risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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quaderni di geostrategia
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CIlOMMENTARI lugubre link
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Africa Egizia Gattamorta
pagina 4
pagine 76/87 •
Una coabitazione difficile
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Stefano Silvestri
LA STORIA
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Virgilio Ilari
Il ritorno di Tsahal
pagine 88/93
Andrea Nativi
Il nuovo volto di Hamas Andrea Margelletti
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LIBRERIA
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Obama al fianco di Gerusalemme
Mario Arpino Ludovico Incisa di Camerana Andrea Tani Mauro Canali
Walter Russel Mead
pagine 94/107
Ai Qassam si risponde così Pietro Batacchi
pagine 10/49 •
Editoriali
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David J. Smith
Oscar Giannino
DOSSIER
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Russia
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(tra crisi economica e guerre)
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RUBRICHE
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Beniamino Irdi Pierre Chiartano
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Michele Nones Stranamore
pagine 108/111
pagine 50/51 •
SCENARI
Chi sostiene il fanatismo di Ahmadinejad? Gennaro Malgieri
Perché non bisogna mollare Karzai Ahmad Majidyar
La politica industriale non è più un tabù Fabrizio Braghini pagine 52/75 •
SCACCHIERE
Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa
DIRETTORE Andrea Nativi
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CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa
RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani
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Balcani Fabrizio Edomarchi
America Latina Riccardo Gefter Wondrich
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ROMA N. 283
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ommentari
IL LUGUBRE LINK (TRA CRISI ECONOMICA E GUERRE) DI
OSCAR GIANNINO
iamo nel pieno di una crisi finanziaria di quelle che - serie storiche alla mano - si vedono una volta nell’arco della propria vita. Era trascorso già oltre un anno e mezzo dai suoi • primi evidenti segnali quando, il 15 settembre 2008 - con la decisione dei regolatori Usa di lasciar fallire Lehman Brothers - la crisi si è a quel punto diffusa in tempi strettissimi sull’intera catena d’intermediazione bancaria e finanziaria mondiale, per immediatamente riverberare i suoi aspri effetti restrittivi sull’economia reale. È la fine di un paradigma finanziario: quello che ha fatto testo per un ventennio, basato sull’intermediazione ad alta leva, bassa congruità patrimoniale, tecniche di diluizione e annullamento della responsabilità patrimoniale degli intermediari stessi per i rischi di controparte assunti attraverso classi intere di prodotti e servizi finanziari, impacchettati in pooling e ceduti a terzi. È la fine di un paradigma geopolitico, basato sull’alto consumo degli Usa finanziato a debito privato, dai Paesi del Far East che così si assicuravano mercati ad alto assorbimento delle proprie merci a basso costo, e in cambio sostenendo i deficit di bilancia commerciale e dei pagamenti Usa investendovi l’eccesso di risorse così ottenuto, con
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alti rendimenti garantiti dall’elevata remuneratività del capitale finanziario grazie al primo paradigma. Ed è insieme la fine di un paradigma monetario, quello che ha spinto per anni la Fed americana a praticare una politica “lasca” in anni di forte crescita, con indifferenza agli effetti di instabilità teorizzati invece dall’offertismo monetarista: la Fed ha operato sulla base della convinzione che la superiore produttività Usa si basava assai più sugli effetti degli investimenti in Itc - un dato di economia “reale” che sull’elevata, e sempre più rischiosa, alta redditività del capitale finanziario “in bolla”. Le cancellerie e le elite politico-finanziarie si interrogano ora sui tempi della recessione mondiale, sugli strumenti per affrontarla e sulle migliori modalità, se condivise a livello internazionale o praticate in mero coordinamento ma secondo priorità e possibilità nazionali dai diversi Paesi. Ognuno dei tre paradigmi saltati indica in realtà rimedi e modalità diverse. Il primo - quello finanziario - richiede una revisione profonda degli standard e delle regole seguite innanzitutto dai regolatori finanziari americani, e consiglia che le prassi e le revisioni normative siano il più possibile condivise dai regolatori di tutti i sistemi finanziari avanzati. Si tratta di stabilire nuovi requisiti per i coefficienti patrimoniali per unità di capitale intermediata e relativo rischio di controparte da
commentari parte degli intermediari finanziari, di modalità di valutazione degli attivi patrimoniali, di profonde innovazioni per quanto riguarda le agenzie dei rating, il loro ruolo e le loro modalità operative. Il Financial Stability Forum coordinato dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi è al lavoro con buona lena da mesi, ma innanzitutto occorre capire che cosa davvero vorrà fare il nuovo “dream team” dei superconsiglieri economici di Obama, nei primi mesi dopo l’insediamento della nuova amministrazione. Il secondo - quello geoconomico - sospinge inevitabilmente il grande malato da cui l’epidemia ha origine, gli Usa, a riavviare al più presto su nuove basi il meccanismo di reciproca convenienza con il Far East, in modo da riattivare la crescita del commer-
pea, Paesi detentori di risorse finanziarie e Nazioni depositarie di risorse energetiche sono i quattro cantoni di un “grande gioco” in cui ogni vertice del quadrilatero persegue un interesse proprio preminente. Per gli Usa, non scalfire di troppo la precedente egemonia finanziaria e politica - stante che la leadership militare è intaccata, ma ben assicurata dal bilancio del Pentagono. Per Cina e Far East, si tratta di vedersi confermato il drive di crescita triplo e quadruplo rispetto ai Paesi Ocse, come premessa per recuperare il gap storico accumulato nelle proprie arcaiche strutture sociali e produttive. Per i Paesi “energetici”, come Russia e blocco Opec, si tratta di non vedersi brutalmente ridotte royalties e tassi di crescita, come sta avvenendo in questi ultimi mesi con il precipizio dove è caduto il prezzo del barile.
Da Gray a Goldstein, da Chase Dunn a Modelski: ben prima del crollo della Leheman & Brothers era stato previsto il tracollo della supremazia statunitense. Perché le egemonie mondiali che caratterizzano le fasi del capitalismo sono destinate ad affermarsi e poi a decadere cio mondiale e assicurarsi l’eccesso di risparmio colà maturato, al fine di rendere meno “duro” l’atterraggio di milioni di consumatori e lavoratori Usa, chiamati ad allineare la propria capacità di consumo alle proprie capacità di risparmio, negative da alcuni anni. Il tallone monetario di tali accordi commerciali resta saldamente il dollaro, al quale sono legati da accordi di cambio semi-fissi le valute di una ventina di Paesi emergenti la cui crescita ha sospinto il mondo negli anni precedenti l’attuale crisi. Il terzo - quello monetario - è purtroppo sostanzialmente un problema americano, ma come detto eserciterà riflessi immediati, attraverso il dollaro, sulle ragioni di scambio in tutto il mondo. La breve premessa è obbligata per limitarsi a inquadrare il problema. Nella consapevolezza che i quattro cantoni del mondo sviluppato nutrono interessi a parole convergenti - riavviare commercio e consumi - ma in realtà divergenti. Stati Uniti, Unione euro-
Ma una volta fatta la premessa, occorre com-
piere un passo indietro. C’è un legame diretto e concreto tra crisi economiche e conflitti militari? Le prime segnano lo spartiacque tra fasi in cui accelerazioni tecnologiche, innovazioni finanziarie, egemonie commerciali e di materie prime declinano, per trapassare nel tempo a nuovi detentori. I conflitti sono direttamente connessi alle crisi, con ciclicità e legami causali che continuano ad alimentare un appassionante dibattito tra gli studiosi. Nell’informazione quotidiana offerta dai media generalisti si tende a credere che nel mondo odierno le fasi belliche siano per così dire “bandite” dall’ordinarietà, ridotte a meri episodi di traumatica, ma eccezionale occorrenza, rispetto a un ordine mondiale sempre più evolutosi verso l’eliminazione dei confronti militari, con questi sempre più ridotti a “tensioni d’area” sfuggite di mano ad attori incapaci o falliti.In realtà non è affatto così. Si tratta di una 5
Risk visione falsata, in cui l’irenismo tendenziale associato al progresso di pretesi o presunti “governi del mondo” prevale su una spassionata considerazione dei fatti di medio e lungo periodo. Le tensioni di ordine globale, economico-politico, trovano ancora oggi nel ricorso alle armi la soluzione per certi versi più “classica”, sotto molti punti di vista della scienza come della prassi statuale e metastatuale. Stanno a comprovarlo molti studi, in questi ultimi anni e soprattutto dal cruciale 2001 in avanti. Per esempio George Modelski, dell’Università di Washington, e l’italiano professor Fulvio Attinà hanno messo in evidenza come molti segnali mostrino quanto sia difficile sottrarsi al ciclo fatale delle trasformazioni delle leadership globali e dell’aumento delle tensioni - anche e necessariamente militari - tra competitori globali. Sin da metà degli anni Sessanta è in declino l’indice di aggregazione nei patti di difesa, che misura la percentuale di Paesi che aderiscono ad alleanze militari sul totale dei membri Onu. E ciò suggerisce che la leadership globale degli Usa, affermatasi nel 1945, sia entrata in contrazione in maniera analoga a quanto tra il 1850 e il 1878 avveniva con l’avvio della delegittimazione della leadership imperiale britannica, seguita poi da una deconcentrazione delle alleanze nel sistema internazionale tra il 1878 e il 1914, fenomeno che culminò nel primo conflitto mondiale.
L’ipotesi di studio consegnataci dalla crisi
finanziaria globale e dalla recessione assai estesa che ne deriva, dunque, è che la belle époque della globalizzazione 1970-2007 non ci lasci certo in eredità un mondo più stabile, né pacifico perché più equilibrato ed egualitario. Gli approcci moralisti alle diverse fasi del succedersi dei sistemi di equilibrio non si lasciano affascinare da tesi sociologico-giornalistiche alla “fine della storia” di Francis Fukuyama. Dai tempi di Nikolaj Kondratiev in avanti, è di concreti indicatori economici che si nutre la teoria dei cicli lunghi della congiuntura, secondo la quale l’economia procede a
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grandi ondate successive, che generano inevitabilmente grandi conflitti. Kondratiev era direttore a Mosca dell’Istituto per lo Studio della Congiuntura, e cadde vittima della prima “purga” staliniana nel 1928, per morire in un gulag dieci anni dopo. Ha dovuto attendere la riabilitazione sino al 1987. Ma la sua metodologia di studio comparato di serie storiche di una pluralità di variabili economiche di diverse nazioni che, statisticamente trattate, indicavano un andamento in crescendo per una fase e poi un calo a seguire, continua a offrire un’utile piattaforma di strumenti per comprendere la relazione tra economia e conflitti. Non è affatto detto che i cicli siano cinquantennali come Kondratiev inferiva, perché le innovazioni tecnologiche e finanziarie sono accelerate, nel mondo contemporaneo. Ma continua ad avere fondamento il suo presupposto, per il quale lo sviluppo è catalizzato nel lungo periodo da grandi investimenti in “beni capitali fondamentali” che richiedono ingenti disponibilità finanziarie per essere realizzati, e un lungo periodo di logoramento prima di essere rinnovati. Joseph Schumpeter lavorò su questa stessa falsariga, nell’approfondire il criterio delle innovazioni strategiche o epocali che intervengono periodicamente a trasformare radicalmente la maniera capitalistica del produrre. Negli anni più recenti, molti lavori teorici come quelli del grande Joshua Goldstein, Andre Gunder Frank, Immanuel Wallerstein e Arno Tausch hanno puntualmente rielaborato l’ipotesi dei cicli di Kondratiev, e l’analisi del declinare di egemonie economiche sfociate nei tre più devastanti conflitti mondiali, la guerra dei Trent’anni 1618-1648, le guerre napoleoniche 1793-1815, i due conflitti mondiali 1914-1945. Molti di questi autori hanno applicato allo schema interpretativo kondratieviano dati e statistiche economico-commerciali relativi agli anni dal 1945 a oggi, aggiungendovi anche la stima delle vittime di conflitti armati. La conclusione è che la maggioranza degli studiosi che si dedicano a questi studi esita oggi ad abbracciare in tutto e per tutto la scuola degli andamenti cinquantennali di
commentari Kondratiev, identificati in letteratura come “cicli” associati al suo nome. Ma la maggioranza di essi continua ad essere convintz della validità ricorrente di onde lunghe.
Ad esempio George Modelski “riorganizza”
in fasi egemoniche più o meno comprendenti almeno tre cicli cinquantennali di Kondratiev la correlazione tra predominio economico e potenze leader. Dal 1120 al 1190 la potenza leader è Genova e il settore dominante di controllo il decollo di fiere come quella di Champagne. Dal 1250 al 1360 la potenza egemone è Venezia, grazie alle spezie. Dal 1430 al 1492 il Portogallo, con l’oro della Guinea Dal 1492 al 1580 l’Olanda, unendo i commerci baltici con quelli asiatici. Poi la lunga egemonia britannica, dal 1688 al 1850. Quando iniziano a porsi le basi dell’egemonia americana. Ognuno di queste periodizzazioni ruota incentrandosi sul passaggio da una grande guerra globale all’egemonia di una potenza
di Kondratiev. Cristopher Chase-Dunn e Bruce Pobodnik, per esempio, ben prima della crisi attuale, hanno avanzato l’ipotesi documentale di un’Unione Europea ridotta a leadership germanica e che, a seguito di una crisi mondiale che spezzasse la compartecipazione al commercio mondiale sin qui condivisa tra le due rive dell’Atlantico, divenga pronta a un confronto militare contro gli Stati Uniti, non più tardi del 2020. Uno scenario che, negli ultimi mesi, si legge con un interesse del tutto diverso da quello di quando fu avanzato, anni fa. Quanto a Immanuel Wallerstein, risale al 2000 il suo studio sull’ipotesi di grande conflitto tra Europa e Asia, alla fine del XXI secolo, dopo decenni di crescente instabilità finanziaria da una parte ed energetica dall’altra. Al di là di ipotesi così estreme, Giovanni Arrighi ritiene che il XXI secolo come oggi ci si presenta indichi una prospettiva assai più problematica e instabile del previsto di empowerement del Far East asiatico, con Stati Uniti tentati dal decoupling
Abbiamo pensato a lungo che fossero i kamikaze suicidi del jihadismo. Non abbiamo capito che erano le obbligazioni-salsiccia che avevamo in portafoglio, il vero mezzo per mettere a rischio oggi, e forse in ginocchio domani, l’egemonia americana nel mondo dominante, poi alla graduale e via via più spiccata delegittimazione dell’ordine internazionale precedente, infine alla de-concentrazione del sistema globale, e infine a una nuova guerra globale. Molti autori che si sono confrontati con questi spunti di analisi hanno ritenuto che fosse del tutto improbabile, che analoghi scenari di confrontation potessero interessare i protagonisti del capitalismo globale del XXI secolo, e che altri soggetti - in parte o del tutto extrastatuali - potessero candidarsi a fenomeni di destabilizzazione di caratteristiche profondamente diverse che in passato. Buona parte del filone di studio dedicato al jihadismo e alla minaccia del terrorismo fondamentalista post 11 settembre 2001 ha seguito tale filone. Ma c’è anche chi ha proposto scenari del tutto diversi, assai più vicini agli spunti
ai danni dell’Europa, e di conseguenza il compito per la Ue di rinforzare la propria capacità ed efficienza tecnologica e la propria influenza democratica, al fine di evitare che l’equilibrio incerto tra due “costellazioni di terra ferma” possa sfociare in uno squilibrio geopolitico tale da ricalcare quello del 1340, del 1560, del 1750 e del 1930, tutti associati a grandi conflitti successivi. Se seguiamo l’impostazione di George Modelski, gli sfidanti globali di uno scenario alla Arrighi devono essere sempre caratterizzati dall’interazione tra notevoli potenzialità militrari, estese aree d’influenza economica, società chiuse o molto controllate, bassa libertà d’informazione e forti tensioni etniche risolte in chiave nazionalista. Le egemonie mondiali che caratterizzano le fasi del capitalismo sono destinate ad affermarsi e 7
Risk poi a decadere. La difficoltà è distinguere, naturalmente, i segnali di crisi delle diverse onde capitalistiche, le crisi che ne identificano la de-concentrazione graduale dei sistemi egemonici, rispetto poi alle crisi finali. Le transizioni pacifiche da un’egemonia all’altra rappresentano eccezioni, non regola: ricordiamocelo bene. Le grandi depressioni mondiali hanno condotto assai più spesso ad esiti bellici per nuove egemonie, che a transizioni pacifiche e concordate. È successo così nel 1340, nel 1560 che segna l’apogeo olandese, nella grande crisi del 1750-60 che conduce all’imperialismo britannico, e infine nel 1030 che segna il suo esito definitivo.
E oggi, a quale punto della de-concentrazio-
ne mondiale dell’egemonia statunitense ci troviamo, rispetto a precedenti analoghi che possano essere richiamati? Siamo all’equivalente del 1870? Del 1913? Del 1938? Limitiamoci a richiamare alcune delle tesi sin qui più recentemente avanzate. Goldstein ha previsto che intorno al 2020 le attuali tensioni possano sfociare in conflitti generalizzati. Chase-Dunn e Pobodnik considerano anch’essi nell’elevata percentuale del 50% l’ipotesi di un vasto conflitto intorno a quel cleavage temporale, e indicano chiaramente gli Stati Uniti in difficoltà come potenza pronta a difendere l’egemonia declinante con azioni armate, contrapposte a Europa e/o Giappone. Boswel ha articolato sin dal 1999 - dieci anni fa - ben dieci fasi successive di declino dell’egemonia americana, identificando tra il 2020 e il 2030 l’ipotesi un conflitto neoimperiale. Attinà e Modelski ritengono che l’egemonia americana attraversi oggi un declino paragonabile a quello della delegittimazione britannica negli anni 185078, e di conseguenza prevedono che seguirà solo dopo una fase di deconcentrazione mondiale che possa sfociare in vasti conflitti, ma solo entro fine secolo. Uno degli aspetti più stupefacenti di questi studi - tutti precedenti al 15 settembre 2008 in cui Lehman Brothers fallisce e la crisi economica mondiale a lungo incubata infine esplode - è che essi 8
indicavano con larga convergenza il restringersi dell’influenza mondiale che avrebbe interessato pilastri ideologici dell’egemonia americana nel mondo, come “libertà” e “diritti umani”. Avviene in Asia, dalla Russia alla Cina, ma avviene anche nell’Africa in generale a cominciare dal SudAfrica e non solo dai failed States come Somalia, Congo e Darfur. Ma avviene anche nei Paesi occidentali, sia pure in maniera assai più strisciante, per le misure adottate su terreni come la guerra al terrorismo e quella all’immigrazione clandestina. Tutti gli studiosi convergono e sottolineano che la forza militare della superpotenza americana è ancora attualmente priva di veri credibili sfidanti globali. Mai dopo Roma e l’Impero, la superiorità militare di una potenza egemone è stata così nettamente a suo favore. Ma deficit della bilancia dei pagamenti e commerciali nell’ordine di 5 e 6 punti percentuali di Pil annuo, come quelli statunitensi, pesano assai più del bilancio militare assicurato al Pentagono, nel levare punti di forza all’America. Come scrive Colin S. Gray, forse il più influente tra gli analisti strategici nella politica americana dei più recenti anni, tornato in auge dopo l’ubriacatura Netcentrica di Rumsfeld, «gli affinamenti tecnologici della superiorità militare americana non possono e non devono essere sopravvalutati, perché l’esperienza di questi anni insegna che la sfida all’America sarà asimmetrica. Paesi e forze che mirano alla deconcentrazione dell’egemonia americana lo faranno evitando accuratamente di mettere alla prova la nostra più immediata e temibile capacità di risposta. La trasformazione dello scenario mondiale a seguito di una crisi finanziaria ed economica globale, nata nel nostro sistema americano, chiama alla sbarra assai più che le nostre capacità e potenzialità militari: mette in crisi i nostri stessi valori, criteri e prassi che dalla finanza americana esercitavano egemonia sui mercati di tutto il mondo, determinando le forme stesse dell’investimento e dei suoi ritorni stimabili». Scriveva Kondratiev che le guerre «non cadono dal
commentari cielo e non derivano dall’arbitrio di singole personalità. Nascono dal sostrato dei rapporti reali, specialmente economici… e si succedono con regolare periodicità e soltanto durante la fase di ascesa delle onde lunghe, perché trovano ragione nell’accelerazione del ritmo e nella tensione della vita economica, nella intensificata lotta per i mercati e per le fonti di materie prime». Nel 1932 l’economista americano Alvin Hansen, riflettendo sugli effetti della Grande Depressione allora in pieno corso, condivideva appieno, e profeticamente scriveva: «non è la guerra che causa la fase di crescita di lungo periodo. Piuttosto è la lunga fase di crescita che produce le condizioni per l’irrompere della guerra». Ma ancora nel 1938, pur con Hitler che annetteva Paese dopo Paese, c’era chi dissentiva. L’economista britannico A. L. Macfie obiettava che «quando la fiducia è commista al nervosismo, quando le vertenze del lavoro scuotono i nervi, quando i tassi d’inte-
nanti secondo i principi dell’economia classica impedisce che si compia qualcosa di meglio». Venuto meno il grande confronto planetario tra Usa e Urss, la ripresa della spesa militare “keynesiana” è puntualmente riavvenuta dopo ciò che nel settembre 2000 il Project for the New American Century profeticamente quasi auspicava: «un qualche evento catastrofico catalizzatore, una nuova Pearl Harbor». Un anno dopo, era l’11 settembre.
E tuttavia, hanno ragione
i due Tenenti Colonnelli dell’Armata Popolare cinese, Qiao Lang e Wang Xiangsui, a scrivere che nel conflitto per l’egemonia postamericana «il volto del dio della guerra è diventato indistinto». In un mondo integrato dalla globalizzazione, il conflitto si può ottenere anche con strumenti ed azioni non di guerra ad opera di soggetti anche non militari che minacciano la stessa esistenza quotidiana con armi non convenzionali capaci di attentare alla sicurezza, alla
La leadership globale Usa, affermatasi nel 1945, è entrata in contrazione in maniera analoga a quanto, tra il 1850 e il 1878, avveniva con quella imperiale britannica. Ne seguì una deconcentrazione delle alleanze internazionali che culminarono nel primo conflitto mondiale resse sono a crescere e la prospettiva di conservare il livello dell’investimento vacilla», allora «gli umori e le sensibilità che prevalgono nelle depressioni non sono bellicosi: nell’affrontare le difficoltà, si diventa autocentrici e si preferisce mettere ordine al disordine esistente piuttosto che crearne dell’altro». Si è visto, purtroppo, chi aveva ragione e chi torto. Le due Grandi Guerre del ‘900 si sono scatenate proprio quando il ritmo degli affari era al ribasso, i prezzi calavano, la disoccupazione aumentava e gli “spiriti animali” dei capitalisti languivano.Si dirà che basterebbe dare retta a John Maynard Keynes, per evitare i conflitti dalle crisi economiche. Non sono d’accordo. Keynes stesso scrisse che «le guerre possono servire ad accrescere la ricchezza, se l’educazione dei nostri gover-
salute, al benessere, all’opinione pubblica. Questo nuovo combattimento - osservavano i due strateghi cinesi - finirà per “provocare nella gente comune, come anche nei militari, grande stupore nel constatare che le cose ordinarie, quelle a loro vicine, possono anche diventare armi con le quali ingaggiare una guerra. Siamo persuasi che alcune persone si sveglieranno di buon’ora, scoprendo con stupore che diverse cose apparentemente innocue e comuni hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali». Abbiamo pensato a lungo che fossero i kamikaze suicidi del jihadismo. Non abbiamo capito che erano le obbligazioni-salsiccia che avevamo in portafoglio, il vero mezzo per mettere a rischio oggi, e forse in ginocchio domani, l’egemonia americana. 9
ALLA RICERCA DI ISRAELE Le elezioni in Israele sono andate così, ed è ora inutile stracciarsi le vesti se l’estrema destra è avanti e la sinistra continua a perdere. È una realtà che trova riscontro anche altrove. La parità dei numeri tra Livni e Nethanyau era qualcosa di prevedibile, e preoccupa solo nella misura in cui resteranno ferme le rigidità personali, piuttosto che ideologiche, tra i due leader. Israele ha però un vantaggio, che consiste nella sua consapevolezza di vulnerabilità. Quando il pericolo è esistenziale, e periodicamente succede, diventa granitica. Questo oneroso collante è la sua salvezza. Il Presidente degli Stati Uniti - la cui mano tesa all’Iran e al mondo islamico al momento non agevola il dialogo con Israele, ha detto: «Mi auguro di lavorare presto con il nuovo premier per cercare una durevole e forte pace nella regione». Non sono parole da poco, e hanno il significato di un impegno già sottoscritto. Saggio atteggiamento, perché in fondo Israele da sola può gestire assai poco gli eventi del mondo che la circonda. Imbrigliata com’è, può solo esprimesi in modo tattico, ma difficilmente lo può fare in termini strategici. In altre parole, da Israele può dipendere la condizione di tregua o di guerra, ma non la “pace”, quella vera e duratura. Quella dipende da altri, e non certo dal mondo islamico, nonostante la proposta saudita del 2002, dai più ignorata, resti ancora l’unico atteggiamento strategico concreto e costruttivo sinora emerso dai credenti in Allah. Il resto, compreso l’attivismo egiziano ed il silenzio giordano, rientra nelle categorie della tattica, e tocca gli interessi di Israele solo di riflesso. Ciò significa che la pace dipende dal circuito virtuoso che è necessario si crei reciprocamente tra Israele e il resto dell’Occidente, e tra questo e il mondo musulmano, e più segnatamente arabo. È da qui che il nuovo governo partirà. L’America sarà di nuovo il grande regista dell’opera, mentre l’Europa, possibilmente con la Turchia, dovrà svolgere un ruolo di garante tra Stati Uniti, mondo arabo-musulmano e Israele. Il primo nodo da sciogliere e quello “Fatah contro Hamas” e da qui si potrebbe cominciare, sempre che il logo “due popoli, due stati” resti di attualità. Il secondo passo potrebbe essere un intenso lavoro sulla Siria per rescindere il cordone ombelicale iraniano, stabilizzando così il Libano e neutralizzando Hezbollah attraverso un suo riassorbimento nella politica. A questo punto resterebbero ancora le incognite del problema dei rapporti con l’Iran, dove, nel frattempo, le elezioni potrebbero far riemergere personaggi assai diversi da Ahmedinejad. In ogni caso, se non lascerà cadere la mano tesa, il dialogo diretto ci sarà, e potrebbe dare dei frutti. Se così fosse, l’Europa potrebbe entrare in campo con efficacia, esercitando un ruolo di garante sia per l’Iran che per gli Israeliani e i Palestinesi. A questo punto il piano arabo del sovrano saudita, prematuro nel 2002 e per questo accantonato da tutti - ma non dimenticato - potrebbe ritornare attuale.
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CON IL NUOVO GOVERNO IL PROCESSO DI PACE DEVE DECOLLARE. E OBAMA LO SA
UNA COABITAZIONE DIFFICILE DI
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STEFANO SILVESTRI
difficile inventare qualcosa di nuovo. Lo scontro tra israeliani e palestinesi a Gaza, la cui fase acuta è durata sino a poche ore prima dell’insediamento del nuovo Presidente americano, Barack Obama, il 20 gennaio, non fa che confermare le difficoltà di una matassa sempre più ingarbugliata da veti e ricatti reciproci. In questa situazione Obama ha
fatto la scelta meno contestabile: ha nominato un inviato speciale e lo ha inviato a parlare un po’ con tutti. Poi si vedrà. Nel frattempo si sono svolte le elezioni in Israele e forse questo permetterà se non altro di uscire dal difficile clima della campagna elettorale e di trattare con un governo nella pienezza dei suoi poteri. Anche quest’ultima speranza potrebbe alla fine rivelarsi illusoria. Il nuovo governo israeliano dipenderà comunque da una difficile coalizione tra partiti con impostazioni e priorità molto diverse. Per di più, l’affermazione elettorale della destra più antiaraba e nazionalista di Avigdor Lieberman (nella foto) con il partito Israel Beitanu, rischia di rendere sempre più difficile un confronto pacato sui problemi reali. Una situazione ancora più diffcile è quella palestinese, dove continuano a sopravvivere due governi separati e rivali, uno in Cisgiordania ed uno a Gaza, con l’aggravante che quest’ultimo è largamente eterodiretto da una dirigenza residente a Damasco e rifiuta di fare i conti con la sua fazione terrorista. Per sperare in una soluzione di questo dilemma bisognerebbe aspet-
tare almeno le nuove elezioni presidenziali palestinesi del 2010 (anche se non è affatto detto che esse andranno meglio delle precedenti). In altri termini, sia da parte israeliana che da parte palestinese mancherà un interlocutore forte ed univoco, in grado non solo di fare la guerra (la strada più semplice per tutti) ma anche di concepire ed imporre una pace, con tutto il corollario di difficili compromessi che essa dovrebbe necessariamente comportare, da una parte come dall’altra.
È quindi difficile pensare che la pace possa discendere semplicemente da un accordo tra le parti, in Palestina ed in Israele. In passato, l’allora Primo ministro israeliano Sharon aveva contrapposto a questa situazione il suo piano di arrivare ad una fine del conflitto attraverso una serie di mosse unilaterali, cominciando con la distruzione degli insediamenti israeliani a Gaza e la restituzione dell’intero territorio all’Autorità palestinese, ma proseguendo poi con la costruzione del “muro” per la protezione fisica di Israele e di molti insediamenti in Cisgiordania da attentati e rivendica11
Risk pienamente disponibili materiali oggi segreti, ci dirà come si sono realmente svolte le cose. Nel frattempo è sempre più probabile che, se si vorrà far riprendere forza ai negoziati di pace, l’iniziativa dovrà provenire dal di fuori ed imporsi ad interlocutori molto riluttanti e sospettosi. Il dilemma è duplice. Da un lato nessun accordo sarà possibile senza la partecipazione e il consenso dei diretti interessati. D’altro lato però il crescere di importanza di fazioni armate come Hezbollah e e Hamas, con forti collegamenti internazionali, ha di fatto accresciuto il peso degli attori esterni, inclusi alcuni interlocutori particolarmente “difficili” come L’Iran e la Siria. Non sembra in realtà credibile l’dea di convocare una sorta di conferenza regionale di pace, con tutti gli attori interessati: troppi interessi divergenti e soprattutto troppe diverse fonti di conflittualità reciproca ostacolerebbero il raggiungimento di un consenso purchessia. Più credibile, anche se difficile, potrebbe essere l’ipotesi di un nuovo incontro “alla Camp David”, tra israeliani e palestinesi, preparata però da negoziati e colloqui a livello regionale con alcuni dei principali interlocutori. Per Washington ciò significa che l’iniziativa sulla Palestina dovrebbe essere preceduta da un processo molto delicato di ripresa di contatti con l’Iran e con la Siria (in particolare con questa seconda), per evitare improvvisi ricatti e iniziative di sbarramento. Ciò a sua volta potrebbe risultare tanto più difficile se non avesse anche il consenso, o quanto meno l’acquiescenza del governo di Gerusalemme. Essa d’altro canto potrebbe essere resa più complicata dall’ulteriore necessità, da parte dell’amministrazione americana, di dimostrare agli altri interlocutori regionali in Medio Oriente la serietà del suo “nuovo corso” politico,
Alcuni pensano che sia opportuno tentare un approccio diretto, cercando di negoziare con Hamas la sua legittimazione in cambio di una reale rinuncia al terrorismo e di un superamento della sua posizione ideologica sulla necessaria distruzione di Israele. Altri ritengono che un tale obiettivo sarà del tutto impossibile da raggiungere senza la piena collaborazione di Damasco zioni palestinesi. Tuttavia questa mescolanza di carota e di bastone non ha raggiunto gli obiettivi che forse Sharon si proponeva, sia perché è continuata la spinta colonizzatrice e annessionista israeliana in Cisgiordania, sia perché Hamas ha vinto le elezioni a Gaza, prendendone il controllo. Ora è molto dubbio che qualcuno possa seriamente pensare di ripercorrere quella strada. Un tentativo diverso e più tradizionale è stato quello compiuto dal governo Olmert che prima ha condotto una campagna militare nel Libano meridionale, per bloccare gli attacchi missilistici degli Hezbollah, e poi si è impegnato in un negoziato indiretto con la Siria, attraverso la Turchia.
Se quest’ultimo avesse avuto successo, esso
avrebbe evidentemente aperto un nuovo capitolo politico nella regione. Ma il negoziato è improvvisamente fallito. Il duro scontro verbale, a Davos, tra il premier turco Erdogan e il presidente israeliano Peres, scandito dalle reciproche accuse di aver voluto far fallire il negoziato e di non capire nulla del Medio Oriente, non sono certo un buon segnale per il futuro. Solo l’analisi storica, se e quando saranno 12
dossier probabilmente anche esercitando forti pressioni su Israele sulle questioni umanitarie, sul problema degli insediamenti in Cisgiordania, eccetera. Un vero nodo gordiano, che non potrà certamente essere sciolto alla maniera di Alessandro Magno, con un taglio netto, ma che richiederà un approccio graduale e prolungato nel tempo. Il problema è che anche questa strategia ha le sue controindicazioni, che discendono soprattutto dalla propensione più volte dimostrata sia da Israele che dalle forze palestinesi di puntare a creare dei nuovi “fatti compiuti” che poi, a loro volta, cambiano il clima politico e complicano la ripresa del processo di pace. Per questo, malgrado tutte le considerazioni fatte in precedenza, è anche possibile che il Presidente Obama possa essere tentato dalla scelta di un approccio più rischioso, che però avrebbe il vantaggio di fargli mantenere l’iniziativa nei confronti di tutti i suoi riluttanti interlocutori, accorciando i tempi delle consultazioni e delle esplorazioni che stanno conducendo i suoi vari inviati per il Medio Oriente e proponendo bruscamente una sua soluzioni complessiva ai principali protagonisti del conflitto, tentando di imporla con la forza del suo carisma politico, con i molti strumenti di pressione a sua disposizione e con la collaborazione della comunità internazionale. Un approccio di questo genere fu tentato dal Presidente Clinton al termine del suo mandato e raggiunse l’obiettivo di accordi di pace molto avanzati, che tuttavia vennero poi completamente disattesi al momento della loro applicazione, soprattutto perché era nel frattempo cambiata la maggioranza governativa in Israele ed era cambiato il presidente a Washington. Alcuni analisti ritengono che quegli accordi furono in realtà possibili anche perché nessuno credeva che sarebbero stati poi applicati. Obama avrebbe il vantaggio di agire dopo le elezioni politiche in Israele, quando ha ancora davanti a sé almeno quattro e forse otto anni di presidenza, e mentre può ancora sfruttare
un forte consenso internazionale a suo favore. La sua maggiore credibilità renderebbe probabilmente più difficile l’accettazione dei necessari compromessi da parte dei vari interlocutori, ma in compenso renderebbe anche più probabile la loro effettiva applicazione. Sarà però comunque molto difficile raggiungere risultati significativi, se nel frattempo non sarà stato trovato il modo per inserire Hamas nella trattativa o per neutralizzarla. Quest’ultima sembrerebbe essere l’opzione preferita di Israele, ma il solo uso della forza a Gaza non sembra, almeno per ora, aver raggiunto il risultato sperato. Né sembra ancora funzionare l’ipotesi, tentata da Abu Mazen con l’appoggio della Lega Araba, di ricostituire una sorta di governo di unità nazionale, che diluisca la presenza di Hamas nel negoziato e allo stesso tempo lo renda possibile.
Siamo qui in presenza
di un ostacolo che bisognerà sormontare. Alcuni pensano che sia opportuno tentare un approccio diretto, cercando di negoziare con Hamas la sua legittimazione in cambio di una reale rinuncia al terrorismo e di un superamento della sua posizione ideologica sulla necessaria distruzione di Israele. Altri ritengono che un tale obiettivo sarà del tutto impossibile da raggiungere senza la piena collaborazione di Damasco, riproponendo quindi la questione dell’allargarsi a macchia d’olio dei negoziati. Altri ancora sono convinti della strutturale impossibilità di ottenere simili risultati da un movimento che, a differenza di Fatah, non ha radici e natura laiche, ma è essenzialmente religioso e fondamentalista. È probabile che sia necessario esplorare in profondità tutte queste diverse ipotesi, nella speranza che possa delinearsi un reale spiraglio. Ove questo si rivelasse impossibile, potrebbe rivelarsi inevitabile un nuovo tentativo di imposizione unilaterale della pace che, tuttavia, non sia solo concepito da Israele, ma trovi il consenso e l’appoggio dell’insieme della comunità internazionale. 13
Risk
CON L’OPERAZIONE “PIOMBO FUSO” RINASCE UNA VERA FORZA MILITARE
IL RITORNO DI TSAHAL DI
I
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ANDREA NATIVI
sraele ha un a capacità straordinaria: riesce a metabolizzare appieno e con eccezionale rapidità le lezioni apprese in conseguenza di ogni prova militare. Ed è stato così anche nel caso delle operazioni condotte a Gaza, dove Tsahal ha mostrato di aver corretto le deficienze emerse nel corso del conflitto dell’estate 2006 in Libano contro Hezbollah. Intendiamoci, non che in quella occasione
l’esito fosse stato negativo. Tutt’altro. Lo dimostra il fatto che Hezbollah se ne stia buono e quieto da oltre due anni e mezzo, mentre a sorvegliare la zona che va dal Litani al confine c’è Unifil II che Tel Aviv critica ufficialmente per la scarsa efficacia, ma che in realtà ha sgravato Israele dalla necessità di occupare una fascia di territorio libanese o di mantenere forze consistenti al confine settentrionale, esposte a scontri o imboscate contro gli agguerriti combattenti sciiti. E questa soluzione permette anche di risparmiare tanti, ma tanti soldi. Che Hezbollah non abbia alcuna voglia di cercare rogne, almeno per ora, è confermato dal fatto che sia rimasto a guardare mentre Gaza veniva, sia pur parzialmente e temporaneamente, occupata e che si sia affrettato a distanziarsi da chi, durante gli scontri, ha lanciato dal Libano un pugno di razzi verso Israele. Lo stesso Libano si è affrettato a rinforzare lo schieramento di unità dell’Esercito e forze di sicurezza a sud, perché nessuno vuole che Israele sia costretta a colpire di nuovo. Certo, nel 2006 le operazioni furono condotte davvero malamente, soprattutto la campagna terrestre e gli errori commessi portarono ad imbarazzanti passi falsi e provocarono innumerevoli 14
vittime, tuttavia l’epilogo non fu certo quella “vittoria” celebrata, per ben poco tempo, da Nasrallah e compagni. Ad Hamas è andata quindi ancora peggio.
Situazione iniziale e obiettivi israeliani
Bisogna guardarsi dal fare troppi paralleli tra Libano ed Hezbollah e Gaza ed Hamas, perché la situazione per Hamas era ed è decisamente più sfavorevole. Innanzitutto dal punto di vista geografico e orografico la Striscia mal si presta a qualunque tentativo di difesa. Mentre in Libano Hezbollah può giocare sulla difesa in profondità, sulla cessione ragionata di terreno, perché le forze israeliane non possono che attaccare ed avanzare da sud verso nord, la Striscia è un rettangolo irregolare, con una superficie complessiva che non supera i 360 kmq ed ha una profondità massima di una quindicina di chilometri ed una lunghezza di una quarantina di chilometri. Israele ha confini diretti su due lati, il terzo confine è con l’Egitto e dietro le spalle…c’è solo il mare. In secondo luogo non ci sono rilievi significativi o ostacoli naturali che possano davvero rallentare l’avanzata delle forze corazzate e meccanizzate, mentre le rotabili sono poche e con andamento nord-sud, ma non est-ovest.
dossier L’elevata densità di popolazione, 1,5 milioni di abitanti, rappresenta si un problema per Israele, ma se la densità media è di 4.100 abitanti kmq questo dato non è significativo, perché in ampie zone della striscia non c’è niente e nessuno, mentre la densità nei grandi agglomerati urbani (Gaza City con 400mila persone, per non parlare dei campi profughi) consente una “cinturazione” abbastanza agevole di queste zone critiche. Le forze di Israele sono entrate più volte a Gaza in passato ed hanno dimostrato di potersi muovere in fretta ed a piacimento a dispetto della resistenza delle milizie palestinesi. Milizie che sono poco numerose, potendo contare su 16mila uomini, includendo nel totale le unità scelte di Hamas (Brigate Izz ad-Din al Qassam), ma anche i membri della forza di polizia e sicurezza interna. Israele parla di una forza permanente di 6-10mila uomini e di forse altrettanti miliziani armati disponibili part-time. Hamas non è Hezbollah: non ha la consistenza, l’addestramento, la capacità militare, l’armamento di Hezbollah. Hamas ha solo armi leggere, pochissimi e poco efficaci missili antiaerei leggeri, pochi missili controcarro e lanciarazzi anticarro moderni e il tanto strombazzato arsenale di razzi d’artiglieria e di mortai, oltre a non aver alcun valore militare, non può essere impiegato in modo realmente massiccio ed efficace contro i centri abitati israeliani. E non sono i pochi razzi a lunga gittata di produzione cinese e iraniana (che comunque non vanno oltre i 40 km) a mutare i rapporti di forza. Razzi che per arrivare a Gaza devono essere trasportati laboriosamente, smontati in più parti.Fattore ancora più importante, Hezbollah è monolitico e può contare su un vasto seguito popolare, almeno in parte del Libano. Lo stesso non accade certo per Hamas, che ha si vinto le elezioni, le prime democratiche nella storia dell’Anp/Olp, che l’occidente stupidamente ha tanto insistito avessero luogo (e quindi ora, ci piaccia o meno, con Hamas non si può non parlare o non riconoscerlo) però poi per consolidare il suo potere ha dovuto combattere una guerra fratricida contro Fatah. Anche durante il
conflitto con Israele i regolamenti di conti non sono mancati, forse non tanto per evitare che gli uomini di Fatah collaborassero con Israele, quanto per evitare una “rivincita” a ostilità concluse. I superstiti di Fatah in effetti non vedono l’ora di poter avere una seconda opportunità di contestare con le armi il verdetto delle urne e questo spiega perché i soldati israeliani sono stati attenti a cosa colpire, mentre gli uomini di Fatah qualche segnalazione la hanno fatta. Hamas ha sbagliato a non giocare la carta dell’unità palestinese contro il nemico comune. E ne ha pagato lo scotto. Aggiungiamo che neanche all’Egitto, così come a quasi tutti i Paesi arabi moderati, Hamas proprio non va giù e non è un mistero che i servizi egiziani sottobanco abbiano passato informazioni agli israeliani, ad esempio sulla disposizione e sugli accessi ai famosi tunnel di Rafah che attraversano gli 11 km del corridoio Philadelphia. Non sappiamo e forse non sapremo mai quali fossero gli obiettivi israeliani. Posto che nessuno aveva, ha o avrà intenzione di tornare ad occupare la Striscia, mentre è altrettanto chiaro che è impossibile “disarmare” Hamas dei suoi razzi o impedirne il lancio, gli scopi dell’operazione non potevano che essere limitati: infliggere una “legnata” ad Hamas, eliminando quanto più possibile della sua organizzazione militare e di sicurezza, dei suoi arsenali, magari con la speranza che le perdite sarebbero state così significative da consentire a Fatah di rientrare in gioco, se non di riprendere il controllo di Gaza. Convincere una parte della popolazione che Hamas al potere non porta benessere…ma bombe e distruzione (e in questo Hamas ha dato una mano, non mantenendo le promesse elettorali e mostrandosi poco meglio di Fatah). Distruggere, almeno temporaneamente i tunnel verso l’Egitto che consentono il contrabbando di tutto, comprese armi, munizioni e razzi e stabilire un nuovo regime di gestione e controllo della fascia di confine tra Egitto e Gaza, ampliando da 60-70 metri a 1.000 metri o più la zona “di nessuno” più facile da controllare, rendendo molto più complicato se non impossibile scavare 15
dossier tunnel, che dovrebbero avere una lunghezza… dieci volte superiore a quella attuale (sui 250 metri) per risultare utilizzabili. Gli ingegneri palestinesi sono bravi, ma non possono compiere miracoli utilizzando strumenti e macchinari limitati. Costringere Hamas a sottoscrivere un accordo di tregua nei termini dettati da Tel Aviv era un altro obiettivo raggiungibile. E magari ripetere a Gaza quanto ottenuto in Libano: una “internazionalizzazione” del problema Gaza, con schieramento di una forza internazionale al confine con l’Egitto che si assuma gli oneri di un controllo effettivo, nonché di forze navali internazionali che si occupino di monitorare i traffici marittimi e di impedire il contrabbando. Il tutto doveva avvenire senza subire troppe perdite o provocare vere stragi tra i palestinesi. E così è stato. Chi si ostina a pensare che Israele abbia fallito perché non ha “risolto” il problema Hamas non ha cognizione della situazione e dei constraints che condizionano l’uso della forza da parte di Israele.
