuri attori globa- le di raddoppiare l’offerta di energia e migliorare li (Cina, India, Sud Africa, Brasile, ecc.), la dimen- l’accesso alle fonti, riducendo al contempo le emissione della domanda crescerà in modo importante sioni di CO2 e indirizzando il climate change. in scenari al 2030. L’Agenzia Internazionale per Basti pensare che dai 15.640 miliardi di tonnellate l’Energia (IEA) prevede un aumento della richiesta (Mt) di CO2 nel 1973, nel 2006 le emissioni di CO2 di energia primaria del 55% tra il 2005 e il 2030: da sono state 28.003 Mt, con una riduzione del petrolio 11.4 a 17.7 Mtep. Circa il 70% di questo aumento è e un aumento del carbone e del gas. Ma il dato più 77
Risk sensibile è la regionalizzazione delle emissioni di CO2. Nel 1973, i Paesi Ocse incidevano per il 65,8%; oggi incidono “solo” per il 46%. L’Asia è passata dall’8,7% al 29,9%; la Cina, da sola, dal 5,7% al 20,2%. Per realizzare questi obbiettivi bisognerebbe aumentare in modo sensibile l’efficienza energetica, ovvero i margini di risparmio energetico, fornendo lo stesso servizio e qualità di fornitura agli utenti finali, ma utilizzando meno energia, anche attraverso la riduzione degli sprechi. Minori sono i consumi relativi al soddisfacimento di un determi-
L’Italia importa l’85% del fabbisogno di energia primaria: gas 88%, olio 92%, solidi 99%. In particolare, il 76.4% del gas importato viene da Russia (30.7%), Algeria (33.2%) e Libia (12.5%). Nel 2007 il 70% dell’elettricità è stata prodotta con gas (56%) e olio (13%) nato fabbisogno, maggiore è l’efficienza energetica. Inoltre, occorre ridurre l’intensità energetica (quantità di energia prodotta per unità di Pil), contribuendo al mantenimento di una forte economia globale. Per realizzare tutto ciò sono indispensabili massicci investimenti in tecnologie e, solo in presenza di prezzi del brent molto alti, almeno superiori ai 7580 $/barile, vi sarà convenienza. Ed ecco il cane che si morde la coda. In presenza di prezzi di petrolio, la domanda aumenterebbe in modo più rapido degli effetti degli investimenti in efficienza, producendo di nuovo un disallineamento delle politiche nazionali legate ai propri parametri domestici rispetto alla visione globale e soprattutto di lungo termine. Le dinamiche dei mercati energe78
scenari tici sono cambiate: la domanda ha sostituito l’offerta come paradigma del mercato. Gli equilibri dell’economia reale dell’energia sono oggi del tutto irrealizzabili. I combustibili fossili rimarranno ancora a lungo la principale fonte di energia. Il loro contributo al soddisfacimento della domanda globale si manterrà intorno all’80% almeno fino al 2030. Le risorse mondiali di idrocarburi sono concentrate in poche parti del mondo: il 61% delle riserve provate di petrolio è in Medio Oriente; il 66% delle riserve di gas è in Russia (25%) e in Medio Oriente (41%). Si sta quindi sviluppando un processo di polarizzazione, con la formazione di due blocchi d’interessi contrapposti fra Paesi importatori ed esportatori. Fino ad alcuni anni fa si pensava che l’interdipendenza fra Paesi consumatori e produttori potesse produrre un equilibrio stabile. L’andamento dei mercati degli ultimi due anni ha generato un vantaggio economico-finanziario dei paesi produttori. La capacità di resistenza dei Paesi più dipendenti alla “pressione commerciale” dei Paesi produttori si è fortemente ridotta. Inoltre, i principali Paesi esportatori di combustibili fossili – in primis Russia, Libia e Iran - sono Stati non democratici e del tutto autarchici. Pertanto, il mercato è soggetto non solo ad una nomenclatura geoeconomia (rapporto domanda e offerta) e geofinanziaria (speculazione e capacità di generazione di ricchezza), ma anche geopolitica (ruolo degli Stati nello scenario regionale e mondiale) e geostrategica (uso dell’energia come arma). I mercati sono fortemente interconnessi. Ogni 10 dollari al barile in più del prezzo del petrolio causa un costo complessivo annuo per l’economia mondiale di circa 500 miliardi di dollari: costo diretto, superiore ai 300 miliardi di dollari; e costo indiretto, circa 200 miliardi per gli “effetti di trascinamento” sulle altre fonti energetiche, dovuti alla multidimensionalità delle fonti di energia. La crisi energetica, inoltre, si è dimostrata meno esplosiva di quella finanziaria, ma con effetti di lungo periodo ed elevati danni sulla competitività dei sistemi-paese. Basti pensare che il prezzo del
scenari petrolio – pivot del mercato energetico - nel 2003 era pari a circa 30 dollari al barile ($/b); nel 2007, il prezzo è salito, in media annua, a circa 73 dollari al barile ($/b); nel 2008, il prezzo ha toccato il picco di 146 dollari al barile ($/b) e oggi è a circa 60 ($/b).
Quadro nazionale dell’energia. L’Italia importa l’85% del fabbisogno di energia primaria: gas 88%, olio 92%, solidi 99%. In particolare, il 76.4% del gas importato viene da Russia (30.7%), Algeria (33.2%) e Libia (12.5%). Nel 2007, quasi il 70% dell’elettricità è stata prodotta con gas (56%) e olio 13%). Per l’Unione Europea questa percentuale è del 27% (22% gas, 5% olio), con un importante contributo di nucleare (33%) e carbone (28%). L’uscita dell’Italia dal nucleare ha generato, oltre che una perdita per il sistema-Paese stimata in 60 miliardi di euro, un maggior costo della bolletta elettrica (la più cara d’Europa di oltre il 30%, con un picco del 50% nei confronti della Francia che dipende per il circa l’80% dal nucleare), e un depauperamento di asset e di competenze, sia pubbliche che industriali. Inoltre, ha aumentato la dipendenza dai combustibili fossili, la maggior parte dei quali proviene da pochi Paesi politicamente instabili. Senza una nuova politica energetica nazionale la percentuale di dipendenza dall’estero potrebbe salire al 94% nel 2020. L’Italia ha un mix di fonti energetiche per la produzione di energia elettrica che rende vulnerabile l’intero sistema-Paese. Nel 2007, l’Italia è stata il settimo importatore al mondo di petrolio, con circa 90 Mt; il quarto importatore al mondo di gas naturale, con 74 mila milioni di m?; il nono importatore al mondo di carbone, con circa 25 Mt. In più, circa 25 miliardi di kw/h dell’energia elettrica importata è di origine nucleare, ovvero circa il 15% dei consumi annui, con un controvalore intorno ai 340 miliardi di euro. A ciò va aggiunta la spregiudicata incapacità di chi ha negoziato per l’Italia il protocollo di Kyoto. Il nostro Paese si è impegnato a ridurre entro il 2012 le emissioni di gas serra del 6,5% rispetto ai livelli
del 1990, raggiungendo le 487 milioni di tonnellate di CO2. Al contrario, dal 1998, le emissioni italiane sono cresciute del 12%, sforando di oltre il 18% gli impegni di Kyoto. Per un Paese come il nostro, fortemente dipendente dai combustibili fossili, i risultati non potevano che essere in controtendenza rispetto agli impegni presi. Le emissioni mondiali, dal 1990 al 2005, sono aumentate del 35%, da 19,9 a 26,9 Mt all’anno, principalmente a causa dello sviluppo dei paesi emergenti fuori-Kyoto. Ciò dimostra la sostanziale inefficacia del protocollo di Kyoto, che manca di una dimensione globale: gli obiettivi hanno come oggetto solo il 30% delle emissioni totali e si concentrano su pochi settori già altamente efficienti, e non incidono veramente dove potrebbero essere raggiunti migliori risultati a costi più contenuti. Ad esempio, il trasferimento di tecnologie non è stato ben considerato. Ogni settimana in Cina entra in funzione un impianto a carbone da 700-800 MW con un’efficienza inferiore di circa il 50% rispetto ad una centrale di ultima generazione costruita in Occidente. Le ultime 250 centrali a carbone entrate in esercizio in Cina tra il 2004 e il 2006 hanno prodotto un livello di emissione di CO2 pari all’intero comparto termoelettrico europeo. Se la Cina adottasse la nostra tecnologia a carbone pulito per tutti i suoi nuovi impianti a carbone, si potrebbero ridurre le emissioni di CO2 di 65 milioni di tonnellate all’anno. Entro il 2012, l’Italia, non solo non sarà in grado di soddisfare i limiti di emissione stabiliti da Kyoto - e pagherà una sanzione complessiva per le eccedenze di emissioni entro il 2012 di 55 miliardi di euro – ma non potrà rispettare il pacchetto 20-20-20 dell’UE: la riduzione entro il 2020 delle emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 2005; la riduzione entro il 2020 del 20% dell’intensità energetica (rapporto fra consumo di energia e PIL) rispetto ai livelli del 2005; e l’aumento del 20% della quota di fonti rinnovabili rispetto al totale delle fonti primarie utilizzate (con una quota del 10% di biocarburanti) entro il 2020 (rispetto all’8,5% registrato nel 2005), con tendenza al 30% entro il 2030. 79
Risk Uno sguardo al 2050. Nel
2030, il mercato dell’energia Ue sarà diverso dall’attuale. L’Unione conterà poco rispetto ai colossi energivori. Le asimmetrie regolatorie e di mercato, oltre ai limiti strutturali di interconnessione e trasmissione, hanno impedito la creazione di un mercato integrato europeo dell’energia. Si sono così rallentati i flussi di investimento, limitando la sicurezza energetica europea. Anche supponendo con sforzo e fantasia che l’Ue riuscisse a realizzare il pacchetto 20-20-20 entro il 2020, le emissioni risparmiate sarebbero pari al solo 2-2,5% della CO2 nel mondo. Uno scenario energetico realistico dell’UE a 27 al 2030 prevede la crescita della dipendenza Ue dalle importazioni al 62%, soprattutto a causa dell’attuale scarsa propensione ad investire. Inoltre, il declino della produzione interna di idrocarburi la stabilizzazione del nucleare dopo Chernobyl e una riduzione dell’industria del carbone, dovranno far fronte ai fabbisogni di oltre 500 milioni di consumatori europei. Il mercato finale dell’energia europeo ha, già oggi, un Pil superiore a quello degli Stati Uniti. Esso si confronta con il fallimento delle sovranità nazionali e con la debolezza delle attuali politiche comunitarie, incapaci di creare un unico mercato dell’energia; l’Ue è ancora un embrione intergovernativo e non un attore globale sovranazionale. Nel 2050, la liberalizzazione dei mercati dovrebbe poter creare più competizione e una conseguente riduzione dei prezzi, anche grazie ad una possibile maggiore disponibilità di energia e un’efficienza energetica più sostenibile. Beninteso, l’era dell’energia a basso costo è finita per sempre. I Governi tenderanno a generare aziende sempre più globali e verticalmente integrate, all’interno di un’Europa più sovranazionale, in modo da competere sul mercato globale dell’energia e con più potere negoziale, anche bilaterale. Paesi produttori e consumatori negozieranno accordi di fornitura di lungo termine di gas naturale, che disincentiveranno lo sfruttamento del carbone per il 50%. Nel worst-case scenario, la sicurezza degli approvvigionamenti potrebbe raggiungere il suo 80
peak nel 2020-2025, per la scelta geopolitica della Federazione Russa di favorire i mercati emergenti ed energivori del Sud-Est asiatico, dell’Africa e del Sud America, e non l’Europa, e per il fatto che i mercati del Nord potrebbero diventare più insulari e meno continentali.
Scenario italiano al 2030. Senza una nuova
strategia energetica nazionale corriamo il rischio essere penalizzati in termini di competitività, all’interno di una logica di obiettivi – mondiali e comunitari - che penalizza particolarmente l’Italia, che ci attribuisce compiti irraggiungibili rispetto all’effettivo potenziale del nostro Paese in termini di riduzione delle emissioni e di sviluppo delle rinnovabili. Il costo del pacchetto clima-energia dell’Ue sarà pari per l’Italia all’1,04% del Pil al 2020; un costo elevatissimo specie se paragonato a quello, notevolmente minore, che dovranno sostenere tutti gli altri Paesi europei (mediamente lo 0,45% del Pil Ue a 27), con l’eccezione della sola Spagna. Il Governo italiano ha annunciato una strategia energetica nazionale fondata sul 25-25-50 entro il 2030: 25% di energia prodotta da fonti rinnovabili, 25% da nucleare e il restante 50% da fonti tradizionali, gas, carbone e petrolio. Tale strategia energetica dovrebbe essere presentata dal Governo a metà del prossimo anno. Per realizzare il 25-25-50, il sistema-Paese deve però bruciare le tappe. È necessario iniziare con la ridefinizione di un quadro normativo e autorizzativo per tutte le filiere energetiche così da ridurre i tempi d’inizio attività e dare agli operatori nazionali una prospettiva di rilancio adeguata e in linea con le migliori esperienze internazionali. Inoltre, occorre elaborare un nuovo Pen (Piano Energetico Nazionale), di cui il Paese è sprovvisto da oltre 20 anni. Esso darà agli operatori le linee strategiche in materia energetica che dovranno essere seguite. Ciò creerà nel Paese, oltre ad un ritrovato spirito nazionale, anche le concrete condizioni per rafforzare con l’estero le partnership esistenti e realizzarne delle nuove. Ai fini della riduzione delle emissioni di CO2 si dovrà fare
scenari ricorso a tutte le tecnologie disponibili, dalla cattura e dallo stoccaggio di CO2 al nucleare, dalle fonti rinnovabili agli interventi per l’efficienza energetica. Mi soffermerò qui solo su nucleare e rinnovabili.
Nucleare.
Il nucleare non è la soluzione, ma senza nucleare non c’è soluzione al problema energetico e alla lotta al cambiamento climatico. Il nucleare contribuisce per il 6% in termini di energia primaria del mondo e per il 16% in termini di energia elettrica. Nel passato a guidare il ricorso all’atomo furono principalmente ragioni di sicurezza nazionale. Oggi, a rilanciarla concorrono sia ragioni di sicurezza degli approvvigionamenti, sia di competitività, d’ambiente, di cambiamenti climatici, di crescita della domanda e di stabilità dei prezzi. Molti Governi stanno puntando sul nucleare per diversificare le fonti d’approvvigionamento, ridurre il costo dell’energia e rendersi più indipendenti dall’estero. Questo trend riguarda sia nuovi attori, come Egitto, Turchia, Polonia, che paesi con una storia nucleare consolidata, quali Cina, Russia, Stati Uniti, Francia. Anche Gran Bretagna e Germania, che in passato avevano deciso la fine dell’esperienza nucleare, seppur senza interrompere la produzione elettronucleare, come ha fatto sciaguratamente il nostro Paese, stanno ripensando la propria posizione. Nel mondo ci sono 439 reattori in funzione in 31 Paesi, 37 reattori in costruzione in 14 Paesi (per una capacità aggiuntiva di 30 GW), 94 reattori in progetto in 14 Paesi (per una capacità di 100 GW) e 223 reattori in opzione in 23 Paesi (circa 200 GW). Il fenomeno coinvolge 4 continenti, 31 Paesi, tutti quelli del G8 ad eccezione dell’Italia, che però ha annunciato un programma di ritorno all’atomo. Sarebbe però errato valutare solo la competitività assoluta dell’opzione nucleare. Occorre anche considerarla in termini di contributo alla stabilizzazione dei prezzi dell’energia, alla crescita delle fonti rinnovabili, oltre che valutare il valore dell’onere economico per le emissioni di gas serra che graverà sempre più sulle fonti fossili, e da cui il nucleare è esen-
te. Solo l’idroelettrico è simile al nucleare, ma l’acqua è una risorsa primaria scarsa e lo sarà sempre di più. Il rallentamento dei programmi di sviluppo dell’energia nucleare in tutto il mondo ha determinato un forte impoverimento dell’industria, che ha ridotto gli investimenti, dei public bodies, deputati a sovrintendere le attività nucleari, che non hanno investito nella formazione di una nuova generazione di professionisti, mentre le università hanno ridotto il loro impegno in questo ambito. Le difficoltà che si stanno incontrando nei progetti in corso di realizzazione sono certamente legate alla loro complessità, ma anche competenze insufficienti. Se ciò vale per i Paesi che hanno continuato ad investire nel nucleare, vale a maggior ragione per l’Italia, dove, dopo il referendum del 1987, è stato in gran parte disperso un grande patrimonio di conoscenza, che era stato accumulato negli anni. Occorre ricostruire competenze industriali e pubbliche, coordinare e focalizzare il nostro impegno nella ricerca, riflettere sulla tecnologia da adottare e fare un grande investimento nella formazione. Prima di elencare le cose da fare, vorrei fare una breve riflessione. L’Italia ha alcune criticità intrinseche: è un Paese povero di risorse energetiche, dunque destinato a dipendere sempre di più dall’estero per il suo approvvigionamento primario; è un Paese caratterizzato da costi e prezzi energetici superiori a quelli medi europei, dunque afflitto da uno svantaggio competitivo. Pertanto, la scelta vera non è fra nucleare sì e nucleare no. La questione è se il nucleare possa essere prodotto nel nostro Paese o se debba inevitabilmente essere importato: ciò dipenderà dalla convenienza economica, dalla scelta di politica energetica e ambientale che l’Italia vorrà fare, dal peso che il nostro Paese intende attribuire alla questione della sicurezza degli approvvigionamenti e della dipendenza dai Paesi produttori di petrolio e gas. Sul piano dell’indirizzo politico, il ministro dello Sviluppo economico ha prospettato la possibilità della posa della prima pietra nel 2013 e di un’eventuale prima criticità nel 2017-2018. 83
scenari
Risk Realisticamente, si potrebbe auspicare l’entrata in esercizio della prima centrale intorno al 2020. Vediamo in concreto le cose da fare: • Dotarci di norme, procedure e regolamenti allineati alle più evolute esperienze internazionali, che regolino il processo a vita intera della gestione del nucleare. • Sviluppare un contesto di stabilità politica e finanziaria. Il nucleare è un sistema di lungo periodo. Occorre scegliere fuori dalle logiche partitiche e adottare un approccio bi-partisan. Diversamente, l’Italia pagherà altissimi costi di inazione e incapacità decisionale, e gli investitori non si sentirebbero sufficientemente garantiti. • Ricostruire le competenze industriali, che nel corso di questi anni si sono fortemente impoverite. La risposta dell’industria e dei paesi più impegnati nel rilancio del nucleare è quella di dar luogo ad operatori globali verticalmente integrati che presidiano larga parte della filiera nucleare. Ha iniziato l’industria francese. Hanno continuato americani, inglesi e giapponesi. Infine, anche la Russia ha un suo operatore industriale. In Italia sono rimasti pochi operatori di dimensioni medio-piccole, che costituiscono comunque una base su cui ricostruire adeguate competenze. A tal fine, occorre realizzare un processo di progressiva integrazione fra i diversi soggetti industriali: una dimensione più adeguata è essenziale sia per competere sui mercati internazionali sia per dare un contributo significativo al rilancio dell’opzione nucleare nel Paese. • Ricostruire le competenze pubbliche, a cominciare dall’Autorità nazionale di sicurezza che ha registrato un evidente impoverimento. • Cominciare a riflettere sulla tecnologia. In uno scenario di mercato è lasciata agli operatori la libertà di scegliere la tecnologia. D’altra parte, l’obiettivo di dotare il Paese di circa 14 mila MW di capacità nucleare difficilmente consente una diversificazione tecnologica. • Sviluppare e rafforzare le alleanze internazionali sia sul piano politico che industriale, al fine di crea84
re un sistema nucleare internazionale. • Condurre una verifica sui siti idonei tenuto conto che l’assetto idrogeologico del Paese si è modificato e la taglia degli impianti è aumentata. • Fare bene il decommissioning, allineandone tempi e costi ai migliori standard internazionali. • Costruire un deposito nazionale per stoccare le scorie. In tal modo, si darà prova ai cittadini di essere in grado di gestire il ciclo nucleare, che occorre sottolinearlo - è un ciclo reversibile. • Avviare una trasparente, rigorosa e strutturata opera d’informazione, che sia in grado di sostenere adeguatamente l’eventuale scelta di ritornare a produrre energia dalla fonte nucleare. • Investire sul capitale umano. In un mondo che è diventato più piccolo e più globale, i nostri giovani sceglieranno di lavorare per chi è in grado di offrire loro una prospettiva professionale più allettante.
