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risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA



risk

51

quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

LA STORIA

Gli Stati Uniti del Sud

Virgilio Ilari

Gennaro Malgieri

pagine 80/85

R

I

O

Le mille e una faccia di Gheddafi Maurizio Stefanini •

Dall’asse del male all’asso di Obama

LIBRERIA

Mario Arpino Andrea Tani

Enrico Singer

Il monopoli nordafricano

pagine 86/91

Roberto Cajati

Tutto fuorché promesse da marinaio Andrea Nativi

Al Qaeda sfida il Maghreb

RUBRICHE

Andrea Margelletti e Antonio Picasso

Beniamino Irdi Pierre Chiartano

I tre colossi dell’energia

pagine 92/95

Davide Urso pagine 4/55

Editoriali

Michele Nones Stranamore pagine 56/57

SCENARI

L’isolamento diplomatico di Gerusalemme John R. Bolton

Nato sì, ma in salsa francese Michele Marchi pagine 58/71

SCACCHIERE

Unione Europea Giovanni Gasparini

Medioriente

Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa

DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa

RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani

Emanuele Ottolenghi

America Latina Riccardo Gefter Wondrich

Africa Maria Egizia Gattamorta pagine 72/79

REGISTRAZIONE

TRIBUNALE

DI

ROMA N. 283

DEL

23

GIUGNO

2000

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Abbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma


IL COLONNELLO (E DINTORNI) I dettagli sono ancora da mettere a punto, ma la data ormai è certa. Il colonnello Muammar Gheddafi dal 10 al 12 giugno sarà in visita ufficiale in Italia. Sarà una prima assoluta, una visita che il colonnello bisserà il mese dopo in occasione del G8 dell’Aquila, al quale è stato invitato questa volta in qualità di presidente dell’Unione africana. Una doppia visita, certamente storica. Che chiude, ancora non sappiamo se del tutto e comunque fra mille polemiche, gli strascichi antichi del colonialismo italiano in Tripolitania dopo il pubblico mea culpa di Silvio Berlusconi a nome dell’Italia intera. Ora, è la risposta di Gheddafi, le aziende italiane che vogliono investire in Libia hanno la precedenza su tutte le altre, e gli italiani che furono cacciati nel 1970 potranno tornare per lavoro e turismo. L’accordo, già ratificato dal Parlamento italiano, prevede che l’Italia finanzierà la realizzazione di infrastrutture sul territorio libico per una spesa complessiva di 5 miliardi di dollari (circa 4 miliardi di euro) nell’arco di 20 anni. Ma quale sono i nostri interessi in Libia e – evidentemente – nell’intera sponda nordafricana, il cosiddetto Grande Maghreb (Tunisia, Algeria, Marocco, Libia, Mauritania) nel quale non rientra l’Egitto, ma che per noi è imprescindibile in un’analisi completa dell’area, anche alla luce della prossima presidenza italiana (nel 2010) dell’Unione per il Mediterraneo? Abbiamo provato a rispondere tracciando un quadro esaustivo sia sotto il profilo culturale che tecnico: dall’energia all’industria, dall’economia alla difesa, dalla sicurezza al fondamentalismo islamico e al terrorismo. E perno di questo ragionare è sempre lui, il colonnello libico. Abbiamo scelto invece, di non approfondire il tema immigrazione, dove avremmo rischiato di essere superati dalla cronaca giornalistica di questi giorni. Tuttavia, all’indomani dell’entrata in vigore del protocollo d’intesa firmato dal Presidente del Consiglio con Gheddafi, rimane una domanda inesplorata: quale respiro temporale potrà avere la strategia dei respingimenti degli immigrati clandestini verso la Libia inaugurata dal ministro dell’Interno? Sarà in grado Tripoli, da sola, di reggere l’urto del rientro di migliaia di disperati sulle proprie coste, rischiando l’aggravarsi di una emergenza umanitaria? Con le polemiche sul diritto alla richiesta d’asilo sono questi gli interrogativi che accompagnano la “svolta” annunciata dal governo. Firmano il nostro speciale: Cajati, Malgieri, Margelletti, Nativi, Picasso, Singer, Stefanini, Urso.


D NEL

ossier

2010 L’ITALIA ASSUMERÀ LA PRESIDENZA DELL’UNIONE PER IL MEDITERRANEO

GLI STATI UNITI DEL SUD DI

U

GENNARO MALGIERI

n tempo il solo nome di Mediterraneo evocava l’impero romano. Questo mare, infatti, era un “mare interno” circondato dai territori dell’impero stesso, dunque aveva un’unica riva sulla quale avvenivano commerci, comunicazioni, si scambiavano idee e culture sotto il controllo di una sola e riconosciuta sovranità. La storia s’è incaricata di dividere ciò che

• era stato realizzato per non essere diviso. E le divisioni sono diventate, con il passare del tempo, lacerazioni. Oggi il Mediterraneo è un mare dalle molte rive e non più di una riva sola. E non è più neppure il mare che bagna tre continenti, ma lo si percepisce come il “luogo” sul quale si affacciano tre continenti profondamente diversi. La differenza è sostanziale, non soltanto geografica e naturale. Infatti, una volta segnava l’unità di un mondo; poi è diventato lo spazio del conflitto tra civiltà o, quantomeno, di incomprensioni e diffidenze di ordine culturale, religioso, economico, politico e strategico. Un’area “liquida”, insomma, nella quale il confronto è sfuggente e dove i popoli non cooperano nell’unico modo possibile tramandatoci dal mondo antico: attraverso il dialogo e l’interscambio di esperienze, presupposti per l’integrazione civile. A lungo si è immaginato che l’idea romana di “prossimità” tra le culture potesse essere il presupposto moderno di un rinnovato impegno comune nel Mediterraneo al fine di fronteggiare le sfide del presente, così come nell’antichità ci si ritrovava per contrastare gli aggressori esterni. E fino a quando l’universalità romana e

poi cattolica ha resistito all’usura del tempo e alle contraddizioni interne che andavano sviluppandosi sotto le forme delle eresie religiose e delle tensioni politiche ed economiche, è stato possibile che il Mare Nostrum preservasse le proprie caratteristiche essenziali: mare, appunto, con un’unica riva segnata dalle diversità che fornivano al bacino una ricchezza mai più eguagliata nella storia ed una solidità amministrativa gestita da un’autorità politica riconosciuta della quale si sentivano tutti partecipi. Questo, ovviamente, molto tempo fa. Quindi, dopo gli scricchiolii, l’impero di Federico II tentò di riprendere l’arcana idea di una koinè fondata sulle differenze, ma non resse a lungo all’urto dello scontro di civiltà. La barbarie si affermò premendo sulle diversità che diventarono egoismi politici e l’Europa si ritrasse dal Mediterraneo, mentre gli arabi cercavano di egemonizzarlo contro quella stessa idea universale di cui erano stati partecipi. Da entrambe le sponde si affermò la considerazione del grande spazio dove nacquero gli dèi come un “naturale” campo terrificante di battaglie senza fine. La guerra mediterranea continua ancora. Nonostante la fine dei con5


Risk Dunque, il filo del discorso può essere ripreso anche dopo le incomprensioni recenti? Credo di sì, a patto che ognuno abbia l’intelligenza politica e l’onestà di intellettuale di riconoscersi tessera di un mosaico che deve tendere a ricostruire la comunità euromediterranea partendo dallo sviluppo della cultura, passando per la via economica e finendo per costruire un’organizzazione politica. Il percorso inverso, che sarebbe stato forse il più naturale, si è rivelato fallimentare e quanti l’hanno tentato sono stati costretti ad abbandonarlo. Così come l’investimento sulla linea di faglia strategica e geopolitica si è rivelata fragile. Il realismo testimonia la volontà dell’impresa e su di esso è necessario puntare. D’altra parte in qualcosa bisogna pur credere. Non per ottimismo di maniera, ma per l’indispensabile ragionevolezza da cui talvolta scaturisce la buona politica. Il ché vale in particolare per i processi di cooperazione internazionale, soprattutto quando hanno le ambizioni che mostra di avere la neonata Unione per il Mediterraneo, “inventata” da Nicolas Sarkozy all’indomani della sua elezione, come “rilancio” dello stagnante “Processo di Barcellona” il quale dal 1995 non ha prodotto altro che illusioni, fino ad essere abbandonato quando non sconfessato dai suoi stessi promotori. Eppure nacque sotto i migliori auspici. Fin dall’inizio esso venne considerato lo strumento centrale delle relazioni euro mediterranee, con un partenariato di trentanove governi e oltre settecentocinquanta milioni di cittadini. Il processo ha rappresentato indubbiamente un fattore di impulso al dialogo per il quale sono stati spesi dalla Commissione europea oltre sedici miliardi di euro provenienti dal bilancio comunitario, ma i risultati politici sono stati piuttosto scarsi al punto che si è pensato di invertire la rotta e ricominciare daccapo. La vitali-

Gli Stati Uniti del Mediterraneo, come qualcuno chiama la complessa operazione, non possono vedere l’Italia in posizione marginale o defilata. L’area del mondo più dinamica e nuova che attrae maggiori investimenti dall’estero viene ritenuta la sponda sud del Mare Nostrum. Dalla Mauritania alla Turchia è in corso uno sviluppo senza precedenti flitti dichiarati. Le forme sono altre. Non sparano le cannoniere, gli abbordaggi navali non usano più, ma resta il più sottile dei mali a minare la pace possibile: la frattura religiosa usata come arma impropria volta ad alimentare le angosce, paradossalmente nel mare della tolleranza. Eppure il Sud del Mediterraneo domanda una politica di cooperazione e di partenariato all’Europa per superare difficoltà che appaiono insormontabili pensandosi distante; e l’Europa non chiede di meglio per aprirsi un varco tra gli integralismi che minacciano la sponda meridionale e mettono a repentaglio la sua stessa sicurezza. Insomma, un po’ tutti vorrebbero rifare l’impero romano, ma il sogno non può divenire realtà.

Tuttavia uno spirito comune mediterraneo sul

quale lavorare esiste, indiscutibilmente. Ed è dato da una serie di fattori sui quali investire: il clima, gli stili di vita, la struttura familiare, l’organizzazione sociale, e se non proprio una medesima visione del mondo quanto meno una tendenza a pacificare popoli che il passato ha visto uniti in realizzazioni storiche i cui segni scorgiamo in ogni dove addentrandosi nei Paesi mediterranei. 6


dossier tà del nuovo progetto, smentendo tutte le Cassandre della vigilia, si è concretizzata in un documento comune elaborato dai ministri degli Esteri dei quarantatre Stati membri a Marsiglia il 3 e 4 novembre 2007, con il quale si è dato l’avvio alla costruzione di un grandioso (ma anche spettacolare) ponte tra le civiltà allo scopo di incentivare dialogo e comprensione, non più per via prioritariamente politica, ma attraverso gli scambi che dovrebbero vitalizzare una sorta di empatia tra culture ed economie nella prospettiva del dispiegamento di una dinamica tesa alla pacificazione dell’inquieto bacino mediterraneo. Il coinvolgimento dell’Unione europea, dell’Africa del Nord e del Medio Oriente nell’ambizioso tentativo di dare stabilità all’area e creare le premesse per una maggiore e più proficua intesa su tutte le questioni connesse al “vicinato” tra i popoli interessati, è certamente “storico” anche se qualcuno ha ironizzato sull’aggettivo alla vigilia dell’incontro di Marsiglia. Dal quale incontro non è scaturito il solito rituale documento redatto in politichese ed in “diplomatichese” ma, insieme con tanti “distinguo” e qualche compromesso di troppo forse, che comunque non l’hanno fatto naufragare come ci si aspettava, anche decisioni immediatamente operative che certamente offriranno la base strutturale per l’avvio di una politica di scambi e, ragionevolmente, per un avvicinamento di posizioni al punto da calamitare nel Mediterraneo una strategia di appeasement a tutto campo rivolta perfino a chi geopoliticamente è estraneo alla nuova Unione. L’interesse dei Paesi dell’Est europeo è considerevole, infatti, e attraverso i “buoni uffici” della Germania certamente troveranno il modo di intervenire nel processo se non costituente, in quello immediatamente successivo. Non a caso nella comunicazione della Commissione europea al Parlamento europeo e al Consiglio dei ministri dell’Unione, prendendo atto dei progressi compiuti dopo l’iniziativa di Sarkozy, ha precisato che «tutti i partner mediter-

ranei dell’Ue sono uniti da stretti vincoli storici e culturali. Il partenariato euro mediterraneo ha permesso di affrontare molte questioni strategiche regionali in materia di sicurezza, tutela dell’ambiente, gestione delle risorse marittime, relazioni economiche attraverso gli scambi di beni e servizi e gli investimenti, approvvigionamento energetico (paesi di produzione e di transito), trasporti, flussi migratori (origine e transito), convergenza normativa, diversità culturale e religiosa e comprensione reciproca. Occorre però mettere maggiormente in rilievo, soprattutto a livello politico, la centralità del Mediterraneo per l’Europa. L’importanza dei nostri legami, la profondità dei nostri rapporti storici e culturali e il carattere impellente delle sfide strategiche comuni».

La “comunicazione” è coerente

con le intenzioni di Sarkozy, il quale, dopo il suo “rilancio”, il 23 ottobre 2007, in un discorso a Rabat, richiamandosi al modello fondativo dell’Europa comunitaria, esplicitò il suo disegno dicendo che si augurava che gli Stati contribuissero a «far lavorare insieme persone che si odiavano per abituarle a non odiarsi più». Nella stessa occasione, il presidente francese sottolineò non solo la centralità del Mediterraneo per l’Europa, ma anche il fatto che l’Europa vi si gioca il suo futuro se vuole adoperarsi, come da tutti viene ammesso, alla costruzione di un progetto di civiltà. E ribadì pertanto la priorità della dimensione culturale del Mediterraneo come “luogo” della civiltà del dialogo, precisando che la scelta stessa della parola “Unione” debba avere un significato simbolico ed evocativo, non diversamente dal significato avuto nella costruzione europea. E concluse: «Per quindici secoli, tutti i progetti che miravano a resuscitare questa unità sono falliti, come sono falliti un tempo tutti i sogni di unità dell’Europa, perché viaggiavano sulle ali di sogni di conquista infrantisi contro il rifiuto di popoli che volevano rimanere liberi. Il progetto che oggi la Francia propo7


Risk ne a tutti i popoli del Mediterraneo di costruire insieme, è un progetto che viaggia sulle ali della pace, della libertà, della giustizia, un progetto che non sarà imposto da nessuno, ma voluto da tutti». I “distinguo”, comunque, sulla sponda sud, non sono mancati. Il solito Gheddafi ha cercato di seminare zizzania; il Marocco pur condividendo l’iniziativa s’è mostrato scettico sul programma di Sarkozy, la Giordania ha mostrato un atteggiamento piuttosto passivo dicendosi peraltro disposta a collaborare. Il mondo arabo-mediterraneo, pur comprendendo l’importanza strategica ed economica del progetto mostra segni di cedimento alle opinioni pubbliche che guardano all’Europa con una certa diffidenza per via soprattutto della guerra israelo-palestinese.

Tuttavia, nonostante le preventivate difficol-

tà, il vertice di Parigi del marzo 2008 ha fatto propria l’iniziativa francese che è poi stata ratificata, sia pure con qualche aggiustamento, dal Parlamento europeo e dal Consiglio europeo che ha incaricato la Commissione europea di predisporre proposte che sono state discusse dai parlamenti nazionali e da questi sostanzialmente in toto condivise. L’avviato processo, dunque, ha registrato l’importante tappa richiamata di Marsiglia dove, tra l’altro, è stato stabilito che la Lega degli Stati arabi parteciperà a tutte le riunioni, ed è stato deciso che la sede del segretariato generale dell’Unione per il Mediterraneo sarà a Barcellona. Un altro punto a favore dell’attivismo intelligente e instancabile della diplomazia spagnola. Non è una conquista di poco conto. Anche perché il segretariato avrà un posto centrale nell’architettura istituzionale del nuovo soggetto politico; si attiverà nel coordinare scambi commerciali e dialogo interculturale; avrà un peso politico enorme nella costruzione di rapporti tesi alla pacificazione mediterranea; sarà dotato di una personalità giuridica e di uno statuto autonomo. Non sfuggirà a nessuno che la “logistica” di un tale organismo ha 8

la sua importanza e non è affatto indifferente che sia un Paese piuttosto che un altro ad ospitarlo. Certo, non è il caso di fare rivendicazioni improprie e assolutamente eccentriche rispetto al progetto in esame rilevando come la Spagna vada assumendo sempre di più una centralità che le deriva dall’attivismo dei suoi governanti, ieri di centrodestra oggi di centrosinistra, impegnati nel garantire al loro Paese quel protagonismo attivo che ad altri, per esempio all’Italia, sfugge da tempo nelle istituzioni comunitarie e, più in generale, in quelle internazionali. Già si vocifera, per esempio, che sede della Banca euromediterranea, prevista dal processo di Barcellona e poi dall’Unione per il Mediterraneo, dovrebbe acquisirla la Francia e, più precisamente Marsiglia. Se ciò dovesse accadere, l’Italia, tra i Paesi più “esposti” dal punto di vista politico e geografico, rimarrebbe a bocca asciutta. Un’altra volta. E non si capirebbe perché dal momento che se c’è un Paese con una vocazione storica (oltre che geografica) intimamente connessa alla storia mediterranea questo è il nostro. Meraviglie (si fa per dire) della politica del piede di casa… Un sospetto, comunque, lo avanziamo: il nostro Parlamento ed i nostri governi credono poco, o almeno non molto si adoperano perché si possa ritenere il contrario, ad una centralità italiana nelle politiche mediterranee, sia di cooperazione che di rapporti culturali. Del resto se si guarda alle cifre che vengono stanziate c’è da restare interdetti. Per fortuna, sia pure nel disinteresse generale, l’istanza parlamentare dell’Unione per il Mediterraneo, vale a dire l’Apem, l’assemblea che raggruppa membri delle camere legislative dei Paesi interessati, oltre ai rappresentanti del Parlamento europeo, sta assumendo una vitalità sconosciuta fino ad oggi e l’Italia è attivamente impegnata sia nelle commissioni permanenti che nel bureau dove un gruppo ristretto ne determina il funzionamento. Pochi sanno, anche tra gli stessi deputati e senatori, che


dossier il nostro Paese è stato tra i fondatori dell’organismo rappresentativo nel 2003 e nel 2010 ne assumerà la presidenza di turno. Abbiamo le carte in regola, dunque, per svolgere un nostro ruolo, tutt’altro che marginale, in seno all’Unione: basta volerlo ed attivarsi di conseguenza. Anche perché per noi è più facile stabilire contatti produttivi di dialogo con chi ha difficoltà a rapportarsi, per motivi storici essenzialmente, con Paesi e popoli che guardano con diffidenza a buona parte dell’Europa dopo le note vicende del Novecento. Gli Stati Uniti del Mediterraneo, come qualcuno chiama la complessa operazione, non possono vedere l’Italia in posizione marginale o defilata. L’area del mondo più dinamica e nuova che attrae maggiori investimenti dall’estero viene ritenuta la sponda sud del Mediterraneo. Dalla Mauritania alla Turchia è in corso uno sviluppo senza precedenti. Reggere le sfide che vengono dalla Cina e dall’India, per l’Europa significa riconoscere come fondamentale l’affidamento ad un partenariato mediterraneo aggressivo e produttivo. Cominciando dalla cultura. Jean Monet, padre dimenticato dell’Unione europea, riconoscendo che il destino continentale non poteva essere prioritariamente economico, come invece è stato, diceva che se si potesse rifondare l’Europa l’avrebbe fatto dalla cultura. Oggi diciamo la stessa cosa. E non è detto che gli scambi e gli investimenti non aiutino, ma servirebbero a poco se tutta la politica di prossimità con il mondo arabo-mediterraneo e, naturalmente, con Israele, si limitasse a fare profitti per le diverse aziende nazionali. Le risorse, non dimentichiamolo, sono i popoli. Il fine è la pace. Non una pace qualsiasi, ma una giusta pace fondata sul riconoscimento di tutte le sovranità affinché ogni Stato sovrano riconosca un giorno una sovranità più grande, quella mediterranea appunto.

Il mondo arabo-mediterraneo, pur comprendendo l’importanza strategica ed economica del progetto, mostra segni di cedimento alle opinioni pubbliche che guardano all’Europa con una certa diffidenza per via, soprattutto, della guerra israelo-palestinese I rischi dell’ambizioso progetto sono noti, basta saperli affrontare con la giusta determinazione, senza rinunciare a impegnarsi neppure nella partita più difficile. Credendoci, naturalmente. E, per quanto riguarda l’Italia, con un pizzico di consapevolezza in più riguardo alle sue possibilità in un campo, anzi in un mare, che mai come oggi offre opportunità di grandissima rilevanza.

Il Mediterraneo non sarà mai più ciò che è

stato nel lontano passato. Ma un compito di straordinaria importanza l’unione dei popoli che su di esso si affacciano può adempierlo: ritrovare una dimensione umana in un mondo che sembra averla smarrita. I diritti dei popoli, la sovranità delle culture, il riconoscimento delle differenze sono gli elementi di una nuova politica globale nel Mare Nostrum. Non sembra, a prima vista, che tutto ciò intrighi particolarmente i politici, ma è da questo insieme che bisogna ricominciare se si vuol dare sostanza ad un progetto riscattandolo dalla ipoteca tecnocratica che alla lunga finirebbe per scontentare tutti. Occorre un’audacia spirituale unita ad un coraggio istituzionale perché nasca davvero e non resti soltanto un’aspirazione l’Unione per il Mediterraneo. 9


Risk

PANARABISTA, ANTITALIANO, TERRORISTA, PROAFRICANO E ORA AMICO DI BERLUSCONI

LE MILLE E UNA FACCIA DI GHEDDAFI DI

L’

MAURIZIO STEFANINI

11 giugno del 1970 è a Tripoli il segretario di Stato Usa William Rogers, per trattare la richiesta di ritiro della base americana. Non però con il 28enne colonnello Muammar Gheddafi, capo del golpe che il primo settembre 1969 ha destituito il re Idris I, che preferisce in principio restare fuori. Ma mentre i colloqui tirano per le lunghe e fuori dal palazzo la

• folla inveisce, a un certo punto irrompe nella sala: divisa kaki da combattimento, mano sul pistolone sfilato a metà della fondina. Con un gesto che gli è ancora tipico quando discute, appoggia un piede sulla sedia mentre si tiene il mento con un palmo, e parla: «Rogers, io non so proprio che cosa lei stia cercando di trattare. Da questo momento lei ha tre ore di tempo per dirmi, con esattezza, quante settimane vi servono per sbaraccare e andarvene. Una settimana o due? Quanto? Naturalmente, ci pagherete l’affitto della terra dal ’54 a oggi, l’energia elettrica che avete consumato, l’acqua, le bollette del telefono, tutto per 16 anni. Intendiamoci: partono gli uomini, non le armi. Armi, aerei, carri armati, missili, apparecchiature se volete prenderli ce li pagate al prezzo di oggi e come se fossero nuovi di fabbrica. Qualcosa in contrario? Perché se c’è qualcosa in contrario lo dico al popolo, qui sotto, in piazza. E ci pensa il popolo a persuadervi». Trentaquattro anni dopo, ancora Gheddafi è al potere, ma invece di esigere il ritiro americano a forza di tumulti popolari è lui che si è invece piegato a rinunciare alle armi di distruzione di massa che la Libia stava approntando: in particolare la 10

bomba atomica, ma anche l’iprite e il gas nervino dell’impianto di Rabta e forse anche armi batteriologiche. È la seconda resa agli anglo-americani, dopo che nel 1999 ha accettato di consegnare alla magistratura scozzese i due indiziati della strage di Lockerbie. E quando il 7 ottobre è Berlusconi il primo leader straniero a venire in visita dopo la fine dell’ostracismo, un terzo gesto Gheddafi lo fa verso l’Italia: cancellando quella “giornata della vendetta” che commemorava la sconfitta delle nostre truppe coloniali avvenuta a Sciara Sciat il 24 ottobre 1911, e permettendo perfino di tornare in visita ad alcuni dei 20mila nostri connazionali da lui espulsi il 21 luglio 1970, assieme a 40mila ebrei. Pure l’Italia è il megafono attraverso il quale spiega al mondo la sua evoluzione, quando il 6 dicembre riceve a Tripoli l’équipe Rai di Giovanni Minoli. Con sorpresa dopo aver attraversato una città dal traffico caotico la troupe passa la triplice cinta di mura che circonda la residenza ufficiale, e scopre un piccolo angolo di deserto riprodotto sullo sfondo delle rovine del palazzo presidenziale distrutto dal bombardamento Usa del 15 aprile 1986. Tra palme e cammelli un gruppo di tende, in


dossier cui trascorre la vita il rais. Solo lì sotto riesce infatti a dormire tranquillo, anche se forse non le fa più spostare ogni notte di qualche centinaio di chilometri, come al tempo dell’altra famosa intervista a Oriana Fallaci.