Sorpresa e guerra mediatica
Israele è riuscita ancora una volta ad assicurarsi un vantaggio fondamentale in ogni vicenda bellica: quello della sorpresa. E lo ha fatto a livello strategico, operativo e tattico. Vi sono pochi dubbi che Israele abbia accuratamente preparato il conflitto contro Hamas, ricorrendo poi ad alcune mirate provocazioni per ottenere la reazione desiderata dall’avversario. Hamas è caduto nel tranello. Israele ha “provocato” quando, il 4 novembre, ha colpito a Gaza 6 miliziani di Hamas. Hamas ha risposto con i razzi, 193 solo a novembre, Israele con attacchi aerei. Poteva finire lì, ma Hamas ha commesso un errore di valutazione, riprendendo i lanci di razzi (70 solo il 21 dicembre, 200 nell’intero mese fino all’inizio guerra) e poi lasciando scadere, senza rinnovarlo, il cessate il fuoco che per diversi mesi aveva evitato scontri significativi. Ed in questo modo ha offerto un meraviglioso casus belli all’avversario. Tanto è vero che l’opinione comune attribuisce ad Hamas la responsabilità di aver cancellato il cessate il fuoco,
provocando e legittimando poi la risposta militare Israeliana. Come Hezbollah nel 2006, Hamas non pensava che Israele fosse pronta ad alzare in modo così drammatico il livello di confronto e ad arrivare all’invasione del suo territorio. Israele invece era prontissima, anche per ragioni di opportunità politica (fine presidenza Bush ed elezioni politiche domestiche alle porte), le serviva solo un pretesto. Quando ha colpito, lo ha fatto in modo estremamente violento e ricorrendo all’arma che più garantisce la sorpresa, quella aerea. Chi avrebbe potuto informare Hamas di quanto si andava preparando…non lo ha fatto. Ed Israele non ha ripetuto alcuni degli errori del 2006, quando perdette clamorosamente la guerra delle informazioni/mediatica con Hezbollah. Hamas di per sé non è sofisticata come Hezbollah, non ha né le capacità né la forma mentis per comprendere quanto sia importante “presentare” in modo credibile, puntuale e sfruttando tutti i media (compresi quelli occidentali) la propria visione di quanto sta avvenendo. E Israele ne ha approfittato. Intanto, durante i primi giorni del conflitto, la guerra era esclusivamente aerea e navale e le uniche informazioni su quanto stesse accadendo erano quelle ufficiali israeliane. Informazioni fornite in modo continuativo, utilizzando lo strumento delle conferenze stampa, con gli addetti militari affiancati da quelli politici (interessante novità), mentre l’uso delle riprese effettuato dai velivoli senza pilota è stato molto intenso ed ha permesso di chiarire come molti degli asseriti “crimini” israeliani fossero in realtà provocati dalla scelta di Hamas di trasformare molte moschee, scuole, edifici pubblici in depositi di armi, rifugi, basi militari se non direttamente come postazioni di lancio per razzi o armi anche “pesanti” (si fa per dire). C’è stato un “buco” solo nel caso delle famose granate sulla scuola Onu, che invece finirono su edifici neanche troppo vicini. Ma non si riuscì a documentarlo in modo credibile. Israele ha anche usato ogni tipo di media: radio, Tv e internet (ormai l’uso di You Tube è un caso di studio da parte degli addetti ai 17
Risk lavori). Parallelamente è stato deciso di non concedere alla stampa internazionale di accedere al teatro operativo, né durante la fase “aerea” delle operazioni, né successivamente. Un esercito di inviati di guerra e corrispondenti è rimasto bloccato fuori Gaza e poteva vedere e raccontare poco o niente delle operazioni belliche. Hamas a differenza di Hezbollah non fornisce notizie sulle vicende belliche (peraltro non era in grado di avere un vero quadro della situazione). A Gaza c’era Al Jazeera, Bbc, Reuters, ma a ranghi ridotti nonché qualche collaboratore locale freelance. Altro che guerra in diretta! Tsahal ha anche aggirato la intimazione della corte israeliana che imponeva di portare a Gaza almeno un pool di giornalisti internazionali a causa della impossibilità di garantirne la sicurezza. Considerato l’atteggiamento dei media internazionali verso Israele è una scelta abbastanza comprensibile. Naturalmente si è anche provveduto a confiscare i cellulari ai soldati israeliani, specie i videofonini, chiarendo poi quale conseguenze disciplinari e penali ci sarebbero state per chi avesse tentato di trasformarsi in soldato/giornalista. Non solo, sono stati impiegati essenzialmente soldati professionisti e volontari, limitando il ricorso a riservisti meno affidabili. Senza contare che le frequenze utilizzate dai telefonini possono essere disturbate, le “celle” dei cellulari eliminate distrug-
L’intelligence israeliana si aspettava fino a 200 razzi/bombe al giorno e questo anche con offensiva di terra in corso e con la massima pressione aerea. Ma così non è stato: Hamas non è riuscita a sostenere un ritmo di 100 colpi/giorno 18
gendo i ripetitori etc. E così quella di Gaza passerà alla storia come una delle vicende belliche meno documentate e raccontate degli ultimi anni. Con buona pace di chi crede davvero alle fole sul villaggio globale. Gaza anzi potrebbe fare scuola…
La guerra aerea e la risposta di Hamas
Utilizzando l’aeronautica per l’attacco iniziale del 27 dicembre Israele ha scatenato l’offensiva senza lasciare che alcun segnale potesse consentire all’avversario di immaginare quanto si andava preparando. Anche perché la massima segretezza ha avvolto la preparazione della offensiva, anche a livello politicomilitare di vertice. Gli aerei del resto erano pochi minuti, poche decine di secondi in qualche caso, dagli obiettivi. Obiettivi già sorvolati dai velivoli senza pilota (Uav). Per di più si è deciso di dare il via alle operazioni durante una festività ebraica, con i velivoli che sono arrivati dal mare. E la sorpresa è stata totale, anche se “dopo” Hamas ha detto di essere a conoscenza dell’imminenza dell’attacco. Se così è stato…beh, la dirigenza del partito è colpevole di non avere preso le più elementari misure di sicurezza. La guerra aerea è stata orchestrata in modo assolutamente efficace, colpendo bersagli fissi predeterminati e studiati con cura in modo da ottenerne la distruzione senza provocare troppi danni collaterali. Sempre a questo fine sono state scelti i punti di impatto delle armi, sono state scelte le traiettorie e la programmazione delle spolette. Da un punto di vista tecnico è stato mirabile il modo in cui Israele ha coordinato l’impiego di velivoli senza pilota (fino ad una dozzina in volo contemporaneamente a quote diverse per ottenere una copertura completa e costante, giorno e notte, dell’intera Striscia), degli elicotteri da combattimento e dei cacciabombardieri. Un esercizio delicato, risolto senza che si verificassero incidenti. Il vantaggio di operare praticamente all’interno del territorio israeliano si è tradotto in elevati tempi di persistenza dei velivoli nella zona operativa nonché in possibilità di effettuare quasi immediatamente interventi su “chiamata”.
dossier Hamas poteva rispondere con attentati, con il lancio di razzi e tentando di scatenare la terza intifada. L’intifada non c’è stata, gli attacchi dei kamikaze neanche ed Hamas si è affidata ai razzi ed ai mortai. L’intelligence israeliana si aspettava fino a 200 razzi/bombe al giorno e questo anche con offensiva di terra in corso e con la massima pressione aerea. Ma così non è stato: Hamas non è riuscita a raggiungere ed a sostenere un ritmo di 100 colpi/giorno ed anzi con il protrarsi delle operazioni si è scesi a 2030. Dall’inizio delle ostilità fino all’avvio delle operazioni terrestri non aveva lanciato più di 400 tra razzi e bombe. Questo non significa naturalmente che Hamas non avesse riserve di razzi o che abbia rinunciato ad impiegarli, tutt’altro. Le stime indicavano in 3mila i razzi disponibili. Circa 1.200 sono stati distrutti da Israele. Ma non è riuscita a farlo e quando vi è riuscita…ha raccolto ben pochi risultati. Questo è dovuto al fatto che molte postazioni di lancio semi-permanenti sono state subito eliminate, i razzi più grandi, pesanti e…letali solo con grande difficoltà potevano essere prelevati dai depositi e portati in batteria, mentre l’aeronautica israeliana ha ridotto a minuti, quando non a poche decine di secondi, il ciclo sensor to shooter, il tempo intercorrente tra la scoperta della postazione di lancio e l’intervento di aerei, elicotteri o artiglieria. Parallelamente il sistema di difesa anti-razzo ha funzionato: i razzi e le bombe di mortaio non possono (per ora) essere intercettati, ma possono essere scoperti in volo già subito dopo il lancio (e le coordinate sono passate ai velivoli da attacco) ed è possibile determinare la traiettoria e stabilire il probabile punto di impatto con una buona approssimazione, dando quindi alla popolazione (ma solo a quella davvero minacciata) un avviso che è tanto più tempestivo quanto è maggiore la gittata dell’ordigno. E opportune procedure di difesa civile hanno fatto il resto. A questo si aggiunga che i razzi di Hamas sono comunque rudimentali, decisamente imprecisi, con ridotto carico bellico. Militarmente non hanno significato. Funzionerebbero come arma del terrore se cadessero
sulle città e i villaggi israeliani al ritmo di centinaia al giorno Ma questo non è accaduto. Ed Hamas alla fine del conflitto difficilmente aveva più di 1.200 razzi nei suoi arsenali. L’Aeronautica israeliana ha distrutto decine e decine di obiettivi con efficacia (come non era accaduto in Libano), oltre 600 solo gli obiettivi principali, ed in particolare il “flow” di aerei iniziale è risultato micidiale, con un centinaio di obiettivi colpiti nel giro di una manciata di minuti.
Le operazioni aero-terrestri
L’Aeronautica aveva compiuto il grosso del suo lavoro già nei primi 4 giorni di guerra (anche se alla fine del conflitto avrà volato forse 2.700 sortite). Quando Israele ha lanciato la cosiddetta “Fase 2” del piano operativo, il 3 gennaio, ha lanciato entro la Striscia elementi di 3 brigate di fanteria e di almeno 1 divisione corazzata, appoggiati da reparti del genio, dell’artiglieria, con una forte componente di forze speciali e di team di collegamento con le forze aeree. In tutto circa 10mila soldati. Anche l’attacco terrestre ha avuto successo, Hamas si aspettava, gli è stato fatto pensare, che il fulcro delle operazioni sarebbe stato il nord della Striscia. Ed è li che aveva concentrato le forze. Invece Tsahal ha “tagliato” la Striscia in tre tronconi, con decisi e veloci affondi di colonne blindate e corazzate che hanno raggiunto nel giro di poche ore il mare, assunto il controllo e bloccato tutte le rotabili principali, orientate nord-sud, circondato i campi profughi e le aree urbane principali, a partire da Gaza City. Poi i soldati sono andati a caccia dei bersagli segnalati dall’intelligence, evitando accuratamente di penetrare in profondità nelle città, pur essendo in grado di farlo (quanto applicato a suo tempo con successo a Jenin è stato ancor più perfezionato). Non è vero che Hamas sia sempre “scappata” e non si sia battuta, preferendo sopravvivere per combattere la prossima guerra. No, in qualche caso ci sono stati scontri a terra, anche molto accesi, però Israele non è entrata in forze nei centri abitati (lo ha fatto, ma solo con reparti speciali ed azioni mirate), Hamas ha impiegato largamente trap19
dossier pole esplosive, anche ingegnose, ha usato i pochi missili anticarro, i lanciarazzi, gli ordigni esplosivi…insomma, il poco di cui dispone. Ma non ha inflitto perdite veramente significative, perché i soldati israeliani non hanno seguito gli assi di penetrazione più evidenti, hanno sfruttato la copertura delle tenebre, hanno continuato a muoversi e ad utilizzare un fuoco di soppressione costante, sfruttando appieno l’appoggio aereo guidato in modo mirabile, con le bombe e i missili che colpivano ad appena una trentina di metri di distanza dalle proprie truppe. Ogni comandante di brigata aveva a propria disposizione un certo numero di aerei, elicotteri, artiglieria, che poteva utilizzare senza dover passare dai comandi centrali. Israele ha usato ampiamente la fanteria, i buldozer corazzati per sfondare e abbattere case ed edifici e creare nuove vie di accesso. Hamas aveva naturalmente piazzato ordigni ovunque, ma molti non hanno funzionato, sono stati aggirati e disinnescati. Inoltre il sistema israeliano per il soccorso immediato dei feriti, la loro stabilizzazione, evacuazione e trattamento negli ospedali civili e militari ha funzionato perfettamente, non come accadde in Libano. Anche perché…si giocava in casa. In ogni caso il numero di feriti subito da Tsahal non è stato proprio insignificante, come hanno ammesso gli stessi comandi militari. Hamas ha visto le sue formazioni isolate, impossibilitate a muoversi, mentre far arrivare i rifornimenti era estremamente difficile e il sistema di comando e controllo è andato rapidamente al collasso, rendendo scoordinate le operazioni. A differenza di Hezbollah, Hamas non aveva sistema di comunicazioni sicuri e ha parlato troppo. Non di meno, anche se qualche comandante di Tsahal avrebbe voluto proseguire le operazioni sul terreno ed avanzare in forze nel cuore dei centri abitati per costringere Hamas a dare battaglia, la scelta di sospendere le operazioni appare sensata. Andare avanti avrebbe significato alzare in misura significativa le vittime tra i civili e accettare scontri ravvicinati nei quali la superiorità tattica e tecnologica dei
soldati Israeliani sarebbe risultata sempre meno decisiva, anche perché Hamas si è dimostrato a sua abbastanza rapido nel capire cosa non doveva fare. L’esito sarebbe stato vittorioso per i soldati israeliani, ma molti ufficiali erano convinti che i costi sarebbero stati superiori ai benefici. Quando, il 17/18 gennaio, Israele ha deciso un cessate il fuoco unilaterale ed ha avviato il ritiro delle sue truppe l’operazione è stata condotta rapidamente e in modo esemplare. Hamas non è riuscita ad interferire in modo efficace neanche in questa fase molto delicata: le truppe e i mezzi israeliani sono rientrati nelle loro posizioni iniziali quasi indisturbati. Il 21 il ritiro era completato. Chi si aspettava una “Fase 3”, con ingresso in massa delle truppe israeliane nei quartieri di Gaza City e magari una “Fase 4”, il “cambio di regime” a Gaza è stato deluso. Personalmente credo che tutto questo parlare di Fase 3-4 rientri nel generale concetto di “deception” messo in atto da Israele e subito fatto proprio dalla stampa internazionale (come del resto si voleva accadesse), rinforzato poi dalla decisione di mobilitare decine di migliaia di riservisti, presa e comunicata al momento giusto. Non dubitiamo che lo Stato maggiore avesse preso in considerazione anche l’ipotesi di doversi spingere e impegnare a fondo, ma questo solo perché gli Stati maggiori che funzionano predispongono piani per fronteggiare qualsiasi evenienza. Ma sperano di non doverli utilizzare. Discutere quanto di reale ci sia poi stato nella asserita dialettica tra i tre personaggi forti del governo israeliano esula dagli scopi di questa disamina.
Armi “illegali” e perdite
È sempre difficile discutere in termini asettici di un conflitto che ha provocato centinaia di morti e migliaia di feriti. Tuttavia Israele è riuscita, più di quanto non avesse fatto in passato, a minimizzare il numero delle perdite civili. Persino Al Jazeera stima che almeno il 50% delle vittime appartenga alle forze militari e paramilitari di Hamas. Gli israeliani sostengono che la percentuale sia più 21
Risk vicina al 65%. Non ci sono ancora verifiche indipendenti. Naturalmente Hamas ha giocato la solita carta delle accuse di stragi di civili. Indubbiamente a Gaza ci sono state tante, troppe, perdite civili. È inevitabile in guerra, spesso quando si combatte in aree urbane, ancorché periferiche, densamente popolate e soprattutto considerando che Hamas applica sistematicamente il ricorso a “scudi umani” civili per proteggere la sua leadership, così come infrastrutture chiave. Ad esempio una pratica efficace in passato è stata quella di mandare sui tetti
ricorso a munizioni con un più ridotto potenziale distruttivo per evitare di causare troppe vittime civili: è questo il caso delle bombe Sdb a guida satellitare, integrate a tempo di record sui cacciabombardieri F-15, che pesano “solo” 250 libbre e colpiscono con una precisione metrica. Precisione e ridotta carica esplosiva, nonché attacco verticale diminuiscono l’ampiezza dell’area letale. Altre armi “umanitarie” sono le bombe Focused Lethality (Flm) che sostituiscono il normale “corpo” in metallo pesante che si frammenta in schegge letali con un involucro in materiali compositi, che racchiude una carica di esplosivo speciale. Il meccanismo letale è basato sulla esplosione, sulla sovrapressione, non sulle schegge. Questo vuol dire ridurre enormemente il raggio letale (e spiega le vittime il cui corpo non presentava ferite esterne, ma era disarticolato), specie se la traiettoria finale dell’arma è poco angolata. Israele ha probabilmente sbagliato a non fornire e pubblicizzare, per ragioni di sicurezza mal intese, il motivo per il quale sono state impiegate simili munizioni “nuove”, ma tutt’altro che illegali. Ha anche sbagliato a non spiegare che il ricorso a munizionamento d’artiglieria al fosforo è avvenuto per stendere cortine fumogene per coprire il movimento delle proprie truppe o per illuminare l’area operativa. Il che è perfettamente legale. Anche in ambiente urbano, se si combatte in ambiente urbano. Peraltro non più di una ventina di granate al fosforo è stata sparata in tali aree. Purtroppo la guerra “umanitaria” non esiste e tragici errori vengono sempre commessi, lo conferma il fatto che la maggior parte delle vittime tra i militari israeliani sia conseguenza di ingaggi fratricidi blue-on-blue. In ogni caso, anche se la struttura demografica a Gaza è molto particolare, con il 45% della popolazione sotto i 14 anni, non ci sono state affatto le
“Piombo fuso” oltre agli indiscutibili risultati tattici ha dimostrato chiaramente che Tsahal è tornata quella di un tempo, che è in grado di condurre con efficacia operazioni militari convenzionali così come combattimenti in aree urbane ed operazioni di “polizia”. Hezbollah e Teheran lo hanno capito degli edifici dove si rifugiavano quadri e dirigenti del partito i familiari o altri civili, legando così le mani ai piloti israeliani. Così non è stato in questo caso, perché Israele ha “innovato”, telefonando a casa degli inquilini delle case sotto tiro, avvisando dell’imminente attacco. In diverse occasioni la telefonata, che precedeva il missile o la bomba di pochi minuti…è stata efficace. In altri casi i tetti si sono popolati, ma i piloti israeliani hanno regolarmente sparato un missile leggero a testata inerte, da esercitazione, contro l’angolo di un edificio limitrofo. Il messaggio è stato quasi sempre recepito. Naturalmente in questi casi il bersaglio “umano” sfuggiva, ma la sua casa no, così come il deposito, il comando, la sede ufficiale. Israele ha anche fatto 22
dossier potere, che i miliziani uccisi o feriti saranno sostituiti. Forse e davvero così. Forse la desiderata internazionalizzazione dei confini non ci sarà (peraltro l’Egitto si è già impegnato a fare meglio e può contare sulla collaborazione e gli strumenti tecnologici e gli istruttori forniti dal corpo del genio dello US Army). Magari l’Anp non riuscirà a rientrare in gioco, neanche con un governo di unità nazionale. Però Cast Lead rimane a mio avviso un grande successo. Oltre agli indiscutibili risultati tattici ha dimostrato chiaramente che Tsahal è tornata quella di un tempo, che è in grado di condurre con straordinaria efficacia operazioni militari convenzionali così come combattimenti in aree urbane ed operazioni di “polizia”. Chi, dopo il 2006, aveva nutrito qualche speranza deve ricredersi: non c’è alcuna crepa nella superiorità militare di Israele. In parole povere, Israele ha ricostituito una deterrenza basata sullo strumento militare convenzionale. E siamo convinti che anche Hezbollah e Teheran ne avranno preso nota. Per non parlare di Hamas il quale, una volta ripresosi, valuterà con maggiore attenzioQuali prospettive? ne fino a che punto sia conveniente spingersi nel Nel momento in cui scriviamo Israele ha ritirato le confronto militare con Israele. Hamas sta cercando sue forze da Gaza, lo ha fatto rapidamente, effica- di “vendere” il ritiro israeliano come un grande cemente e senza subire attacchi significativi. Ed ha successo, ma non ci crede nessuno. E se mostrerà votato. Hamas conduce una attività offensiva a in futuro la stessa moderazione adottata da basso livello, con sporadici tiri di razzi e mortai e Hezbollah…Israele avrà ottenuto quando desideraqualche imboscata contro le forze israeliane in pat- to. Ancora, è importante per Tsahal aver recuperatugliamento, ai quali Israele ha risposto molto to fiducia in se stesso, senza alcun rischio di cadepesantemente, una soluzione negoziata sembra re nel peccato di arroganza e sopravvalutazione in essere finalmente a portata di mano ed è anche uno cui è caduto più volte nella sua storia. Dal punto di dei primi campi di prova per la diplomazia della vista tecnico, infine, Tsahal si è mostrato capace di nuova amministrazione statunitense. In cambio del condurre operazioni joint e networkcentriche ad un cessate il fuoco (che non sarà certo la “Hudna” cui livello che nessuno è in grado di emulare. E questo pensa Hamas) Israele è anche disposta a levare il è importante anche per la popolazione israeliana, blocco ai valichi, mentre già consente il transito ai che si è riconciliata con le sue forze armate, le quali convogli umanitari. I pessimisti osservano che la sono riuscite a colpire senza che il nemico potesse ricostruzione dei tunnel distrutti (200 sui 300 sti- mettere a ferro e fuoco neanche le cittadine più mati ad inizio ostilità) è già iniziata, che le armi esposte. A qualche commentatore politico tutto presto ritorneranno a Gaza, che Hamas è ancora al questo sembrerà poco. Per Israele non lo è.
stragi di civili, di bambini, raccontate dalle fonti palestinesi. È presto per analisi accurate, ma alcune fonti riportano che il numero dei morti potrebbe essere ampiamente inferiore a mille. E l’esperienza dei “massacri” di Jenin è illuminante in questo senso. Va anche precisato che Israele si è preoccupata di far si che a Gaza non si verificasse alcuna crisi umanitaria ed infatti la distribuzione di acqua, energia, viveri, medicinali è stata assicurata, sia pure a ritmi e volumi ridotti, anche grazie alle “tregue” giornaliere e nonostante Hamas approfittasse di questi break, ad esempio utilizzando le ambulanze per muovere i propri combattenti o comunque per raggrupparsi, riorganizzarsi e tirare il fiato grazie all’interruzione della pressione militare israeliana, che altrimenti sarebbe stata costante, giorno e notte. Non ci sono norme che impongano ad un belligerante di concedere tanto al suo avversario ed alla popolazione civile. Israele lo ha comunque fatto per contenere le strampalate accuse che le piovono regolarmente addosso ogni volta che ricorre alle armi.
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dossier
MILITARMENTE È DISTRUTTO, MA POLITICAMENTE NO. E VUOLE GIOCARE LE SUE CARTE
IL NUOVO VOLTO DI HAMAS DI
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ANDREA MARGELLETTI
artiamo dalla tregua. A prescindere dalla sua fragilità, bisogna chiedersi come potrebbe tornare utile ad Hamas un anno di cessate il fuoco. In questo senso, il movimento islamico dovrebbe fare una valutazione di se stesso. Come un’impresa che, alla fine del suo anno commerciale, traccia un bilancio e, sulla base di questo, sta-
bilisce un budget per i mesi a venire. Le tre settimane di “Piombo fuso” - l’operazione militare con la quale Israele ha cercato di decapitare la leadership operativa e politica di Hamas - hanno messo a dura prova il movimento, ma non hanno minacciato la sua sopravvivenza politica nel complesso panorama palestinese. Penetrando con i Merkava e la fanteria nella Striscia di Gaza, Tzahal intendeva distruggere le postazioni di lancio e gli arsenali di razzi lì presenti. Ma questo obiettivo è stato raggiunto solo parzialmente. Il fatto che, dopo la fine delle ostilità, il lancio di razzi verso Ashkelon e Sderot sia proseguito - seppure ad un livello inferiore, se confrontato con gli oltre 600 razzi lanciati e i colpi di mortaio sparati durante la guerra - ci porta a dire che la santabarbara di Hamas non è stata annientata e che le perdite subite si stanno progressivamente colmando. Anche per quanto riguarda l’articolata rete di tunnel che collegano la Striscia con l’Egitto è stata indebolita sono temporaneamente, ma non compromessa al punto da bloccare il continuo rifornimento di beni che, dal Sinai, giungono a Gaza per via sotterranea. Certo, il confronto militare è apparso fin da subito impari. Era assolutamente prevedibile che una milizia addestrata alla guerriglia com’è quella palesti-
nese - peraltro dalle dimensioni significativamente ridotte rispetto a quelle, per esempio, di Hezbollah non potesse che piegarsi di fronte all’esercito più tecnologico di tutto il Medio Oriente. Tuttavia, al di là delle perdite subite sul campo, possiamo immaginare i capi di Hamas che, seduti a tavolino e ancora rintanati nei loro bunker, siano giunti alla conclusione che gli elementi per parlare di una mezza vittoria ci sono. Per prima cosa, la tregua in sé. Il fatto che Israele l’abbia voluta sottolineandone l’unilateralità sta a significare che, in questo modo, non ha alcuna intenzione di riconoscere o legittimare l’esistenza del movimento islamico. Un atteggiamento quasi scontato. Israele è uno Stato sovrano - qualifica di cui è carente Hamas che si sente attaccato da una realtà classificata, nell’ambito del suo contesto di sicurezza, come terroristica. Questo gli concede la possibilità di confrontarsi con il movimento islamico da un livello superiore in ambito di diritto internazionale. D’altra parte, oltre questa linea dura di facciata, si può intravedere un’implicita dimostrazione di spossatezza da parte di Tzahal. Le tre settimane di guerra non gli hanno permesso di centrare l’obiettivo. Di conseguenza, con il Paese in piena campagna elettorale e per evitare ulteriori perdite, ha prefe25
Risk rito chiedere un break nello scontro. Merito di Hamas, questo, e della sua capacità di resistenza di fronte a forze maggiori. L’insufficienza delle sue doti operative è stata colmata dalla forza ideologica dei suoi militanti e dalla loro tenacia nell’affrontare il nemico. Ma è nel contesto politico che la leadership del movimento è riuscita a mantenere le posizioni. Certo, la perdita di uomini del calibro di Saiyed Siam, l’ex ministro dell’Interno del governo Haniyeh, si farà sentire nel lungo periodo. Tuttavia, l’Hamas di oggi non è più quello di Sheikh Yassin o di Abdel Aziz al-Rantisi, quando era un’unica grande guida a dettare il passo. Oggi la struttura orizzontale permette che il contraccolpo per la scomparsa di uno dei suoi dirigenti venga incassato e immediatamente metabolizzato. Nel periodo che ha anticipato il conflitto, i giorni durante quest’ultimo e la quotidianità post-bellica ci stanno mostrando un movimento per molti aspetti iperattivo. L’atteggiamento battagliero, che aveva anticipato “Piombo fuso” - in coincidenza con le celebrazioni per il 21esimo anniversario della fondazione del movimento - la conduzione politica di guerra e soprattutto i negoziati in corso per ottenere un accordo di tregua il più soddisfacente e duraturo possibile ci stanno mostrando un Hamas convinto che sia il momento di passare dalla fase operativa a quella eminentemente politica.
In questo senso, permangono le tre grandi
correnti interne alla dirigenza del movimento. Khaled Meshal si ritiene essere ancora il Segretario generale che da Damasco detta la linea, seguendo una concertazione di ampio respiro di cui fanno parte il governo siriano, Hezbollah e l’Iran. Tuttavia, né questa collegialità decisionale né l’indiscutibilità sulla leadership di Meshal possono essere prese come oro colato. Il cosiddetto “Asse del Male”, soprattutto adesso che alla Casa Bianca non c’è più Bush potrebbe essere rivisto. Inoltre, con la Siria che sta rientrando nel club diplomatico internazionale, Hezbollah concentrato nella corsa elettorale libanese del maggio prossimo e l’Iran altrettanto impegnato a gestire le elezioni presidenziali coin26
cidenti con la peggiore crisi economica mai vissuta dall’avvento di Khomeini, si potrebbe dire che il blocco antioccidentale è sempre meno monolitico. Di conseguenza, proprio dall’estero potrebbero ripercuotersi su Gaza le maggiori difficoltà in questo momento di ricostruzione. Peraltro, sempre restando concentrati su Meshal, quello che è emerso durante il conflitto è una sorta di scollamento operativo tra la testa di Hamas, protetta dalla campana di vetro messa a disposizione dall’efficiente apparato di sicurezza siriano, e il resto della dirigenza, che ha condiviso con la popolazione di Gaza le tre settimane di guerra. In un certo senso, si sta ripetendo quanto accaduto nell’Iraq post-Saddam, quando gli esuli - rimasti lontani dal Paese per almeno vent’anni - pretesero di instaurare un regime democratico in un contesto di cui avevano perso la cognizione. Parallelamente, tra Meshal da un lato e Haniyeh e alZahar dall’altro, corre la quotidianità della vita nella Striscia. Perchè una cosa è dettare gli ordini e attendere che questi vengano eseguiti a trecento chilometri di distanza, un’altra è impartirli brevi manu a esecutori con cui si mantiene un rapporto e un dialogo assolutamente costante. Nella fattispecie, Ismail Hanieyh e Mahmoud al-Zahar - rappresentanti rispettivamente l’ala moderata e quella più oltranzista del movimento occupano una posizione di evidente vantaggio. Il fatto di essere rimasti rinchiusi nei bunker di Gaza durante gli attacchi israeliani ha permesso loro di vivere il conflitto in prima persona, rendendosi così conto dei punti di forza come pure delle debolezze di Hamas. Inoltre, fattore ancora più importante, la loro presenza nella Striscia ha consacrato la loro immagine di fronte alla popolazione. A onor del vero, condividere con i palestinesi le restrizioni nate con il blocco dei valichi è sempre stata una prerogativa di Hamas. È dai tempi dello sceicco Yassin, infatti, che la dirigenza del movimento ha scelto di non seguire l’esempio controproducente di Fatah, i cui leader ostentano un tenore di vita manifestamente superiore a quello medio della popolazione nel West Bank e a Gaza. Oggi il fatto di vivere la guerra in “presa diretta” attribuisce alla leadership di Hamas un’aura di valore che nemmeno la dirigenza di
dossier Damasco può avere. Resta il fatto che tra Haniyeh e alZahar intercorrono le stesse differenze di impostazione che hanno portato all’acutizzarsi della crisi. Non si può dimenticare, infatti, che fu proprio l’oltranzismo dell’ultimo tra i due a portare l’esecutivo di Hamas a prendere Gaza con la forza nel giugno 2007e, in tempi ancora più attuali, a far saltare l’ultimo banco delle trattative per il rinnovo della tregua semestrale, poco prima dello scoppio del conflitto. Ora, sulla base di questo quadro, Hamas deve affrontare il 2009 all’insegna della ricostruzione, sia della Striscia sia del suo apparato interno. Questo obiettivo non può che essere il minimo comune denominatore fra le tre sfere del movimento. Si tratta di un impegno che richiede ingenti sforzi. Questi potranno venire dall’estero, ma non è nemmeno scontato che l’origine sia quella che molti pensano in Occidente, vale a dire da Teheran. Tuttavia, sarà un terno al lotto che, se riuscirà, potrà portare Hamas a una nuova vittoria elettorale alle legislative e alle presidenziali del 2010. Una ricostruzione su due binari che, per forza di cose, dovranno svilupparsi contemporaneamente. Da una parte, bisognerà intervenire sulla popolazione della Striscia, dall’altra su un rafforzamento della dirigenza politica del movimento. Per molti aspetti, possiamo parlare di “Gaza anno zero”. Secondo una stima approssimativa - purtroppo in un conflitto la precisione è dettata da altri fattori - “Piombo fuso” ha provocato una serie di danni per un ammontare complessivo di 2-3 miliardi di dollari. Il dato, però, è riferito unicamente agli edifici, pubblici e privati, colpiti dai bombardamenti e non tiene conto delle ripercussioni anche economiche che possono generare dalla morte di oltre 1.200 persone e dal ferimento di 5mila. A guerra appena finita, Hamas ha fatto sapere che verserà mille euro alla famiglia di ciascun “martire” e 500 per ogni ferito. Lecito chiedersi dove potrà trovare risorse così ingenti per una politica di Welfare tanto impegnativa. Peraltro i conti non pre-
vedono ancora la ricostruzione degli edifici, delle infrastrutture colpite e il riavvio di un sistema economico locale già vessato dalla politica israeliana dei blocchi. Dall’Iran, il sostegno che gli Ayatollah hanno finora mantenuto per avere dalla loro parte una forza destabilizzante sulle coste del Mediterraneo potrà subire una contrazione. ATeheran la corsa alle presidenziali insieme alla crisi economica dovuta al crollo del prezzo del petrolio possono rivelarsi una bomba a orologeria per il regime. Il Paese, infatti, vive una situazione in cui la repressione non ha né annientato il potere dell’opinione pubblica né quello ancora più pericoloso di una sol-
A guerra appena finita, Hamas ha fatto sapere che verserà mille euro alla famiglia di ciascun “martire” e 500 per ogni ferito. Lecito chiedersi dove potrà trovare risorse così ingenti per una politica di Welfare tanto impegnativa levazione delle masse. In questo quadro, un aiuto ad Hamas - fratello comunque minore nella rivoluzione islamica, per giunta sunnita e che persegue una lotta fin troppo territoriale - potrebbe apparire impopolare e soprattutto inopportuno. Uno spazio, questo, lasciato vuoto e che potrebbe essere colmato dall’Arabia Saudita. Non è giunta a caso la mossa di Riyadh di offrire un miliardo di dollari per la ricostruzione di Gaza.
Un gesto che ha contemporaneamente spacca-
to il fronte della Lega Araba, ma anche un tentativo opportunistico di contenere finalmente l’influenza di Teheran su Hamas. È anche vero che simili supposizioni diventano molto meno realistiche se inquadrate nel contesto mediorientale. Le ipotesi che si possono formulare in un quadro di pace euro27
Risk peo rischiano sempre di scontrarsi con gli attriti, gli imprevisti e le logiche di fazione che compongono il complesso mondo palestinese. Più chiaro - per quanto anch’esso di difficile concretizzazione - è il processo di ricostruzione politica che Hamas dovrà affrontare. Qui non si tratta di ripartire da zero, bensì di saper mostrare all’opinione pubblica interna e alla comunità internazionale che il movimento è tutt’altro che vinto. È probabile che la guerra abbia accelerato i tempi nell’evoluzione del movimento e gli abbia imposto quel passaggio dalla fase prevalentemente operativa a quella politica, necessario per assumere saldamente il controllo dell’Anp. Le elezioni del 2006 sono state un banco di prova che Hamas non ha saputo sfruttare. Di fronte all’ostracismo politico e alle sanzioni economiche imposti dalla comunità internazionale, la reazione fu quella di un movimento non ancora pronto a reagire con strumenti altrettanto politici. Il colpo di mano a Gaza e, per alcuni aspetti, il sequestro di Gilad Shalit ne sono la dimostrazione più evidente. “Piombo fuso”, infine, è servita da ulteriore ribalta per l’ala intransigente di Hamas. Tuttavia, dopo questa sequenza di estremismi, alla dirigenza del movimento resta l’opzione politica, se effettivamente vuole raggiungere l’obiettivo prefissato di guidare l’Autorità palestinese.
In questo senso, Hamas non può più permet-
tersi di confrontarsi con Fatah adottando strumenti che sono propri di una lotta armata fra clan e fazioni. Il raggiungimento del potere e soprattutto l’acquisizione della leadership implicano - al fine di realizzare il vero progetto di Hamas, vale a dire l’affermazione di uno Stato palestinese con un’impronta islamica - sia il riconoscimento degli organi di governo dell’Anp sia quello delle istituzioni con le quali aprire il confronto. Certo, anche in questo caso si tratta di una prospettiva realizzabile sulla carta e molto difficile da vedere in chiave mediorientale, tuttavia la realtà non offre alternative. Governare uno Stato significa assumersi eventualmente l’onere di riformarlo, ma non distruggerlo. Per forza di cose, quindi, Hamas sarà prima o poi 28
costretta a rivedere il suo concetto di resistenza, le sue interpretazioni del contesto internazionale in cui quest’ultima è inserita e perfino un possibile riconoscimento di Israele. Se politica significa, anche in Medio Oriente, compromesso, allora il movimento dovrà accettare questa regola. Se vuole essere legittimato a Ramallah e in seno alla comunità internazionale, allora deve altrettanto legittimare le istituzioni dell’Anp e quelle mondiali. Non basta, di conseguenza, recarsi in visita a Teheran, come ha fatto Meshal subito dopo la guerra, oppure inviare al Cairo i suoi rappresentanti più moderati per i negoziati su una tregua duratura. E non è nemmeno sufficiente attendere la formazione di un governo israeliano disposto a cedere alle proprie istanze. Se Hamas vuole davvero essere riconosciuta come una forza di governo deve effettuare un’evoluzione strutturale e ideologica al suo interno. Strutturale perché volta a contenere l’autonomia delle sue milizie. In quest’ambito Hamas potrebbe incorrere nelle maggiori difficoltà. Molti dei comandanti delle sue milizie sono infatti convinti che l’affermazione di uno Stato confessionale della Palestina sia possibile unicamente seguendo la via della resistenza armata. La leadership politica, invece, deve assumere il controllo anche della linea tattica, affinché la forza esecutiva agisca unicamente sulla base del vertice decisionale. In un certo senso, suo malgrado il movimento islamico sarà costretto a seguire l’esempio di Fatah, le cui milizie sono state integrate nell’apparato di sicurezza dell’Anp. Ideologica invece perché, lo si voglia o meno, Israele è uno Stato sovrano e indipendente, riconosciuto dalla comunità internazionale. Per questo, il suo annientamento resta un progetto dai contenuti meramente propagandistici, ma irrealizzabile da un punto di vista lucidamente politico. L’accettazione del concetto di “due popoli due Stati” è, anche per Hamas, un passaggio imprescindibile. Si tratta di uno sforzo che molti dei suoi dirigenti potrebbero non cogliere. Tuttavia, questa è l’unica strada. Per la sopravvivenza del movimento e, come Hamas stessa sottolinea, per il bene del popolo palestinese.
dossier
ARROW, MAGIC WAND E IRON DOME: COME DIFENDERSI DA RAZZI E MISSILI
AI QASSAM SI RISPONDE COSÌ DI
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PIETRO BATACCHI
l recente conflitto di Gaza ha confermato una volta di più la necessità per Israele di dotarsi di una difesa anti-razzo e anti-missile. Finora, le opzioni in mano israeliana per affrontare tale minaccia si sono limitate ai raid aerei - preventivi o come rappresaglia deterrente - contro le aree di lancio. Una strategia che molte volte non ha portato ai risultati militari sperati e che, soprattut-
to, provoca vittime civili. Per questa ragione Israele sta sviluppando, ormai da diversi anni, un sistema di difesa capace di intercettare il razzo, o il missile, durante la sua traiettoria. Un sistema aperto e flessibile in grado di adattarsi ad una minaccia multiforme - dal razzo artigianale Qassam al missile a medio raggio iraniano Shahab 3 - e basato su più strati: uno strato “alto”, uno “intermedio” ed uno strato “basso”. Per ciascuno di questi strati è già operativo, o è in corso di sviluppo, un sistema: Arrow, Magic Wand e Iron Domee.
La difesa contro i missili a medio raggio: l’Arrow
Il sistema Arrow costituisce lo strato più alto della difesa Abm israeliana ed è pensato per la protezione contro missili balistici a medio raggio. L’Arrow affianca il Patriot - utilizzato con scarsi risultati contro gli Scud iracheni nel 1991 - al quale resta come ruolo principale la difesa aerea. Lo sviluppo del sistema affonda le sue radici sin nella seconda metà degli anni Ottanta, quando il governo israeliano e gli Stati Uniti firmarono un protocollo d’intesa per condividere i costi di un programma rivolto alla realizzazione di un sistema in grado di proteggere il territorio israeliano da attacchi con missili balistici. In cambio della partecipazione finanziaria, che copre l’80% del programma,
gli Usa avrebbero avuto accesso a tutti i dati e le informazioni e partecipato ai test (alcuni dei quali condotti negli Usa). Un’esperienza da travasare poi nei loro programmi antimissile, a cominciare dal Thaad, ed un grande esempio di cooperazione. Al programma, infatti, oltre alla Mda, Missile Defense Agency, partecipano più di 100 aziende americane coordinate da Boeing, mentre quest’ultima fabbrica nei propri stabilimenti il 50% delle componenti del missile Arrow 2, in base ad un accordo del 2003 con la Iai (l’azienda israeliana prime contractor del programma). Originariamente il sistema nacque per neutralizzare i missili Scud, ma nel corso degli anni ha subito un aggiornamento che ne ha via via incrementato le prestazioni per intercettare anche missili con caratteristiche e portate differenti, come lo Shahab 3 iraniano (Arrow System Improvement Program, Asip). Il sistema è operativo dal Duemila e sul territorio israeliano sono schierate già due batterie, una dispiegata nella base di Palmachin, tra Ashdod e Tel Aviv, e l’altra ad Ein Shemera, nei pressi di Hadera, a sud di Haifa. Israele prevede di schierare una terza batteria nel sud del Paese, probabilmente contestualmente al dispiegamento del nuovo intercettore Arrow 3. Secondo gli israeliani queste due batterie di Arrow offrirebbero già un’eccellente copertura per il territorio israeliano, sufficiente a fronteggiare un attacco 29
Risk condotto con un numero limitato di missili balistici. L’Arrow intercetta i missili nella parte alta della stratosfera (la stratosfera inizia intorno ai 12 km di distanza dalla Terra, 8 km ai poli e 20 km all’equatore, e termina ad un’altitudine di circa 50 km) ed al momento è l’unico sistema antimissile terrestre in grado di farlo (in attesa del Thaad americano). Il sistema si compone essenzialmente dell’intercettore Arrow 2, di un centro di controllo del lancio, per operare e gestire i lanciatori, di un sistema di controllo del tiro Citron Tree e del radar di scoperta e tracking EL/M-2090 Green Pine.
Il Magic Wand/Stunner si presenta come un sistema flessibile ed economico per rispondere nel più breve tempo possibile al requisito della difesa contro razzi pesanti o missili a breve raggio. Per questo il sistema si basa su tecnologie mature e riutilizza componenti già esistenti Tutte componenti basate su piattaforme shelterizzate trasportabili. L’Arrow 2 è un intercettore bistadio comprendente un booster a propellente solido, che garantisce al missile l’uscita dal tubo del lanciatore e la spinta iniziale, ed un motore a razzo (sustainer), per mantenere la velocità di 9 Mach. (2,5 km/s) durante le successive fasi della traiettoria, ed è dotato di un sistema di controllo vettoriale della spinta che assicura un’altissima manovrabilità, in particolare nella fase terminale e di approccio al bersaglio. La sezione anteriore del missile - il cosiddetto kill vehicle - è equipaggiata con quattro alette a controllo aerodinamico, per garantire un profilo migliore anche contro bersagli a basse quote, all’interno dell’atmosfera, ed ospita la testata a 30
frammentazione, in grado di distruggere il missile entro un raggio di 50 metri, la spoletta ed il sistema di guida terminale duale IR/radar. Ciascun lanciatore dispone di sei missili ed una batteria generalmente comprende quattro o otto lanciatori, a seconda della configurazione. Il cuore dell’Arrow è costituito dal sistema di controllo del tiro Citron Tree. Un vero e proprio gioiello dell’elettronica in grado di analizzare le tracce, valutare la minaccia, ottimizzare l’intercettazione e sovraintedere a tutta la missione fino all’ingaggio. Il sistema può controllare fino a 14 intercettazioni simultaneamente e, oltre ai dati provenienti dal radar, può ricevere informazioni anche da altri apparati esterni o dai satelliti. Infine, il sistema può operare in modalità automatica o manuale (quest’ultima per dar modo all’operatore di controllare tutte le fasi della missione e nel caso di farla abortire). L’ultimo elemento dell’Arrow è il radar Green Pine EL/M-2090. Il Green Pine è un apparato molto potente a stato solido in banda L (1-2 GHz, per una lunghezza d’onda di 30-15 cm) capace di assolvere la funzione di scoperta e inseguimento del bersaglio. È accreditato di una portata di 500 km ed è in grado di inseguire un bersaglio in volo ad una velocità di 3.000 m/s. Nel corso degli anni l’Arrow è stato sottoposto ad un’estesa campagna di test. In totale, 14 prove di lancio e ingaggio, di cui 10 come sistema completo. Nel luglio 2004 è stato provato per la prima volta contro un bersaglio reale: un missile Scud lanciato da una piattaforma marittima nel poligono californiano di Point Mugu dove per l’occasione erano state trasferite tutte le componenti del sistema. L’Arrow 2 ha intercettato e distrutto il bersaglio ad un’altezza di 40 km. Un ulteriore passo in avanti è stato compiuto nell’aprile 2008 quando, in un nuovo test, il sistema ha simulato con successo l’intercetto di un bersaglio surrogato di un missile Shaahab 3, denominato Blue Sparrow, lanciato da un caccia F15 in volo ad oltre 12mila metri di quota. Il test aveva l’obiettivo di valutare le capacità del sistema contro un bersaglio con testata separata ad alta velocità di rientro. Nonostante questi elementi di complicazione, il radar è riuscito ad acquisire il bersaglio e il sistema di
dossier controllo del tiro a calcolare in modo corretto la geometria di intercettazione. A breve dovrebbe tenersi un test in cui verrà provato un ingaggio reale. Nel complesso, l’Arrow è un Abm unico al mondo nella sua categoria che, oltretutto, ha il vantaggio di essere integrato con il sistema di allarme lancio, l’early warning satellitare americano. Un fatto di enorme rilevanza che in uno scenario reale gli consentirebbe di ricevere immediatamente i dati sull’approntamento e il lancio di un eventuale Shahab 3 iraniano, predisponendosi così all’azione con notevole anticipo. A beneficio della copertura e dei tempi di reazione. Inoltre, un ulteriore passo in avanti verrà compiuto quando sarà attivato il collegamento con il radar Fbx-T che gli americani hanno dislocato nella base di Nevatim, a sud di Bersheedba, nel cuore del Negev, pochi mesi fa. Il radar, fa parte della Bmd (Ballistic Missile Defense) americana ed è gestito da personale americano dell’European Command. In tal senso il sensore non è un assetto israeliano - infatti personale israeliano non ha accesso al suo sito - ma può lo stesso passare i dati all’Arrow, estendendone le capacità di scoperta radar ben oltre quelle garantite finora dal Green Pine. Il completamento del link tra Fbx-T e Arrow dovrebbe avvenire entro quest’anno. Infine, il salto di qualità definitiva avverrà quando sarà pronto il nuovo intercettore Arrow 3 con capacità d’ingaggio esoatmosferica di missili balistici a raggio intermedio. Lo sviluppo è già iniziato e si stima che questo possa costare nei prossimi tre anni 7/800 milioni di dollari. Il Congresso americano ha inserito tali fondi nel budget annuale relativo al programma Arrow rinnovato, fino al 2013, nel novembre 2007.