Rinnovabili.
Le fonti rinnovabili avranno un importante impatto su scala nazionale, ma non domineranno i mercati energetici. Ciò anche fino al 2050. La Commissione Ue, nel gennaio 2007, ha esposto la strategia a lungo termine in materia di energie rinnovabili, al fine di raggiungere il duplice obiettivo di accrescere la sicurezza degli approvvigionamenti energetici e di ridurre le emissioni di gas serra. Il quantitativo delle fonti rinnovabili in Italia, nel 2007, è stato pari a 14,2 Mtep, ovvero pari al 7,3% della domanda totale di energia. L’apporto di tali fonti è prevalentemente rivolto alla produzione di energia elettrica (l’83% del consumo interno lordo di fonti rinnovabili). Nel 2007, vi è stata una riduzione del 3,3% (dai 52,2 miliardi di kw/h del 2006 a 50,5 TWh), a causa della riduzione della produzione idroelettrica del 9,5% rispetto al 2006. Nell’idroelettrico, l’Italia si colloca al decimo posto al mondo per capacità installata, pari a 21 GW. L’energia eolica nel 2007 è incrementata di 1,2 TWh (+41%). La produzione termoelettrica da rifiuti solidi urbani e biomasse è
scenari aumentata di 0,5 TWh (+6,7%). La produzione geotermoelettrica di 0,04 TWh (+0,8%). L’utilizzo di fonti rinnovabili per usi diversi dalla trasformazione in energia elettrica - impiego di legna da ardere per riscaldamento nel settore civile (1,6 Mtep nel 2007) e di biocombustibili (in Italia il biodiesel) - ha quantità del tutto irrilevanti. Secondo le ultime stime, entro il 2010 gli impianti a biogas - oggi circa 300 - saranno almeno 500 in più, con una crescita del 25%, 5 volte in più rispetto alla Germania, che ne possiede circa 4mila. Le vie identificate dall’Italia per ridurre le emissioni inquinanti puntano anche all’utilizzo di biocombustibili derivanti da biomasse: integrazione obbligatoria di bioetanolo in percentuali crescenti nelle benzine e creazione di una filiera agro-energetica. Essi, oltre a garantire una riduzione dell’inquinamento ambientale, contribuirebbero a creare un nuovo e solido mercato per l’agricoltura italiana, fornendo all’industria garanzie di approvvigionamenti economici, continui e a basso impatto ambientale. La quota minima di biocarburanti, per il 2008, è fissata al 2% del totale dei carburanti fossili immessi in consumo nell’anno precedente, mentre dal 2009 la quota è incrementata al 3%. Concretamente, questi gli step irrinunciabili: • Rivedere la logica degli incentivi per standardizzare e razionalizzare al meglio gli investimenti. L’Italia ha commesso l’errore di puntare su incentivi a pioggia per mostrare ad altri di essere un Paese virtuoso in linea con le migliori politiche ambientaliste internazionali. • Sviluppare le fonti rinnovabili, senza condizionamenti ideologici, ma con investimenti mirati, secondo le condizioni geografiche, meteorologiche e storiche del nostro Paese. • Investire in ricerca e sviluppo per la cattura e il sequestro di CO2 e tecnologie innovative per le rinnovabili. • Investire nelle migliori tecnologie termoelettriche disponibili. • Incrementare l’efficienza energetica negli
impianti di produzione, nelle reti di trasmissione e negli usi finali. Una capacità di generazione adeguata non è sufficiente a garantire l’affidabilità e la sicurezza del sistema energetico (soprattutto elettrico). Serve una rete di trasmissione moderna e interconnessa che consenta di trasferire l’energia dai poli di produzione al consumo. L’Italia è un Paese abbastanza virtuoso. L‘emissione pro-capite è pari a 7,76 tonnellate di CO2, inferiore alla media europea (9,52), a quella della Germania (10,92) e della Francia (8,46). Ciò significa che, nonostante le difficoltà politiche nel definire soluzioni efficaci e condivise al problema dell’energia e del cambiamento climatico, le industrie italiane stanno facendo la loro parte, cercando di trovare soluzioni innovative. Il compito dell’industria energetica italiana è quello di garantire a tutti l’accesso all’energia in modo sicuro, economico e sostenibile. Per fare ciò sono necessari massicci investimenti per la diversificazione del mix, lo sviluppo di nuove tecnologie di approvvigionamento, l’innovazione e l’efficienza, nella consapevolezza che solo tra 10-20 anni potranno costituire una reale alternativa alle attuali tecnologie. L’Italia non può pensare di farcela da sola. Né può pensare di appaltare all’estero le proprie necessità. Deve agire come player del sistema comunitario e globale, rafforzando la cooperazione e l’integrazione tra paesi produttori e consumatori, tra i settori pubblico e privato, nonché aiutando ad armonizzare e standardizzare regole internazionali comuni, norme per la commercializzazione dell’energia e prezzi credibili della CO2 facilmente gestibili dai mercati e dagli investitori/operatori. Solo combinando in modo adeguato la strategia e la politica energetica industriale nazionale all’interconnessione dei mercati e alla multidimensionalità delle fonti di energia, il nostro Paese potrà sviluppare una vera politica energetica sostenibile, che soddisfi i requisiti delle 3A: Accessibility, Availability e Acceptability e 1S: Security of supply. 85
lo scacchiere
Africa/ internet e telefonia mobile permettono
N
di superare l’assenza di infrastrutture Adsl, Gps e Sms: si prepara un vero e proprio boom DI
EGIZIA GATTAMORTA
ell’immaginario collettivo con il termine “nuova frontiera” si è da sempre voluto indicare un nuovo spazio da conquistare, un’avventura da intraprendere per affermare le capacità umane e dare spazio all’intraprendenza dei singoli soggetti. Intesa come un incitamento ai pionieri americani a spingersi nelle disagiate terre dell’Ovest, oppure come esortazione Kennedyana per rilanciare un’azione riformatrice negli Stati Uniti d’America all’inizio degli anni ’60, la dizione rinvia comunque ad una sfida, un confronto da cui possa scaturire una situazione migliore per i responsabili
della scelta. Anche oggi si utilizza questo termine, in particolare in riferimento all’alta tecnologia, per tutto ciò che concerne la cibernetica, l’informatica, l’elettronica e il settore delle telecomunicazioni. Negli ultimi anni sono entrati a far parte del vivere quotidiano la connessione ad internet e l’inoltro di email, l’uso della telefonia mobile e l’invio di Sms (Short Message Service), l’utilizzo del sistema Adsl (Asymmetric Digital Subscriber Line) e l’impiego del Gps (Global Positioning System). Nel mondo occidentale si fa sempre più uso dell’e-commerce, dell’e-learning, dell’e-vote; si parla dell’egovernment e dell’e-business. L’Ict (Information and Communication Technology) sempre più rappresenta una meta ed un mezzo per inserirsi nei meccanismi dell’economia globale. Grazie all’uso della rete è ad esempio possibile acquistare dei prodotti dall’altro capo del mondo senza intermediari, a costi più ridotti e riceverli a casa propria in tempo reale. Anche la
scacchiere cultura è diventata accessibile a tutti: le lingue si possono imparare più facilmente, le lezioni universitarie si possono seguire comodamente a distanza, in altre ore e in altri luoghi diversi dalle sedi originarie. Si potrebbe parlare inoltre di come tali tecnologie agiscano nell’ambito della finanza internazionale, o come rendano aperta e fluida l’informazione (permettendo agli utenti di conoscere come breaking news tanto le vicende interne dei grandi attori internazionali quanto le realtà di zone remote e inaccessibili), o ancora si potrebbe accennare a come tali mezzi possano concorrere a rendere più trasparente la vita politica di un paese nel difficile percorso democratico. Fino a che punto è planetaria quest’apertura, questa democratizzazione indotta dalla rete, questa condivisione di dati? Cosa potrebbe comportare una discriminazione in termini di accesso alle tecnologie moderne? In che modo l’Ict può rappresentare la “nuova frontiera” per i Paesi in via di sviluppo, in particolare quelli africani? I numeri danno subito una chiara indicazione: pur rappresentando il continente il 14% degli abitanti del pianeta, in rapporto agli utenti mondiali solo il 2% utilizza internet e solo il 5% si serve della telefonia mobile. L’apertura è quindi limitata, sia a causa delle condizioni di partenza del
continente, sia a causa degli alti costi delle tecnologie da applicare. Da qui, un circolo vizioso di arretratezze e disservizi da cui però è possibile uscire, grazie al dinamismo imprenditoriale che gli africani stessi stanno dimostrando negli ultimi tempi. Interessante notare alcuni elementi dissonanti. Fa una certa impressione vedere un guerriero africano far uso di un cellulare di ultima generazione…eppure anche questo può succedere in Africa centrale ed orientale (quanto meno nelle pubblicità!). Tradizione dei costumi, usanze dei numerosi gruppi etnici e alta tecnologia possono convivere tranquillamente. La telefonia mobile ha aumentato vertiginosamente il numero degli utenti, mentre il numero degli apparecchi fissi rimane scarso. In un mercato in cui la telefonia classica a filo è stata gestita dall’attore pubblico con gravi costi per gli utenti, costretti a sopportare insufficienze legate alla corruzione e alle strutture obsolete, sempre più si assiste ad una dinamizzazione del settore privato. È oramai superato il tempo in cui la Nitel in Nigeria ha gestito 400mila linee tra il
Risk 1960 ed il 2000 su un totale di una popolazione di 120 milioni di persone! Globacom e Vodacom Nigeria, Telkom e Neotel South Africa, Maroc Telecom, Gabon Telecom, Orange Botswana e Orange Cameroon stanno espandendo i loro affari a ritmi vertiginosi. Nel 2005, secondo fonti dell’Information Telecommunications Union (Itu), su un totale di oltre 900 milioni di abitanti del continente, 198 milioni erano gli abbonati delle linee mobili. Di questi, 39 milioni erano in Sud Africa, 32 milioni in Nigeria, 21 milioni in Algeria e 18 milioni in Egitto. Nonostante questi numeri di utenti (in crescita, per giunta), il costo di una chiamata - da e per l’estero- è estremamente elevato. Per ovviare alle spese - ove possibile - inizia a farsi uso del Voice over Internet Protocol (VoIP). Per quanto concerne i punti di connessione Internet, seppure insufficienti, negli ultimi 3 anni hanno avuto una crescita esponenziale in Paesi come il Sud Africa, il Marocco, l’Egitto, il Kenya, la Tanzania. Come riconosciuto in occasione della Conferenza di Addis Abeba dello scorso inverno sulle Ict (13-15 febbraio 2008) e in occasione della celebrazione della Giornata Mondiale delle Telecomunicazioni e della Società dell’Informazione (17 maggio) non si parla mai di quest’area come di un mercato promettente, di uno spazio in cui l’applicazione di nuove tecnologie potrebbe dare un valore aggiunto ad uno sviluppo globale, eppure il settore è in piena espansione. I 50 milioni di utenti odierni di Internet potrebbero ben presto raddoppiare! Significativi potrebbero essere i riscontri positivi in termini di occupazione (creazione di nuovi posti), di lavoro (vendita di prodotti particolari in determinate zone piuttosto che in altre), di early warning in caso di disastri naturali. I vantaggi sarebbero infinitamente superiori rispetto agli ostacoli reali che di fatto sono ancora legati ad una carenza di infrastrutture in alcune regioni africane centrali ed australi (collegamenti stradali, mancanza di elettricità), quindi ad investimenti che si rivelerebbero altamente produttivi nel medio periodo. È la stessa geografia umana, con una popolazione sparsa, che favorirebbe ad esempio l’utilizzazione di cellulari e Gsm. Il tema dell’Ict è stato 88
messo al centro del dibattito prima dell’Organizzazione per l’Unità Africana (OUA), poi dell’Unione Africana (UA) e del News Partnership for African Development (NEPAD). Diverse le istituzioni e gli organismi creati per dare impulso al processo. L’African Telecommunications Union (Atu), fondata nel 1977, si è sviluppata nel corso di un trentennio come forum, punto d’incontro per gli operatori di settore, per promuovere iniziative regionali, per attirare investimenti dei privati, assicurare al continente africano l’accesso universale alla rete e garantire la connessione tra i vari Paesi; l’African Advanced Level Telecommunications Institute (Afralti) a partire dal 1987 è divenuto un centro di eccellenza per garantire preparazione e adeguata specializzazione nel management delle telecomunicazioni nell’area Orientale e Australe; l’African Advanced Institute Information and Communication Technology (Aaict), conosciuto come Meraka Institute, è stato lanciato dall’amministrazione Mbeki a Pretoria nel 2007 con l’obiettivo di ridurre il fenomeno del digital divide che sempre più rende profonde le differenze tra Paesi ricchi e poveri. Tale effervescenza ha prodotto risultati apprezzabili anche se ancora insufficienti per garantire un pieno sviluppo tecnologico. Esemplare il lavoro attorno ai cavi sottomarini a fibra ottica, volti a garantire la connessione tra Africa, Asia, Europa e Stati Uniti. Al cavo SAT3, lungo 28mila km, progetto che ha permesso la connessione di 36 Paesi dal Portogallo alle Isole Mauritius, si stanno affiancando numerose iniziative, tra cui si distinguono l’EASSy, il SEACOM e l’AWCC. L’avvio della costruzione dell’Eastern Africa Submarine Cable Sistem (EASSy) nel dicembre 2007, è finalizzato a realizzare un cavo sottomarino lungo 9900 km tra Durban e Port Sudan. Il costo di 235 milioni di dollari sarà sopportato da un consorzio di 25 operatori privati (di cui 21 africani), l’International Finance Cororation, l’African Development Bank, l’European Investment Bank e altre banche francesi e tedesche. Il Sea Cable System (SEACOM), si propone invece di collegare attraverso un percorso di 15mila km l’Africa orientale e meridio-
scacchiere nale all’Europa e all’India, con un costo 650 milioni di dollari. Altro caso quello dell’African West Coast Cable (AWCC), che con una lunghezza di 13mila km, congiungerà la regione di Cape Town al Regno Unito, passando attraverso la regione occidentale africana. Il progetto, finanziato da 40 nazioni e alcuni operatori delle telecomunicazioni per un totale di 600 milioni di dollari, sarà ultimato per il 2010. Non solo collegamenti nelle acque profonde oceaniche, anche lo spazio è considerato essenziale nelle pianificazioni africane. In tal senso si è sviluppato il progetto per un satellite continentale. Grazie alla Regional African Satellite Communication Organization – Rascom, è stato messo in orbita il 21 dicembre scorso Rascom Qaf1, primo
I
progetto panafricano per integrarsi nel settore della comunicazione globale. È fondamentale che tutte queste iniziative vadano a compimento per ancorare il continente nell’economia globale. I governanti al potere, ben consapevoli di tale necessità, sono costretti a dare sempre più spazio ai dicasteri dell’innovazione tecnologica e a predisporre fondi per il settore dell’Ict, come riconosciuto dall’ultima Conferenza Ict di Addis Abeba. L’Africa del 2008 è ben consapevole che deve spingersi oltre la “nuova frontiera”. Sarà attraverso il modo in cui si collegherà al mondo esterno, all’immagine che offrirà di se stessa, che potrà costruire il proprio futuro e affermare le proprie capacità.