Altro cambiamento: Gheddafi non si pre-

senta più in divisa ma in una bizzarra camicetta chiara decorata da mappe dell’Africa in marrone. Perché nel frattempo l’indefesso propugnatore dell’unità araba ha pure deciso che il panarabismo è una chimera, è uscito dalla Lega Araba si è dedicato all’altra causa dell’unità africana, di cui ha assunto la presidenza pochi mesi fa. Nell’intervista, arriva a chiedere all’Europa di trattare direttamente con l’Africa senza mescolarvi i dibattiti coi Paesi del Medio Oriente mediterraneo: «Sono Asia, è un’altra cosa». Il vecchio panislamista dice pure che se l’Unione Europea ammetterà la Turchia tra i suoi Stati membri «avrà fatto entrare il cavallo di Troia di Bin Laden». E si vanta di aver fatto vincere le elezioni a George W. Bush: «alla decisione della Libia di rinunciare al suo programma nucleare deve almeno il 50% di successo della sua campagna elettorale». Insomma, è il suo il vero “Islam moderato”: «né reazionario, né terrorista». Chiama alla sorveglianza contro i «regimi teocratici tipo i Taleban», e dichiara addirittura di sentirsi cittadino di quell’Italia cui per tanti anni ha continuato a rimproverare il passato imperialista e a rivendicare i danni di guerra, appellandosi proprio alle leggi sulla cittadinanza ai libici concesse dall’amministrazione coloniale. «Potrei candidarmi alle elezioni», annuncia ridendo. Anche ora dice però di parlare in nome del popolo. Anzi, dice che è il popolo il vero sovrano in Libia. «Se io fossi al potere sarei già finito da tanto tempo. Il potere l’ho consegnato al popolo libico nel 1977. In effetti, dal punto di vista formale lui non ha oggi alcuna carica, se non quelle onorifiche di “Leader Fraterno e Guida della Rivoluzione” e

“Guida della Grande Rivoluzione del Primo Settembre della Jamahiriya. Socialista Popolare Araba Libica». Jamahiriya è appunto un neologismo creato dallo stesso Gheddafi modificando il normale jumhuriya, “repubblica”, in modo da fargli significare qualcosa tipo “Stato delle masse”. L’uno e l’altro titolo lui li traduce in questi termini: «Sono l’incaricato di mobilitare il popolo a esercitare il potere senza rappresentanza». Anzi, dice che se entrasse veramente in politica in Italia, lo farebbe per «consegnare anche al popolo italiano il potere», attraverso il sistema di democrazia diretta per congressi del popolo e comitati di base previsto da suo “Libretto Verde”. In quell’intervista Gheddafi parla anche del deserto. «Il deserto è pulizia, è purezza, è quiete, è una delle grandi testimonianze di Dio. Io non potrei vivere senza il deserto. La mia vita è intimamente legata al deserto». Anche se confessa che i suoi figli sono ormai “un’altra generazione”. Al-Saadi, calciatore in Italia: due partite in tre stagioni, una squalifica per doping e il soprannome “Alzati Gheddafi”. Aisha, avvocatessa di Saddam Hussein. Hannibal, all’origine di una guerra diplomatica con la Svizzera per due giorni di arresto a Ginevra in base a un’accusa per maltrattamento di domestici. Saif al-Islam, erede designato con una storia d’amore impossibile per un’attrice israeliana. Nel deserto Gheddafi è nato, in una tenda di pelli di capra a venti chilometri a Sud di Sirte, da due beduini analfabeti. La data di nascita esatta non si sa, perché allora i nomadi si sottraevano ancora all’obbligo della registrazione anagrafica. Ma viene collocata attorno al 1942: proprio quando in Libia infuriava la lotta tra Rommel e Montgomery. Sull’avambraccio destro porta ancora la lunga cicatrice lasciatagli da una mina italiana che scoppiò in un campo dove stava giocando quando aveva sei anni, e che uccise due suoi cugini. Anche di lì deriva l’acerbo risentimento a lungo covato contro il nostro Paese. Più tardi, tra i 4 e i 19 anni frequentò le scuole islamiche, prima a 11


Risk Sirte e poi a Sebha, capoluogo della regione desertica del Fezzan. Era così povero che dormiva in moschea, per tornare con una camminata di 30 chilometri a dare una mano ai genitori nel weekend islamico, giovedì e venerdì. Una volta fu sospeso, per aver invitato un’insegnante di madrelingua inglese ad andarsene dal Paese. Ma quando poi riuscì ad iscriversi all’Accademia militare di Bendasi, proprio in Inghilterra fu mandato tra 1965 e 1966, a specializzarsi in trasmissioni.

“Operazione Gerusalemme”

venne chiamato il golpe. Fu appunto Gheddafi a parlare alla radio, promettendo una società «in cui nessuno sarà né padrone né servo». In quel momento grazie al petrolio la Libia ha già il reddito pro capite più alto dell’Africa, ma distribuito malissimo. La rivoluzione raddoppia i salari minimi e dimezza gli stipendi dei ministri, creando ospedali e ambulatori e promuovendo la partecipazione dei lavoratori alla proprietà delle imprese. Ma in quel momento Gheddafi è anche il primo antesignano di quella che sarà negli anni a venire l’agitazione integralista. Bandisce infatti l’alcool, chiude i casinò e i locali notturni, fa sparire i caratteri latini dalle insegne, fa vietare perfino l’insegnamento della lingue straniere nelle scuole. Fonte del dirit-

Indefesso propugnatore dell’unità araba ha poi deciso che il panarabismo era una chimera, è uscito dalla Lega Araba e si è dedicato all’altra causa dell’unità africana, di cui ha assunto la presidenza pochi mesi fa 12

to è proclamata la Sharia, anche se in seguito ci si renderà conto che il raís la interpreta a modo suo, escludendovi in particolare tutti quei “detti” attribuiti dalla tradizione al Profeta e che però non stanno nel corpus del Corano. All’unità islamica Gheddafi esorta comunque nei suoi primi appelli radio. Dopo che nel corso del primo anno di potere aveva proceduto alla chiusura delle basi militari straniere, alla nazionalizzazione delle imprese e alla cacciata di italiani e ebrei il 27 dicembre 1970, Gheddafi sottoscrive col presidente egiziano Nasser e col sudanese Nimeiry, una Carta di Tripoli per la creazione di una federazione tra i tre Stati. In seguito tenta nel 1971 la Federazione delle Repubbliche Arabe con Egitto e Siria; nel 1972 un progetto di integrazione bilaterale con l’Egitto; nel 1974 una Repubblica Araba Islamica con la Tunisia; nel 1981 un’unione con il Ciad; nel 1984 una federazione col Marocco: tutti progetti finiti l’uno peggio dell’altro. Con l’Egitto ci sarà addirittura una mini-guerra in cui aerei egiziani bombarderanno una base libica. Un’altra mini-guerra di confine ci sarà tra Libia e Tunisia. Col Marocco non ci saranno scontri diretti, ma Gheddafi riconoscerà ufficialmente il Fronte Polisario, animatore di una guerriglia contro l’annessione marocchina del Sahara Occidentale. Un vero e proprio Vietnam libico sarà la guerra in cui si impantanerà in Ciad tra 1980 e 1987 un corpo di spedizione mandato in appoggio ai seguaci di Goukouni Oueddei in rivolta contro il regime filo-francese di Hissène Habré. A un altro disastro andrà incontro nel marzo 1979 il corpo di spedizione inviato in Uganda a sostenere il regime di Idi Amin Dada contro l’invasione dell’esercito tanzaniano aiutato da milizie di esuli. E andrà male anche il confronto diretto con gli Stati Uniti nel Golfo della Sirte, culminato col già citato bombardamento aereo di Tripoli e Bengasi del 14 aprile 1986 e nell’abbattimento di due Mig libici nel gennaio 1989. Ma il rapporto degli americani con


dossier Gheddafi, in fondo, è speculare a quello di Gheddafi con gli italiani: un’ossessione che diventa quasi odio-amore. Gli italiani, in particolare, dopo averli cacciati come coloni il raís li richiamherà subito come tecnici e imprenditori, mantenendo il nostro Paese come suo primo partner commerciale. Già nel 1972 l’Eni dà vita a una società mista col governo libico, la nostra tecnologia fornisce alla Libia non solo impianti petrolchimici, ingegneria del territorio e macchinari ma perfino armamenti, nel 1976 Gheddafi acquista il 10% delle azioni Fiat, dando alla società torinese una straordinaria iniezione di fiducia e capitali in un momento difficile, e già nel 1978 si è ricostituita una comunità di 16mila italiani che è tornata a essere la seconda del Continente dopo quella sudafricana. Il 1978 è anche l’anno in cui va a Tripoli il presidente del Consiglio Andreotti, proprio con il fine dichiarato di convincere Gheddafi sulla bontà degli Accordi di Camp David. Anche gli americani all’inizio hanno continuato a puntare sulla Libia, perfino dopo la sommossa contro Rogers. Per la mentalità dell’amministrazione Nixon, in fondo, un regime musulmano è comunque anticomunista, Gheddafi non manca infatti di fare dichiarazione antisovietiche, specie in occasione di quella guerra indo-pakistana del 1971 in cui Mosca ha preso le parti di New Delhi contro il Paese islamico, e all’indomani del trattato tra Mosca e Bagdad del 1972. Inoltre Gheddafi appoggia l’espulsione dei consiglieri sovietici decisa dal presidente egiziano Sadat in quello stesso 1972, e ancora nel novembre di quell’anno un editoriale dell’Observer definisce Gheddafi «il più grande flagello del comunismo internazionale dopo Foster Dulles». Poi i rapporti peggiorano, anche per il riavvicinamento tra Tripoli e Mosca, che specie dopo la visita di Gheddafi del 1976 e i suoi abbracci con Breznev inizia a fornirgli materiale bellico. Ma secondo il biografo di Gheddafi, J.K Colley, ancora sotto l’Amministrazione Ford la Cia «era probabilmente più incline a proteggere

che non a far cadere Gheddafi», pur se il Pentagono inizia a studiare l’ipotesi di occupazione delle aree petrolifere libiche. Sotto Carter le tensioni iniziano a venire alla luce, anche se fanno lobbying a favore di Gheddafi alcuni importanti ambienti affaristici e lo stesso fratello del presidente, Billy. In particolare, Washington è delusa per la mancata risposta alla richiesta di mediazione con l’Iran dopo il rapimento degli ostaggi dell’ambasciata Usa a Teheran, mentre d’altra parte la Libia sta portando al parossismo la sua agitazione contro la pace tra Egitto e Israele. Quando Reagan va al potere, dunque, il colonnello è un comodo obiettivo per un’Amministrazione che vuole mostrare i muscoli dopo le umiliazioni degli ultimo decennio, ma scegliendosi avversari non troppo ostici. E Gheddafi è un “cattivo” stravagante e antipatico quasi in modo cinematografico, ma tutto sommato isolato e alla testa di uno staterello di non oltre i 2 milioni di abitanti. Ovviamente, nel suo tentativo di essere amica a entrambi i contendenti, l’Italia si trova in mezzo. Da una parte, nel suo territorio i servizi segreti libici attaccano e uccidono in quantità gli esuli: una risposta del regime alla sfida interna che dopo i moti studenteschi del 1976, le purghe di intellettuali del 1977 e la fallita rivolta militare di Tobruk del 1980 ha portato nel triennio 1980-83 a vari tentativi di golpe. Anzi, ci sono 23 pescatori di Mazara del Vallo che sono arrestati e detenuti a Tripoli con l’accusa di essere sconfinati nelle acque territoriali libiche, in cambio della cui liberazione Gheddafi chiede ai nostri servizi gli indirizzi di questi dissidenti, per poterli più facilmente raggiungere. Dall’altra, nel giugno 1980 c’è il misterioso episodio di Ustica, in cui un aereo di linea italiano cade in uno scenario che molte ricostruzioni hanno ricostruito come un tentativo di attacco di caccia francesi e americani a un aereo con a bordo Gheddafi, per il quale il velivolo della Itavia sarebbe stato scambiato. Nell’agosto 1981 due aerei libici sono poi abbattu13



dossier ti dagli Usa nel Golfo della Sirte; tra 1981 e 1982 la Libia è colpita da un’offensiva sui mercati petroliferi; e nel marzo del 1982 è soggetta a embargo. Che Gheddafi abbia risposto a colpi di attacchi terroristici è stato ormai lui a confessarlo, anche se forse non è farina del suo sacco tutto quello che gli è stato attribuito. Nel marzo 1986, comunque, gli americani rispondono con un’esercitazione aereo-navale nel Golfo della Sirte, in acque che loro considerano internazionali e Gheddafi invece libiche. E il 15 aprile, dopo i tre morti in un attentato a una discoteca di Berlino Ovest frequentata da soldati statunitensi e attribuita ai servizi di Gheddafi, c’è l’attacco aereo alla Libia in cui anche la residenza di Gheddafi è distrutta, sua moglie ferita e una sua figlia adottiva uccisa. Clamoroso ma innocuo è il susseguente lancio di due missili libici Scud-B sull’isola italiana di Lampedusa. Ma in quello stesso 1986 i libici sono accusati di aver “acquistato” un ostaggio americano in Libano che poi morirà nelle loro mani, e di un attentato all’ambasciata Usa in Togo. Nel 1988 due agenti libici compiono il famoso e già citato attentato di Lockerbie, con 270 morti, tra cui 200 americani. Sempre nel 1988 agenti libici compiono attentati a librerie Usa in Colombia, Perù e Costa Rica. Nel 1989 sono presi a Chicago agenti libici che si preparano a colpire aerei con missili. Nel 1989 c’è un attentato a un aereo francese in volo sul Niger per cui nel 1999 un tribunale francese condannerà sei libici. Inoltre ci sono le uccisioni di oppositori in varie capitali europee: nel 1984 a Londra è una poliziotta britannica a essere colpita a morte da un colpo di arma da fuoco partito dall’ambasciata libica contro un raduno di oppositori. Nel dossier vi è poi il traffico di armi Usa che la Libia svolge in particolare negli anni ’70. E le azioni di gruppi terroristi sponsorizzati dalla Libia: Ira, Eta, Abu Nidal, Armata Rossa Giapponese, Fronte Rivoluzionario Unito della Sierra Leone, ribelli

islamici filippini. Anche se dopo il suo “ravvedimento” Gheddafi userà la sua influenza con questi ultimi per mediare la liberazione di ostaggi. Qualcuno ritiene il pentimento di Gheddafi conseguenza dell’embargo Usa, qualcun altro apprezza la sua capacità di comprendere i nuovi scenari aperti dalla dissoluzione dell’Unione Sovietica e dalla Guerra del Kuwait, ma altri pensano piuttosto alla sua crescente contrapposizione all’integralismo islamico, di cui pure è stato antesignano, e che finisce per creare un’inopinata convergenza di interessi tra lui e gli americani.

Già dal 1981, va ricordato, una commissio-

ne teologica riunita alla Mecca aveva definito “anti-islamica e apostata” l’interpretazione del Corano contenuta nel suo Libretto Verde. «Tagliate loro la testa e gettatela nella strada come quella di un lupo, di una volpe, di uno scorpione», dice lui degli integralisti, «più pericolosi dell’aids, del cancro e della tubercolosi» per il tentato golpe del 1993 e i moti del 1996. Il processo non è lineare, visto che nel 1992 il governo libico finisce sotto un nuovo embargo, questa volta Onu, per aver rifiutato di consegnare i due sospetti della strage di Lockerbie, mentre nel 1993 è annunciato l’allestimento dell’impianto per la produzione di armi chimiche di Tardunah. Ma nel 1999, come si è ricordato, i due imputati di Lockerbie sono infine estradati, dopo l’11 settembre 2001 Gheddafi sostiene il diritto degli americani a attaccare il regime dei Taleban, e infine arriva la già citata riammissione nella comunità internazionale del 2004. Certo, però, che la Libia continua a non fare la minima apertura all’interno. Quanto all’Italia, messa tra parentesi anche la sommossa contro il nostro consolato per la maglietta del ministro Calderoli con una vignetta anti-islamica danese, l’accordo di riconciliazione è stato infine portato a termine, e la Venere di Cirene restituita. Però dalle coste libiche i clandestini continuano a partire. 15


Risk

AL G8 DELL’AQUILA, DOPO

20 ANNI, IL COLONNELLO INCONTRERÀ UN PRESIDENTE USA

DALL’ ASSE DEL MALE ALL’ ASSO DI OBAMA DI

S

ENRICO SINGER

ono passati 23 anni da quella notte tra il 14 e i 15 aprile del 1986, quando gli F-111 americani attaccarono Tripoli e Bengasi. Un solo bombardamento combinato e contemporaneo che provocò la morte di 41 libici, molti i civili, tra i quali anche Hanna, una giovane figlia adottiva del colonnello Muammar Gheddafi schiacciata sotto le macerie della

residenza di Bab al Aziza dove l’intelligence Usa credeva fosse il raís. Uno dei 45 aerei incursori fu abbattuto e i due piloti uccisi. Fu una fiammata di guerra. Una rappresaglia ordinata dopo l’attentato compiuto a Berlino nella discoteca “La Belle” da un commando legato al regime di Tripoli che era costato la vita a uno dei tanti soldati americani che frequentavano quel locale. La tensione tra i due Paesi era altissima. Allora Ronald Reagan definiva Gheddafi “un cane pazzo”, lo accusava di orchestrare il terrorismo internazionale e di volere armi di distruzione di massa, chimiche e nucleari. Adesso il colonnello, che guida la Libia dalla Rivoluzione Verde che lo portò al potere il primo settembre del 1969, dice che Barack Obama è «un raggio di luce nel buio dell’imperialismo» e lo incontrerà al vertice del G8, dall’8 al 10 luglio in Abruzzo. Al tavolo dei Grandi, Muammar Gheddafi è stato invitato come presidente di turno dell’Ua, l’Unione Africana, che lo ha eletto suo massimo rappresentante nell’agosto scorso. È tradizione dei summit del G8 avere dei corollari di colloqui con gli esponenti delle regioni meno sviluppate del globo: una volta l’Asia, un’altra l’America latina. Questa volta tocca all’Africa e così il destino metterà di 16

fronte uno all’altro Obama e Gheddafi che, forse, non erano pronti per organizzare un faccia a faccia a due, ma che a questo punto non si tireranno indietro. Anzi, il loro incontro si annuncia come l’appuntamento più interessante del vertice che doveva tenersi alla Maddalena e che Silvio Berlusconi ha deciso di spostare nel cuore delle zone terremotate provocando, oltre a un generale sentimento di solidarietà da parte dei laeder invitati, anche notevoli problemi logistici. In Sardegna tutto - o quasi - era pronto per ospitare il G8. La struttura organizzativa, guidata da Guido Bertolaso, lo stesso che ora si occupa dell’emergenza Abruzzo come capo della Protrezione civile, aveva già approntato la logistica. Il transatlantico “Splendida” della Msc era stato prenotato per accogliere i trenta tra capi di Stato e di governo che, complessivamente, saranno presenti alle diverse fasi del vertice: eccezion fatta proprio per Barack Obama e per Muammar Gheddafi che dovevano essere ospitati il primo all’interno dell’arsenale militare, il secondo in una tenda berbera, quella che lo ha seguito ovunque come residenza nelle sue visite all’estero, dall’Eliseo al Cremlino. Erano state anche noleggiate le due navi da crociera che


dossier dovevano essere ormeggiate al porto di Golfo Aranci: la “Orient Queen” e la “Coral”, di armatori greci e ciprioti, erano destinate ai tremila uomini delle forze di sicurezza. Tutta questa macchina, ora, è stata modificata. Soltanto per Gheddafi non cambierà la sistemazione: sarà sempre la sua tenda berbera anche in mezzo alle tendopoli azzurre dei terremotati. È presto per dire se l’incontro con Obama rimarrà nei confini formali della fase allargatata del G8 o se offrirà l’occasione ai due ex nemici di lanciare qualche segnale concreto di riconciliazione. Comunque sarà un momento-chiave del processo di normalizzazione che è cominciato da tempo, sotto la presidenza del repubblicano George W. Bush, e che dovrebbe trovare ulteriore impulso con il nuovo presidente democratico che ha fatto dell’apertura la linea di fondo della sua politica estera. Del resto gli Stati Uniti, già nel 2006, avevano deciso di ristabilire piene e normali relazioni diplomatiche con la Libia interrotte da Jimmy Carter nel 1980 - e di riaprire la loro ambasciata a Tripoli. La Libia è stata, inoltre, tolta dalla lista degli Stati che sponsorizzano il terrorismo internazionale. Avallate dal presidente Bush, adottate dal segretario di Stato, Condoleezza Rice, e annunciate dal sottosegretario David Welch, quelle decisioni hanno segnato la chiusura di una pagina di storia durante la quale Usa e Libia non solo non hanno dialogato, ma si sono a più riprese affrontate manu militari.

Quando Washington scatenò il raid aereo con-

tro Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò a sua volta contro Lampedusa due missili Scud che caddero in acqua a centinaia di metri dalla costa. Un gesto dimostrativo, più che altro. Anche perché è ormai accertato e ufficialmente ammesso che fu proprio l’Italia a salvare la vita al colonnello Gheddafi. Giulio Andreotti - che nell’86 era ministro degli Esteri del governo Craxi - e il ministro degli Esteri libico, Abdul Rahman Shalgam, hanno raccontato nell’ottobre scorso una storia che più volte era stata scritta, ma mai confermata in modo così chiaro e autorevole: il governo italiano avvertì Gheddafi che nella notte del 14 aprile ’86 la Us Navy avrebbe attaccato Tripoli per punire la Libia che aveva organizzato

l’attentato contro i militari americani in Germania. «Sì, quell’attacco americano era un’iniziativa impropria e credo proprio che dall’Italia partì un avvertimento per la Libia», ha raccontato Andreotti in un convegno organizzato alla Farnesina. In effetti Bettino Craxi, all’epoca presidente del Consiglio, chiese al suo consigliere diplomatico, Antonio Badini, di avvertire l’ambasciatore libico in Italia, quell’Abdul Rahman Shalgam che oggi è il ministro degli Esteri di Gheddafi e che ha confermato la storia: «Craxi mi mandò un amico per dirmi di stare attenti perché il 14 o il 15 aprile ci sarebbe stato un raid americano contro la Libia». E fu proprio grazie a questo avvertimento che probabilmente il leader libico si salvò. Craxi informò la Libia «due giorni prima dell’aggressione, forse l’11 o il 12, e ci disse che l’Italia non avrebbe permesso di usare il mare e il cielo agli americani per condurre il raid». In effetti, come ha rivelato anche Margherita Boniver, allora responsabile esteri del Psi, «qualche settimana prima dell’attacco, il segretario di Stato americano, George Shultz, arrivò in Europa per consultazioni con i capi di Stato e di governo sull’intenzione americana di bombardare la Libia per rappresaglia all’attentato alla discoteca “La Belle” di Berlino e per chiedere l’autorizzazione di sorvolo per i bombardieri Usa. Tutti gli europei dissero di no, tranne la Thatcher». Dopo quel primo, sanguinoso, scontro armato, tra Usa e Libia c’è stato un altro episodio di guerra guerreggiata rimasto nella storia come “l’incidente del Golfo della Sirte”. Il Khalij Surt, è la grande insenatura sulla costa nordoccidentale libica che si estende da Misurata fino a Bengasi. Con la dichiarazione del 19 ottobre 1973 Gheddafi era al potere appena di quattro anni - la Libia rivendicò l’intero golfo come territorio nazionale tracciando una linea che arrivava anche a 302 miglia nautiche dalla costa, detta “linea della morte”, il cui attraversamento avrebbe comportato una risposta militare. Una mossa non riconosciuta dagli Usa e da tutti gli altri Paesi occidentali che accettano lo standard internazionale del limite delle acque territoriali a 12 miglia (22,2 chilometri) dalla costa. La crisi si acuì quando gli Stati Uniti accusarono la Libia di costruire un impianto per 17


Risk realizzare armi chimiche a Rabta e inviarono nel Golfo della Sirte, oltre la “linea della morte”, le portaerei Kennedy e Roosevelt. Il 4 gennaio del 1989 ci fu uno scontro aereo tra due F14 Tomcat dello squadrone degli Swordsman (spadaccini) imbarcato sulla Kennedy e due Mig23 libici che furono abbattuti. A proposito di combattimenti nei cieli, non si può non ricordare che Gheddafi, ancora nel settembre del 2003, accusò gli Usa di avere abbattuto anche il DC9 Itavia precipitato a Ustica con 81 passeggeri e membri dell’equipaggio, tutti morti. «Gli americani erano sicuri che io fossi a bordo di quell’aereo e per questo lo buttarono giù», disse il leader libico nel suo discorso per la celebrazione del 34esimo anniversario della Rivoluzione Verde del 1969. Un’accusa mai provata, naturalmente, ma che è l’ennesima dimostrazione di quanto fossero esasperate le relazioni tra Libia e Stati Uniti. Nel 2000 la Cia aveva anche accusato Tripoli di avere armi di sterminio, un’affermazione che Gheddafi smentì. La svolta nei rapporti tra i due Paesi avvenne alla fine del 2003, quando la Libia, che si era già assunta la responsabilità dell’attentato di Lockerbie e aveva accettato di pagarne gli indennizzi, concluse un accordo con Washington e Londra in cui rinunciava ai propri programmi nucleari e di costruzione di armi di distruzione di massa. Si era nel pieno del clima di tensione internazionale seguito all’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001 e delle azioni militari in Afghanistan e in Iraq che sembravano, a quel punto, essersi rapidamente concretizzate in un successo. Gheddafi, forse, si sentiva ancor più isolato e accerchiato. E cominciarono i passi di riavvicinamento. Quando, nel 2004, Welch annunciò la decisione di riaprire almeno degli uffici di rappresentanza, primo atto della ripresa delle relazioni diplomatiche, disse che «il Dipartimento di Stato aveva valutato con attenzione il comportamento di Tripoli che ha fatto passi decisi nel prendere le distanze dal terrorismo». Da parte libica il ministro degli Esteri, Shalgam, parlò di “una nuova pagina” nelle relazioni con gli Usa e spiegò che la mossa non era una sorpresa e non era unilaterale, ma «il risultato di contatti e negoziati, di un reciproco interesse, di accordi e comprensioni». Chi 18

non condivise la soddisfazione americana e libica, fu l’opposizione in esilio che parlò di decisione «malaugurata che non aiuta il popolo libico che sta cercando di ottenere il rispetto dei diritti umani e ha bisogno dell’aiuto internazionale», come disse dal suo esilio egiziano Fayez Jibril, del Congresso nazionale libico. Ma il cammino del riavvicinamento non s’interruppe. Al contrario, ha segnato altre tappe decisive.