L’ombrello intermedio: il Magic Wand/Stunner
Il sistema Magic Wand costituisce un ideale complemento per l’Arrow ed estende le capacità dell’Iron Dome anche al contrasto di razzi più pesanti dei Qassam e dei Grad come i Fajr - con calibri superiori, tra i 240 ed i 333 mm, e gittate superiori, comprese tra i 45 ed i 70 km - oppure di missili tattici a breve rag-
gio quali gli Zelzal 2 - in grado di colpire ad oltre 100 km di distanza. Tutte armi da tempo in mano ad Hezbollah. Come l’Arrow, anche il Magic Wand è sviluppato in modo congiunto tra Israele e Stati Uniti, ma diversamente dall’Arrow, che è gestito dagli israeliani ed è una componente esclusiva della difesa dello Sato ebraico, si tratta di un sistema cogestito. Gli Usa, che non hanno nel loro arsenale un sistema in grado di affrontare un tale tipo di minacce, hanno infatti mostrato da subito molto interesse per il sistema e potrebbero anche acquisirlo. Il sistema è sviluppato in partnership tra l’azienda israeliana Rafael ed il colosso missilistico americano Raytheon. Il Congresso americano ne ha approvato i finanziamenti nel settembre 2006 con un primo importo di 20,6 milioni di dollari. Nel complesso si stima che il completamento dello sviluppo del sistema, e la produzione dei primi missili, possa venire a costare attorno ai 400 milioni di dollari. Il Magic Wand/Stunner si presenta come un sistema flessibile ed economico per rispondere nel più breve tempo possibile al requisito della difesa contro razzi pesanti o missili a breve raggio. Per questa ragione il sistema si basa su tecnologie mature e riutilizza molte componenti già esistenti, da tempo realizzate dalle due aziende nell’ambito di altri programmi. È previsto che il sistema raggiunga una capacità operativa iniziale nel 2012 o al massimo l’anno successivo. Nella sua configurazione base, il Magic Wand comprende un sistema di controllo del tiro, un radar multifunzionale e quattro lanciatori, ciascuno contenente 16 intercettori Stunner. Per il momento si sa che il radar potrebbe essere lo stesso dell’Iron Dome e l’intercettore adattarsi anche ai lanciatori dei Patriot. Lo Stunner è un intercettore bi-stadio comprendente un booster, sviluppato dall’azienda americana Atk, ed un motore a razzo multi-impulso, sviluppato dalla Rafael, ed è caratterizzato da un’altissima manovrabilità e da un sistema di guida a doppia banda, Ir e radar, che gli conferisce la necessaria precisione nella fase terminale ed un’eccellente resistenza alle contromisure (dal momento che il seeker Ir è basato su un detettore di nuova generazio31
dossier ne che riduce la radiazione di fondo infrarossa in modo da minimizzare l’efficacia degli inganni pirotecnici). Il missile intercetta il bersaglio con il cosiddetto meccanismo “hit-to-kill”, ovvero per impatto diretto, e lo distrugge con la sola forza dell’energia cinetica. A quanto se ne sa, il sistema dovrebbe essere rischiarato all’inizio nella parte settentrionale di Israele, al confine con Siria e Libano.
Il livello più basso: l’Iron Dome
Per neutralizzare le minacce al più basso livello tattico, per intendersi razzi con una gittata inferiore ai 70 km, leggi soprattutto Qassam e Grad, la Difesa israeliana sta sviluppando il sistema Iron Dome. A differenza dell’Arrow e del Magic Wand, l’Iron Dome è un sistema interamente israeliano e, almeno per il momento, non si ha notizia di finanziamenti da parte americana. Il sistema è stato selezionato nel 2006 dopo che tutte le alternative prese in considerazione fino ad allora si erano dimostrate troppo costose e tecnologicamente immature. Per anni Israele, assieme agli Stati Uniti, ha cercato di sviluppare sistemi con laser ad alta energia per contrastare la minaccia dei razzi. Uno per tutti, il programma Nautilus, condotto in cooperazione con l’azienda americana Northrop Grumman, che però alla fine dei giochi si è rivelato semplicemente un enorme macchina “mangia soldi” e “mangia tempo”. Ed Israele non può investire centinaia di milioni di dollari - alla fine pare che il Governo israeliano abbia investito nel Nautilus 400 milioni di dollari - senza avere la certezza di un risultato in tempi ragionevoli. È così che Israele si è decisa ad uscire dal programma Nautilus e a prendere in considerazione alternative più economiche e fattibili. Il conflitto con Hezbollah nel 2006 ha spinto poi alla scelta definitiva per l’Iron Dome: un sistema molto semplice, altamente mobile, basato su tecnologie mature, e, soprattutto, un sistema pronto già nel 2010. L’Iron Dome si basa su un sistema di controllo del tiro, un radar per la scoperta e il tracking ed un intercettore denominato Tamir. Quest’ultimo è lungo tre metri, pesa 90 kg, ha un diametro di 160 mm ed è dotato di
una testata a frammentazione con spoletta di prossimità. Il Tamir è inoltre caratterizzato da un’altissima manovrabilità, conferita dal sistema di controllo aerodinamico ad alette, ed utilizza un seeker radar per l’acquisizione del bersaglio. Il radar è l’Elta EL/M-2084, basato sulle stesse tecnologie del Green Pine, in grado di scoprire il bersaglio fino ad una distanza di 200 km e mantenerlo in tracking fino all’impatto. Una batteria Iron Dome comprende un sistema di controllo del tiro, un radar e tre lanciatori con 20 missili ciascuno. Secondo la Rafael, il sistema garantirebbe la copertura di un’area di 100 Kmq, ma ciò che lo rende veramente all’avanguardia, in grado di adattarsi al meglio al requisito della difesa anti-razzo, è la sua capacità di analizzare i dati forniti dal radar e determinare in base a questi l’esatta localizzazione del punto di ricaduta del razzo. Se questo è situato in un centro abitato o in una qualunque area sensibile, viene lanciato l’intercettore, altrimenti no. In tal senso il sistema è esattamente in grado di discriminare tra traiettorie “buone” e “cattive” e ciò consente di dare una realistica applicazione alla difesa anti-razzo, proteggendo davvero quello che di importante c’è in un territorio ed evitando di lanciare missili, che costano 100 volte tanto, contro Qassam che andrebbero altrimenti a colpire il deserto o l’aperta campagna. Resta un grande punto interrogativo sui tempi di reazione del sistema. Un problema che sta agitando i sonni della stampa israeliana e … dei cittadini di Sderot, imbufaliti con il ministro Barak, accusato di averli lasciati privi di difese, per via della presunte incapacità del sistema di intercettare i razzi lanciati contro la cittadina che dista solo un chilometro dal confine, e soli due chilometri dalle aree di lancio nei pressi di Beit Hanoun. Un Qassam lanciato da qui impiega dieci secondi per raggiungere Sderot. Troppo pochi per dar tempo all’Iron Dome di scoprire il razzo, analizzare la traiettoria e poi lanciare il Tamir. Un bel problema, anche perché la stessa Rafael ha più volte dichiarato in passato che l’Iron Dome ha una capacità di ingaggio minima di 4 km. E la polemica continua. 33
Risk
PERCHÉ WASHINGTON RESTA IL MIGLIORE ALLEATO DELL’UNICA DEMOCRAZIA IN MEDIORIENTE
OBAMA AL FIANCO DI GERUSALEMME DI
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WALTER RUSSELL MEAD
l 12 maggio 1948 Clark Clifford, “chief counsel” della Casa Bianca, esponeva le argomentazioni a favore del riconoscimento di Israele al gabinetto del Presidente Harry Truman, i cui componenti avevano opinioni divergenti. Dinanzi ad un accigliato George Marshall, allora Segretario di Stato ed uno scettico Robert Lovett, Sottosegraterio di Marshall, Clifford argomentava che il ri-
conoscimento dello Stato ebraico avrebbe costituito un atto di umanità in linea con i valori americani tradizionali. Per provare la fondatezza delle rivendicazioni territoriali degli Ebrei, Clifford citò il Libro del Deuteronomio: «Ecco, io vi ho posto il Paese dinanzi; entrate, prendete in possesso il Paese che il Signore ha giurato di dare ai vostri padri, Abramo, Isacco e Giacobbe e alla loro stirpe dopo di essi». Ma non riuscì a convincere Marshall, il quale disse a Truman che non avrebbe votato per lui alle elezioni ormai prossime se quella fosse stata la linea politica che intendeva seguire. Alla fine, Marshall accettò di non rendere noto il suo dissenso. Due giorni dopo, passati 11 minuti dall’autoprocalamazione dello Stato di Israele, gli Stati Uniti lo riconoscevano. Diversi osservatori interni e stranieri attribuirono la decisione di Truman al potere della comunità ebraica americana. Ritenevano determinanti i voti degli ebrei, l’influenza dei media da questi controllati ed i loro contributi economici alla campagna elettorale per le elezioni del 1948. Da allora, questo meccanismo si è più volte riprodotto. Famosi esperti statunitensi in materia di politica estera chiedono a Washington di adottare un atteggiamento prudente in Medio Oriente ed ammoniscono i Presidenti americani sull’elevato prezzo da pagare a livello internazionale se gli Stati Uniti 34
offrono eccessivo sostegno ad Israele. Quando i Presidenti non danno ascolto ai loro consiglieri e assumono posizioni pro-israeliane, gli osservatori le attribuiscono alla “lobby israeliana”, che riconoscono (o accusano) di influenzare il Capo del Governo. Ma va considerato un altro fattore. Come ha scritto David McCullough, biografo di Truman, l’iniziativa volta a sostenere lo Stato ebraico godeva all’epoca di “notevole consenso” negli Stati Uniti. Secondo un sondaggio effettuato nel 1948 dalla Gallup, il numero di americani simpatizzanti per gli israeliani era almeno tre volte superiore a quello dei simpatizzanti per gli arabi. E quel sostegno non fu un fuoco di paglia. Il sostegno diffuso ad Israele costituisce, infatti, uno dei principali pilastri della politica estera americana e, nel corso degli ultimi 60 anni, nessun sondaggio Gallup ha mai mostrato un numero maggiore di consensi per gli arabi o i palestinesi rispetto agli israeliani. Nel corso del tempo, inoltre, è andato rafforzandosi il sentimento pro-israeliano della popolazione statunitense, soprattutto tra i non ebrei. Durante la presidenza di George W. Bush il consenso dell’opinione pubblica americana nei confronti di Israele ha raggiunto i livelli più alti e li ha mantenuti nel corso di entrambi i suoi mandati. L’incremento si è registrato nonostante la
dossier diminuzione della rilevanza demografica della popolazione di religione ebraica. Nel 1948, gli ebrei costituivano il 3,8% circa della popolazione statunitense. Supponendo che quell’anno quasi tutti gli ebrei americani vedessero con favore una politica estera pro-israeliana, poco più del 10% dei sostenitori americani di Israele aveva origini ebraiche. Nel 2007, gli ebrei costituivano soltanto l’1,8% della popolazione degli Stati Uniti e rappresentavano il 3% circa dei sostenitori americani di Israele. I dati summenzionati, alquanto eloquenti, probabilmente sottostimano il fenomeno. Nel 2006, il Pew Research Center ha condotto un sondaggio in cui chiedeva se la politica americana in Medio Oriente fosse equidistante, favorisse gli israeliani, oppure favorisse i palestinesi. Il 47% degli americani ha risposto che la riteneva equa, il 6% che favoriva i palestinesi e soltanto il 27% che favorisse Israele. Il sondaggio è stato condotto nel periodo in cui era in corso la campagna armata israeliana contro Hezbollah nel Libano meridionale, un momento in cui il sostegno statunitense ad Israele era più che mai oggetto di aspre controversie in tutto il mondo. Se ne deve quindi dedurre che quelli che rispondono ai sondaggi asserendo che la politica statunitense è equidistante ed equa, in realtà sono favorevoli ad una politica che la maggior parte degli osservatori non americani considererebbe fortemente ed irresponsabilmente pro-israeliana. L’opinione pubblica americana si mostra favorevole ad iniziative di politica estera marcatamente, profondamente, durevolmente e notevolmente in contrasto con quanto invece propugnato dall’opinione pubblica degli altri Paesi. Negli Stati Uniti, una politica estera pro-israeliana non rappresenta il trionfo di una lobby minoritaria sulla volontà della cittadinanza, bensì la capacità dell’opinione pubblica di influenzare la politica estera nonostante i timori degli esperti stranieri. Così come la guerra al narcotraffico e la barriera lungo il confine con il Messico, il sostegno ad Israele costituisce una linea di politica estera che turba esperti e specialisti, ma gode del consenso dell’opinione pubblica. Ciò non significa che la “lobby israeliana” non esista o non contribuisca a delineare la politica mediorientale degli Stati Uniti. E non significa
neppure che gli americani facciano bene a pensarla come la pensano. (Resto convinto che tutti, compresi gli americani e gli israeliani, trarrebbero giovamento da una maggiore comprensione da parte statunitense delle richieste e delle necessità dei palestinesi). Ma significa che il motore primario della politica estera americana si situa al di là del Beltway e al di fuori della comunità ebraica. Per capire perché la politica estera americana sia pro israeliana anziché essere neutra o favorire i palestinesi, è necessario studiare le ragioni dell’atteggiamento pro-israeliano di alcuni gruppi sociali non appartenenti ad alcuna élite e non ebrei.
I figli di Davide
La storia del sostegno americano ad uno Stato ebraico in Medio Oriente ha origini antiche. John Adams non avrebbe potuto essere più esplicito. Infatti, dopo la conclusione della sua presidenza, espresse l’auspicio «di vedere gli ebrei ancora in Giudea, nazione indipendente». Dall’inizio del XIX secolo, i sionisti statunitensi si sono divisi in due gruppi. I sionisti profetici, che vedevano il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa come la realizzazione dell’interpretazione letterale della profezia biblica, spesso correlata al ritorno di Cristo e alla fine del mondo. Sulla base di tale interpretazione del capitolo 18 delle Profezie di Isaia, ad esempio, il Pastore Presbiteriano di Albany John McDonald predisse, nel 1814, che gli americani avrebbero assistito alla restaurazione da parte degli ebrei del loro antico Stato. I Mormoni condividevano tale visione; il ritorno degli ebrei nella Terra Promessa era in atto, come sottolineava nel 1841 Elder Orson Hyde: «La grande ruota è innegabilmente in movimento e la parola dell’Onnipotente ha dichiarato che girerà». Altri, cristiani meno letterali e profetici, hanno sviluppato un sionismo progressista, che avrebbe avuto eco per decenni tra laici e religiosi. Nel XIX secolo, i cristiani liberali ritenevano spesso che Dio stesse costruendo un mondo migliore attraverso il progresso dell’umanità. Questi consideravano gli Stati Uniti, Paese democratico e (relativamente) egualitario, un esempio del nuovo mondo che Dio stava costruendo e un potente strumento per il compimento di quel gran35
dossier
Negli Stati Uniti, una politica estera pro-israeliana non rappresenta il trionfo di una lobby minoritaria sulla volontà della cittadinanza, bensì la capacità dell’opinione pubblica di influenzare la politica estera nonostante i timori degli esperti dioso disegno. Alcuni protestanti americani credevano che Dio si stesse adoperando per riportare gli ebrei, che loro ritenevano umiliati ed oppressi, nella Terra Promessa, così come Dio stava migliorando il livello di vita di altre popolazioni ignoranti e miscredenti attraverso l’affermarsi dei principi protestanti e liberali. Desideravano che gli ebrei creassero un loro Stato perché credevano che ciò li avrebbe posti al riparo dalle persecuzioni e, grazie al potere di redenzione della libertà e del lavoro agricolo onesto, avrebbe consentito loro di migliorare ed elevare i costumi e l’igiene, che ritenevano squallidi e riprovevoli, degli ebrei ottomani ed esteuropei contemporanei. Per dirla con Adams, «Una volta che avranno un governo indipendente e che non saranno perseguitati, cancelleranno alcune delle asperità e delle peculiarità del loro carattere e forse potranno diventare cristiani unitari liberali». Per questi cristiani, il sionismo americano faceva parte di un programma più ampio di trasformazione del mondo attraverso la promozione degli ideali degli Stati Uniti. Non tutti i sionisti progressisti hanno basato le loro argomentazioni su presupposti religiosi. Già nel 1816, il Weekly Register di Niles, il principale periodico americano d’opinioni e notizie della prima metà del XIX secolo, prediceva e salutava con favore l’imminente ritorno degli ebrei in uno Stato indipendente con Gerusalemme capitale.
Secondo il giornale, la restaurazione degli ebrei avrebbe promosso i lumi ed il progresso e di ciò, naturalmente, avrebbero beneficiato sia gli Stati Uniti che gli stessi ebrei. I sionisti profetici divennero più numerosi dopo la Guerra civile americana e andò affermandosi la loro visione in ordine al ruolo che uno Stato ebraico restaurato avrebbe potuto svolgere negli eventi che avrebbero portato all’apocalisse. I libri e le pubblicazioni sulla prevista restaurazione degli ebrei e sull’identità ed il ritorno delle “tribù perdute” degli antichi ebrei erano sempre tra i più venduti ed il connubio tra Dwight Moody, il più eminente evangelista del Paese e Cyrus Scofield, illustre studioso della Bibbia, pose la storia futura di Israele al centro dell’immaginario del protestantesimo conservatore americano. Tali gruppi di sionisti non ebrei trovarono nuovi sebbene talvolta sgradevoli alleati dopo il 1880, periodo in cui ebbe inizio una forte ondata migratoria di ebrei russi verso gli Stati Uniti. Alcuni di loro ed alcuni ebrei americanotedeschi integrati speravano che la Palestina diventasse la nuova dimora di quello che era un gruppo non ben visto di immigranti, al posto degli Stati Uniti. Per gli antisemiti, la creazione di uno Stato ebraico avrebbe potuto, oppure no, “curare” gli ebrei eliminando quelle caratteristiche che venivano attribuite loro da molti non ebrei, ma ad ogni modo la creazione di uno Stato avrebbe ridotto i flussi migratori verso gli Stati Uniti. Nel 1891, questi filoni di Sionisti non ebrei si unificarono. Il leader laico metodista William Blackstone presentò una petizione al presidente Benjamin Harrison chiedendo agli Stati Uniti di adoperarsi per organizzare un vertice delle potenze europee volto ad indurre l’Impero Ottomano a consegnare la Palestina agli ebrei. La stragrande maggioranza dei 400 firmatari era composta da non ebrei e tra loro figuravano il primo giudice della Corte Suprema, il presidente della Camera dei Rappresentanti, i presidenti delle Commissioni Ways and Means ed Affari Esteri della Camera, il futuro presidente William McKinley, i sindaci di Baltimora, Boston, Chicago, New York, Filadelfia e Washington, gli editori o proprietari delle principali testate della Costa Orientale e di Chicago, nonché un’impressionan37
Risk te numero di religiosi appartenenti alle Chiese episcopale, metodista, presbiteriana e cattolica romana. Tra gli esponenti del mondo economico che firmarono la petizione figurano Cyrus McCormick, John Rockefeller e J. P. Morgan. In un’epoca in cui la comunità ebraica americana non era né potente né cospicua e non esisteva nulla di paragonabile ad una lobby israeliana, i pilastri non ebrei dello Stato americano continuavano a sostenere un’iniziativa diplomatica statunitense volta a creare uno Stato ebraico nei territori della Bibbia.
Comandamenti comuni
Qualsiasi riflessione riguardante l’atteggiamento degli Stati Uniti nei confronti d’Israele deve partire dalla Bibbia. Per secoli, l’immaginario americano è stato impregnato delle scritture ebraiche. Tale influsso ha avuto origine dalla riscoperta del Vecchio Testamento durante la Riforma, si è accentuato con lo svilupparsi della teologia calvinista (che evidenziava gli elementi di continuità tra le leggi antiche e moderne della grazia divina) ed è stato reso più vitale dalle similitudini storiche tra le esperienze ebraiche moderne ed antiche. Quindi, la lingua, gli eroi e le idee del Vecchio Testamento permeano la psiche degli americani. Un’istruzione in ebraico biblico era obbligatoria nelle università di Columbia, Dartmouth, Harvard, Princeton e Yale. James Madison concluse i suoi studi a Princeton in due anni, ma vi restò un altro anno per studiare la lingua ebraica. I predicatori ed i liberalisti coloniali continuavano a descrivere gli Stati Uniti come una nuova Canaan, «una terra inondata da latte e miele» e a ricordare al loro pubblico che così come gli ebrei avevano perso i loro doni del cielo per aver offeso Dio, allo stesso modo gli americani avrebbero sofferto se avessero disobbedito al Dio che li aveva condotti alla loro terra promessa. Oggi, i riferimenti al Vecchio Testamento continuano a permeare gli scritti politici, l’oratoria e persino la geografia americani: più di mille città e pesi degli Stati Uniti hanno nomi tratti dalle Sacre Scritture. La più evidente espressione religiosa dell’importanza del Vecchio Testamento per la cultura Usa di oggi è costituita dall’affermarsi del “dispensalismo” pre-mille38
narista, un’interpretazione delle profezie bibliche che annette particolare rilevanza ai concetti religiosi espressi nel Vecchio Testamento quale la “teologia del patto” (o covenant theology) ed attribuisce un ruolo decisivo allo Stato ebraico restaurato (con Gerusalemme come capitale) nella storia futura. Si calcola che il 7% circa degli americani sostenga tale posizione teologica (un gruppo di persone numericamente quattro volte superiore alla comunità ebraica americana), mentre un numero notevolmente superiore di individui ne sono più o meno influenzati. I propugnatori di tali teorie condividono spesso (ma non sempre) l’idea sostenuta da alcuni ebrei ortodossi, secondo cui gli ebrei devono insistere per avere uno Stato che ricomprenda tutti i territori promessi agli ebrei. Si oppongono a qualsiasi compromesso con i palestinesi e sono favorevoli agli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Ma si tratta di una minoranza, anche tra i sostenitori statunitensi di Israele. D’altro canto, il sionismo cristiano progressista è correlato all’etica cristiana anziché alla profezia. Si fonda essenzialmente sul senso di colpa e sull’idea che i maltrattamenti subiti dagli ebrei da parte dei cristiani impedisca loro oggi di accettare il cristianesimo. Per molto più di un millennio, gli ebrei d’Europa hanno subito crudeltà terribili ed a volte inenarrabili per mano dei cristiani europei. Sebbene alcuni protestanti americani abbiano perpetuato questa storia di intolleranza ed antisemitismo, molti protestanti americani liberali dal XIX secolo in poi hanno considerato il rifiuto di tale passato come uno dei compiti caratterizzanti la Chiesa americana riformata ed illuminata. Tali protestanti potevano (e lo fecero senza problemi) deprecare l’antisemitismo cattolico considerato una conseguenza della deplorabile corruzione della Chiesa sotto il papato, ma le parole e gli atti antisemiti di riformatori quali Martin Lutero non potevano essere negati tanto facilmente. Molti appartenenti alle chiese protestanti liberali americane consideravano un sacro dovere completare il lavoro iniziato dalla Riforma liberando il cristianesimo da ciò che di “medievale” rimaneva in esso, come ad esempio la superstizione, il fanatismo e l’antisemitismo. Fare ammenda per i peccati commessi in passato proteggen-
dossier do gli Ebrei ha costituito per molto tempo una prova religiosa importante per molti (sebbene assolutamente non per tutti) protestanti americani. Per converso, la maggior parte dei cristiani americani ha nutrito pochi o nessun senso di colpa per le relazioni storiche che le loro comunità hanno avuto con il mondo musulmano. Molti musulmani considerano i conflitti cristianomusulmani dell’ultimo millennio un fenomeno costante e relativamente omogeneo, ma i protestanti americani non la vedono allo stesso modo. Solitamente questi deplorano le crudeltà delle Crociate ed il concetto di guerra santa, ma li considerano errori dei cattolici anziché dei cristiani in senso più ampio e, ad ogni modo, ritengono le crociate qualcosa di ormai passato che, comunque, ha avuto luogo in risposta ad un’aggressione da parte musulmana. Inoltre, solitamente disapprovano le campagne predatorie condotte dalle potenze europee negli ultimi secoli, ma le considerano un prodotto dell’imperialismo del Vecchio Mondo piuttosto che del cristianesimo e, per questo, non se ne ritengono responsabili. (Va ricordata una importante eccezione: molti missionari statunitensi che operano in Medioriente hanno stabilito forti legami con le popolazioni arabe di quell’area ed hanno espresso profondo sostegno al nazionalismo arabo, sia come condanna del colonialismo europeo, sia nella speranza che un movimento nazionalista laico possa migliorare le condizioni dei Cristiani arabi. Tale comunità di missionari ha contribuito all’affermarsi della fazione arabista presso il dipartimento di Stato ed alla reazione delle Chiese Protestanti dominanti contro la politica israeliana nei territori occupati dopo la guerra del 1967). Nel 1948, molti cristiani negli Stati Uniti si sentivano carichi di un pesante fardello. Un debito storico e degli obblighi nei confronti degli ebrei, ma non dei musulmani. Semmai, ritenevano che il mondo islamico fosse in debito con i missionari cristiani americani per molte delle importanti università e per i numerosi ospedali e che il sostegno dei cristiani americani prima e dopo la Seconda Guerra Mondiale avesse contribuito all’affermarsi, in quel periodo, di Stati Arabi e musulmani sovrani.
I cugini prescelti
Il senso identitario e missionario degli Stati Uniti è stato forgiato dalle letture della storia e del pensiero ebraici. Lo scrittore Hermann Melville espresse tale visione: «Noi americani siamo il popolo peculiare, il popolo prescelto - l’Israele dei nostri tempi; noi portiamo l’arca della libertà del mondo». Dall’epoca dei puritani ad oggi predicatori, pensatori e politici degli Stati Uniti tanto laici quanto religiosi, tanto liberali quanto conservatori - hanno intravisto negli statunitensi il popolo eletto, legato non da vincoli di sangue, bensì da un comune sostrato di principi e da un comune destino. Gli americani hanno creduto che Dio (o la storia) li avesse condotti in una nuova terra, li avesse resi grandi e facoltosi, hanno creduto che la propria prolungata prosperità dipendesse dall’adempiere compiutamente agli obblighi verso Dio o verso i principi che hanno finora consentito che il destino arridesse loro. Ignorate tali principi - rivolgetevi verso il vitello d’oro - ed il flagello si abbatterà su di voi. Tanto gli americani credenti quanto quelli non credenti hanno visto nelle Sacre Scritture ebraiche un esempio di popolo depositario di una missione e perciò chiamato a compiere il proprio destino, quello cioè di plasmare il
In un’epoca in cui la comunità ebraica americana non era né potente né cospicua e non esisteva nulla di paragonabile ad una lobby israeliana, i pilastri non ebrei dello Stato americano continuavano a sostenere un’iniziativa diplomatica statunitense volta a creare uno Stato ebraico 39
dossier mondo. La terra in cui gli americani risiedono apparteneva un tempo ad altri? Si, ma allo stesso modo anche gli ebrei conquistarono la terra dei canaaniti. Le piccole colonie statunitensi armate solo della propria giusta causa sconfissero i grandi imperi mondiali? Altrettanto fece Davide, l’umile pastore, nell’abbattere Golia. Nel secolo XIX gli americani erano isolati e derisi in ragione dei propri ideali democratici? La stessa sorte toccò agli ebrei, circondati da idolatri. Gli americani hanno sconfitto i propri nemici interni ed esterni? Uguale trionfo, secondo le Scritture, arrise al popolo ebraico. E quando gli americani assoggettarono alla schiavitù milioni di persone in violazione dei propri principi, furono essi puniti e flagellati? Sì, e nella misura in cui il popolo ebraico patì le sofferenze derivanti dai peccati commessi di fronte a Dio. Tale mitica concezione della natura e del destino degli Stati Uniti costituisce uno dei più potenti e durevoli elementi della cultura e del pensiero americani. Come gli antichi ebrei, molti americani contemporanei ritengono di essere depositari di una rivelazione, non solo per loro stessi ma per il mondo intero; essi hanno sempre considerato sé stessi come una Nuova Israele voluta da Dio. Una delle tante conseguenze che discendono da tale supposta parentela è che molti americani giudichino tanto giusto quanto appropriato il supporto di un popolo prescelto ad un altro popolo. Essi non si sentono turbati quando l’appoggio statunitense ad Israele, un popolo ed uno stato sovente isolato ed ostracizzato, rende gli Stati Uniti impopolari o genera nuove tensioni. L’adozione, da parte statunitense, del ruolo di protettori dello Stato di Israele e di amici del popolo ebraico rappresenta una via di legittimazione del proprio status di paese scelto da Dio come portatore di un destino unico. Per di più, dal XIX secolo gli Stati Uniti hanno considerato sé stessi come gli emissari scelti da Dio per portare a compimento l’opera di protezione e redenzione degli ebrei. Gli americani ritenevano che gli ebrei si sarebbero risollevati dalla propria degradata condizione migrando dai sobborghi cittadini alle campagne - così come gli immigrati provenienti da tutta Europa si erano costruiti vite migliori ed una reputazione di forti conta-
dini jeffersoniani. I cristiano-liberali come Adams ritenevano che ciò avrebbe condotto gli ebrei in tempo nell’alveo del protestantesimo liberale come parte di un generale miglioramento dell’umanità. E i sionisti profetici auspicavano che una conversione in massa degli ebrei ad una cristianità revivalista avrebbe favorito l’apocalisse e la discesa di Cristo in terra. In un modo o nell’altro, il ruolo speciale ricoperto dagli Stati Uniti nella redenzione degli ebrei informava le aspettative delle classi agiate americane circa un percorso insito nella storia e confermava le convinzioni di queste relativamente all’identità ed alla missione degli Stati Uniti.
Gli Stati coloni
Gli Stati Uniti ed Israele godono inoltre dello status condiviso di “stati coloni” - nazioni create da popolazioni le quali giunsero ad ottenere il controllo dei propri attuali territori dopo aver allontanato le popolazioni originarie. Entrambi sono stati potentemente modellati da una storia di conflitti e scontri contro coloro che hanno soppiantato, ed entrambi hanno addotto similari giustificazioni per la propria condotta. Sia gli americani che gli israeliani si sono innanzitutto rivolti al Vecchio Testamento, le cui pagine consacrate narrano la storia del conflitto tra gli antichi ebrei ed i canaaniti, i precedenti abitanti di quella che il popolo ebraico considerava la propria Terra Promessa. Gli americani trovarono l’idea di essere il nuovo Israele di Dio così allettante anche poiché essa aiutava a giustificare lo spostamento dei nativi americani. Come Theodore Roosevelt ebbe a dire nella sua fortunata storia dell’ovest americano «Molti tra i migliori zoticoni leggevano la Bibbia, ma essi furono cresciuti all’insegna di un credo che attingeva in buona parte dal Vecchio Testamento, e poneva poco risalto sui concetti di pietà, verità, o misericordia. Essi guardavano ai propri nemici così come i profeti ebrei guardavano ai nemici di Israele. Quali furono le efferatezze a causa delle quali i Canaaniti furono distrutti da Giosuè, in confronto alle efferatezze perpetrate dai selvaggi pellerossa le cui terre quegli uomini, parte di un altro popolo prescelto, avrebbero dovuto ereditare?» (Roosevelt stesso, come il cugino Franklin ed Eleanor, 41
Risk era un sionista cristiano. «Mi sembra assolutamente appropriato creare uno stato sionista attorno a Gerusalemme», scrisse nel 1918.) Al di là di una diretta promessa divina, due altre importanti giustificazioni addotte dagli americani nel corso della loro lotta contro i nativi furono il principio secondo cui essi si stessero espandendo verso “terre vuote” e la connessa dottrina delle “libere utilizzazioni” di John Locke, che sosteneva che una proprietà inutilizzata costituisse uno spreco ed un’offesa alla natura. I coloni statunitensi ritenevano che solo chi avesse apportato migliorie alla terra mediante la creazione di aziende agricole imperniate sulle colture estensive e mediante la costruzione di nuovi insediamenti urbani godesse del diritto di possederla. John Quincy Adams addusse a ciò validi argomenti nel 1802: «Condanneranno (i nativi) un’immensa regione del globo alla desolazione perpetua…?». E Thomas Jefferson avvertì che i nativi americani che non si sarebbero rivelati in grado di apprendere dai bianchi e di impegnarsi in un’agricoltura produttiva sarebbero andati incontro ad uno spiacevole destino. Essi «ripiomberanno nella barbarie e nella miseria, ridurranno la propria consistenza a fronte delle guerre e dei conflitti, e noi ci vedremo obbligati a condurli tra le Montagne Rocciose, assieme alle bestie della foresta». Lungo buona parte del corso della storia americana, tali visioni riecheggiavano non solo tra gli zoticoni ma anche tra i cittadini liberali e raffinati. Tali argomentazioni conservavano un significato speciale in riferimento alla Terra Santa. Poiché negli americani devoti albergava il pensiero delle glorie dell’antica Gerusalemme e del Tempio di Salomone, essi descrissero una terra magnifica e fertile - «una terra dove sgorgano latte e miele», come narra la Bibbia. Ma a partire dal secolo XIX, quando prima decine, poi centinaia, infine migliaia di americani visitarono la Terra Santa - ed altri milioni assistevano a lezioni e simposi che fornivano resoconti di tali viaggi - rimanevano poco latte e poco miele; la Palestina era una delle province più povere, arretrate ed instabili dell’Impero Ottomano. Agli occhi degli americani, i pendii collinari e le distese rocciose della Giudea apparivano desolati e vuoti - molti ritenevano 42
che Dio avesse scagliato una maledizione contro quella terra quando costrinse gli ebrei ad un secondo esilio, visto come la punizione inferta al popolo ebraico per non aver riconosciuto in Cristo il Messia. E così, credettero gli americani, gli ebrei appartenevano alla Terra Santa, e la Terra Santa apparteneva agli ebrei. Essi non avrebbero mai potuto prosperare fintanto che non fossero stati liberi in casa propria, e la terra sarebbe fiorita solo con il ritorno dei suoi legittimi proprietari. Il profeta Isaia aveva descritto il futuro ritorno del popolo ebraico alla terra d’origine come la grazia di Dio che porta acqua ad una terra deserta. E gli americani guardavano con occhi stupiti alla ritrovata fertilità del suolo grazie alle coltivazioni dei primi coloni sionisti come al compimento della profezia biblica. «Le primavere della vigorosa colonizzazione ebraica, ampiamente foraggiata dal denaro dell’ebraismo mondiale, scorre fino al deserto» scriveva Time Magazine nel 1946, riecheggiando il linguaggio di Isaia. Due anni dopo, a seguito del successo ebraico nel conflitto del 1948, descriveva gli arabi con una terminologia che oggi susciterebbe scalpore, ma che al tempo rappresentava il comune sentire degli americani: «Il mondo occidentale tende a vedere l’arabo come un guerriero dagli occhi di falco su un bianco destriero. Quell’arabo è ancora presente, ma in quantità meno cospicua degli sventurati perseguitati dalle malattie che giacciono nelle strade arroventate, troppo deboli, malfermi e senza alcun fine per trascinarsi all’ombra». Gli americani intravidero una lotta tra un popolo arretrato ed incapace ed uno in grado di piegare il deserto ai propri scopi facendolo rifiorire, portando miracolosamente a compimento le antiche profezie di uno stato ebraico. Gli ebrei sono stati generalmente considerati come il popolo più deplorevole dell’Europa orientale: ignoranti, depravati, superstiziosi, divisi tra fazioni, irascibili ed inguaribilmente arretrati. Il fatto che tale popolo, dopo essere stato soggetto alla barbarie senza precedenti della persecuzione nazista, erigesse la prima stabile democrazia del Medio Oriente, sviluppasse una fiorente economia nel cuore del deserto e sconfiggesse ripetutamente i propri nemici grazie ad eserciti di gran lunga più grandi e forti costituì per molti ameri-
dossier cani un’impressionante riprova storica degli ideali a loro popolazione di colore iniziava a svolgere un ruolo di più cari. sempre maggior influenza nelle campagne elettorali statunitensi. Durante gli anni ’30, la stampa afroamericana La svolta a destra in tutti gli Stati Uniti aveva seguito da vicino l’imposiSebbene il supporto ad Israele da parte delle classi più zione di politiche razziali da parte di Hitler. I leader agiate degli Stati Uniti sia rimasto forte e si sia persino accresciuto a partire dal secondo conflitto mondiale, i suoi connotati sono cambiati. Fino alla guerra dei Sei Giorni, l’appoggio ad Israele proveniva principalmente dalla sinistra e riscuoteva maggiori simpatie tra i democratici che tra i repubblicani. Icone liberali come Eleanor Roosevelt, Paul Tillich, Reinhold Niebuhr e Martin Luther King Jr. rappresentavano delle eminenti voci a sostegno del supporto statunitense ad Israele. Ma dal 1967 il sostegno liberale è gradualmente diminuito, sostituito da un sempre maggiore appoggio da parte dei conservatori. Vari fattori hanno fatto sì che il sionismo progressista diventasse un potente ago della bilancia nella politica statunitense, in particolar modo a sinistra. Innanzitutto, l’impatto provocato nel mondo protestante dall’Olocausto fu enorme. La Germania aveva un tempo costituito il principale fulcro dottrinario per la chiesa protestante americana, e l’acquiescenza passiva con la quale buona parte delle chiese protestanti tedesche salutarono l’avvento del Nazismo provocò unanime sdegno all’interno del protestantesimo americano. I protestanti tedeschi antinazisti furono elevati al ruolo di eroi teologici negli Stati Uniti del dopoguerra, e l’oppo- afroamericani non persero occasione di denunciare le sizione all’antisemitismo divenne una fondamentale somiglianze tra il trattamento inferto da Hitler agli ebrei cartina tornasole attraverso cui i protestanti americani ed i provvedimenti di segregazione emanati da Jim tradizionali iniziarono a giudicare sé stessi ed propri lea- Crow negli stati del Sud degli Stati Uniti. Per gli afroader. Tale profondo shock intensificò la risposta umanita- mericani la persecuzione degli ebrei si palesava attraverria a fronte delle rivelazioni sui campi di sterminio e so l’esperienza quotidiana. Inoltre, essa forniva loro sugli omicidi di massa. Le sofferenze degli sfollati, affa- importanti basi argomentative al fine di persuadere i mati ed impoveriti rifugiati ebrei nella caotica Europa bianchi che la discriminazione razziale violasse i principostbellica ebbe come ovvia conseguenza il fatto che i pi fondamentali americani, fornendo così un solido terprotestanti americani, sostenitori da secoli dei diritti del reno d’incontro tra gli ebrei americani ed il movimento popolo ebraico, appoggiassero entusiasticamente le per i diritti civili nato nel 1945 e sopravissuto alla morte misure volte a porre in condizioni di sicurezza gli ebrei di King. Anche durante il corso del secondo conflitto d’Europa. mondiale, gli attivisti di colore Du Bois, Zora Neale Un secondo fattore fu il considerevole supporto fornito Hurston, Langston Hughes e Philip Randolph sostennedagli afroamericani agli ebrei in un periodo in cui la ro il precursore del partito israeliano Likud nei suoi sfor-
Il fatto che il popolo di Israele, dopo essere stato soggetto alla barbarie della persecuzione nazista, erigesse la prima stabile democrazia del Medio Oriente e sviluppasse una fiorente economia nel cuore del deserto sconfiggendo eserciti più grandi e forti costituì per molti americani un’impressionante riprova storica degli ideali a loro più cari
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dossier zi volti a creare un esercito ebraico. Il leader dei diritti civili Adam Clayton Powell Jr. si spinse oltre, raccogliendo 150mila dollari per il gruppo militante sionista Irgun Zvai Leumi - da lui definito «un’organizzazione terrorista clandestina in Palestina» - durante una manifestazione a New York City. Un’ulteriore impulso alla creazione di uno stato israeliano indipendente venne dall’Unione Sovietica. A Yalta, Josip Stalin disse a Franklin Delano Roosevelt che egli stesso era un sionista, e nel maggio 1947 il ministro degli esteri sovietico Andrei Gromyko annunciò dall’assise delle Nazioni Unite che l’Unione Sovietica avrebbe appoggiato la creazione di uno stato ebraico. Tale sostegno, comunque di breve durata, rafforzò la convinzione di buona parte della sinistra americana che la definizione di una patria per il popolo ebraico fosse parte di una più generale lotta per il progresso nel mondo. In effetti, nei decenni successivi al conflitto, molti americani interpretarono il proprio appoggio ad Israele come parte del loro impegno a favore della libertà, contro il colonialismo (gli ebrei della Palestina stavano tentando di affrancarsi dal dominio britannico), contro le discriminazioni razziali e religiose, per la laicità, per l’umanitarismo e nel solco della tradizione progressista statunitense. Al tempo Israele appariva come un idealistico esperimento laico di democrazia sociale; gli ebrei americani ed anche gli alti strati della società statunitense si recarono in Israele per sperimentare la vita di lavoro in comunità tipica dei kibbutz. Pertanto nel 1948, quando Truman decise di sostenere la creazione di Israele, egli non stava semplicemente pensando ad accaparrarsi il voto degli ebrei d’America. L’appoggio ad Israele riscuoteva consensi tra i neri del Nord, che si erano avvicinati al Partito Democratico sulla scia del New Deal e della sempre maggiore tutela dei diritti civili da parte di Truman. Il far propria la causa d’Israele suscitò simpatie tra la sinistra, altrimenti orientata verso i Progressisti di Henry Wallace. E consentì inoltre a Truman di riscuotere successo tra quel gruppo di elettori Dixiecrats del Sud conservatori, praticanti, avidi lettori della Bibbia facenti capo a Strom Thurmond. Il sostegno ad Israele fu infatti una delle poche questioni che consentì ad un Partito
Democratico diviso di serrare i ranghi. In ogni caso, a partire dalla guerra del 1967 la base di sostegno statunitense ad Israele si è spostata: l’appoggio ad Israele ha connotato in misura sempre maggiore la destra rispetto alla sinistra. A sinistra, infatti, una diffusa avversione alle politiche messe in atto da Israele nei territori occupati ed un minore interesse circa la sua sicurezza all’indomani del trionfo bellico portarono molti afroamericani, molti protestanti tradizionalisti e molti intellettuali liberali, un tempo tra i più fervidi sostenitori statunitensi di Israele, a fraternizzare con la causa palestinese. L’accresciuta identificazione da parte dei cittadini di colore con i movimenti anticoloniali di tutto il mondo, l’erosione dell’alleanza afroebraica relativamente alla politica interna statunitense e la crescente attrazione esercitata da figure come Malcom X ed i leader della Nation of Islam ridussero gradualmente il sostegno afroamericano ad Israele. Da parte loro, le chiese protestanti liberali si dimostrarono maggiormente aperte nei confronti delle prospettive di quei missionari solidali con il nazionalismo arabo, e quando le principali chiese iniziarono a muovere critiche alla tradizionale visione americana circa l’identità nazionale ed il destino degli Stati Uniti, essi si distanziarono ancora di più dalle tradizionali interpretazioni del Vecchio Testamento. (D’altro canto, i rapporti tra i cattolici americani e gli ebrei iniziarono a migliorare a seguito del conflitto del 1967, soprattutto in virtù del nuovo approccio teologico delineato dalla chiesa cattolica nei confronti del popolo ebraico a seguito del Concilio Vaticano II.) A destra, il cambiamento più significativo dal 1967 è costituito dall’enorme intensificazione dell’appoggio ad Israele tra i cristiani evangelici e, più in generale, tra quanti ho definito gli elettori “jacksoniani” nel cuore degli Stati Uniti. I jacksoniani sono elettori populistinazionalisti propugnatori di un forte esercito statunitense, generalmente scettici nei confronti delle organizzazioni internazionali e dell’assistenza umanitaria globale. Non tutti gli evangelici sono jacksoniani, e non tutti i jacksoniani sono evangelici, ma esiste una certa commistione tra le due componenti. Molti bianchi del Sud sono 45
Risk Jacksoniani; così come molti degli elettori incerti del Nord, noti come i democratici di Reagan. Molti jacksoniani si fecero un’immagine negativa degli arabi durante la Guerra Fredda. Essi facevano notare come i palestinesi e gli Stati arabi tendevano a prendere le parti dell’Unione Sovietica e del movimento dei Non Allineati contro gli Stati Uniti. Durante la crisi di Suez del 1956, gli egiziani declinarono l’offerta di aiuto statunitense e si rivolsero all’Unione Sovietica per ricevere armamenti e sostegno; le forniture belliche e gli
La Guerra dei Sei Giorni fu un catalizzatore sia del movimento di rinascita evangelica che della ripresa del sionismo profetico. La rapidità e la risolutezza della vittoria israeliana aveva del miracoloso, e la conquista della Città Vecchia implicava che i luoghi del Tempio erano nuovamente in mani ebraiche esperti sovietici consentirono agli eserciti arabi di prepararsi per la guerra contro Israele. I jacksoniani tendono ad giudicare gli eventi internazionali attraverso il loro unico prisma e, a partire dalle vicende mediorientali del 1967, essi hanno dimostrato una sempre maggior vicinanza ad Israele anche se molti osservatori non-Jacksoniani statunitensi - e molti altri nel resto del mondo - se ne siano sempre più distaccati. La Guerra dei Sei Giorni ha ridato slancio all’interesse dei sionisti profetici per Israele e, agli occhi di molti Jacksoniani, ha rafforzato il legame percepito tra Israele e gli Stati Uniti. Conclusa la Guerra Fredda, i jacksoniani intravidero che i maggiori oppositori degli Stati Uniti 46
nella regione, come ad esempio Iraq ed Iran, lo erano anche di Israele. I jacksoniani ammirano la vittoria, e la vittoria totale è ciò che più amano. Lo schiacciante, travolgente trionfo dell’esercito israeliano nel 1967 contro nemici numericamente superiori provenienti da tre diversi paesi catturò l’immaginazione dei jacksoniani - specialmente in un periodo in cui gli scarsi risultati dell’impegno statunitense in Vietnam avevano reso molti di loro pessimisti circa il futuro del proprio Paese. Da allora, alcune delle azioni che hanno scalfito l’immagine di Israele nel mondo come le risposte palesemente sproporzionate agli attacchi del terrorismo palestinese - hanno al contrario fatto accrescere il sostegno da parte dei jacksoniani. Quando dei razzi lanciati da Gaza colpiscono Israele, gli israeliani rispondono a volte con una maggiore potenza di fuoco, con maggiori distruzioni, con un maggior numero di vittime. In buona parte del mondo, simili atti sono considerati come un’eccessiva ritorsione, un’offesa pari o persino superiore all’attacco subito. Al contrario, i jacksoniani giudicano il lancio di razzi palestinesi su obiettivi israeliani come un atto di terrorismo e ritengono pertanto che gli israeliani godano di un diritto illimitato, forse quasi un dovere, di reagire con tutte le forze a propria disposizione. Sin dagli anni ’50, quando cioè le milizie palestinesi iniziarono a violare furtivamente la linea del cessate-il-fuoco al fine di attaccare gli insediamenti israeliani, molti palestinesi ed arabi hanno visto, con qualche ragione, queste incursioni come atti di grande coraggio di fronte ad un soverchiante potere. Ma tali attacchi a tradimento contro obiettivi civili, ed in special modo gli attentati suicidi, violano i basilari principi jacksoniani sul modo civile di condurre la guerra. I jacksoniani ritengono che solo una schiacciante e totale reazione a tali tattiche possa fungere da deterrente contro altri eventuali attacchi. Tale è il modo in cui gli uomini della frontiera trattarono i nativi americani, il modo in cui il generale unionista William Sherman “educò” i confederati, il modo in cui il generale Douglas MacArthur e Truman ricompensarono i giapponesi per Pearl Harbor. I Jacksoniani non riescono effettivamente a comprendere perché il mondo muova
dossier critiche ad Israele relativamente all’esercizio di ciò che essi ritengono il suo inalienabile diritto all’autodifesa esattamente ciò che essi farebbero se fossero al posto di Israele. Agli occhi dei palestinesi e dei loro sostenitori, i palestinesi - esiliati, emarginati, occupati, divisi - rappresentano un eroico popolo oppresso dal potere di una superpotenza regionale sostenuta dalle nazioni più potenti del pianeta. Ma per i jacksoniani Israele, malgrado tutto il suo potere e le sue vittorie, rimane un paese in pericolo circondato da nemici. Il fatto che gli arabi e la più ampia comunità di un miliardo di musulmani appoggi, almeno sul piano della retorica, la causa palestinese rafforza la convinzione di molti jacksoniani che Israele sia un piccolo e vulnerabile Paese meritevole d’aiuto. Ironicamente, alcuni tra i più grandi successi politici e militari del movimento palestinese - lo sviluppo di un’attiva resistenza armata, la garanzia (in buona parte retorica) del sostegno da parte di organizzazioni quali la Lega Araba ed anche l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, lo spostamento della resistenza palestinese dal nazionalismo laico alla religione, l’appoggio da parte di alcuni potenti stati della regione come l’Iraq di Saddam ed oggi dell’Iran - hanno finito per rafforzare ed aumentare il supporto dell’élite americana nei confronti di Israele.