Medio Oriente/ israele-palestina: trovare
una soluzione al problema irrisolvibile La pace sarà il trofeo di Barack Obama? DI
EMAUELE OTTOLENGHI
l prossimo presidente degli Stati Uniti ha una pesante eredità: rimettere in ordine, in un mondo travolto dalle tempeste dei mercati, il rischio di proliferazione nucleare e l’ascesa di forze politiche e ideologiche nemiche dei valori occidentali di libertà civili, libero mercato e società aperta. Non abbiamo dubbi che il vincitore porterà una boccata d’aria fresca e cambiamento nella Casa Bianca. Siamo fiduciosi che il nuovo presidente migliorerà i rapporti con l’Europa e continuerà nel solco della politica estera americana in Medio Oriente, una politica che mira a garantire l’accesso alle risorse energetiche della regione per le economie occidentali a prezzi ragionevoli, e quindi alla stabilità della regione. Crediamo anche che il nuovo presidente non si discosterà in maniera significativa dai suoi predecessori nel sostegno che l’America dà a Israele – un sostegno che è bipartisan e che affonda le sue radici in valori comuni molto radicati nei due Paesi al di là delle differenze politiche tra
Repubblicani e Democratici. Tutto questo dovrebbe tranquillizzare gli scontenti dei risultati del 4 Novembre e rassicurare chi teme che la politica estera americana subisca a partire dal 20 gennaio una svolta in una direzione indesiderata. Quel che ci preme dire invece è che non importa quanto impercettibile sarà il cambiamento della politica estera american, i problemi che essa affronterà in Medio Oriente non si prestano a soluzione – e il nostro timore è che questo concetto non sia abbastanza chiaro alla nuova amministrazione. Ci riferiamo in particolare al conflitto arabo-israeliano, notando come la continuità della politica estera americana sotto ben cinque presidenti americani repubblicani e democratici sia stata sempre guidata da buone intenzioni e cattiva comprensione della questione. Il problema del conflitto arabo israeliano, come dice lo studioso israeliano Dan Shueftan, è che gli israeliani credono che la chiave della soluzione sia il compromesso mentre i palestinesi cre89
scacchiere
Risk dono che la chiave delle soluzione sia la giustizia. Giustizia per i palestinesi significa rettificare i risultati della storia che a loro giudizio sono ingiusti – in primo luogo facendo ritornare in Israele tutti i rifugiati palestinesi e i loro discendenti. Per gli israeliani questo passo è impossibile – per i palestinesi è irrinunciabile. Ora non ci sorprenderebbe affatto vedere il ritorno della diplomazia americana all’assalto del conflitto più irrisolvibile dei nostri tempi nella speranza – illusione? – che la pace che eluse Bill Clinton e non particolarmente cercata da George W. Bush possa essere ora il trofeo del loro successore. E ammettiamolo pure – anche la diplomazia condotta come fine a sé stessa a dei meriti indubbi: crea un’immagine, un’impressione, tiene occupati i giornalisti, da lavoro ai cattedratici, impegna gli intellettuali, placa le cancellerie dei paesi alleati e distrae le opinioni pubbliche. E se a questo serve, mentre ci si occupa d’altro, allora ben venga. Quel che temiamo sono le illusioni. Di una soluzione a un problema irrisolvibile, che distragga intanto dai veri problemi. E i veri problemi in Medio Oriente sono ben altri. Oggi il Medio Oriente è come il Medio Oriente degli anni Sessanta – percorso dal tremito del terremoto radicale e rivoluzionario che aspira a ristabilire una supremazia perduta. Quel radicalismo oggi crede di avere la risposta ai problemi del mondo arabo e interpreta le circostanze regionali come la prova incontrovertibile dell’ascesa dell’Islam radicale e il declino dei suoi nemici – Israele e l’America. La
guerra del Libano nel 2006, la presenza di Hamas a Gaza, il ritiro unilaterale israeliano sono interpretati come un segno del prossimo crollo d’Israele – e soprattutto del fatto che Israele non ha più risposte ai suoi nemici. La situazione in Iraq é vista come un segno della debolezza americana. E l’inarrestabile ascesa dell’Iran e la sua corsa all’atomica sono visti come la riprova che l’era dell’egemonia americana in medio Oriente sta finendo. Come potrebbero dunque i radicali non essere vincenti? E se il radicalismo dimostra forza e vitalità, come possono le forze dei moderati offrire una realistica e attraente alternativa? Questo problema non è nuovo al Medio Oriente – dove i potenti sono sempre ostaggi della retorica delle forze radicali e i moderati sono sempre stati una sparuta minoranza. È un problema che però il nuovo presidente farebbe bene a capire – perché impone enormi limiti alla capacità dell’America di influenzare il corso degli eventi, intervenire nel risolvere problemi, e mediare tra posizioni distanti come quelle tra Israele e i palestinesi. L’amministrazione Bush è stata criticata a più riprese per l’arroganza di certe sue politiche. Qualche volta è stata una critica meritata. Ma l’umiltà che speriamo ritorni alla Casa Bianca sarà misurata prima di tutto dalla capacità del nuovo presidente di riconoscere quanto poco può incidere l’Occidente sulle dinamiche regionali e quanto meglio sia cercare soluzioni realistiche piuttosto che inseguire ideali irrealizzabili.
Unione Europea /la crisi finanziaria impone
L
di dare alla Bce una vigilanza centralizzata Come restituire credibilità internazionale agli Stati membri DI
GIOVANNI GASPARINI
a natura sistemica della crisi finanziaria mondiale in corso impone delle riflessioni che trascendono l’ambito degli aspetti economici, maggiormente focalizzate sull’impatto strategico politico degli eventi di queste settimane. L’onda lunga dello 90
tsunami generato da Wall Street ha già toccato la difficile questione dei rapporti di solidarietà fra Stati in caso di crisi e spinge ad interrogarsi circa i rapporti di forza internazionali e la distribuzione del potere determinata dal suo impatto di lungo periodo. Il crollo del perno del sistema finanziario mondiale, gli
scacchiere Stati Uniti e il dollaro, ha trascinato con sé tutti gli altri attori, legati da una catena di globalizzazione ormai amplissima e i cui anelli hanno iniziato a saltare ad uno ad uno in sequenza rapidissima, iniziando dai più piccoli ed esposti come l’Islanda, l’Irlanda, il Belgio, per colpire poi duramente grandi Paesi come il Regno Unito e la Germania. L’intervento diretto del settore pubblico americano non è bastato a fermare la crisi, e solo un tardivo intervento coordinato europeo, dopo che molti altri tentativi puramente nazionali erano già andati a vuoto, ha permesso di evitare l’implosione totale del sistema, causato dalla totale assenza del bene meno palpabile ma più importante di tutti: la fiducia. Davanti alla resa americana l’Unione Europea e il gruppo dell’Euro hanno avuto la grande occasione di potersi schermare dalla crisi divenendo allo stesso tempo il nuovo perno del sistema monetario internazionale, ma hanno perso questa finestra d’opportunità sacrificandola all’altare di operazioni puramente nazionali che, invece di rafforzare la solidarietà fra Paesi e quindi la credibilità dell’Euro, andavano in direzione di un cinico ed inefficace salvataggio a spese altrui. Il meccanismo di solidarietà non ha funzionato se non parzialmente e solo davanti alla prospettiva di fallimento delle misure nazionali non coordinate, mentre l’impostazione politica ha privilegiato evidentemente la difesa (miope) dei sistemi nazionali rispetto alla cooperazione. Le istituzioni dell’Unione Europea hanno mostrato i propri limiti; la Commissione non ha avuto modo alcuno di muoversi, per debolezza e problemi di competenze, la Banca Centrale Europea (Bce) si è comportata tecnicamente bene, ma non ha saputo cogliere l’attimo per richiedere ed imporre alle capitali le necessarie misure di accentramento presso di essa delle competenze di vigilanza e di gestione dei fondi nazionali d’aiuto varati da Germania, Francia, Regno Unito. Il Consiglio ha beneficiato, come accaduto in agosto durante la crisi georgiana, della fortuita coincidenza con una presidenza “forte”, quella francese, che ha saputo svolgere un ruolo pro-
positivo seppur in chiave riduttiva. Ciò mostra nuovamente come il meccanismo istituzionale europeo sia insufficiente a prevenire e gestire situazioni critiche, anche in virtù della rotazione semestrale della Presidenza del Consiglio; di certo, vi fosse stata la Repubblica Ceca in veste di Presidente dell’Ue, l’influenza europea sarebbe stata ancor minore per non dire nulla. Pertanto, se la performance dei singoli Paesi europei sommati fra di loro può considerarsi migliore di quella del solo Tesoro americano, mostrando nuovamente come una partnership transatlantica equilibrata con un forte gruppo europeo sia essenziale per la sopravvivenza occidentale, di certo non si può dire che l’Europa nel suo complesso ne esca vincente. Su quali basi dunque si fonderà il nuovo sistema finanziario internazionale, una volta superata l’emergenza? Gli altri attori emergenti del sistema globalizzato, Cina e India, non sembrano avere forza e credibilità sufficienti per ricoprire un ruolo chiave, sebbene la loro posizione relativa uscirà probabilmente rafforzata, sempre che la recessione reale che segue la crisi finanziaria non li danneggi seriamente, trattandosi in certa parte di economie dipendenti dall’export. In un certo senso, la crisi finanziaria ed economica comportano un’accelerazione del processo di diffusione del potere a livello globale, non necessariamente in un’ottica di creazione di poli alternativi in conflitto, ma più probabilmente scivolando verso la costituzione di un mondo non-polare a potere diffuso, come sostiene Richard Haass già da prima della crisi. In teoria, un sistema più distribuito potrebbe garantire un maggiore equilibrio e capacità di sopravvivere alle crisi, rispetto ad un sistema dollaro-centrico, ma ciò pone non pochi quesiti circa la sostenibilità della leadership americana. Vi è invece ancora sul tavolo l’opportunità di ridefinire un sistema di regole condivise internazionalmente, in modo da favorire un approccio cooperativo e spegnere i focolai degli egoismi nazionali, fonte in passato di crisi ben peggiori. Il binomio 91
scacchiere Euro-Dollaro potrebbe forse porsi al centro di questo nuovo sistema a larga partecipazione, cui associare le principali piazze emergenti soprattutto in Asia. Ma per giungere a questo bisognerà prima stabilizzare la crisi, aspettare che il nuovo presidente americano abbia preso possesso della Casa Bianca a Gennaio 2009 e sperare che gli animi cooperativi prevalgano fra i decisori politici dei principali Paesi.
In ogni caso, sarebbe opportuno sin da ora rafforzare l’Eurogruppo e la dimensione europea del sistema finanziario, anche attribuendo nuove competenze alla Bce (vigilanza centralizzata) e alla Commissione (emissione di debito, coordinamento delle politiche fiscali), con il duplice obiettivo di rafforzare la solidarietà intereuropea e la credibilità internazionale dell’Unione Europea e quindi di tutti i suoi Stati membri.
America Latina /dal 2020 il petrolio frutterà
E
al Brasile 50 miliardi di dollari l’anno
Modello norvegese o nigeriano? questo il dilemma di Lula (e Petrobras) DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
siste veramente il rischio che il Brasile contragga la cosiddetta “malattia olandese”, che colpisce quei Paesi sbilanciati sull’esportazione di una commodity il cui prezzo internazionale può provocare la valorizzazione della moneta interna con ripercussioni negative sul comparto produttivo e industriale? Quali scelte politiche vanno adottate per emulare il virtuoso modello della Norvegia e non incorrere negli errori commessi, per esempio, dalla Nigeria e dal Venezuela nella gestione della ricchezza petrolifera? Quali sono le formule più efficaci per preservare la libertà di impresa e affrontare al contempo le “riparazioni storiche” in campo sociale che richiedono massicci investimenti in istruzione e nella lotta alla povertà? Negli ultimi mesi queste domande hanno infiammato il dibattito politico in Brasile, e il governo del presidente Lula si trova a dover adottare decisioni di portata storica a poco più di un anno dalle elezioni. In passato vi furono il ciclo del legname - il pau brasil che diede il nome al Paese - dell’oro, della canna da zucchero e del caffé. Oggi pare giunto il momento del ciclo del petrolio, destinato a influen-
zare non solo la matrice energetica nazionale, bensì l’intera equazione tributaria e le possibilità di spesa pubblica nei decenni a venire. Nel novembre scorso il governo brasiliano e la società Petrobras - per il 62% in mano ai privati - avevano annunciato la scoperta di un grande giacimento di petrolio leggero al largo delle coste meridionali del Paese. Successivamente sono state trovate ulteriori e grandi riserve di idrocarburi in una zona contigua di 160mila chilometri quadrati a una profondità tra i 5 e i 7mila metri sotto il fondale marino. Si è quindi aperta una delle sfide scientifiche ed economiche più ambiziose degli ultimi tempi, ed esiste un diffuso consenso sul fatto che la scoperta e l’estrazione del petrolio dai giacimenti della cappa oceanica pre-salina segnerà un prima e un dopo nella storia del Brasile. Sarà interessante seguire l’evoluzione di questo progetto anche alla luce del recente via libera alle esplorazioni oceaniche di idrocarburi concesso dal governo americano. Sintetizzando, i termini della questione sono i seguenti. Nel 2007 il Brasile ha estratto 2,14 milioni di barili di petrolio e gas naturale al giorno, con riserve stimate in 14 miliardi di barili. Sebbene ci vorranno anni per conoscere con esattezza le 93
Risk dimensioni dei nuovi giacimenti, le stime più credibili indicano un quantità compresa tra i 40 e gli 80 miliardi di barili. Se si considera che solo le royalties e gli altri tributi legati all’estrazione petrolifera hanno fruttato alle casse dello stato più di 8 miliardi di dollari, si comprende l’euforia con la quale l’intera società brasiliana sta vivendo la situazione attuale. Si calcola che il petrolio frutterà allo Stato attorno ai 50 miliardi di dollari l’anno già prima della fine del prossimo decennio. Da qui il dibattito su quale sia la formula più adatta a gestire nel lungo periodo questo fiume di denaro. Tra le ipotesi in discussione vi è la creazione di un fondo sovrano e l’opportunità di depositare i proventi del petrolio in conti esteri per poter controllare meglio il flusso di investimenti da riversare nel Paese, scongiurando così i rischi di una progressiva deindustrializzazione. Questo pericolo è comunque meno pronunciato rispetto ai casi di altri Paesi esportatori di petrolio: il Brasile dispone infatti di un sistema industriale sviluppato con alcuni settori di punta (aeronautico, minerario, automobilistico) e una produzione agricola tra le più efficienti al mondo che ha nella soia e nell’etanolo le proprie locomotive. Nel modello brasiliano attualmente in vigore, è l’impresa concessionaria a definire il ritmo di esplorazione e i volumi di commercializzazione del petrolio. In vista della crescita di questo settore, il governo vorrebbe creare una società pubblica incaricata della gestione e messa a gara dei nuovi giacimenti non ancora assegnati, ponendo quindi un freno alla crescita dimensionale di Petrobras. Di fatto, questo scenario finirebbe per aumentare la concentrazione di potere nella mani del governo di turno, avvicinando il Brasile agli altri Paesi Opec. Il modello tratto ad esempio è quello norvegese, ma in un regime presidenziale come quello brasiliano l’efficacia del controllo sulla gestione della nuova società pubblica non può essere data per scontata a priori. Nata nel 1953 e attiva in regime di monopolio fino 94
scacchiere al 1997, Petrobras fino ad ora ha investito in attività di produzione ed esplorazione petrolifera circa 124 miliardi di dollari. La sfida dei nuovi giacimenti richiede ora investimenti per ulteriori 600 miliardi. La società ha richiesto al governo una capitalizzazione pubblica di 100 miliardi offrendo di farsi carico dello sviluppo della totalità dei nuovi giacimenti. Il governo ha rifiutato tale proposta per le ragioni indicate, ma è indubbio che nei mesi a venire lo Stato finirà per cedere e aumentare la propria partecipazione nel capitale azionario e negli utili di Petrobras, che rappresenta il 90% di tutto il settore petrolifero. Per facilitarne gli investimenti, il ministero dell’Economia ha già deciso di escluderli dal computo della spesa pubblica, come già fatto in passato per alcune banche nazionali. Se oggi il peso della compagnia petrolifera è attorno al 5% del Pil, si calcola che con il petrolio a 100 dollari al barile e una produzione di 5 milioni di barili al giorno, nel 2020 la sua incidenza sull’economia nazionale sia destinata a raddoppiare. A ciò va aggiunto l’indotto, che già oggi coinvolge più di 1.500 imprese. Petrobras ha reso nota l’intenzione di utilizzare 42 navi, 146 imbarcazioni di appoggio e 40 piattaforme per le operazioni nei nuovi giacimenti. Il 50% di queste dovrà essere di provenienza nazionale. Il problema maggiore non sarà di natura finanziaria, bensì tecnica, considerata la difficoltà di reperire mezzi e infrastrutture sul mercato nazionale e internazionale. Il piano di assunzioni prevede 14mila nuovi ingegneri, geologi e tecnici nella perforazione da impiegare solamente nei nuovi giacimenti nei prossimi tre anni, da aggiungere ai 22mila funzionari oggi impiegati nel settore esplorazione e produzione. Un aspetto importante riguarderà il trattamento economico: bisognerà infatti evitare che imprese concorrenti finiscano per sottrarre a Petrobras il personale appena formato. In pratica, la scoperta dei nuovi giacimenti è destinata a modificare tutti gli aspetti economici e organizzativi della società petrolifera, dal processo decisionale alla
scacchiere logistica e allo sviluppo di nuovi prodotti a maggior valore aggiunto. Con una domanda interna stimata per il 2015 in 2,3 milioni di barili al giorno, l’intero schema punta a trasformare il Brasile in un grande esportatore di petrolio e derivati, un fatto impensabile fino a una decina di anni fa. Il tutto mentre aumenta la produzione di etanolo per il mercato interno, e l’obiettivo in questo caso è alimentare ad alcool il 95% del parco automobilistico.Tali questioni coinvolgono l’intera società brasiliana, e probabilmente il rischio maggiore è quello di natura politica. I casi di Paesi che hanno visto una grande opportunità come questa trasformarsi in motivo di conflitto interno sono diversi, dalla Nigeria alla vicina Bolivia. La disorganizzazione politica, la corruzione e gli appetiti attorno alla suddivisione delle royalties tra autonomie locali e livello statale e federale impongono una grande cautela prima di festeggiare. Siamo davanti ad un progetto che ha tempi di sviluppo trentennali, e ci vorranno anni prima di portare il petrolio, il gas naturale e forse anche l’energia elettrica sulla terraferma. Sta alla classe politica presentare il quadro completo della situazione alla società civile, e coinvolgere quest’ultima al momento di adottare le scelte sul miglior utilizzo delle riserve petrolifere e delle ricchezze da esse generate. 95
Risk
V
Russia/l’occidente può garantire
un futuro alla georgia?