Il 5 settembre dello scorso anno, Condoleezza

Rice, in quel momento ancora Segretario di Stato, è sbarcata a Tripoli. È stata la prima visita di un alto rappresentante americano in Libia dopo quella che un altro Segretario di Stato, John Foster Dulles, aveva compiuto addirittura nel lontano 1953, incontrando il re Idriss. La Rice dichiarò che il suo incontro con Gheddafi era stato “un buon inizio” anche se, tra tanti sorrisi, qualche divergenza era rimasta. A proposito del rispetto dei diritti umani, per esempio: tema che Condoleezza sollevò provocando la reazione del minstro Shalgam il quale replicò che «la Libia non ha lezioni da prendere da nessuno». L’incontro con Muammar Gheddafi, che la stessa Rice definì «storico», fu organizzato dai libici, non a caso, nella residenza di Bab al Aziza, il complesso dove la figlia adottiva del colonnello morì nel bombardamento del 1986 ordinato dall’allora presidente Ronald Reagan. La visita di Condoleezza Rice fu resa possibile dall’ultimo atto della lunga vicenda dei risarcimenti alle famiglie delle vittime degli attentati di Berlino e di Lockerbie. E, tre mesi e mezzo dopo, il 29 dicembre 2008, arrivò a Tripoli anche il nuovo ambasciatore americano, Gene A. Cretz, che dopo 36 anni si è insediato come rappresentante degli Stati Uniti in Libia. A questo intreccio diplomatico WashingtonTripoli si è affiancata l’opera di normalizzazione con l’Italia che aveva già fatto passi da gigante negli ultimi anni, ma che rimaneva sospesa alla doppia questione dei risarcimenti di guerra e delle scuse per il passato coloniale. Poco prima che arrivasse Condoleezza Rice, era stato Silvio Berlusconi a incontrare, nell’agosto del 2008, Gheddafi a Bengasi dove era stato firmato il Trattato di amicizia e cooperazione con l’Italia.


dossier Attorno a quel documento si accese anche un giallo, perché il leader libico svelò alcuni retroscena dell’accordo appena siglato: in particolare l’impegno italiano a «non concedere mai il suo territorio per azioni contro la Libia». Una frase che provocò una puntualizzazione da parte di Palazzo Chigi: «In relazione a quanto riportato dall’agenzia di stampa libica Jana sul trattato firmato tra l’Italia e la Libia, si precisa che l’accordo fa, come è ovvio, salvi tutti gli impegni assunti precedentemente dal nostro Paese, secondo i principi della legalità internazionale». Come dire che gli impegni con la Nato e, quindi, con gli Usa, non si discutono.

Ma Gheddafi ha insistito e ha riferito che, per convincere i negoziatori italiani ad inserire l’articolo 4 nel trattato, «abbiamo detto che la questione altrimenti non sarebbe stata chiusa e che non avremmo mai perdonato l’Italia per quello che aveva fatto contro di noi». Su questo punto gli americani si sono limitati a dichiarare di “non avere informazioni di merito”, ma per bocca del sottosegretario di Stato, David Welch, hanno promosso il patto siglato tra Roma e Tripoli come «uno sviluppo positivo che si inserisce nel nuovo sentiero di collaborazione intrapreso dalla Libia». La definitiva pace tra Italia e Libia è cronaca di questi ultimi mesi. È stata firmata solennemente nel deserto della Sirte il 2 marzo di quest’anno. Accolto a braccia aperte da Muammar Gheddafi sotto la sua tenda, Berlusconi ha chiesto scusa per “le colpe dei colonizzatori” e ha invitato formalmente il leader libico al G8. Per sottolineare i nuovi rapporti con la Libia, Berlusconi ha anche annunciato di essere stato a sua volta invitato il prossimo anno in Libia il 30 agosto, per la “Giornata di amicizia tra il popolo italiano e il popolo libico” e ha annunciato che si tratterrà a Tripoli fino al primo settembre per «festeggiare insieme il quarantesimo anniversario della vostra grande rivoluzione». Calorosa e altrettanto solenne è stata la risposta di Gheddafi che ha accettato «le scuse dell’Italia» e ha «pregato tutti i

libici di vincere i propri risentimenti e tendere la mano ai loro amici italiani» in un rapporto di rispetto reciproco. In concreto, le aziende italiane che intendono operare in Libia avranno la priorità rispetto a tutte le altre ed anche gli italiani che risiedevano nel Paese prima dell’espulsione di massa del 1970 potranno liberamente rientrare in Libia per lavoro o per turismo. Disgelo completo con l’Italia, insomma. Normalizzazione con gli Usa. E riavvicinamento anche con la Russia. Il primo novembre del 2008 il leader libico è stato anche a Mosca dopo 23 anni: la sua ultima visita in quella che era ancora l’Urss avvenne nel 1985. Gheddafi, che ha piazzato la sua tenda beduina all’interno delle mura del Cremlino, è stato ricevuto da Dmitri Medvedev e da Vladimir Putin con i quali ha parlato dell’acquisto di armi e probabilmente di un accordo per sfruttare l’energia nucleare a fini pacifici in cambio della concessione di una base di appoggio in Libia per le navi russe nel Mediterraneo. Un ulteriore sdoganamento sulla scena internazionale è stata l’elezione a presidente dell’Ua. I delegati dei 53 Paesi membri dell’Unione Africana riuniti nella capitale etiope Addis Abeba, la scorsa estate lo hanno designato come successore del presidente tanzaniano, Jakaya Kikwete. Gheddafi rimarrà in carica un anno, troppo poco per realizzare il suo ambizioso programma: trasformare l’Ua in una specie di Stati Uniti d’Africa con una sola moneta, un solo esercito e un solo passaporto emulando così il modello americano e superando l’Unione Europea a cui l’Ua si ispira per organizzazione e finalità. Nata dalle ceneri della precedente Organizzazione dell’Unità Africana (Oua), franata per le divisioni interne e la strutturale inutilità, l’Ua ha l’obiettivo dichiarato di favorire l’integrazione economica e politica tra gli Stati membri. Ne fanno parte tutti i Paesi del continente tranne il Marocco, che nel 1984 abbandonò l’Oua per protestare contro il sostegno dato da numerosi Paesi africani all’indipendenza del Sahara Occidentale. Dotata di una Commissione esecutiva e di un Parlamento, i 19


Risk cui membri sono eletti dai deputati dei singoli Stati e non a suffragio universale, l’Ua ha anche una sua Corte di Giustizia e un Consiglio per la Pace e la Sicurezza che dovrebbe risolvere i contrasti prima che degenerino in conflitti armati. Una specie di mix tra l’Onu e la Ue che, finora però, non ha dato i risultati sperati e che si dibatte negli stessi problemi della vecchia Oua. Nel febbraio scorso, proprio a conclusione dell’ultimo summit dell’Ua, Gheddafi ha detto che «il sistema democratico basato sul multipartitismo in Africa porta con sé una scia di sangue perché i partiti politici sono tribaliz-

ziati più delicati, compresi quelli con l’Italia e con gli Usa. A lungo Saif era stato ritenuto il successore designato, il più stimato degli otto figli, tra i quali ci sono anche un economista, un play-boy e un calciatore che ha giocato in Italia. Ma, dall’agosto scorso, il vento è cambiato. Prima c’è stato un passo indietro da parte dello stesso Saif che ha annunciato di non avere più ambizioni pubbliche. Era sembrata una mossa tattica: il desiderio di evitare il ruolo del figlio-delfino. Ma i segnali che indicano il contrario si stanno accumulando. Alla fine del 2008 Saif si era trasferito in Svizzera e si era parlato di una richiesta di asilo politico, poi smentita, tanto che da qualche mese è tornato in Libia dove, però, la sua televisione satellitare, Al Libiya, è stata presa di mira. Il 30 aprile scorso, a metà del programma in diretta An Qurb (che vuol dire da vicino), il segnale è stato oscurato e sugli schermi di chi stava seguendo la trasmissione è comparso il logo della rete governativa. La conduttrice Hala al Musrati è stata interrogata e il direttore, Abdessalam Mechri, è stato per un giorno agli arresti. Motivo dichiarato: un’inchiesta sulle attività di tortura e terrorismo all’estero dei Comitati Rivoluzionari (in pratica, il partito unico libico) e le accuse lanciate giorni prima dal giornalista egiziano dissidente Ahmed Qandil contro il presidente Hosni Mubarak che aveva protestato formalmente. L’iniziativa contro la tv di Saif rimette in discussione tutte le ipotesi - per quanto davvero premature - sulla successione di Muammar Gheddafi, che ha 67 anni e che, come sanno molto bene tutti quelli che lo conoscono personalmente, ama giocare su più tavoli. Un’ultima prova? La sua definizione dei pirati che sequestrano le navi, compresa l’italiana Bucaneer, nel Golfo di Aden che per il leader libico sarebbero dei «combattenti contro i nuovi colonialisti».

Quando Washington scatenò il raid aereo contro Tripoli e Bengasi, la Libia lanciò a sua volta due missili Scud verso Lampedusa. Un gesto dimostrativo. Anche perché è ormai accertato che fu l’Italia a salvare la vita al Colonnello zati» e ha proposto come modello il sistema libico dove i partiti di opposizione non sono ammessi. Le frasi di Gheddafi sono state contestate da diversi rappresentanti di Stati africani dove vige un sistema multipartitico democratico, come il Sud Africa, la Nigeria, il Ghana e il Senegal. Sono le due facce del regime di Gheddafi. Apertura internazionale, chiusura interna. Un episodio significativo è anche la sorte che sta toccando a suo figlio, Saif al Islam, che era considerato il suo delfino e ora è caduto in disgrazia. Saif, figlio maggiore della seconda, e preferita, moglie del colonnello, laurea in architettura in Austria, specializzazione a Londra, è il paladino dell’apertura. Ha lanciato battaglie per diritti umani e libertà d’espressione. Muammar Gheddafi gli aveva affidato il ruolo di capo informale della diplomazia nei nego20


dossier SICUREZZA ENERGETICA, MIGRATORIA E AMBIZIONI ECONOMICHE E COMMERCIALI

IL MONOPOLI NORDAFRICANO DI

è

ROBERTO CAJATI

sufficiente uno sguardo superficiale a una carta geografica per osservare quanto i Paesi della costa Sud del Mediterraneo siano importanti per il nostro Paese. L’interesse italiano per l’Africa del Nord si era peraltro già manifestato in maniera evidente sin dagli anni immediatamente successivi alla nostra unificazione nazionale, in piena epoca

imperialista, con le mire sulla Tunisia, delusedai Francesi nel 1881 e con la successiva conquista della Libia nel 1911. Meno conosciuti i nostri sforzi per valorizzare gli interessi nazionali soprattutto di natura economica, anch’essi in gran parte frustrati, in Marocco ed Egitto, sempre prima della Grande Guerra.In un mondo profondamente diverso, quello di oggi, quei Paesi continuano comunque a rappresentare per noi una priorità strategica ed economica. Innanzitutto la sicurezza energetica del nostro Paese dipende in maniera significativa da Libia ed Algeria. Gli ingenti esborsi finanziari necessari ad acquistare gas e petrolio sono fortunatamente compensati dalla capacità e dal dinamismo dei nostri imprenditori di ritagliarsi una posizione di tutto rispetto sui mercati dell’Africa settentrionale e che garantiscono al nostro export di figurare sempre ai primi posti. Più in generale l’Italia insieme all’Unione Europea, è interessata a promuovere e sostenere uno sviluppo economico equilibrato e assetti politici stabili in una regione, il Maghreb più l’Egitto, che conta più di 150 milioni di abitanti e che non è del tutto scevra da possibili minacce, dal radicalismo religioso al terrorismo, ai flussi migratori che risultano essere di difficile gestione. Per quanto riguarda la sicurezza energetica l’Italia è collegata ad Algeria e Libia da due arterie che garantiscono un costante flusso di gas pari al 43,2% delle

nostre importazioni totali. Le forniture nordafricane consentono all’Italia di diversificare le fonti, in quanto oggi il nostro Paese dipende per il 32,9% del suo fabbisogno estero dalla Russia. Il gasdotto Transmed, denominato “Enrico Mattei” collega l’Algeria alla Sicilia attraverso la Tunisia e trasporta quasi la totalità del gas algerino acquistato dall’Italia, primo acquirente, che è pari a circa il 30,5%, delle nostre importazioni. Attualmente sono in corso dei lavori di ampliamento nel tratto tunisino (Trans Tunisina Pipeline) che dovrebbe portare la capacità annuale del gasdotto da 27 a 33,5 miliardi di m3 entro il 2012. Nel novembre 2007 è stato firmato un accordo con la Sonatrach, la compagnia di Stato algerino nel settore energetico, con la partecipazione della regione Sardegna, Enel, Edison e altre imprese per la realizzazione di un secondo gasdotto, il Galsi, finanziato anche dall’Unione Europea con un contributo di 120 milioni di Euro e che attraverserà la Sardegna per poi collegarsi con la rete di distribuzione europea da Piombino. L’altra arteria per il trasporto di gas nordafricano verso il nostro Paese è il pipeline Greenstream l’elemento principale del Western Libyan Gas Project (Wlgp). Entrato in attività nel 2004 si estende per 370 miglia, unendo le strutture di Melitah, sulla costa libica (rifornite rispettivamente dai giacimenti di Wafa e 21


Risk aggiungeva un motivo in più per risolvere in modo definitivo le questioni pendenti con la Libia e consolidare la nostra posizione nella Grande Giamahirya. Al di là dell’importante ruolo che gioca l’Africa del Nord nell’ambito della nostra sicurezza energetica, anche l’interscambio commerciale conferma un crescente interesse del nostro Paese per questa area. In termini assoluti, il peso economico dell’import e dell’export sul totale dell’Italia, rispettivamente dell’8,4% e del 3,6% non sembra apparire particolarmente significativo. Tuttavia il giudizio cambia se si prende in considerazione la dimensione economica, vale a dire del Pil complessivo dei 5 stati considerati, Algeria, Marocco, Tunisia, Egitto e Libia, che è pari soltanto allo 0,8% del Pil mondiale. In termini relativi è dunque subito evidente che l’importanza dei rapporti economico commerciali con i nostri vicini del L’Eni detiene la prima posizione tra le com- Mediterraneo è senz’altro notevole. Inoltre si tratta di pagnie straniere petrolifere operanti nella Grande Paesi che sono lungi dall’avere realizzato i loro potenGiamahirya e sicuramente dopo l’accordo di ziali di sviluppo e che hanno tassi di crescita demograAmicizia, Partenariato e Cooperazione, firmato il 30 fica molto elevati. Non è un caso che negli ultimi tre agosto 2008, che prevede un risarcimento da parte ita- anni i trend del nostro export siano stati in una fase di liana alla ex-colonia di circa 5 miliardi di dollari in 25 netta ascesa. Rispetto al 2003, oggi le nostre esportaanni, ha consolidato la propria posizione. Questo zioni verso Algeria, Marocco, Libia ed Egitto sono accordo, criticato da molti per l’ingente impegno raddoppiate in termini di valore, mentre relativamenfinanziario può essere giustificato dal fatto che le rela- te più contenuta è stata la performance con la Tunisia zioni italo-libiche - soprattutto tra il 2003 ed il 2005 - con un incremento del 67%. In Libia siamo in testa hanno incontrato serie difficoltà. La preminenza italia- con una quota di mercato superiore al 21%, seguiti na a Tripoli ha corso il rischio di indebolirsi significa- dalla Germania (7,7%), Cina (7,2%), Tunisia (6,6%), tivamente proprio nel momento in cui il Colonnello Francia (6,2%) e Turchia (5,3%). Relativamente Gheddafi era riuscito a ricucire i rapporti con l’occi- meno forte è la nostra posizione in Egitto dove ci coldente. In particolare. nel corso delle aste per l’assegna- lochiamo al quarto posto con una quota di mercato del zione delle licenze di prospezione nel gennaio 2005, 5,4% dietro a Usa (11,34%), Cina (8,2%), Germania l’Eni è rimasta del tutto esclusa dalle assegnazioni. Se (6,4%), ma davanti all’Arabia Saudita (5%). In negli anni Ottanta e Novanta, nonostante l’irrisolto Marocco, dove le nostre esportazioni hanno visto un nodo coloniale, l’Italia poteva avvantaggiarsi dall’iso- balzo in avanti negli ultimi 2 anni, siamo riusciti a lamento internazionale di Tripoli, con il rientro di scalzare il terzo posto dell’Arabia Saudita, ma siamo americani, inglesi e francesi si è temuto un ridimen- ancora molto al di sotto dell’export francese e spagnosionamento delle relazioni speciali tra l’Italia e la lo, forte di consolidati legami storici con quel Paese. Libia, con conseguenze negative anche sotto il profilo L’export italiano ha avuto un’altra performance notedegli interessi economici del nostro Paese. Lo spau- vole nel I semestre 2008 in Algeria, con un incremenracchio degli sbarchi degli immigrati clandestini to addirittura dell’80%, che ha permesso al nostro di Bahr Essalam), con la Sicilia meridionale da dove partono diverse ramificazioni verso il continente europeo. Il progetto realizzato dalla Società energetica statale libica, la National Oil Corporation (Noc) e dall’ Eni-Saipem ha avuto un costo di 7 mld. di Euro. L’Eni è impegnata anche allo sviluppo di impianti per la liquefazione del gas per consentirne il trasporto via nave. Complessivamente la Libia copre il 12,7% delle nostre importazioni di questa risorsa energetica.Per ciò che concerne invece il petrolio, le importazioni italiane di greggio nordafricano sono pari al 33,5 % del totale in gran parte di provenienza libica, superiori al 27% del totale. Il restante proviene da Algeria, Egitto e residualmente dalla Tunisia. Dunque, Tripoli costituisce il primo fornitore di greggio al nostro Paese davanti a Russia Iran ed Arabia Saudita.

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dossier Paese di superare la Cina con una quota di mercato del 10%, tuttavia sempre alle spalle della Francia, che continua a essere il primo fornitore di beni e servizi. Infine, anche in Tunisia l’export italiano è secondo alla Francia anche se di poco. Ambedue i Paesi Francia e Italia - controllano più della metà dell’export verso la Tunisia, seguiti a distanza da Germania, Spagna e Belgio. Complessivamente i settori nei quali riusciamo ad imporci su questi mercati sono in buona sostanza quelli tipici del made in Italy, prodotti meccanici, elettrici, tessile di qualità, agro-alimentare e quelli legati all’indotto dei grandi lavori, impiantistica ed edilizia. Relativamente meno brillanti sono i risultati del nostro Paese per quanto riguarda gli investimenti diretti (Ide) se si esclude il settore energetico e le attività italiane in Tunisia. Ad esempio in Algeria l’Italia è al decimo posto ed in Marocco al tredicesimo. Dati che confermano la debolezza del nostro Paese come origine degli Ide in tutta l’area mediterranea (Paesi Meda), dove ci situiamo al quattordicesimo posto nei dati 2007 alle spalle anche di Grecia, Qatar, India, Spagna con circa 1,29 miliardi di euro. Molto al di sotto dei principali investitori come gli Emirati Arabi (13,55 mld), Francia (9,51 mld), Regno Unito, (5,42 mld), Stati Uniti (4,12 mld), Arabia Saudita (3,83 mld).

L’interesse italiano per la regione nordafricana non è soltanto di tipo strettamente economico-commerciale, ma comprende la questione della sicurezza sotto vari profili, dal terrorismo ai flussi migratori e deve muoversi insieme ai partner europei

mi anni. La Tunisia sembra essere un’eccezione sempre per quanto riguarda gli Ide italiani. In questo Paese ci collochiamo al terzo posto dopo il Regno Unito, gli Stati Uniti, superando la Francia. Qui gioca a nostro favore un’amministrazione locale relativamente efficiente che offre opportunità anche alle piccole imprese. Non mancano peraltro grandi investitori italiani come la Benetton che sta contribuendo molto alla crescita del settore tessile in Tunisia. È di tutta evidenza che, data la prossimità geografica, L’Italia sconta purtroppo la struttura del pro- l’interesse italiano per la regione nordafricana non è prio sistema economico basato sulle piccole e medie soltanto di tipo strettamente economico-commerciale, imprese, eccellenti esportatrici, ma in difficoltà quan- ma comprende la questione della sicurezza sotto vari do si tratta di muoversi sui grandi investimenti profili, dal terrorismo ai flussi migratori. Sviluppo all’estero. Qualche segno di miglioramento, anche sul economico e progresso graduale della democrazia fronte degli investimenti esteri nell’area sia Ide che di nella sua accezione più ampia costituiscono due eleportafoglio, si comincia tuttavia a sentire. Il sistema menti che possono contribuire alla stabilità politica bancario italiano sempre piuttosto reticente nel muo- della regione. Data l’ampiezza dei problemi e l’elevaversi all’estero, ha iniziato qualche operazione signifi- ta dilemmaticità delle strategie da attuare, il nostro cativa anche in Africa del Nord con l’acquisizione Paese deve necessariamente muoversi insieme ai pardella maggioranza della Bank of Alexandria in Egitto tner dell’Unione Europea, che peraltro sono ugualda parte dei San Paolo IMI Banca Intesa, in seguito mente interessati ad assicurare una maggiore sicurezalla privatizzazione della Banca egiziana. Molto attive za e quindi progressi più rapidi all’interno dei Paesi anche le imprese di costruzioni e del trasporto navale dell’Africa del Nord, nel campo della governance che si sono aggiudicate commesse notevoli negli ulti- economica, dello stato di diritto e più generale di uno 23


Risk sviluppo economico sostenibile ed equo. Lo scenario che si presenta oggi non è scevro di ombre. I Paesi del Maghreb e l’Egitto possono vantare complessivamente performance economiche di tutto rispetto, con una relativa stabilità del quadro macro-eonomico. Grazie anche alle pressioni di Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale e soprattutto dell’Unione Europea sono state attuate con ritmi diversi ed efficacia non sempre soddisfacente una serie di riforme strutturali, come parziali privatizzazioni, e conformità agli standard internazionali in vari settori. Vi è stata

Rispetto al 2003, oggi le nostre esportazioni verso Algeria, Marocco, Libia ed Egitto sono raddoppiate in termini di valore, mentre più contenuta è la performance con la Tunisia, con un incremento del 67 per cento

ra un’unione economica che favorisca un’auspicata integrazione economica di quei mercati. Tuttavia per le rivalità interne, i progressi concreti, anche limitatamente all’interscambio con i Paesi membri, sono stati fino ad ora molto scarsi. È tuttavia innegabile che anche in presenza di elevati incrementi del Pil nei Paesi dell’Afrca del Nord i benefici continuano ad essere il più delle volte distribuiti iniquamente. Non tutto il tessuto sociale partecipa alla crescita economica e gli elementi di autoritarismo nella gestione politica permangono spesso evidenti. Un forte dirigismo dello Stato che purtroppo si accompagna con inefficienze della burocrazia ed elevata corruzione, sono altri elementi che concorrono a creare disagio sociale. Questo è particolarmente chiaro per le nuove generazioni che si trovano spesso escluse da una gestione degli interessi economici di tipo oligarchico e dove i mercati che possano offrire buone opportunità a tutti sulla base del merito e dell’impegno individuale non funzionano a dovere. Ogni Paese dell’Africa del Nord ha ovviamente le sue caratteristiche peculiari ed è sempre difficile generalizzare.