Fratellanza cristiana
Un altro importante fattore alla base dell’accresciuto sostegno statunitense ad Israele trova giustificazione nel fatto che dal 1967 una serie di risvegli religiosi ha caratterizzato gli Stati Uniti, con effetti considerevoli sulle prese di posizione pubbliche relative al Medio Oriente. Una conseguenza è ravvisabile nel fatto che anche ove le tradizionali chiese protestanti di orientamento liberale muovano critiche ad Israele, esse dimostrano di aver ormai perso influenza sulla società e sulla politica. Un’altra conseguenza è rappresentata da un significativo aumento del sionismo profetico, da un maggior interesse, mai prima d’ora così forte, da parte dei cristiani evangelici e fondamentalisti americani alla profezia biblica ed al ruolo di Israele nell’avvicinamento all’apocalisse. Molti cristiani evangelici e fondamentalisti
hanno dimostrato un interesse relativamente scarso verso Israele nel periodo immediatamente successivo alla sua indipendenza. Nella loro visione, la profezia biblica affermava chiaramente che gli ebrei avrebbero ricostruito il Tempio nel suo luogo originario, ed altrettanto avrebbero fatto con gli altri luoghi sacri della Gerusalemme in mani arabe; il conto alla rovescia per la fine dei tempi pareva pertanto essersi rallentato. Nel frattempo, il laico e quasi-socialista Stato d’Israele degli anni ’50 appariva meno allettante ai conservatori che ai liberali. Con gli occhi fissi sulla minaccia comunista durante gli anni di più acuta tensione della Guerra Fredda, i cristiani evangelici e fondamentalisti si impegnavano molto meno nella politica mediorientale degli Stati Uniti di quanto avessero fatto nel XIX secolo. La Guerra dei Sei Giorni cambiò tutto; essa fu un catalizzatore sia del movimento di rinascita evangelica che della ripresa del sionismo profetico. La rapidità e la risolutezza della vittoria israeliana aveva per molti americani del miracoloso, e la conquista della Città Vecchia implicava che i luoghi del Tempio erano nuovamente in mani ebraiche. La sensazione che la fine dei tempi si stesse avvicinando costituì un potente impulso al risveglio religioso americano iniziato durante questo periodo. Da allora, una serie di best-seller, non solo di narrativa, hanno soddisfatto l’interesse di milioni di americani circa la possibilità che la fine dei tempi, così come annunciata nel Vecchio e Nuovo Testamento, stesse prendendo forma nel Medio Oriente. Sin dalla fine della Guerra Fredda, una nuova forza ha ulteriormente irrobustito i legami tra lo Stato d’Israele e molti cristiano-conservatori d’America. Mentre il risveglio religioso conferiva nuovo potere e nuove energie alle chiese evangeliche e fondamentaliste, la loro attenzione si rivolgeva sempre più all’esterno. I precedenti risvegli religiosi avevano avuto come conseguenza un aumento dell’interesse e dell’attività di stampo missionario; l’attuale non è diverso. E mentre i cristiani americani hanno sviluppato un più ampio interesse per le sorti dei cristiani nel mondo, essi hanno fatto la conoscenza del più importante rivale mondiale del cristianesimo, l’Islam, e hanno appreso come le condizioni dei 47
dossier cristiani in una serie di paesi a maggioranza musulmana non siano buone. La preoccupazione per la sorte di tutti i cristiani perseguitati è un connotato di lunga data della cristianità, e non solo negli Stati Uniti. Gli stessi capi religiosi che si prodigarono nella difesa degli ebrei in Europa e nell’Impero Ottomano si impegnarono spesso in simili iniziative per proteggere i cristiani in Cina, Corea, Giappone e nell’Impero Ottomano, solo per citarne alcuni. L’ascesa del comunismo in quanto più brutale nemico della religione del XX secolo indusse molti cristiani d’America a fondare organizzazioni il cui scopo era di fornire aiuto ai fedeli al di là della
Una cosa sembra chiara. In futuro, così come nel passato, la politica mediorientale degli Usa continuerà ad essere plasmata dalla volontà della maggioranza dei cittadini, e non dalle macchinazioni di una minoranza, quantunque ricca o coinvolta nel processi politici Cortina di Ferro. Dal 1989 la persecuzione a danno dei cristiani da parte dei comunisti era diminuita (sebbene ancora presente), e così il centro delle preoccupazioni è diventato il mondo musulmano, dove molti cristiani ed individui di altre fedi o senza fede sono vittime della discriminazione legale e sociale - e dove, a volte, i cristiani vengono picchiati ed assassinati per ciò in cui credono. Per di più, le leggi di molti paesi islamici proibiscono il proselitismo e la conversione - questioni di vitale importanza per i cristiani evangelici, che credono nel fatto che chiunque muoia senza accettare Cristo soffrirà all’inferno e che la diffusione della fede cristiana costi-
tuisca uno dei loro principali doveri morali. I mezzi d’informazione tradizionali non dedicano particolare spazio nei notiziari alle persecuzioni patite dai cristiani, ma ciò non impedisce che il problema informi la visione dell’Islam e, di riflesso, del conflitto tra Israele ed alcuni suoi vicini da parte di molti americani. L’opinione pubblica statunitense non è monolitica riguardo al Medio Oriente, né tantomeno immobile nel tempo. Dal 1967 ha subito significativi mutamenti, con alcuni gruppi più favorevoli ad Israele e altri meno. Oggi un minor numero di afroamericani appoggiano il Partito Likud rispetto a quanti erano sostenitori dell’esercito ebraico durante la seconda guerra mondiale. Nuovi cambiamenti potrebbero subentrare. Delle leadership palestinesi ed arabe più sensibili ai valori ed alle priorità politiche della cultura politica americana potrebbero sviluppare nuove e più efficaci tattiche al fine di indebolire, piuttosto che rafforzare, il sostegno americano allo Stato d’Israele. Ad esempio, la fine degli attacchi terroristici, assieme ad una ben organizzata e disciplinata resistenza civile nonviolenta, potrebbe modificare la percezione Jacksoniana della lotta palestinese. È altresì possibile che con il passare del tempo gli evangelici ed i fondamentalisti americani possano ripercorrere le orme di Jimmy Carter, da un sionismo di gioventù a ciò che egli definirebbe come una posizione più equilibrata. Ma se Israele dovesse affrontare una qualsiasi seria crisi, sembra più probabile che l’opinione pubblica si attesti su posizioni opposte. Molti degli americani che oggi invocano una politica più neutrale nei confronti dei palestinesi la chiedono poiché ritengono Israele fondamentalmente sicuro. Qualora tale valutazione dovesse modificarsi, i sondaggi d’opinione potrebbero rivelare livelli persino più alti di gradimento per il sostegno statunitense a Israele. Almeno una cosa sembra chiara. In futuro, così come nel passato, la politica mediorientale degli Stati Uniti continuerà, nel bene o nel male, ad essere plasmata dalla volontà della maggioranza dei cittadini, e non dalle macchinazioni di una qualsiasi minoranza, quantunque ricchi o coinvolti nel processi politici alcuni dei suoi membri possano essere. 49
Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES
Un mercato europeo della difesa sempre più integrato Fra metà dicembre e metà gennaio l’Unione europea ha sistemato tre importanti tasselli del mercato europeo della difesa: la Direttiva sugli acquisti pubblici di prodotti per la difesa e la sicurezza, la Direttiva sui trasferimenti intracomunitari e la Posizione Comune che rende obbligatorio il Codice di condotta dell’Ue sulle esportazioni militari verso Paesi terzi. Tutte queste decisioni sono il risultato della consapevolezza Ue che la frammentazione nazionale del mercato europeo non è più compatibile con lo scenario europeo e internazionale. I soggetti interessati si sono arresi di fronte al cambiamento: la Commissione europea ha riconosciuto che la specificità del mercato della difesa richiede regole particolari; i governi europei, che l’efficienza delle Forze Armate richiede equipaggiamenti più avanzati al minor prezzo possibile e, quindi, un’industria più efficiente e competitiva; le imprese europee, che è necessario avere un mercato di riferimento continentale, anche se devono accettare una maggiore competizione sui mercati domestici. La Direttiva sugli acquisti pubblici militari offre una dettagliata regolamentazione di come dovranno essere fatti i futuri acquisti nel campo della difesa e della sicurezza. Il suo campo di applicazione comprende anche i prodotti “sensibili”, cioè quelli che coinvolgono informazioni non liberamente divulgabili, e riguarda, quindi, anche le forze di polizia. Le nuove minacce non sono più solo militari e il confine fra sicurezza e difesa sta diventando sempre più labile. Anche l’acquisizione degli equipaggiamenti necessari per contrastare terrorismo e criminalità organizzata potrà utilizzare la stessa regolamentazione “speciale” destinata ai prodotti militari. La procedura preferenziale sarà quella della trattativa privata in un quadro di competizione controllata, salvaguardando le esigenze delle Forze Armate in termini di affidabilità del fornitore. In alcuni casi, però, il ricorso ad una competizione non è possibile: la nuova Direttiva prevede, quindi, alcune esclusioni, come 50
nel caso dei programmi gestiti da Agenzie Nato o dall’Agenzia europea Occar, dei programmi di collaborazione intergovernativa europea che contengano attività di R&S, dei progetti di R&S (fino allo stadio dei dimostratori tecnologici). La Direttiva sui trasferimenti intra-comunitari di prodotti militari abolisce, di fatto, le barriere nazionali e consentirà di muovere i prodotti all’interno dell’Europa con il minimo controllo richiesto dalla sensibilità dei prodotti militari. Vi saranno tre forme di autorizzazione: licenza generale, globale e individuale. La prima consentirà il trasferimento di tutti i prodotti selezionati da ciascun Paese (soprattutto quelli meno “sensibili”) negli altri Paesi europei a condizione che siano utilizzati dalle Forze Armate o che siano ricevuti da imprese “certificate” dal proprio governo. La seconda permetterà il trasferimento di uno specifico elenco di prodotti fra specifiche società (ad esempio, appartenenti ad uno stesso gruppo industriale o partecipanti ad un programma di collaborazione). La terza (l’unica utilizzata oggi in quasi tutti i Paesi europei) resterà limitata ad operazioni singole (soprattutto quelle che coinvolgono prodotti “sensibili”). Ogni Paese sarà libero di fissare limitazioni alle esportazioni verso Paesi non-europei, ma la logica del nuovo sistema è quella di delegarne la responsabilità al Paese in cui l’equipaggiamento viene integrato. La Posizione Comune, infine, rende vincolante il Codice di condotta per le esportazioni militari verso Paesi terzi, adottato nel 1998. In questi 10 anni i suoi criteri guida per l’autorizzazione delle esportazioni sono stati così assimilati che il numero delle divergenze di valutazione è limitatissimo, prefigurando una sostanziale politica esportativa europea. A partire dal 2011-12 (termine per il recepimento delle Direttive) il mercato europeo della difesa cesserà di essere solo un’obiettivo e si avvierò a diventare una realtà concreta. La strada è stata tracciata.
editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE
A Gaza, a Gaza! Ma chi e perché? Mentre proseguono i negoziati indiretti tra Hamas ed Israele per addivenire ad un effettivo accordo di cessate il fuoco e mentre continuano le schermaglie tra le parti, sembra essere calato un imbarazzato silenzio sulle proposte ed offerte che l’Italia aveva formulato quando ancora la guerra era in pieno svolgimento. Il premier aveva parlato di un intervento di Carabinieri per pattugliare il confine tra Egitto e la Striscia di Gaza, nonché di forze navali per sorvegliare le frontiere marittime e dichiarazioni analoghe erano arrivate anche dal ministro della Difesa, mentre già si parlava di ridistribuire gli sforzi delle Forze Armate tra i diversi teatri e missioni, in modo da racimolare personale da poter eventualmente impiegare a Gaza. Poi, un passo alla volta, c’è stata l’abituale retromarcia, fino a quando il ministro degli Esteri, Frattini, non è intervenuto dichiarando che le forze italiane non saranno impegnate fino a quando a Gaza governerà Hamas, il che vuol dire…mai! È una grande fortuna per l’Italia che Hamas non voglia soldati stranieri, specie se non musulmani, sul “proprio” terreno. Le forze internazionali saranno eventualmente rappresentate da truppe turche, mentre la maggior responsabilità continuerà a ricadere sull’Egitto. Una missione internazionale a Rafah e a largo delle coste di Gaza non potrebbe che avvenire sotto l’egida dell’Onu ed è curioso constatare che un governo che non ha lesinato le critiche alla Unifil II in Libano, salvo poi (molto opportunamente) evitare di chiudere o di ridimensionare la nostra presenza nel Paese dei Cedri, abbia espresso tanto entusiasmo per una possibile missione analoga a Gaza. Missione dai contorni estremamente vaghi, mentre si può essere certi che si tratterebbe/sarebbe trattato di una missione a lungo, lunghissimo termine, piuttosto costosa e pericolosa. Per avere successo, impedire il contrabbando di armi e materiali verso Gaza e violazioni dei confini una forza internazionale dovrebbe essere abbastanza robusta,
consistente e dotata anche di assetti aerei di sorveglianza/collegamento/supporto, quali elicotteri e velivoli senza pilota. Insomma qualcosa di molto diverso rispetto al piccolissimo contingente dei Carabinieri schierato prima del conflitto. Si sarebbe dovuto trattare di un contingente ben più numeroso, dotato di “muscoli” per difendersi e per garantire l’esecuzione del mandato, nonché di significative capacità tecniche per riuscire a individuare e, sperabilmente, a chiudere i tunnel sotterranei. Non si capisce poi perché a svolgere funzioni “doganali”/confinarie estese avrebbero dovuto provvedere i Carabinieri, che non hanno particolare esperienza o competenze in materia e non piuttosto la Guardia di Finanza, insieme all’Esercito. Dopo tutto si tratta di un Corpo a ordinamento militare che ha tra i compiti di istituto proprio la sorveglianza dei confini e la repressione del contrabbando e di altri traffici illeciti. In terra e in mare. Ed infatti considerando che Gaza ha ben pochi porti e coste lunghe una quarantina di km ben avrebbe potuto occuparsene la Finanza, che ha una “flotta” di tutto rispetto, per consistenza, tonnellaggio, esperienza ed equipaggiamento. Senza bisogno di scomodare la Marina Militare. Insomma se si fosse dato seguito ai proclami iniziali si sarebbe combinato un costoso e dispendioso papocchio. Inutile sperare che questa esperienza suggerisca una maggiore prudenza per il futuro, ma quantomeno dovrebbe portare ad una più attenta considerazione delle capacità e know-how disponibili, per poi scegliere le forze più indicate per rispondere alle esigenze specifiche. Posto che se eviteremo di farci impelagare in una eventuale missione Onu a Gaza….avremo compiuto una scelta saggia. Possiamo sicuramente lasciare questo onore-onere alla Francia. Il Libano all’Italia può bastare. 51
S
CENARI
IRAN
CHI SOSTIENE IL FANATISMO DI AHMADINEJAD?
I
DI
GENNARO MALGIERI
l “sogno” asiatico di George gno contro il moderato e “dialoW. Bush non si è realizzato. gante” Mohammad Khatami, già L’ex-presidente americano al vertice dello Stato dal 1997 al immaginava che dalle guerre in 2005, che ha annunciato la sua Afghanistan e in Iraq sarebbe intenzione di ripresentarsi, dopo venuta fuori una sorta di rivolu“l’esilio” di Qom, per dare zione geopolitica nell’area che all’Iran stabilità e riprendere la avrebbe innescato un meccanivia dell’avvicinamento all’Occismo di dissoluzione dell’Iran. È dente sbarratagli dall’ala più andata esattamente al contrario. Il intransigente del regime ed in regime degli ayatollah si è rafforparticolare dalla guida spirituale Un politico modesto, zato, mentre nei due Paesi confiAlì Khamenei, successore di nanti il terrorismo, le bande assassi- detestato dai giovanissimi Khomeini e padrone assoluto del (che costituiscono la parte ne, i clan, le tribù hanno ripreso a più consistente della società Paese. male dal iraniana), guardato spadroneggiare. Tanto a Baghdad È difficile dire se Khatami riusciclero, ma con una solida base quanto a Kabul si teme il peggio. negli apparati più estremisti rà nell’intento. Non dimentichiaSe i fedeli di Saddam Hussein sono del regime. Contro di lui, alle mo che i Guardiani della Rivoelezioni, Khatami prossime stati sgominati, non significa che la luzione hanno decimato i cosidpacificazione dell’Iraq sia a portata detti riformisti riducendoli ad di mano. In Afghanistan non regna un’irrilevante pattuglia al Majlis, l’ordine americano ed i talebani diventano ogni il parlamento di Teheran. Chi appoggerà quello che giorno più minacciosi, mentre la vecchia cultura tri- è stato il loro capo, debole peraltro e senza molto bale mostra insofferenza verso una sia pur timida seguito nel Paese dopo la delusione cocente che le modernizzazione. L’Iran non si limita a guardare e a sue timidezze hanno provocato nella borghesia iradifendere le proprie frontiere, ma si erge a protetto- niana che lo appoggiava? Dalla sua Khatami ha re del mondo musulmano con l’aggressività di un l’antipatia di Ahmadinejad. Il quale, a parte basiji, sistema ideologico, economico, militare e politico pasdaran e consistenti nuclei delle forze armate, tenuto insieme con il collante dello sciismo. A tren- non può contare neppure sulla totalità del clero che t’anni dalla rivoluzione khomeinista è questo il ha visto le sue posizioni estremiste pericolose per bilancio che il presidente Mahmoud Ahmadinejad l’Iran, lo sciismo e la Umma, vale a dire la comunipresenta al Paese ricandidandosi alle elezioni di giu- tà universale musulmana. Neppure i bazarì, potenti 52
scenari commercianti, devoti a Khamenei, al quale elargiscono oboli considerevoli, lo hanno in simpatia. Per non parlare di tutti coloro i quali temono ripercussioni dalle sue furenti intemerate contro Israele, gli Stati Uniti e l’Occidente. Sicuramente non avrà il voto dei giovani molti dei quali, i meno ideologizzati, restarono scioccati dal suo discorso pronunciato il 26 ottobre 2005 a Teheran, a conclusione della conferenza “Un mondo senza sionismo”, e poi ripetuto ossessivamente. Fu allora, per la prima volta, che il neo-presidente annunciò il proposito di “cancellare il regime di occupazione - cioè Israele - dalle carte geografiche, assicurando che la lotta dei palestinesi e di tutti i musulmani «eliminerà questa macchina disgraziata dal mondo islamico». Chiarendo, a chi non l’avesse capito, che «un mondo senza gli Stati Uniti e il sionismo è possibile». Per di più l’Iran nelle sue componenti più dinamiche ed “aperte” comincia a sentirsi accerchiato ed è una sensazione cha anche molti esponenti politici di primo piano avvertono senza manifestare il disagio per timore di rappresaglie. Il fronte esterno scricchiola. Chi ha avuto modo, come il sottoscritto, di incontrare governanti e parlamentari siriani di recente ha avuto la sensazione che Ahmadinejad stia diventando un problema del quale farebbero a meno. Gli sono rimasti Hezbollah in Libano ed Hamas nella Striscia di Gaza. Un po’ poco per ambire a una leadership nell’area e pretendere di assumere la guida del mondo musulmano. Gli resta la minaccia nucleare per catalizzare attorno al regime i «nemici del sionismo e dell’Occidente». Ma anche questa potrebbe rivelarsi un bluff e oltre gli Stati Uniti, direttamente interessati a smantellare l’arsenale iraniano sono lo stesso Iraq, il Pakistan, l’Arabia Saudita e in misura minore la Turchia. Su chi può contare, oltre ai fanatici, il fanaticissimo Ahmadinejad? Egli, invenzione di Khamenei per togliersi dai piedi i riformisti, non è un religioso e neppure un intellettuale; non fa parte della casta degli sciiti, ma non ha
saputo in quattro anni neppure prendere le distanze da loro sostenendo, come qualcuno ingenuamente si attendeva, la difesa della laicità dello Stato. Ha vinto le elezioni grazie ai delusi da Khatami e ad una borghesia che non ha creduto nella sua vittoria al punto da non votare e lasciare solo Rafsanjani. Agli ayatollah deve tutto, ma cinici come sono, quando capiranno che può essere più un ingombro che una risorsa, non esiteranno a mollarlo. Insomma, un politico modesto, detestato dai giovanissimi che costituiscono la parte più consistente della società iraniana, guardato male dal clero, con una sia pur solida base negli apparati più estremisti del regime, Ahmadinejad ha mostrato tutti i suoi limiti, quegli stessi riconosciutigli come sindaco di Teheran. E inoltre poco si confà alle ambizioni di un mondo comunque in crescita che sogna impossibili (per ora) aperture, ma che guarda all’Occidente con interesse maledicendo coloro che trent’anni fa bloccarono lo sviluppo di un Paese che aveva tutto per poter primeggiare non soltanto nell’area. Infatti, la società iraniana è sostanzialmente laica, soprattutto nelle grandi città; il mondo imprenditoriale è piuttosto avanzato considerando le condizioni in cui opera; nonostante i rapporti tesi con il resto del mondo le esportazioni iraniane di petrolio, manufatti e frutta garantiscono un fatturato considerevole. Tuttavia l’economia ristagna, domina un forte malcontento popolare accompagnato da un pessimismo che si tocca con mano se soltanto si ha la possibilità di scambiare qualche parola con i giovani che affollano gli internet cafè, guardati male dai pasdaran, oppure con imprenditori e “donne di compagnia” nei grandi alberghi di Teheran Nord.
Ahmadinejad ha comunque raccolto un’e-
conomia stagnante, nonostante le risorse che potrebbe sfruttare. Nel 2007 il tasso medio di inflazione è stato del 17%, il Pil ha rallentato costantemente la sua crescita e il debito pubblico è aumentato vertiginosamente. Non ha aiutato la ripresa la crescente statalizzazione dell’economia (proprio ciò contro 53
scenari cui si erano battuti studenti ed intellettuali nella rivoluzione del 1979) sottolineata da un dato assai eloquente: l’85% delle entrate statali viene dal petrolio. Soprattutto negli anni Novanta il regime iraniano ha avuto la capacità di sopravvivere ai mutamenti e fronteggiare il balzo demografico, utilizzando strumentalmente (come aveva fatto a suo tempo Khomeini con Bani Sadr ed i mujaheddin del popolo) i vari politici di turno che di volta in volta reputava più utili ai suoi fini: prima il laico-religioso Rafsanjani, poi il riformista Khatami (nella foto), e tra i due sempre e comunque Khamenei, non a caso scelto come suo successore per tenere a bada riformisti e conservatori a seconda dei momenti. Agli ayatollah va comunque riconosciuta l’abilità di garantirsi la sopravvivenza manovrando laici e religiosi a seconda della bisogna. Inflessibili nello stroncare i movimenti di rinnovamento; duttili nell’assecondare le esigenze e le richieste di quegli strati prevalenti della società che gli assicuravano la continuità. La stesso khomeinismo nacque e si sviluppò nel segno dell’opportunismo mascherato da intransigenza. La rivoluzione, infatti, che culminò nel ritorno in patria, dopo il lungo esilio parigino di Khomeini, politico scaltro, ma teologo irrilevante nel mondo religioso sciita, fu animata non soltanto da movimenti radicali musulmani, ma anche da organizzazioni laiche, intellettuali, studenti, categorie, insomma, che volevano riprendersi la loro libertà e facevano coincidere tale istanza con la “reislamizzazione” del Paese che Reza Phalavi aveva sostanzialmente avversato. Fu, dunque, una rivoluzione antioccidentale, identitaria, libertaria al punto che Bani Sadr, esule a Parigi come Khomeini, dopo essere stato per soli quattro mesi presidente dell’Iran, fantoccio nelle mani di burattinai sinistri, sconsolato ammise di aver creduto che il nuovo leader, pur essendo
un esponente del clero, non era un fanatico sprovveduto. Cacciato Bani Sadr, affidato formalmente per un brevissimo periodo il potere a Mohammad Alì Rajai, assassinato in circostanze oscure, Khomeini mise l’Iran nelle mani del presidente Alì Khamenei il quale per quasi trent’anni, scanditi dallo sprofondamento dell’Iran nelle tenebre dell’oscurantismo, delle guerre sanguinosissime (quella con l’Iraq fu un vero martirio per oltre un milione di giovani che vi persero inutilmente la vita e durò dieci anni), della repressione sistematica del dissenso, dell’influenza crescente nel mondo islamico al punto di sostenere terroristi come Hamas e puntare alla creazione di un mini Stato islamico nella Striscia di Gaza quale minaccia permanente a tutto il Medio Oriente ed all’Europa.
In verità tanto
il successore di Khamenei, Rafsanjani (due volte presidente: dal 1989 al 1997) che Khatami, hanno fatto ben sperare sull’avvenire se non proprio democratico del Paese, quanto meno sulla ritrovata ragionevolezza del regime. In realtà sono state illusorie le aspettative suscitate. Nessuno, tuttavia, dentro e fuori i confini dell’Iran, immaginava, nel giugno del 2005, l’ascesa al potere di Mahmud Ahmadinejad, di cui s’è detto, incarnazione del khomeinismo più brutale. La sua elezione alla presidenza della Repubblica islamica iraniana terremotò la geopolitica dell’area e
Agli ayatollah va riconosciuta l’abilità di sopravvivere manovrando laici e religiosi a seconda della bisogna. Inflessibili nello stroncare i movimenti di rinnovamento; duttili nell’assecondare le esigenze e le richieste della società 55
Risk la strategia dell’Occidente che si apprestava a gestire la pacificazione dell’Iraq e la soluzione del conflitto israelo-palestinese dopo le “aperture” di Ariel Sharon. Ahmadinejad ha mandato a monte le illusioni di quanti speravano in un processo di accettabile democratizzazione ed ha riaperto ferite antiche.
Ahmadinejad, al momento dell’elezione era
sindaco della capitale. Personaggio inquietante fin nell’aspetto, accusato apertamente di essere stato un sicario durante la rivoluzione, secondo qualcuno (ma le voci sono tante e le verifiche impossibili) responsabile dell’eliminazione di esponenti monarchici e liberali, affrontò la campagna elettorale, così come aveva svolto le sue funzioni di primo cittadino di Teheran, in chiave apertamente populista,
recente passato fatto di illusioni. Sei mesi prima delle elezioni ero a Teheran con una delegazione del Parlamento italiano. Incontrai anche Ahmadinejad nel suo ruolo di sindaco. Sapevo già chi era, ma l’impressione che ne riportai superò ogni più fosca aspettativa. Il suo eloquio da invasato, gli occhi fiammeggianti attraversati da una luce sinistra, le facce poco rassicuranti dei collaboratori che gli facevano corona, gli argomenti datati e polverosi che spiattellava compiaciuto a testimonianza della sua purezza rivoluzionaria, la certezza della vittoria sull’odiato Israele e gli accenni, tutt’altro che diplomatici, alle presunte responsabilità dell’Occidente riguardo alla situazione in Medio Oriente, gli accenni alla necessità per l’Iran di continuare la corsa all’arricchimento dell’uranio, mi fecero intendere che questo “figlio” della rivoluzione, orgoglioso di aver preso parte all’occupazione dell’ambasciata americana che mise definitivamente in crisi i rapporti con gli Stati Uniti, avrebbe avuto un nefasto ruolo sul futuro del suo Paese. E così è stato. Ebbi, in quell’occasione, la percezione, purtroppo poi confermata dai fatti, che se Ahmadinejad fosse diventato presidente, circostanza che tutti negavano, ma tutti sapevano che ci avrebbe quantomeno provato, l’Iran sarebbe tornato irrimediabilmente indietro, non tanto sotto il profilo dei costumi (su questo tema bisognerebbe intrattenersi a lungo ed in un’altra occasione), quanto nella direzione di un deprecabile dirigismo economico, in un’accentuazione delle politiche populiste, in una ripresa dell’aggressività esterna. L’attivismo rivoluzionario di Ahmadinejad si spiega anche con l’esigenza di offrire ai suoi sponsor il massimo dell’affidabilità. Sarà bene ricordare che coloro i quali facevano e fanno riferimento alla Guida spirituale e ai pasdaran, alla vigilia delle elezioni, al fine di contrastare Rafsanjani o, come si diceva, l’ex-ministro degli esteri Velayati che aveva
A differenza di un rozzo come Ahmadinejad, Khatami ha avuto il coraggio, nonostante i risentimenti dell’establishment, di scrivere saggi con “perle” di questo genere: «L’arbitro definitivo per l’instaurazione dello Stato è il popolo» spalleggiato dai pasdaran e dai basiji - i custodi armati e violenti dello “spirito” rivoluzionario e della moralità pubblica - rispolverando il più logoro bagaglio anticapitalista di Khomeini, scagliandosi contro le promesse egalitarie “tradite”, a suo dire, dai riformatori come l’ex-presidente Khatami e facendo leva sui temi sociali che gli “illuminati” progressisti hanno nascosto come polvere sotto i tappeti facendo crescere, nel corso negli ultimi anni, un malessere diffuso riversatosi, al momento del voto, su un personaggio impresentabile, ma che garantiva, evidentemente, la discontinuità con un 56
scenari mostrato interesse a ridiscendere in campo, avrebbero voluto candidare personalità più “presentabili” politicamente. Non trovarono però un accordo e si divisero su quattro nomi tutti afferenti, in un modo o nell’altro, all’universo chiuso e violento dei pasdaran: Qalibaf, ex-capo della polizia, Larjani, espressione del potere giudiziario e già direttore della Tv di Stato, Rezai, ex-capo dei pasdaran ed, infine, il sindaco della capitale. Per motivi che resteranno chissà per quanto misteriosi, Khamenei decise, convincendo pasdaran, basiji e gli esponenti più influenti del bazar e delle associazioni caritatevoli (che sono una vera potenza in Iran) a sostenere il “docile” e ambizioso Ahmadinejad. Ma c’è un altro livello di analisi sul quale puntare per comprendere l’ascesa del Signor Nessuno di Teheran e spiegare la sua insensata politica di aggressione. Ed è un livello che tiene conto delle esigenze economiche e sociali che dominano le preoccupazioni degli iraniani. Rafsanjani, uno degli uomini più ricchi e potenti del Paese, prometteva riforme economiche in chiave di liberalizzazione più o meno “selvaggia”, dimenticando che il liberismo, i cui effetti negativi si sono fatti sentire in tanta parte del Terzo Mondo, contrastava perfino con i dettami della dottrina khomeinista fondata su un pauperismo di facciata (la nomenklatura, il clero, i “padroni” del bazar godono di una prosperità notevole) e su un rigore morale anch’esso ipocrita. Il regime, comunque, distribuisce ai più indigenti ogni anno miliardi di dollari in prodotti di prima necessità, dal pane agli alloggi, dal latte alla benzina, che non potrebbe più permettersi in un sistema di libera concorrenza. Non è stato proposto dai riformatori alcun tipo di “terza via” per scardinare il regime e così il ceto umile che non è disposto a perdere piccoli privilegi ha accompagnato l’ascesa di chi gli garantiva un ragionevole stato di miseria sostenuto dal soddisfacimento dei bisogni elementari. Lo sviluppo non interessa al regime teocratico: basta che le gerarchie vivano e dominino sull’indigenza per garantire l’ordine a Teheran.
E quando questo non dovesse bastare, vi sono sempre i pasdaran pronti ad entrare in azione. Un sistema, insomma, chiuso la cui manifestazione “migliore” è proprio Ahmadinejad. Di questa “chiusura” è espressione la struttura della società iraniana fondata, oltre che sulla rigida ripartizione di funzioni nell’ambito del potere (Guida spirituale, Consiglio dei Guardiani della Rivoluzione, Majilis - che ha soltanto un potere legislativo-consultivo - forze armate, pasdaran e magistratura, controllate direttamente dalla Guida), sul clero sciita, sul bazar e sui bonyad. Il primo, come si sa, ha avuto un ruolo centrale nel nuovo Iran prendendo su di sé il ruolo di indirizzo e di controllo della popolazione. Dal tempo della rivoluzione quasi tutte le cariche di rilievo sono state ricoperte da membri influenti del clero. Il bazar comprende la classe mercantile che ha beneficiato di appalti e contratti, munificamente elargitigli dal clero in cambio del suo asservimento e della costruzione di moschee oltre che del sostegno agli ambienti più ortodossi del regime. I bonyad si sono affermati come organizzazione caritatevole di aiuto ai più disagiati, ma anche loro hanno avuto in cambio enormi benefici soprattutto nell’ambito del commercio petrolifero. Negli ultimi anni la nomenklatura ha cercato di arginare il loro potere, ma senza riuscirci.
Queste strutture
sono state determinanti per l’affermazione di Ahmadinejad il quale ha mostrato quasi di volersi emancipare dai suoi tutori. Non c’è riuscito finora e difficilmente ci riuscirà, anche se non è da escludere un conflitto interno al regime, qualora Ahmadinejad sopravvalutasse la sua influenza nell’Iran impaurito ed incerto. I riformisti, dunque, che fine hanno fatto? Sono stati semplicemente cancellati. Per incapacità e codardia. L’abbraccio, presumibilmente istituzionale e convenzionale, tra Ahmadinejad e Khatami, avvenuto due anni fa, alla vigilia del ritiro provvisorio, come s’è visto, del secondo dalla scena poli-
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Risk tica, ha fatto capire come l’opportunismo degli ayatollah sia imprevedibile. Adesso che l’ex-presidente ridiscende in campo è immaginabile un’inversione di tendenza a Teheran? Nessuno pensava, al tempo di Khatami, che il Paese si sarebbe dovuto occidentalizzare per poter rientrare a pieno titolo a far parte della comunità internazionale. Anzi, al contrario, alcune idee dell’allora presidente vennero considerate come le basi per una cooperazione più stretta tra mondi ritenuti fino a poco prima incomunicabili. In un suo acuto saggio sulla libertà nell’Islam ed in Occidente, Khatami scrisse: «Come la civiltà occidentale ha usufruito in larga misura della civiltà islamica, la civiltà islamica dei “tempi d’oro” ha usufruito in larga misura delle civiltà iranica e greca. Mi domando dunque: in questo tempo in cui la civiltà dominante è l’occidentale, e noi musulmani abbiamo perso la nostra civiltà antica, che cosa dobbiamo fare? Se vogliamo essere presenti e attivi nel nostro tempo, vorrà dire che dobbiamo tornare alla civiltà che ha preceduto la civiltà occidentale? Si tratta di una concezione regressiva. Oppure vogliamo giungere ad una fase successiva alla civiltà occidentale, oppure ancora dissolverci nella civiltà occidentale? I tradizionalisti affermano: «dobbiamo tornare al passato». I seguaci dell’Occidente replicano: “dobbiamo dissolverci nell’Occidente”. Ma a mio parere, i pensatori che davvero si preoccupano della propria religione, del proprio popolo, della propria cultura nazionale, insegnano: “dobbiamo spingerci alla fase successiva all’Occidente, e questo impegno necessita di un nuovo modo di guardare alle nostre risorse religiose”. Nel tempo in cui viviamo dobbiamo scegliere un modo di guardare di questo tipo, cioè dobbiamo conoscere i problemi e i bisogni del nostro tempo. Quando affermiamo che dobbiamo raggiungere il “dopo-Occidente”, oltrepassare l’Occidente, intendiamo che dobbiamo fare nostri tutti i prodotti umani e positivi della civiltà occidentale e guardare la situazione dal punto di vista della nostra fede e in base ai valori del nostro pensiero. Ciò che manca all’Occidente, lo aggiungiamo noi. 58
In questo senso intendo il concetto di “utilizzare l’Occidente”: perché io penso a ciò che verrà dopo l’Occidente, non a ciò che è accaduto prima dell’Occidente». Accenti lontani. Quasi impercettibili. La siderale distanza tra le minacciose parole di un residuo del peggior khomeinismo come Ahmadinejad e di un “illuminato” come Khatami non potrebbe essere rappresentata meglio. Disgraziatamente il primo domina con ambizioni folli un Paese fragile, il secondo non ha neppure tentato di realizzare la sua rivoluzione, immaginando, forse, che il popolo si sarebbe spontaneamente sollevato. Strabismo da mullah. L’Iran, intanto, affonda nelle contraddizioni che da decenni non riesce a risolvere.
La ricandidatura di Khatami,
nonostante tutto, accende nuovamente le speranze. Ma lo scetticismo è d’obbligo. Su chi può contare? E soprattutto perché dovrebbe essere votato dopo aver deluso? A dire la verità un’attenuante ce l’ha: l’Occidente ha fatto male a non credere in lui. Il più delle volte è stato considerato un visionario o la faccia presentabile dell’impresentabile regime degli ayatollah. Dopo le esperienze recenti bisogna fargli credito necessariamente. E, soprattutto ricordare che il 23 maggio 1997 divenne presidente della Repubblica Islamica dell’Iran con il 70% dei consensi, promettendo equità sociale e democratizzazione. Non gli hanno permesso di attuare il suo programma. Non glielo ha permesso neppure l’Occidente che, miope, non si è fidato di lui avendone avuto la possibilità. Eppure, a differenza di un rozzo semianalfabeta come Ahmadinejad, Khatami ha avuto il coraggio, nonostante i risentimenti che provocava nell’establishment più ottuso, di scrivere saggi che contenevano perle di questo genere: «L’arbitro definitivo, per l’instaurazione dello Stato, è il popolo. In ciò consiste la democrazia». Era l’estate 1996. L’Iran viveva un’altra rivoluzione. Nove anni dopo sarebbe precipitato nell’abisso.
scenari
AFGHANISTAN
PERCHÉ NON BISOGNA MOLLARE KARZAI
H
DI
AHMAD MAJIDYAR
amid Karzai è stato un parta il successivo problema da tner affidabile per affrontare. Secondo il rappresenWashington, ma negli ultitante speciale dell’Onu per mi due anni il suo potere è andato l’Afghanistan, Kai Eide, la sicuscemando. Attualmente il governo rezza è ai minimi storici dai tempi afghano controlla solo il 30% del della caduata dei talebani. La territorio nazionale, e le organizzarivolta, che prima era circoscritta zioni umanitarie considerano qualalle province meridionali - come si la metà del Paese come troppo Helmand e Kandahar - adesso ha pericolosa per i propri operatori. Il raggiunto anche regioni più tran2008 è stato l’anno che ha visto il quillle nell’Afghanistan centrale e Il posticipo delle elezioni maggior numero di morti, tra le occidentale, tra cui le province di al 20 agosto rischia di consegnare il Paese forze della coalizione, dalla caduta Farah, Badghis, Logar e Wardak. I nelle mani dei talebani dei talebani nel 2001. Nei primi otto talebani hanno conquistato il cone di trasformarsi mesi dell’anno, oltre 1.445 civili trollo di alcuni distretti di provinnel principale autogol di Obama, mentre l’attività sono rimasti vittime delle azioni dei ce vicine a Kabul, minacciando la dei ribelli è ai massimi livelli talebani, del fuoco incrociato delle capitale del Paese, anche con un dai tempi dell’invasione truppe alleate e di attentati terroristirecente attentato. Pare che quattro guidata dagli Usa nel 2001. Ecco cosa può accadere ci. Per far sì che il presidente afghadistretti su sette, nella provincia di e chi contende no possa acquisire la legittimità Logar, siano sotto il controllo dei la poltrona a Karzai popolare necessaria per guidare talebani. Vi è stato anche un efficacemente questo Paese multietaumento degli attentati kamikaze, nico, il tempestivo svolgimento delle elezioni presi- di attacchi con uso di razzi e omicidi politici. Lo stesdenziali nei termini previstoi dalla Costituzione si so Karzai è sfuggito a quattro attentati, il più recente sarebbe rivelato essenziale. Così non sarà, visto che dei quail è avvenuto il 28 aprile 2008, giorno in cui a sono state programmate per il 20 agosto prossimo. Kabul si festeggia l’indipendenza. Il 7 luglio 2008, un Comunque: nell’ottobre del 2004, Karzai fu eletto per attentato kamikaze contro l’ambasciata indiana a un mandato quinquennale nella prima elezione diretta Kabul ha provocato la morte di 41 persone ed il feridel presidente della storia dell’Afghanistan, e le ele- mento di oltre 140. Incoraggiato dal successo di tali zioni di quest’anno dovranno dimostrare l’intenzione azioni, nell’agosto del 2008 un talebano ha ucciso tre degli afghani di contrastare gli estremisti che si oppon- operatori umanitari a Logar, a meno di 100 chilometri gono al processo democratico in atto nel Paese. a sud di Kabul. Il mese successivo, i talebani hanno Stabilita la data delle elezioni, la sicurezza rappresen- ucciso il governatore di Logar, Abdullah Wardak. 59
Risk Mentre il 14 novembre 2008, dei sicari hanno assassinato a colpi di arma da fuoco Maulvi Shamsuddin, capo di un consiglio religioso nella provincia occidentale di Farah, al confine con l’Iran, come risposta ai sermoni in cui il religioso si scagliava contro agli attentati kamikaze e la violenza. Infine l’11 febbraio di quest’anno un dublice attentato suicida ai Danni di edifici governativi ha provocato innumerevoli vittime. Nonostante la crescente insicurezza, il 6 ottobre 2008 la Commissione Elettorale Indipendente (Cei) ha avviato la prima delle quattro fasi previste per l’iscrizione dei cittadini nelle liste elettorali, durante la quale si sono iscritti 1 milione di aventi diritto in 14 province dell’Afghanistan settentrionale, nordorientale e centrale. Un mese dopo, è partita la seconda fase di iscrizioni in dieci province, prevalentemente nelle regioni del nord. La terza e quarta fase, avviate nelle province meno stabili nel sud e sudest del Paese, dovrebbero concludersi prima della fine di febbraio 2009. Il coinvolgimento dei talebani, i quail hanno respinto i tentativi compiuti dalla Cei per convincerli a partecipare alle elezioni, non eviterà la violenza. A dicembre il Mullah Omar, leader dei talebani, ha lanciato un appello agli afghani dalla clandestinità in cui vive, alla vigilia della festa musulmana dell’Eid, esortandoli a boicottare le elezioni e promettendo rinnovati attacchi da parte dei ribelli se le truppe straniere non dovessero lasciare il Paese. «Non fatevi ingannare da questo falso annuncio di elezioni. In realtà la scelta verrà fatta a Washington». Il 14 ottobre, il capo della Cei della provincia di Logar ha dichiarato che le iscrizioni elettorali si erano ridotte del 30% nella provincia dopo la distibuzione nei villaggi, da parte dei talebani, di lettere in cui si avvertiva la popolazione a non iscriversi. Il 20 ottobre, i talebani hanno distrutto un ufficio elettorale a Ghazni e poi ucciso un funzionario elettorale il 9 novembre.