Aver donato 4,5 miliardi di dollari è molto. Ma non basta DI
DAVID J. SMITH
i è un fatto positivo e uno negativo nei tentativi effettuati le scorse settimane dall’Occidente per porre fine all’aggressione della Russia nei confronti della Georgia. Quello positivo è che i donatori internazionali hanno impegnato 4,5 miliardi di dollari per contribuire a riparare i danni che la Russia ha inflitto alla Georgia nella fase calda della guerra. Quello negativo è che la Commissione europea e la presidenza francese dell’Unione Europea hanno appoggiato la ripresa dei negoziati sull’Accordo di cooperazione e partenariato fra la Russia e l’Unione Europea. Il rischio è che la generosità dell’Occidente possa placare ogni scrupolo di coscienza in merito al fatto di ricadere nell’impostazione del business as usual nei confronti della Russia. La sfida è quella di definire obiettivi occidentali e norme di comportamento a seguito dell’attacco sferrato lo scorso agosto dalla Russia nei confronti della Georgia. L’Unione Europea e la Banca mondiale hanno organizzato una conferenza internazionale dei donatori per la Georgia il 22 ottobre scorso a Bruxelles.
Sessantasette Paesi e molte organizzazioni internazionali si sono riunite per impegnare un importo pari a 4,5 miliardi di dollari sotto forma di aiuti, prestiti e garanzie, vale a dire circa 1 miliardo di dollari in più del previsto. «La Georgia è profondamente commossa e davvero riconoscente per questa dimostrazione di solidarietà ricevuta», ha commentato il primo ministro georgiano Lado Gurgenidze. Gli Stati Uniti, il Fondo Monetario Internazionale, la Commissione europea, i singoli Stati membri dell’Unione Europea e il Giappone hanno tutti contribuito con notevoli importi. Tuttavia tutta questa esultanza è stata mitigata dal puntuale e tempestivo annuncio del giorno precedente che sia la Francia che la Commissione europea sono favorevoli alla ripresa dei negoziati sull’Accordo di cooperazione e partenariato fra la Russia e l’Unione Europea, che quest’ultima aveva sospeso a seguito dell’invasione russa della Georgia. «Non conosco modo migliore per perseguire i nostri interessi e dare voce alle nostre preoccupazioni», ha affermato il 21 ottobre scorso di fronte al Parlamento europeo il Commissario europeo per le relazioni
scacchiere esterne, Benita Ferrero-Waldner. E parlando a nome della presidenza francese dell’Unione Europea nella stessa sede, Jean-Pierre Jouyet, ministro per gli Affari europei, ha dichiarato: «Entrambe le parti hanno bisogno l’una dell’altra… È molto importantè che il dialogo con la Russia continui». In precedenza, il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva proposto «uno spazio economico comune fra Russia e Unione Europea». Certamente altri Stati membri dell’Unione Europea si opporranno a gran voce e con vigore a questi progetti finché la Russia non avrà rispettato l’accordo sul cessate-ilfuoco negoziato con la mediazione dell’Unione stessa. Parlando in via ufficiosa, Jouyet ha anche affermato che in questa fase un piano d’azione per l’adesione della Georgia alla Nato «non è nell’interesse dell’Europa o delle sue relazioni con la Russia». Lo stesso giorno, l’ammiraglio americano Michael Mullen, capo degli Stati Maggiori Riuniti, si è incontrato con il generale russo Nikolai Makarov, capo di Stato Maggiore, a Helsinki. L’ambasciata americana a Helsinki ha spiegato: «Certo il conflitto di agosto fra Russia e Georgia è stato un fattore determinante che ha reso necessario questo particolare incontro. Tuttavia, non è inusuale che le alte cariche militari s’incontrino per discutere questioni di reciproco interesse e l’incontro è stato anche un’occasione per consentire ai due rappresentanti di esaminare le modalità per migliorare le relazioni fra le forze armate dei loro due paesi». L’Occidente sta ricadendo nell’impostazione del business as usual nei confronti della Russia. Il problema nasce dal fatto che nessuno sa davvero cosa voglia dire il no business as usual. Considerato il fatto che l’America non è riuscita a rispondere in modo efficace all’aggressione della Russia nei confronti della Georgia e che non sono effettivamente plausibili severe sanzioni nei confronti della Russia, l’Occidente ha adottato questo “mantra” vago e indistinto. Non è ancora chiaro, tuttavia, cosa si deve e cosa non si deve fare. «È importante che la Russia attui il piano in sei punti negoziato con la mediazione dell’Unione Europea che richiede, fra l’altro, il ritiro delle truppe nelle posizioni precedentemente detenute», ha affermato il ministro degli
Esteri olandese, Maxime Verhagen, al Mainichi Shimbun in occasione della sua visita in Giappone. «È solo attraverso il dialogo con la Russia che si può trovare una soluzione sostenibile e duratura ai problemi in Georgia. Pertanto la nostra impostazione del no business as usual nei confronti della Russia non implica affatto il no business at all». In un certo qual modo si tratta di una ragionevole argomentazione. Ad esempio, può essere costruttivo - per lo meno non dannoso - che Mullen abbia incontrato Makarov. Tuttavia, Washington deve per il momento bloccare ogni passo concreto che i due alti ufficiali possano aver esaminato per migliorare le relazioni militari fra gli Stati Uniti e la Russia. In egual misura, se l’Unione Europea procederà ora con l’Accordo di cooperazione e partenariato invierà a Mosca un messaggio stile business as usual, carico di conseguenze negative non soltanto per la Georgia, ma anche per l’Europa e il resto del mondo. L’Occidente deve definire la linea di demarcazione fra dialogo e impostazione business as usual. In primo luogo, la riunione dei ministri degli Affari Esteri dell’Unione Europea, che si terrà a giorni, deve mettere da parte l’Accordo di cooperazione e partenariato finché la Russia non rispetterà appieno l’accordo relativo al cessate-il-fuoco e non parteciperà in modo costruttivo ai negoziati sul futuro dell’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, che riprenderanno il 18 novembre. Il vertice Unione EuropeaRussia, che si terrà a Nizza il 14 novembre prossimo, deve essere soltanto un dialogo in quanto i progressi su altre questioni sono ora inaccettabili. In secondo luogo, la presidenza francese uscente e la presidenza ceca dovrebbero sedersi intorno a un tavolo con l’amministrazione Bush uscente e il team di transizione del nuovo presidente americano. Dovrebbero concordare una linea a metà strada fra dialogo e impostazione business as usual e decidere una strategia comune per rendere vana la guerra della Russia e opporsi alle sue mire e ai suoi obiettivi diplomatici della fase successiva al conflitto. Se l’Occidente riuscirà in una strategia di questa portata, nel 2009 avremo, nei confronti dell’aggressione russa, un’opposizione costruttiva, salda nei suoi principi. 97
La storia
SIR GREIG, UNO SCOZZESE ALLA CORTE DI CATERINA II
I
di Virgilio Ilari
marines (americani) sbarcarono per la prima volta in Crimea, a Feodosiya, il 2 giugno 2006, per le esercitazioni ucraino-atlantiche Sea Breeze. Rimasero però consegnati in caserma e furono ritirati pochi giorni dopo, a seguito di violenti tumulti scatenati da attivisti filo-russi e della presa di posizione del Parlamento della Repubblica autonoma, eletto in marzo, che dichiarò la Crimea “territorio deatlantizzato” (Nato-free). Non erano però i primi militari americani a mettere piede sulla sponda settentrionale del Mar Nero. Nel 1855-56 George Brinton McClellan (1826-85), allora capitano e futuro generale unionista nella guerra di secessione, fu inviato a studiare l’organizzazione delle cavallerie europee e l’assedio di Sebastopoli, di cui fece un interessante rapporto pubblicato dal Senato americano
storia (Report of the Secretary of War, communicating the Report of Captain George B. McClellan, one of the Officers sent to the Seat of War in Europe in 1855 and 1856, U. S. Senate, Washington, 1857).
che sarebbe “entrato a Costantinopoli”. Ribattezzato Pavel Dzhones, ma conservando la cittadinanza americana, il supereroe raggiunse con un’epica cavalcata di dieci giorni le forze russe – comandate dal principe Potemkin (proprio quello della famosa corazzata di Il primo fu però addirittura lo scozzese John Eisenstein e Fantozzi), dal generale Suvorov e dall’amPaul Jones (1747-92), il “padre della marina america- miraglio Senyavin – che assediavano la piazzaforte na’’, un ex negriero pentito che frustava a morte i mari- ottomana di Ochakov, 150 km ad est di Odessa. nai, divenuto un eroe della guerra d’indipendenza per Decorato già l’8 giugno dell’Ordine di Sant’Anna, ma una modesta ma fortunata crociera corsara nel Mare mal accolto e osteggiato da Potemkin e Senyavin, d’Irlanda. Salutato dalle salve d’onore dell’alleata ottenne come ammiraglia una scalcinata fregata di Marine Royale come comandante della prima nave secondo rango (la Vladimir, da 24 cannoni), con la repubblicana (il brick Ranger, quale operò brevemente nel golfo poi sostituito dalla famosa fregadi Liman, tra le foci del Bug e del Ammiraglio di fiducia ta Bonhomme Richard) comparDnieper, prima di essere richiadell’imperatrice sa nelle acque francesi, fu accetmato a San Pietroburgo col pretetato insieme all’amico e mecenasto di volergli dare un comando di Russia con il nome te Benjamin Franklin nella logsuperiore nel Mare del Nord. Alla di Samuil Karlovich, gia massonica delle “Neuf fine glielo negarono, per gli intripotenziò Soeurs”, ma la sua leggenda data ghi dei colleghi russi e pettegoleze modernizzò la flotta dall’epico duello con l’Hms zi sulle sue imprese sessuali. e riscrisse tutti Serapis svoltosi il 23 settembre Ebbe così il tempo di scrivere una 1779 a Capo Flamborough Narrative of the campaign of the i regolamenti della (Yorkshire). Celebre la tracotanLiman, prima di tornarsene a Marina. Nel 1788, te risposta («I have not yet begun Parigi, nel maggio 1790. l’anno della sua morte, to fight!») alla cavalleresca intiNominato console degli Stati la Flotta del Baltico mazione di resa fattagli dalla freUniti col mandato di trattare il contava ben 23 vascelli gata inglese. Un famoso quadro riscatto dei connazionali fatti ad olio lo raffigura mentre spara schiavi dai corsari algerini, fece e 130 fregate in testa ad uno dei suoi uomini, invano vari tentativi di tornare al e quella del Mar Nero reo di esitare durante un abborservizio russo e morì in un mode5 vascelli e 19 fregate daggio (forse proprio quello del sto appartamento parigino il 18 Serapis). Congedato nel 1783, luglio 1792. Identificate nel 1905, dopo un lustro trascorso in Europa a riscuotere i premi le sue spoglie furono traslate all’Accademia Navale di delle prede inglesi, pensò di entrare al servizio della Annapolis, contribuendo alla glorificazione del potere Russia, impegnata nella settima (1787-92) delle sue navale americano teorizzato da Alfred Thayer Mahan e dodici guerre contro la Turchia. Secondo la Pravda del fondato da Theodor Roosevelt con la guerra di Cuba, la 6 marzo 2006, il servizio segreto russo lo corteggiava secessione di Panama e il famoso corollario alla dottrida nove anni (cioè dalla data della strombazzata cattu- na Monroe. Una vicenda magistralmente illustrata da ra del Serapis), e il 25 aprile 1788, dopo un colloquio Don Rosa (1951) in un paio di capitoli della sua biogradi appena un’ora e mezza, l’imperatrice Caterina II lo fia a fumetti dello scottish-american più famoso del nominò “retro-ammiraglio” della sua marina, convinta mondo (The Life and Times of Scrooge McDuck). 99
storia D’invenzione in invenzione,
in occasione delle celebrazioni per il 250° anniversario della nascita (1997) si è arrivati a sostenere che John Paul Jones avrebbe «completely reorganized the Russian fleets and command structure» e che in definitiva «the Father of the American navy» può essere considerato pure «Father of the Russian navy». Non saranno certo tali trombonate nazionaliste a far rivoltare nella tomba Pietro il Grande e le spoglie mortali degli arsenalotti veneziani trasferiti a San Pietroburgo per costruire le maxi-galere usate nella Grande Guerra del Nord (1700-21) per il dominio del Baltico. E tuttavia fu pur sempre uno scozzese, coevo di Jones, a guadagnarsi ufficialmente il titolo di «Father of the Russian navy»; e per meriti sostanziali, e di gran lunga maggiori di quelli puramente propagandistici che Jones ebbe nei confronti della marina americana.
Gli scozzesi ebbero infatti, dalla seconda metà
del Seicento e per tutto il Settecento, una riconosciuta eccellenza marinara; gli unici che potevano competere con loro, nell’epoca d’oro dei grandi velieri, erano i malouines, i bretoni di Saint-Malo che nel 1764 ribattezzarono col loro nome, poi usato anche dagli spagnoli e dagli argentini, il conteso arcipelago delle Falklands. La diaspora prodotta dalle guerre angloscozzesi e dalla ribellione giacobita portò numerosi mercenari e marinai al servizio di altre potenze europee: furono ad esempio proprio degli scozzesi giacobiti a riformare le truppe e l’artiglieria veneziane e a impiantare la prima squadra di vascelli della minuscola marina sabauda. Numerosi ufficiali scozzesi e inglesi servirono pure nell’esercito e nella marina russa per oltre un secolo, da Pietro il Grande ad Alessandro I, una appassionante vicenda oggi ricostruita in vari studi, tra cui quelli di Ian G. Anderson (Scotsmen in the Service of the Czars, Pentland Press, 1990) e Anthony Glenn Cross (By the Banks of the Neva: Chapters from the Lives and Careers of the British in Eighteenth-Century Russia, Cambridge U. P. 1997).