Il Marocco, lo Stato con il reddito pro-capite più

basso, presenta ancora una situazione di accentuato dualismo. Basti pensare che il tasso di analfabetismo è del 47% e che soltanto il 18% delle case rurali dispone di acqua corrente. Negli ultimi anni sono inoltre una progressiva apertura dei mercati. Tutti i state attuate riforme economico sociali di un certo Paesi considerati ad esclusione della Libia sono legati rilievo dietro l’impulso di Banca Mondiale e Unione all’Ue da accordi di associazione. Marocco, Tunisia Europea. Gli investimenti esteri sono aumentati consied Egitto sono parte dell’accordo di Agadir che istitui- derevolmente, soprattutto nel settore turistico ed sce una zona di libero scambio tra i tre Paesi più la immobiliare. L’aeroporto di Casablanca è divenuto un Giordania e che favorisce anche l’interscambio con importante hub internazionale e Air Maroc (Ram) è l’Ue. Altro schema multilaterale finalizzato alla pro- considerata una delle migliori compagnie aeree africamozione degli scambi è il Greater Arab Free Trade ne. Infine è in corso di realizzazione quello che sarà il Area (Gafta) con 17 membri tra i quali tutti i Paesi più grande porto del Mediterraneo e decimo a livello dell’Africa del Nord Algeria esclusa. mondiale, il Tanger Med II con una capacità di 5 Gi altri Stati dell’Africa del Nord ad esclusione milioni di container. Tuttavia, forti sperequazioni dei dell’Egitto sono membri dell’Uma (Unione del redditi, una burocrazia poco trasparente, un sistema Maghreb Arabo), che in teoria potrebbe essere la base giudiziario ancora poco affidabile e un mercato del per creare un’area di libero scambio se non addirittu- lavoro molto rigido, impediscono un vero decollo eco24


dossier nomico al Regno Alauita. La bilancia commerciale continua a registrare forti deficit, solo parzialmente compensati dalle rimesse degli emigranti, anche perché dipende per il suo fabbisogno energetico dalle importazioni di petrolio. Con il 19% della popolazione che vive al di sotto della soglia nazionale di povertà il Marocco risulta essere l’ultimo in graduatoria tra i Paesi dell’Africa del Nord nell’indice di sviluppo umano del Undp e 126esimo a livello mondiale. L’Algeria, nonostante le immense risorse energetiche e l’incremento dei prezzi di queste, non sembra riuscire a capitalizzare i flussi finanziari dell’export di gas e greggio, che rappresentano il 97,8% delle entrate valutarie. Gli incrementi del Pil solo relativamente modesti e le tensioni sociali derivanti da un deterioramento del potere d’acquisto delle classi più povere sono evidenti. Secondo i principali organismi internazionali e vari osservatori, giocano a sfavore del Paese le scarse competenze amministrative, una governance che è la peggiore del Maghreb, e che determina di fatto uno sperpero delle risorse. L’Algeria, secondo il Fondo Monetario internazionale, per garantire un aumento stabile del potere d’acquisto e dell’occupazione dovrebbe avere tassi di crescita del Pil del 7%, obiettivo che sembra molto lontano dall’essere raggiunto.

La Libia, Paese che unisce il vantaggio della

ricchezza in termini di risorse energetiche pari al95% delle entrate valutarie a quello di una scarsa popolazione, è un caso a se stante. Il regime del Colonnello Gheddafi è riuscito a dare stabilità politica alla nazione, giocando su più piani in maniera molto abile. Gli elementi di questa sono essenzialmente tre: una distribuzione delle risorse con forti sussidi sociali, una politica repressiva e di forte controllo sociale e una buona capacità di interpretare gli umori e le istanze ideologiche della popolazione. La Libia ha quindi condizioni di sviluppo sociale di testa tra i Paesi dell’Africa del Nord con un 56 esimo posto a livello mondiale secondo l’indice di sviluppo umano dell’Undp. Se si guarda all’efficienza del sistema economico della Grande Giamahirya, il discorso cambia 25



dossier del tutto. Più dell’80% della forza lavoro è impiegata l’elevata crescita della popolazione (secondo recenti nel settore pubblico. La manodopera non qualificata stime del 2009 gli abitanti hanno superato gli 80 attiva è costituita in gran parte da immigrati prove- milioni) e un sistema istituzionale ancora inefficiente, nienti dalle aree più povere dell’Asia e dell’Africa. Il che avrebbe bisogno di ulteriori e più coraggiose riforfattore lavoro tecnicamente qualificato è scarso e la me, impediscono che i progressi fino ad ora raggiunti burocrazia pletorica e poco affidabile. Secondo un si traducano in un miglioramento degli standard di recente studio, su 318 progetti esteri autorizzati tra il vita della maggioranza della popolazione. L’Ue, con2003 ed il 2006 dall’ente libico degli investimenti, sol- sapevole dell’importanza strategica dell’area, fin daltanto 150 sono arrivati alla fase della firma di impegno l’inizio degli anni Novanta ha intrapreso una complese soltanto tre sono stati effettivamente realizzati. sa azione di sostegno dei sistemi Paese della regione Grazie all’incremento del prezzo del greggio degli mediterranea, attraverso la promozione di ampie riforultimi anni i programmi di sviluppo nazionale preve- me economiche e politico sociali. Gli strumenti dono una grande quantità di lavori pubblici e infra- dell’Ue, oltre ai citati accordi di associazione, sono strutturali. Il Fondo Monetario ha tuttavia espresso stati le Mésures d’accompagnement financières et preoccupazione per una tendenza del governo di techniques (Meda), oggi sostituti dall’ European Tripoli a promuovere progetti a pioggia senza alcuna Neighbourhood and Partnership Instrument (Enpi) che hanno devoluto consistenti finanziamenti anche ai valutazione di costi e benefici. La Tunisia rappresenta al contrario una success story. Paesi dell’Africa del Nord (esclusa la Libia che perNegli ultimi 10 anni ha avuto una media annuale di mane fuori dallo schema). incremento del Pil del 5%. Grazie ad un’ottima capa- I flussi finanziari sono stati destinati innanzitutto allo cità di attrazione degli investimenti esteri, con uno lo sviluppo economico, infrastrutturale, istituzionale e sportello unico per le imprese che funziona ottima- al sostegno delle piccole e medie imprese; secondariamente, negli ultimi 10 anni è stata destinataria di capi- mente ci si è concentrati sulla promozione della tali esteri superiori a quelli diretti verso il Marocco e governance e delle capacità amministrative; più limiquasi pari a quelli diretti verso l’Egitto, Paese di taglia tate e prudenti sono state le politiche di sostegno allo decisamente superiore in termini geografici. L’indice sviluppo delle istituzioni democratiche e del rispetto di competitività del World Economic Forum colloca dei diritti umani. L’idea base dell’Ue è, infatti, quella la Tunisia al 36esimo posto posizione superiore a di innescare un processo graduale di modernizzazioquella italiana. L’economia tunisina è così riuscita a ne, senza mettere in difficoltà eccessiva le autocrazie sviluppare un fiorente settore turistico e manifatturie- al potere, come premessa per futuri sviluppi sul verro nel tessile e da poco tempo anche meccanico e dei sante politico. materiali elettici. Gli unici due nei del panorama di Tale indirizzo graduale ha suscitato ampie critiche da questo paese sono un regime autoritario e una distri- parte di molti osservatori, posizione in parte condivibuzione del reddito non ottimale che nel medio-lungo sa dagli Stati membri dell’Ue del Nord Europa, che periodo potrebbero alimentare insoddisfazioni e insta- sostengono una più incisiva politica a favore delle bilità. Infine anche l’Egitto sembra dimostrare di aver riforme democratiche, del rafforzamento della società imboccato la strada giusta, con tassi di sviluppo del civile e del rispetto dei diritti umani. Non è casuale che 6,8% nel 2006 e 7,1% nel 2007. Questo Paese ha al contrario i Paesi membri dell’Ue del Mediterraneo, saputo diversificare la propria economia avvalendosi in particolare Francia, Spagna ed Italia preferiscano anche di consistenti riserve di gas naturale e petrolio. mantenere buoni rapporti con le oligarchie in Africa Oltre ad una buona produzione agricola, esporta pro- del Nord ed evitare di innescare azioni destabilizzandotti siderurgici, chimici e abbigliamento. Tuttavia ti, essendo più esposti ad eventuali crisi nell’area. 27


Risk LA NOSTRA DIPLOMAZIA NAVALE HA FORTI LEGAMI CON MAGHREB ED EGITTO

TUTTO FUORCHÉ PROMESSE DA MARINAIO DI

A

ANDREA NATIVI

pparentemente tutto va splendidamente sull’altro lato del Mediterraneo, ma sì, dimentichiamo per un momento la questione israeliana e i suoi rapporti con Siria e Libano, guardiamo più a ovest. L’Egitto è in ottimi rapporti con l’Occidente e in particolare con gli Usa, la Libia è uscita trionfalmente “dall’asse del Male” e ora è un partner politico

ed economico ambito, al punto che gli si lascia acquistare ciò che desidera, comprese quote fin troppo rilevanti di pezzi cruciali delle poche società italiane che hanno una rilevanza strategica. E poi c’è una Tunisia che non crea problemi e ha una economia dinamica mentre l’Algeria è un valido alleato nella lotta al terrorismo (cominciando dal suo, naturalmente) e il Marocco condivide pienamente l’opportunità di mantenere rapporti cordiali con il mondo occidentale e l’Europa, ma ancor di più con gli Usa e a sua volta affronta fenomeni terroristici con decisione. Però questo quadretto idilliaco, anche solo a voler approfondire un poco, si dimostra in realtà molto meno reale e consolidato di quanto possa apparire. Cominciamo dall’Egitto, che di fatto è sottoposto a un regime dittatoriale, che per ora regge, grazie al pugno di ferro imposto sul Paese da Hosni Mubarak fin dal 1981, con tanto di stato di emergenza istituzionalizzato. Un Mubarak che però è tutt’altro che immortale. Nessuno può predire cosa accadrà dell’Egitto dopo la fine del regno di Mubarak, il quale naturalmente cerca di fare il possibile affinché ciò avvenga per via dinastica, con Gamal delfino designato. Ma le variabili in gioco sono innumerevoli e sotto l’apparente tranquillità il Paese scricchiola, mentre i movimenti più o meno estremisti continuano a guadagnare terreno anche per via di una crescita demografica che presto porterà alla 28

ribalta una generazione relativamente facile preda del precetto islamico, non moderato dal pragmatismo laicista della vecchia generazione. Una situazione analoga la troviamo anche in Libia. Anche in questo caso c’è un dittatore, Gheddafi, che spera di riuscire a perpetrare se stesso attraverso la sua genia, con Sayf al Islam, e che almeno può contare sui proventi delle risorse naturali per evitare che certi fermenti siano alimentati da condizioni di vita ed economiche troppo difficili. Il relativo benessere è un antidoto che può rallentare, ma non fermare certi processi. Lo hanno sperimentato le monarchie del petrolio del Golfo. In Libia il vecchio sistema di potere basato sul potere tribale e degli anziani sta andando in frantumi, i giovani non vi si riconoscono più. E qualche fenomeno di insurrezione armata è già presente, anche se ha più che altro connotazioni tribali/etniche. Peraltro l’Egitto ha una “pericolosità” maggiore perché dotato di uno strumento militare poderoso, costruito grazie all’aiuto ed ai sistemi d’arma statunitensi che hanno sostituito le reliquie dell’era filosovietica. Per certi versi l’Egitto presenta preoccupanti similitudini con l’Iran dello Scià poco prima del collasso e della rivoluzione khomeinista. La Libia, almeno per il momento, ha un apparato militare e di sicurezza a pezzi, da ricostruire ex novo dopo lustri di embargo internazionale. E quindi non rappresenta una preoccu-


dossier pazione militare diretta. L’Egitto si. Un Egitto riarmato dagli Usa e dall’Occidente è molto più temibile per Israele di una Siria la quale, a dispetto degli ultimi acquisti in Russia, non ha potuto rinnovare dopo la fine della Guerra Fredda il proprio arsenale, nonostante l’aiuto super condizionato che gli arriva da Teheran e non solo. E questo a Tel Aviv lo sanno bene. Quanto all’Algeria, i generali non sono riusciti a stroncare la guerriglia islamica. Il Paese è uno stato di polizia, ma ciò malgrado germogliano rigogliosi i semi piantati da al Qaeda o per meglio dire dall’estremismo islamico armato salafita rinominato. Specie in Cabila, ma non solo. E anche il riconoscimento dei diritti della minoranza berbera è più formale che sostanziale. Senza dimenticare che i rapporti di buon vicinato con il Marocco sono più apparenti che reali e ogni mossa di potenziamento o ammodernamento militare che viene deciso ad Algeri o a Rabat trova immediata risposta nello storico rivale. Per qualche aspetto ci sono punti di contatto con la situazione di India e Pakistan, con entrambi che vogliono armamenti occidentali e badano bene che ciò che acquista uno sia negato all’altro. Il Marocco poi ha sempre la questione pendente del futuro del Sahara Occidentale, con il rischio concreto che la guerriglia possa tornare a divampare se la comunità internazionale non affronterà la questione della “autodeterminazione” sarahui. Nella consapevolezza che anche qui al Qaida sta cercando di trovare proseliti.

I problemi di sicurezza interna, sono comuni a tutti i Paesi, ovviamente con gradazioni e connotazioni diverse, esacerbati dai problemi di immigrazione clandestina, molto difficile impedire o anche solo controllare. E non è affatto detto che le ondate di derelitti che inseguono un sogno o uno speranza puntando a nord, magari auspicando all’Europa, considerino i Paesi che si affacciano sul mediterraneo solo come una porta di accesso e non come una destinazione finale, comunque preferibile alla situazione dei propri Paesi di origine. Questi migranti sono molto più destabilizzanti, a livello sociale, economico e politico, per i Paesi del

sud mediterraneo che per l’Europa. Europa che non dovrebbe considerarsi soddisfatta se mai riuscisse a bloccare gli immigranti clandestini nei Paesi Nordafricani mediterranei. Ed infatti molti sforzi vengono profusi per convincere i Paesi in questione a dedicare maggiori risorse al controllo dei propri confini e del proprio territorio, oltre che a cercare di bloccare il transito e il business della immigrazione illegale vero l’Europa. Il che è difficile sia perché tali Paesi non hanno un monitoraggio del fenomeno. E se anche lo hanno e sono consci dei pericoli che può portare, d’altro canto sanno che l’immigrazione è un”arma” impropria…davvero asimmetrica, uno strumento di pressione politica ed economica che se bene utilizzato nei confronti degli europei può portare grandi vantaggi. L’Italia sa perfettamente come funziona “il gioco”, condotto principalmente dalla Libia, ma anche dalla Tunisia. Sì, l’Europa parla con i Paesi sud mediterranei, ma naturalmente più che l’Europa si muovono i singoli governi europei, indipendentemente gli uni dagli altri, anzi, il più delle volte in competizione tra loro (Francia e Italia ad esempio, ma anche Germania) per conquistare un posto al sole, uno sbocco per il proprio export, un accesso alle risorse naturali ed in particolare agli idrocarburi (ma non solo). E non è che gli Usa stiano a guardare, non lo hanno mai fatto e soprattutto oggi che considerano l’Africa, tutta, come un continente importante, che non si può trascurare, magari aspettando che l’Aids lo…spopoli o che vada comunque in rovina, come sta avvenendo in tanti stati falliti, la cui lista continua ad allungarsi. Senza contare che il ritiro di Gran Bretagna e soprattutto della Francia lascia spazi immensi non solo alla Cina. Tuttavia non è detto che gli interlocutori dell’Occidente restino in sella nel medio o lungo periodo, mentre, in assenza di sistemi di democrazia “occidentali” non si può neanche giocare (non apertamente almeno) con le “opposizioni” o con le altre componenti della “società”, anche nei Paesi apparentemente più moderni ed aperti. Ci si rende anche conto che se si applica troppa pressione sulle attuali classi dirigenti si rischia di compromettere equilibri già abbastanza instabili, accelerando processi 29


Risk disgregativi. Dopo quello che è accaduto in Iraq nessuno, neanche a Washington, ha alcuna intenzione di propugnare ed esportare la democrazia dove sarebbe pericoloso farlo o dove comunque non funzionerebbe.In ogni caso i rapporti Nord-Sud al momento sono globalmente positivi e l’Italia in particolare ha sviluppato con successo una “diplomazia navale” che ha portato a stabilire e intrattenere relazioni via via più intense e cordiali con le Marine dei Paesi africani mediterranei, con le quali ci sono scambi, anche di informazioni, un certo coordinamento e collaborazione anti-terrorismo e anti immigrazione, esercitazioni congiunte, tutte attività che hanno anche portato ad un allentamento delle tensioni per quanto riguarda lo sfruttamento delle risorse ittiche nelle zone rivendicate sotto controllo esclusivo dai Paesi rivieraschi. Un complesso di relazioni che l’Italia dovrebbe sfruttare molto di più, capitalizzando quello che la Marina ha creato in questi ultimi anni. La Libia è un Paese immenso 1,7 milioni di chilometri quadrati, con 1.800 km di coste, con una popolazione relativamente ridotta, appena 6,3 milioni di abitanti, e in larga misura giovanissima. La spesa per la difesa non è stata molto significativa per lustri, anche perché, a causa dell’embargo Onu, non c’era praticamente nessun Paese disposto a vendere armamenti, ma anche solo ricambi o attrezzature ed equipaggiamenti a Tripoli. Che comunque qualcosa riusciva a procurarsela sul mercato nero. Ora, persino nei tempi “migliori” l’apparato militare libico non era certo celebre per la sua efficienza. Quando ancora poteva, il Colonnello comprava di tutto e di più un po’ ovunque, anche perché i contratti dipendevano da esigenze politiche e dovevano soddisfare gli interessi dei vari esponenti della nomenklatura locale. Il risultato di questo shopping un po’ folle fu un affastellamento di mezzi e materiali che poi non si riusciva a far funzionare, né tantomeno a supportare. Quando poi è arrivato l’embargo c’è stato un vero crollo verticale: mezzi, aerei, navi specie quelli più sofisticati, sono presto rimasti immobilizzati, letteralmente ad arrugginire, mentre solo con sforzi immensi si riusciva a far funzionare 30

qualcosa ed era impossibile effettuare anche l’addestramento elementare. Di fatto ora che la Libia è stata riabilitata, ha consegnato le Wmd in suo possesso e relativi vettori e ha smantellato i programmi clandestini si è trovata da dover ricostruire praticamente da zero forze armate e in parte anche le stesse forze di sicurezza. Ovviamente un primo sforzo è stato diretto a cercare di recuperare, rimettere in condizioni di funzionare e se del caso aggiornare una parte almeno del vecchio dispositivo militare.

E qualcosa si sta facendo, anche se chi mette le

mani in arsenali e depositi spesso trova quantità incredibili di materiale…marcito ancora nelle casse e negli imballaggi originali. In ogni modo anche ciò che può essere salvato è del tutto obsoleto, in particolare per quanto riguarda gli elementi elettronici. Gli interventi di “salvataggio”, per quanto costosi, sono volti a ricostituire una capacità iniziale in tempi rapidi, in attesa che il Colonnello decida cosa fare della sua immensa lista della spesa. Peraltro va osservato che la Libia non ha particolari contenziosi in atto con i vicini o minacce esterne da affrontare, i veri problemi riguardano per ora sicurezza interna e controllo immigrazione. Tradizionalmente l’Italia è stato un fornitore privilegiato della Libia. Abbiamo venduto di tutto e di più in tutti i settori: semoventi d’artiglieria, carri armati, blindati, elicotteri, aerei da trasporto, aerei da addestramento e controguerriglia, missili, unità navali d’attacco, armi leggere. Il fatto che l’Italia abbia fedelmente applicato le sanzioni Onu è costato moltissimo all’economia nazionale, che tanto esportava in Libia e che beneficiava di un interscambio significativo per quantità e qualità ed ha anche privato l’industria aerospaziale e della difesa di uno dei suoi mercati più importanti. Ora che si potrebbe… ritornare ai fasti del passato, l’Italia da un lato sconta una certa incapacità di muoversi a livello “sistemico”, a tutto campo, ed aggressivamente, dall’altro ha una certa pruderie per quanto riguarda l’export di armamenti. Ed infatti si è deciso di cominciare con la vendita alla Libia di tecnologie,


dossier sistemi ed equipaggiamenti relativi alla sicurezza interna, al controllo dei confini, delle coste. Non solo, in larga misura l’Italia che deve cedere quasi gratis sistemi ed apparati, visto che è tutto nostro l’interesse a frenare l’immigrazione clandestina. Dopo l’accordo definitivo che risolve definitivamente ed a caro prezzo il vecchio contenzioso (danni di guerra per l’occupazione della II Guerra Mondiale: anche in questo l’Italia di distingue, perché a nessuna delle potenze che hanno davvero avuto un impero coloniale è mai venuto in mente di risarcire alcunché a qualcuno…ma noi italiani siamo così buoni!), ora si spera che le cose possano cambiare. Tuttavia va notato che la Libia questa volta non chiede solo hardware, ma anche tecnologie, nei limiti in cui è in grado di padroneggiarle e comunque vuole investimenti locali e la disponibilità a creare joint venture e attività industriali con contenuto crescente. E tutto ciò naturalmente diversificando fornitori e referenti. Sempre con le stesse strategie negoziali di tira e molla. Ciò malgrado, la Russia, altro tradizionale fornitore della vecchia Libia, si è fatta sotto aggressivamente e nel 2007 ha annunciato un colossale pacchetto di vendita di armamenti del valore di 2,2 miliardi di dollari e comprendente 24 moderni cacciabombardieri, due sottomarini, un buon numero di batterie antiaeree e assistenza per riparare i materiali sovietici in servizio. Però non si è arrivati all’esecuzione del contratto. A fine 2007 è stata la volta del presidente francese Sarkozy, che dopo aver constatato che l’andamento dell’export militare transalpino stava subendo una stagnazione, con la perdita di mercati e commesse, ha assunto direttamente il ruolo di “venditore” e agendo a tutto campo, mobilitando le risorse nazionali e muovendosi aggressivamente e con spregiudicatezza sta mettendo a segno un colpo dopo l’altro. In Libia in particolare il successo, sul versante militare, sarebbe clamoroso: una fornitura del valore di 3-4 miliardi di euro che comprenderebbe una dozzina di caccia Rafale, elicotteri Tiger da attacco, elicotteri da ricognizione e trasporto, semoventi d’artiglieria, missili controcarro, un nuovo sistema di comunicazione, due corvette, l’aggiornamento di vec-

chie motovedette missilistiche. Però ancora non è chiaro se si sia arrivati alla firma di contratti operativi…nella migliore tradizione libica.

Lo spazio per una analoga operazione da parte italiana c’è tutto, considerando che Gheddafi ha sostenuto che alle imprese italiane verrà accordata priorità nella assegnazione dei contratti, ma con tutta probabilità la stessa cosa fu promessa a Sarkozy e a Putin. Occorre quindi darsi da fare e neutralizzare le manovre dei concorrenti. Del resto viste le esigenze della Libia, le opportunità per dare qualcosa a tutti i pretendenti non mancano. Sulla carta infatti la Libia spende per la difesa circa il 3,5% del Pil, oltre 2,5 miliardi di dollari, il tutto per sostenere Forze Armate ridotte, non più di 50mila effettivi, anche se in teoria gli organici dovrebbero comprendere 70mila uomini, in larga misura giovani di leva che in base ad un sistema di coscrizione obbligatoria selettiva servono in armi per 24-48 mesi. Vi sono poi forse di sicurezza interna e di milizia la cui consistenza arriva a 40mila uomini. L’Esercito, con 35mila uomini dovrebbe avere 450 carri armati di produzione russa, forse un migliaio di mezzi trasporto truppa, 350 mezzi blindati da ricognizione, 700 tra

L’Europa parla con i Paesi sud mediterranei, ma a più voci. Si muovono i singoli governi europei, indipendentemente gli uni dagli altri, il più delle volte in competizione tra loro per conquistare un posto al sole, uno sbocco per il proprio export, un accesso alle risorse naturali 31



dossier però ammonta a poco più di 1,1 miliardi di dollari. E se è vero che gli stipendi sono una voce di spesa poco rilevante, è anche vero che con i soldi disponibili si compra poco. Di fatto le Forze Armate Egiziane dipendono dalla benevolenza statunitense, che si sostanzia in due modi: da un lato ci sono gli aiuti diretti, il cui ammontare è superiore agli 1,3 miliardi di dollari e che sono determinati annualmente, ma senza mai superare la soglia dei 2/3 degli aiuti concessi ad Israele, dall’altro ci sono le cessioni di materiale militare dichiarato surplus dal Pentagono, attraverso il programma Eda (Excess Defence Article). Date queste premesse è naturale che la macchina militare egiziana sia modellata su una impostazione statunitense, anche per quanto riguarda dottrine operative ed addestramento, mentre è evidente che in caso di guai, chiudendo il rubinetto della assistenza logistica basterebbero pochi anni per rendere inutilizzabile un arsenale di prima grandezza, a livello regionale, ma anche assoluto. Il punto è che questa “finestra” è dannatamente ampia.Va notato che l’Egitto ha anche una capacità industriale militare relativamente significativa, che gli consente una certa autonomia e indipendenza, almeno per quanto riguarda il funzionamento “ordinario”. In qualche caso l’indipendenza arriva ad un assemblaggio su licenza. Certo questo non è sufficiente a consentire un’autarchia e non è paragonabile alla capacità che L’Egitto è il vero colosso tra i Paesi mediterra- l’Iran, costretto alla quasi autarchia, è riuscito a svilupnei africani e con una notevole proiezione anche verso pare, ma nell’arco di lustri. sud. Colosso perché ha una popolazione di oltre 76 Come è naturale in tutti i Paesi della regione, la parte milioni di abitanti, la cui crescita, anche se controllata, del leone spetta sempre alle forze terrestri, anche se in crea crescenti problemi all’economia. Le Forze realtà l’Egitto ha una buona Aeronautica, con la sola Armate sono basate su una coscrizione obbligatoria Marina che si deve accontentare del ruolo di cenerenselettiva, la cui durata arriva a ben 36 mesi. Quindi il tola, a dispetto dei quasi 2.500 km di coste da controlcore delle Forze Armate è costituito da una massa di lare e difendere.. L’Esercito dunque conta ben 300mila coscritti, circa 250mila su un totale di 350mila uomini uomini, con 4 divisioni corazzate, 7 meccanizzate, 1 di alla armi. Nel contesto egiziano è molto importante fanteria e poi quattro brigate meccanizzate (2 della l’apparato di sicurezza interna, che infatti può contare Guardia), 3 di fanteria, 3 aviotrasportabili/parà Molto su circa 300mila uomini, tra Guardia Nazionale (che curate sono anche le Forze Speciali, con 9 gruppi comdipende dalla Difesa) forze di sicurezza del ministero mando. L’eredità “sovietica” la si può trovare nella degli Interni, Guardia Costiera e Corpo di Frontiera. Il presenza di 14 brigate di artiglieria, che vengono gestibilancio della difesa rappresenta circa il 3,4% del Pil, te dagli alti comandi. L’artiglieria è un’arma sempre semoventi e pezzi d’artiglieria, sistemi missilistici antiaerei russi SA-6 SA-9 SA-13 e francesi Crotale, una dozzina di elicotteri leggeri, ma questa è sola teoria, perché numeri effettivi ed efficienza sono minimi. Basti pensare che gli elicotteri da trasporto pesante CH-47C di produzione italiana sono stati ceduti agli Emirati Arabi Uniti e AgustaWestland gli ricostruisce e ammoderna prima di riconsegnarli al nuovo utilizzatore. La Marina, con 8mila uomini, ha forse tre unità a livello corvetta in grado di navigare, sicuramente non di combattere, e poi solo un piccolo numero di unità leggere lanciamissili realmente operative. La operatività dell’Aerronautica, che avrebbe 18mila uomini (in effetti molto meno) è ugualmente limitatissima, con ben pochi dei caccia MiG e Mirage, dei cacciabombardieri Sukhoi, degli elicotteri da combattimento Mi24/35 in grado di volare. Forse è proprio il settore aereo quello più disastrato, mentre leggermente migliore è la situazione della difesa contraerea, anche questa però equipaggiata con sistemi missilistici russi vecchi e inefficienti. La Francia sta rimettendo in condizioni di volare una dozzina di caccia Mirage F-1, l’Italia sta fornendo elicotteri A-109 per sorveglianza dei confini e sta rimettendo in linea una dozzina di addestratori SF-260, mentre è stato acquistato un Atr42 per il pattugliamento marittimo.