L’esito delle elezioni è incerto. Karzai rappresenta il volto dell’Afghanistan in Occidente, ma internamente la sua eredità è ridotta a brandelli
due dipendenti dell’ufficio elettorale di Wardak, una provincia vicina a Kabul in cui regna l’instabilità. I funzionari statunitensi hanno descritto lo svolgimento delle iscrizioni elettorali in Afghanistan come tranquillo e riuscito. Un tale ottimismo è prematuro, soprattutto perché questo processo è solo all’inizio nelle zone più calde della rivolta. Contrariamente alle elezioni precedenti, la Polizia di Stato afghana dovrebbe occuparsi dell’aspetto sicurezza. Ma un rapporto scritto da Grant Kippen, ex capo della Commissione afghana sui reclaim elettorali, avverte come l’impossibilità da parte della polizia di raggiungere alcune zone dell’Afghanistan meridionale possa privare molti pashtun del diritto di esprimere il proprio voto. Il 12 novembre 2008 Ronald Neumann, l’ambasciatore americano in Afghanistan dal 2005 al 2007, ha dichiarato in un’intervista quanto segue: «Nonostante i rischi legati alla sicurezza, le elezioni possono svolgersi senza intoppi anche all’interno del quadro attuale, se ci si prepara in modo adeguato sulla base di una valutazione approfondita, volta a stabilire le priorità ed identificare le carenze», un modo un po’ vago per affermare che un po’ di insicurezza non basterà ad impedire le elezioni. In realtà, il fatto che due tornate elettorali in Afghanistan - le elezioni presidenziali del 2004 e le politiche nel 2005 - si siano svolte con successo in un clima di violenza diffusa, suffraga l’affermazione di Neumann. L’intimidazione non è appannaggio esclusi- a questo punto, quali preparativi sarebbero necessari? vo dei talebani: anche i comandanti locali vi ricorrono. L’annunciato invio di altre 17mila truppe stastunitensi Il 7 novembre, miliziani fedeli al leader di Hezb-e da parte del Segretario alla Difesa Robert Gates, il 21 Islami, il latitante Gulbuddin Hekmatyar hanno rapito novembre 2008, dovrebbe contribuire in qualche
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scenari I POSSIBILI CANDIDATI ALLE PROSSIME ELEZIONI ABDULLAH ABDULLAH. Uno dei consiglieri del defunto leader dell’Alleanza del Nord, Ahmad Shah Masoud, e ministro degli Esteri del governo Karzai dal 2002 al 2006. Non ha ancora rivelato se si presenterà o meno alle elezioni presidenziali ma, secondo indiscrezioni, sarà il candidato designato dal Fnu. Sebbene il padre sia di etnia pashtun originario di Kandahar, Abdullah viene considerato dai più un tagico, a causa dei suoi rapporti con l’Alleanza del Nord.
HAJI MOHAMMAD MOHOQIQ. Presidente di Hezb-e Wahdat, ha svolto un ruolo attivo nella jihad islamica contro i sovietici e si è unito alla Alleanza del Nord per combattere contro i talebani. È stato ministro per la Pianificazione del governo Karzai ed il suo partito recentemente è entrato a far parte del Fnu. Si è candidato alle elezioni presidenziali del 2004, giungendo terzo con l’11,7% dei voti. Pare che abbia intenzione di candidarsi come indipendente alle prossime elezioni.
HEDAYAT AMIN ARSALA. Con un dottorato in economia conseguito presso la George Washington University, Arsala fu vice presidente del Paese durante il governo di transizione per essere poi nominato ministro per il Commercio e, successivamente, vice primo ministro del governo Karzai. Non ha ancora annunciato la propria candidatura, ma secondo alcune voci sarebbe già pronto a scendere in campo nelle prossime elezioni.
GHULAM FAROUQ NAJRABI. Capo del Partito afghano indipendente, un picolo partito poco consociuto di tenedenze nazionaliste ed islamiche. Di etnia tagica, ha partecipato alle elezioni del 2004 raccogliendo solo lo 0,3% dei voti. Correrà anche quest’anno.
RAMAZAN BARSHADOT. Con un dottorato in giurisprudenza conseguito presso l’Università francese di Tolosa, Bashardost è stato ministro per la Pianificazione nell’amministrazione Karzai dal 2004 al 2005. Attualmente è deputato nel parlamento afghano ed è apprezzato a Kabul per la sua attività di contrasto alla corruzione. Ma la sua base elettorale è circoscritta agli Hazara e agli abtianti di Kabul. Ha già annunciato la propria candidatura. EHSAN BAYAT. Dopo essersi laureato in ingegneria presso il New Jersey Institute of Technology, Bayat ha fondato la Wireless Communication Company, la Fondazione Bayat e l’emittente televisiva Ariana in Afghanistan. Tagico di Kabul, l’imprenditore è apprezzato per le sue attività filantropiche in tutto il Paese. Si dice che voglia correre contro Karzai, ma la sua popolarità presso i pashtun è piuttosto scarsa. ABDUL RASHID DOSTUM. Karzai ha nominato Dostum, già comandante miliziano uzbeco filo-sovietico, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito Nazionale Afgano, un incarico più che altro di rappresentanza. All’inizio del 2008 è stato deposto dal suo incarico perché implicato in un caso di rapimento. Nelle precedenti elezioni presidenziali è arrivato quarto, assicurandosi il 10% dei voti. ASHRAF GHANI. Economista di fama mondiale, Ghani è stato un personaggio chiave nella formazione del governo afghano dopo la caduta dei talebani. Attualmente Presidente dell’Istituto per l’efficacia dello Stato, è stato consulente dell’Onu per l’elaborazione degli accordi di Bonn, nonché ministro delle Finanze afghano dal 2002 al 2004. Le aspre critiche da lui mosse di recente nei confronti di Karzai, fanno ipotizzare che possa presentarsi alle prossime elezioni presidenziali. Di etnia pashtun. MASSOUDA JALAL. Jalal è stata l’unica candidata donna nelle elezioni presidenziali del 2004, raggiungendo il settimo posto su diciassette candidati.Venne poi nominata ministro per gli Affari Femminili. Ha dichiarato che si presenterà alle prossime elezioni. ALI AHMAD JALALI. Professore presso il Centro di Studi Strategici per il Vicino Oriente Meridionale dell’Università Nazionale per la Difesa. Ha partecipato alla resistenza anti-sovietica come capo della pianificazione militare ed è stato a capo dei servizi pashto e persiani per Voice of America. Nel 2003 è diventato ministro degli Interni del governo Karzai. Jalali si è dimesso due anni dopo a causa di presunti contrasti con Karzai circa la nomina dei governatori provinciali ed il comportamento da tenere nei confronti dei funzionari coinvolti nel traffico di stupefacenti. La sua inflessibilità nei confronti dei signori della guerra e dei narcotrafficanti è stata elogiata da più parti.
ABDOL LATIF PEDRAM. Di origine tagica, Pedram è il capo del Partito Nazionale del Congresso afghano. Arduo sostenitore del federalismo e del laicismo, è contrario alla presenza di truppe straniere in Afghanistan. È stato al centro di polemiche dopo aver offeso il defunto Re Muhammad Zaher Shah ed aver proposto di cambiare nome al Paese. Quinto alle ultime elezioni elezioni del 2004 (con l’1,4% dei consensi), si è già candidato. ABDUL JABAR SADET. Nel 2006 Karzai ha nominato Sabet ministro della Giustizia. È stato acclamato come il più energico rappresentante del governo Karzai nel contrasto alla corruzione, ma la sua popolarità si è appannata quando non è riuscito ad incriminare alcuni importanti funzionari di governo, tra cui Abdul Rashim Dostum. Anche l’aver ordinato la perquisizione della rete televisiva privata Tolo ha contribuito a screditare Sadet agli occhi degli afghani. Karzai ha licenziato Sabet nel momento in cui questi ha annunciato la propria candidatura alle elezioni presidenziali. Sadet è di origine pashtun ma gli manca un’ampia base elettorale nel Paese. Si mormora che in passato sia stato uno stretto collaboratore del latitante leader mujaheddin Gulbuddin Hekmatyar. GUL AGHA SHIRZAI. Attuale governatore della provincia orientale di Nangarhar è originario di Kandahar e noto per gli sforzi compiuti per eliminare i papaveri da oppio dalla provincia. Non ha annunciato la propria candidatura, ma sembra intenzionato a presentarsi. HALIM TANWIR. Vice ministro per l’informazione e la cultura, ha già ufficializzato la propria candidatura. Di origine pashtun, è poco conosciuto in tutto il Paese. FNU. Fondato nel 2007, il Fnu è una variegata alleanza di ex fazioni jihadiste, ex leader comunisti ed un certo numero di tecnocrati.Tra i personaggi di spicco vi sono Barhanuddin Rabbani, ex presidente e leader dell’Alleanza del Nord; Mohammad Qasim Fahim, ex Ministro della Difesa; Yunus Qanuni, presidente della camera bassa del parlamento; Ahmad Zia Masoud, vice presidente di Karzai; il leader uzbeco Abdul Rashid Dostum; ex leader comunisti come Sayed Mohammed Golabzoy e Nor-ul-Haq Ulomi e comandanti dell’Hezb-e Islami come Qazi Mohammad Amin Waqad. Il Fnu sostiene di godere del sostegno del 40% del parlamento afghano. Rabbani e Qanuni hanno già espresso la propria intenzione di non presentarsi alle elezioni. MOSTAFA ZAHER. Nipote del defunto re Muhammad Zaher Shah, è attualmente a capo dell’agenzia nazionale per l’ambiente e membro del Fnu. Secondo alcune indiscrezioni, l’Fnu intenderebbe nominare Zaher come proprio candidato alle prossime elezioni. Nonostante il fatto che sia un erede della famiglia reale, non gode di un vasto appoggio.
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Risk modo. Il 20 dicembre 2008, l’Ammiraglio Michael Mullen, capo di stato maggiore della difesa, ha affermato che il numero potrebbe salire fino a 30mila. Tra le 3.500 e le 4.000 unità sono già in partenza da Fort Drum, nello Stato di New York. Durante una vistat a sorpresa in Afghanistan l’11 dicembre, Gates si è detto intenzonato ad inviare altre due brigate in Afghanistan entro la primavera. Anche i Paesi della Nato dovrebbero contribuire a questo incremento di truppe, almeno in via provvisoria, fino alla fine della elezioni. Ma gli alleati europei non hanno mostrato un’eccessiva solerzia al riguardo fino a questo momento.
Dopo un incontro
con il Generale David Petraeus, il 10 dicembe il ministro della difesa italiano Ignazio La Russa ha affermato che,quest’anno l’Italia avrebbe provvisoriamente inviato altri cinquecento militari per sei mesi, ma altre dichiarazioni precedenti da parte del ministro lasciano pensare che si tratti di personale preposto all’addesttramento militare delle forze di sicurezza afghane e non di truppe combattenti. Notizie riportate dalla stampa indicano come il ritiro delle truppe britanniche dall’Iraq consentirà alla Gran Bretagna di inviare tra i 2.000 e i 5.000 militari in più in Afghanistan. Ma, da programma, il ritiro delle truppe dall’Iraq dovrebbe svolgersi tra marzo e giugno ed il loro ridispiegamento può richiedere altro tempo. La Germania si è rifiutata di inviare truppe nelle regioni più instabili, nel sud e nell’est del paese. Il Cancelliere Angela Merkel forse non vuole rischiare di perdere consensi inviando altri uomini in zone di guerra a ridosso delle elezioni tedesche, previste per il settembre 2009. Anche la colaborazione da parte del Pakistan sarà fondamentale per garantire lo svolgimento in sicurezza delle elezioni. Nel periodo precedente le elezioni politche afghane del settembre 2005, il governo pakistano ha aumentato il numero delle truppe ed intensificato I pattugliamenti lungo i confini per evitare il passaggio transfrontaliero di ribelli. Anche i gruppi di miliziani afghani hanno svolto un ruolo attivo nel garantire la sicurezza in elezioni passate. Ma con tanti miliziani che attualmente si stanno 62
unendo ai ribelli, non sarebbe saggio coinvolgerli in questa circostanza. Consentire agli afgani di esprimere il prorpio voto sarà difficile. Ma altrettanto difficile sarà fare in modo che i loro voti contino. Brogli e irregolarità hanno già funestato le elezioni afghane in passato. Nel voto presidenziale del 2004, tutti i candidati, ad eccezione di Karzai, hanno denunciato irregolarità minacciando di invalidarne gli esiti. La Cei è sottoposta a critiche sempre più insistenti circa la propria indipendenza ed imparzialità. Mohammad Daud Soltanzoi, un parlamentare della provinica di Ghazni, ha accusato la Cei di brigare a favore di Karzai, il quale ha nominato tutti e nove i membri della commissione, inclusi il presidente ed il vicepresidente, il 19 gennaio 2005. In precedenti elezioni, il coinvolgimento di organizzazioni ed osservatori internazionali può aver mitigato i problemi legati alla Cei, ma da allora la commissione ha assunto il ruolo di autorità primaria per quanto riguarda le elezioni. Il rapporto di Kippen sottolinea anche come alcune della affermazioni del presidente della Cei mostrino come la commissione non sia imparziale. La carenza di fondi rappresenta un altro fattore che ha ostacolato I preparativi. Il costo totale delle due precedenti elezioni è stato di $359 milioni. Tuttavia la Cei non è stata in grado di erogare i $102 milioni stanziati dai donatori per le quattro fasi dell’attuale processo di iscrizione elettorale. Rispetto alle elezioni precedenti, gli attuali problemi di finanziamento hanno portato alla mancanza di seggi ed uffici elettorli nei Paesi confinanti, negando l’accesso al voto a 2 milioni di aventi diritto afghani residenti in Iran e Pakistan. Secondo l’Alto Commissario Onu per i Rifugiati, oltre 4 milioni di Afghani, iscritti o meno nelle liste elettorali, vivono in Pakistan ed Iran: oltre il 15% della popolazione afghana. La scarsità di fondi può determinare dei ritardi nell’affluenza alle urne. Un’indagine della Asia Foundation ha rivelato che solo il 53% degli intervistati era a conoscenza delle prossime elezioni e poco meno del 48% ha dichiarato di sapere cosa fare per iscriversi nelle liste elettorali. L’esito delle elezioni è incerto. Karzai può rappresen-
scenari tare il volto dell’Afghanistan in occidente, ma internamente la sua eredità è ridotta a brandelli. Il suo gradimento presso la popolazione afghana, che in passato raggiungeva l’83%, si è ridotto a causa della sua incapacità di rendere il Paese più sicuro e porre un freno alla corruzione. Può vantare alcuni successi al suo attivo. Nonostante alcune battute d’arresto, i media liberi e independenti godono di ottima salute. Nel 2008, il numero di studenti che ha conseguito un diploma di scuola media superiore è stato superiore rispetto a tutti gli anni precedenti e il 40% sono ragazze. Impossibilitate a lavorare sotto il regime dei talebani, ora le donne si sono riaffacciate sulla scena sociopolitica del Paese, assicurandosi 68 seggi parlamentari su 249 nel parlamento afghano a maggioranza conservatrice. Mentre gli sforzi compiuti da Karzai per creare istituzioni politiche e democratiche in Afghanistan hanno avuto in larga parte successo, lo stesso non vale per quanto riguarda il loro effettivo funzionamento. Nonostante i miliardi di dollari spesi negli ultimi sette anni dagli Usa, dai partner della Nato e da altri Paesi donatori per lo sviluppo, circa 20 dei 25 milioni di afghani che vivono nel Paese rimangono al di sotto della soglia di povertà. Inoltre il Paese si colloca al 176, posto su 180 nazioni, nel Corruption Perception Index 2008 di Transparency International (indice di percezione della corruzione), seguito solo da Haiti, Iraq, Myanmar e Somalia. Il New York Times ha scoperto l’esistenza di collegamenti tra il fratello di Karzai, Ahmad Wali Karzai, ed il traffico di eroina, confermando ciò che tanti afghani già sospettavano. La recente offerta, da parte di Karzai, di un’amnistia per i leader talibani, incluso il Mullah Omar - che i talebani hanno respinto con fermezza - ha lo scopo di rallentare o invertire il calo di popolarità di cui è vittima. Le tribù pashtun, che costituiscono il 40% della popolazione afghana, auspicano una riconciliazione con I talebani. Tuttavia la mossa di Karzai si è rivelata controproducente presso il resto degli afghani. Il quotidiano indipendente Eqtedar-e Melli, schierato a favore del Fronte Nazionale Unito, ha descritto l’offerta di amnistia di Karzai come «uno stratagemma per
essere rieletto»; Il settimanale Payam-e Mojahed, vicino a Jamiat-e Islami, ha osservato come l’azione di Karzai fosse «un tentativo per garantire la propria sopravvivenza»; mentre il quotidiano indipendente Cheragh ha sentenziato che si tratta di «un gesto compiuto unicamente a fini elettorali»; ed il quotidiano laico indipendente Hasht-e Sobh ha definito il tutto «una scommessa politica». Karzai può farcela ad essere eletto per un secondo mandato? Sì. Rimane comunque il candidato più forte, grazie alle divisioni che spaccano l’opposizione e all’assenza di un rivale pashtun di una certa caratura. Un recente rapporto del Congressional Research Service ha mostrato come Karzai possa contare sul sostegno del 60% della popolazione, percentuale che indica come il suo seguito vada oltre la comunità pashtun a cui appartiene. L’indagine della Asia Foundation è giunta a conclusioni analoghe. Anche se i sondaggi esagerano la popolarità di Karzai, l’attuale presidente può sfruttare la propria esperienza e le profonde spaccature etniche e politiche all’interno dell’opposizione. Vi sono 84 partiti politici registrati in Afghanistan. Ma una vera opposizione esiste. Il principale blocco d’opposizione è l’Fnu (Jabha-e Mottahid-e Melli), un’alleanza ad ampio spettro di ex fazioni jihadiste, ex leader comunisti e vari gruppi sociali ed etnici.
Composta soprattutto da gruppi etnici di mino-
ranza non pashtun - come Hezb-e Wahdat-e Eslami-yi Mardom-e Afghanistan (Partito Popolare Afghano di Unità Islamica), attualmente presieduto dal leader di Hazara, Haji Mohammad Mohaqiq, e da Jonbesh-e Melli-e Eslami-yi Afghanistan (Movimento Islamico afghano), guidato dal Generale Abdul Rashid Dostum -l’alleanza avrebbe delle difficoltà a raccogliere abbastanza consensi per scalzare Karzai senza rivolgersi ai pashtun. La coalizione non ha ancora raggiunto un accordo riguardo ad un candidato (vedi tabella per una lista di possibili candidati). Il leader dell’alleanza Borhanuddin Rabbani, il quale sostenne Karzai nelle elezioni del 2004, ha escluso un proprio appoggio a 63
Risk Karzai nelle prossime elezioni. Dostum e Mohaqiq potrebbero proporsi come candidati indipendentemente l’uno dall’altro. I leader del Fnu non sono stati neanche in grado di superare la scarsa reputazione di cui godono in virtù del loro comportamento passato. Abdorrab Rasul Sayyaf, ex leader dell’Alleanza del Nord e attuale parlamentare di Kabul, è accusato da Human Rights Watch di crimini di guerra durante gli scontri tra opposte fazioni a Kabul tra il 1992 ed il 1994 ed è famoso per i continui espropri di terre nella sua roccaforte, il distretto di Paghman a Kabul. Dostum è stato sospeso dal governo a febbraio a seguito del rapimento di un suo oppositore poiitico. Si dice che stia cercando di ottenere asilo politico in Turchia come parte di un accordo con Karzai per essere prosciolto da ogni accusa a suo carico. Anche l’ex ministro dell’interno Ali Ahmad Jalali e l’ex ministro delle finanze Ashraf Ghani rappresentano degli avversari temibili per Karzai. Gli afghani sono soddisfatti dell’operato di ambedue gli ex ministri. Mentre Ghani non ha ancora annunciato ufficialmente la propria candidatura, è stato designato come candidato da Ejma-e Melli-e Afghanistan (Associazione nazionale afghana), un’alleanza cher racchiude 32 partiti politici e 342 consigli popolari. Anche Jalali sta valutando le proprie possibilità: «Mi sto consultando con il popolo afghano e con gli anziani delle tribù e annuncerò la mia decisione se candidarmi o meno alla presidenza nel giro di qualche mese» ha dichiarato a novembre in un’intervista. Jalali è contrario alle alleanze e correrà proponendo un “programma nazionale” per la vittoria.
Eppure, nonostante i suoi successi,
Jalali non è troppo conosciuto dalle masse afghane, soprattutto perché ha trascorso quasi vent’anni lontano dal Paese. Solo grazie ad un’ampia campagna ben finanziata sarà in grado di proporsi come un concorrente credibile. Una pletora di altri candidati si muove ai margini. Nonosante la data delle elezioni sia stata fissata per il 20 agosto, non bisogna dimenticare che l’articolo 61 della costituzione afghana sancisce che il mandato
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presidenziale scade il primo giorno del mese afghano di Jawza (il 22 maggio) e che le elezioni debbano aver luogo tra i trenta e sessanta giorni prima di quella data, quindi nel periodo compreso tra il 23 marzo e il 22 aprile 2009. Questo, dunque, non sarà. Perché Daud Ali Najafi, capo della Cei, l’organo a cui spetta l’autorità e la responsabilità di indire le elezioni secondo l’articolo 156 della costituzione, ha evidenziato la nacessità di un posticipo di almeno tre mesi per poter svolgere le elezioni «pienamente preparati ed in piena trasparenza», avvertendo come molte persone non sarebbero state in grado di votare a maggio, un impasse che “potrebbe mettere in discussione la legittimità del voto». Zekria Barakzai, vice presidente della Cei, ha spiegato che se le elezioni si fossero tenute nella data indicata dalla costituzione a causa di pressioni politiche, i risultati sarebbero stati “illegittimi”, citando i rigori del clima e la sicurezza come i due principali ostacoli al voto. Ma visto che un’intesa (formale) è stata raggiunta, si apre un altro problema: di natura costituzionale. Chi guiderà il Paese dal 22 maggio fino all’elezione del nuovo presidente? Il raggiungimento di un accordo su questo punto appare difficile. I rappresentanti del governo Usa non devono presumere che gli afghani acconsentano ad un’estensione del mandato di Karzai. Alcuni attivisti ritengono che quest’ultimo debba cedere il potere alla Camera Alta del Parlamento il 22 maggio. Altri propongono che il presidente, secondo l’articolo 67, trasferisca la propria autorità al vice presidente alla scadenza del mandato. La Cei sostiene che la presidenza Karzai può continuare, ma molti funzionari afghani hanno definito l’ipotesi incostituzionale. «Se Karzai rimane al potere anche per un solo giorno oltre il suo mandato ufficiale, cioè il primo giorno di Jawza, il governo dovrà affrontare una resistenza accanita da parte di tutti i partiti politici e i gruppi di opposizione e l’Afghanistan scivolerà in una crisi ancora più profonda», ha affermato Abdul Kabir Ranjbar, capo della Commissione parlamentare di vigilanza costituzionale. Durante la sua campagna, Barack Obama ha espresso dei giudizi negativi nei confronti di Karzai. Il 19 luglio
scenari scorso, durante una visita in Afghanistan, Obama ha criticato Karzai per non aver fatto abbastanza per promuovere il buon governo nel suo Paese. «Ho detto al Presidente Karzai che ritengo debba concentrarsi maggiormente sui problemi legati alla corruzione e al narcotraffico, contrastando il traffico di stupefacenti in maniera molto più aggressiva di quanto non abbia fatto finora». In un’intervista precedente ha dichiarato alla Cnn: «Penso che il governo Karzai non sia ancora emerso dal bunker per aiutare ad organizzare l’Afghanistan, il governo, la magistratura e le forze dell’ordine, in modo da far sentire la gente sicura». Il 7 ottobre, durante il secondo dibattito presidenziale, Obama ha affermato: «Dobbiamo avere un governo che risponda alle esigenze del popolo afghano, e onestamente, in questo momento non è così». Pare che il clima durante l’ultimo incontro tra il vice presidente Joe Biden e Karzai fosse così teso che Biden, ad un certo punto, si sia alzato e se ne sia andato.Il Segretario di Stato Hillary Clinton ha inferto l’ultimo colpo all’amministrazione Karzai. Pochi giorni prima di assumere l’incarico, ha bollato l’Afghanistan come un “narco-stato”, il cui governo ‘e «afflitto da capacità limitate e corruzione». Critiche di questo tenore non sono passate inosservate presso la popolazione afghana e hanno alimentato speculazioni secondo cui Obama abbia intenzione di attuare anche qui il suo mantra di cambiamento. Un titolo sulla prima pagina del quotidiano indipendente Arman-e Melli citava, «Obama avvierà la sua politica di cambiamento in Afghanistan sbarazzandosi di Karzai». Mentre il Daily Afghanistan scriveva, «La buona stella del Presidente Karzai tramonterà con la vittoria di Obama». Anche i media iraniani hanno alimentato tali ipotesi. «Gli americani stanno cercando di mettere in discussione la popolarità del presidente e danneggiare la sua reputazione per sostituirlo con un altro personaggio alle prossime elezioni presienziali», ha affermato la Voce della Repubblica Islamica dell’Iran in un servizio speciale dedicato all’Afghanistan.Il quotidiano iraniano Sarmayeh ha descritto la poltica estera di Obama definendola un
“incubo” per Karzai. I timori di Karzai di non potere piu’ contare sul sostegno incondizionato degli Usa si sono manifestati in un cambiamento radicale del suo atteggiamento. Oltre alla recente apertura nei confronti dei talebani, il suo tono è diventato più polemico da quando Obama ha vinto le elezioni. Offrendo protezione al latitante leader dei talebani, il Mullah Omar, il 16 novembre Karzai ha dichiarato alla stampa a Kabul: «Se dico di voler offrire protezione ad Omar, allora la comunità internazionale ha due possibilità: destituirmi dal mio incarico o andarsene se non sono
Chi guiderà il Paese dal 22 maggio fino all’elezione del nuovo presidente? Il raggiungimento di un accordo su questo punto è difficile. Il governo Usa non deve presumere che gli afghani acconsentiranno ad un’estensione del mandato di Karzai d’accordo. E tutte e due vanno bene». ln passato il presidente non si era mai riferito alla partenza delle truppe straniere come “un bene” per il Paese. L’atteggiamento poco conciliante di Karzai dovrebbe preoccupare Obama - il quale, nonostante le enormi sfide che deve affrontare sia sul fronte interno che su quello internazionale, si è comunque impegnato a risolvere la questione afghana come assolutamente prioritaria - soprattutto considerando il fatto che la richiesta di Karzai di definire i temp del ritiro delle forze straniere avviene nell’esatto momento in cu il Pentagono sta inviando altri 17mila miitari in quel teatro bellico. Come dovrebbe comportarsi Obama? La neonata amministrazione dovrebbe appuntare le proprie spe65
Risk ranze non sui singoli individui, ma sul rafforzamento delle istituzioni democratiche nel Paese. Schierarsi a favore di un candidato nelle elezioni afghane avrebbe molte implicazioni negative. In primo luogo, se gli Usa appoggiassero Karzai (nella foto) per la conquista di un secondo mandato, questo farebbe nascere dei dubbi circa l’indipendenza dell’Afghanistan. «Qualora il ruolo dell’America nelle elezioni afghane risultasse esplicito», ha osservato Neumann, «questo non farebbe che confermare la propaganda talebana secondo cui sono gli americani a governare il Paese, e non gli afghani». Per contro, se gli Stati Uniti sostenessero un altro candidato, il governo attuale si sentirebbe minacciato e potrebbe iniziare ad epurare i funzionari legati agli Usa e cercare alleati stranieri ostili agli Stati Uniti, come l’Iran e la Russia.
L’obiettivo principale
dell’America in Afghanistan è quello di aiutare il Paese ad instaurare un governo che sia democraticamente eletto, stabile, autosufficiente, un amico affidabile per gli Usa nonché alleato nella lotta contro il terrorismo. Tutto questo non si può realizzare se il presidente afghano è ostile agli Stati Uniti ed amico dei suoi nemici. Karzai, nonostante il calo di popolarità, è comunque il candidato più forte nella corsa alla presidenza e ha la possibilità di essere eletto per un secondo mandato. Anche se dovesse perdere le prossime elezioni, rimarrà in carica per i prossimi quattro se non otto mesi. L’amministrazione Obama dovrebbe collaborare a stretto contatto con Karzai per affrontare i crescenti problemi relativi alla sicurezza e alla governance in questo periodo prima delle elezioni, anche se decidesse di non manifestare il proprio appoggio nei suoi confronti. Questo dimostrerebbe che una buona governance richiede la trasformazione di un sistema e non l’investimento in unico personaggio, per quanto possa far comodo il fatto che il personaggio in questione sia il presidente attualmente in carica. 66
scenari
EUROPA
LA POLITICA INDUSTRIALE NON È PIÙ UN TABÙ
O
DI
FABRIZIO BRAGHINI
ra che il semestre europeo anche le esigenze di superare diffia guida francese è arrivato coltà legate alla competitività ecoalla sua scadenza, nei suoi nomica interna e di perduta leadertermini formali, perché nelle intenship francese in Europa. È quindi partito con grandi ambizioni e clazioni e nei fatti gli sforzi di Parigi di mori (e molta preparazione) un giocare la carta europea nella prosofisticato e senza dubbio efficace spettiva di svolgere un ruolo guida e programma per il semestre eurodi primo piano nella Ue continuano peo, progettato sulla condivisione sotto la presidenza ceca, merita in Europa degli interessi francesi. forse rileggere con attenzione le Per realizzarlo sono state sollevate meticolose modalità con cui è stata Per poter svolgere critiche sulla debolezza di preparata l’agenda della presidenza un ruolo di attore politico un’Europa refrattaria e indolente, e francese, e le conseguenze che il internazionale, l’Unione euroquindi scarsamente efficace e reatsuo imprinting, supportato da un pea deve disporre di armi pari a quelle solido impianto di pensiero, sta tiva a pensare in termini più attuali dei concorrenti, esigendo avendo o potrà avere sull’impostaal di là dei suoi confini, e ad affronmisure di protezione zione del futuro assetto dell’Utare le nuove sfide della globalizcomparabili e l’apertura dei mercati esteri nione, tenendo sempre ben presenti zazione. Un’Europa che, nella progli interessi francesi. Obiettivo che spettiva di Parigi, bisogna aggiula Francia aveva già iniziato a giocare in anticipo nel 2007 stare - vedasi la concorrenza - con misure protettive e (anche per far dimenticare il “no” alla Costituzione euro- regole di reciprocità, un’Europa che bisogna pensare nella pea), anche se non sempre nella consapevolezza che non sua dimensione esterna estendendola in modo strumentaè poi così semplice gestire le differenti istanze di 27 Paesi le anche alla politica di difesa e alla politica estera - e quinspesso in antitesi tra loro, al momento dell’approvazione di creando barriere intorno al mercato interno europeo ad del Trattato di Lisbona e nelle critiche all’operato di esclusivo vantaggio dell’economia francese e a discapito Trichet in particolare sulla questione del cambio euro-dol- delle economie degli altri Paesi che sono più aperti alla laro. La Francia ha perseguito tenacemente alcune idee competizione e alla cooperazione transatlantica. In questi portanti, un’Europa più protetta, un’Europa attore mon- sei mesi è stata messa molta carne al fuoco e diversi risuldiale nella globalizzazione ed esportatrice di valori, tati, ottenuti sul filo di lana, sono di rilievo, anche se non un’Europa della difesa, l’identificazione dell’interesse tutto è passato. Sei mesi però sono indubbiamente pochi, europeo rappresentativo dell’identità francese. Dietro que- occorreva più tempo per perseguire un disegno così comsto filo conduttore vi sono certamente esigenze condivise plesso ed ambizioso. Parigi forse aspetta la ratifica del dall’opinione pubblica, ad esempio come affrontare il Trattato di Lisbona, che dà spazio a più flessibili formule dumping asiatico e i fondi sovrani, ma insieme a queste istituzionali, per continuare a cercare di svolgere un ruolo 67
Risk di primo piano in Europa. La strada è stata avviata, ma è arrivata la crisi. Grandi sono state le attese da parte dell’opinione pubblica europea per le ambizioni della Presidenza francese della Ue, che hanno portato a un proficuo dibattito sulle sorti dell’Europa. Molti sono stati i commenti anche critici nella stessa Francia, che hanno analizzato l’iperattivismo e gli entusiasmi di Sarkozy con numerosi vertici straordinari (anche se non sempre le aspettative dell’Hexagone sono rimaste intatte come è stato il caso dell’Unione Mediterranea, ridimensionata rispetto al suo progetto originale dagli altri governi per reticenze e sospetti di egemonia), e le promesse mantenute sulle priorità dei dossier clima, difesa, immigrazione e asilo, agricoltura. La pressione per portare a compimento i dossier è stata continua, con risultati sicuramente utili per la politica interna. Il dinamismo sulla scena mondiale durante le due grandi crisi internazionali della Georgia e dei subprime ha dato slancio all’Unione Europea, portando all’affermarsi sulla scena internazionale e dell’economia un’Europa più intergovernativa che comunitaria, che se non era proprio coordinata e univoca è stata però più presente e propositrice, vedasi la crisi del Caucaso e i tentativi di adombrare una qualche forma embrionale di coordinamento o governance economica europea nel mezzo della recessione economica globale. Ma, citando La Tribune, dai brillanti successi diplomatici ai risultati concreti resta ancora molto da fare.
Certo, la Francia si è trovata al centro di una
situazione mondiale di continue crisi, che ha saputo gestire in modo pragmatico, ma pur sempre nel quadro di una libertà d’azione frenata suo malgrado dai limiti di un mandato sottoposto al “metodo comunitario”, soddisfacendo ad ogni buon conto le proprie ambizioni politiche di primo della classe in Europa. Già, Parigi si accorgeva che il motore del continente era diventata la Germania con cui i rapporti hanno raggiunto un minimo storico, e non volendo più essere vista un freno all’Europa come in precedenti occasioni, l’Europa diventava la sua priorità politica, la sua “missione universale” anche se è capitato di vedere un po’ di schizofrenia come 68
si è visto nella giravolta sulla direttiva dei trasferimenti intracomunitari della difesa. La politica che Parigi ha perseguito a Brussels ha risposto ampiamente alle aspettative e alle esigenze di una politica casalinga plasmata da forme di patriottismo economico, sovranità appropriata, protezionismo - compatibili con i suoi interessi - da allargare su scala continentale come modello dirigistico valido per tutti, anche se l’economia e la strategia francese non sempre gli stessi di quelli degli altri Paesi europei. Infatti, se la struttura industriale francese è molto concentrata e la presenza pubblica è diffusa, risultano diversi i modelli di business delle grandi imprese europee che si sono diversificate e adattate alla globalizzazione con flessibilità e anticipo rispetto a quelle francesi, tra l’altro facendo shopping negli Usa utilizzando la leva del cambio e aprendo maggiormente ad investitori esteri. Parigi ha dunque avuto la possibilità di inserirsi in una fase di debolezza strutturale di un’Europa debole e incerta sulla sua stessa identità, lenta a reagire e rigida in una sua ortodossia e in un dogmatismo che spesso non vede al di là della regolamentazione del suo mercato interno, risultando inadeguata ad affrontare pienamente le sfide della globalizzazione. Si imponeva pertanto un urgente adeguamento delle politiche comunitarie che, se certamente fondate su argomentazioni realistiche e condivise, vengono elaborate in modo compatibile e funzionale a generalizzare la politica francese in un piano europeo, tutelando quindi gli interessi nazionali, colmando una difficoltà culturale francese sul tema di come affrontare la globalizzazione. Quello che ha impressionato favorevolmente, è stata l’efficienza e il rullo compressore con cui si è mossa Parigi nel gestire un’agenda più volte aggiornata per affrontare le impreviste emergenze che hanno caratterizzato il 2008. Questo processo non avrebbe potuto dispiegarsi con tanto dinamismo, se non vi fosse stato un intenso, laborioso e approfondito dibattito preparatorio interno tra la puissance publique delle Amministrazioni (come i rapporti del Senato e dell’Assemblée Nationale), Università, Grandi Scuole ed Enarques, Centri studi e Grandi Imprese, che ha consolidato nell’opinione pubblica francese i valori chiave da esportare nella dimensione europea. In due parole,
scenari Parigi ha ampiamente sfruttato la sua presidenza della Ue come una finestra di opportunità per creare le condizioni di un nuovo consenso in suo favore. Il metodo di elaborazione delle idee centrato su assi portanti, sviluppato dall’Institut Montaigne, alla Fondation Schuman, alla Fondation pour la Recherche Strategique, e se vogliamo anche il blog coulisses di Liberation - contribuendo alla formazione di un pensiero forte e condiviso - si è dimostrato strumentale per tentare di imporre, o meglio per far condividere agli altri Paesi e alle rispettive opinioni pubbliche, con sofisticate argomentazioni tipiche della pervicace “supremazia culturale francese”, un pensiero organico di idee e principi forti. Questi hanno informato i lavori del Semestre nel quadro di un disegno strategico complessivo volto a modificare l’attuale impostazione della Ue, in quanto giudicata da molti inadeguata ad affrontare le sfide di un mondo in grande trasformazione. Nel costruirne il substrato ideologico, un contributo alla Presidenza francese è venuto dal Rapporto di Laurent Cohen-Tanugi Une strategie européenne pour la mondialisation di aprile 2008 (consultabile su www.euromonde2015.eu) che ha disegnato le grandi linee di una strategia globale europea coerente nella mondializzazione, tramite una “rivoluzione copernicana” cha conduca a un riorientamento sulla dimensione esterna della costruzione europea. Dai grandi principi si passa rapidamente alle azioni concrete. Viene proposta una analitica modifica strutturale delle condizioni finanziarie per il budget comunitario 2014-2019, che accanto a un aumento quasi ovvio delle dotazioni per conoscenza e infrastrutture, prevede un forte crescita (10 volte) ad es. del Fondo europeo di aggiustamento alla mondializzazione e della Pesc che passerebbe dall’attuale 0,2% all’1,7% del budget, rappresentando un cambiamento sostanziale del ruolo della Ue in politica estera e di difesa, sicuramente foriero di grandi divergenze tra le Nazioni. Hanno completato e arricchito il dibattito gli Entretiens Friedland organizzati dal giornale economico Les Echos e dalla Ccip (Chambre de commerce et d’industrie de Paris), sul tema “Entre concurrence et compétitivité: quel avenir pour l’industrie française en Europe?”, focalizzati sull’idea di adeguare le politiche industriali per «preparar-
si a battersi ad armi eguali in una prospettiva di concorrenza internazionale». Il primo e più eclatante passo del governo francese è quello, ben noto, della modifica nottetempo del Trattato di Lisbona, durante il summit del 20 giugno 2007, quando venne modificata la dizione di concorrenza. Se si riprendono i commenti di Sarkozy di quei giorni, è evidente la precisa ratio che caratterizzerà il mandato della Presidenza francese a Brussels: «La concurrence n’est plus un “objectif en soi” de l’Union européenne et le document final du Conseil européen de Bruxelles reconnaît la place des services publics en Europe». «Nous avons obtenu une réorientation majeure des objectifs de l’Union». «La concurrence n’est plus un objectif en soi, c’est un moyen au service du marché intérieur mais ce n’est plus un objectif de l’Union». «Un protocole confirme que les questions de concurrence relèvent de l’organisation du marché intérieur, c’est un point majeur. La concurrence est un moyen, ce n’est pas une fin en soi».
Secondo Sarkozy sarebbe
possibile arrivare “peut-être une jurisprudence différente” da parte della Commissione Europea, che potrebbe considerare la concorrenza come un mezzo per «favoriser l’émergence de champions européens», «porter une véritable politique industrielle et non comme un dogme». «Par ailleurs, dans ses relations avec le reste du monde, il est désormais affirmé pour la première fois que l’Union doit contribuer à assurer la protection des citoyens». «Le mot protection n’est plus tabou». Molte furono le polemiche sollevate da molti esperti tra cui Barroso su questa iniziativa notturna che sembrò estemporanea, a cui partecipò anche il responsabile del servizio legale della Commissione, come rappresentato in un seminario dal significativo titolo “The place of competition law in the future community legal order”, organizzato l’8 novembre 2007 a Brussels dalla Revue de droit de la concurrence (vedasi il sito www.concurrences.com web) su questa tematica attuale e controversa. Per l’occasione il Secrétaire d’Etat aux Affaires européennes JeanPierre Jouyet fu molto chiaro e deciso con un suo cahier de doléances in presenza di un Commissario alla Concorrenza visibilmente irritato, che ribadì come non vi 69
Risk fosse la necessità di creare una nuova politica di concorrenza, quanto di apportare modifiche in modo da accrescerne la stabilità e la prevedibilità e quindi la crescita. Con toni accesi si è dibattuto delle divergenti interpretazioni derivanti dall’esclusione della concorrenza dal nuovo Trattato di riforma Ue: è stato soppresso il riferimento alla “concorrenza libera e non falsata” dagli obiettivi fondamentali dell’Ue, e come compromesso è stato inserito un Protocollo che definisce la concorrenza come uno strumento politico a servizio degli obiettivi Ue.
Secondo il rappresentante del governo francese,
la concorrenza doveva essere adattata efficacemente al servizio della competitività europea. Il che significa sapersi adattare alle nuove tecnologie (es. attribuzione delle frequenze, economia dei servizi intangibili) e rafforzare i diritti delle imprese e il funzionamento dei mercati, come la necessità di concentrazioni a livello europeo. La politica industriale in Europa non è più un tabù; ha una rinnovata importanza, ma deve essere considerata non solo all’interno del mercato europeo ma a livello mondiale. Occorre pertanto un dibattito sugli strumenti della concorrenza che deve essere rinforzata tramite cooperazioni più integrate e strutturate. Di pari passo occorre rafforzare alcune politiche europee, nei settori dell’energia, coordinamento fiscale, aiuti di Stato, commercio multilaterale, rendendo la politica di concorrenza più coerente con i fattori produttivi. Puntualmente sono stati elencati i punti di disaccordo tra Governo francese e Ce: caso Alstom (divieto di concentrazione); servizi pubblici (si riconosce che il nuovo Trattato non scalfisce in nessun modo la dimensione interna delle Nazioni, costituita dall’organizzazione del territorio); integrazione dei servizi postali e delle telecomunicazioni (la cui liberalizzazione deve essere equilibrata con le finalità sociali); energia (la strategia europea di liberalizzazione deve tenere in considerazione le specificità del mercato e le modalità di attuazione - unbundling delle reti e patrimoniali). Un ulteriore passo concettuale è stato elaborato in Francia con il briefing paper Entre stratégie industrielle et politique de concurrence, quelle voie pour l’Europe? 70
dell’’Institut Montaigne nella serie Amicus Curiae (vedi www.institut.montaigne.org), che riassume in modo decisamente efficace e indicativo l’opinione di Parigi sul rapporto industria-concorrenza. La tesi espressa si muove dalla necessità di superare pregiudizi e malintesi sulle proposte francesi di politica industriale, sospettate (come affermano gli autori) di mettere in pericolo l’integrazione europea a tutto vantaggio delle filiere tecnologiche in chiave francese. Viene raccomandato di cessare la sterile contrapposizione tra strategia industriale e regole del mercato interno, in favore di una politica di competitività globale che favorisca maitrise e savoir-faire locali di specifiche aree tecnologiche. Il riferimento è esplicito: “le industrie della sovranità e della sicurezza, l’aerospazio, l’energia”. Un freno alla competitività dell’Europa viene identificato nelle regole della concorrenza, il cui controllo da parte della giurisprudenza dovrebbe vedere la coesistenza tra preminenza del diritto e adattamento a esplicite scelte politiche - da parte del Consiglio e del Parlamento - su dossiers essenziali per l’Europa, quale il mantenimento del controllo di specifici settori industriali, e l’adozione di misure commerciali difensive anche di ritorsione. Interessante infine la citazione che «la Francia non deve dimenticare, circa l’adattamento della sorveglianza sugli aiuti di stato, di averne beneficiato in occasione di dossiers differenti, dalla ricapitalizzazione di Air France al salvataggio di Alstom, allo sviluppo di progetti tecnologici finanziati dall’Agenzia per l’Innovazione Industriale, per non citarne che alcuni particolarmente mediatici». Rientra in quest’ampia prospettiva della difesa degli interessi comuni la questione, per ora accademica, di come definire l’interesse europeo. Finora si è discusso in consessi ad alto livello il tema di quale sia o potrebbe essere l’interesse nazionale. Il dibattito si è spostato gradualmente in un’ottica continentale, ed è stato affrontato al seminario organizzato nell’ottobre 2008 al Parlamento Europeo dal “think tank” Confrontations Européennes (www.confrontations.org). Si è assistito all’unisono a forti critiche da parte di rappresentanti di importanti settori manifatturieri francesi e polacchi nei confronti delle politiche commerciali adottate dalla Commissione Europea (legate anche al negoziato sul futuro del Wto), che a loro parere disinteres-
scenari sandosi dell’offerta europea in nome di principi teorici, ostacola la competitività di settori industriali chiave come l’automobile, l’aerospazio e difesa, il tessile, il ferroviario, la cantieristica. L’eccesso di regolamentazioni unilaterali nel mercato interno, non trovando corrispondenza fuori dell’Ue, nei fatti creano uno svantaggio competitivo per l’Europa, unitamente a difficoltà di accesso su mercati di Paesi terzi protezionisti che adottano politiche di dumping sleale. Questo ampio tema, peraltro già affrontato in passato dall’Aspen nella sua dimensione nazionale, potrebbe avere una certa rilevanza se la Commissione Europea o gli Stati Membri intenderanno promuovere e tutelare i propri interessi nazionali all’interno di un quadro europeo armonizzato. Una volta definiti i settori o le aree di “interesse europeo”, va da sé che prima o poi si arriverà a formulare regole specifiche o preferenziali. E quindi diventerebbe di importanza essenziale definire le proprie aree di eccellenza da valorizzare in una dimensione comunitaria, dove la combinazione di strumenti di sostegno nazionali ed europei fornirebbero un effetto di leverage rilevante. L’incontro Confrontations (ma era intenzionalmente propedeutico agli sviluppi successivi?) ha preceduto di poche settimane il lancio di piani nazionali di salvataggio per l’economia con l’aggravarsi della crisi dei sub-primes, che in Francia (a mero titolo esemplificativo) sono mirati proprio a sostenere i settori sopra descritti. E seguendo la stessa logica il 2 gennaio 2009 il presidente di Alstom Transports ha rilanciato un pubblico appello a boicottare i treni cinesi in quanto Pechino attuerebbe una politica protezionista nei confronti dei fornitori esteri (da notare che la stessa denuncia era stata fatta contro il Giappone durante il seminario in questione).