Mal sopportando l’assorbimento della Royal Scots Navy nella Royal Navy (a seguito degli Acts of Union del 1707), il 1° giugno 1717 il commodoro Thomas Gordon (1658-1741), di Aberdeen, passò al servizio di Pietro il Grande come “rear-admiral of the Red”, il terzo grado della nuova gerarchia introdotta nella marina russa ad imitazione della britannica. Divenuto presto uno dei più ascoltati consiglieri militari dello zar, con il quale discorreva in olandese, promosso ammiraglio nel 1727 e nominato comandante in capo della base navale di Kronstadt, nel 1734 comandò la flotta russa all’assedio di Danzica guadagnandovi la promozione a governatore di Kronstadt. Altri marinai scozzesi servirono Caterina II: su sua richiesta la Royal Navy le inviò alcuni ufficiali per la sesta guerra contro la Turchia (1768-74); il capitano John Elphinstone (172285) condusse fortunosamente una divisione navale dal Baltico al Mediterraneo e, sotto il comando del conte Alexey Grigoryevich Orlov (1737-1808), dette un determinante contributo alla vittoria di Chesme (5-7 luglio 1770) con l’impiego di brulotti (vecchie navi senza equipaggio imbottite di esplosivo e lanciate alla deriva contro la flotta nemica) che incendiarono la squadra turca. Festeggiato poi a San Pietroburgo dall’imperatrice, Elphinstone ricevette un titolo nobiliare e si stabilì in Livonia.
Comandante dei brulotti a Chesme
era Samuel Greig (1736-88) di Inverkeithing (nella contea di Fife), biografato nel Dublin University Magazine del 1854 (pp. 156-167) e poi da Anthony Glenn Cross nel 1974 (Samuel Greig: Catherine the Great’s Scottish Admiral) e nel 1989 da Margareth M. Page (“Admiral Samuil Karlovich Greig, A Scot in the Service of Catherine the Great”, in Scottish Slavonic Review, pp. 251-65), e citato pure da Franco Venturi in Settecento riformatore. Ammirato dalla spericolata azione di questi primordiali mezzi d’assalto navali, personalmente innescati da Greig e dal tenente Drysdale, Orlov lo promosse sul campo ammiraglio, grado confermato dall’imperatrice: carriera fulminea e assolutamente straordinaria, se si tiene conto che pochi mesi prima Greig 101
Risk era, nella Royal Navy, un semplice tenente di vascello (equivalente a capitano dell’esercito); come d’uso, però, il passaggio al servizio russo gli era valso la promozione a capitano di vascello (pari a colonnello); inoltre il comando di una flottiglia, sia pure composta di semplici brulotti, comportava il titolo di commodoro. La fiducia della Grande Caterina fu ben riposta, perché Greig, rimasto poi al suo servizio col nome di Samuil Karlovich e col grado di ammiraglio dell’Impero e di governatore di Kronstadt, fu il grande riformatore della marina russa, potenziando e modernizzando la flotta e riscrivendo tutti i regolamenti. Nel 1788, l’anno della sua morte, la Flotta del Baltico contava ben 23 vascelli e 130 fregate, sia pure ancora inadatti alla navigazione oceanica e non in grado di competere con l’eccellente materiale inglese e francese, cui si aggiungevano i 5 vascelli e le 19 fregate della Flotta del Mar Nero.
In ogni modo la flotta del Baltico, rifondata
da Greig, cominciò proprio negli anni Ottanta del Settecento ad acquisire un peso notevole negli equilibri strategici e nella grande politica. Infatti consentì alla Grande Caterina di promuovere tra le Potenze del Nord la Lega di Neutralità Armata che impedì all’Inghilterra, impegnata nella guerra d’indipendenza americana e nella guerra navale contro il Patto di Famiglia borbonico e sola contro tutto il resto del mondo, di avvalersi dei vitali rifornimenti di legname e canapa per la flotta provenienti dal Baltico. La tenacia inglese le consentì di concludere la guerra con una pace non troppo penalizzante e anzi assai favorevole alle sue esportazioni di tessili, che contribuirono poi alla bancarotta francese da cui scaturì infine la rivoluzione. La pace fu conclusa nel 1783, proprio l’anno in cui la Crimea fu dichiarata indipendente sotto il protettorato russo e la base della Flotta del Mar Nero fu spostata a Sebastopoli. Proprio l’anno prima della Rivoluzione francese, allarmate dai successi russi contro la Turchia, la Prussia, l’Olanda e l’Inghilterra istigarono Re Gustavo III di Svezia ad allearsi col sultano e a provocare cinicamente la guerra – largamente impopolare in Svezia – inscenando un falso attacco
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russo contro un posto di frontiera svedese. Due armate svedesi puntarono su San Pietroburgo dall’interno e dalla costa della Finlandia, mentre la flotta fece vela su Oranienbaum per sbarcarvi un corpo d’assedio. La flotta russa, comandata personalmente da Greig, incontrò il nemico il 17 luglio 1788 al largo dell’Isola di Hogland nel Golfo di Finlandia. La battaglia non fu decisiva sotto il profilo strettamente militare, ma impedì lo sbarco svedese e la notizia del fallimento innescò la rivolta di parte dell’esercito svedese, ostile allla guerra e al tentativo del re di imporre un regime assolutista comprimendo i poteri del parlamento.
Mesi dopo la battaglia, Greig fu attaccato da
una violenta febbre e si decise di portarlo a Reval (Tallinn, in Estonia), sede dell’ammiragliato russo. Appresa la notizia, la regina spedì a Reval il suo protomedico, dottor Rogerson, ma l’ammiraglio spirò a bordo della sua nave, il Rostislav, il 26 ottobre 1788. Andrew Swinton ne descrisse le solenni esequie nella lettera XVI dei suoi famosi Travels into Norway, Denmark, and Russia in the Years 1788-91 (London, 1792), menzionando, tra gli altri vertici militari presenti, anche i capitani di vascello inglesi Elphinstone e Trevenen. Il monumento funebre, ancor oggi esistente nell’ala nord della cattedrale di Tallin, fu disegnato da Giacomo Quarenghi (1744-1817), il più famoso architetto palladiano operante in Russia, e l’enfatica iscrizione dettata da Caterina II diceva che, «fortunato, perfino nella morte, era morto da conquistatore, come Wolfe, come Epaminonda». L’allusione era alla morte romantica del maggior generale inglese James Wolfe (172759), spirato tra le braccia dei suoi ufficiali dopo aver sconfitto il marchese di Montcalm nella battaglia delle Pianure di Abramo, sulle rive del San Lorenzo a monte di Quebec. L’accostamento del celeberrimo episodio alla più prosaica fine dell’ammiraglio scozzese ha un retrogusto intrigante, perché non solo l’Inghilterra era nel 1788 dalla parte dei nemici della Russia, ma lo stesso Wolfe aveva combattuto nel 1746 a Culloden – fucili e cannoni contro spade e scudi – contro l’ultima farsesca e pur tragica ribellione giacobita capeggiata da
storia Bonnie Prince Charles e cinicamente istigata dalla Francia. Tuttavia Wolfe aveva in seguito comandato un reggimento di montanari scozzesi (Royal Highland Fusiliers), dov’era stato molto popolare e benvoluto per avere, proprio sul campo di Culloden, sfidato l’ira del duca di Cumberland rifiutando di eseguire l’ordine di finire un ribelle ferito.
La discendenza di Greig continuò per altre
due generazioni a svolgere ruoli importanti nella storia russa. Uno dei figli, Aleksey Samuilovich (17751845), nato a Kronstadt, fece il tirocinio da midshipman a sottotenente di vascello nella Royal Navy, servendo nelle Indie Orientali e in Europa dal 1785 al 1796. Passato nella marina russa, prese parte alle spedizioni del Mediterraneo del 1798-1800 e, sotto il comando di Dmitry Senyavin (1763-1831), si distinse nel 1807 alle battaglie di Athos e dei Dardanelli contro i turchi, e nel 1813-14 comandò il blocco navale di Danzica (valorosamente difesa dai francesi e dai napoletani di Murat). Comandante della Flotta del Mar Nero e governatore militare di Sebastopoli e Nikolayev dal 1816 al 1833, preparò l’intervento russo al fianco dell’indipendenza greca, anche se, a causa del controllo ottomano dei Dardanelli, il contributo navale russo fu affidato ad uno squadrone distaccato dalla Flotta del Baltico. Richiamato poi a San Pietroburgo come consigliere di stato, ebbe la soprintendenza della costruzione dell’osservatorio di Pulkovo. Suo figlio Samuil Alexeyevich resse il ministro delle finanze dal 1878 al 1880, all’indomani dell’undicesima guerra russo-turca. Aleksey fu anche cognato di Mary Somerville (1775-1848), famosa e autorevole scrittrice di argomenti scientifici: sua lontana cugina (era figlia dell’ammiraglio William George Fairfax) aveva infatti sposato in prime nozze, nel 1804, il fratello di Aleksey, che si chiamava Samuil come il padre. Morto prematuramente nel 1807, quest’ultimo raggiunse solo il grado di capitano di vascello: svolgeva però le importanti funzioni di commissario della marina russa in Inghilterra, nonché di console generale. 103
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KENNEDY, BUSH IL POTERE E LA SINDROME DELLA SUPERBIA
D
Sherwin B. Nuland
avid Owen ha vissuto nel pieno della politica inglese sin dalla laurea in medicina nel 1962. Dopo appena quattro anni di professione e di ricerca sulla chimica cerebrale, fu eletto tra le fila del Labour in rappresentanza della sua circoscrizione, Plymouth Sutton, nella parte sud-occidentale dell'Inghilterra. Per un periodo di tempo cercò di coniugare la vita da parlamentare con la sua opera di ricerca, ma nel 1968 abbandonò la medicina per sempre. Da allora è stato ministro della Salute, degli Affari Esteri e leader del partito socialdemocratico. É attualmente preside dell'Università di Liverpool e membro della Camera dei Lord. Nei sei anni in cui svolse l'attività di medico, Owen entrò in contatto con dottori che avevano in cura importanti uomini politici e poté osservare direttamente il peso che la vita politica aveva sui personaggi pubblici. Iniziò a interessarsi al legame tra salute e potere, fino ad arrivare a scrivere La Sindrome della Superbia. Le tesi del libro, pubblicato nel 2007, sono quelle di un potere che determina dei cambiamenti di personalità portando l’individuo a comportamenti stizzosi, e della superbia intesa non soltanto come un tratto del carattere, ma alla stregua di un vero e proprio stato patologico. La nozione di malattia mentale, scrive Owen, «potrebbe venire ridefinita per includere la sindrome della superbia» . Il suo ultimo libro, «nella malattia e nel potere», analizza il modo in cui malattie specifiche e intossicazioni di potere hanno influenzato le decisioni dei leader mondiali del Ventunesimo secolo. Nel libro Owen analizza il caso di quattro uomini politici il cui giudizio è stato condizionato dalla malattia in tempi di crisi: il primo ministro inglese Anthony Eden, che soffrì di dolori al sistema biliare durante la crisi di Suez del 1956; il presidente ameri-
DAVID OWEN
In sickness and in power Praeger pp. 448 • euro 44,95
La superbia patologica è una malattia che può avvelenare i leader e minacciare la sicurezza internazionale. I dottori devono anteporre la trasparenza alla confidenzialità e rivelare le malattie dei leader al pubblico. Sherwin B. Nuland è professore di chirurgia presso la Yale School di medicina e autore di “Come si muore”. David Owen ha vissuto nel pieno della politica inglese sin dalla laurea in medicina nel 1962. Nel testo vengono presi in esami quattro casi emblematici della cosiddetta «malattia del potere».
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Risk cano John F. Kennedy, colpito da insufficienza renale durante l'invasione alla Baia dei Porci del 1961; l'ultimo Shah di Persia, Mohammad Reza Shah Pahlavi, ammalatosi di leucemia durante gli ultimi anni del suo regno; e il presidente francese François Mitterand, che combatté contro il cancro dal 1981 al 1995 durante la guerra delle Falklands, l'implosione della Yugoslavia e il genocidio del Rwanda. Di tutti questi casi, quello di Eden è il miglior esempio storico di come una malattia può inficiare sulla guida di uno Stato. Mentre il Regno Unito, la Francia e Israele entravano in guerra contro l'Egitto, Eden aveva un comportamento instabile. Il primo ministro soffrì di sbalzi di umore, insonnia e ansia. Secondo Owen, la sua incapacità di gestire una situazione sempre più complessa – in cui si scontravano gli interessi opposti di quattro nazioni in guerra tra di loro, due superpotenze e l'Onu – è riconducibile alle fasi della malattia, che porta disturbi al fegato e febbre alta. Le medicine che prendeva Eden avevano anch'esse un ruolo: Drinamyl, per esempio, stimola l'iperattività, l'irritabilità e la sicurezza estrema di sé. Owen sostiene che la facoltà di giudizio di Eden fosse «seriamente condizionata» quando decise di «scontrarsi con Israele, di ingannare il presidente americano e di mentire alla Camera dei Comuni, anche dopo l'invasione». I funzionari francesi e israeliani riuscirono a convincere Eden, di solito molto prudente, a unirsi al loro piano. Un errore strategico che fu interamente il risultato della sua malattia e terapia. I lettori americani saranno attirati dalla minuziosa analisi di Kennedy, che divenne presidente dopo aver sofferto per molto tempo della malattia di Addison – un'insufficienza renale cronica che comporta debolezza muscolare, fatica e apatia – e che dovette poi sopportare acuti e debilitanti mal di schiena durante i suoi tre anni alla Casa Bianca. Non c'era un unico medico che seguisse le cure di Kennedy: tutto era “appositamente spezzettato”, con più specialisti per trattare problemi differenti – e spesso in maniera sbagliata. I due medici più vicini a Kennedy – Janet Travell e Max Jacobson (conosciuto anche come “Dr. Feelgood” per la sua abitudine a curare qualsiasi disturbo con l'amfetamina) – non 106
avevano né la preparazione né l'esperienza per seguire l'intero quadro clinico. La maggior parte dei loro trattamenti era inadatta. Owen sostiene con convinzione che il fiasco della Baia dei Porci fu il risultato diretto della difettosa capacità di giudizio di Kennedy, a sua volta?causata dalla sua cattiva salute e inadeguato trattamento medico. Kennedy soffriva non soltanto di un forte mal di schiena ma anche di problemi di colon e stomaco, febbre elevata, insonnia e ascessi occasionali. Quando scoppiò la crisi dei missili cubani e i suoi disturbi erano sotto controllo, Kennedy si sentì in migliori forze per prendere decisioni. Ciò era principalmente dovuto al fatto che Travell e Jacobson non facevano più parte dell'entourage e il trattamento del suo disturbo di Addison era passato nelle mani del rispettabilissimo endocrinologo Eugene Cohen.?Ad aggravare il problema della capacità di giudizio di Kennedy ci pensò la Casa Bianca, insistendo invece sull'ottimo stato di salute del presidente – anche quando gli iniettavano steroidi e lo imbottivano di un centinaio di pillole ogni settimana. Molti uomini rispettabili, tra cui il cardinale Richard Cushing, un amico stretto dei Kennedy, mentivano per preservare il segreto della famiglia, come d'altronde facevano molti dottori.?Permettere a Eden di governare mentre veniva divorato dalla malattia e destabilizzato dalle droghe mise il Regno Unito in grave pericolo durante la crisi di Suez. Allo stesso modo, “spezzettare” le cure di Kennedy e nascondere il suo reale stato di salute mise in bilico la sicurezza degli Stati Uniti durante la crisi della Baia dei Porci. Le malattie convenzionali non sono gli unici mali che affliggono?i leader. Per molti capi di Stato l'esperienza del potere determina?mutamenti psicologici che possono portare a sentimenti di grandiosità, narcisismo e a comportamenti irresponsabili. I leader che soffrono di questa sindrome da superbia politica credono di essere capaci di grandi gesta, che grandi cose sono attese da loro, che loro sanno cosa è meglio in ogni circostanza, sono convinti di muoversi oltre i confini dell'ordinaria mortalità. Tali leader ripetono spesso che le loro nazioni sono le forze del bene nel mondo e non conoscono
libreria il male. E più stanno al potere, più queste tendenze sembrano rafforzarsi – come hanno dimostrato i casi di Mao Zedong, Fidel Castro e Robert Mugabe. Il risultato, osserva Owen, è «la totale incompetenza a dirigere la politica». Per illustrare i sintomi della sindrome della superbia, Owen si focalizza su di un leader che ben conosce e su di uno che ha incontrato: l’ex premier Tony Blair e il presidente americano George W. Bush. Di Blair, che un tempo voleva dedicarsi alla recitazione professionale, Owen scrive, «La politica gli ha offerta un grande palcoscenico sul quale esibirsi», aggiungendo che «i politici-attori tendono a essere molto narcisisti». Stando a Owen, da primo ministro Blair possedeva anche un’assoluta certezza morale era convinto che le sue ragioni erano sempre altamente onorabili. Questa certezza attirò il premier britannico a Bush, anch’egli convinto di svolgere un ruolo superiore. Secondo Nabil Shaath, allora ministro degli esteri palestinese, nel 2002 Bush spiegò a lui e ad altri funzionari palestinesi di essere stato spinto in una missione da Dio…Dio mi ha detto, «George vai e poni fine alla tirannia in Iraq. E io l’ho fatto». Tale religiosità e zelo missionario hanno unito Blair e Bush nei loro sforzi per allontanare Saddam Hussein. Per un leader orgoglioso mentire, prendere le scorciatoie e perfino invadere Paesi stranieri è giustificato poiché compiuto nell’interesse di una missione altamente morale. Con il passare del tempo, l’eccessiva confidenza del leader viene amplificata dal suo crescente e intoccabile potere. Una volta raggiunta questa soglia, la sindrome della superbia tocca l’apice e la vittima s’illude di varcare la soglia della grandiosità. È un errore comune tra i dottori sopravalutare le capacità decisionali dei loro pazienti. Ma questo fenomeno quotidiano diventa ancora più pericoloso quando i pazienti sono capi di stato. Owen non è il primo ad osservare che la superbia a volte prende sopravvento sui leader, ma è l’unico, ad oggi, a sostenere che essa sia una condizione patologica che richiede uno studio approfondito, soprattutto sui modi in cui condiziona il processo decisionale. Guardando agli otto anni della presidenza Bush ciò
diventa comprensibile. Ogni dottore che segue la salute di un leader politico dovrebbe leggere il libro di Owen, come dovrebbe farlo ogni politico. Dopotutto, la sindrome dell’orgoglio forse non è soltanto una malattia evitabile, potrebbe anche essere reversibile. Portando la malattia della superbia all’attenzione dell’opinione pubblica mondiale, Owen offre un solo possibile rimedio contro di essa: «il rafforzamento dei pesi e contrappesi democratici di una nazione». È una cura debole, ma forse può aiutare. La costituzione americana già prevede un simile limite: il 25esimo emendamento dà potere al vice presidente e a una maggioranza di deputati di dichiarare il presidente incapace a governare se non lo ritengono più in grado di svolgere il suo ruolo. In una simile situazione, informazioni precise da parte di un medico presidenziale sarebbero importantissime per i decisori. Ma ci sono protezioni maggiori da considerare. Nei casi di malattia fisica, come quella di Kennedy e Eden, un solo medico dovrebbe sia seguire le cure del paziente che diffondere i bollettini medici ai consiglieri politici e al pubblico. Ciò costringerebbe il medico alla massima trasparenza nei casi d’interesse nazionale e il pubblico avrebbe la garanzia di essere informato, oltre a dare migliori cure al leader. Un dottore che segue un leader deve essere attento ai comportamenti superbi, informando il capo di stato e i suoi consiglieri quando si verificano i primi sintomi della malattia. Dopotutto, per sua stessa natura è molto difficile che qualcuno colpito dalla sindrome dell’orgoglio sia in grado di accorgersene da solo. Ma pre-avvisi da parte dei medici e dei consiglieri eviterebbero lo scoppio della sindrome. Infine i capi di Stato dovrebbero, al momento di entrare in funzione, consentire a rinunciare alla privacy medica. E i dottori che li assistono dovrebbero rinunciare alla confidenza tradizionale che hanno con i pazienti per il bene della nazione. Troppo spesso la confidenza e il riserbo vengono confuse con segretezza e i medici diventano complici involontari in una cospirazione studiata ad hoc per ingannare il pubblico. Sta di fatto che i rapporti medici deliberatamente distorti che dipingono un quadro tutto roseo posso107
Risk no mettere in pericolo la sicurezza nazionale e internazionale. Invece di nascondere la verità quando un capo di Stato è gravemente malato, i dottori non dovrebbero esitare a rivelare importanti informazioni sul suo stato di salute. Qualcuno potrebbe affermare che un dibattito pubblico sulle sofferenze del leader e sulla diagnosi ufficiale della sindrome della superbia potrebbe aumentare la segretez-
za, la chiusura difensiva o perfino la paranoia. Ma nelle società democratiche, le discussioni sui problemi di salute dei leader e dei potenziali leader dovrebbero essere la norma. E se un capo di Stato chiuso in sé e paranoico allontana un medico per avere diffuso informazioni mediche tra il pubblico, tale condotta dovrebbe costituire le premesse per un impeachment.