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Risk privilegiata nel pensiero militare russo. Non mancano poi due brigate missili balistici, dotate di Scud. Naturalmente gli Usa non ci tengono molto a ricordare questa capacità, né i vari tentativi compiuti dall’Egitto per sviluppare e produrre missili con caratteristiche e gittata superiori. Quanto ai mezzi, la flotta carri da combattimento è costituita da oltre 1.500 M60A1/A3, nonché da un numero crescente di potenti M1 Abrams, che ormai sta per superare le mille unità. Ci sono poi ancora quantità ingenti di vecchi carri sovietici in riserva. Si consideri che l’Esercito italiano non avrà più di 200 carri armati.

Situazione analoga per quanto riguarda i mezzi

trasporto truppa, con oltre 2.300 M-113 e un migliaio di YPR-765, oppure nel campo dei veicoli da ricognizione. Il parco artiglierie invece affianca a materiale americano, con oltre 700 semoventi da 155 mm M109, a più di un migliaio di cannoni e obici russi e 400 mortai pesanti, anche grazie alla maggiore longevità delle artiglierie. Anche i lanciarazzi multipli sono in larga misura di produzione russa, ma non mancano 36 potenti Mlrs statunitensi. Una situazione analoga di coabitazione si riscontra anche nel campo della difesa contraerei, con un misto di sistemi russi e americani, con questi ultimi che comunque, gradualmente, rimpiazzano i precedenti. L’Aeronautica conta su 25mila uomini, mentre altri 80mila sono inquadrati nella difesa contraerei che, anche in questo caso secondo il vecchio modello russo, è quasi un’arma indipendente. L’Aeronautica ha il suo fulcro in oltre 200 cacciabombardieri statunitensi F-16, in varie versioni, ai quali si aggiungono una sessantina di caccia francesi Mirage, di due diverse generazioni nonché un numero decrescente di caccia russi MiG-21 e relative controparti cinesi. Per l’addestramento ci sono Alpha Jet francesi, Tucano brasiliani L-59 cechi, e un numero crescente di addestratori a getto K-8 cinesi, che diventeranno 120, assemblati localmente. Anche nel campo del trasporto le macchine principali sono una ventina di C-130 statunitensi, così come americane sono le aviocisterne e i velivoli da sorveglianza

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radar. Quanto ad elicotteri l’Aeronautica ha la sua punta di lancia in 35 velivoli da combattimento statunitensi Apache, integrati da una quarantina di Gazelle europei, ci sono poi elicotteri da trasporto americani Chinook, inglesi Commando e una discreta massa di elicotteri russi, davvero anziani, ma che svolgono ancora un ruolo prezioso. Come detto la difesa aerea è una componente privilegiata e molto consistente, che schiera oltre un centinaio di battaglioni, per lo più ancora equipaggiati con i missili russi delle serie SA-2, SA-3 ed SA-6, ai quali si aggiungono gli I-Hawk americani e, per la difesa di punto, i Chapparal americani e i Crotale francesi. A questi si aggiungono circa 2mila pezzi d’artiglieria con calibro compreso tra i 20 e gli 85 mm. Ovviamente questo settore avrebbe bisogno di un ammodernamento di vasta portata, ma sarebbe enormemente costoso, a meno di non accettare una drastica riduzione nel numero di reparti e sistemi schierati e poi…Israele non ha alcun desiderio di vedere spuntare in Egitto batterie missilistiche contraeree americane troppo moderne ed avanzate. Infine la Marina ha 16mila uomini, con a componente alturiera costituita da 6 fregate cedute di seconda mano dalla Us Navy, alle quali aggiungono 2 fregate leggere ex spagnole e 2 unità cinesi di scarso valore. Scarso è il significato dei 4 sottomarini cinesi, obsoleti e che per ora non si è riusciti a sostituire (anche qui, Israele non gradisce). Piuttosto consistente il settore delle vedette lanciamissili, tra le quali spiccano 5 unità ex tedesche. La componente anfibia è limitata a vecchie unità ex polacche o di produzione russa, la forza contromisure mine ha le sue unità più moderne in due cacciamine ceduti di seconda mano dagli Usa. Insomma, la Marina avrebbe davvero bisogno di maggiori attenzioni, ma le priorità di spesa sono diverse. Peraltro recentemente sono state ordinate negli Usa 3 corvette lanciamissili.

L’Algeria è sempre in mano a un altro geron-

to-Rais, Abdul-Aziz Bouteflika, che non a caso combina gli incarichi di capo di stato e ministro della Difesa e che è stato riconfermato al potere nelle elezioni di aprile. Anche l’Algeria combina una vastissima super-


dossier fice, 2,3 milioni di chilometri quadrati, in larga misura inabitata e desertica, a una popolazione relativamente consistente, oltre 34 milioni di abitanti. Il bilancio della difesa supera 2,5 miliardi di dollari l’anno, che consentono di soddisfare relativamente bene le esigenze di una strumento di sicurezza che conta su 120mila uomini nelle Forze Armate e 24mila uomini nella Gendarmeria (che ha anche reparti blindati, elicotteri ed armi pesanti). La coscrizione è obbligatoria e dura 18 mesi, ma solo per l’Esercito, perché Marina ed Aeronautica sono già stati professionalizzati e peraltro lo stesso Esercito, che conta 100mila uomini, ha una percentuale piuttosto elevata di volontari e professionisti , circa il 38%. L’Esercito è ovviamente la Forza Armata più importante e può schierare 2 divisioni corazzate, 2 divisioni meccanizzate, una divisione parà, 1 brigata corazzata indipendente e 4-5 brigate di fanteria motorizzata indipendenti, nonché due battaglioni ranger. Per molti anni l’Algeria si è approvvigionata di armamenti in Russia, anche se ultimamente ha ampliato il novero dei suoi fornitori guardando all’Europa e non solo al tradizionale partner, la Francia. L’Italia ad esempio ha venduto elicotteri, è stata selezionata per fornire un sistema integrato di sorveglianza, comando e controllo per la sicurezza interna e ha buone chance di aggiudicarsi anche commesse per unità navali. Inutile dire che questi successi di Roma sono stati considerati come un vero smacco a Parigi, se non come un tradimento da parte dell’ex colonia. Per quanto concerne l’Esercito, il parco carri da combattimento è quasi esclusivamente russo, con la punta di lancia costituita da oltre 100 moderni T-90, ai quali se ne aggiungeranno almeno altri 200, dei quali 120 saranno assemblati localmente. Già questo elemento chiarisce quanto sia importante l’Algeria per la Russia, visto che anche il solo assemblaggio locale di carri moderni non è concesso facilmente, mentre conferma che le capacità industriali locali sono tutt’altro che inesistenti. I T-90 prendono il posto dei vecchi T-54/55 e poi anche dei T-62, mentre rimangono in servizio i più moderni T-72. Anche i veicoli da ricognizione sono in

larga misura di produzione russa. Stesso discorso per i veicoli da combattimento della fanteria, con 230 BMP2 che vengono aggiornati allo standard 2M. A questi si affiancano quasi 700 BMP-1 e 450 ruotati BTR-50/60. L’artiglieria, semovente e a traino meccanico, ma

Il fatto che l’Italia abbia fedelmente applicato le sanzioni Onu è costato moltissimo all’economia nazionale, che tanto esportava in Libia e che beneficiava di un interscambio significativo per quantità e qualità ed ha anche privato l’industria aerospaziale e della difesa di uno dei suoi mercati più importanti anche lanciarazzi è integralmente di fornitura russa, così come la difesa contraerea. L’Algeria ha anche acquistato gli efficaci semoventi contraerei Tunguska. La Marina ha appena 6.600 uomini e del resto le coste hanno una estensione relativamente modesta, poco meno di mille km. Ci sono 3 vecchie piccole fregate tipo Koni russe e 5 corvette, sempre russe, nonché quattro sottomarini classe Kilo, tra i più moderni in linea nella regione, nonché oltre 30 motovedette lanciamissili, poche unità anfibie e cacciamine e alcune batterie missilistiche per la difesa costiera. Complessivamente la Marina è piccola, ma meglio equipaggiata di quella di molti vicini e sarà poi potenziata con l’acquisto di una nuova classe di fregate leggere e di un’unità da assalto anfibio in Europa. 35


Risk politica moderata del suo predecessore. Il Paese ha una densità di popolazione molto più elevata rispetto ai vicini, con quasi 34 milioni di abitanti per una superficie di 446.000 kmq, per il 40% costituita da deserti e con coste piuttosto lunghe, oltre 1.800 km. Il Marocco deve affrontare i primi sintomi di estremismo/terrorismo islamico, oltre al problema Sahara occidentale e i rapporti non tesi, ma non per questo amichevoli, con l’Algeria. La spesa della difesa quindi rimane saldamente al di sopra del 5%, e rappresenta oltre 2,2 miliardi di dollari. Le Forze Armate hanno una notevole consistenza, quasi 200mila uomini, ai quali si aggiungono 25mila uomini delle forze paramilitari ausiliarie e i 10mila della gendarmeria reale. Altra particolarità, le forze armate sono costituite in larghissima misura da professionisti e volontari, anche se in teoria resta in vigore la leva obbligatoria con durata di 18 mesi. Non che questo si traduca automaticamente in standard qualitativi e addestrativi particolarmente elevati in termini assoluti, ma certo l’efficienza è superiore ai livelli abituali nella regione. L’Esercito ha circa 175mila uomini ed è organizzato non tanto su grandi unità organiche a livello divisionale, quanto su più piccole formazioni a livello di brigata, reggimento e battaglione. Ci sono quindi 3 brigate meccanizzate, 2 di parà, 1 da fanteria leggera, e poi 10 battaglioni corazzati, 8 reggimenti meccanizzati, 12 gruppi d’artiglieria nonché naturalmente una Guardia Reale forte di 1.500 uomini e bene addestrata ed equipaggiata. Il Marocco acquista i sistemi d’arma un po’ ovunque e non disdegna neanche l’usato occidentale di qualità. Ecco che la linea carri include T-72 russi, ma anche 320 M-60 statunitensi, 180 più vecchi M-48 e un centinaio di cacciacarri austriaci. Sono invece americani, francesi, ma anche brasiliani e sudafricani i mezzi trasporto truppe. Molto consistente il parco di mezzi da ricognizione e blindati, in massima parte di produzione francese. Quasi completamente occidentale è anche l’artiglieria che annovera anche ottimi can-

Il Marocco deve affrontare i primi sintomi di estremismo/terrorismo islamico, oltre al problema Sahara occidentale e i rapporti non tesi, ma non per questo amichevoli, con l’Algeria. La spesa della difesa quindi rimane saldamente al di sopra del 5%, e rappresenta oltre 2,2 miliardi di dollari La situazione è simile per l’Aeronautica, che conta 12mila uomini e ha forza combattente che comprende Mig-29, Mig-23, MiG-25 per la caccia, Su-24 e MiG23 per l’attacco, velivoli americani C-130 per il trasporto, elicotteri da combattimento Mi-24 e da trasporto Mi-8 Mi-171, L-59 per l’addestramento e i “soliti” sistemi missilistici russi Sa-2, SA-3 e SA-6 per la difesa antiaerea. Si tratta complessivamente di materiale russo di qualità superiore a quella normalmente presente in altre aeronautiche della regione. L’Algeria peraltro aveva ordinato in Russia 35 MiG-29 ultimo grido e circa 30 di ottimi SU-30 MKA, ma ha poi deciso di non accettare i MiG-29 per concentrarsi sui Sukhoi (più costosi, potenti e sofisticati), creando gravi screzi con Mosca, che alla fine ha dovuto tenersi i MiG e assegnarli alla propria Aeronautica. L’Algeria ha anche ordinato addestratori Yak-130 e anche su questi c’è qualche dubbio, nonché moderni e temibili sistemi di difesa antiaerea S-300 PMU-2 con i quali rimpiazzare Sa-2 e Sa-3.

Il Marocco è l’unica monarchia

del Nord Africa mediterraneo e il giovane Mohammed VI sta proseguendo, con la massima attenzione e prudenza, la

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dossier noni trainati FH-70 e semoventi M-109. I sistemi antiaerei leggeri sono americani, francesi e russi, compresi alcuni nuovi semoventi Tunguska. Gli elicotteri sono francesi ed italiani. La Marina conta 10mila uomini, inclusi in questo totale ci sono anche 2mila uomini del corpo dei Marines. Il naviglio vede per ora tre fregate leggere di produzione spagnola e francese e poi una serie di pattugliatori e unità leggere. La componente anfibia è invece più consistente, perché deve supportare e trasportare il corpo di fanteria di marina. La Marina avrebbe in programma l’acquisizione di una grande fregata missilistica tipo Fremm in Francia (non era in realtà né prevista né richiesta, ma la ha “appioppata” Sarkozy in una trattativa a pacchetto governo-governo) nonché tre valide corvette lanciamissili Sigma di produzione olandese. L’Aeronautica conta 13mila uomini ed annovera una componente di combattimento un po’invecchiata, rappresentata da caccia Mirage F-1 francesi e caccia leggeri F-5 americani, che saranno però sostituiti da 24 avanzatissimi e bene equipaggiati F-16 Block 52 statunitensi. La Francia ha condotto un vero pressing per cercare di vendere il caccia Rafale, ma senza esito. Piuttosto consistente la componente da trasporto con una ventina di C-130 /( e presto 4 C-27J italiani) anche cisterne e CN-235. Gli addestratori sono rappresentati da T-34C, T-37, che saranno in parte sostituiti dai nuovi T-6. Gli elicotteri sono piuttosto numerosi, anche se vecchiotti, acquistati in Italia e in Francia, con una piccola componente da trasporto pesante con i CH-47 americani. Se l’Algeria ha in passato privilegiato la Russia come fornitore principale, il Marocco ha preferito puntare su sistemi occidentali, Europei e ora in misura crescente statunitensi, sicuramente più costosi, ma anche più efficienti. E intende continuare con questa politica. Anche se lo shopping negli Usa non è ben digerito a Parigi.

La piccola Tunisia governata

da Zine elAbidien Ben Ali ha una popolazione consistente, oltre 10,4 milioni di abitanti in rapporto alla superficie di 164.000 kmq, dei quali quasi la metà rappresentata da

deserto ed ha anche una notevole estensione costiera, di oltre 1.100 km. Ciò malgrado le Forze Armate hanno una consistenza modesta, appena 35mila uomini, compresi 25mila soldati di leva che servono per 12 mesi, ai quali si aggiungono 2mila uomini della Gendarmeria e 7mila della Guardia Nazionale. La spesa militare è modesta rispetto agli standard dei vicini e non arriva all’1,5% del Pil e non supera 1,5 miliardi di dollari. L’Esercito annovera 27mila uominji e schiera 3 brigate meccanizzate, 1 brigata desertica e alcune unità indipendenti. L’equipaggiamento è integralmente di origine occidentale, con in evidenza il surplus statunitense, a partire da una settantina di carri armati M-60 , ai quali si affiancano una cinquantina di cacciacarri austriaci. Francesi e brasiliane le blindo da ricognizione, statunitensi e brasiliani i trasporto truppe. Relativamente moderne e basata su materiale americano l’artiglieria conta circa 130 tra cannoni e semoventi, tutti di fornitura statunitense, mentre i missili contraerei sono americani e svedesi. L’aviazione dell’Esercito comprende una trentina di AB-205/Bell 205. La Marina ha appena 4.500 uomini ed ha le sue unità principali in 6 ex motovedette tedesche Type 143, 5 motovedette missilistiche francesi, di due tipi, 6 pattugliatori d’alto mare e 4 più piccoli, mentre altre unità leggere da pattugliamento alturiero e costiero sono in linea con la guardia costiera. L’Aeronautica è dotata di pochi e superati aerei, visto che l’ammodernamento risulta troppo costoso per il budget disponibile, quindi ci sono una ventina di caccia leggeri F-5 ed altrettanti vecci addestratori a getto italiani MB-326, oltre a un reparto controguerriglia/ addestramento con jet L-59T aggiornati e 18 SF-260 italiani. Pochi anche gli aerei da trasporto mentre più consistente è la flotta elicotteri che include altri 18 AB-205 e 6 UH-1e 24 elicotteri francesi di vario tipo. Considerato la mancanza di reali minacce esterne, le priorità del presidente Ben Ali, altro longevo dittatore formalmente democratico, sono costituite dalla sicurezza interna, il controllo delle frontiere e delle acque costiere e di interesse economico nazionale. 37


Risk IN ALGERIA CRESCE L’ISLAM RADICALE E MIRA A DESTABILIZZARE L’INTERO NORDAFRICA

AL QAEDA SFIDA IL MAGHREB DI

M

ANDREA MARGELLETTI E ANTONIO PICASSO

ai come in questi anni, il Medio Oriente ha presentato così tanti e complessi focolai di crisi. Uno diverso dall’altro. Il Nord Africa, in tal senso, è una delle zone che maggiormente rappresentano questo stato di criticità disomogenea. La presenza dei gruppi ultra-ortodossi salafiti riuniti nel cartello terroristico “al Qaeda nel Maghreb islamico” (Aqmi),

attivi nel Maghreb appunto, e le tante fonti di in- stabilità interna dell’Egitto rendono la regione una sommatoria di squilibri. Se questi fattori si sviluppassero, innescherebbero una serie di ripercussioni immediate non solo nel Medio Oriente, ma anche nella vicina Europa. Tuttavia, in questo ginepraio, l’apertura delle relazioni diplomatiche tra la Libia e l’Occidente costituisce un risultato positivo e in controtendenza. In questi ultimi anni, il regime di Gheddafi è passato dall’essere un Paese vicino al cosiddetto “Asse del male”, con un controverso passato di finanziatore del terrorismo, a partner economico per i governi di Europa e Stati Uniti. Un discorso analogo di nuova cooperazione fra Tripoli e le cancellerie dei Paesi occidentali può essere fatto nell’ambito delle politiche di sicurezza della regione, sia verso il mondo islamico, sia nel quadrante del Mediterraneo. Ne è conseguito che, il nuovo approccio - per quanto sia ancora all’inizio - ha trasformato il Paese in un territorio da monitorare e controllare, in quanto soggetto a potenziali infiltrazioni da parte di gruppi terroristi di matrice islamico-salafita, quindi associabili ad al Qaeda. Quest’ultima da un lato vede nella Jamahiriyyah un nemico dell’Islam, dall’altra considera il Paese nordafricano un tradizionale serbatoio di volontari, oltre che un punto strategico per le sue mire nel bacino del Mediter38

raneo. In questo senso, le autorità investigative e di sicurezza nazionali hanno avviato una fase di concertazione con le controparti occidentali, specie con Italia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Aprendo una breve parentesi storica, ricordiamoci come in passato Gheddafi abbia appoggiato l’Olp di Arafat nella sua lotta armata contro Israele. Ed è altrettanto certificato il sostegno materiale dei più diversi gruppi del terrorismo internazionale, tra cui il palestinese “Settembre nero” e l’Ira irlandese. Nel 1972 gli autori dell’attentato alle Olimpiadi di Monaco sono accolti a Tripoli da eroi. L’episodio fa da apripista alle accuse, nei confronti di Gheddafi, di essere il mandante degli attentati più eclatanti in Europa di quel periodo. Nel 1986, poi, una bomba devasta la discoteca “La Belle Club” di Berlino Ovest e provoca 2 morti. Ma è la strage di Lockerbie a isolare la Libia dal resto del mondo. È il dicembre 1988, un aereo della Pan-Am esplode nei cieli della Scozia. Muoiono 270 persone. Il bollettino più disastroso di un attentato terroristico prima dell’11 settembre 2001. Di fronte al rifiuto del regime di consegnare i presunti responsabili dell’accaduto, l’Onu approva l’embargo economico contro la Libia. Poco meno di un anno più tardi, l’attentato a un aereo della francese Uta provoca altre 156 vittime. Anche in questo caso, si attribuiscono le colpe alla Libia.


dossier Oggi questa spregiudicatezza di Gheddafi fa parte del passato. Il capitolo Lockerbie è stato concluso con la promessa del rais di un risarcimento ai parenti delle vittime dell’attentato. Il problema del terrorismo, quindi, si è trasformato dall’essere di competenza della diplomazia internazionale a quella delle forze di sicurezza. Tripoli, infatti, non offre più il suo endorsement a qualsiasi organizzazione di sorta. Di conseguenza, la Libia appare agli occhi dei gruppi terroristici attivi nel Nord Africa - in particolare Aqmi e “Libyan Islamic Fighting Group” (Lifg) - in un avversario da combattere e abbattere.

Il concetto della Jamahiriyyah, per quanto

faccia espresso riferimento al Corano, risulta eccessivamente intriso di idee laiche, socialiste e di ispirazione occidentale, quindi empio e apostata (takfir). Già nel 2000, Scotland Yard è entrata in possesso di un documento, la Declaration of Jihad against the Country’s tyrants: military series, nella quale proprio la Jamahiriyyah viene bollata non solo come una manifestazione di eresia, ma anche come una tirannia militare da combattere. Storicamente il Libyan Islamic Fighting Group (alJama’a al-Islamiyyah al-Muqatilah) nasce all’inizio degli anni Novanta. I fondatori, come accade nella vicina Algeria con il Gis, sono veterani della guerra in Afghanistan contro l’Unione Sovietica. Fin da subito, il gruppo si prefigge l’abbattimento di Gheddafi e l’instaurazione di un regime politico ispirato alla più ortodossa interpretazione del Corano. Da allora il rais libico è caduto vittima di almeno quattro attentati. Tutti falliti e tutti firmati dal Lifg. Uno di questi sarebbe stato sventato grazie all’intervento del servizio di intelligence britannico, l’MI-6. In realtà di quest’ultimo episodio nessuno ha mai avanzato una conferma. Ciò non toglie che se fosse accertato, dimostrerebbe come la cooperazione tra le forze di sicurezza libiche e occidentali, nella lotta al terrorismo, si sia affermata ormai da più di dieci anni e che oggi proceda sulla base di questi precedenti.