Un comune filo logico ha legato la riflessione sulla
necessità di cambiamenti profondi in Europa intorno alla comprensione degli interessi comuni, nell’ambito di una nuova concezione delle relazioni con il mondo e di cambiamento di governance tra gli Stati e l’Unione Europea. La traduzione in parole povere mostra la volontà di condurre specifiche opzioni politiche, identificabili in un nuovo approccio in tema di politica della concorrenza, politica commerciale esterna, industria della difesa, inte-
resse europeo, sullo sfondo della ricerca di un ruolo dell’Europa nella globalizzazione. Teniamo conto che nelle dichiarazioni programmatiche del Governo francese sono emersi tre aspetti prioritari della sua politica europea: la reciprocità, la politica dei cambi monetari per modificare la politica monetaria della Bce, la politica di concorrenza come strumento e non come finalità. Circa la specifica riforma della politica commerciale esterna e dei suoi strumenti, un utile contributo è venuto dal Commissario Mandelson, che nel suo intervento “the Alcuin lecture” a Cambridge l’8 febbraio 2008, intitolato “Europe’s openness and the politics of globalisation” (vedi il sito
Occorre un dibattito sugli strumenti della concorrenza che deve essere rinforzata tramite cooperazioni più integrate e strutturate. Di pari passo serve rafforzare alcune politiche europee, nei settori dell’energia, coordinamento fiscale, aiuti di Stato e commercio http://ec.europe.eu/trade), delineò i limiti di misure di difesa commerciale lanciando il concetto di “projectionism” europeo, da intendersi come modello di governance per il 21° secolo. Questi concetti hanno influenzato le riflessioni circa la prospettiva di esportare valori e regole europee per influenzare i partners commerciali della Ue in ambito multilaterale, anche se al momento il Wto registra uno stallo prolungato. L’insieme delle argomentazioni sopra riportate sostengono che per poter svolgere un ruolo di attore politico internazionale, l’Unione Europea deve disporre di armi pari a quelle dei concorrenti, esigendo misure di protezione comparabili e l’apertura dei mercati esteri. Questo approccio, stile “vogliamo un’Europa protetta”, è stato un filo conduttore continuo. Un aspetto critico che ha permeato il 71
Risk
Il Trattato di Lisbona estende l’area di competenza dell’Unione agli aspetti industriali e commerciali del settore armamenti. Con questa forzatura, si crea dal nulla la base giuridica per la reciprocità semestre riconduce le difficoltà dell’economia europea in una fase di grandi squilibri nel commercio internazionale, alla concorrenza sleale dei Paesi asiatici ma anche, qui sta il nocciolo della questione, della Commissione Europea per il suo immobilismo di fronte della concorrenza cinese, e alla mancanza di una politica industriale avendo preferito un approccio di mercato corretto da regole di concorrenza. In pratica, la mancanza di una dimensione esterna rende incapace l’Ue di operare come “soft power” in grado di far valere i propri valori. Occorreva subito modificare l’impasse della ideologica dell’Europa con riforme significative, come la creazione di un level playing field con strumenti di difesa commerciale equivalenti a quelle dei paesi Terzi, il superamento della separazione tra agenda interna ed esterna dell’Unione, nuove regolamentazioni in materia di investimenti esteri, … anche perché l’economia francese stava perdendo colpi (meno competitività, meno esportazioni, grande deficit commerciale), ed è minacciata dalle delocalizzazioni.
L’ordine di scuderia
veniva illustrato con “la ricerca dell’interesse europeo per l’industria e la sua promozione nella competizione mondiale”. Sembra chiaro che questa sofisticata costruzione accademica porterà un giorno i suoi frutti, e sembra opportuno ricordare che in questo filone di analisi critica sulle insufficienze dell’attuale visione dell’Europa e sulle cause della crisi globale si possono richiamare le valide argomentazioni sollevate
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in Italia sulle conseguenze di un’Europa che sopravvive sul primato del mercato, ed è rinunciataria e strutturalmente debole (il noto saggio politico “La paura e la speranza” di Giulio Tremonti), o anche, relativamente all’energia, l’analisi sugli effetti perversi e disincentivanti di certe scelte comunitarie - poco pragmatiche ma molto ideologiche - nell’ambiente e nella sicurezza energetica, che non può trovare nei soli meccanismi di mercato piena e adeguata risposta” (“Il rebus energetico” di Alberto Clò). Un’interessante argomentazione a sostegno delle tesi francesi è quella della Fondation Robert Schuman, che è servita a sostenere l’idea dalla reciprocità nella difesa. Ma qui la Francia è rimasta isolata in quanto l’idea, priva di validità giuridica e mai discussa all’interno della stessa Unione, è stata rigettata dagli altri Paesi. L’idea parte dal Trattato di Lisbona che include alcune innovazioni istituzionali nel campo della politica di difesa e sicurezza comune. Viene fatta un’estensione per analogia del concetto di dimensione esterna dell’Europa (che si limita alla politica estera e commerciale) alla difesa. La conclusione è che il Trattato di Lisbona estende l’area di competenza dell’Unione agli aspetti industriali e commerciali del settore armamenti. Con questa forzatura, ecco creata dal nulla la base giuridica per la reciprocità. Peccato che in nessuna sede europea se ne sia mai parlato! (Vedi i fichiers sul Trattato di Lisbona di dicembre 2007, nel sito www.robert -schuman.eu). Questo tema della reciprocità, sbandierato a ripetizione, è diventato un leit motiv quotidiano, suscitando anche un dibattito tra i Paesi membri e la Francia, che si è trovata più volte in posizione solitaria. Vale la pena di accennare che la complessità della tematica è già stata affrontata dal Senato francese nel Rapport d’information n°112 (2005-2006) (vedasi il sito www.senat.fr) nel quale si è concluso che la nozione di reciprocità comunitaria ha una valenza unicamente politica. Prendendo come analogia i settori dell’agricoltura e dell’acqua, Parigi ha spinto per l’introduzione di una clausola di reciprocità vincolante per le importazioni di equipaggiamenti per la difesa sul territorio europeo, con esplicito riferimento agli Stati Uniti che hanno adottato da tempo un Buy American Act che impone noti vincoli ai
scenari
Risk
La tentazione di un’Europa a due velocità con un nucleo ristretto di Paesi guida “che si fanno le regole”, trova un terreno fertile ai disegni d’oltralpe, in questa fase confusa e senza un progetto di lungo periodo dell’Europa. Ma questo non potrà che essere a vantaggio di quei Paesi che dimostreranno la volontà di attrezzarsi per andare avanti insieme clienti esteri del Pentagono. La materia è senza dubbio complessa e politicamente rilevante per i rapporti transatlantici. Considerando però che i Paesi europei godono di effetti sospensivi di tale regime, e che l’Exagone è tradizionalmente il mercato più ermetico nella Ue, la proposta di cui sopra è stata vista come un tentativo di chiusura pro domo sua di un mercato europeo della difesa, proprio durante la fase di approvazione di un pacchetto di norme miranti a una maggiore liberalizzazione (il Pacchetto Difesa). Essendo alla fine prevalse le posizioni dei Paesi più coinvolti nelle cooperazioni transatlantiche, insieme con l’opposizione della Commissione Europea a sostenere una clausola contraria alle regole del Wto, la reciprocità è alla fine rimasta nella direttiva difesa solo come dichiarazione politica di principi senza effetti giuridici. In estrema sintesi, eventuali riferimenti alla “dimensione politica esterna della Ue” che portino ad interpretazioni estensive della nozione di “trade” al “mercato” della difesa non risultano essere oggetto di dibattito tra gli Stati Membri. Di conseguenza l’applicazione del principio di reciprocità anche alla difesa è apparsa una forzatura non 74
richiesta e non appropriata. Altro argomento che rimane sempre di attualità è quello della difesa europea, con un dibattito politico in primo piano che si sta progressivamente avviando dal dibattito accademico e concettuale a un approccio più realistico, come dimostrato da qualche tempo da diverse azioni di coordinamento intergovernativo anche in ambito Pesd. Difesa europea e Pesd che comunque non hanno molta rilevanza nei periodi di crisi, essendo messi in secondo piano dal prevalere degli interessi sovrani delle Nazioni più grandi ed influenti. Cosa poteva fare la Francia nell’ambito del suo mandato su questo tema controverso e delicato? Si è riparlato in dettaglio della futura Edtib, acronimo che identifica un insieme di iniziative diverse mirate a rafforzare la competitività dell’industria della difesa europea. Moltissimo è stato scritto al riguardo, al pari dell’ambizione politica francese di voler svolgere il ruolo di guida la difesa europea e di esserne il precursore. Tuttavia è successo che la difesa europea è avanzata su un canale parallelo al semestre Ue. Infatti diversi accordi di cooperazione sono stati sottoscritti a fine anno dai Ministri della Difesa in sede di Agenzia Europea di Difesa; e quindi la Presidenza francese della Ue si è probabilmente trovata a percorre un sentiero stretto, limitandosi ad una serie di seminari, peraltro molto ben strutturati nel metodo di lavoro e nella scelta dei temi, svolti in prestigiosi palazzi parigini. Questi si proponevano di individuare nuove iniziative europee da identificare con una serie di “roadmaps”, quali ripensare la strategia della ricerca, definire la sicurezza degli approvvigionamenti nel lungo termine, migliorare il ruolo delle piccole e media imprese, definire le sinergie tra tecnologie duali e della sicurezza, federare gli sforzi governativi e industriali per l’identificazione di Future Air Systems da mettere sul tavolo degli Stati entro l’anno. Ma dal momento che di questi temi attinenti la difesa europea se ne parla da decenni, con risultati decisamente mediocri per la verità, le questioni poste all’ordine del giorno dalla Dga in base a propri criteri si sono dimostrate troppe e molto delicate, vedasi la creazione di un dispositivo europeo di controllo degli investimenti esteri (come i fondi sovrani) nella difesa europea sulla falsariga del
scenari sistema statunitense Cfius. Ne è risultato un interessante quanto vivace dibattito tra esperti di diversi Paesi, senza che vi fosse alcun legame con la strategia dei governi, e quindi di risultati concreti se ne è un po’ persa traccia e l’insieme dei dibattiti è sembrato perdere quel livello di priorità che gli era stato precedentemente assegnato. JeanPierre Maulny dell’Iris ha affermato su La Tribune che la Presidenza francese non ha mantenuto le promesse, come ci si poteva aspettare.
È evidente che l’obiettivo primario di Parigi è stato quello di cercare di portarsi a casa il maggior numero di risultati entro dicembre, mese nel quale si sono succedute con un ritmo impressionante i Coreper e le riunioni fiume nel palazzo Justus Lipsius. Un marginale quanto pragmatico segnale per i funzionari è stata la richiesta di estendere ad libitum il funzionamento e l’apertura delle sedi europee, per consentire il susseguirsi notturno delle riunioni del Consiglio. Ad esempio, dopo 18 ore di discussione sul pacchetto Clima, i meeting si protraevano a oltranza fino quattro del mattino, continuando informalmente nelle coulisse. La corsa al risultato ad ogni costo ha portato a compromessi al ribasso dell’ultim’ora, che accontentano scontentando un po’ tutti (anche all’interno della Francia stessa nei confronti della propria Presidenza, come è successo a un certo punto per la direttiva difesa, prima oggetto di critiche da parte delle industrie d’oltralpe che avrebbero preferito nessuna direttiva a una ostile, risultando poi politicamente favorevoli), o con decisioni ed effetti posticipati per ottenere l’approvazione finale. Brussels diventa dunque sempre più il luogo dove la convergenza delle divergenze è possibile, con il duplice e contraddittorio effetto che il treno della pressione comunitaria spinge gli Stati Membri, ma anche la Commissione stessa, a una maggiore flessibilità, creando d’altra parte un complesso di regole e principi evolutivi ma a volte ambigui, la cui interpretazione si fonda su grandi principi, mentre la loro gestione può mettere alla prova il delicato bilanciamento di rapporti su cui è fondata la complessa costruzione europea Se si volessero trarre alcune considerazioni finali, di fronte a un’Europa disorientata per gli effetti della crisi econo-
mica e per lo stallo istituzionale della Ue, il dinamismo di Sarkozy - forte dell’efficacia di uno Stato-Nazione molto ben organizzato - ha avuto senza dubbio il merito di portare l’Europa, intesa come insieme di Paesi, agli stessi tavoli negoziali internazionali insieme con i maggiori Paesi, provando a dare risposte in qualche modo coese alle innumerevoli crisi occorse nel 2008. Grazie ad una elaborazione analitica e sistematica probabilmente unica in Europa sui principali dossier, funzionale a un ampio disegno politico di lungo termine pur se attuato con modalità a volte impulsive o contraddittorie, Parigi ha saputo imprimere all’Europa un impulso alla sua dimensione esterna come era nei suoi obiettivi. Allo stesso tempo questo impulso, definito da alcuni “europeizzante”, ha fornito la prova e la consapevolezza che l’Europa ha anche la capacità di reagire velocemente alle nuove sfide, anche se in ordine sparso e al di fuori del suo quadro istituzionale. Ne è emersa dunque una coscienza e una propensione collettiva tra le Nazioni sul bisogno di pensare a forme di governance più efficaci, prefigurando una riflessione istituzionale con una configurazione politica incentrata su Paesi forti, e finalizzata a dal sostegno agli interessi comuni europei nel mondo. Non a caso Sarkozy si è più volte soffermato sul ruolo dei grands pays che hanno non tanto dei diritti ma delle responsabilità in Europa, rilanciando l’idea di un Direttorio per “aiutare” il semestre della Cechia, ma con insita l’idea di un rilancio dell’influenza di Parigi sulla gestione dell’Europa. Rimane il fatto che la tentazione di un’Europa a due velocità con un nucleo ristretto di Paesi guida “che si fanno le regole”, può trovare un terreno fertile ai disegni d’oltralpe, in questa fase confusa e senza un progetto o vision di lungo periodo dell’Europa, con momenti di indifferenza intervallati da colpi di scena. Ma questo non potrà che essere a vantaggio di quei Paesi che dimostreranno la volontà di attrezzarsi adeguatamente per andare avanti insieme (non solo con regole condivise e appropriate ma anche con investimenti tecnologici mirati alla competitività dei settori strategici), evitando il rischio di essere scavalcati nella stessa casa comune, influenzando allo stesso tempo dall’interno la formazione di quella che appare essere la prossima fase della costruzione europea. 75
lo scacchiere
D
UE / dopo monaco riprende
il dialogo sulla sicurezza europea
(ma i nostri leader continuano a fare orecchie da mercante) DI
GIOVANNI GASPARINI
opo un lungo intermezzo legato all’avvio della nuova Amministrazione Usa, finalmente europei americani e russi si trovano davanti ad un tavolo per parlare e risolvere problemi, anziché scambiarsi insulti e ripicche come l’anno scorso. L’occasione per l’avvio di questo lungo e difficile processo di riconciliazione è l’appuntamento annuale alla conferenza di Monaco ad inizio Febbraio, che come di consuetudine coinvolge i principali leader mondiali e “facilita” gli incontri formali successivi nelle sedi istituzionalmente proprie. Pertanto, nessu76
na decisione, ma l’avvio di incontri e dialoghi destinati in seguito a formalizzarsi. L’evento principale è stato il discorso del vice presidente Usa Biden, su cui si sono catalizzati i commenti degli analisti, ma soprattutto le reazioni dei politici europei e russi. In un clima d’incertezza caratterizzato dallo spettro sempre più concreto della crisi economica e delle sue conseguenze anche di natura strategica, gli Stati Uniti hanno voluto voltar pagina e mandare un segnale d’apertura e maggior coinvolgimento sia, come naturale, agli alleati europei, sia alla Russia. Il richiamo a lasciar da parte i “giochi a somma zero” e le “rigidità ideologiche”, oltre a fare definitivamente piazza pulita dalla mentalità perdente dell’Amministrazione Bush, traccia il solco del dialogo entro cui aprire un confronto a volte duro con il Cremlino e con gli altri attori internazionali che minacciano la stabilità. Questo rinato pragmatismo, unito al rifiuto dello “scontro di civiltà” e al rigetto della “falsa
scacchiere alternativa fra sicurezza e valori”, un altro cavallo di battaglia dell’era Bush-Cheney che tanti danni ha fatto alla credibilità americana (alibi per pratiche illiberali e antidemocratiche quali Guantanamo, Abu Graib e il Patriot Act, nefandezze che per troppo tempo hanno macchiato la reputazione americana), saranno i principi ordinativi della nuova politica di sicurezza americana, riportata finalmente nell’ alveo della continuità ideale e morale da cui era dipartita per otto lunghissimi anni. Gli Stati Uniti chiedono una forte cooperazione agli alleati tradizionali, al fine di rendere efficaci le politiche di stabilizzazione condivise nell’ambito della non-proliferazione, il contrasto al radicalismo fondamentalista e la stabilità globale. Il fine è di prevenire e contenere le crisi, risolvendole in maniera cooperativa quando esse sono già manifeste, attraverso l’impiego di ogni mezzo adatto, fra cui la forza militare quale ultima istanza. Uno dei mezzi proposti è il rilancio della Nato, di cui ad Aprile si festeggeranno i sessanta anni. La nuova presidenza pare favorevole ad un ampliamento delle responsabilità dell’Alleanza e al reintegro pieno della Francia nella struttura militare della Nato, cui si lega anche il supporto ad un maggior sviluppo delle capacità dell’Unione europea quale produttore autonomo di
sicurezza. Biden rilancia anche iniziative problematiche come la difesa antimissile, oggetto di scontro con la Russia, ma mira ad aprire un dialogo ampio con Mosca su tutti i fronti, ad iniziare dagli armamenti strategici, pur mantenendo fermo il principio che non vi sia diritto in alcun modo da parte russa a veder rispettata una qualche “sfera d’influenza” di natura geopolitica. Il discorso americano rifiuta la logica “geopolitica a somma zero” finora imperante al Cremlino e ingaggia l’interlocutore su un piano globale, cercando di mostrare soluzioni vincenti per tutti i giocatori; non sarà facile, ma è certo la strada giusta fuori dall’impasse generata dall’intervento in Georgia la scorsa estate. In complesso, emerge l’avvio di un dialogo strategico a tutto campo, molto articolato e in cui gli europei potrebbero ritagliarsi ampi spazi di manovra se non addirittura occasioni di leadership, se solo sapessero agire unitariamente e mettere a fattor comune le scarse risorse di cui sono dotati a livello nazionale. Il rischio però è che, davanti alla prova, ovvero alla richiesta di contribuzione e di dialogo da parte americana, si solle77
Risk vi un consenso amplissimo non suffragato da azioni concrete, oppure l’avvio dell’ennesima corsa a mostrarsi individualmente “buoni alleati” con il massimo dell’impegno retorico ed il minimo dello sforzo reale. I due banchi di prova imminenti, Afghanistan e Iran, sono già al varco e le risposte sinora non sembrano entusiasmanti; l’ostinazione a sviluppare sul piano bilaterale nazionale il rapporto di sicurezza transatlantico, è destinato a fallire per mancanza di forza politica e di risorse economiche. Ma l’Unione europea, minata dai litigi e dalle tentazioni protezionistiche degli stati membri e dalla mancanza
di una vera leadership, poiché la presidenza semestrale del Consiglio è risultata chiaramente fallimentare, mentre la mediocre Commissione attuale sembra aver paura della propria ombra, non sembra pronta ad assumersi quella responsabilità di guida che le spetterebbe. E così, in ordine sparso, i leader nazionali europei si preparano a lodare la nuova politica estera americana ma non a predisporre gli strumenti e le politiche necessarie per indirizzarla e accompagnarla, poiché ciò richiederebbe il superamento dell’ultimo tabù su cui si poggia il castello di carta del loro effimero potere esterno: il mito dello stato nazionale.
BALCANI/ skopje alla prova della verità
L
fra le presidenziali di marzo e il summit Nato Perché il caso macedone rischia di trasformarsi in un fallimento diplomatico DI
FABRIZIO EDOMARCHI
a “success story” balcanica di nuovo alla prova della verità. Chi guarda a Skopje come al laboratorio della politica europea nei Balcani (fondata su “principio di condizionalità” e “prospettiva di adesione” attraverso una forma di regional ownership) rischia di veder nuovamente rinviato il momento delle celebrazioni. Prima nella sottoscrizione dell’Accordo di Stabilizzazione ed Associazione il 9 aprile 2001 (anche come riconoscimento dei meriti per la gestione dei 300mila profughi nel ’99 durante la crisi del Kosovo), fra le prime a veder riconosciuto lo status di candiato (17 dicembre 2005), Skopje si sta incagliando non tanto e non solo sull’attuazione delle misure di decentramento previste dall’Accordo-quadro di Ohrid del 2001 quanto sulla ciclica questione della denominazione. La prospettiva di allargamento (e, formalmente, quella di adesione alla Nato) hanno avuto, come noto un brusco stop in occasione del vertice dell’Alleanza Atlantica di Bucarest nello scorso aprile. L’intransigenza di Atene dinanzi alla possibile nuova denominazione - con il governo del premier 78
Gruevski che in quella sede aveva accettato “Repubblica di Macedonia (Skopje)” - offrì la (attesa?) sponda a quanti dal vertice Nato chiedevano solo “combustibile” per la delicata campagna elettorale in vista delle elezioni parlamentari macedoni del giugno seguente. Così le settimane successive furono un escalation di dichiarazioni di fuoco, con Gruevski pronto a farsi paladino “offensivo” dei diritti degli slavi residenti nel Nord della Grecia, aggiungendo rivendicazioni sui beni dei macedoni che lasciarono la Grecia dopo la guerra civile e reincendiando la controversa decisione di intitolare ad Alessandro Magno l’aereoporto della capitale. Gli strascichi di quella campagna elettorale (conclusasi, come facilmente immaginabile, con un trionfo per Gruevski) hanno congelato i rapporti con Atene per mesi. E vanificato quanto di buono si era creato, ad esempio, su dossier delicati come il riconsocimento del Kosovo (su cui entrambi i Paesi avevano mostrato nelle prime settimane più d’una remora). Tradizionalmente, infatti, l’atteggiamento macedone sulla questione kosovara è stato di massima prudenza alla luce della consistente
scacchiere minoranza illirica residente che, benchè da sempre rappresentata al governo da almeno un partito etnonazionale, ha recentemente sviluppato nel suo seno una forte componente panalbanese facente capo all’Aksh, l’esercito nazionale albanese, forte di articolazioni in diversi paesi e di significativi finanziamenti, anche di matrice islamica. Non è un caso che cessato, nel post-Bucarest il clima di dialogo con Atene - Skopje abbia preso la decisione il 9 ottobre di riconoscere l’indipendenza di Pristina (ampliando de facto il solco con Atene sulla questione “denominazione”). Non è un caso che da parte macedone si sia deciso di far ricorso alla corte internazionale di giustizia in merito alla posizione greca, sulla scia della previsione (ad avviso di Skopje violata) dell’Interim Accord del ’95 secondo cui la Grecia non avrebbe mai utilizzato la “leva denominazione” per bloccare l’ingresso macedonenelle organizzazioni internazionali. Da parte sua Atene, forte anche di un inaspettato, nella consistenza, sostegno da parte della Presidenza Francese dell’Unione Europea, non ha inteso avvicinarsi a posizioni di mediazione ed ora sono a rischio anche i tentativi esperiti dall’inviato delle Nazioni Unite Matthew Nimetz. La cui proposta proposta, “Repubblica della Macedonia del Nord” nelle relazioni internazionali e “Republika Makedonija”, in cirillico per uso interno ha trovato ufficiosi riscontri positivi in entrambe le capitali ma non sufficienti da far pendere la bilancia verso l’ufficialità. Da parte macedone il rischio è duplice: da un lato un eventuale stallo può essere sfruttato - nuovamente per finalità elettorali nella tesa campagna per le consultazioni presidenzali e locali in programma il 22 marzo. La popolarità raggiunta da Gruevski lo scorso giugno, nell’emozione post-Bucarest può indurre il premier a spendere parole e toni simili anche nella tornata odierna. Le presidenziali mettono infatti di fronte il candidato del partito di maggioranza relativa Vmro (Organizzazione rivoluzionaria interna macedone), Gjorgi Ivanov, non solo all’esponente del partito tradizionalmente avverso Sdsm (partito Socialdemocratico), Ljubomir Frckoski, ma, soprat-
tutto all’indipendente Ljube Boskovski, eroe dei nazionalisti macedoni, uscito illeso dalla tribolata vicenda personale al tribunale de L’Aja. Questa candidatura - autonoma - di stampo nazionalista rischia di erodere il tradizionale elettorato della Vmro e costringerà Ivanov, giocoforza, a spostare il baricentro della sua “proposta elettorale” su temi identitari, a scapito della possibile mediazione con Atene. Trasformando in un nuovo post-Bucarest l’attuale campagna elettorale. Trasformando, in ottica Nato, in Post-Bucarest il pre-Strasburgo/Kehl. Si perchè - e qui viene il secondo rischio - la Nato ha in programma un ambizioso summit ad un anno di distanza dal precedente che, oltre a celebrare i 60 anni dell’alleanza ed il possibile reingresso francese nel sistema integrato di comando dell’Alleanza, delineerà le adesioni prossime venture. Il rischio per Skopje è altissimo, tenuto conto della impossibiltà - de facto - di ricreare condizioni di dialogo nella angusta finestra fra il voto presidenziale ed il summit transatlantico. Quindi un tema strettamente formale si ripresenta in tutta la sua capacità di “detonazione” a far crollare le genuine aspettative di adesione presenti. A Skopje e a Bruxelles.Esistono, come noto, in Europa diversi casi di omonimia fra regioni ed entità statuali contermini. Di tutta evidenza i casi di Lussemburgo e Moldavia, regioni di Belgio e Romania oltrechè stati sovrani. Il caso macedone, evidentemente insiste su un’identità fragile e molteplice che lo rende unico, lo rende “Balcani dei Balcani” secondo la definizione di Susan Gal e Judith Irvine. E rimanda al grande interrogativo della Macedonia di Rebecca West, un Paese che «si è trovato sottomesso all’Impero Ottomano fino al 1913; è stato fino ad allora imbalsamato dal malgoverno turco esattamente in quelle condizioni medievali esistenti dai tempi dell’isolamento succesivo alla sconfitta in Kosovo nel 1389. La Macedonia dovrebbe essere vista come una specie di museo...». La sfida odierna è di riavviare questo Volksmuseum verso un futuro di integrazione. 79
Risk
AMERICA LATINA /per colpa della crisi,
D
i cartelli messicani si riorganizzano
Cala la domanda negli Usa e si aprono nuove rotte in Sudamerica DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
ue temi hanno dominato la scena messicana nella seconda metà del 2008: l’ondata di violenza generata dalla guerra tra i cartelli della droga e gli effetti della crisi economica internazionale. In entrambi i casi, la relazione con la nuova amministrazione di Barack Obama riveste un’importanza fondamentale. Il governo di centrodestra guidato dal presidente Felipe Calderón è impegnato in una vasta operazione contro i cartelli del narcotraffico, con l’impiego di 30mila effettivi militari e di polizia. I punti principali della “Campagna permanente contro il narcotraffico e l’applicazione della legge federale sulle armi da fuoco e gli esplosivi” sono l’impiego delle Forze Armate in azioni di contrasto alla criminalità e la lotta alla corruzione tra le forze di polizia. L’offensiva sta riducendo gli spazi a disposizione dei cartelli della droga, finendo per inasprire la guerra tra i clan per il controllo del traffico e del territorio. La disarticolazione dei cartelli è favorita anche dall’estradizione negli Stati Uniti di diversi capi criminali, impedendo loro di continuare a mantenere dal carcere contatti operativi con i narcotrafficanti. Il Messico è il primo fornitore di marijuana e cocaina e il secondo fornitore di eroina degli Stati Uniti. Tra il 60 e il 70% delle metamfetamine consumate nel grande vicino settentrionale sono prodotte qui. Per l’Agenzia Antidroga degli Stati Uniti (Dea nella sigla in inglese) nel 2004 il 92% della cocaina che entrava nel Paese era controllato dai trafficanti messicani, un business da 65 miliardi di dollari l’anno (dati Dea). I cartelli messicani di oggi sono nati negli anni Ottanta, quando si chiusero le rotte caraibiche del 80
traffico di cocaina verso gli Stati Uniti. Allora, i cartelli colombiani iniziarono a pagare le bande messicane di trafficanti con droga anziché denaro, per evitare problemi legati al riciclaggio dei narcodollari. Ne è seguita la progressiva segmentazione delle attività di produzione in Colombia - e distribuzione di cocaina - in Messico. I principali gruppi sono quelli del Golfo, di Sinaloa-Pacifico, di Tijuana e di Juárez. Gli scontri iniziarono nel 1989, con lo smembramento del cartello di Guadalajara. Dal 2000 la violenza non ha cessato di crescere, e i cartelli sono passati dalla lotta per il controllo delle rotte del narcotraffico a quella per il dominio completo di alcuni territori del Paese, specialmente negli Stati nord-occidentali di Sinaloa e Chihuhua. Alla fine del 2008 si sono registrate più di 5.700 vittime, la maggior parte narcotrafficanti brutalmente assassinati. Recentemente, il calo della domanda negli Stati Uniti e le maggiori difficoltà di accesso al ricco mercato settentrionale hanno portato i cartelli messicani a concentrarsi sul mercato interno e su quello di altri Paesi dove il consumo è in crescita, a partire dal continente latinoamericano. L’opinione pubblica in generale sta appoggiando l’offensiva del governo e delle Forze Armate contro il narcotraffico, considerato dai messicani il secondo maggior problema dopo la corruzione. L’arresto di alcuni alti funzionari della Polizia dimostra l’efficacia dell’iniziativa, ciononostante il governo Calderón è accusato di non disporre di un piano integrale di prevenzione socio-economica del narcotraffico capace di affrontare le cause profonde di tanta violenza. La lotta contro i cartelli della droga è un tema di alta sensibilità anche per gli Stati Uniti. In un documen-
scacchiere to dello Stato Maggiore delle Forze Armate Usa sui possibili teatri mondiali in cui gli Stati Uniti potrebbero dover intervenire militarmente per garantire la propria sicurezza interna, il Messico è citato al fianco del Pakistan quale nazione esposta alla possibilità di un “rapido collasso”. Nel documento si legge che «il governo, i politici, la Polizia e il potere giudiziario sono oggetto di un’aggressione da parte dei gruppi criminali e dei cartelli della droga. La forma che prenderà questo conflitto interno nei prossimi anni avrà un impatto trascendentale sulla stabilità dello Stato messicano». Per inquadrare la questione in un’ottica di sistema, bisogna considerare tanto la dimensione e natura dei cartelli quanto la debolezza strutturale dell’apparato poliziesco e del sistema giudiziario messicano. Si sta gradualmente instaurando nel dibattito pubblico il tema della rafforzamento istituzionale, del rispetto della legge e del rifiuto di pratiche illegali comunemente tollerate. I problemi maggiori riguardano il coordinamento tra i livelli federale e statale (ad esempio il narcotraffico e la delinquenza organizzata sono considerati crimini federali mentre gli omicidi e i sequestri sono di responsabilità delle autorità statali) e tra le diverse forze di polizia. Il crimine organizzato ha costruito in questi anni una vasta rete di appoggi e di beneficiari nella società civile, contando sovente con alti tassi di corruzione e impunità. Per vincere la battaglia contro la delinquenza organizzata c’è bisogno di uno sforzo congiunto da parte del governo, dei partiti politici, dei sindacati e della società civile. L’altro tema all’ordine del giorno è quello economico, con i drammatici riflessi che la crisi statunitense sta producendo sull’economia messicana. Il Messico è indicato come uno dei tre Paesi latinoamericani che maggiormente risentirà del difficile contesto internazionale. Gli altri sono il Veneuzela e l’Argentina, rispettivamente a causa della caduta dei prezzi del petrolio e degli alimenti, a cui nel caso argentino si è andata sommando una drammatica mancanza di piogge durante l’estate australe.
La crescita del Pil messicano è passata dal 3,2% del 2007 al 1,8% nel 2008, a causa di una minore domanda interna e soprattutto della caduta delle esportazioni nel secondo semestre dell’anno. La Commissione Economica delle Nazioni Unite per l’America Latina e i Caraibi stima che la crescita nel 2009 sarà inferiore a un punto percentuale a causa delle minori esportazioni manifatturiere (l’80% dell’export messicano va negli Stati Uniti), un mercato interno asfittico, meno credito, meno rimesse e meno investimenti esteri. Il 2008 avrebbe potuto chiudersi assai peggio se il governo non avesse assicurato le quotazioni del petrolio sul mercato finanziario durante il secondo semestre. Con un costo totale di circa 1,5 miliardi di dollari ha invece potuto garantire al greggio messicano un valore di 70 dollari al barile, ciò che permette di stimare una compensazione di 9,5 miliardi di dollari nel 2009 calcolata su un prezzo di 40 dollari al barile. Per moderare l’impatto interno della decelerazione mondiale, in ottobre è stato approvato un “Programma di Stimolo alla Crescita e all’Occupazione”, con un impegno finanziario pari all’1% del Pil. Sono previste maggiori spese in infrastruttura, la costruzione di una nuova raffineria, un piano di appoggio alle Pmi, semplificazioni nelle operazioni commerciali e migliori condizioni per attrarre investimenti esteri. La vittoria di Barack Obama presenta nuove opportunità e alcuni rischi nei rapporti bilaterali tra Stati Uniti e Messico. Le opportunità sono legate al ruolo fondamentale che hanno avuto le comunità messicane nel trionfo democratico in Nevada, New Mexico, Flordia e Colorado. Esse possono trasformarsi in un prezioso strumento di lobby nei confronti del governo e del congresso americani. Al di là degli aspetti commerciali, vi sono spazi per approfondire l’integrazione specialmente nel settore dei servizi e della salute, che costituiscono enormi fonti potenziali di impiego. I rischi sono connessi alla chiusura commerciale rispetto alle importazioni messicane, alla messa in discussione del Nafta 81
scacchiere sotto la richiesta di un maggiore protezionismo e a ulteriori rinvii sulla questione migratoria. L’efficacia delle azioni di contenimento della violenza e la profondità della crisi economica si ripercuoteranno sulle elezioni legislative previste per luglio prossimo. Il tradizionale Partito della
Rivoluzione Istituzionale sta riguadagnando terreno, dopo aver passato due periodi presidenziali fuori dal governo: mantiene un buon seguito elettorale, numerosi deputati e governatori e si profila come il principale beneficiario in caso di sconfitta del Partito di Azione Nazionale di Calderón.
Russia /obama vuole la georgia nella nato
L
(e fermare la deriva dirigista di putin)
Ecco perché la comunità internazionale adesso lo deve aiutare DI
DAVID J. SMITH
a 45esima Conferenza sulla Sicurezza che si è tenuta a Monaco ha offerto al mondo un primo sguardo sull’emergente politica estera del presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Il pubblico della conferenza, per lo più europeo, ha potuto sentire il nuovo tono costruttivo in cui aveva sperato. Ad ogni modo, l’effettiva politica diligentemente esposta da tutti i rappresentati dell’Amministrazione a Monaco si è distinta per un’attenta continuità. Le aspettative erano alte e Washington è stata all’altezza della situazione, mandando sul posto il vice presidente Joe Biden, il consulente per la Sicurezza Nazionale James Jones, l’inviato speciale per l’Afghanistan Richard Holbrooke e il Generale in capo del Comando Centrale degli Stati Uniti David Petraeus. Il pubblico ha accolto con entusiasmo l’arrivo di Biden sul palco il 7 febbraio. Ed il vice presidente non ha perso tempo nel tendere la mano dell’America verso i suoi alleati europei. «Io vengo in Europa», ha detto Biden alle persone riunite nell’elegante Bayerischer Hof Hotel «per conto di una nuova amministrazione, una amministrazione che è determinata a stabilire un nuovo tono non solo a Washington, ma in tutti i rapporti dell’America nel mondo. Il nuovo tono ha origine da un forte spirito bipartisan per affrontare queste sfide comuni. E noi riconosciamo che queste sfide, l’esigenza di affrontar-
le, non rappresentano un’opportunità, ne’ un lusso, ma un’assoluta necessità». Una notevole dose di realtà è immediatamente seguita: «Mentre ogni nuovo inizio è un momento di speranza, questo momento per l’America e per i Paesi rappresentati in questa sala è carico di preoccupazione e considerevoli pericoli». Il messaggio era chiaro: là fuori ci sono pericoli e non possiamo più dare la colpa del fallimento ad un impopolare presidente americano. «L’America farà di più. Questa è la buona notizia. La cattiva notizia è che l’America chiederà anche di più ai suoi alleati». Un rinnovato spirito occidentale deve ora incontrarsi con questo nuovo spirito americano. «Non esiste conflitto tra la nostra sicurezza e i nostri ideali… l’esempio del nostro potere deve accordarsi con il potere del nostro esempio», ha detto Biden. «L’America non torturerà. Sosterremo i diritti di coloro che condurremo alla giustizia. Chiuderemo Guantanamo». Questo, ad ogni modo, è quello che volevano sentire anche la maggior parte degli americani. Sulla Russia, ha detto Biden, «Negli ultimi anni si è assistito ad una pericolosa deriva nei rapporti tra la Russia e i membri della nostra Alleanza. Per parafrasare il presidente Obama, è giunto il momento per risistemare e rivisitare le numerose aree in cui possiamo e vogliamo collaborare con la Russia». Il numero due degli Stati Uniti ha suggerito di collaborare con la Russia nella lotta al terrorismo, in 83
Risk Afghanistan, nella non proliferazione di armi nucleari e negli ulteriori tagli agli armamenti nucleari statunitensi e russi. Se il Cremlino intende frenare la sua aggressione, spegnere la sua retorica infiammatoria e smettere di giocare alla Guerra Fredda, Biden ha offerto un gran numero di potenziali aree di cooperazione. Allo stesso modo, ha reso chiaro che l’Amministrazione Obama non si ritirerà di fronte alla belligeranza petulante di Mosca. Contrariamente a quanto si aspettavano in molti, non ha annunciato una revisione del piano dell’America di dispiegare un sistema di difesa missilistica nella Repubblica Ceca e in Polonia. «Continuiamo a sviluppare - ha detto Biden - una difesa missilistica per contrastare la crescente capacità iraniana, a patto che la tecnologia sia provata e vantaggiosa in termini economici. Agiremo in questo senso in collaborazione con voi, i nostri alleati Nato e con la Russia». Non si può essere più imparziali di così.Il vice presidente degli Stati Uniti inoltre ha mandato un segnale inequivocabile che il Cremlino farebbe bene a tenere in considerazione: «Gli Stati Uniti non riconosceranno l’Abkazia e l’Ossezia del Sud come stati indipendenti. Non riconosceremo alcun Paese che abbia una sfera di influenza. Continueremo a ritenere che gli stati sovrani hanno il diritto di prendere le loro decisioni e scegliere i propri alleati». Per la Georgia non è cosa da poco - rappresenta un passaggio fondamentale nell’orientamento della politica estera
dell’Amministrazione Obama! Il giorno successivo, in un incontro con il presidente della Georgia Mikheil Saakashvili, un giornalista chiese a Biden se gli Stati Uniti erano favorevoli all’inclusione della Georgia nella Nato. «Sono favorevole a che la Georgia continui ad essere indipendente e autonoma. Il resto sta alla Georgia di deciderlo». Con tutte le offerte di cooperazione e consultazione che Biden ha indirizzato alla Russia, i continui passi della Georgia verso la Nato non dovrebbero costituire un problema - a meno che il Cremilino non scelga di fare in modo che lo siano. Da un punto di vista diverso, molti cittadini dell’Europa occidentale devono riesaminare la questione della Georgia nella Nato sotto la nuova luce gettata dall’Amministrazione Obama a Monaco. «Di fronte a nuove minacce, nuove realtà ha detto Biden della Nato - abbiamo bisogno di nuova risolutezza per gestirle e di nuove capacità per riuscirci. La nostra Alleanza deve essere meglio equipaggiata per fare in modo che si ponga fine alla diffusione delle armi più pericolose del mondo, per fronteggiare il terrorismo e la cyber-security, per estendere il decreto della sicurezza energetica e per agire più efficacemente all’interno e all’esterno dell’area». In questo contesto, la Georgia nella Nato ha un senso. Il summit che si terrà a Stasburgo e Kehl il 3 e 4 aprile prossimi in occasione del sessantesimo anniversario dell’alleanza sarebbe l’occasione ideale per ribadirlo.
Africa /il potere logora chi non ce l’ha,
I
ecco perché le dittature sono eterne
Mugabe, Bongo, Biya, dos Santos, Gheddafi, Mubarak: il futuro è più nero DI
EGIZIA GATTAMORTA
n Africa, qual è la chiave del potere? Nella gestione della cosa pubblica, conta più la capacità di ricatto o il carisma personale? È maggiormente utile il controllo del dissenso o la sana gestione amministrativa? Di fronte alle vicende del continente durante l’ultimo cinquantennio è quanto 84
mai plausibile porsi tali domande per comprendere le cause di alcune disfunzioni che si ripetono costantemente, seppur con modalità differenti, sia nella fascia settentrionale che in quella sub-sahariana. Se l’elemento etnico è stato e continua ad essere una determinante fondamentale per le vicende locali, vi sono a latere dei carat-
scacchiere teri preponderanti che si perpetuano nelle cinque macroregioni. Uno di questi è certamente la longevità del potere, l’attaccamento viscerale ai ruoli chiave delle istituzioni, il perpetuarsi del comando senza possibilità alcuna di alternanza. Omar Bongo, Hosni Mubarak, Robert Mugabe, Zine el-Abidine Ben Ali, Muammar Gheddafi, Paul Biya, Josè Eduardo dos Santos sono visti da taluni come “padri della patria”, da altri come “dittatori” da eliminare per iniziare un nuovo percorso verso l’alternanza democratica e lo sviluppo reale dell’economia. Da veri leader, essi hanno avuto la capacità di coagulare delle forze intorno a sé, di dare risposte a particolari segmenti della popolazione, pur macchiandosi di crimini efferati. Cosa lega questi uomini e cosa li differenzia? Il fattore tempo è il denominatore comune, vale a dire che ognuno di loro gestisce il potere da circa trenta o quarant’anni, mentre la discriminante è la singola ricetta utilizzata per schiacciare l’opposizione all’interno, impedendo allo stesso tempo l’ingerenza esterna negli affari nazionali. I due prototipi possono essere considerati Mugabe e Bongo. Quanto l’uno ha utilizzato ogni forma di coercizione contro il suo stesso popolo ed è stato reietto dalla comunità internazionale, tanto l’altro ha avuto la capacità di mantenersi un interlocutore valido a livello regionale e internazionale, un peace-maker attendibile e un fattore di stabilità dell’area centro-occidentale, capace di rafforzare i legami con Francia e Stati Uniti, abile nell’insabbiare il controllo capillare dall’alto nonché alcune manovre di restrizione delle libertà individuali dei proprio connazionali. Del presidente dello Zimbabwe si è detto e scritto molto negli ultimi mesi. Le consultazioni elettorali dello scorso anno sono un esemplare perfetto di come il potere sia stato e continui ad essere gestito in modo personale ed autoritario. Dopo essere venuto a conoscenza dei risultati del primo turno elettorale del marzo 2008 (risultati che tra l’altro sono stati resi pubblici dopo circa cinque settimane), solo per qualche ora Mugabe è stato tentato di dichiarare la partita persa e di abbandonare il potere. Nel frangente è stato tuttavia sostenuto dalla rete clientelare dei servizi segreti, dai vertici militari e da alcuni dirigenti del partito. Quel baluardo lo ha fatto andare
avanti e gli ha permesso di riprendere saldamente le redini del potere nel secondo turno elettorale del successivo 27 giugno, grazie all’uso di intimidazioni personali e alle violenze locali. Una stampa sotto controllo, l’appoggio dei veterani di guerra e delle regioni rurali, la demonizzazione dell’ingerenza imperialista occidentale sono le armi utilizzate per rimanere saldo alla guida del partito (Zimbabwe African National Union-Patriotic Front, Zanu-Pf) e del Paese. La rete abilmente costruita non permette nessuna forma di dissenso: gli attivisti di alcune organizzazioni per la tutela dei diritti umani sono stati messi in carcere e torturati solo per essere scesi in strada a fare volantinaggio, numerosi aderenti e simpatizzanti nelle città del Movement for Democratic Ch’ange (Mdc) sono stati arrestati e obbligati a rilasciare confessioni false riguardanti presunti atti di sabotaggio al potere centrale. All’età di 85 anni, Mugabe ha in mano le chiavi del sistema ed il network clientelare che si è abilmente costruito lo garantisce dalle accuse di ogni tribunale interno. A livello internazionale invece, gode dell’appoggio (o meglio dell’omertà) degli omologhi capi di stato africani (solo i vertici di Kenya e Botswana hanno denunciato la sua gestione), nonché della protezione dell’alleato cinese che in cambio di rame e avorio ha tentato di garantire il rifornimento di armi in varie occasioni. Inconsistenti le voci per un possibile successore. Alcuni hanno parlato di Joyce Mujuru, altri di Joseph Misika (entrambi esponenti di spicco e vicepresidenti del partito) ma quello che è certo è che non c’è un “delfino” prestabilito e preparato per il dopo-Mugabe. Il meccanismo è stato cristallizzato, ogni piccolo cambiamento è stato bloccato sul nascere. Potrebbe sembrare paradossale ma neanche il crollo del sistema economico e l’inflazione arrivata ormai a livelli impensabili (si parla addirittura di un tasso di 231.000.000%) potrebbero eliminare il “big man”. Oggi come oggi, solamente il dilagare del colera (si sono registrate circa 2000 vittime nel giro degli ultimi mesi) potrebbe spingere ad un sovvertimento del potere. Non altro. Come dimostra la recente nomina a Primo ministro di Tsvangirai). Triste a dirsi, mentre la metà della popolazione è malnu85
Risk trita, oltre 2 milioni di persone dipendono dagli aiuti internazionali e l’80% della forza lavoratrice è disoccupata, il “vecchio combattente” si può permettere di addossare la responsabilità di questa situazione a fantomatiche armi chimiche che sarebbero state utilizzate da Stati Uniti e Gran Bretagna per causare siccità e carestia, può continuare a vivere nei suoi numerosi possedimenti e può alimentare i lussi sfrenati della moglie Grace (soprannominata “Gucci Grace” e “The First Shopper” per le spese sfrenate nelle boutique della grande moda) o del nipote Leo (già coinvolto in affari loschi ma sempre rilasciato dalle autorità giudiziarie). A poco servono le sanzioni Ue, il divieto di viaggiare in Paesi europei o il congelamento di beni al di fuori del territorio nazionale quando in un Paese di 13 milioni di abitanti solo una minima parte (forse un milione?) potrebbe vivere grazie ad un sistema costruito sulle minacce e le estorsioni. Che dire invece di Omar Bongo, il più longevo al potere dopo la morte di Eyadema in Togo? Anche in questo caso numerose sono le perplessità circa l’approvazione popolare dell’operato dell’uomo al vertice dello stato gabonese dal 1967. Plebisciti dell’80% nascondono sempre voti obbligati, “simpatie artefatte”, supporti condizionati. Un lungo periodo di governo ha garantito una stabilità apparente, un bilanciamento delle esigenze dei vari gruppi etnici ma ha anche permesso la creazione di un sistema clientelare intorno al presidente e al suo team, in particolare ai vertici del Parti Démocratique Gabonais (Pdg). Le ricchezze accumulate in patria e al di fuori deriverebbero da particolari commissioni elargite da compagnie petrolifere straniere (vd. Elf francese) interessate alle risorse energetiche locali. Cosa dire delle lussuose proprietà di Parigi acquistate con fondi pubblici? È palese in questo caso la connivenza dell’Eliseo che ha preferito per tanti anni “guardare ma non vedere”. Sfortunatamente la stessa cosa si può dire delle ultime tre amministrazioni americane che hanno scelto di eludere le denunce di numerose associazioni dei diritti umani pur di crearsi un appoggio forte nel Golfo di Guinea. Cosa ne sarà in questo caso della successione? Molte sono le voci 86
fumose alimentate dallo stesso Bongo, ad esempio si è parlato di una successione di tipo familiare (tentata in Togo e formalmente non riuscita) con l’inserimento extra-legem del figlio Ali Bongo, ma d’altra parte potrebbero anche essere selezionati dai quadri del partito come Paul Tongui (attuale ministro dell’economia e delle finanze, nonché marito di una figlia di Bongo) o Pierre Mamboundou (rappresentante dei Punu del sud ovest del Paese). Da nord a sud, da est a ovest, per mantenere il potere i leader africani non si pongono nessun limite: l’uso della revisione costituzionale è un classico, giustificato con la richiesta dal basso, o con la necessità di completare il lavoro intrapreso (ab illo tempore) per le infrastrutture e la modernizzazione del Paese. Tipico esempio è quello di Paul Biya (nella foto), l’uomo forte del Camerun dal 1982, che dopo aver già modificato i tempi della presidenza (passati da 5 a 7 anni), con qualche anno in anticipo, grazie al voto dell’Assemblea Nazionale del 10 aprile 2008 scorso si è assicurato la possibilità di ripresentarsi alle elezioni del 2011. Non è la longevità al potere - anomala di per se stessa - a lasciare perplessi. Quanto il contorno: l’ankylose sociale, è la stagnazione dell’autorità che fa nascere un senso di impotenza e frustrazione. È chiaro che se non c’è un ricambio alla guida del Paese, si sclerotizza la ricchezza, si alimenta un sistema malato, si garantisce il benessere di un migliaio di persone o di categorie particolari a danno della maggioranza. Se questo è lo sconfortante panorama africano c’è da chiedersi se vi siano delle eccezioni. Sì, limitate ma altisonanti. I nomi di Nelson Mandela, Joacquim Chissano, John Koufur, Alpha Oumar Konaré non sono andati nel dimenticatoio, anzi saranno sempre considerati simboli di una politica viva e dinamica, indipendentemente dalle critiche sul loro operato. Possibile che questi leader siano una meteora nella realtà continentale? Perché a loro sono stati sufficienti 7-8 anni e agli altri non ne bastano 40? Un potere che si perpetua nel tempo inevitabilmente diventa patologico e s’incancrenisce…C’è da pensare che la prima malattia che colpisce l’Africa non è l’aids, né la malaria o il morbillo, bensì la sua classe politica!