L’ATTACCO ITALIANO AL CELESTE IMPERO
Storie di marinai, diplomatici e civili durante l’assedio delle legazioni e la fuga della Corte imperiale
P
Mario Arpino
er capire gli avvenimenti che fanno da contesto a questa nuova fatica di Fabio Fattore, occorre prima acquisire almeno un po’ della conoscenza necessaria per comprendere lo scenario nel quale si sono compiuti i fatti oggetto della narrazione. La Cina decrepita di fine impero fa solo da sfondo nella cronaca di quel periodo, mentre gli attori principali sono le potenze occidentali, allora portatrici di una cultura colonialista aggressiva, e una corte cinese ormai giunta al collasso a causa di una lunga, sedimentata arretratezza feudale. I fatti dell’estate del 1900, culminati nella sanguinosa rivolta dei Boxer, sono proprio l’epilogo dello scontro mortale tra la vecchia Cina dei pregiudizi e un’imperialismo frutto di una rivoluzione industriale, prima che tecnologica. Gli antefatti sono presto detti. Alla fine del 1800 la Cina attraversava una profon108
da crisi culturale e politica, aggravata da una fisiologica debolezza economica. Debolezza messa a nudo dalla guerra cino-giapponese del 1894 – 1895, risoltasi con vari smacchi e penalizzazioni per il Celeste Impero. L’Imperatrice, non riuscendo a far fronte agli impegni finanziari, si indebitò sempre di più con le potenze occidentali che, in cambio dei sostanziosi prestiti accordati, pretesero sempre maggiori privilegi sul territorio cinese, nel tentativo di frammentare le 18 province ed aver così mano libera per i loro singoli interessi nazionali. In questo gioco, oltre che, come già detto, i giapponesi, si distinsero soprattutto Gran Bretagna, Russia e Germania. Il nuovo Regno d’Italia, al contrario, non sembrava prestare grande attenzione alla Cina. Nel 1867 erano state stabilite con Pechino relazioni diplomatiche alquanto sommarie, tanto che il ministro plenipotenziario, con funzioni di ambasciatore, risiederà per
FABIO FATTORE
Gli italiani che invasero la Cina Cronache di guerra 1900-1901 Sugarco Edizioni pp.220 . euro 18.00
L’Autore è nato a Forlì nel 1968 e dal 1990 è redattore del Messaggero. Ha studiato filosofia a Bologna laureandosi con una tesi in storia del giornalismo. Ha pubblicato Dai nostri inviati a Giarabub, Mursia, Milano, 2006. Estate 1900. La Cina è percorsa dalla rivolta antistraniera dei Boxer e gli ambasciatori di undici potenze sono assediati a Pechino. Il nostro Paese partecipa alla spedizione di soccorso con circa 2500 tra fanti e marinai, più pochi altri che si trovano sul posto dall'inizio del conflitto e sono impegnati nella difesa delle Legazioni e nei tentativi non riusciti di raggiungerle. È la prima missione internazionale dell'Italia, se non si tiene conto dell'operazione di polizia a Creta del 1897 e la guerra di Crimea del 1855, operazioni portate a termine dal Regno di Sardegna e senza avere degli scopi umanitari: per un’altra missione - in Libano - bisognerà aspettare oltre 82 anni. È la scoperta di questo grande Paese per gli italiani. Leggendarie le corrispondenze del famoso giornalista Luigi Barzini.
libreria lungo tempo a Tokyo, per poi trasferirsi nella più comoda sede di Shanghai. Fu Salvalago Raggi, sempre presente nelle cronache presentate da Fabio Fattore, ad essere il primo diplomatico a risiedere stabilmente a Pechino, dove riuscì anche ad imporre a Corte la cognizione certa della presenza italiana. Presenza che, sebbene le nostre navi si ancorassero sempre più spesso nei porti cinesi, era stata storicamente esigua: 23 residenti nel 1872, una punta di 133 nel 1891, per lo più a Shanghai, per scendere a 124, con la presenza di tre ditte, alla fine del 1899. Di fatto, era stata la Regia Marina ad aprire le relazioni diplomatiche con la Cina, con la firma del “trattato di commercio e navigazione” siglato il 26 ottobre 1866 dal comandante della corvetta Magenta, durante una campagna in Oriente. Il nome di quel comandante era Vittorio Arminjon, e l’accordo prevedeva l’apertura di quindici porti al commercio italiano e una rappresentanza nella capitale cinese. Solo un cenno sui Boxer. All’inizio era solo un movimento popolare alimentato dai ceti meno abbienti, che protestava contro l’endemica povertà nelle campagne, accentuata dall’espansione dei grandi Imperi coloniali e dai risultati della Guerra dell’Oppio, che sottraevano ai contadini una pur misera fonte di reddito. Senza andare troppo lontano nel tempo, pensiamo all’Afghanistan, ai talebani ed alle bande dei signori della guerra. Anche i boxer erano contro gli stranieri, contro ogni altra religione e contro il governo centrale. Dopo la sconfitta ad opera dei giapponesi e un maldestro, se non impossibile, tentativo di riforme sociali, l’Imperatrice pensò bene di allontanare dal trono il calice amaro e, attraverso gruppi di mestatori, riuscì a orientare altrove la protesta. Fu così che ebbe inizio in tutto il Paese l’eccidio dei cristiani, cattolici o protestanti che fossero, l’assalto e la distruzione delle chiese, la caccia agli stranieri. Nonostante la Corte, troppo debole all’interno e altrettanto inefficace all’esterno, fosse stata costretta, in più occasioni, a impiegare contro i boxers
l’esercito imperiale, questi nei primi mesi del 1900 cominciarono a lasciare le campagne e a dirigersi anche su Pechino e su Tientsin. Nel maggio scoppiò quell’insurrezione che va sotto il nome di Guerra dei Boxers, e l’esercito imperiale non tardò a unirsi ai rivoltosi. I principali episodi dell’insurrezione di maggio furono il blocco della ferrovia Pechino – Tientsin, l’assedio del così detto “quartiere delle Legazioni” a Pechino e la persecuzione, nelle province, degli stranieri e dei cristiani, anche cinesi. Alla fine di maggio il corpo diplomatico internazionale decide finalmente di richiedere l’invio di guarnigioni di soldati dei rispettivi Paesi. Nelle rade cinesi più vicine si trovavano allora due navi italiane, Elba e Calabria, mentre stavano giungendo anche navi di altre nazioni. Non si trattava ancora della spedizione organizzata dalla Coalizione anti-cinese (l’Italia, con approvazione parlamentare del 7 luglio 1900, assegnava quattro navi da guerra e 2.500 uomini del Regio Esercito), ma già il 31 maggio un distaccamento di 428 marinai, sbarcati dalle navi, dirigevano su Pechino, via Tientsin. Gli inglesi erano 79, 55 gli americani, 23 i giapponesi, 30 gli austriaci, 75 i francesi, 50 i tedeschi, 75 i russi e 40 gli italiani. Giungiamo così alle cronache animate da Fabio Fattore, dove il lettore non troverà una storia organica ma, appunto, “cronache” di vari episodi, arricchite da testimonianze spesso originali, e da altre già note. La sintesi del periodo storico appena delineato non è presente come tale, ma va desunta dalle testimonianze, integrate dagli interventi dell’Autore e da una copiosa serie di note. Fattore si sofferma di più, è ovvio, sulle vicende che riguardano i cittadini italiani, marinai, diplomatici e civili, durante l’assedio delle legazioni, prima della liberazione di Pechino da parte dell’esercito della Coalizione e della fuga della Corte imperiale, ma non esita a spingersi a tutto il 1901. Dipinge a tinte vivaci soprattutto fatti e personaggi, militari e civili, che sono stati protagonisti e vittime dell’assedio. Si rifà ai cronisti di allora, con Luigi Barzini che spicca, alle testimonianze di marinai e di diplo109
Risk matici, dando ai vari capitoli una dinamicità che finisce per coinvolgere il lettore, che più si incuriosisce, più vuol sapere e più riesce a trovare. Come in un romanzo di avventure, qualche nome va citato anche qui, con la differenza che sono personaggi veri, a volte anche eroi, come il sottocapo Vincenzo Rossi, morto per cercare di salvare alcuni compagni raggiunti dai boxers, o il sottotenente di vascello Ermanno Carlotto, cui in seguito veniva intitolata la caserma della Legazione italiana di Tientsin. La prima prova del sangue, quella volta, toccò indubbiamente agli uomini della Regia Marina, ufficiali, gra-
duati e semplici marinai di leva. Abbiamo avanzato un parallelo, forse poco proponibile, con ciò che succede oggi in Afghanistan. Ma quando Fattore cerca di immaginare i pensieri dei due marinai rimasti isolati a fare la guardia sul molo della rada di Taku, con tanti interrogativi senza risposta nella mente, certamente coglie nel segno. L’Italia di allora, piccola a piacere, voleva cominciare a far sentire la sua voce in politica estera al fianco delle nazioni che contano. E lo faceva impiegando in luoghi lontani, verso i quali l’interesse nazionale era alquanto oscuro, il fior fiore dei propri soldati. Nulla di nuovo.