La forte connessione con la “rete del terrore”, che negli anni successivi assumerà il nome di al Qaeda, pone il Lifg tra i gruppi più attivi nella lunga lista di attentati terroristici che hanno minato la sicurezza del quadrante nordafricano di questi ultimi anni. Solo per ricordare gli esempi più recenti, sia le autorità locali sia le agenzie di intelligence occidentali attribuiscono al gruppo libico una compartecipazione negli attentati di Casablanca di maggio 2003. Tuttavia, si sospetta anche di una sua forte presenza, in termini di qualche centinaia di membri attivi e sostenitori, anche in Europa. D’altra parte sappiamo che ben prima che al-Libi acquisisse gli onori delle cronache, il Lifg cooperava con il Gruppo Islamico Marocchino per il Combattimento - anch’esso incluso in Aqmi - su tre direttrici: l’invio di volontari nordafricani in Afghanistan, l’affermazione di uno Stato islamico in Marocco, destituendo ovviamente l’attuale monarchia, e il supporto delle attività di al Qaeda in Occidente. Interessante è notare come la struttura organizzativa del Lifg presenti molte analogie con i gruppi tuttora attivi in Afghanistan e vicini ai Talebani. Al suo vertice c’è un “Consiglio della Shura”, composto da un numero variabile di membri dai 7 ai 15, che dispone di poteri decisionali inappellabili. Da qui partono le direttive per le cellule presenti sul territorio nazionale, ma anche oltre frontiera. Tra gli esponenti più illustri del Lifg meritano di essere ricordati: Abd alRahman al-Faqih, ricercato in Marocco appunto per l’attentato di Casablanca del 16 maggio 2003, ma anche Ghuma Abd’rabbah e Abdulbaqi Mohammed Khaled, entrambi legati alla Charity qaedista “Sanabal”, attraverso la quale sarebbero stati trasferiti denaro e documenti agli attivisti in Gran Bretagna. A questi bisogna aggiungere una serie di esponenti del Lifg operativi soprattutto in Afghanistan e quindi uomini di al Qaeda a tutti gli effetti. Abu Jaffar al-Libi, Abu Anas al-Libi - probabilmente coinvolto negli attentati contro le ambasciate Usa in Kenya e Tanzania nel 1998 Hamzallah al-Libi, Abu Abdel Qader al-Libi e Abu 39


Risk

La forte connessione con la “rete del terrore”, che negli anni successivi assumerà il nome di al Qaeda, pone il Lifg tra i gruppi più attivi nella lunga lista di attentati terroristici che hanno minato la sicurezza del quadrante nordafricano di questi ultimi anni Laith al-Libi. Ancora più importante tra i comandanti qaedisti originari dalla Libia è stato Abu Laith alLibi, classificato dal Pentagono al quarto posto nella sua lista di High Value Targets (Hvt), dopo bin Laden, al-Zawahiri e il Mullah Omar e ucciso il 29 gennaio 2008 in un “attacco missilistico” vicino al villaggio di Mir Ali in Nord Waziristan (Pakistan). La lista dimostra come l’organizzazione di bin Laden non possa che essere in un certo senso grata alla sua “filiale” libica per il contributo di uomini, ma anche di risorse nell’ambito del comando e dell’operatività. Lo stretto legame tra il Lifg e i vertici di al Qaeda, nello specifico Aqmi, viene formalizzato direttamente da Ayman al-Zawahiri. Due anni fa, il medico egiziano ha postato su internet un suo intervento in cui riconosceva il gemellaggio tra le due organizzazioni. Sebbene la data del 2007 appaia tardiva e in contrasto con il rapporto pregresso e così stretto con al Qaeda, segna comunque fine di una serie di attriti di lunga data. Più volte infatti, nel corso dell’evoluzione del Lifg, si è presentato un problema di scelta dell’obiettivo da combattere. Di fronte alla via schiettamente “nazionale” di alcuni membri del Consiglio della Shura, di limitarsi a contrastare la Jamahiriyya, altri esponenti - sulla base delle passate esperienze di mujaheddin in Afghanistan - hanno 40

fatto pressione affinché venisse sposata una causa maggior respiro: il jihad promosso dai salafiti del Nord Africa e dalla stessa al-Qaeda. In quest’ottica va inserito l’impegno del Lifg a supportare in modo comunque strumentale la seconda Intifadah palestinese nel 2000 e il gruppo di al Zarkawi, “al-Qaeda in Iraq”, nel momento in cui cominciò la sua guerriglia nel 2004.

In questa prospettiva, le coste norda-

fricane sono facili da raggiungere per i militanti attraverso le piste poco controllate del Sahara, sfruttando le situazioni di instabilità interna e quindi di scarse forze di sicurezza in Corno d’Africa, Sudan e a sud-ovest in Mauritania. La popolazione locale, inoltre, appare un prezioso bacino di reclutamento. Infine, per al Qaeda il Maghreb si conferma essere un potenziale punto di partenza per inviare nuovo membri e militanti direttamente in Europa. Altro punto nodale è l’autonomia che il Lifg ha saputo conservare rispetto a tutti gli altri gruppi terroristici di matrice salafita nordafricani. Infatti, a differenza del Gruppo Salafita per la Predicazione e il Combattimento algerino (Gspc), del Gsc marocchino e quelli minori in Tunisia e nella stessa Libia, il Lifg non ha rinunciato alla sua sigla. Anziché essere assorbito dal “trust” di Aqmi, nato anch’esso all’inizio del 2007, e quindi scomparire, ha deciso di cooperare, in modo parallelo, in uno stato di indipendenza. D’altra parte, per quanto riguarda Aqmi e Lifg, bisogna sottolineare che la loro presenza in Libia non è finalizzata unicamente al contrasto del regime di Gheddafi e quindi limitata a una questione nordafricana. Per la sua posizione geografica, infatti, il Paese appare strategico. Le sue coste sul Mediterraneo rappresentano una potenziale testa di ponte con l’Europa. Inoltre, essendo al centro delle grandi vie di comunicazione nordafricane, costituisce un punto di incontro fondamentale fra le attività


dossier dei gruppi ultra ortodossi presenti in Egitto - in particolare la “Gama’a al-Islamiyah” - quelli salafiti in Algeria e infine quelli in Sudan. Già prima del 2007, le attività congiunte fra i gruppi riguardavano reclutamento, indottrinamento teologico e addestramento operativo. Esse sono state sempre facilitate dalla porosità dei confini tra i quattro Paesi - a questi andrebbero aggiunti il Ciad e il Niger - disegnati sulle carte geografiche e riconosciuti formalmente dalla comunità internazionale, ma praticamente inesistenti nel cuore del Sahara e insignificanti per le tribù nomadi che percorrono le piste della regione. In questo senso le autorità libiche, ma non solo, riescono a mantenere un controllo sostanzialmente buono dei centri abitati, anche quelli all’interno e nelle oasi. Tuttavia, risulta per loro praticamente impossibile fare altrettanto in mezzo al deserto, dove anche gli strumenti tecnologici di controllo, monitoraggio ed eventuale intervento armato sono esposti all’asprezza della natura.

In generale, però, possiamo dire che, anco-

ra oggi, il Paese che rimane maggiormente minacciato dal rischio di una nuova escalation di attentati terroristici è l’Algeria. Lo confermano gli ultimi messaggi audio firmati dall’Aqmi. Nel primo, datato gennaio di quest’anno, il suo stesso comandante, Abu Musab Abdel Wadoud, è partito dalla condanna dell’azione militare israeliana sulla Striscia di Gaza, per poi concentrarsi in un nuovo attacco contro i regimi laici e filo-occidentali di Algeria ed Egitto. Nel secondo intervento, diffuso ad aprile, l’emiro Abdelmaker Droukdel ha chiesto agli algerini di boicottare le elezioni presidenziali, che poi hanno visto la conferma del Presidente Bouteflika alla guida del Paese. A onor del vero, va detto che da un punto di vista operativo Aqmi è sostanzialmente ferma. Dall’inizio dell’anno a oggi, fortunatamente, il gruppo terroristico non ha compiuto attentati di alcun genere. Tuttavia, siamo molto lontani dal poter dire che Aqmi stia attraversando una fase di

stanca. Al contrario, per alcuni osservatori il Maghreb costituisce proprio il nuovo fronte che al Qaeda intende aprire. Questo in concomitanza con quello afghano, dove peraltro la sua leadership nel complesso mondo pashtun si è ormai ridimensionata. Gli obiettivi prefissati sono gli interessi dei Paesi occidentali, Francia in particolare, ma anche Usa e i Paesi implicati militarmente in Iraq e in Afghanistan, così come le rappresentanze dell’Onu e mettere in difficoltà l’economia mondiale attaccando i settori nevralgici, per esempio quello energetico. Lo strumento dei rapimenti, a sua volta, permette l’autofinanziamento. Solo nel corso del 2007, le cellule locali di al Qaeda hanno incassato più di un milione di euro attraverso 115 sequestri di persona. Gli episodi si sono verificati tutti nel cosiddetto “quadrilatero della morte”, formato dalle città di Tizi Ouzou, Boumerdes, Bouira, vicino alla Cabilia e alla capitale algerina. Tra i diversi fattori che stanno dietro alle attività terroristiche in Algeria, due appaiono i più rilevanti. Da un lato, le lacune del programma di riconciliazione nazionale fortemente voluto da Bouteflika, dall’altro i problemi economici, la povertà e l’elevato tasso di disoccupazione che creano un terreno fertile per il reclutamento di giovani. La crescita dell’Islam radicale nel Paese sembra essere comunque in cima alle priorità del governo, che nel corso degli ultimi due anni avrebbe bandito 53 imam e chiuso 43 moschee di corrente salafita. La strategia messa in atto da Algeri verso Aqmi pare seguire un duplice binario. Il primo chiama in causa le Forze di sicurezza nazionali, che intervengono con azioni militari e con attività di intelligence. Dall’altro lato, appare efficace il piano governativo di educazione e formazione della popolazione. Si tratta di un progetto improntato a frenare la diffusione dell’estremismo islamico nelle carceri, dove è accertata una forte attività di cellule di Aqmi per il reclutamento di nuovi membri. Inoltre, è volto a fornire l’insegnamento di un mestiere per un futuro reinserimento nel tessuto sociale del detenuto, nonché un’educazione religio41


Risk

Le coste nordafricane sono facili da raggiungere per i militanti attraverso le piste poco controllate del Sahara, sfruttando le situazioni di instabilità interna e quindi di scarse forze di sicurezza in Corno d’Africa, Sudan e a sud-ovest in Mauritania sa scevra da implicazioni violente. Volgiamo poi lo sguardo nel Sudan. Già tra il 1991 e il 1993, il Lifg aveva stretto contatti diretti con il vertice di al Qaeda allora rifugiato in Sudan. Alcuni suoi membri a Khartoum intrattenevano rapporti proprio con Osama bin Laben e con Hasan al-Turabi. Tuttavia, risalgono sempre a quegli anni le prime richieste, da parte di Gheddafi verso il governo sudanese, di estradizione dei membri libici del Lifg. Il governo di Khartoum rifiutò di collaborare con Tripoli, ciononostante impose loro di andarsene dal Sudan. Fu allora che questi tornarono in Afghanistan dove avevano già combattuto l’Armata Rossa. Effettivamente in quegli anni, Turabi era appena stato eletto Presidente del Parlamento sudanese. Di conseguenza, con il leader nazionale dell’islamismo ultra-ortodosso che ricopriva questo incarico comunque istituzionale, il Sudan preferì non compromettere le relazioni con la Libia. Oggi la posizione assunta dal Sudan in quegli anni risulta ancora più chiara. Turabi, infatti, ha sempre sostenuto la necessità di passare da una fase operativa, da parte di tutti i gruppi ultra-ortodossi islamici, a una propriamente politica, capace di seguire un percorso simile a quello di altri movimenti radicali intenzionati ad assumere il 42

potere, adottando prima lo strumento della violenza e poi inserendosi nelle istituzioni nazionali. Un progetto, quello di Turabi, che è stato rifiutato dalla maggior parte dei gruppi islamici. Terrorismo, attentati e rapimenti - secondo al Qaeda, Aqmi, Lifg e altri - continuano a essere la sola via per la defenestrazione dei regimi nemici e la successiva instaurazione di un governo islamico ultra-ortodosso. Questo spiega è il motivo per cui il leader sudanese ha subito una profonda emarginazione da parte di questi gruppi, compensata da una crescente attenzione dimostrata dagli osservatori internazionali.Parliamo poi delle Charity, ovvero delle organizzazioni di carità attive nel mondo islamico e delle quali alcune hanno come sede legale e operativa la Libia. In termini generali, si tratta di Ong di dichiarata fede islamica, sia sunnite sia sciite, che svolgono attività di mutuo intervento e soccorso, parallele e autonome rispetto a quelle dei governi nazionali e della Lega Araba, in aiuto delle popolazioni musulmane. Tuttavia, al di là di questa rete assistenziale transnazionale, in seguito agli attentati dell’11 settembre 2001, le indagini internazionali hanno avviato una serie di ricerche approfondite per verificare l’eventuale connessione, soprattutto in ambito finanziario, tra alcune di queste organizzazioni e al Qaeda. Ne è emerso che molte sovvenzioni e donazioni a queste organizzazioni sono state effettuate non per fini caritatevoli, bensì per finanziare le attività terroristiche. In merito alla Libia, la famiglia Gheddafi è titolare della “Gheddafi International Charity and Development Foundation” (Gicdf), conosciuta anche come Gifca se intesa come rete di associazioni (Gheddafi International Charity and Development Associations). Si tratta di una Ong fondata nel 1998 e attualmente presieduta dal figlio del rais, Saif alIslam Gheddafi. L’organizzazione è attiva in Ciad, Germania e nelle Filippine. Tuttavia, è assolutamente esclusa una sua qualsiasi connessione con attività di finanziamento illecito in favore di gruppi ultraortodossi islamici. Va detto, però, che la Gicdf sta


dossier operando anche all’interno del territorio libico per favorire una riconciliazione con i membri del Lifg, sulla base di un piano di reinserimento simile a quello algerino. Nell’aprile 2008, su sua pressione, oltre 90 ex terroristi sono stati rilasciati, e oggi si parla di una nuova consistente “amnistia”. Un discorso del tutto diverso dev’essere fatto in merito al “Sanabal Charitable Committee”. Questa società con sede in Gran Bretagna è stata posta sotto sequestro e le sue attività bloccate a livello internazionale dopo che, nel 2006, venne certificato che effettuasse fund raising in favore del Lifg. Certamente, per riuscire realmente a ottenere un maggiore successo nella lotta al terrorismo in Nord Africa, sarebbe necessaria una più forte cooperazione con l’Unione Europea. Va detto che recentemente la Commissione Europea ha approvato uno stanziamento di oltre 225 milioni di euro per la lotta al terrorismo, fondo attraverso il quale si vorrebbero sostenere quei Paesi centrali nella lotta al fondamentalismo come l’Afghanistan, il Pakistan e, appunto, il vicinissimo Nord Africa. Alla base però, manca ancora una seria politica estera comune tra i Paesi dell’Unione Europea, soprattutto per quanto concerne le tematiche relative all’immigrazione clandestina. Proprio il 21 aprile, il Parlamento Europeo ha approvato la relazione del deputato del Ppe, Simon Busuttil, che chiede con forza ai 27 paesi Ue di coordinare le loro politiche in materia di immigrazione, giudicando questo approccio come “essenziale”. La relazione parla di aspetti importanti come la condivisione degli oneri, la gestione integrata delle frontiere (aumento del potere della Frontex, l’Agenzia Ue per la cooperazione operativa delle frontiere esterne), e una cooperazione più stretta con Stati terzi (la stessa Libia viene menzionata). Una opportuna azione comune in questo senso perciò, non permetterebbe solamente di ridurre l’inaccettabile continuo traffico di esseri umani, ma garantirebbe anche una limitazione dell’afflusso di estremisti aventi lo scopo di creare nuove cellule terroristiche nel Vecchio continente. 43


Risk EGITTO, ALGERIA E LIBIA SARANNO I PRINCIPALI FORNITORI DI UE, CINA E USA

I TRE COLOSSI DELL’ENERGIA DI •

I

DAVIDE URSO

l Nord Africa ha avuto, negli ultimi anni, un’esponenziale crescita nel settore energetico. Ciò per differenti ragioni connesse al rango e al ruolo che i singoli Paesi hanno giocato e giocheranno nel panorama geo-energetico mediterraneo e medio-orientale prima, e globale poi. Si passa da una nazione come la Libia, che ha iniziato la sua escalation energetica con la cessazione delle sanzioni Onu

e Usa del 2003-2004, al Marocco che è l’unico grande importatore di idrocarburi nell’area nord-africana e che, per ridurre la sua dipendenza dall’estero, sta cercando di rafforzare le interconnessioni di rete con i Paesi del Nord Africa. I cinque Paesi analizzati - Egitto, Algeria, Libia, Marocco e Tunisia - hanno evidenti tratti in comune. Tutti hanno iniziato un processo di liberalizzazione del mercato energetico nazionale attraverso un principio di privatizzazione ancora allo stato iniziale. Ciò è favorito dalla collocazione geografica di tali Paesi, soprattutto dall’essere il principale punto di acquisto del fabbisogno energetico del mercato europeo. Il Nord Africa si sta, infatti, caratterizzando per piani energetici governativi tendenti, ove possibile, all’aumento della produzione di gas, al rafforzamento della capacità esplorativa dei giacimenti di petrolio e di gas e al perfezionamento delle tecnologie di raffineria. Tutto ciò per massimizzare la quantità di energia esportabile e per divenire Paesi strategici di transito. Viste le ingenti riserve interne di idrocarburi - a esclusione del Marocco e della Tunisia - i Paesi del Nord Africa si candidano, nel breve-medio periodo, a essere i principali fornitori di energia dell’Europa e a rafforzare il proprio ruolo verso gli Stati Uniti e la Cina. Altro elemento a fattor comune è l’assoluta dipen44

denza della crescita del Pil nazionale e della stabilizzazione dei principali indicatori macro-economici dei singoli Stati dagli idrocarburi: gas e petrolio. La quasi mono-produzione ha generato un sistema del tutto sbilanciato che sta oggi generando evidenti vantaggi economici, ma che, senza un’adeguata politica di diversificazione del mix di produzione d’energia, potrebbe, nel lungo periodo, compromettere gli interi sistemi-Paese. Egitto L’Egitto è storicamente produttore di petrolio e sta rapidamente aumentando il proprio rango tra i Paesi produttori di gas naturale.

Petrolio. L’industria petrolifera gioca un ruolo chiave nell’economia. Conta per circa il 40% dei guadagni dell’export; il solo settore dell’upstream per circa il 10% del Pil nazionale. Nel 2007, malgrado annunciate scoperte e miglioramenti nelle tecniche di estrazione del petrolio, l’Egitto ha visto il proprio turnaround negativo nella produzione di greggio: dal picco di 950 mila b/g del 1995, nel 2007 ha prodotto 700 mila b/g, lo 0,87% della produzione mondiale. La produzione proviene da quattro aree principali: il Golfo di Suez (circa il 50%), il deserto occidentale (27%, più del doppio rispetto al 2000),


dossier il deserto orientale e la Penisola del Sinai. Si tratta di giacimenti maturi e relativamente piccoli, connessi a più grandi sistemi di produzione regionali. La domanda interna di petrolio è in costante crescita. Dal 1995 i consumi sono passati da 480 a 652 mila b/g nel 2007, lo 0,77% del consumo mondiale. Le speranze del Governo sono di ridurre la domanda aumentando i sussidi, passati da 1,7 euro nel 2004 a 7,5 euro nel 2008, il 71,3% più alto rispetto al 2007. Affinché tale politica possa produrre i risultati sperati serviranno ancora molti anni. Nel 1995 vi è stato il picco di forbice tra produzione e consumo di petrolio, pari a 470 mila b/g. Ciò ha permesso all’Egitto di puntare su una politica di stabilizzazione del sistema energetico, anche attraverso l’aumento delle riserve petrolifere, pari a 4,07 miliardi di barili, lo 0.32% delle riserve mondiali. Nel 2007, tale forbice si è di fatto azzerata, con una piccola differenza a vantaggio della produzione. Se ciò, da un lato, ha permesso all’Egitto di evitare di entrare tra i Peasi importatori netti di petrolio, dall’altro, ha lanciato un allarme sulla capacità reale dei giacimenti di petrolio e aperto un dibattito a livello governativo sulla necessità di diversificare il mix di produzione energetico. Il giacimento offshore di Saqqara - entrato in esercizio nel 2008 con un tasso di flusso di 30 mila b/g e un picco di produzione atteso di 40-50 mila b/g - è stato l’ultimo grande giacimento dal 1989. L’Egitto gode di un’invidiabile posizione geografica. Il Canale di Suez e la Sumed Pipeline (SuezMediterranean) sono rotte strategiche per il trasporto di greggio del Golfo Persico. Ciò fa dell’Egitto un importante corridoio di transito energetico. Secondo i dati del Middle East Economic Survey del 2007, il greggio trasportato attraverso il Canale di Suez ammonterebbe a 1.260 mila b/g. La maggior parte del transito, circa i tre quarti, è nella frontiera Sud del Canale di Suez. Interessante è che nel 2006 il rapporto era esattamente l’opposto. Il cambiamento della direzione dei flussi indica in modo chiaro il calo della domanda europea rispetto alla

Viste le ingenti riserve interne di idrocarburi, a esclusione del Marocco e della Tunisia, i Paesi del Nord Africa si candidano, nel breve-medio periodo, a essere i principali fornitori di energia dell’Europa e a rafforzare il proprio ruolo verso gli Stati Uniti e la Cina crescita del mercato asiatico. La Sumed Pipeline da Ain Sukhna sul Golfo di Suez a Sidi Kerir sul Mediterraneo ha una capacità di 2,34 milioni b/g. L’oleodotto è di proprietà dell’Arab Petroleum Pipeline Company, una joint venture tra Egitto (50%), Arabia Saudita (15%), Kuwait (15%), Emirati Arabi (15%) e Qatar (5%). L’Egitto, con 9 raffinerie e una capacità di processo di 726 mila b/g, ha il maggiore settore della raffineria del continente. La principale raffineria è la El-Nasr a Suez di proprietà del Governo con 146.300 b/g. È in progetto la costruzione di cinque impianti petrolchimici e raffinerie. Gas naturale. Rispetto al petrolio, la forbice produzione/consumo del gas evidenzia un andamento opposto. Grazie alla scoperta di nuovi giacimenti, dal 1999 la produzione di gas ha avuto una crescita del 30%, di gran lunga superiore alla domanda. La produzione di gas dell’Egitto, nel 2007, è stata di 46,52 miliardi m3 (+4,2% rispetto al 2006), l’1.57% della produzione mondiale. Il consumo è stato di 32,04 miliardi m3 (+9,9% rispetto al 2006), l’1,09% del totale mondiale. L’Egitto è un esportatore netto di gas naturale. La regione del Delta del Nilo - con 45


Risk i giacimenti di Badreddin e Abu Qir - copre circa il 50% dell’esportazione e della produzione di gas. La seconda area più importante è il deserto occidentale, con i giacimenti di Obeiyed e Khalda. Il principale progetto di esportazione è l’Arab Gas Pipeline (AGP), che connette l’Egitto alla Giordania e alla Siria. Le proiezioni dell’Egitto sono di esportare fino a 2,6 miliardi m3 nel 2013. Nel 2008, Turchia e Siria hanno siglato un accordo per connettere il gasdotto alla rete turca nel 2011 ed estendere l’esportazione del gasdotto in Europa fino all’Austria, attraverso la Bulgaria, Romania, e Ungheria. Sono in corso negoziati per connettere l’Agp al Libano e a Cipro. Il gasdotto Arish-Ashkelon - che collega l’Egitto ad Israele, in esercizio dal 2008 - ha una capacità di 2,2 miliardi m3/anno. Recentemente, la Libia si è accordata con l’Egitto per costruire un gasdotto da Alessandria a Tobruk, Est della Libia, per importare gas dalla regione del Delta del Nilo. Le riserve di gas naturale sono pari a 2,06 mila miliardi m3, grazie agli enormi investimenti nell’upstream, l’1.16% del totale mondiale: 81% nell’area mediterranea, 11% nel deserto occidentale, 6% nel Golfo di Suez e 2% nella regione del Delta del Nilo. L’Egitto è al terzo posto tra i Paesi africani per riserve di gas. La rete nazio-

Vista la crescita esponenziale della produzione negli ultimi anni, l’Algeria è il principale esportatore di petrolio del Nord Africa, con 1,85 milioni b/g. Gli Stati Uniti importano il 35% del loro greggio, i Paesi europei dell’Ocse circa il 37% 46

nale gasiera è stata potenziata fino agli attuali 16.807 km, con una capacità di 160 milioni m3. Il gas provvede al 58% della produzione di elettricità del Paese e al 26% del settore industriale. Secondo il trend in atto, nel prossimo futuro il gas prenderà il posto del petrolio come motore del sistema energetico nazionale. Già oggi l’Egitto si candida ad essere tra i principali fornitori di gas naturale del Mediterraneo. Visti i bassi prezzi del gas rispetto al petrolio e il minor impatto in termini di emissioni di gas serra, il Governo sta incoraggiamento i cittadini e i settori dell’industria e del commercio a utilizzare sempre più il gas. Il piano dell’Egitto è molto ambizioso: trasportare gas a 5,5 milioni di case per il 2015, a fronte dei 2,87 milioni del giugno 2008. L’Egitto ha tre terminali di rigassificazione (Gnl) per un totale di 14,8 milioni m3 di Gnl; 3,7 milioni m3 vanno agli Stati Uniti. Il Paese sta anche puntando sull’utilizzo del gas naturale compresso come combustibile per i veicoli di trasporto. Ciò ridurrebbe il peso del petrolio nel settore dei trasporti e, quindi, la domanda del combustibile nero. A giugno 2008, i veicoli convertiti a gas sono stati circa 12 mila.