La storia
QUANDO STAVAMO DALLA PARTE SBAGLIATA
L’
di Virgilio Ilari
immagine dei musulmani in preghiera davanti alle cattedrali di Milano e Bologna è stata avvertita come una provocazione, e pure la sinistra laica e cattolica ha reagito con inquietudine e imbarazzo. All’epoca della mia giovinezza, invece, vi avremmo certo visto “un segno dei tempi”; l’avremmo esaltata, per partito preso, progressista ed ecumenica. Allora l’Europa moderna era terzomondista e anticolonialista: manifestava contro i suoi governi paleo-imperialisti e disprezzava i suoi soldati che si disonoravano nell’assurdo tentativo di fermare la storia. Oggi è fiera di aver tifato Obama e solidale con le ragazze e i ragazzi in divisa che aiutano gli america88
storia ni a portare pace e democrazia a casa degl’immigrati. Il li, ad aprire i negoziati segreti col Governo provvisorio mestiere dello storico è spiegare i cambiamenti di men- della Repubblica Algerina che condussero all’indipentalità. Ma prima di tutto occorre che se ne accorga e che denza e infine a stroncare la resistenza dell’Oas in qualche modo li misuri. L’arte è il miglior orologio (Organizzazione Armata Segreta), appoggiata da una della storia delle mentalità; e rivedere oggi un capola- parte del milione di europei immigrati in Algeria (i voro come La Battaglia di Algeri di Gillo Pontecorvo “pieds noirs”). Amnistiati nel 1968, i generali golpisti mi pare un buon sistema per misurare quanto siamo furono riabilitati nel 1982, ma il ricordo della “sale diversi da allora. Ricapitoliamo anzitutto il contesto. La guerre” non cessa d’inquietare il presente. guerra d’indipendenza algerina, condotta dal Fronte di Liberazione Nazionale (Fln) e dal suo esercito (Aln), La Battaglia di Algeri nella storia e nel film (1965-66) pose fine al tentativo della Francia di mantenere in Il film racconta l’inizio della rivoluzione algerina, in forme nuove il proprio impero coloniale, determinò il particolare l’operazione militare condotta dalla 10a crollo della IV repubblica e aperse - per entrambi i Divisione paracadutisti comandata dal generale Massu, Paesi - una nemesi storica non ancora conclusa. per circoscrivere la ribellione e riprendere il controllo Combattuta esclusivamente col della Casbah: un netto successo terrorismo e la guerriglia e senza militare, ma conseguito anche Nel 1966 “La Battaglia battaglie campali, provocò forse mediante la tortura e le esecuziodi Algeri” di Gillo mezzo milione di morti algerini ni, come ha ammesso e rivelato il (300/460mila combattenti e generale Paul Aussaresses in un Pontecorvo era in piena civili e 30/90mila collaboraziolibro del 2001 (La battaglia sintonia col clima d’Algeri dei servizi speciali frannisti) e oltre trentamila francesi ideologico europeo: cesi 1955-57, Libreria Editrice (di cui 28.500 militari e 4/6mila benessere economico, Goriziana, 2007). Pur apertamencivili). Ripetutamente sconfitti egemonia culturale te schierato dalla parte algerina, il sul campo e infine respinti in film rappresenta con equilibrio e Marocco e Tunisia da un poderocomunista, rifiuto obiettività la strategia dei represso esercito moderno di oltre del passato coloniale sori e lo sdegno degli europei vitmezzo milione di uomini, gli e del militarismo, simpatia time degli attentati terroristici, né 8mila superstiti dell’Fln resistetper i movimenti tace il passato di delinquente e tero abbastanza a lungo da vincedi liberazione del Terzo prosseneta dell’eroe algerino (Alì re la battaglia per conquistare i Lapointe). Nel film non ci sono cuori e le menti, non solo degli Mondo. Rivederlo oggi “buoni” e “cattivi”; eppure, proalgerini, ma della stessa opinione consente di capire quanto pubblica francese, logorando le siamo cambiati con la lotta prio per questo, c’è un’alta tensione morale di chiaro stampo marrisorse finanziarie e la determial terrorismo islamico xista. Tortura, esecuzioni, terrorinazione del governo nemico. smo sono raccontati come cruda Salito al potere nel maggio 1958 a seguito di un putsch militare capeggiato dal generale cronaca, sia dal punto di vista degli autori sia da quello Salan e col programma, inizialmente condiviso dallo delle vittime, segnalando allo spettatore che la verità e stesso Partito Comunista, di salvare l’Algeria francese, la comprensione storica rappresentano un ampliamenfu lo stesso generale de Gaulle a volere il referendum to di coscienza, e sono perciò eticamente superiori al che l’8 gennaio 1961 approvò l’autodeterminazione pregiudizio ideologico o moralistico. Lo spettatore dell’Algeria, a reprimere il secondo putsch dei genera- vede che il comandante dei parà (chiamato nel film 89
Risk “colonnello Mathieu”) e il capo dell’Fln (“Djafar”) si confrontano senza odio, con reciproca stima; mentre i giornalisti (inclusi quelli comunisti) che contestano ad entrambi i rispettivi metodi sporchi sono presentati come ambigui o ipocriti. «Il punto non è se dobbiamo o no usare la tortura: il punto è se l’Algeria deve o no restare francese», ribatte il colonnello. «I vostri bombardieri uccidono la nostra gente. Dateci i vostri bombardieri e noi vi daremo i nostri cestini-bomba», risponde il capo dell’Fln. Con suspense drammatica lo spettatore vede le donne dell’Fln che si preparano per la loro missione di morte, stirandosi i capelli e truccandosi per confondersi con le europee; passano i posti di blocco con la bomba nascosta nella borsetta da spiaggia o nel passeggino del figlio; scelgono le vittime al bar o all’aeroporto con un misto di pena e fatalismo. Epica la scena del primo matrimonio celebrato da un rappresentante del Fln: un gesto rivoluzionario che afferma la nuova legittimità nata dalla lotta e la speranza di una nuova vita personale e comunitaria. Scheda cinematografica Il film nacque nel 1965 su proposta di Yacef Saadi, uno dei capi militari dell’Fln ad Algeri, che ne fu anche produttore e attore e che scelse il titolo (quello inizialmente pensato da Pontecorvo era, in alternativa, “Tu partorirai con dolore” oppure “Nascita di una nazione”). Fu però il regista a imprimere al film l’effetto drammatico e documentaristico di un cinegiornale, non solo girandolo in bianco e nero e con una cinepresa da 16mm, ma sgranando l’immagine, specialmente in alcune scene. Tranne Jean Martin (nel ruolo del Col. Mathieu), tutti gli altri sono attori non professionisti (tra cui Brahim Hadjadj nel ruolo di Alì Lapointe; Yacef Saadi interpreta sé stesso col nome di “Djafar”). Il regista ha collaborato direttamente anche alla sceneggiatura, con Franco Solinas, e alle musiche, con Ennio Moricone. La scenografia è di Sergio Canevari, la fotografia di Marcello Gatti. Il film è stato premiato col Nastro d’argento al miglior regista e col Leone d’Oro al Festival di Venezia e ha ottenuto 3 Nomination al premio Oscar (per Film straniero, regista e sceneggiatura originale). 90
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Il contesto politico e ideologico Il film, prodotto nel 1966 da Saadi e distribuito dalla Rizzoli, era in piena sintonia col clima ideologico allora prevalente in Europa, incluse la Francia e la Gran Bretagna, caratterizzato dal benessere economico, dall’egemonia culturale comunista, dal rifiuto del passato coloniale e del militarismo, dal progressismo, dal pacifismo e dalla simpatia per i movimenti di liberazione del Terzo Mondo. Questa espressione fu addirittura coniata in Francia nei primi anni Cinquanta, ma la guerra d’Algeria provocò una profonda crisi nazionale e ciò spiega perché il film di Pontecorvo fu censurato fino al 1970 dal governo francese. Nel caso dell’Italia, il “terzomondismo” era però anche una precisa linea di politica estera, tesa a recuperare la piena “parità” diplomatica con i minori vincitori della seconda guerra mondiale (Francia e Gran Bretagna) e a ritagliarci un nostro spazio autonomo nei rapporti coi Paesi produttori di petrolio. Il punto di forza del terzomondismo diplomatico italiano era di poter contare su di una convergenza di interessi con gli Stati Uniti, impegnati anch’essi a subentrare in forme nuove nei due ultimi imperi coloniali europei. Benché la questione non sia stata finora approfondita, sembra ormai certo che l’Italia - su pressione dell’Eni guidata da Enrico Mattei - abbia dato un forte sostegno militare al Fln algerino, e che il Centro Addestramento Guastatori (Cag) - la
storia base segreta italo-americana creata nel 1954 a Nord di Oristano - sia stato utilizzato addirittura per addestrare i combattenti algerini (“terroristi” per i francesi, ma “freedom fighter” per l’Italia e gli Stati Uniti, pur alleati della Francia, il cui territorio metropolitano, garantito dalla Nato, includeva allora anche l’Algeria). In ogni caso questa politica fu ufficializzata nel 1956 dal rifiuto dell’Italia di partecipare all’ultima e fallimentare impresa neocoloniale europea (l’intervento anglo-francese nel Canale di Suez), e non fu fermata dalla misteriosa morte di Enrico Mattei (avvenuta nel 1962 per un incidente aereo di cui furono sospettati l’Oas o gli stessi servizi segreti francesi) e fu rafforzata dal ritiro delle forze armate britanniche da Malta (1967) e dal colpo di stato in Libia (pianificato nel settembre 1969 nell’ambasciata libica a Roma), con conseguente espulsione delle basi militari e delle compagnie petrolifere inglesi dalla Cirenaica (Nonostante l’espulsione della comunità ebraica e italiana dalla Libia, nel 1971 l’Italia sventò un tentativo dei servizi segreti inglesi di assassinare Gheddafi, che fu riarmato dall’Italia, accolse 30mila tecnici dell’Eni e nel 1974 salvò la Fiat). (v. V. Ilari, Storia Militare della Prima Repubblica, 1994). Cosa possiamo imparare oggi dal film di Pontecorvo Rivedere questo film oggi, consente di cogliere il mutamento del clima ideologico determinato in Europa e negli Stati Uniti dalla lotta contro il terrorismo islamico e dalla difficile convivenza con le minoranze musulmane. Ma consente anche di confrontare la diversa ispirazione politica della lotta d’indipendenza algerina (che si richiamava comunque ai modelli laici ed europei del nazionalismo e del socialismo) e dell’attuale fondamentalismo islamico a base religiosa. Non dimentichiamo che la Francia fece appello proprio alla tradizione religiosa musulmana per contrastare il proselitismo del Fln nella popolazione algerina, e che fu poi il trasferimento del consenso popolare al Fronte Islamico di Salvezza a far crollare il regime del Fln, accusato di corruzione ma sostenuto, per via del vitale gasdotto, dalle democrazie occidentali (le quali giustificarono, nel 1991, l’annullamento del primo turno
elettorale vinto dal Fis, il colpo di stato militare e la repressione della sanguinaria rivolta terroristica con gli stessi metodi usati quarant’anni prima dai francesi: v. le confessioni del colonnello algerino Habib Souaidia (La sale guerre, La Découverte, 2001). La battaglia di Algeri è inoltre uno dei rarissimi film che fa comprendere la “struttura” oggettiva della guerra (posta in gioco, calcolo e decisione strategica, incertezza). È dunque prezioso per la storia militare e non a caso è stato proiettato e dibattuto nelle accademie militari americane alla vigilia dell’invasione dell’Iraq (2003).
Le altre pellicole sulla guerra d’Algeria La filmografia sulla guerra d’Algeria conta almeno 23 film e 3 documentari (v. Films sur la guerre d’Algérie - Wikipédia, tratto da Guy Hennebelle, Mouny Berrah e Benjamin Stora, La Guerre d’Algérie à l’écran, Cinémaction, 1997. Cfr. pure A. Evans, Brassey’s Guide to War Films, 2000 e la tesi di laurea di Yasmin Abo-Loha, La guerra di Algeria nel cinema francese, Milano, Ucsc, 2002; entrambi consultabili nella nostra biblioteca). I primi film, di intonazione fortemente anticolonialista e perciò censurati dal governo francese, furono quelli di René Vautier (Une nation 1954; Algérie en flammes, 1958; Un peuple en marche, 1963): un quarto film di questo regista controcorrente, del 1971 (Avoir 20 ans dans les Aurès), non fu distribuito, benché premiato a Cannes. Il tema della guerra algerina fu portato nelle sale cinematografiche solo nel 1961, con due film e un documentario francesi. Le petit soldat di Jean Luc Godard, censurato nel 1960 perché trattava di diserzione e tortura (anche da parte del Fln), fu sdoganato nel 1963 e il tema della tortura ricorre anche in Muriel di Alain Resnais (1964), mentre la guerra compare sullo sfondo di Les parapluies de Cherbourg (1964, di Jacques Demy, con Catherine Deneuve). Nel 1966, oltre al film di Pontecorvo, ne uscirono altri due, uno algerino (Le Vent des Aurès di Mohammed Lakhdar-Hamina), incentrato su una madre alla ricerca del figlio arrestato dai francesi, e uno americano (Né onore né gloria, 1966, di Mark Robson, tratto dal romanzo Les Centurions di Jean Lartéguy), 91
storia un tipico film d’azione anni ‘60, condito di banalità moralistiche. La storia (di pura fantasia benché alcuni personaggi siano ispirati a Yacef Saadi, Bigeard e Aussaresses), è quella di un improbabile colonnello francese (Anthony Quinn) incaricato di arrestare un suo ex-commilitone dell’Indocina (George Segal) che si è ribellato contro l’abbandono dell’Algeria. La morale è rappresentata da un capitano (Alain Delon) che affianca il colonnello disapprovandone i metodi ma che alla fine comprende il diritto dei popoli all’indipendenza. In seguito il cinema francese ha affrontato la guerra d’Algeria solo come questione morale ed esclusivamente dal punto di vista soggettivo dei combattenti francesi. Se Le crabe-tambour (1977) e L’honneur d’un capitaine (1982), entrambi di Pierre Schoendoeffer, La Trahison (2005, di Philippe Faucon) e L’ennemi intime (2007, di Florent Emilio Siri) rivalutano la memoria e le ragioni dei veterani, vi sono pur state nuove denunce della tortura e delle stragi. Ancora nel 1973 fu censurato R.A.S. (una coproduzione italofranco-tunisina di Yves Boisset, che nel 1982 girò pure l’analogo Allons z’enfants). Ma La Question di Laurent Heyenmann, basato su un’inchiesta del giornalista Henri Alley, segnò una svolta nel 1977. Le testimonianze dei veterani sulla sale guerre abbondano in un documentario televisivo del 2002 (L’ennemi intime, di Patrick Rotman); Escadrons de la mort, école française (inchiesta giornalistica e poi film di Marie-Monique Robin) denuncia l’addestramento francese dei militari argentini; La nuit noire di Alain Tasma (2005) ricorda la strage di manifestanti nordafricani uccisi a Parigi dalla polizia il 17 ottobre 1961. La nemesi della tortura è il tema di Mon colonel (Laurent Herbiet, 2006).
Gli altri film di Gillo Pontecorvo sulla guerra rivoluzionaria Fratello del celebre fisico Bruno Pontecorvo, cresciuto in una famiglia benestante di Pisa, esule in Francia a seguito delle leggi razziali e formatosi nella cultura della Sinistra francese, comunista militante, Gillo Pontecorvo (1919-2006) trattò di guerra rivoluzionaria anche in altri due film, Queimada (1968, con Marlon
Brando) e Ogro (con Gian Maria Volonté). Il primo, pur essendo una storia di fantasia, traccia un quadro preciso e penetrante della storia dell’America Latina, con le vecchie potenze coloniali (Spagna e Portogallo) abilmente scalzate dall’Inghilterra in nome “dell’indipendenza” e della “libertà” (in realtà manovrando come burattini la locale borghesia creola e usando gli schiavi ribelli come carne da cannone). Ogro (“Orco”) racconta l’attentato all’ammiraglio spagnolo Carrero Blanco, designato da Franco come suo successore e ucciso dai terroristi baschi dell’Eta nel 1973. La sceneggiatura, basata su un libro che rivendicava ed esaltava l’uccisione “dell’Orco” fascista, iniziò nel 1976, ma fu più volte rimaneggiata per le vicende politiche italiane e le contraddizioni interne della Sinistra di fronte alle Brigate Rosse. Pontecorvo ebbe anche un contrasto con Ugo Pirro circa l’opportunità di discostarsi dalle testimonianze dei terroristi per insinuare il sospetto che fossero stati in realtà manovrati dai franchisti (lo stesso argomento usato dal Pci per screditare le Br agli occhi delle proprie frange estremiste). Il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro da parte delle Br (1978) fece slittare al 1980 l’uscita del film. L’autrice del libro lo accusò di “moderatismo” per il pio sermone messo in bocca al capo terrorista (la violenza è giustificata contro la dittatura, mentre diventa fanatismo quando ci sono gli strumenti democratici per realizzare i propri ideali).
Bibliografia essenziale sulla guerra d’Algeria: AMIRI, Linda, La Bataille de France, la guerre d’Algérie en métropole, Robert Laffont, 2004. AUSSARESSES, Paul, La battaglia d’Algeri dei servizi speciali francesi 1955-57, Libreria Editrice Goriziana, 2007. BRANCHE, Raphaëlle, La Guerre d’Algérie, une histoire apaisée ?, Points Seuil, 2005. DROZ, Bernard, Évelyne LEVER, Histoire de la guerre d’Algérie, Seuil, 1982 (2002). DUCHEMIN, Jacques C., Histoire du FLN, La Table Ronde, 1962. HARBI, Mohammed, Les Archives de la Révolution algérienne, 1981. ID. et Benjamin STORA, La Guerre d’Algérie (1954-1994). La fin de l’amnésie, Robert Laffont, 2004. ID.et Gilbert MEYNIER, Le FLN, documents et histoire 1954-1962, Paris, Fayard, 2004. HENISSART, Paul, OAS. L’ultimo anno dell’Algeria francese, Garzanti, 1970. HORNE, Alistair, Storia della guerra d’Algeria, Rizzoli, 1980*. MAUSS-COPEAUX, Claire, Appelés en Algérie. La parole confisquée, Paris, Hachette-Littératures, 1999. ID., À travers le viseur. Algérie 1955-1962, Lyon, éd. Aedelsa, 2003. MEYNIER, Gilbert, Histoire intérieure du FLN, Paris, Fayard, 2002. PERVILLE, Guy, Pour une histoire de la guerre d’Algérie, Picard, 2002. RIOUX, Jean-Pierre (dir), La Guerre d’Algérie et les Français, Fayard, 1990. STORA, Benjamin, Histoire de la guerre d’Algérie, 1954-1962, la Découverte, 1993. THENAULT, Sylvie, Histoire de la guerre d’indépendance algérienne, Flammarion, 2005. UBOLDI, Raffaello, Servizio proibito. Il primo libro sulla guerra algerina, Einaudi, 1958.
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ANNIBALE, SCACCO MATTO AI ROMANI IN 45MILA MOSSE
N
di Mario Arpino
essuno può negare di aver subìto, a scuola, il fascino di Annibale, pur nella noia generale delle guerre puniche. Tutti ci ricordiamo della traversata delle Alpi con gli elefanti, delle battaglie delle tre T (Ticino, Trebbia e Trasimeno), di Quinto Fabio Massimo il Temporeggiatore, di Catone l’Uticense che insisteva perché Cartagine dovesse essere distrutta e degli ozii di Capua. Ma i nostri ricordi, in genere, si arenano lì, in superficie. Della sconfitta romana a Canne, una delle più sanguinose tragedie della storia militare di tutti i tempi, in realtà ne sappiamo poco o nulla. Dopo aver letto il libro di Bocchiola e Sartori non solo ne sapremo molto di più, ma, attraverso l’analisi attenta degli Autori, avremo scoperto un mondo che non immaginavamo e delle analogie con altri fatti della storia che, senza questa guida, non ci saremmo mai azzardati ad affrontare. Sgombriamo subito il campo dagli accadimenti di quell’infausta giornata - era il 2 agosto del 216 a.C - per concentrarci poi meglio sui commenti, le deduzioni, l’analisi e, a volte, anche le illazioni dei due ricercatori. Canne era all’epoca dei fatti una città dell’Apulia, tra Canosa e il mare (a 12 km. da Barletta), sulla riva destra dell’Ofanto e nei pressi dell’odierna Masseria di Canne. Il numero dei combattenti è, anche nel libro, oggetto di controverse supposizioni, basate sopra tutto sulle testimonianze di testi antichi. Non è irrealistico pensare che Annibale schierasse 40 - 45 mila uomini, in gran parte ispanici, galli, celti, liguri, numidi e libici. Roma schierava otto legioni di cittadini romani e un buon numero di ausiliarii italici, per un totale stimabile in 50 - 55 mila combattenti, agli ordini dei consoli Gaio Terenzio Marrone e Lucio Emilio Paolo, che assumevano il
MASSIMO BOCCHIOLA MARCO SARTORI Canne: descrizione di una battaglia Mondadori pp 288 • euro 19 Il 2 agosto 216 a.C. è la data più funesta nella storia della Roma repubblicana. L’esercito romano, guidato dai consoli Emilio Paolo e Terenzio Varrone, si scontrò con quello cartaginese. Il libro parte dall’analisi delle condizione economiche e politiche del bacino del mediterraneo. Da una parte il melting pot di razze e commerci, dall’altra la determinazione politica di Roma. Bocchiola è traduttore di opere inglesi e ha pubblicato tre volumi di poesie. Sartori, studioso di storia romana, ha pubblicato diversi saggi. Assieme a Bocchiola nel 2005 ha pubblicato il libro Teutoburgo.
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Risk comando a giorni alterni. Per quanto riguarda la strategia degli schieramenti, Annibale schiera in avanti il centro, formato dai Galli e dalla fanteria celtica e iberica, tenendo fermi alle due ali i fanti libici, mentre con la cavalleria numida scompagina l’ala destra nemica. Quando la fanteria romana, con gli uomini migliori in prima schiera, avanza e penetra con una certa facilità nel centro dello schieramento cartaginese, entra in azione la fanteria libica stringendo ai lati, con manovra a tenaglia, il cuneo dei romani, costringendoli a combattere su due fronti. Inizia una carneficina che dura circa otto ore, con la cavalleria che completa l’accerchiamento alle terga del cuneo. Muoiono in combattimento almeno 25 mila romani, tra i quali il console Emilio Paolo, e circa 10 mila sono fatti prigionieri. Molti di questi, come si usava, vengono trucidati sul posto. Sui numeri, tuttavia, le cronache non concordano, né si fa cenno al numero dei caduti in campo cartaginese. Polibio parla di 4 mila galli e 1.500 tra Ispani e Libi. Un km. a sud della città antica una campagna di scavi ha messo in luce un sepolcreto esteso per 23 mila metri quadrati, con mucchi di scheletri fino a sei strati, e fosse rettangolari di materiale non omogeneo. Manca qualsiasi corredo funebre e rare sono le armi, in quanto quelle dei caduti venivano riutilizzate dai nemici. Fin qui i fatti e la dinamica dello scontro, di cui nel libro si ha un quadro organico solamente alla fine. D’altra parte, il pregio di questa ricerca non sta tanto qui, quanto nel paziente lavoro preparatorio attraverso il quale gli Autori, passo dopo passo, hanno la capacità di preparare il lettore ad assaporare il film della battaglia finale, dopo aver compreso ambiente, abitudini, usanze, strategie, tattiche, motivazione e, infine, modo di combattere dei contendenti. Il ricorso frequente, con ampi brani, ai testi di Tito Livio e di Polibio ha il merito non solo di consentire confronti, ma soprattutto di riportare gradevolmente indietro nel tempo coloro che hanno fatto studi classici. Molti lettori infatti ricorderanno, spero con piacere, i tempi in cui erano impegnati sui banchi del liceo nelle versioni dal greco e dal latino, con il vantaggio che qui le traduzioni 96
sono già belle e pronte per la consumazione. A volte, la vivacità del racconto e le precisione dei contorni ci ricorda il film dei grandi eventi della prima guerra mondiale, delle battagli di Verdun e della Marna, con quei feroci massacri davanti al filo spinato e alle mitragliatrici che hanno decimato la popolazione maschile di interi villaggi di ambo le parti. Solo che a Canne non c’erano carri, aerei, lanciafiamme e mitragliatrici. C’erano, come osservano gli Autori, solamente giavellotti, frecce, armi bianche e armi primitive, zoccoli di cavalli e, nella ferocia della mischia corpo a corpo, pietre, calci, morsi, polvere, sudore e sangue. Eppure, sebbene con queste armi e per la durata presunta di poche ore - la fatica fisica non avrebbe potuto consentire tempi più lunghi - il conto delle vittime di questa battaglia è dello stesso ordine di grandezza, e forse superiore, a quella dell’offensiva britannica sulla Somme, al bombardamento di Dresda o alla bomba su Hiroshima, e poi su Nagasaki. C’è davvero da riflettere sulla ferocia del genere umano e sulle sue attitudini. La struttura del libro è piuttosto complessa e articolata, dato l’ampio panorama storico e la profondità delle analisi che l’appassionata ricerca degli Autori presenta al pubblico. In altre parole, per quanto la lettura sia agevole e scorrevole, è un libro impegnativo, il cui contenuto non è apprezzabile nella sua interezza con il semplice sfoglio delle pagine, come a volte si fa. Bisogna leggerlo con metodo, dall’inizio alla fine, e le sorprese non mancheranno. Magari sotto forma di cose, fatti, caratterizzazioni ed eventi che ai tempi di scuola avevamo solo percepito, ma non compreso, nè tanto meno assimilato. Questa è l’occasione buona. Il libro si compone di una bella introduzione e di un dotto prologo, dove si mettono a confronto le civiltà di Roma e Cartagine, e di cinque parti, a loro volta suddivise i tre o quattro capitoli. Nella prima parte ci si sofferma sul lungo cammino del famiglia dei Barcidi - la prima guerra punica fu condotta da Amilcare Barca - prima di arrivare a un inevitabile confronto con Roma. È in questa parte che si può comprendere il metodo di stima del numero dei
libreria Cartaginesi, dei Romani e dei rispettivi alleati. È qui che si pone il quesito se contro Roma ci fosse tutta Cartagine, o solamente una famiglia accanita e nemica giurata. Nella seconda parte si descrive, in modo ragionato, la composizione, le armi, le tattiche, il tipo di addestramento e lo spirito combattivo dei due eserciti. Mentre le legioni erano formate e comandate da veri cittadini romani, con truppe ausiliarie italiche inquadrate a parte, ma comandate da ufficiali romani, l’esercito cartaginese era alquanto eterogeneo, con pochi veri cartaginesi presenti nei ranghi. Nella terza parte si cerca di immedesimarsi nella battaglia antica, attraverso l’immaginazione di quelli che dovevano essere i rumori, gli odori, l’ambiente, l’effetto degli agenti atmosferici e le tecniche di una battaglia a schieramenti contrapposti in cui la massima distanza dei contendenti era quella del lancio del giavellotto. Solo
una trentina di metri, il seguito era corpo a corpo. Nella quarta parte c’è finalmente la descrizione della battaglia, con relative tecniche, tattiche, orrori e dinamica sul terreno. La quinta parte è stand alone, a sé stante, ma non è fuori dal libro. Riporta interessanti valutazioni sul “dopo Canne”, sui tre volti di Annibale che gli antichi ci hanno tramandato, a seconda che sia visto dai Romani, dai Greci o dagli stessi Punici. Completa la parte un capitolo sul mistero della morte di Annibale, cui i Romani non cesseranno mai di dare una caccia inesorabile. La bibliografia è molto ampia e un intelligente indice dei nomi - sono citate solo le persone, non i luoghi - agevola una lettura che deve necessariamente essere attenta e dedicata. Ma questo impegno che il libro richiede è un pregio, un segno della serietà dell’analisi e della ricerca. Non è in alcun modo un difetto.
L’ULTIMA STATUA DI FRANCISCO FRANCO La strana alleanza italo-spagnola degli anni ‘30 vista da uno storico inglese
Ludovico Incisa di Camerana li, ancora da registrare e discutere. L’eccellente bestseller dello storico inglese Antony oche settimane fa la stampa spagnola annunciava Beevor nella edizione 2006 del denso saggio The la rimozione della statua del generale Franco, l’ul- Battle for Spain – The Spanish Civil War 1936-1939 tima finora esposta nella piazza di un comune, tra l’al- (Penguin Books - Londra), ha ricostruito una vicenda tro governato dalla destra politica. Si confermava storica conflittuale ormai lontana, che si era infiamcosì, con questa decisione, il definitivo distacco della mata con un’intensità tragica, imponendosi alla Spagna nel suo insieme da una storia del Novecento Spagna, ad un paese chiuso in sé stesso, rimasto fuori che ha abbinato nel contempo la tragedia e la moder- dalle correnti del mondo centrale europeo, ma capace nità, il volontarismo più generoso e l’eccidio più cru- in pieno secolo XIX di offrire una storia corredata dele. Si tratta forse di una delle poche iniziative pro- ancora oggi da reminiscenze spesso dimenticate, vinciali che ricordavano ancora l’immagine dei prota- come, per esempio, quelle riguardanti il risvolto poligonisti di un secolo severo, del clima rovente e spie- tico e militare italiano della tragedia spagnola. tato dell’ultima guerra civile di Spagna, di una delle Nell’insieme le immagini di allora non sono più valiultime guerre globali europee, di un evento che ha de, non esistono più collegamenti commemorativi fortemente favorito la ripetizione, anche in Italia, di frequenti, le bandiere stanno negli armadi, ma il pasuno scontro interno nelle sue forme più aspre e crude- sato, per quanto allontanato, per quanto imbarazzante
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Risk e nebbioso, risponde alle tesi di Beevor che non nega l’efficacia sul campo dell’intervento italiano, corretto dal predominante contesto spagnolo, ma non giunge a rivelare una spaccatura di fondo tra falangismo e fascismo, compatibili anche se diversi, anche se comunque si insiste su un’esaltazione costante del primo: “il falangismo si distingue dal nazismo e dal fascismo per un profondo misticismo”, il falangista ideale è “mezzo monaco, mezzo soldato”. I militari insorti si distingueranno dalla parte opposta strappando al nemico quasi ogni volta l’iniziativa. Ma al principio il movimento militare sembra fallito: quando scatta ufficialmente l’allarme, il 18 luglio 1936, pochi comandanti ordinano immediatamente lo stato di guerra. Le adesioni si decideranno nelle giornate successive. A mano armata i colonnelli liquidano i generali incerti in Marocco, a Siviglia in Andalusia, a Salamanca e Valladolid nel Centro, in Castiglia, a Saragozza in Aragona, a Pamplona in Navarra, mentre a furor di popolo la sinistra conquista la capitale Madrid e la capitale dell’industria Barcellona, capitale della Catalogna. I prescelti si mettono agli ordini del capo, il generale Franco, arrivato in Marocco in aereo dalle Canarie e pronto ad eliminare oppositori ed incerti. La stessa tragica scena si ripeterà nella terra ferma con la liquidazione dei generali riluttanti, sostituiti da giovani colonnelli e capitani nazionalisti, quasi tutti con un’esperienza africana. L’avviamento di una guerra organica comincia con l’intervento, su richiesta degli emissari nazionalisti spagnoli, del dittatore italiano, Mussolini, che di98
sporrà l’invio di una forza aerea italiana, da impiegare per la protezione del passaggio dello Stretto di Gibilterra, permettendo ai contingenti dell’esercito coloniale spagnolo, minacciati da una flotta repubblicana potente, di varcare lo stretto di mare che separa le due sponde. Il passaggio già avviene sotto la protezione degli aerei italiani (Vedi Aldo Santamaria, Operazione Spagna, 1936-1939, Volpe editore, Roma 1965, pp.10-11). All’intervento aereo italiano si aggiungerà altresì un analogo intervento tedesco, con gli stessi obbiettivi e con rapporti diretti con il comando spagnolo impersonato dal generale Franco, che assumerà di fatto il comando supremo delle forze nazionaliste e si servirà dell’aiuto degli aerei italiani e tedeschi per costringere le navi repubblicane, prive degli ufficiali di carriera, eliminati da equipaggi ammutinati, a ritirarsi dallo stretto con gravi perdite. Seguirà lo sbarco nella terraferma dell’esercito del Sud, che si muoverà rapidamente nell’interno con le sue colonne e i suoi giovani comandanti, tra l’Andalusia e Madrid. Guidato dai giovani colonnelli, aiutato alle frontiere dai militari portoghesi l’esercito del Sud forma un blocco militarizzato, la cui capacità combattiva era stata approvata dall’addestramento clandestino in Italia di giovani ufficiali spagnoli, mentre un magnate José Luis Oriol si era procurato in Belgio gli armamenti necessari. I comandanti dell’esercito del Sud proseguiranno nell’occupazione di zone di antica povertà. In diverse di esse scoppia una guerra sociale che include anche i presidi della Guardia civile, sotto la
ANTONY BEEVOR
The Battle for Spain The Spanish Civil War 1936-1939 Penguin Books pp. 64 • £ 12,99
La guerra civile spagnola aveva attratto da tutto il mondo sia liberali che socialisti per sostenere la causa contro il governo di Francisco Franco. Si trasformò in un conflitto pieno d’atrocità e caratterizzato dal genocidio politico. L’autore ne racconta la genesi dal colpo di stato del giugno del 1936 ai «selvaggi combattimenti» dei tre anni successivi, compresa la distruzione di Guernica, da parte della Legione Condor.. Russi, italiani e tedeschi stavano mettendo alla prova i loro apparati militari che avrebbero poi utilizzato durante il Secondo conflitto mondiale. Lo scontro si concluse con la disastrosa sconfitta dei repubblicani filo-comunisti. Beevor analizza e svela il complesso intreccio politico tra le forze in campo, spesso anche i legami e la natura di equilibri locali che determinarono la deflagrazioni del conflitto.
libreria mira di una popolazione insorta contro il potere patronale. Saranno sterminate intere famiglie di proprietari e amministratori. D’altra parte le colonne nazionaliste non perderanno tempo nella reazione ad una rivoluzione, quella dei contadini, isolata e senza appigli robusti. Comunque la lotta di classe verrà terminata a forza con il rapido sterminio degli elementi più pericolosi o presunti tali. La resistenza del presidio dell’Alcazar di Toledo diventerà, una volta liberato, l’espressione di un’antica cavalleria. D’altra parte la vicinanza con Madrid non aiuterà la fine del conflitto. Le iniziative al Nord, abitato da un popolo relativamente prospero, faranno campo al generale Emilio Mola che ha organizzato il movimento insurrezionale in concomitanza con Franco. Mola porrà subito di fronte ai capi militari dipendenti ma esitanti un dilemma, «l’adesione o la morte». Il problema della scelta verrà esposto a tutti i militari in servizio che in maggioranza aderiranno al Movimento e indosseranno le divise tradizionali. Viceversa non tutti i generali, come osserva Beevor - riescono a raggruppare le proprie truppe e a dar luogo a nuclei compatti. Riceveranno però un aiuto finanziario dalla burocrazia pubblica dei grandi centri del Nord, spaventata dai disordini esterni, aggredita dalle masse in subbuglio, rifugiata all’estero in Francia e in Inghilterra. La presenza sempre maggiore in terraferma di forze militari terrestri ed aeree, italiane e tedesche, non influirà sui piani di Franco, che con una voluta lentezza adopererà i suoi eserciti, spagnoli od esteri, secondo le proprie decisioni e secondo una tecnica diretta essenzialmente a provocare lo sterminio degli avversari, mentre da parte italiana si mira a creare, per la via militare un legame politico-economico permanente con una Spagna, che invece, si preoccupa soprattutto di mantenere la propria libertà d’azione. Si spiega così come il ritardo delle forze italo-spagnole nella conquista del porto di Malaga, voluta con insistenza dagli italiani e soprattutto dai proprietari locali, dai rappresentanti della grande e media proprietà, vittima della spinta rivoluzionaria, rallenterà per volere di Franco la marcia delle forze italo-spagnole verso
il Nord. Accadrà così che il comando italiano quando cercherà di sfondare per le vie interne la meta della capitale repubblicana, Madrid, si troverà di fronte un esercito militarmente sostenuto da missioni sovietiche. In verità, il tentativo delle divisioni italiane di accelerare con tutte le forze la fine del conflitto non si svilupperà per mancanza di un appoggio serio dei rinforzi dell’esercito franchista. Ciò nonostante verranno impegnate quattro divisioni italiane, la Fiamme Nere, la Frecce nere, la Dio lo vuole, la Littorio, comandate dal Generale Roatta, con l’aggiunta di mezzi di trasporto e carri armati leggeri e la protezione di 32 aerei, come descrive con accurata precisione Beevor. Parteciperanno alla battaglia i fuorusciti antifascisti che con altoparlanti inciteranno alla diserzione i soldati italiani dell’esercito e della milizia. Nel contempo le condizioni degli aeroporti italo-spagnoli rendono impossibile, a favore delle divisioni italiane, l’intervento degli aerei italiani. Tuttavia i comandanti italiani non avrebbero dato il giusto peso al rafforzamento continuo dell’apparato avversario ne’ alla situazione atmosferica. Il tentativo del corpo di spedizione italiano di accelerare la fine del conflitto non riesce insomma per la mancanza di un appoggio consistente da parte spagnola, non richiesto, peraltro, da parte italiana. Da allora il Corpo militare italiano avanzerà al passo prudente di Franco. Come primo successo la crisi interna delle forze repubblicane del Nord Est porterà all’occupazione della Spagna del Nord da parte delle fanterie spagnole ed italiane, che si distingueranno nella pressa della capitale del Paese basco, Bilbao, e successivamente nello sfondamento del Passo dello Scudo, la via del Mare Cantabrico, ricordo immemorabile di un criterio riservato, dopo la battaglia, ai numerosi caduti. Il ridimensionamento delle forze italiane si verificherà grazie, inoltre, all’incorporazione degli ex prigionieri dell’esercito repubblicano nell’esercito di Franco, avvenuta senza complessi. Non mancheranno risvolti comici: un futuro celebre poeta, capitano dell’esercito basco, costretto ad arruolarsi come sergente nell’esercito franchista, dopo la cattu99
Risk ra si troverà nel reparto a lui assegnato tra gli stessi soldati, reduci delle sue stesse vicende, anche loro sotto la nuova bandiera. Nel contempo il Kremlino cerca di estendere alla Spagna repubblicana quella stessa mania politica epurativa, seguita ostinatamente da Stalin applicandola anche ai capi politici spagnoli civili e militari, ma da essi dignitosamente respinta. Le truppe italiane, dopo la fine dei combattimenti decisivi, verranno impiegate nell’erosione di quanto ancora rimaneva dell’esercito repubblicano, etnicamente ancora consistente, ma portata verso l’autodistruzione, con la generalizzazione degli eccidi, di destra e di sinistra, indignando la celebre intellettuale francese Simone Weil, per la fucilazione di un ragazzo di 15 anni che rifiuta di passare con i rossi per aver salva la vita e verrà fucilato. Il comportamento finale dell’esercito volontario verrà lodato da Beevor: “Gli italiani stanno combattendo molto meglio che in altre circostanze” (p.325). Del resto soltanto a due italiani e non agli stranieri verrà concessa da Franco la massima decorazione spagnola, la Laureata: il sergente maggiore Renato Zanardo, sopravvissuto (Santamaria, p.104-105) il tenente di cavalleria principe Giuseppe Borghese, caduto (Santamaria, p.155). È da aggiungere il tenente colonnello di Stato Maggiore,
Giorgio Morpurgo, che affronta in assalto suicida le postazioni nemiche (Santamaria, p.105). La presenza italiana durerà fino alla resa finale dell’esercito repubblicano. Successivamente l’Italia in apparenza non riuscirà ad agganciare politicamente la Spagna. Economicamente sarà più fortunata. Come compenso dell’aiuto italiano il governo spagnolo offrirà un forte appoggio alla penetrazione industriale italiana, in particolare alle grandi imprese, dalla Fiat alla Montecatini, all’Olivetti. Sul piano militare anche i personaggi più significativi della sinistra italiana come il socialista Pietro Nenni mantennero un rapporto di convenienza con i governanti spagnoli durane il regime franchista. La nostra sconfitta politica e militare nella terza guerra mondiale non ostacolò la ripresa di legami reciproci di collaborazione tra Italia e Spagna in campo militare. Nelle cerimonie di gala gli ufficiali italiani ostentavano le decorazioni spagnole e viceversa. La marina italiana scambiava periodicamente visita con la marina spagnola. Quali i rapporti oggi con l’Italia? Con la Spagna di notte quelli di veterani brontoloni, di giorno di invidia. Per le due parti un quadro comune di dispetto con Francia e Germania e un forte senso di fraternità, difficilmente intaccato anche sul piano militare.
TUTTE LE BATTAGLIE DELL’ORIENTE Giappone, Cina e India mirano a una leadership planetaria (e tramano nell’ombra)
Andrea Tani sviluppo, direttamente e come imitazione dei eventuali successi da parte di altri. Un altro importante effetto a prima grande questione economica dei nostri gior- riguarda lo spostamento degli equilibri geopolitici del ni è se e come il mondo riuscirà a superare la crisi in mondo dall’Occidente all’Oriente, e l’eventuale competiatto. La seconda è quale sarà il contributo che a questo zione che questo processo innescherà fra est e ovest, processo daranno le tre grandi economie emerse ed emer- intendendo con quest’ultimo il mondo euroatlantico progenti dell’Asia, Giappone, Cina e India. Oggi esse sono priamente detto o quello allargato, comprendente cioè i impegnate in una loro corsa verso la leadership planeta- Paesi dell’Asia-Pacifico occidentali e completamente ria e/o regionale che, come principale effetto socio-politi- occidentalizzati: il Giappone, in primis, parte dell’Asean co, dovrebbe far fuoriuscire miliardi di uomini dal sotto- e - da verificare quando e quanto - l’India.