QUELLE SCOMODE VERITÀ SULLA CIA
Come ti monto una colossale e ben documentata operazione disinformativa sull’intelligence più famosa del mondo
D
Andrea Tani
i questo tipo di libri si può dire, liberamente traslando, quello che si dice delle barche: che rendono felici due volte, quando le compri e quando le vendi. Nello specifico, quando cominci a leggerli – i medesimi libri - dopo averli attentamente scelti e golosamente pregustati, e quando li finisci e sei insoddisfatto. E non perché sono troppo lunghi e prolissi. Ma perché qualcosa, o molto stona. Legacy of ashes è effettivamente lungo (671 pagine, note comprese) ma non si può dire che annoi. È avvincente, pieno di rivelazioni inedite e molto scorrevole. Tutto 110
sommato vale la pena di leggerlo, anche se con cautela e mettendo in conto i caveat di cui sopra. Tratta degli oltre sessanta anni di vita un mito dei nostri tempi, quella Central Intelligence Agency costituita nel 1947 durante la presidenza Truman sull’eredità dell’OSS del generale Donovan, ovvero di uno dei motori veri (o più spesso presunti, come ebbe a dire Kissinger a Chu en Lai) dell’azione internazionale degli Stati Uniti nella Guerra Fredda. Un mito del tutto fasullo, sostiene l’autore, perché l’azione della Cia negli anni è stata caratterizzata da un sequela di fallimenti, brutte figure ed inutili brutalità, tanto da indurlo a sostenere che
TIM WEINER
Legacy of Ashes The History of the Cia Penguin Book pp. 671 • $ 16,95
La storia della Cia nella versione più aggiornata, scritta da un ex insider e vincitore di numerosi premi e riconoscimenti editoriali, tra cui il Pulitzer. Nata nel 1947 per combattere il pericolo comunista ha via via perso la mission originale, scivolando su numerosi casi controversi. Operazioni coperte e finanziamenti al di fuori del controllo politico sono alcune delle caratteristiche che l’avrebbero fatta deragliare dai compiti istituzionali. «L’eredità di cenere» è infatti la definizione data già dal presidente Eisenhower circa i fallimenti dell’Agenzia. Una struttura nata per conoscere il mondo che, non riuscendo nel suo compito principale, ha spesso tentato di cambiarlo. Fiaschi e umiliazioni in gran numero, che spiegano come sia girato, già da tempo, il vento a sfavore di Langley. Un cahier de doleance sul gigante dell’intelligence, da anni in secca nei bassi fondali di Washington
libreria gli Stati Uniti sono l’unica potenza egemonica della storia che non è stato assistita da un vero servizio segreto. Ci sarebbe da chiedersi come hanno fatto, gli stessi Stati Uniti, a vincere la stessa Guerra Fredda e cooptare quasi tutti i loro nemici e antipatizzanti del periodo, dalla Germania Orientale al Vietnam, all’Egitto, alla Cina, all’India, all’oligarchia economica russa, all’Iraq, e compagnia cantante, con una simile palla al piede. E perché il governo di Washington lo mantiene ancora in vita, questo peso morto, seppur ridimensionato e un po’ militarizzato come è oggi, e per quale motivo nel corso degli anni l’agenzia sarebbe stata presa a modello da tutti i servizi segreti (russi post Urss compresi) per configurare le proprie strutture di spionaggio e controspionaggio. Dove sarebbero arrivati gli americani se avessero avuto a disposizione un MI 5 o un Mossad o un Kgb invece dell’ arruffato accrocchio di dilettanti ubriaconi descritti da Weiner, i quali erano convinti invece di essere “the best and brightest” nonchè la punta di lancia della intelligence community statunitense? Nel libro il dubbio non viene risolto e neanche avanzato. Si legge solo che i tre servizi sunnominati erano infinitamente superiori alla Cia, anche se si omette di considerare la loro stazza, nettamente inferiore e molto più focalizzata su argomenti settoriali. A parte il Kgb, che non era solo un servizio di intelligence, ma un mondo a parte, l’elìte della società sovietica e la sua ancora di salvezza, come si è visto in seguito L’autore di Legacy of ashes, Tim Weiner, è un Premio Pulitzer di grande mestiere e abilità letteraria. Ha coperto negli ultimi quindici anni argomenti militari e spionistici per il New York Times, scrivendo un altro “hit” su argomenti affini, Blank check: the Pentagon Black Budget. Il problema è che il suo mestiere è forse “troppo” e la ricerca di un altro caso giornalistico su argomenti scottanti che potesse aumentare la quotazione professiona-
le e remunerativa dell’autore - utilizzando sapientemente la de-classifica di montagne (150mila) di documenti segreti e segretissimi della prima Cia, del Dipartimento di Stato e della Casa Bianca che è avvenuta negli ultimissimi anni – sembra essere stata la sua principale stella polare. La ricerca della verità storica, peraltro quasi impossibile da conseguire in un campo così sdrucciolevole come quello dell’intelligence, è passata esplicitamente in secondo piano. Quello che contava era il fragore delle rivelazioni e la posizione delle classifiche delle vendite (ottima, anche se non clamorosa). Il verdetto del vostro recensore è perentorio, proprio come lo è quello dell’autore a proposito della Cia. La differenza è che il primo è in buona fede, anche se non ha vinto un premio Pultzer, e non deve scalare alcuna classifica di vendite, mentre il secondo è fortemente indiziato di distorsione consapevole dei fatti e di interpretazione faziosa, considerate le inesattezze, le omissioni, le affermazioni pregiudiziali, le minimizzazioni dei successi e massimizzazioni dei fallimenti che caratterizzano il libro praticamente ad ogni pagina. Legacy of Ashes appare una colossale e ben documentata operazione disinformativa volta a gettare fango ancorché elegantemente confezionato e di agile maneggio - su una delle istituzioni più importanti e decisive dell’America imperiale del secondo dopoguerra, sui suoi diciannove direttori e, più o meno, anche sugli undici presidenti degli Stati Uniti che hanno regnato nel frattempo, con annesse eminenze grigie. L’approccio appare poco compatibile con l’esperienza e lo spessore di un autore come Weiner. Se ha sbagliato, come è probabile, è difficile possa averlo fatto innocentemente, data la sua padronanza della materia e la sua lunga frequentazione con essa. E l’argomento ha una tale importanza storica da non poter essere trattato con tanta spregiudicatezza. La disinformazione inizia dallo stesso titolo, che non è come l’autore sostiene una frase detta ad Allen Dulles (l’allora direttore dell’Agenzia) da 111
Risk un Eisenhower in prossimità alla fine del suo secondo mandato - riferendosi all’eredità “Cia” che Ike stava per consegnare al suo successore, paragonata ad un mucchio di cenere - ma una rampogna rivolta un mese prima ad altri interlocutori, a proposito dei servizi di intelligence militari. Ovvero dei rivali della medesima Agenzia. (Tutto questo risulta dai verbali di riunioni del National Security Council resi pubblici dal governo di Washington ed evidenziati dai critici di Legacy of ashes) Il resto del libro continua sulla falsariga. Delle cinque principali tipi di attività operativa che la Cia ha portato avanti nella sua storia – ovvero lo spionaggio tradizionale ad opera di persone fisiche (Humint), la raccolta di informazioni con mezzi tecnologici (Sigint), l’analisi (cioè il tentativo di interpretare il presente e prevedere il futuro) e le operazioni clandestine - l’autore si sofferma essenzialmente su queste ultime, dicendone naturalmente tutto il male possibile. Omette di mettere in luce, ad esempio, che l’Humint sovietico e genericamente OltreCortina (come si diceva allora in gergo Nato) a favore dell’Occidente è stato importantissimo, sostanzialmente equivalente agli episodi di spionaggio di americani a vantaggio dell’Urss (casi Hames, Hanssen, Nicholson, Pitts, per citare i principali). Vengono menzionati solo sporadicamente i formidabili risultati dalla Cia nello spionaggio elettronico, elettro-ottico, infrarosso e ambientale, in genere raggiunti attraverso una miriade di mezzi tecnologici sviluppati in proprio dall’Agenzia - dagli aerei da ricognizione di altissima quota e/o velocità (U2 e A 12 Oxcart, quest’ultimo antesignano dell’SR 71 dell’Usaf), ai satelliti di osservazione (Corona, Hexagon (KH 9) e Kennan (KH 11)) e Elint (Electronic Intelligence), Rhyolite e Orion, alle stazioni fisse e mobili per la telemetria degli esperimenti missilistici sovietici e il monitoraggio di quelli nucleari. Le conseguenze strategiche e anche geopolitiche di tali attività sono state 112
immense, e hanno permesso di svelare i vari bluff sovietici e di avviare il processo di allentamento delle tensioni che ha portato ad Helsinki e in prospettiva alla caduta del Muro. . Weiner travisa poi completamente la portata e il valore dell’eccezionale lavoro di valutazione/previsione delle potenzialità e intenzioni degli avversari dell’America nella Guerra Fredda (e nella Pace Calda successiva), e nel far ciò prende numerosi abbagli. Uno dei più eclatanti riguarda l’incapacità, attribuita dall’autore a Langley, di prevedere il crollo dell’Urss alla fine degli anni Ottanta, da considerarsi, se fosse stata vera, una defaillance inescusabile. Essa è smentita, fra l’altro, dal “National Intelligence Estimate” del 1989 che recitava come incipit: «Il vecchio ordine comunista è prossimo alla morte», nonchè dal famoso (ma non per noi) studio The Soviet Cauldron preparato dalla Cia all’inizio del 1991 per il Consiglio di Sicurezza Nazionale della Casa Bianca (che è sempre stato il referente gerarchico dell’Agenzia). Il documento, declassificato recentemente, preconizzava un putsch moscovita di lì a breve, fornendo nomi e cognomi dei congiurati, il come e il dove, e anche le probabilità di successo dell’iniziativa, valutate prossime allo zero Tutto scrupolosamente aderente a quanto poi si verificò nel complotto conservator-bertinottiano contro Gorbaciov. Come accennato, sono le operazioni “coperte” che tuttavia assorbono la quasi totalità delle attenzioni di Weiner. Di fatto Legacy of ashes non appare tanto la storia della Cia quanto una cronaca faziosa delle sue iniziative clandestine, con particolare enfasi sui loro retroscena inconfessabili. Per inciso, ognuna di esse è sempre stata autorizzata per iscritto dai Presidenti del momento e questo lascia non poco perplessi, a prescindere da moralismi un po’ pelosi dell’autore. L’esecutivo Usa ha sempre avuto una politica estera e militare ufficiale, gestita da Foggy Bottom e dal Pentagono, e una segreta, condotta
libreria dalla Cia, entrambe con la piena copertura presidenziale. I rovesciamenti dei governi, i finanziamenti occulti, le destabilizzazioni da conseguire qua e là, le forniture di armi micidiali alle varie guerriglie erano tutti autorizzati dal presidente come un’iniziativa diplomatica o l’istituzione del Martin Luther King Day. C’è da chiedersi a chi costui rispondesse in merito, o addirittura se ne rispondesse. E questo è successo sempre, indipendentemente dal colore politico delle varie Amministrazioni. Risulta chiaro da Legacy of ashes che la Cia è stata al servizio di una sostanziale continuità della politica americana. Hanno contato soprattutto le inclinazioni personali dei singoli leader e dei loro collaboratori di maggior influenza, il momento storico, la natura della minaccia e la sua percezione da parte dell’establishment. Ma torniamo alle asserzioni di Weiner in merito alle operazioni clandestine. Sull’argomento egli è prodigo di dettagli, mettendo in luce soprattutto quelli sgradevoli, dal fallimento del tentativo di infiltrare agenti Cia al di là della Cortina di Ferro, nelle primissime fasi della Guerra Fredda, alla catastrofica guerra clandestina in Asia in Cina, Indocina e Corea, alla defenestrazione di Mossadeq, Arbenz (presidente del Guatemala degli anni 50) e Sukarno, ai tentativi di fare altrettanto con Cuba (assassinando il suo lider maximo, con ripetuti tentativi tragicomici che forse – l’autore adombra – furono alla base dell’attentato ai due Kennedy, fra i più aggressivi sponsor di tali iniziative), ai “successi”, invece, di un tal genere di destituzione ottenuti con Diem e Allende. La fornace del Vietnam, un capitolo a sé, è estesamente trattata, con le gigantesche operazioni di controinsurrezione cruenta che vi ebbero luogo e il completo allentamento di ogni vincolo etico che la durezza del conflitto impose in primis agli uomini della Cia. Seguono l’affare Iran-Contra, l’appoggio alla resistenza afgana contro i sovietici, le disinformazioni tecnologiche nel settore
energetico sovietico che gli fecero immensi danni economici, la distruzione della rete di Abu Nidal attraverso una abilissima manipolazione di Langley sulla quale l’autore quasi sorvola, e poi il recupero della Libia, la neutralizzazione della multinazionale proliferativa del Dottor Khan (il padre dell’atomica pakistana), il gioco incrociato e ambiguo in Medio Oriente e le cose di oggi, che non si sanno ancora ma si possono immaginare. Non manca neppure qualche nota di colore che ci riguarda, come i pittoreschi finanziamenti alla Dc italiana che avevano luogo negli anni fine 40, 50 e primi 60 all’Hotel Hassler - noto alberghetto discreto e anonimo della Capitale - con fondi cash inizialmente prelevati dalla dotazione del Piano Marshall, sulla quale i controlli erano piuttosto lacunosi (i sovietici di allora e anche il Pci lo avevano sempre detto, ma le smentite erano state così sdegnate…). Anche in questa parte del libro gli smacchi sono evidenziati al massimo e i successi minimizzati o rimossi. Difficile formarsi un’idea precisa su come siano andate effettivamente le cose, dato il tema, la mancanza di riscontri e il modo confuso ed episodico con il quale le vicende vengono presentate. Tutto sommato tali vicende riguardano i fatti storici principali di sessanta anni molto intensi e dialettici, per usare un eufemismo. È più che ragionevole ritenere che la “verità” ufficiale fatta filtrare con la declassifica governativa delle documentazioni che hanno fornito le pezze d’appoggio delle tesi dell’autore sia stata orientata a suo tempo da chi avrebbe potuto avere ancora qualcosa da perdere da una loro conoscenza integrale, o semplicemente per ragioni di sicurezza nazionale. Quello che è lampante è che Weiner presenta tutta l’attività clandestina della Cia del periodo come una gigantesca “Apocalypse Now”, un affresco tragicamente corale della abiezione umana, degli eccessi e della degenerazione del potere. Nello specifico, del potere statunitense e solo di quello. La crudezza dei temi, la durezza degli avveni113
libreria menti e del modo per arrivare ad essi, la spregiudicatezza del work in progress: tutto ciò, spiattellato sulla faccia del lettore senza condimenti o attenuanti o persino chiarificazioni lessicali determina in questi un senso di disgusto e di repulsione che forse è funzionale al disegno dell’autore: scioccare per orientarlo politicamente (le elezioni sono appena avvenute). O solo per far soldi. La realtà potrebbe esser abbastanza o anche molto diversa. Come lo stesso autore mette in luce all’inizio del libro, la Cia fu costituita nel ’47 per far fronte ad una sfida totalitaria di un nemico mortale - nemico assoluto geopolitico, strategico, ideologico, etico, socio comportamentale - che non si fermava davanti a niente e per il quale gli scrupoli morali erano assolutamente finalizzati al risultato palingenetico – secondo le sue visioni che si riprometteva di conseguire con la propria azione. Si trattava di un Machiavelli euroasiatico redivivo, fuso in un mix Savonarola/Torchemada, con il genio strategico e tattico di un Napoleone e la diabolica sottigliezza di un Richelieu alla Dumas. Non era del tutto così, naturalmente, ma l’America di tardi anni Quaranta così lo vedeva. Peraltro non completamente a torto, soprattutto per quanto riguardava l’espansionismo ideologico, la potenza militare e l’abilità sovversiva e spionistica dei sovietici, gente assai notevole, in possesso peraltro di bomba atomica e di un autocrate assoluto che rispondeva al nome di Josiph Stalin Era chiaro che per combattere un simile nemico era necessario “anche” contrastarlo globalmente sul suo stesso terreno, ovvero su quello della sovversione, della destabilizzazione, del ribaltamento coatto e illegale di uomini e situazioni a livello planetario, non disdegnando di utilizzare gli stessi mezzi dell’avversario e altri ancora più micidiali e riprovevoli, se necessario. Focalizzando le proprie attenzioni dove la minaccia era più insidiosa. In Europa, ad esempio. In Medio Oriente. E anche, trattandosi degli Stati Uniti, nella labilis-
sima America Latina, che poteva dar fuoco a tutto l’Emisfero Occidentale. Ed è quello che la Cia ha cercato di fare durante la Guerra Fredda, proseguendo presumibilmente anche oltre, per deformazione professionale e obiettiva necessità operativa, data la natura del “dopoguerra”. I risultati sono stati quelli che si sono visti, battaglie perse e vinte, ma nel complesso la Guerra Fredda – l’unica sulla quale è possibile stendere un bilancio - ha avuto un solo, inequivocabile esito. Non solo perché l’economia sovietica ha ceduto, Gorbaciov si è illuso, Reagan ha bluffato e Papa Wojtyla ha lavorato di fino nelle retrovie nemiche, con i noti corollari sui Diritti Umani, gli euromissili, i persona computer e gli elenchi telefonici delle città sovietiche pateticamente secretati. Sarebbe ingenuo e sommamente improbabile pensare che la Cia non abbia avuto un ruolo importante e attivo in tutto questo, anche se il “quanto” non lo sapremo forse mai.
Risk U S C I T I • TERRY BRIGHTON Balaklava Longanesi 2008
Durante la guerra di Crimea, la Brigata leggera della Divisione di cavalleria britannica, in difesa della base di Balaklava, fu protagonista della più celebre carica della storia militare. Per due chilometri, meno di mille umoini cavalcarono contro le bocche da fuoco dei cannoni russi dentro la bocca di un vulcano. Nel suo resoconto straordinariamente dettagliato degli eventi Terry Brighton si è basato su vent’anni di ricerche, raccontando la vicenda attraverso le parole dei superstiti. L’autore cerca poi di dimostrare che, lungi dall’essere un fallimento come sostengono molti storici, la carica sia stata in realtà uno stupefacente successo perché, pur «nelle mandibole della Morte, nella bocca dell’Inferno», secondo le parole di una poesia di Tennyson, la Brigata riuscì a mettere in fuga la cavalleria russa. • DOUGLAS J. FEITH War and Decision: Inside the Pentagon at the Dawn of the War on Terrorism Harper 2008
Negli anni trascorsi dagli attacchi dell’11 settembre 2001, giornalisti, e commentatori hanno pubblicato innumerevoli lavori sulla campagna contro il terrorismo ingaggiata dall’Amministrazione Bush. Non era mai successo, tuttavia, che un alto ufficiale del Pentagono offrisse un punto di vista da insider di questa guerra. Doug Feith, Capo del Policy Planning e vice di Donald 116
N E L
M O N D O
Rumsfeld lo fa in questo volume, introducendo i lettori nelle stanze del Presidente Bush e del suo staff mentre elaborano la loro strategia e formulano i loro piani. Attingendo a migliaia di documenti recentemente declassificati, Feith riporta nel dettaglio il processo di lancio dello sforzo statunitense volto a smantellare le reti del terrorismo internazionale. Toccando, fra l’altro, la decisione di rovesciare il regime di Saddam Hussein ed occupare l’Iraq - riesaminandone le mancanze e gli errori - ed il delicato tema della comunicazione in tempo di Guerra che, secondo l’autore, ha rischiato di compromettere la credibilità dell’Amministrazione Usa e di metterne a repentaglio gli sforzi bellici.
• BENAZIR BHUTTO Riconciliazione. L’islam, la democrazia, l’Occidente. Bompiani 2008
L’ultima analisi politica di Benazir Bhutto, leader dell’opposizione democratica pakistana, data alle stampe solo cinque giorni prima della sua morte nell’attentato del 27 dicembre 2007. Il volume è un importante testamento spirituale, dunque, nel quale la Bhutto non si limita a tracciare la propria visione dei difficili equilibri politici nazionali ed internazionali, ma formula un’aspra critica al fondamentalismo islamico, all’Occidente e, in particolar modo, gli Stati Uniti, accusati di aver condotto nell’area una politica cinica e spregiudicata che li ha portati, secondo l’autore, a sostenere gli stessi movimenti fondamentali-
a cura di Beniamino Irdi
sti che ora rappresentano il loro maggiore nemico.
• THURSTON CLARKE The Last Campaign: Robert F. Kennedy and 82 Days That Inspired America Henry Holt 2008
Al momento dell’ingresso di Robert Kennedy nella corsa presidenziale del caotico 1968, spirava negli Stati Uniti un vento di anarchia. A fronte di una guerra impossibile da vincere il volume esamina il coraggioso sforzo di Kennedy per risvegliare la coscienza e la morale del suo Paese. Benché Clarke descriva un Presidente profeticamente consapevole di una minaccia pendente sulla sua vita, The Last Campaign sceglie di non concentrarsi su ciò che sarebbe potuto essere ancorandosi, al contrario, su ciò che è certo: per 82 giorni Kennedy «convinse milioni di americani che era un individuo buono, e forse un grande uomo». • LUCIANO CANFORA 1956. L’anno spartiacque Sellerio 2008
Gli eventi che si verificarono nel 1956, sostiene Canfora, lo rendono un punto di svolta epocale nella storia del Novecento. Nell’ «anno shock» – come lo definisce l’autore – al XX congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, con cui veniva demolita definitivamente la figura di Stalin, seguì la fine del vecchio colonialismo europeo. È infatti in questa chiave che l’autore interpreta la nazionalizzazione, da parte
dell’Egitto, dell Canale di Suez, sottratto all’amministrazione franco-inglese. Nel frattempo, l’Ungheria subiva l’invasione sovietica nell’indifferenza del blocco occidentale. Canfora racconta il 1956 attraverso le contraddizioni alla radice del rapporto segreto di Krusciov, degli ambigui inizi della destalinizzazione, della rivoluzione ungherese e della crisi di Suez.