Settore elettrico. Il Governo vuole espandere la capacità elettrica a 32 GWe entro il 2010, rispetto a 18 GWe del 2005. Il 75% dell’elettricità è prodotta dal gas, il 14% dal petrolio e il restante 11% dall’idroelettrico. L’Egitto ha in progetto di generare, entro il 2017, 500 MWe dall’energia solare, 600 MWe dall’eolico e 600 MWe dall’idroelettrico. La World Bank garantirà finanziamenti per 328 milioni di dollari.

Algeria Il consumo di energia è coperto per il 62% dal gas naturale, per il 36% dal petrolio e per l’1% dal carbone. Il Paese produce 200 milioni tep, di cui circa 50 attribuibili al petrolio e 150 al gas, valori che collocano l’Algeria al 3º posto al mondo per la produzione di gas e al 15º per il petrolio, assicurando, nel 2007, introiti per oltre 59 miliardi di dollari. La


dossier 2007 - cresciuta dal 2000 di oltre il 50% - è stata pari a 2,13 milioni b/g, di cui il 65% greggio. Per la prima volta vi è stato un calo di produzione dello 0,1%. Al ritmo attuale di sfruttamento, secondo l’ex ministro ed ex presidente della Sonatrach, Abdelmadjid Attar, non ci sarà più petrolio fra 18 anni. Dal 1986 ad oggi, la domanda di petrolio è rimasta pressoché costante, pari a circa 270 mila b/g. Vista la crescita esponenziale della produzione negli ultimi anni, l’Algeria è il principale esportatore di petrolio del Nord Africa, con 1,85 milioni b/g. Gli Stati Uniti importano il 35% delle esportazioni algerine di petrolio, i Paesi europei dell’Ocse circa il 37%: Francia 8%, Italia 7% e Spagna 6%. L’Algeria utilizza sette terminali costieri per esportare greggio, prodotti di raffineria e Gnl. L’impianto di Arzew pesa per circa il 40% dell’export totale degli idrocarburi algerini. Il Governo vuole espandere l’area portuale di Arzew, inclusa la costruzione di un complesso petrolchimico, una raffineria e un impianto di desalinazione. L’Algeria possiede un efficiente sistema di connessione degli oleodotti dai giacimenti di produzione ai terminali di esportazione. Sonatrach opera oltre 3.861 km di oleodotti connessi a terminali algerini. Inoltre, l’Algeria gestisce un oleodotto di 257 km, per 304 mila b/g, che conPetrolio. L’Algeria è un esportatore netto di petro- nette il giacimento di Amenas nel Sud-Est lio e il suo ruolo è in continua crescita. Con 12,3 dell’Algeria al terminale di esportazione di La miliardi di barili di riserve provate, è il 3º Paese Skhira in Tunisia. La riforma approvata dal dell’Africa, dietro a Libia (41,5 miliardi) e Nigeria Parlamento algerino sugli idrocarburi nel 2005(36,2 miliardi), e il 15º al mondo. Le riserve sono 2006 introduce una disposizione che permette alla locate soprattutto nell’Est del Paese. Il bacino Hassi Sonatrach di accrescere la sua partecipazione miniMessaoud contiene il 70% delle riserve totali; la ma, in tutti i contratti di ricerca, sfruttamento, raffirestante parte è nel bacino di Berkine. L’Algeria, nazione e trasporto per canalizzazione, al 51%. secondo i dati dell’United States Geological Survey, L’Agenzia di regolamentazione nazionale, Alnaft, ha il 95% di probabilità di scoprire ancora 1,7 promuove attività di esplorazione, stipula contratti miliardi di barili di petrolio, il 50% di scoprirne 6,9 nell’upstream, approva piani di sviluppo e detiene i miliardi, e il 5% di scoprirne 16,3 miliardi, con un proventi dalle tasse e dalle royalties. valore medio di 7,7 miliardi di barili. Pertanto, seb- La Sonatrach - oltre all’esercizio dei giacimenti di bene sia un produttore di petrolio dal 1956, gli ana- Hassi R’Mel, Tin Fouye Tabankort Ordo, listi industriali considerano il Paese ancora sotto Zarzaitine, Haoud Berkaoui/Ben Kahla e Ait Kheir livello d’esplorazione. La produzione di petrolio nel - possiede il più grande giacimento di petrolio

domanda interna è in crescita e si colloca intorno ai 10 milioni di tep, quantità simile a quella consumata dal Marocco. Il settore degli idrocarburi da solo contribuisce al 45% del Pil e al 60% delle entrate fiscali, ma solo al 2% dell’occupazione totale. Nel 2007, l’Algeria ha esportato idrocarburi per 48 milioni tep, con un aumento del 56% rispetto al 2006, e pari 98,3% delle esportazioni totali algerine. Il ministero dell’Energia e delle Miniere ha un programma d’investimenti di 45,6 miliardi di dollari per il periodo 2007-2011, con l’obiettivo di accrescere la produzione di petrolio, passando dal 3 al 5% l’anno nell’estrazione del greggio e raggiungere i 2 milioni di barili, e quella di gas a 85 miliardi m3/anno. L’Algeria è stato nel 2007 il nostro primo fornitore di gas, con circa 27 miliardi m3/anno, pari al 33% delle nostre importazioni (30% dalla Russia e 10% dalla Libia), e occupa il 9° posto tra i nostri fornitori di greggio, con quasi 2 milioni di tonnellate. Nel 2008, si sono aggiunti i 6,5 miliardi m3/anno per i contratti entrati in vigore con quattro società (Edison, Mogest, Begas e World Energy), nell’ambito della prima fase di estensione della capacità del gasdotto Transmed, che passerà da 27 a 33,5 miliardi m3/anno nel 2012.

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Risk dell’Algeria: Hassi Messaoud. Esso è locato nel centro del Paese e produce circa 450 mila b/g. L’obiettivo della Sonatrach è di incrementare la produzione a 600 mila b/g nei prossimi anni. Molti operatori stranieri stanno investendo nella produzione di petrolio algerino. Il principale è Anadarko, con una capacità di produzione di 500 mila b/g, e sta sviluppando sette nuovi giacimenti di petrolio e gas nel bacino di Berline. L’Eni opera nel progetto Rhourde Oulad Djemma nel Sud-Est dell’Algeria per sei giacimenti satellite con una capacità di produzione di 80 mila barili/giorno. Altri investitori stranieri sono: Amerada Hess, Bho-Billiton, BP, Repsol, Shell, Statoil e Total. La capacità di raffinazione, pari a 500 mila b/g - 37° posto al mondo - aumenterà con la costruzione di una nuova raffineria con capacità di 300 mila b/g.

Gas naturale. Nel 2004, la produzione di petrolio ha ri-superato quella di gas. Il trend si era invertito per la prima volta nel 1997. Nel 2007, la produzione è stata di 74,7 Mtep, -1,7% rispetto al 2006, con un consumo di 22 Mtep, +2,7% rispetto al 2006. Il Governo incoraggia l’uso domestico di gas, che rappresenta il 62% dell’energia consumata nel Paese. Il restante gas è esportato, principalmente in Europa e negli Usa. Nel 2006, l’Algeria ha esportato 62 miliardi m3 di gas - 60% via gasdotti e 40% come Gnl - e occupa il 4º posto al mondo, dopo Russia, Canada e Norvegia. La capacità d’esportazione di gas naturale della Sonatrach è di circa 45 miliardi m3 e dovrebbe salire a 85 nel 2010; quella di Gnl è di circa 27 miliardi m3. Gli introiti dalle esportazioni di gas, tra i 15 e i 18 miliardi di dollari l’anno, rappresentano il 30% delle entrate dalla vendita di idrocarburi. La regione di In Salah è cruciale per i piani di aumento della produzione di gas. I giacimenti della regione potrebbero produrre fino a 25 milioni m3/giorno. L’Enel e il consorzio In Salah Gas hanno siglato nel 1997 accordi con per la fornitura di 11 mila m3/giorno: la produzione è iniziata nel 2004. Clienti transeuroperi sono la Turchia e i Paesi del 48

Nord Africa. Ulteriori progetti per la produzione di gas naturale sono in atto nella provincia Illizi, SudEst dell’Algeria, vicino alla frontiera libica. L’Algeria ha riserve pari a 4,52 mila miliardi m3, il 31% del continente. È l’8º Paese al mondo per riserve di gas, il 2º dell’Africa, dopo la Nigeria, e il secondo tra i Paesi Opec, dietro l’Iran. Secondo analisi geologiche, in assenza di scoperte significative, il gas - 100 miliardi m3 destinati all’esportazione, oltre ai 20 miliardi m3 per soddisfare la domanda interna - potrebbe esaurirsi tra 25 anni. Secondo il ministro dell’Energia Khelil, invece, le riserve accertate non si esauriranno prima del 2040 e porteranno nelle casse dello Stato, da oggi al 2040, a prezzi costanti, introiti per circa 55 miliardi di dollari l’anno. L’Algeria è il 1º produttore al mondo di Gnl e il 4º esportatore, dietro Indonesia, Malaysia e Qatar, con circa il 13% del totale. I principali importatori di Gnl algerino sono: Francia, Spagna, Turchia, Usa (15%) e Belgio. In termini di strategia industriale, la Sonatrach - con un fatturato annuo di 61,3 miliardi di dollari, in continua crescita - ha l’obiettivo di internazionalizzare le sue attività, realizzando, nel 2015, il 15% del suo fatturato all’estero. Inoltre, intende aumentare del 31% le capacità d’esportazione di gas, via gasodotti e metaniere, per raggiungere gli 85 miliardi m3 nel 2011-2012. Sono in corso trattative con il gruppo americano Sempra Energy, in grado di aprire alla Sonatrach il mercato americano. In più, Sonatrach - che esporterà circa il 10% del consumo di gas europeo attraverso i gasdotti verso l’Italia e la Spagna e per nave verso la Francia e l’Inghilterra – ha il progetto di esportare il 50% del Gnl algerino con proprie metaniere. Il principale giacimento dell’Algeria è Hassi R’Mel, scoperto nel 1956, con una capacità di circa un quarto della produzione totale di gas; è la base del sistema nazionale dei gasdotti, essendo collegato al terminale GNL sul mar Mediterraneo. Ci sono altre due connessioni di gas tra l’Algeria e l’Europa: la Transmed (Trans-Mediterranean), di 1.078 km, per 27 miliardi m3/anno, da Hassi R’Mel


dossier alla Sicilia, via Tunisia; e la Maghreb-Europe Gas (Meg), di 1.609 km, per 23 mila/giorno, gestito da un consorzio internazionale - guidato dalla spagnola Enagas, dalla marocchina Snpp e dall’algerina Sonatrach - collega Hassi R’mel con Cordoba, via Morocco, dove si connette con la rete gas della Spagna e del Portogallo. Il gasdotto Medgas - nato da un consorzio tra la spagnola Cepsa e la Sonatrach lungo 193 km, collegherà Beni Saf ad Almeria (Spagna), con una possibile estensione alla Francia. Il gasdotto entrerà in esercizio nel 2009 con una capacità di 8 miliardi m3/anno e un costo di 900 milioni di euro. Il gasdotto Galsi - accordo tra Sonatrach ed Enel - collegherà Gassi R’Mel e El Kal, in Algeria, per raggiungere Cagliari con una sezione sotto l’acqua. Avrà una capacità di 8 miliardi m3/anno. Nel novembre 2006, Algeria e Italia hanno firmato ad Algeri cinque accordi di commercializzazione di 8 miliardi m3/anno di gas: 2 miliardi ciascuno a Sonatrach, Enel e Edison, 1 miliardo a Hera e 500 milioni ciascuno per World Energy e Ascopiave. Il gasdotto Trans-Saharan (Nigal) - consorzio tra Sonatrach e Nigerian National Petroleum Corporation (Nnpc) del 2002 sarà lungo 4.128 km (137 km in territorio nigeriano, 841 in Niger, 2.310 in Algeria), fino alla costa del Mediterraneo, e dovrebbe essere inaugurato nel 2015. Il costo del progetto - che prevede il trasporto di 20-30 miliardi m3/anno e la costruzione di 18 stazioni di pompaggio per un gasdotto di 56 pollici - si stima superiore ai 10 miliardi di dollari.

Kahrama Arzew e Kahraba Skikda - ha consentito l’aumento del 17,3% della produzione nazionale commercializzata e rappresenta un inizio verso la liberalizzazione del settore. A fine 2006, la capacità installata nazionale era ripartita: Sonatrach Spe 6.744 MWe (85%), Kahrama 345 MWe (4,3%), Sks

L’Algeria è l’8º Paese al mondo per riserve di gas, il 2º dell’Africa, dopo la Nigeria, e il secondo tra i Paesi Opec, dietro l’Iran. Secondo analisi geologiche potrebbe esaurirsi tra venticinque anni. Per il governo non terminerà prima del 2040

850 MWe (10,7%). Nel 2007 sono stati firmati cinque contratti per un totale di 800 milioni di dollari tra Sonatrach e tre società straniere - l’italiana Ansaldo, la francese Alstom e l’americana General Electric - per la costruzione nel 2009-2010 di cinque nuovi impianti elettrici a Batna, Larbaa, Relizane, Algeri e Annaba. La Sonelgaz, che opera in regime di monopolio dal 1996, è fortemente indebitata (1,5 miliardi di euro) e non in grado di finanziare il piano di sviluppo elettrico 2007-2010 del costo annuo di 2 miliardi di dollari, per soddisfare l’aumento della domanda d’elettricità, destinata a crescere da oggi al 2011 del 7% annuo. L’arrivo di investitori stranieri è pertanto necessario e auspicato dal governo. Dall’altro lato, l’Algeria intende rafforzare il proprio ruolo di esportatore di energia Settore elettrico. Il tasso di elettrificazione in elettrica, grazie soprattutto a due progetti d’interAlgeria si aggira attorno al 97%, mentre quello di connessione Algeria-Spagna e Algeria-Italia, con penetrazione del gas ha raggiunto il 38%. Nel 2009, cavi sottomarini che correranno lungo i gasdotti secondo stime della Sonelgaz, il 57% delle famiglie Medgas e Galsi, con una capacità di generazione di sarà collegata al gas. L’entrata in funzione degli 2.000 MWe ciascuno. L’Algeria vuole produrre il impianti di due nuovi produttori indipendenti - 5% del suo consumo d’elettricità con le energie rin49


Risk

L’economia libica si basa prevalentemente sulla produzione e l’esportazione di petrolio e di gas naturale che contribuiscono al 72% del Pil, al 93% delle entrate di bilancio e al 95% delle esportazioni. Il fabbisogno energetico è coperto per il 71% dal greggio e per il 29% dal gas

Italia si è assestato nel 2008, in termini monetari, a 14 miliardi di euro, facendo registrare un incremento del 10,6% rispetto al 2007.

Petrolio. Il Governo di Tripoli, attraverso la National Oil Company (Noc), ha l’obiettivo di aumentare la produzione di petrolio entro il 2013 del 40%, da 1,8 milioni di b/g a 3 milioni, soprattutto attraverso l’attività di esplorazione. La Libia è il 1º Paese dell’Africa per riserve provate di petrolio con 41,5 miliardi di barili, pari al 35,3% delle riserve mondiali. L’80% delle riserve sono locate nel bacino Sirte, che produce il 90% dell’output di petrolio. Secondo studi di settore, il Paese è ancora altamente inesplorato e solo il 25% della Libia è coperto da accordi di esplorazione con compagnie petrolifere. La sotto-esplorazione del Paese è connovabili (centrali ibride solari-diesel e eoliche) entro seguenza delle sanzioni imposte dall’Onu e dagli il 2010. Con la creazione di una joint-venture tra Usa, nonché da un regime fiscale stringente imposto Sonelgaz e l’ufficio marocchino dell’elettricità dal Governo libico alle compagnie petrolifere este(OME), la Sonelgaz conta di esportare l’eccesso di re. Da quando l’Onu e gli Usa hanno tolto le sanzioelettricità in Spagna via Marocco. Rabat sta infatti ni alla Libia, nel 2003 e 2004, le industrie petroliferealizzando 400 KWe che si collegheranno a una re estere hanno aumentato gli investimenti nellinea della Sonelgaz ad Ovest del Paese. Il progetto l’esplorazione di giacimenti di petrolio e gas. è allo studio. Fondamentali per gli obiettivi di aumento della produzione e di sicurezza energetica saranno gli inveLibia stimenti esteri. Ciò anche perché i giacimenti gestiIl fabbisogno di energia è coperto per il 71% dal ti dallo Stato hanno un tasso di produzione negativo petrolio e per il 29% dal gas. L’economia libica si del 7-8%. La Libia è considerata un’area fortemenbasa prevalentemente sulla produzione e l’esporta- te attrattiva per gli investimenti esteri, visto il basso zione di petrolio e di gas naturale che contribuisco- costo dell’estrazione del petrolio (anche meno di 1 no al 72% del Pil, al 93% delle entrate di bilancio e dollaro a barile in certi giacimenti), l’alta qualità del al 95% delle esportazioni. In virtù delle rendite suo petrolio e la vicinanza ai mercati europei, sempetrolifere la Libia ha potuto avviare un piano di pre più assetati di energia. Inoltre, la Libia sta adotsviluppo quinquennale di circa 140 miliardi di dol- tando un sistema normativo per aprirsi all’economia lari. Nel solo 2007 sono stati stanziati fondi per di mercato. L’ultimo rapporto del Fmi sulla Libia ha quasi 20 miliardi. Con l’entrata a regime del gasdot- evidenziato i passi avanti nel processo di liberalizto di Mellitah che trasporta gas dalla Libia in Sicilia, zazione. Come l’Algeria, anche la Libia ha visto attraverso un metanodotto sottomarino di oltre 580 negli ultimi 20 anni aumentare la forbice produziokm, la Libia è passata dal 34° al 7° posto nella gra- ne/consumo a favore della produzione. Ciò ha conduatoria dei Paesi fornitori dell’Italia. Il valore sentito di aumentare le proprie riserve e di puntare aggregato delle importazioni di gas e petrolio in con una produzione di 1,850 milioni b/g e un consu50


dossier mo di 284 mila b/g - all’export di petrolio per migliorare gli indicatori macroeconomici nazionali. La Libia esporta 1,525 milioni b/g, principalmente in Europa: Italia (495 mila b/g, 38% dell’export libico), Germania (253 mila b/g), Spagna (113 mila b/g) e Francia (87 mila b/g). Gli Usa e la Cina contano rispettivamente per il 6% e il 5% delle esportazioni libiche. La Repsol Ypf ha annunciato nel 2005 di aver trovato un deposito ricco di petrolio nel bacino di Murzuq. Si aspetta un over-produzione di 100-120 mila b/g. Sempre nel bacino di Murzuq c’è il giacimento Elephant dell’Eni, 748 km a Sud di Tripoli. Il giacimento ha iniziato la produzione nel 2004 e produce circa 130 mila b/g. I giacimenti della Waha Oil Company’s (Woc) producono circa 350 mila b/g, ma sono in fase calante, visto che nel 1969 producevano 1 milioni b/g e 400 mila nel 1986. Il settore della raffinera soffre ancora del periodo delle sanzioni. La Risoluzione Onu 883 dell’11 novembre 1993 proibiva alla Libia d’importare equipaggiamenti di raffineria. Il paese ha cinque raffinerie (Ras Lanuf, Az Zawiya, Tobruk, Brega e Sarir) con una capacità complessiva di 38 mila b/g. Inoltre, la Libia opera in Europa con il braccio d’oltremare Tamoil, che permette al paese di essere un distributore diretto di prodotto di raffineria in Italia, Germania, Svizzera ed Egitto.

marino Greenstream (75% di proprietà dell’Eni), che esporta il gas in Sicilia, per poi dirottarsi in Europa. Tale gasdotto, insieme al Western Libyan Gas Project (Wlgp) - joint venture paritaria tra Eni e Noc - hanno permesso alla Libia di aumentare in modo esponenziale l’esportazione di gas in Europa. Il consumo di gas nel 2006 è stato 6,39 miliardi m3, di molto inferiore alla produzione. Ciò rende la Libia un esportatore netto di gas. Le esportazioni nel 2007 sono state pari a 9,9 miliardi m3. Per aumentare la produzione, il marketing e la distribuzione di gas, la Libia sta spingendo per incrementare la partecipazione e gli investimenti esteri ai programmi nazionali del gas. Eni e Noc hanno firmato un accordo per lo sviluppo di progetti congiunti per la produzione di gas e petrolio in Libia. Si tratta di un impegno di circa 28 miliardi di dollari per 10 anni, le cui scadenze sono al 2042 per il petrolio e al 2047 per il gas. Tale accordo prevede un maggiore coinvolgimento del Gruppo Eni nello sfruttamento dei giacimenti petroliferi e di gas in Libia con un raddoppio della produzione di gas ad oltre 16 miliardi m3/anno. Ciò comporterà anche l’ampliamento della capacità di trasporto verso l’Italia del gasdotto Greenstream di 3 miliardi m3/anno, nonché la costruzione di un impianto di liquefazione di gas da 5 miliardi m3/anno. Inoltre, l’Eni ha proposto di connettere le riserve di gas di Egitto e Libia Gas naturale. L’espansione della produzione di gas all’Italia attraverso un gasdotto. Entrambi i Paesi è una priorità strategica. Ciò per due ragioni. Primo, africani hanno già un accordo per unire le proprie la Libia punta a usare più gas per il fabbisogno reti di gas e le compagnie Noc ed Egyptian General nazionale, liberando più petrolio per l’export. Petroleum Corporation hanno creato una joint venSecondo, ha vaste riserve di gas naturale e intende ture “Arab Company for Oil and Gas Pipelines” aumentarne l’export, soprattutto in Europa. Le (Acog) per la costruzione di due gasdotti: uno per riserve provate di gas sono 1,50 mila miliardi m3, 4º trasportare gas dall’Egitto alla Libia e un altro per posto in Africa, dopo Nigeria, Algeria ed Egitto. I trasportare petrolio libico ad Alessandria in Egitto giacimenti principali sono: Attahadi, Defa-Waha, per attività di raffinazione e consumo. Le società Hatiba, Zelten, Sahl e Assumud. La produzione di italiane Edison Gas e Energia Gas hanno stipulato gas della Libia è cresciuta negli ultimi anni. Nel accordi “take or pay” per acquisire rispettivamente 2006, la produzione è stata pari a 14,8 miliardi di 4 miliardi m3/anno e 2 miliardi m3/anno di gas, per m3, più di due volte quella del 2005. Ciò grazie il mercato italiano. Altri 2 miliardi m3/anno sono all’entrata in esercizio, nel 2004, del gasdotto sotto- prodotti dalla Wlgp sia per il mercato interno libico, 51


Risk sia per l’esportazione in Tunisia. Tunisia e Libia hanno stipulato una joint venture per la costruzione di un gasdotto dall’area Melitah alla città tunisina Gabes. Il gasdotto dovrebbe entrare in esercizio nel 2010. Nel 1971, la Libia era il 2º paese al mondo per esportazione di Gnl, dopo l’Algeria. Da allora, il livello di esportazioni è rimasto pressoché stabile, soprattutto a causa di limiti tecnici che non permettono alla Libia di estrarre gas di petrolio liquefatto (Gpl) dal gas naturale. Con la cancellazione delle sanzioni, industrie straniere, come la Shell e la spagnola Repsol Ypf, stanno investendo in progetti Gnl.

Settore elettrico. La domanda interna di elettricità è in forte aumento. La rete elettrica della Libia è di circa 33.789 km. Nel 2007, la capacià installata era di 5 GWe, con una produzione di 23,98 miliardi KW/h e un consumo di 20,71 miliardi KW/h. Occorrono ingenti investimenti per raddoppiare la capacità di generazione elettrica al 2010. Inoltre, la Libia sta cercando di aumentare i collegamenti con le reti della Tunisia e dell’Egitto. Il 15% del gas prodotto è utilizzato per la generazione di elettricità. La maggior parte delle centrali elettriche sono state convertite da petrolio a gas naturale e le future centrali andranno a gas. Ciò permetterà a Tripoli di aumentare l’export di petrolio. La società di stato General Electrical Libyan Co. (Gecol) sta costruendo nuove centrali elettriche. Nelle aree remote del Paese, la Libia ha in progetto di generare elettricità con l’eolico e il solare.