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libreria Innumerevoli discussioni, ricerche e analisi sono stati prodotti su questi argomenti, che danno corpo ai i best seller più venduti e dibattuti della saggistica contemporanea, almeno fino alla comparsa di Obama e della crisi globalizzata. Nessuno o quasi nessuno si è finora occupato di un argomento cruciale in queste nuove prospettive, ovvero della più o meno classica competizione di potenza che si sta delineando fra gli attori principali del risveglio asiatico, i citati Cina, Giappone e India. Essi non dovrebbero diventare solo i futuri numeri uno, tre e quattro dell’economia mondiale (il secondo essendo presumibilmente gli Stati Uniti) ma anche i maggiori egemoni internazionali, in un ordine più o meno corrispondente a quello economico (anche l’attuale leadership militare e tecnologica degli Stati Uniti svanirà - se svanirà - molto più lentamente di quella economica). Asia contro Asia di Bill Emmott, uno dei più famosi e autorevoli giornalisti contemporanei, caporedattore dell’Economist dal 1993 al 2006, comincia a colmare questa lacuna, e lo fa con il mestiere di un grande professionista, che sa come presentare argomenti complessi al grande pubblico tenendo avvinta l’attenzione come si trattasse di un thriller, e con l’autorità di un vero esperto di Asia. Soprattutto del Giappone, che Emmott conosce molto bene anche per avervi vissuto a lungo. Suo è The sun also sets un celebre e profetico saggio sulla crisi nipponica pubblicato nei primi anni Novanta, in anticipo sugli eventi. Con un tale curriculum occorre forse chiarire il perché di quel “comincia a colmare” che può sembrare un po’ riduttivo, anche se non vuole esserlo. Il fatto è che Emmott è bravissimo nel tratteggiare i singoli casi
dei tre Paesi; meno - o meglio forse non in modo completamente esauriente - nel delineare le interazioni strategiche possibili e il presumibile districarsi dei vari soggetti nella giungla risultante. Ma si tratta di un tema assai complesso sul quale probabilmente neanche i diretti interessati hanno le idee chiare, dato l’enorme numero di variabili in gioco e la fluttuazione continua degli elementi al contorno. Il fatto, comunque, che un personaggio dallo spessore di Emmott si cimenti con un esercizio che dovrà sempre più essere approfondito, se si vorrà dare sostanza agli scenari di riferimento che condizioneranno sempre più quel divenire economico che pare sia diventato l’unica stella polare del previsionismo internazionale, fa capire l’importanza e l’urgenza del tema. Lo scenario che scaturisce da Asia contro Asia è quello di grandi opportunità e grandi pericoli. Quelli economici sono più o meno noti: la Cina dovrà adattarsi ad uno sviluppo più lento di quello - vertiginosoconosciuto fino alla crisi che si è avviata l’estate scorsa, e la cosa potrebbe avere ripercussioni socio-politiche tali da mettere in pericolo la stabilità della Repubblica Popolare. Si aggiunga a ciò il dazio che Pechino pagherà inevitabilmente alla correzione dei disastri ambientali che tale sviluppo ha provocato, non più accettabili e accettati in ambito interno e internazionale. Il Giappone affronta un futuro impegnativo, competitivo e turbolento con una popolazione sempre più vecchia, e non vi è esperienza nella storia di come si possa gestire una situazione demograficamente tanto al limite (l’Italia non è troppo lontana dalla sua situazione, ma può usufruire di una immigrazione regionale che il
BILL EMMOTT
Asia contro Asia Cina, India, Giappone e la nuova economia del potere Rizzoli pp. 393 • euro 19
Il vecchio caporedattore dell’Economist è tornato sull’argomento di un’altro suo best seller: “The Sun also Sets”. Oggi rinnova con nuove analisi il confronto tra Washington e le tre potenze asiatiche più importanti, Cina, India e Giappone. Una storia tutta asiatica che non parla solo di economia, di sviluppo emergente e di mercati, ma anche di potere. «Entro dieci anni l’india potrebbe avere un’economia due volte quella del suo vecchio dominatore coloniale. L’Inghilterra», ha scritto “l’Indipendent” nella recensione al libro. Se il XIX secolo è stato europeo e il XX è stato americano, secondo le tesi di Emmot il XXI sarà asiatico. E la nuova amministrazione Obama ne ha preso atto col la visita del suo segretario di Stato, Hillary Clinton che l’ha messa in cima all’agenda del primo tour estero. Rivalità è un termine che mescola due valenze. La prima è quella di pericolo, mentre la seconda richiama alle opportunità. Il pericolo, per l’autore risiede nel passaggio storico che attraversa l’Asia, paragonata a quello che l’Europa visse all’inizio del Novecento. La speranza è che la risposta sia diversa avendo imparato dagli errori altrui. Per l’Europa l’errore più grande fu la Prima guerra mondiale.
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Risk Giappone non ha a disposizione e che forse non può sopportare, data l’assoluta omogeneità etnica e culturale del paese). L’India, dal canto suo, deve risolvere la sua fragilità nel campo delle infrastrutture, delle burocrazie e dell’educazione primaria e secondaria - tutte inadeguate in modo abissale alle dimensioni, dinamiche e necessità di un colosso in lievitazione di potenza - nonché gestire la sua estrema diversificazione culturale e confessionale, il motivo principale del suo fascino ma nel contempo il maggiore punto interrogativo sul suo futuro. Sono le incertezze geopolitiche e strategiche a dar tuttavia corpo alle nubi più minacciose che sovrastano i tre Paesi Mentre le difficoltà e le competizioni portano in genere all’ottimizzazione dei processi economici, e questo ha riverberazioni positive sulla vita degli stati - compresi i tre in esame, che hanno fatto grandi progressi allorchè si sono esposti ai venti impetuosi della concorrenza - ciò non accade nei rapporti politici e strategici. Quando non funzionano essi tendono a complicare o a rendere impossibili gli sviluppi favorevoli in altri ambiti. L’esempio storico più classico di tale maligna interferenza è quello della Prima Guerra Mondiale, determinata da miopie e malgoverno di fenomeni politici che riuscirono a distruggere una crescente era di prosperità economica che aveva avuto in Europa il suo centro di gravità planetario, e con essa l’egemonia europea sul mondo. Commentando l’esempio, l’autore si augura che nell’Asia del 21° secolo non succeda la stessa cosa. Le premesse sono, da un lato, fauste - nel senso che in genere dalla storia si impara qualcosa e se ne fa tesoro, anche se raramente la medesima si ripete negli stessi termini - e dall’altro inquietanti: fra i tre Paesi esistono oggi tali e tanti contenziosi da indurre forti motivi di preoccupazione. Si va dall’instabilità nella penisola coreana, a Taiwan (antica colonia giapponese ancora infatuata dei suoi antichi padroni), ai contenziosi territoriali marittimi fra Cina e Giappone, a quelli fra India e Cina sul Trans Himalaia e sul Tibet, alla competizione di tutti e tre sulle fonti e le rotte dell’energia sia marittime (dal medio Oriente e dai possibili off shore nel Mar Cinese ) che continentali (dalla Russia), alla pericolosità oggettiva di uno degli alleati maggiori di Pechino - nonché avversario di New Delhi 102
come il Pakistan, semifallito, senza una vera guida, in parte fiancheggiatore del terrorismo e nel contempo robustamente nucleare. Emmott si sofferma e analizza particolarmente il problema del Tibet che è molto più importante, serio, e gravido di conseguenze di quanto sia comunemente percepito in Occidente, per una serie di motivi. Il primo è che per la Cina si tratta di un argomento strategicamente primario. Il Tibet si identifica con quello che sono le Alpi per il Nord Italia e il Giordano per Israele: il crinale strategico dal quale si controlla l’accesso alla Repubblica Popolare e sul quale lo si interdice, e la fonte primaria di acqua della Cina, ovvero di un Paese che ne ha sempre di meno. Per il Tibet, la Cina sarebbe disposta a tutto, anche a una repressione molto dura, ancora di più di quanto si è visto la scorsa estate. Persino ad una guerra. Il fatto è che i moti di agosto sono stati secondo l’autore solo un preludio di quello che verrà, perché se Pechino non può rinunciare al Tibet, i tibetani detestano la dominazione cinese. In aggiunta, il Dalai Lama ha 73 anni e quando morirà la sua successione prevede alcune procedure che i cinesi hanno profondamente snaturato, contro la volontà degli interessati. Come se non bastasse, lo stesso Dalai Lama ha dichiarato che non sarà possibile la sua reincarnazione nel suo successore in una terra sotto controllo cinese. E quindi i suoi seguaci non accetteranno nessuna scelta operata in Tibet sotto il controllo cinese. Il libro analizza altre complicazioni ulteriori di cui facciamo grazia al lettore. Si possono immaginare le prospettive complessive di quello che succederà quando l’anagrafe farà il suo corso. Insomma il Tibet è una bomba a orologeria e non quel fenomeno un po’ incomprensibile e pittoresco che appare ai non specialisti, almeno in Europa. Quando scoppierà, le sue schegge coinvolgeranno con tutta probabilità l’India, braccio secolare dell’intera tematica buddista. Se si sentirà sufficientemente forte, Delhi potrebbe reagire in un modo ben più energico di quello che ha mostrato durante le passate Olimpiadi. Situazioni e problemi analoghi seppur qualitativamente diversi si trovano in larga parte delle questioni strategiche che interessano i tre Paesi, i quali stanno tutti più o meno
libreria potenziando il loro strumento militare. Esplicitamente e assertivamente la Cina e l’India - la prima anche in funzione antiamericana - in modo molto discreto ma assolutamente efficace il Giappone, il quale, al di là delle sue pruderie costituzionali, ha le più sofisticate e credibili forze armate dell’Asia, soprattutto nel settore aeronavale e naturalmente convenzionale. Ci vuole molto meno tempo ed energie a riscrivere qualche paragrafo di una Carta Fondamentale di uno stato che a potenziale le sue forze armate. Emmott sostiene che non si tratta ancora di una vera e propria corsa agli armamenti, ma della stipula multipla di una polizza di assicurazione contro gli incerti del futuro, anche se la distinzione è piuttosto capziosa. Ogni corsa agli armamenti è volta a ottimizzare le polizze di assicurazioni strategiche dei contraenti. Non c’è limite ai premi da concordare. Se si parametrizzassero gli incrementi del procurement militare dei tre Paesi confrontandoli con gli analoghi delle Grandi Potenze euro-
pee alla vigilia della Grande Guerra, o durante la Guerra Fredda, si otterrebbero probabilmente curve analoghe. L’esempio della Guerra Fredda è forse il più aderente a questo caso: Cina, India e Giappone avvertono che potrebbero essere alla vigilia di una protratta fase di conflittualità dalla temperatura ancora indefinibile, e si equipaggiano di conseguenza. Non è l’unica prospettiva che può essere individuata e che lo stesso Autore avanza: se lo sviluppo socio-economico dei tre Paesi andrà per il verso giusto, conferendo alla Cina la co-leadership planetaria alla quale aspira (assieme agli Usa), all’India la ragionevole efficienza senza la quale non potrà sopravvivere in un mondo così competitivo come quello che si configura e al Giappone la sicurezza necessaria per compensare le sue ristrettezze e vulnerabilità, può darsi che i tre collaboreranno in Asia-Pacifico e altrove per rendere il mondo un posto più ragionevole. Ma è tutt’altro che scontato ed è bene che l’Occidente prenda atto.
IL VOLTO AUTORITARIO DELLA LAICITÀ
Come un moderno “principe” edificò lo Stato nazionale unitario, traghettando la Turchia dall’Asia all’Europa
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Mauro Canali
emal Mustafà, divenuto poi Kemal Pascia, e infine Kemal Ataturk, «il padre dei turchi», è a tutti gli effetti il fondatore della Turchia moderna, il traghettatore che ha condotto il popolo turco fuori dal medioevo accompagnandone il passaggio nella società contemporanea. Anche se si trattò di una trasformazione brusca ma di breve durata - da un regime teocratico a uno stato laico in poco meno di un decennio - tuttavia lo spirito riformatore di Ataturk è ormai così radicato nella società turca che le forze politiche e sociali laiche e anti-tradizionaliste si appellano ancora a lui quando si tratta di opporsi alle ricorrenti spinte tradizionaliste e anti-moderniste della componente religiosa attual-
mente al governo del Paese. Una componente religiosa che tuttavia esercita con molta prudenza il suo primato politico, consapevole appunto di quanto sia profondamente penetrata nella coscienza dei turchi la visione laicista di Ataturk. Più volte messe alla prova, le forze tradizionaliste si sono guardate bene dallo sfidarla apertamente. Corre nella società turca un’invisibile linea di demarcazione tra valori laici e teocratici, che è ancora quella vigorosamente tracciata da Ataturk tra il 1924 e il 1929. Per i tradizionalisti essa rappresenta una vera e propria barriera, valicata la quale essi sanno che il Paese rischierebbe di frantumarsi. A guardia di questa linea di confine vi è l’icona del “padre dei turchi”, e vi sono soprattutto le riforme da lui realizzate negli anni Venti e Trenta. La storiografia 103
Risk anglo-sassone ha scritto sulla Turchia moderna pagine interessanti e per certi versi definitive. Sono molti gli studiosi inglesi e americani che si sono impegnati a studiare le vicende turche, a partire dalla rivoluzione dei “Giovani Turchi” del 1908, vero e proprio atto di nascita della moderna Turchia. Sono ormai considerati dei piccoli classici i lavori dei due Shaw, Stanford e Ezel Kural, quelli di Sonyel sulla diplomazia kemalista, gli studi sulla storia economica turca di Issawi, i lavori sui “Giovani Turchi” di Hanioglu e Kansu, e, infine, l’importante biografia di Ataturk scritta da Andrew Mango, che seppure uscita di recente si è rapidamente imposta come un punto di riferimento indispensabile per gli studiosi del grande statista turco. In Italia, gli studi sulla Turchia moderna e su Kemal si presentano, fatta salva qualche eccezione, sporadici e lacunosi. Un certo interesse per la Turchia moderna si ebbe durante il ventennio fascista, ma gli studiosi fascisti osservarono il fenomeno kemalista, - un regime che si presentava autoritario e insieme modernizzatore - con una sorta di lente deformante, quasi a voler affermare nell’esperimento kemalista la presenza d’una consapevole ispirazione al regime mussoliniano. Spunti del genere è possibile, ad esempio, coglierli negli studi di Cornelio Di Marzio, di Amedeo Giannini e di Ettore Anchieri. Dopo la caduta del fascismo, nella seconda metà del novecento, sembrò quasi che le vicende politiche di questo importante Paese mediterraneo cessassero d’inte104
ressare i nostri studiosi di storia, con l’unica eccezione, almeno per quanto riguarda l’ultimo ventennio, di Fabio L. Grassi, che ha dedicato alla nascita e agli sviluppi politici della Turchia moderna la sua intera produzione scientifica. In questo quasi vuoto storiografico non ci deve allora sorprendere il fiorire attorno alla Turchia di leggende e pregiudizi, ogni volta che le vicende politiche e diplomatiche spingono Ankara sul proscenio della politica internazionale. Il lavoro di Fabio L. Grassi, (Ataturk, Salerno Editrice), che ora vede la luce, consente finalmente anche al lettore italiano di conoscere la vicenda politica, per molti versi straordinaria, di Ataturk. Di un lavoro così esauriente si cominciava a sentire la mancanza, soprattutto in quest’ultimo periodo che la nazione turca è di nuovo salita, per molti e complessi motivi, non per ultimo il suo futuro ingresso nell’Unione Europea, agli onori della cronaca politica e diplomatica. Lo studio di Grassi, punto d’arrivo di un laborioso ventennio di studi di alto profilo, offre uno spaccato chiaro ed esaustivo del ruolo decisivo svolto dal grande uomo politico turco nella formazione dello stato moderno turco; un lavoro che ha il pregio di basarsi su fonti bibliografiche e archivistiche turche. Grassi esamina la lenta ascesa politica di Ataturk, che, sebbene risultasse sin dall’inizio tra i più autorevoli leader del partito dei “Giovani Turchi”, incontrò non poche resistenze per imporsi ai vertici di quella classe dirigente rivoluzionaria che nel 1908 s’era impadronita del potere. A
FABIO L. GRASSI Ataturk
Salerno Editrice pp.448 • euro 29 Poco più di settant’anni fa, il 10 novembre 1938, moriva a Istanbul Kemal Atatürk, il fondatore della moderna Turchia. Da anni si discute sulla collocazione ideale, politica e culturale, di quel Paese, discussione intensificatasi dal momento in cui, non troppo tempo fa, si cominciò a valutare la possibilità d’ingresso nell’Unione Europea. Non furono pochi allora, e non sono pochissimi neppure oggi, coloro che sostennero il carattere asiatico della Turchia, accampando anche la motivazione - che ha, peraltro, seri fondamenti - di un non sempre adeguato standard di rispetto dei diritti umani. A ripercorrere la biografia di questo straordinario personaggio, ci si rende facilmente conto che non soltanto la Turchia appartiene pienamente alla storia e alla cultura europea, ma altresì che, in fondo, l’autoritarismo, il militarismo e la persecuzione dei curdi, per esempio, rinviano direttamente ad Atatürk. Che dunque, nel bene e nel male, è in larga parte ciò che la Turchia è oggi.
libreria frenare le ambizioni di Kemal vi era l’ostilità dei massimi dirigenti politici raccolti attorno a Henver Pascia, e fu solo grazie all’impresa di Gallipoli che egli infine riuscì a emergere e a imporre la propria personalità. La difesa vittoriosa da lui condotta contro lo sbarco delle truppe inglesi a Gallipoli, e la cruenta battaglia con cui le inchiodò sulla piccola striscia di terra che si estende nei Dardanelli, la genialità strategica e anche la fortuna messe in mostra, resero il giovane ufficiale di Salonicco improvvisamente un eroe nazionale. Eppure dovettero passare ancora diversi anni prima di poterlo veder trionfante a Istanbul. I massimi dirigenti del partito dei Giovani Turchi ne temevano il carisma naturale, la grande capacità persuasiva, l’abilità nel muoversi negli ambienti politici, e lo relegarono in Siria e poi in Iraq, dove tuttavia egli colse sempre l’occasione buona per mettersi in luce, mostrando in particolari situazioni anche notevoli doti diplomatiche. Il suo momento giunse con la sconfitta militare e la conseguente disgregazione dell’Impero ottomano. In tali drammatiche circostanze, Kemal dimostrò di essere tra i pochi a possedere lungimiranza e doti politiche di grande statista, cioè di comprendere l’inutilità di una battaglia a difesa di una ormai improbabile conservazione dell’integrità dei territori del vecchio impero, mostrandosi nel contempo deciso a battersi con vigore e risolutezza per la conservazione dell’integrità dei territori abitati dalle popolazioni turche. Fu l’artefice di quel Patto Nazionale che già delineava le linee portanti del futuro stato nazionale turco: sì al distacco e all’indipendenza dei territori abitati dalle popolazioni arabe, ma difesa inflessibile dell’integrità dei territori a maggioranza turca, cioè Anatolia e Tracia europea. In realtà Kemal si muoveva secondo i dettami del dodicesimo dei quattordici punti di Woodrow Wilson, con cui si auspicava «la libertà e l’indipendenza delle nazioni soggette ai turchi ma anche la sopravvivenza della sovranità turca in Turchia». Fu ancora lui, Kemal Pascia, dopo aver rianimato il movimento
nazionalista turco, molto depresso all’indomani della sconfitta militare, a minacciare di volgere decisamente le armi anche contro le potenze vittoriose intente a progettare, in contrasto con lo spirito del wilsonismo che a parole garantivano di voler rispettare, la spartizione anche dei territori anatolici, sotto l’ipocrita forma delle cosiddette sfere d’influenza. Guidando le truppe raccolte sotto il suo comando egli rigetterà a mare le truppe greche sbarcate a Smirne, e stringerà in una morsa le truppe inglesi, francesi e italiane fatte nel frattempo sbarcare a Istanbul a garanzia dell’attuazione del trattato di Sevres, che rappresentava il pesante pedaggio che avrebbe dovuto pagare la Turchia per la sconfitta subita, e che avrebbe significato di fatto la fine del sogno di una rinascita turca dalle rovine dell’impero ottomano. In questi frangenti Kemal Pascia si guadagnò la venerazione delle popolazioni turche, poiché riuscì, alternando minacce di guerra e iniziative diplomatiche, a ottenere, con l’armistizio di Mudanya, il riconoscimento anglo-franco-italiano del diritto all’esistenza della nuova nazione turca. Si apriva pertanto la concreta prospettiva di giungere a un definitivo trattato di pace. Si trattò del primo grande trionfo diplomatico di Kemal, e del riconoscimento da parte occidentale del suo ruolo di leader indiscusso della nuova Turchia. I passi successivi e quasi inevitabili furono l’abbattimento del potere del sultano, la sua cacciata in esilio, e la fondazione della repubblica turca, proclamata ufficialmente il 29 ottobre 1923, a un mese circa dall’apertura della conferenza di Losanna, riunita per discutere con la Turchia le condizioni per la firma di un trattato di pace. A Losanna Kemal inviò in veste di negoziatore uno dei suoi più abili e fidati amici, il generale Ismet Pascia, che aveva dato prova del suo valore durante il conflitto mondiale, quando, alla testa delle armate turche impegnate sul difficile fronte siriano, ne aveva impedito la disfatta riportandole abbastanza integre in patria. Su questo nucleo di soldati aveva potuto far perno la successiva, gran105
libreria de offensiva lanciata da Kemal per ottenere lo sgombero del territorio anatolico da parte delle truppe delle potenze occidentali. A Losanna trionfò la diplomazia kemalista, poiché le potenze uscite vittoriose dal conflitto mondiale dovettero rinunciare alle loro pretese di cancellare la Turchia dalle carte geografiche e riconoscere la legittimità all’esistenza del nuovo stato turco. Quello di Losanna (novembre 1923-luglio 1924) fu la prima ferita che le forze revisionistiche infersero all’assetto geopolitico uscito dalla Grande Guerra. Rimase irrisolta la questione di Mossul, cioè a chi attribuire, tra Turchia e nuovo regno dell’Iraq, la vecchia provincia mesopotamica di Mossul, abitata prevalentemente da curdi. La questione si trascinò fino alla fine del 1925 quando la Società delle Nazioni finì per consegnare il vilayet di Mossul al regno iracheno retto dal filo-inglese re Feisal. Ma il genio politico di Ataturk si espresse anche nella politica interna, nelle grandi riforme da lui attuate tra il 1923 e il 1929, che cambiarono letteralmente il volto alla Turchia, avviando una profonda trasformazione della vecchia e immobile società ottomana. Fu un processo riformatore di profonda e convinta adesione ai valori delle civiltà occidentali quello che gli consentì di far nascere dalle ceneri del vecchio impero ottomano un organismo statale del tutto nuovo e moderno. Iniziò col trasferire la capitale ad Ankara, che trasformò in breve tempo in una moderna metropoli, declassando Istanbul, simbolo del potere del vecchio impero ottomano, al ruolo di semplice capoluogo di provincia. Convinta della necessità di rendere la Turchia un Paese profondamente permeato dei valori estetici e spirituali della civiltà occidentale, e di combattere gli avversati caratteri di quello che egli chiamava “l’Oriente pittoresco”, giunse al punto di proibire con leggi ad hoc l’abbigliamento tipico arabo, al quale egli a più riprese riservò non poco del suo feroce sarcasmo. Il fez in particolare fu oggetto da parte sua di una campagna ostile che si concluse con una legge che ne rendeva illegale l’uso. Per
l’illuminista Kemal il termine civiltà voleva significare civiltà occidentale. Giunse a vietare la barba ai pubblici ufficiali e persino i baffi ai militari. Adottò il calendario gregoriano e l’orario di tipo occidentale basato sulle 24 ore. Condusse infine un duro attacco alle condizioni privilegiate di cui godeva la diffusione dell’Islam, combattendo nel contempo tutte le manifestazioni pubbliche di superstizione religiosa. Sciolse le logge dei dervisci, limitandone drasticamente il potere, e chiuse tutti i mausolei dei santi e dei califfi. Continuò la sua rivoluzione introducendo nel 1926 un codice civile che si ispirava a quello svizzero, e che forniva “una prima sicura base giuridica per l’ingresso delle donne nella società e nel mondo del lavoro”. Ispirandosi sempre ai codici in vigore nei Paesi occidentali, passò alla riforma del codice di procedura civile, del codice di procedura penale e del codice di commercio. Nel 1928 portò a termine la definitiva secolarizzazione dello stato turco con l’abolizione del ruolo privilegiato che la costituzione del 1924 ancora garantiva alla religione islamica. Come scrive Grassi era “l’inizio della seconda ondata contro la tradizione islamica”: la scrittura araba dei numeri venne sostituita da quella occidentale, venne abolito l’insegnamento nelle scuole dell’arabo e del persiano, e venne avviata la riforma per la realizzazione del passaggio dall’alfabeto in caratteri arabi a quello latino. Riguardo alla condizione femminile egli si batté con successo per l’eliminazione del velo dal volto delle donne, una pratica che definì più volte “umiliante”. Adottò diverse bambine favorendone la formazione di una cultura occidentale. Una di loro Sabiha, divenne pilota di aerei militari, e a lei è tuttora intitolato il secondo aeroporto di Istanbul. La partecipazione delle donne alla vita politica della repubblica turca, nel ruolo di elettrìci ed elette, fu un processo che trovò una compiuta realizzazione nel corso degli anni trenta. In Italia, per riconoscere alle donne tali diritti, si dovrà attendere il 1946. 107
Risk U S C I T I • GEORGE FRIEDMAN The Next 100 Years: A Forecast for the 21st Century Doubleday 2009
«Sii pratico, aspettati l’impossibile». Questo è il motto dell’autore, fondatore di Stratfor, l’agenzia di intelligence private i cui clienti includono governi e le più importanti compagnie del mondo. In The Next 100 Years, Friedman si fa carico dell’enorme sfida di prevedere gli eventi che plasmeranno il Ventunesimo secolo, partendo dal presupposto che «l’analisi politica convenzionale soffre di una profonda mancanza di immaginazione». Friedman traccia una mappa di quelli che ritiene gli eventi più probabili, alcuni dei quali sorprendenti: più guerre, ma meno catastrofiche; il riemergere dell’aggressività egemonica della Russia; il calo dell’influenza cinese dovuto a squilibri socioeconomici; e l’alba di “un’età d’oro” americana nella seconda metà del secolo. Pur nella certezza di commettere degli errori, Friedman si sbilancia in un “educated guess” coraggiosamente costruito su una solida base logica. • ALBERTO NEGRI Il turbante e la corona. Iran, trent’anni dopo Castelvecchi 2009
Il ritorno di Khomeini a Teheran dopo l’esilio fu salutato da quattro milioni di persone, pronte a travolgere la monarchia e instaurare una 108
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Repubblica islamica. «La rivoluzione farà molto di più che liberare dall’oppressione e dall’imperialismo: creerà un nuovo tipo di essere umano». Era il 1979 quando Khomeini pronunciò queste parole. In nome dell’islam la società iraniana si sarebbe liberata dall’ingiustizia, dalla povertà, dalla corruzione. Dieci anni dopo l’Iran, reduce da una devastante guerra contro l’Iraq e da sanguinose lotte interne piangeva la morte di Khomeini, in un’atmosfera di esaltazione mistica. Il programma nucleare di Ahmadinejad, oggi, è una “seconda rivoluzione”, che punta su un populismo millenarista per l’egemonia sciita in medioriente. In questo libro Alberto Negri ripercorre la storia dell’Iran per rintracciare le origini della rivoluzione, esplorandone i luoghi, interrogandone i protagonisti, esaminando il ruolo del petrolio e “le colpe” dell’Occidente, e districando la rete di alleanze fra le forze economiche e religiose del Paese che da trent’anni vanifica ogni speranza di riforme. • ARRIGO PETACCO La strana guerra. 1939-1940: quando Hitler e Stalin erano alleati e Mussolini stava a guardare Mondadori 2008
Preparato da un patto di non aggressione fra Germania e Unione Sovietica, che dava campo libero alle due potenze firmatarie nelle reciproche
a cura di Beniamino Irdi
aree d’influenza, e inauguratosi con una Blitzkrieg, ossia un attacco fulmineo alla Polonia da parte dei tedeschi, il secondo conflitto mondiale ebbe, nella sua prima fase, sviluppi singolari e contraddittori, che suscitano interrogativi ancora oggi senza risposta. Attraverso una cronaca dettagliata, Arrigo Petacco racconta gli eventi, i personaggi, e i retroscena del periodo fra il 1939 e il 1940 in cui negli ambienti politici e militari occidentali il vero nemico sembrava essere più Stalin che Hitler, ed illumina il ruolo dell’Italia di cui queste pagine ripercorrono i nove mesi di “non belligeranza” descrivendo l’intensa attività diplomatica, palese e occulta, di Mussolini.
• DEMETRIO VOLCIC Il Piccolo Zar Laterza 2008
La Russia dello zar Putin è ritornata con forza sulle prime pagine di tutti i giornali con la Gazprom, la crisi georgiana, l’assassinio della Politkovskaya, l’avvelenamento di Litvinenko, e le dichiarazioni del neo-primo ministro circa nuovi tipi di armi nucleari come parte di un progetto “grandioso” per migliorare la difesa del Paese. A fronte della flessione di quello americano, l’Impero russo rimane l’unico altro vero impero del pianeta, governato come tale, determinato a mantenere il controllo di nazioni e popoli etnicamente e culturalmente eterogenei ma da sempre sotto la sua
sfera d’influenza. Volcic racconta un Paese refrattario a qualunque intromissione occidentale nei suoi affari e spropositatamente ricco di risorse minerarie e petrolifere, concentrate nelle pochissime mani dell’oligarchia del Cremlino. • THOMAS E. RICKS The Gamble: General David Petraeus and the American Military Adventure in Iraq, 2006-2008 Penguin Press 2009
Una scommessa. È così che Ricks vede il “surge” che, deciso dal Generale Petraeus, sembra aver invertito l’andamento della Guerra in Irak. E proprio Petraeus è al centro del quadro tracciato dall’autore, un soldato intellettuale che si è circondato da ufficiali con esperienza di combattimento e titoli accademici, fra cui un antropologo australiano, un’esperta di Medio Oriente britannica antimilitarista ed un pacifista palestinese. The Gamble offre una vista da dietro le quinte di coloro che hanno preso le decisioni, dei loro dubbi e dei loro disaccordi, ed i relativi “congressional hearings” attraverso gli occhi di Petraeus stesso e dell’Ambasciatore Ryan Crocker. Concludendo che la guerra si protrarrà per altri 5-10 anni e che «gli eventi per i quali la guerra in Iraq sarà ricordata dal mondo non si sono ancora verificati».
riviste L A
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DOUG BANDOW Kazakhstan turns ugly The American Spectator December 2008
Scrollata di dosso la dominazione sovietica molte delle ex repubbliche sembrano voler rientrare nell’alveo delle dittature. Il Kazakistan vorrebbe fare marcia indietro riguardo le libertà religiose, così come per quelle politiche. Washington e Bruxelles stanno decidendo se permettere al governo kazako di guidare l’Osce, mentre nella repubblica del centro Asia si varano legislazioni punitive nei confronti di organizzazioni religiose non iscritte agli elenchi ufficiali. Prese di mira soprattutto le chiese cattoliche e ortodosse, con diocesi a cavallo di più confini rispetto a quelli nazionali di Astana. Viene, di fatto, impedito il proselitismo e bandito ogni tipo di materiale divulgativo a carattere religioso. Si pretende addirittura che i ragazzi, per partecipare alle funzioni religiose, ottengano un permesso dai genitori. La Majilis, Camera bassa kazaka, si è mossa velocemente appena dopo la partenza dei rappresentanti dell’Osce, che
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erano andati ad Astana per discutere in merito. Ma non sembra essere l’unico governo centroasiatico ad aver imbocca il sentiero della repressione. Anche il Kirgyzistan ha dato un giro di vite alle libertà religiose e il Tagikistan ci sta pensando seriamente. Neanche il Turkemnistan e l’Uzbekistan danno per scontate le libertà che l’America considera sacre. Felix Coley di «Forum 18», un gruppo con base ad Oslo che controlla il livello di libertà religiose nella regione, parla di “trend” contro il bisogno di trascendenza organizzata. E si comincia rumoreggiare riguardo la presidenza kazaka dell’Osce nel 2010. Il Kazakistan è uno Stato a prevalenza musulmana che mal sopporta organizzazioni religiose al di fuori del proprio controllo, specialmente per confessioni non autoctone. È il caso delle chiese protestanti, che registrano ritardi continui nel processo di riconoscimento. Lo scorso anno la svolta, con una dichiarazione ufficiale da parte del ministro della Giustizia: «abbracciare un’altra fede è da considerare un tradimento nei confronti della propria tradizione religiosa e della Patria». Una vera scomunica ufficiale. E nel calderone sono finiti anche i Testimoni di Geova e gli Hare Krishna. Occorre tenere conto che molti sono convinti che le libertà religiose siano l’apripista per tutte le altre, come il canarino che veniva portato in miniera. Il primo a morire quando arrivava il gas venefico.
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MICHAEL CROWLEY Obama vs Osama The New Republic December 2008
Interessante articolo di quella che un tempo era considerata l’unica rivista - creatura di Martin Peretz - letta su Air Force One, almeno ai tempi di Bill Clinton. Dà il tono del clima con cui i nuovi democratici si avvicinano alla Pennsylavania Avenue, senza miti e un pragmatismo dettato dai tempi. Molto duri e difficili. In America si stava ancora votando quando John Nagl, un colonnello dell’Esercito in pensione decise di fare un viaggio in elicottero sui cieli dell’Afghanistan. Avendo speso ben tre anni di servizio in Iraq, nel poco accogliente «Triangolo sunnita», aveva bene in mente cosa volesse dire una situazione difficile. Comunque aveva contribuito a scrivere il manuale di counterinsurgency del corpo dei Marines e dell’Esercito. Ora è uno studioso del progetto New American security, come esperto militare. Sorvolando quelle montagne aspre, quelle valli con gole profonde, si stava rendendo conto del problema Afghanistan. «Non basterà raddoppiare le forze
a cura di Pierre Chiartano dell’Alleanza» e non basterà triplicare l’esercito afgano per vincere. Gli Usa dovranno raddoppiare gli sforzi, che vorrà dire mettere mani al portafogli per una cifra adeguata. Serviranno nuove tasse. Soprattutto servirà «tempo, denaro e sangue». Per anni gli americano hanno distinto fra la «guerra buona», quella afgana, giustificata dalla prima reazione al 11 settembre 2001 e quella «cattiva», il conflitto iracheno. Almeno così è stato per tutta una generazione di democratici e liberal che amavano pensarla in questa maniera. Per loro affrontare il discorso di un ritiro in Iraq era meno difficile, perché lo collegavano ad uno sforzo maggiore da dedicare a Kabul. Non era dunque una fuga, solo uno spostamento di bandierine. Non basterà però spostare qualche brigata. Il primo e più difficile impegno della presidenza di Barack Obama si presenta come un incubo. Per vincere la «guerra buona» servirà la più sofisticata tecnica di counterinsurgency – di cui è esperto David Petraeus - enormi risorse e una politica estera di rara qualità. Bastererebbe pensare alla complessità del problema Pakistan per rendersene conto. Ora i ragazzini, con le loro pistole ad acqua, giocano davanti alle scuole, ma sempre più spesso le caricano con acido da batteria, per sfigurare le compagne di scuola, che hanno la sola colpa di voler studiare. Questa è una battaglia contro l’ignoranza che si pretendeva di vincere subito, ma così non è stato. Non basteranno i Predator 109
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aerei senza pilota – che nella notte sorvolano il Waziristan a caccia di taliban e militanti di al Qaedae, con tecnologica precisione. Non basteranno neanche i loro missili maverick per vincere la «guerra buona». Forse un Paese pacificato renderà il mondo più sicuro, ma non vi è certezza neanche di questo. Se le risorse degli Usa sono limitate, a causa della crisi, – afferma Nagl – Obama dovrà mobilitare l’intera nazione e varare nuove tasse, ben sapendo che non si è certi di cosa voglia dire vincere in Afghanistan. A dimostrazione che di «buono» in quegli altopiani c’è rimasto ben poco.
BDI AKBAR GANJI The Latter-Day Sultan Foreign Affairs November/December 2008
Chi comanda veramente in Iran? Se lo chiedono in tanti, ma per molti come per l’autore dell’articolo, giornalista e dissidente, la risposta è Khamenei, il capo supremo. Il presidente della Repubblica islamica Ahmadinejad conta solo perché è appoggiato dal leader supremo, come mai 110
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nessuno prima. Nonostante i fallimenti, assai numerosi, in politica come in economia e le promesse mancate, soprattutto per la lotta alla corruzione. Per Khatami, il riformista, il potere di Khamnei è tanto da aver ridotto la figura del presidente a un semplice «factotum» della politica iraniana. Controlla, di fatto, l’esecutivo, il legislativo e il potere giudiziario e, se non bastasse, nomina il comandante delle Guardie della Rivoluzione. Sopravvalutare la figura di Ahmadinejad porta a due generi di errori. Il primo è la sovrastima del personaggio che ne amplifica un potere che non detiene né esercita. Il secondo è che i problemi che attraversa il Paese non dipendono tutti dal suo governo e non scompariranno una volta lasciato il potere. Le quattro presidenze dell’Iran, dalla rivoluzione khomeinista, sono state dello stesso Khameni (1981-89), di Rafanjiani (1989-97), di Khatami (1997-05) e da ultimo di Ahmadinejad. Leggendo fra le righe dare un giudizio imparziale è compito assai complesso, ma l’autore ammette che se da un lato l’ultimo periodo ha significato un peggioramento delle condizioni del Paese, per altri versi si sono avuti alcuni lievi miglioramenti. Nel modello politico unicamerale (Majlis) i concetti di democrazia, come si intendono in Occidente, sono aleatori e solo formalmente
R I V I S T E garantiti. Rispetto alla mano di ferro usata verso i dissidenti nei primi anni della Rivoluzione – dove venivano eliminati senza troppi complimenti – qualcosa è cambiato. In meglio. Le critiche al leader supremo non sono infrequenti e spesso sono state sottoscritte lettere aperte di critica alla sua condotta da personaggi come i giornalisti Ahmad Zeydabadi, Issa Saharkhiz e il teologo Ahmad Qabel. Il linguaggio semplice quanto retorico di Ahmadinejad ha facilitato anche gli oppositori nell’utilizzare la stessa chiarezza nella critica. Tajzadeh ex viceministro degli Interni, Sayyid Mohammad Sadr vice ministro degli Esteri con Khatami e molti altri rappresentanti della corrente riformista , cancellata dalle ultime tornate elettorali da alcuni colpi di mano normativi, reagiscono ancora al regime di Ahmadinejad. Anche alcuni membri del suo governo hanno avuto dei picchi di gradimento pubblico non appena lasciati – spesso costretti a farlo – gli incarichi ufficiali. È il caso del negoziatore sulla issue nucleare. Max Weber ci viene incontro per spiegare la natura del potere in Persia: non è autoritarismo tradizionale, esercitato con la mediazione della virtù del leader, ma esercizio «sultaniale del potere», attraverso l’arbitrio personale. Così Ganji descrive il governo di Khamenei. L’Iran di oggi,
secondo questa visione, non sarebbe né una dittatura e neanche uno Stato fascista. Sarebbe soltanto un neosultanato col monopolio della violenza e la gestione assoluta dell’esercizio della religione, che vede Israele come il “cattivo” consigliere della politica di Washington nei confronti di Teheran.
MARK MAZOWER Paved intentions: Civilization and Imperialism World Affairs Fall 2008
Storia ragionata del termine civiltà, del suo utilizzo e del quadro storico che ne ha fatto sviluppare potere politico e immagine comunicativa. Cominciando dalla «fine» potremmo citare il R2P di Kofi Annan, ovvero il «Responsability to protect» che ha aperto le porte all’interventismo umanitario. Una nuova categoria che non è altro che il cavallo di Troia per smontare, senza tanti complimenti e qualche buona ragione, il concetto di sovranità nazionale. Anche il patto tra George W. Bush e Tony Blair, meglio conosciuto come «Alleanza fra civil-
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tà» a seguito della leadership morale richiesta dopo l’11 settembre, potrebbe far parte del finale della storia. Ma parliamo dell’inizio, dove tra 1815 e la Seconda guerra mondiale, un sistema internazionale di Stati prese forma, sotto l’egida della primazia europea. Civiltà dell’Europa, in quel caso, che presto avrebbe subito una deriva atlantica. Comunque, a metà dell’Ottocento, il termine emerse prepotentemente nel lessico inglese e francese e connotava il modo in cui l’umanità era uscitadalla barbarie e quindi era diventata una società civilizzata. L’integrità della persona e la proprietà privata ne erano il cardine, la cifra distintiva. Un percorso avviato dopo la sconfitta di Napoleone Bonaparte, che accentuò i toni sulla cooperazione piuttosto che sulla conquista. Francois Guzot nel suo History of Civilization in Modern Europe, la definisce come un percorso verso il compimento dell’idea di umanità, sottolineando un concetto futuribile: «l’espansione della mente» nel senso razionale del termine e del massimo sviluppo dei diritti individuali. Guzot ritiene che la civiltà europea sia superiore ad altre, come quella indiana o dell’antico Egitto, perché è riuscita a combinare sapientemente un comunità della cultura con gli sviluppi politici improntati alla «diversità».
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L’insediamento europeo della civiltà ha portato come conseguenza una sua esportazione oltremare. È stato costruito un diritto internazionale che potesse agevolare questa espansione, ma che, comunque, potesse preservare l’equilibrio fra gli Stati sovrani. John Stuart Mill infatti applicava i principi di libertà in seno a questo territorio precostituito da regole e civiltà. Nel 1845 un luminare del diritto internazionale americano, molto influente, Henry Wheaton, stabilì una distinzione precisa che stabiliva un confine fra «diritto internazionale cristiano» e una sorta di raccolta di leggi in uso nel mondo musulmano. Nel tempo e con passaggi di filosofia del diritto successivi, questa visione incise sul rapporto fra Europa e impero Ottomano. Subito dopo la guerra di Crimea, che sancì, per la prima volta, la perditada parte della Sublime porta - di un territorio per secoli rimasto nell’alveo della cultura islamica. Di lì in poi lo ius publicum europeo si impose metabolizzando lentamente ma inesorabilmente il mondo musulmano. Con la prima guerra mondiale entrò sulla scena Washington, il wilsonismo e un nuovo protagonismo. Ora i fallimenti dell’Onu nel proteggere le popolazioni da governi dispotici – e alcuni problemi legati al terrorismo - pongono una sfida al concetto di sovranità nazionale.
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ALAIN GRESH Understanding the Beijing Consensus Le Monde Diplomatique December 2008
La chiamano «la fine dell’arroganza» - parafrasando il titolo del Der Spiegel del 30 settembre scorso - e sarebbe certificata da una lunga serie di segnali sulla scena internazionale. L’antiamericanismo sembra vivere il suo momento di gloria – a quanto scrive l’autore dell’articolostando al lungo elenco di cause che potrebbero essere messe in calce al certificato di morte del Washington consensus. Il primo elemento è costituito dalla crisi finanziaria, letta come il fallimento del modello capitalistico. A questo si aggiunge internet: dieci anni fa gli Usa producevano il 50 per cento del traffico web mondiale oggi solo il 25 per cento. Per non dire del fallimento del Doha round sul commercio internazionale, dopo innumerevoli tentativi di rianimare la politica del Wto, arenatasi di fronte al «no» di Cina e India, che non volevano sacrificare i propri agricoltori sull’altare del libero mercato. Anche l’affaire Georgia viene letto come una sconfitta della proiezione di potenza americana nel Caucaso,
cui Mosca avrebbe tenuto testa. Secondo l’autore dell’articolo questi eventi testimonierebbero il drammatico cambiamento avvenuto nel balance of power internazionale, a scapito di Washington naturalmente. Una deriva a danno del potere assoluto esercitato dall’Occidente sul mondo, entrato in crisi già a metà del secolo scorso, ma che avrebbe avuto il suo compimento all’alba del nuovo. Dopo pochi anni dalla caduta del muro staremmo assistendo alla caduta del vallo del liberalismo. L’autore mette in guardia comunque dal valore di qualsiasi profezia. Cita Jean-Francois Revel, all’indomani dell’ascesa di Mikhail Gorbachev, giudicato mentore della vittoria del comunismo sull’Ovest. Poi seguito da Fukuyama e la sua visione sull’Ultimo uomo, e soprattutto la Fine della Storia sintesi della vittoria finale del liberalismo. Vittoria che avrebbe avuto il sigillo, nel passaggio al XXI secolo, dal trionfo della prima guerra del Golfo del 1990-’91. Quindici anni dopo starebbe emergendo – secondo Gresh – un secondo modello di consensus, seguendo impostazione storica del «post-americanismo». Secondo le linee del Libro bianco della difesa francese del 2008, l’economia e l’approccio strategico dell’Occidente (Usa più Europa) non potranno più essere quelli del 1994. Il mondo è cambiato. Gli Usa rimarranno la potenza prevalente per lunghi anni ancora e non solo dal punto di vista militare. Nel frattempo a Pechino, New Delhi, Brasilia e Mosca starebbe crescendo una diversa geometria di potere. 111
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del numero
MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato maggiore della Difesa PIETRO BATACCHI: caporedattore di Panorama Difesa FABRIZIO BRAGHINI: analista strategico
MAURO CANALI: storico, ordinario di Storia dei Partiti e Movimenti Politici all’Università di Urbino FABRIZIO EDOMARCHI: analista dei Balcani
EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali
RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina OSCAR GIANNINO: direttore di Libero Mercato
VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano
LUDOVICO INCISA DI CAMERANA: ambasciatore, già sottosegretario agli Affari Esteri BENIAMINO IRDI: ricercatore
GENNARO MALGIERI: deputato Pdl, giornalista e scrittore
AHMAD MAJIDYAR: analista per l’Afghanistan all’American Enterprise Institute ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali
DAVID J. SMITH: senior fellow al Potomac Institute for Policy Studies di Washington e direttore del Georgian Security Analysis Center di Tbilisi EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles
WALTER RUSSELL MEAD: Henry A. Kissinger Senior Fellow per la Politica estera al Council on Foreign Relations. Autore di molte pubblicazioni STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) ANDREA TANI: analista militare, scrittore 112