• THOMAS FRIEDMAN The World Is Flat 3.0: A Brief History of the Twenty-first Century Picador 2007
Ciò che Friedman intende per “piatto” è “interconnesso”. L’abbassarsi delle barriere politiche ed economiche, e gli avanzamenti tecnologici della rivoluzione digitale hanno reso possibile concludere affari istantaneamente con miliardi di persone in ogni angolo del pianeta. Questa non è più una novità. Ma, sostiene il famoso economista, proprio quando l’esplosione della bolla “dotcom” ha raffreddato l’interesse del mondo per la tecnologia, e l’11 settembre ne ha spostato gli occhi verso il medio oriente, si è verificata la vera accelerazione della “Globalizzazione 3.0”. Una globalizzazione non più trainata da grandi corporazioni o organizzazioni commerciali come la Banca Mondiale, ma da individui: professionisti autonomi e startup innovative (specialmente in India e Cina) capaci di competere ai livelli più alti della ricerca e del design.
riviste L A
R I V I S T A
JACOB HEILBRUUN Neocon Mea Culpa The National Interest november/december 2008
Mai titolo fu più significativo. L’articolo analizza la recente intervista rilasciata da Robert Kagan al Der Spiegel. Kagan oltre ad essere un membro di rango della corrente neocon d’oltre Atlantico, è consulente della campagna elettorale del candidato repubblicano John McCain. Se dovesse essere lui il prossimo inquilino della Casa Bianca, ricoprirebbe senz’altro un incarico di prestigio in campo diplomatico. Ciò che ormai non sorprende più sono le ammissioni di molti repubblicani sui propri errori, ma anche su quelli dell’uscente amministrazione Bush. «In retrospettiva dobbiamo ammettere che Washington avrebbe potuto aspettare un po’ più a lungo» prima di attaccare l’Iraq, l’ammissione che automaticamente ha messo le distanze con l’attuale inquilino della Casa Bianca. Un messaggio per i giornalisti teutonici: «non sono il suo portavoce». Poi ha già abbastanza problemi con la campagna del candidato repubblicano. Corsa
D E L L E
elettorale che aveva vissuto anche momenti felici visto che McCain è stato uno dei maggiori sponsor del surge, l’aumento di truppe in Iraq, proposto dal generale Petraeus. Insomma fra «qualche errore fatto» e alcuni successi, dei segnali per gli esegeti degli affari americani ci sarebbero. Nonostante l’incalzare delle domande, la parola «democratizzazione» sembra scomparsa dal vocabolario neocon, almeno da quello personale dell’intervistato. Però c’è da ammettere una certa lungimiranza di Kagan, che nel suo recente The Return of History and the End of Dreams, aveva pronosticato il ritorno degli statinazione. «Il mondo è ancora diviso ideologicamente, tra un club di stati autoritari e le democrazie liberali (...) Ci stiamo confrontando con una Russia sempre più sicura di se, fiduciosa nelle sue capacità di difendere la propria sfera d’influenza – vedi la Georgia - e nel rendere energeticamente dipendente l’Europa. E vediamo la Cina che persegue gli interessi nazionali usando la stessa fiducia e la forza che gli viene dagli spettacolari successi economici». Per come la vede giustamente Kagan, Stati Uniti ed Europa dovranno crescere sempre più vicini, per contrastare le nuove potenze globali. L’attuale crisi economica sarebbe sostanzialmente ininfluente su questi trend. Però nessun neocon – sottolinea l’autore - ha ancora spiegato come farà l’America a mantenere la spesa militare e gli
R I V I S T E
a cura di Pierre Chiartano
impegni all’estero agli attuali livelli. Nonostante l’approccio propositivo di Kagan, viene sottolineato come non sia riuscito anche a rendere chiaro come o perché gli Usa aiuterebbero l’Europa ad alleggerire la sua dipendenza dalle fonti energetiche russe. L’errore che si imputa a Kagan è quello di proiettare la situazione odierna nel futuro, che «è sempre una faccenda pericolosa». Mosca è veramente una potenza nascente? O semplicemente una improbabile impresa tenuta insieme solo dall’autoritarismo di Putin? Heilbruun critica la visione di Kagan definendola il solito weltanschauung. neocon Buoni e cattivi ben divisi da un confine. Di qua gli autocrati, di là gli uomini liberi. Neanche da menzionare che le alleanze americane non sempre hanno rispettato queste divisioni e anche durante la guerra fredda non sono mancati i «cattivi soggetti» compagni di strada.
FOREIGN POLICY The 2008 Global Cities Index November/December 2008
Le città sono diventate ormai lo specchio dei problemi che
vive l’intero pianeta. Dai cambiamenti climatici, ai terremoti finanziari, fino alle recrudescenze criminali. FP con A.T. Kearny e il Chicago council on global affairs hanno deciso di misurare la febbre della globalizzazione in sessanta città. Lì dove successi e fallimenti di questo sistema si vedono subito e in misura maggiore. Sono i motori della crescita per gli Stati e il rubinetto delle risorse delle regioni cui fanno capo. Ma cosa distingue un città global dalle altre? È sicuramente un misto di potere, sofisticazione progettuale, benessere, e influenza. Ma soprattutto sono quelle città che continuano a produrre e mantenere una rete globale di comunicazione con il resto del mondo, a dispetto di un sistema economico sempre più complesso. Il metodo di valutazione del top ranking si basa su 24 parametri, attraverso 4 dimensioni. Fra questi, il valore del mercato dei capitali, l’indice di presenza delle società dell’elenco Fortune 500, di Università di prestigio e della quantità di merci che le attraversano. Da notare i parametri culturali, che ne misurano l’attrattività per residenti e per i turisti. L’ultimo elemento è quello dell’engagement politico, cioè la capacità di incidere sulle decisioni a livello nazionale e internazionale. Il numero di consolati e ambasciate è un altro parametro importante. Facendo qualche nome si vede l’immancabile Londra, ma anche Chon117
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gquin, Dhaka e Lagos, la cui presenza ci dice molto sulla direzione che stanno prendendo le dinamiche globaliste. In breve, ognuna di esse è un centro importante per il commercio, la cultura o le comunicazioni. New York, città ferita da terrorismo, è ancora al top, seguita da Londra e Parigi, ma al quinto posto c’è Hong Kong e al settimo compare Singapore. Mosca è al diciannovesimo, appena prima di Shangai. Istanbul precede Boston e il Cairo da le spalle a Milano, seguita a ruota da Kuala Lumpur. Lagos e Shenzen sono rispettivamente al 53mo e 54mo posto. Le scoperte della ricerca sono molte. Ne citiamo solo alcune che ci hanno sorpreso. Come il coraggioso e giovanissimo trentaseienne sindaco di Karachi, città difficile e piena di contraddizioni, che si vorrebbe trasformare in una green city piantando migliaia di alberi. Attivissimo nel creare network internazionali per far diventare la sua città la “Dubai del futuro” è un vero sindaco in prima linea. Chongquin è invece la città con l’indice di crescita e sviluppo più alto del pianeta. Un area metropolitana di più di 32 milioni di abitanti (la città ne ha 6,4 milioni), più dell’intero Iraq. Il suo sindaco Wang Hongju è alla continua ricerca di consulenti di valore, tra questi Thomas Friedmann. Negli ultimi cinque anni è riuscito a convogliare investimenti 118
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per oltre 3 miliardi di dollari. La top twenty per il business vede Pechino al nono posto e Tokyo al secondo. Quella della cultura segna Roma al quindicesimo dopo Mexico city (9) e Seul (7). Magari qualche perplessità nasce, ma lo studio ci ricorda subito che è l’attività non la staticità della cultura che conta.
KEN SILVERSTEIN Six Question for Kent Moors on Saudi Arabia, American foreign policy and the future of oil Harper’s november 2008
Intervista a tutto campo ad un esperto di questioni energetiche, ripresa dalle colonne di uno dei più vecchi e rispettati mensili americani. Nato nel 1850 è per età secondo solo a Scientific American. Collocabile genericamente nell’area liberal, è diretto da Roger Hodge. Dal botta e risposta con Silverstine ne emerge un quadro internazionale spesso sorprendente, come per i guai finanziari del regno saudita, caduto nella trappola dei prodotti derivati. Proprio ora che avrebbe potuto godere, con gli incredibili proventi del petrolio,
R I V I S T E di un ruolo di maggior prestigio internazionale. Diciotto mesi fa Riad cominciò a vendere una buona fetta dei Treasury bond statunitensi che possedeva. Causando non pochi malumori sulle rive del Potomac, ma “ahi loro” i guadagni di queste vendite furono investiti in prodotti “spazzatura”, come i collateralized debt obligation, i collateralized mortgage obligations e gli structured investment vehicles. Inutile ripetere come siano poi diventati tristemente noti questi “strumenti” di leva finanziaria. Oggi i sauditi hanno in mano un mucchio di carta straccia. Per la prima volta in molti anni l’Arabia Saudita è uscita silenziosamente dalle banche europee per i cosiddetti prestiti sindacati. Un modo per non veder pubblicizzati le linee di credito richieste. Naturalmente ad un costo maggiore per interessi. Inoltre stanno usando il greggio come garanzia bancaria. Il che non è inusuale, ma non quando il prezzo è in calo. Un fatto che può mettere a rischio questi prestiti in qualsiasi momento. Le terre dei Saud sono sempre stati una garanzia per il mercato petrolifero. Sono l’unico Paese al mondo ad avere riserve strategiche di oro nero sufficienti per incidere sull’andamento del mercato. Quando il prezzo saliva hanno sempre avuto interesse a calmierarlo. Primo per non deprimere la domanda, poi per non rendere appetibili fonti alternative, specialmente negli Usa. Al contrario della politica seguita da Iran, Venezuela e Algeria. Anche Chavez sta vivendo problemi legati alla crisi economica e stanno emer-
gendo alcuni buchi di bilancio. Stesso discorso per Mosca che sta prendendo in considerazione un coordinamento con l’Opec per una maggiore integrazione sul mercato internazionale. I suoi dati previsionali di bilancio fanno perno su un prezzo del petrolio a 70 dollari al barile. Sotto questo livello avrà gli stessi problemi di Caracas. Tenendo conto che la fuga di capitali dalla borsa russa è il risultato della crisi finanziaria e del calo del prezzo del petrolio. Per gli Usa c’è una prospettiva trentennale di utilizzo di greggio a prezzi accettabili, legati sempre ad un’armonica sinergia con i mercati esteri, mentre deve cercare, già oggi, soluzioni per l’energia alternativa. Il progetto di una “fortezza America”, vagheggiato da alcuni, non può funzionare, almeno nel settore energetico e Washington dovrà continuare a lavorare con gente che non gli piace più di tanto.
BARNETT R. RUBIN E AHMED RASHID From Great Game to Grand Bargain Foreign Affairs november/december 2008
Il Grande Gioco dell’epoca vittoriana raccontato da Rudyard Kipling continua. Più
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di un secolo dopo però, non è più qualcosa che assomigli ad una sfida su di una scacchiera. Allora erano l’Impero inglese e quello russo, oggi la coalizione occidentale guidata da Washington e la nuova alleanza tra al Quaida e talebani. Ben sette anni dopo la prima invasione e gli innumerevoli sforzi per cacciare i seguaci di bin Laden e gli studenti coranici, fuori dai confini dell’Afghanistan, tutto sembra ricominciare da zero. L’offensiva talebana, al di là e al di qua del confine col Pakistan, sembra guadagnare terreno, mentre il governo di Islamabad si è dimostrato incapace di controllare il suo stesso territorio e la sua popolazione. I servizi d’intelligence pakistani sono stati accusati di sponsorizzare i terroristi. Hamid Karzai, dopo la prima elezione libera, sta perdendo sempre più credibilità all’interno e all’esterno del Paese. Tutto era stato ampiamente predetto dai critici dell’operazione Afghanistan. Gli attacchi oltre confine, senza la cooperazione pakistana, il fallito tentativo di mettere sotto il controllo civile l’Inter-intelligence service (Isi), il tentativo non riuscito di debellare l’industria dell’oppio, sono alcune delle ragioni dell’attuale crisi della missione in Asia centrale. Qualsiasi politica si scelga, rimane però un punto non evitabile: servono più truppe. Il Paese è troppo grande e i militari troppo pochi, per poterlo controllare. Il segretario alla Difesa,
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Robert Gates, ha infatti annunciato l’intenzione di portare la quantità delle forze di sicurezza afghane al numero di 204mila. Però c’è un problema. L’operazione dovrebbe costare, annualmente, circa 2,5 miliardi di dollari per il mantenimento dell’esercito e un miliardo per le forze di polizia. Lo scorso anno il governo di Kabul è riuscito a racimolare solo il 7 per cento del pil stimato del Paese, che è di circa 9,6 miliardi di dollari: cioè 670 milioni. Ora si è ormai capito che per veder andare via le truppe straniere, chiunque governerà l’Afghanistan dovrà garantire che quel territorio non diventi la base di lancio per futuri attacchi contro l’Occidente. Comunque anche in questo caso sarebbe necessaria la presenza di un dispositivo di sicurezza. Questa consapevolezza potrebbe diventare la cornice di futuri accordi. Fino a quando il Pakistan non deciderà che la stabilizzazione dell’Afghanistan non sia più importante delle schermaglie col suo grande nemico regionale, l’India, difficilmente una soluzione politica o militare potrà aver successo – sottolineano i due analisti di FA. Serve un quadro multilaterale dove collocare un tavolo cui sedersi e dialogare. La Nato non ha alcuna politica verso Islamabad, ma perde quotidianamente la vita dei suoi militari per attacchi che provengono dalle basi pakistane. Inoltre non si deve dimenticare Pechino. Possiede enormi interessi in Pakistan e sta per investire 3,5 miliardi di dollari
R I V I S T E nelle miniere di rame a sud di Kabul. Per Washington, secondo questa visione, sarebbe venuto il tempo per voltare pagina rispetto al passato.
THOMAS DIEZ Europe a borderless society? Harvard Review september 2008
I confini delle nazioni sono spesso naturali, ma sono anche una creazione umana e una struttura sociale. Possono essere permeabili alle merci e refrattari alle persone. Nel 1998 era stato ricordato il 350mo anniversario della pace di Westphalia, che è il punto di riferimento per la nascita degli Stati nazionali su base territoriale. Da allora siamo giunti ad un altro punto di svolta. In seguito agli accordi di Schengen non ci sarebbero più stati confini e controlli alle frontiere interne della Comunità europea. L’articolo 21 del Trattato ne prevedeva gli aspetti funzionali e applicativi. Così si sono incominciate a diluire quelle che un tempo erano prerogative nazionali. La politica economica, quella giudiziaria così come alcuni aspetti di politica interna sono diventati interdipendenti all’interno della struttura comunitaria. Molti avrebbero visto in questa transizione verso
un modello post-moderno di Stato l’inizio di un vero sviluppo del modello di democrazia compiuta. L’autore, professore di relazioni internazionali all’Università di Birmingham, si domanda se siamo all’alba di una nuova era nel mondo della politica. La risposta è no, perché l’Europa in realtà è, per ora, un complesso sistema di competenze che si sovrappongono, dove il livello decisionale è distribuito attraverso i vari livelli regionali, nazionali e comunitari. Nel 1970 Hedley Bull (politologo di origine australiana, fondatore della corrente del «realismo liberale») coniò il termine «neomedievale» per definire questo sistema di sovranità multiple. E lo considerò una sfida alla struttura degli Stati. Era anche convinto che il processo d’integrazione avrebbe ceduto sotto il peso degli interessi nazionali. La situazione che oggi vive l’Europa, a proposito dei propri confini, è la cifra di questa ambiguità. Alcuni sono spariti, altri permangono, altri ancora sono stati cambiati o ne sono sorti di nuovi. Per Diez sarebbe una conferma delle teorie di Bull, che sosteneva che l’Europa non avrebbe fatto che sostituire gli Stati membri con un unica grande struttura statuale nei rapporti internazionali. La questione dei confini è poi correlata a quella d’identità. Non può esserci identità senza confini, afferma l’autore. E l’ultima fase dall’allargamento tra il 2004 e il 2007 ha messo questa issue al centro del dibattito sull’integrazione. Sovranità nazionale e integrazione sono proprio i due elementi su cui si giocherà il futuro successo dell’Europa. 119
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MICHAEL AUSLIN: docente al dipartimento di Storia dell’Università di Yale, esperto di Asia MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato maggiore della Difesa
GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali e il CeMiSs EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo
RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina ROBERT KAGAN: politologo, editorialista del Washington Post, membro del Cfr VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore
MAURIZIO MASSARI: capo dell’Unità di Analisi e Programmazione del ministero degli Affari Esteri
ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali ROGER F. NORIEGA: ambasciatore Usa (fino al 2005) presso la Organization of American States e membro dell’AEI
SHERWIN B. NULAND: docente di bioetica e medicina all’Università di Yale DAVID J. SMITH: senior fellow al Potomac Institute for Policy Studies di Washington e direttore del Georgian Security Analysis Center di Tbilisi
EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles
LUIGI RAMPONI: senatore, Commissione Difesa
STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) ANDREA TANI: analista militare, scrittore DAVIDE URSO: esperto di geopolitica
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