Il futuro energetico della Libia. Il Governo libico ha lanciato un piano di sviluppo del settore energetico ed elettrico per oltre 8 miliardi di euro nei prossimi 5 anni. Tutto il progetto è gestito dalla Gecol. Sono state avviate trattative con la Hyundai Engineering & Construction Co. per la costruzione di una centrale elettrica. È stato finalizzato con l’Eni il raddoppio della centrale di Mellitah. Continuano i negoziati con società americane per 52

la costruzione di una raffineria vicino al confine con la Tunisia. Per i prossimi anni è prevista la costruzione di una centrale elettrica da 1.400 MWe tra Bengasi e Tripoli e la costruzione di 42 sub-stazioni per la distribuzione principalmente tra Bengasi, Tripoli e Sabratha. Il programma comprende la costruzione di reti di fornitura con la Tunisia. La società sudcoreana Daewoo Engineering and Construction ha dichiarato di aver ricevuto 845 milioni di dollari per la costruzione di due centrali elettriche a ciclo combinato a Bengasi e a Misurata con capacità di 750 MWe ciascuna. Il piano di sviluppo delle fonti elettriche comprende la costruzione di altri sistemi di produzione e di trasporto di elettricità per una capacità complessiva di oltre 7mila MWe con il sistema di combustione a vapore, gas e combinati. La Libia sta sviluppando processi di alta tecnologia. Il Governo Libico ha concluso accordi con la Francia per il trasferimento di tecnologia nucleare a scopi pacifici per la creazione di grandi impianti di desalinizzazione dell’acqua di mare che dovrebbero sorgere presso la città di Sirte; e con la Spagna, per un importo di 5 miliardi di dollari per l’energia. Interessante è il progetto per la creazione di una nuova città dedicata alla realizzazione di studi e ricerca su energia (petrolio e gas) e tecnologia in generale, che dovrebbe sorgere presso Sabrata su un’area di 528 ettari per un investimento totale di 3,8 miliardi di dollari.

Marocco Il Marocco ha basse disponibilità di risorse fossili. Produce solo il 3% del suo fabbisogno. Le risorse di idrocarburi si limitano al carbone estratto a Djérada e al petrolio di Sidi Kacem e Sidi Rhalem, che coprono in minima parte il fabbisogno energetico del Paese. Sono stati individuati altri giacimenti nella regione di Essaouira e lunga la costa dell’Oceano Atlantico, che però necessitano di ingenti investimenti finanziari e nuovo know-how, oltre che di tempo. Il Marocco dipende per il 97%


dossier dalle importazioni delle risorse energetiche, di cui il 60% (6,1% del Pil 2008) riguarda il petrolio e i suoi derivati. I principali Paesi di provenienza di tali importazioni sono: Arabia Saudita per il 48%, Iran per il 39% e Russia 13%. Il consumo di energia nel 2008 è aumentato del 6,1% rispetto al 2007. La domanda è soddisfatta per il 61% dal petrolio, il 25,8% dal carbone, il 3,7% dal gas naturale, il 7,5% dall’elettricità importata da Algeria e Spagna. Nel 2008, nonostante l’aumento del costo del greggio su scala mondiale, le importazioni di greggio sono salite del 17%, pari a 210 mila b/g. A fronte di una produzione di 3,8 mila b/g, il consumo è stato circa 190 mila b/g. Il Marocco si trova quindi oggi nella necessità di dover cambiare la propria politica energetica, di diversificare il mix produttivo, cercando di ridurre la dipendenza dall’estero e dagli idrocarburi, e di puntare alla liberalizzazione progressiva del sistema energetico nazionale per meglio integrarsi con il mercato euro-mediterraneo. Per quanto riguarda i rapporti con gli altri Paesi, la strategia del governo punta a rafforzare l’interconnessione con la Spagna e con l’Algeria e ad intensificare i rapporti con l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi. L’ambizione del Marocco è di integrare il proprio mercato dell’energia con il mercato europeo, in particolare per quanto riguarda l’elettricità e il gas. Nel 2008, il Marocco ha beneficiato dall’Ue di un finanziamento di 43 milioni di euro nell’energia. La strategia adottata dal Ministero dell’Energia mira a garantire la disponibilità e l’accessibilità di energia al minor costo possibile e a diversificare le fonti sfruttando le caratteristiche geofisiche del Paese: elevata irradiazione solare, coste dotate di ottima velocità del vento; ricorso, nel lungo periodo, all’elettronucleare, alla valorizzazione dei scisti bituminosi (di cui il Marocco è tra i primi produttori al mondo), alla biomassa (sfruttando le zone boschive del Paese), all’intensificazione della ricerca degli idrocarburi. Gli investimenti

Il Marocco dipende per il 97% dalle importazioni delle risorse energetiche, di cui il 60% (6,1% del Pil 2008) riguarda il petrolio e i suoi derivati. I principali Paesi di provenienza di tali importazioni sono: Arabia Saudita per il 48%, Iran per il 39% e Russia 13%. Il consumo di energia nel 2008 è aumentato del 6,1% rispetto al 2007 globali per il periodo 2009-2015, per le esplorazioni petrolifere e valorizzazione dei scisti bituminosi, ammontano a 180 milioni di euro. Nel 2008, gli investimenti per la ricerca del petrolio sono stati circa 56 milioni di euro. Fino a oggi questa strategia ha consentito di attirare 26 società petrolifere straniere, principalmente inglesi, americane, spagnole, danesi e canadesi. In totale, tra il 2007 e il 2008, sono stati firmati 9 accordi petroliferi. Nel complesso sono 89 i permessi di ricerca di cui 52 onshore e 37 offshore. Il gas - la cui produzione è pari a 60 miliardi m3/anno, tutto consumato potrebbe essere un’alternativa al petrolio e al carbone, qualora l’approvvigionamento sia offerto a prezzi competitivi sfruttando i gasdotti MaghrebEuropa. Il governo ha elaborato nuovi progetti di investimento per il settore energetico, per il periodo 2008-2015, per 9 miliardi di euro, in larga misura utilizzati per le nuove centrali a carbone, per la 53


costruzione di parchi eolici, per incentivare un utilizzo piÚ intensivo delle energie alternative nell’industria e nella circolazione degli autoveicoli con carburanti


dossier più puliti, per facilitare il ricorso all’energia solare e per mitigare la tassazione che grava su taluni prodotti energetici. Per questo, Rabat ha iniziato a stipulare una serie di accordi di cooperazione in materia di energie rinnovabili, come la costruzione di 10 grandi e 50 medio-piccole dighe, per cui il Secrétariat d’Etat Chargé de l’Eau et de l’Environnement ha stanziato per il prossimo quinquennio 2 miliardi di euro. Il piano energetico nazionale prevede ulteriori sviluppi nell’energia fotovoltaica attraverso progetti sperimentali per la creazione di microcentrali per favorire la distribuzione di energia fotovoltaica a livello locale fra privati. L’obiettivo è passare dall’attuale 4% del consumo elettrico nazionale da rinnovabili al 12% nel 2012, pari a circa il 20%. Inoltre, l’Accordo di Associazione concordato nell’ambito della politica europea di vicinato potrebbero favorire forme di cooperazione più strette con l’Ue attraverso l’adesione alle reti energetiche trans-europee. Nel settore dell’elettricità, il Piano Nazionale d’Azione Prioritaria 2008-2012 prevede la costruzione di oltre 2.500 km di nuove linee elettriche, con un impegno complessivo di un miliardo di euro, e la costruzione di due centrali elettriche (Safi e Jorf Lasfar). Nel 1995 è stato lanciato il Programme d’Electrification Rurale Globale (PERG), con l’obiettivo di rendere l’elettricità disponibile, entro il 2010, nell’80% delle zone rurali. L’obiettivo è stato raggiunto nel 2007, per un totale di 35 mila villaggi e 12 milioni di persone. Nel 2008 ha superato la soglia del 90%.

Tunisia La Tunisia ha come ricchezze del sottosuolo il petrolio e il gas. Tuttavia, la limitata superficie del territorio tunisino non permette né nuove attività di esportazione dei giacimenti, né autonomia energetica. La Tunisia ha prodotto 98 mila b/g di petrolio (+40,2% rispetto al 2006). La domanda di petrolio superiore alla produzione di circa 8 mila b/g e le scarse riserve petrolifere, pari a 400 milioni di bari-

li, fanno della Tunisia un importatore netto di petrolio, con circa 90 mila b/g di petrolio. Inoltre, anche il settore del gas registra una tendenza in negativo, anche se meno critica rispetto a quella del petrolio. Il consumo di gas è in costante crescita, pari a 3,9 miliardi m3/anno, a fronte di una produzione di 2,6 miliardi. Le riserve provate di gas sono pari a circa 65 miliardi m3. Ciò non fa della Tunisia un importatore netto di gas, ma neanche permette al Governo di puntare sul settore gasiero come alternativa meno costosa e meno inquinante al petrolio. Il settore elettrico è quello che evidenzia meno problematiche, almeno nel breve periodo. La produzione di elettricità è stata di 12,7 miliardi KW/h, contro un consumo di circa 11 miliardi KW/h. Addirittura, la Tunisia nel 2007 ha potuto esportare elettricità per circa 135 milioni KW/h. L’attuale politica energetica di Tunisi è di aumentare la diversificazione del mix energetico, riducendo la propria dipendenza dal petrolio, attraverso lo sviluppo di un programma nucleare civile e il ricorso a fonti idriche alternative, attraverso la desalazione dell’acqua marina. Il programma idrico è di straordinaria importanza, visto che la maggioranza del territorio della Tunisia è desertico e che potrebbe essere utilizzato da tutti i paesi del Nord Africa. La Tunisia ha intrapreso la liberalizzazione del proprio commercio con l’estero nel 1990, divenendo membro del Gatt. Il Paese è ancora, secondo l’Heritage Foundation Institute, “un’economia principalmente protetta”. Tra le priorità del governo, definite nell’XI Piano quinquennale 2007-2011 di sviluppo economico e sociale, vi è proprio l’integrazione regionale e internazionale. Tunisia e Ue hanno concluso il 1 gennaio 2008 la fase di abbattimento tariffario prevista dall’Accordo di Associazione. La Tunisia è entrata a pieno titolo nell’area di libero scambio con i Paesi Ue per i prodotti industriali. La Dichiarazione di Barcellona prevede l’instaurazione di una zona di libero scambio Euromediterranea nel 2010. 55


Risk GLI EDITORIALI/MICHELE NONES

Se decolla l’export militare

L’industria italiana della sicurezza, difesa e aerospazio sta vivendo una fase di forte espansione sul mercato internazionale, tornando ad occupare una fetta di mercato che corrisponde al peso complessivo del nostro Paese. I fattori di questo successo possono essere così schematizzati: la forza che può oggi esprimere la nostra industria, e in primo luogo Finmeccanica, dopo il processo di concentrazione, rafforzamento e internazionalizzazione attuato durante questo decennio; la disponibilità di prodotti validi, sviluppati con la collaborazione e testati dalle Forze Armate italiane; il maggiore supporto assicurato da governo e amministrazioni; la spinta a trovare sbocchi alternativi a un mercato interno che si è andato progressivamente riducendo. Nel 2008 le autorizzazioni all’esportazione di prodotti militari hanno superato quota 3 miliardi di euro, con un incremento di quasi il 30%. I dati sono stati pubblicati a fine marzo nel Rapporto del presidente del Consiglio sui lineamenti di politica del Governo in materia di esportazioni militari, il documento che dall’anno scorso viene reso pubblico sul sito web di Palazzo Chigi. Si può così evitare di dover aspettare la pubblicazione della Relazione fornita al Parlamento in base alla legge 185/90 e di perdersi in oltre un migliaio di pagine di inutili dettagli imposti dalla legge: uno spreco di energie e di soldi sul quale sarebbe utile riflettere. Con questo Rapporto l’Italia si allinea, per altro, con la prassi di tutti gli altri Paesi europei che predispongono analoghi rapporti annuali, indispensabili per conoscere caratteristiche e dimensioni del fenomeno esportativo e per poter esercitare il controllo parlamentare sulle linee direttrici in termini di Paesi di destinazione e di tipologia di prodotti e relativi valori. Il 62% (3,6 miliardi) è dovuto a 21 autorizzazioni di importo superiore ai 50 milioni. Fra queste primeggia il contratto per la fornitura di 53 elicotteri da combattimento A 129 di AgustaWestland alla Turchia per un valore di oltre un miliardo di euro, a cui 56

si aggiunge la partecipazione alla fornitura degli elicotteri medi da trasporto Nh 90 ad Australia e Nuova Zelanda per quasi 200 milioni. Per Alenia Aeronautica pesano i velivoli da sorveglianza marittima Atr 42 a Nigeria e Libia per un centinaio di milioni e per Fincantieri la nave rifornitrice per l’India per 140 milioni. La classifica delle imprese esportatrici vede, conseguentemente, al primo posto AgustaWestland con 1,5 miliardi pari al 50% del totale movimentato, seguita da Alenia Aeronautica con 280 milioni pari al 9 %. Fra i Paesi di destinazione delle autorizzazioni al primo posto vi è la Turchia con 1, 1 miliardi pari al 36%, seguita da Regno Unito con l’8%, India 5,7%, Francia 4,3%, Usa e Australia 4,1%. In totale i Paesi Nato/Ue coprono il 70% delle autorizzazioni a conferma del fatto che le linee direttrici della nostra politica esportativa sono indirizzate verso i Paesi alleati. Il rafforzamento dell’industria italiana sul mercato internazionale è confermato dal valore delle esportazioni effettuate, 1,8 miliardi di euro con un incremento del 40%. È un dato importante perché se le autorizzazioni evidenziano la capacità di acquisire ordini, le movimentazioni indicano il lavoro realmente effettuato nell’anno. Adesso il problema è mantenere le posizioni raggiunte. Per raggiungere questo obiettivo è indispensabile ammodernare radicalmente il nostro sistema di controllo sulle esportazioni, alleggerendolo da troppo numerose incombenze inutili ed europeizzandolo non solo nella forma, ma anche nella sostanza. Il rispetto degli impegni assunti in sede europea in questo settore ci offre l’occasione per evitare un ulteriore “revisione” ad una macchina che dimostra ormai tutti i suoi anni e per costruirne una nuova adeguata al nuovo scenario di riferimento. Ed è un’operazione a costo zero: serve solo un po’di coraggio per vincere le invitabili resistenze corporative della casta burocratica, sempre preoccupata di perdere qualche piccola fetta di potere.


editoriali GLI EDITORIALI/STRANAMORE

I sogni di Obama naufragano in Corea del Nord Certo Barack Obama non poteva scegliere un momento peggiore per annunciare il suo duplice piano di disarmo, tanto affascinante quanto irrealistico e caratterizzato da una micro-visione politica che tiene conto della politica interna più che delle realtà strategiche. Già, mentre il presidente statunitense proponeva di mettere al bando le armi nucleari, novella opzione zero, affiancata dal rilancio del trattato contro i test nucleari e aggiungeva che se un tale risultato sarà raggiunto gli Usa faranno a meno dei propri programmi di difesa antimissile, ecco che a gustare le feste è arrivata la Corea del Nord, la quale, incurante di tutto e di tutti, ha pensato bene di lanciare un bel missile balistico a raggio intermedio, il Taepo Dong 2, travestito, come in precedenza, da vettore spaziale per un improbabile mini satellite per telecomunicazioni. Poco conta che il lancio, al solito, si sia risolto in un insuccesso, con gli stadi del razzo che piombano in mare, portando con se il satellite (che naturalmente secondo Pyongyang funziona perfettamente e trasmette nell’etere canzoni patriottiche), quello che conta è che la minaccia missilistica non è solo quella targata Iran. Minaccia missilistica che si accompagna a quella rappresentata dalle armi nucleari, ma senza dimenticare le altri armi per la distruzione di massa, chimiche e biologiche. Non solo, il secondo aspetto interessante è che, dopo lustri e lustri di promesse, elementi del sistema di difesa antimissile statunitense stanno diventando operativi, non solo negli Usa, ma anche presso gli alleati che hanno deciso di prendervi parte, come è il caso del Giappone, il cui sistema navale Aegis/Standard SM-3 era pronto al battesimo del fuoco. È sicuramente lodevole auspicare un futuro senza armi atomiche, così come un futuro senza malattia, povertà, miseria, guerre, ma è altrettanto utopistico. Intanto perché le armi, qualunque arma,

dopo che sono entrate in scena non possono più essere “disinventate”, al massimo spariscono solo perché soppiantate da qualcosa di più micidiale. Chi la bomba la ha, se la tiene, anche perché rappresenta una soluzione abbastanza semplice e relativamente costosa per crearsi un deterrente, per contare qualcosa, specie se si è poi così pazzerelli da far pensare che le proprie armi atomiche potrebbero effettivamente essere impiegate. Ci sono poi Paesi, come la Russia, che solo grazie alle atomiche continuano ad essere considerate grande potenze o, come Israele, che pur tenendo la sordina sul proprio arsenale, non ha neanche bisogno di agitare lo spettro nucleare per far capire a tutti i propri nemici di essere pronta a un olocausto qualora la propria sopravvivenza fosse davvero messa a repentaglio. Anche l’Iran sa bene quanto aumenterebbe la sua rilevanza nello scacchiere internazionale se arrivasse alla bomba. Le bombe sono anche un “equalizzatore”: chi le possiede per difendersi/contare non ha bisogno di dotarsi di un arsenale convenzionale, molto più costoso, basta avere l’arma atomica o alimentare il ragionevole dubbio circa l’esistenza di tali armi. Ma con le bombe fuori gioco…saranno le armi convenzionali a stabilire le gerarchie internazionali e nessuno può o potrà mai contestare la leadership Usa in questo campo. Gli Usa sono superpotenza con o senza atomiche, gli altri…no. Quanto allo scudo antimissile, per un presidente democratico si tratta di un anatema. Però, dopo decenni di investimenti e flop ora diversi programmi antimissile Usa diventano una realtà operativa. E sono in tanti a volere qualcosa di simile: da Israele all’India, dal Giappone alla Corea del Sud, dagli Uae alla Turchia. Paesi che temono i missili a testata nucleare, certo, ma che non dimenticano che i missili possono portare anche testate chimiche e biologiche. 57


S

CENARI

ISRAELE

L’ISOLAMENTO DIPLOMATICO DI GERUSALEMME

S

DI JOHN

R. BOLTON

ebbene il loro quartier geneCommissione per i Diritti Umani, rale sia ubicato nella stessa organo delle Nazioni Unite smaczona in cui trovano spazio catamente anti-israeliano, è stato alcuni dei più ingegnosi talenti teasostituito dal Consiglio per i Diritti trali del mondo, le Nazioni Unite Umani di recente creazione. Ma, preferiscono confortanti, scialbe e senza che la cosa destasse scalpotediose ripetizioni ad interessanti, re o meraviglia da parte di alcuno, inaspettati e drammatici colpi di la nuova agenzia si è rivelata una scena. E ciò risulta particolarmente mera prosecutrice dell’azione vero nel momento in cui si discute della vecchia Commissione, in di Israele, sempre costretto ad quanto ha dedicato buona parte Sul Vecchio continente, interpretare il ruolo del cattivo e dei propri lavori alla formulazioormai in declino, non è più per il quale tutte le vicende di cui ne di esplicite critiche a danno di possibile fare affidamento. è protagonista si concludono in Ma Israele non potrà mai fare Israele o alla definizione di cona meno degli Stati Uniti. modo infausto. ferenze quali la Durban II, una Per uscire da questa inerzia Così, ogni anno l’Assemblea zona di fuoco libero in cui serve una nuova strategia: Generale delle Nazioni Unite dispiegare tutta la propria artiabbandonare l’Europa a Medioriente, e gurdare approva ad ampia maggioranza glieria politica nei confronti di Asia e Africa risoluzioni palesemente a danno di Tel Aviv. Israele, spesso con i soli voti conQueste ed altre simili mosse trari di Israele stesso, degli Stati Uniti e di un fede- sono diventate così scontate da destare ben poca le alleato come Palau e l’astensione di pochi ritar- attenzione da parte dei media statunitensi; la magdatari europei. In certe occasioni, il Consiglio di gioranza degli americani ha semplicemente e comSicurezza si riunisce in sessione straordinaria per prensibilmente smarrito interesse nello stereotipaprendere in esame presunti crimini contro l’umani- to teatrino delle Nazioni Unite. Nel mondo al di tà perpetrati dallo stato ebraico; il Consiglio è gre- fuori degli Stati Uniti la questione si tinge di conmito in ogni ordine di posto da delegati e spettato- notati molto diversi. All’estero persino i più sturi, vengono pronunciati molti accalorati interventi, diati, meno spontanei e intollerabilmente pedanti e Israele riesce a sottrarsi da un’eventuale atto di incontri del circuito Onu generano una considerecondanna solo grazie all’esercizio del potere di vole attenzione mediatica, e questa a sua volta non veto da parte degli Stati Uniti. Nel 2006 la fa altro che acuire l’impressione di come Israele 58


scenari rappresenti una delle nazioni più sole sulla faccia del pianeta. Né tale isolamento appare confinato ai freddi corridoi delle Nazioni Unite. La preoccupazione degli israeliani concerne il sempre più evidente allontanamento da parte dei membri dell’Unione Europea e non solo un’assenza di sostanziale appoggio dell’Europa occidentale, bensì un evidente smarrimento di quella vicinanza e di quell’empatia instauratesi tra gli Stati del vecchio continente ed Israele nei decenni passati. A rendere la frattura ancor più profonda contribuisce il fatto che l’ostilità da parte dei Paesi dell’area mediorientale alla creazione e all’esistenza stessa dello Stato di Israele, tragga ora nuova linfa dall’emergere di gruppi di militanti islamici con tendenze radicali. E la nuova amministrazione insediatasi a Washington ha già dimostrato che non voler proseguire sulla strada di quell’intimo legame con la fulgida luce della democrazia in Medio Oriente inaugurato dal precedente inquilino della Casa Bianca. Se la risposta statunitense alle minacce poste all’esistenza di Israele, come ad esempio il programma nucleare iraniano, si dovesse rivelare non sufficientemente decisa, lo Stato israeliano si ritroverà allora in una situazione in cui dovrà fare affidamento solo sulla sua volontà e sulle proprie forze? Quelli appena formulati costituiscono interrogativi legittimi, ma fortunatamente le risposte non appaiono così chiare come potrebbero sembrare agli angosciati e spaventati amici e sostenitori di Israele. La posizione diplomatica di Israele è indiscutibilmente diversa da quella dei primi tempi, ma un’analisi obiettiva induce a pensare che questa non sia necessariamente peggiore: se cioè il metro di giudizio non è rappresentato dalla popolarità di Israele ma piuttosto dalla sua abilità nel manovrare e fungere da attore principale nel contesto della comunità internazionale. Di rilevanza ancora maggiore è il fatto che persino in tempi di crisi economica gli Stati Uniti si rivelino di gran lunga più forti di quanto fossero all’api-

ce della Guerra Fredda, tanto in termini relativi quanto assoluti. Né gli Stati Uniti né tantomeno Israele possono essere sconfitti mediante azioni militari convenzionali condotte da qualsiasi coalizione di avversari. Vi sono, è vero, serie minacce, addirittura all’esistenza stessa dello stato ebraico, originate dalla proliferazione di armamenti di distruzione di massa e dal dilagare del terrorismo internazionale, ma i problemi degli anni ’50 -’60 devono essere consegnati alla storia. Ciò suona inequivocabilmente come una buona notizia. E tuttavia Israele risente ancora a livello emotivo delle catapulte e delle frecce rivolte nei suoi confronti. Una causa significativa di tale timore è data dalla constatazione, pienamente comprensibile, che dopo tutte le difficoltà con cui Israele ha dovuto misurarsi lungo i 61 anni della sua esistenza, si dovrebbe giungere ad un punto in cui le tensioni vissute con altri attori esterni possano placarsi ed esso possa essere finalmente “accettato”. Questo appare come un sentimento particolarmente europeo, che affonda le proprie radici tanto nella tradizione feudale quanto in quella socialdemocratica, che si incentra sul presupposto secondo cui la stabilità rappresenta la norma e la minaccia l’eccezione. Sfortunatamente però né per Israele, né per gli Usa né per qualsiasi altro attore esiste un limite convenzionale che assicuri la stabilità o la sicurezza. Un limite di questo tipo semplicemente non esiste. In ogni caso, le nazioni dell’Europa occidentale sembrano propense a guardare alla questione in termini diversi. Il principale elemento di forza esterno ad Israele, la sua vicinanza agli Stati Uniti, potrebbe ironicamente rivelarsi l’artefice della svolta diplomatica compiuta dall’Europa occidentale nei confronti dello Stato israeliano. Alle Nazioni Unite come in qualsiasi altra sede, i Paesi dell’Europa occidentale sanno che Israele non sarà mai prostrato politicamente da risoluzioni o azioni fintanto che gli Stati Uniti interverranno prima che danni irreparabili possano essere compiuti. 59


Risk Nella tediosa pratica fatta di bozze di risoluzioni, dichiarazioni ministeriali o comunicati stampa, la maggior parte dei ministeri degli esteri dell’Ue sa che gli Stati Uniti si accolleranno il carico più pesante di lavoro - e toglieranno la colpa dalle spalle degli avversari di Israele - al fine di raggiungere un’accettabile verbosità. La certezza dell’azione americana ha sollevato gli stati dell’Europa occidentale da oneri diplomatici relativamente ad Israele. Essi non hanno bisogno di dimostrare comprensione per la posizione dello Stato ebraico, anche ove si dimostrassero propensi a farlo. In effetti, risulta evidente come il ruolo centrale assunto dagli Stati Uniti abbia garantito agli Stati europei la preziosa opportunità di esprimere liberamente il proprio voto, un voto che possono utilizzare in virtù dei propri interessi politici, tanto interni quanto internazionali. Tale atteggiamento è motivo di grande dolore per gli israeliani, in special modo per i più anziani, molti dei quali non possono far altro che rievocare i due decenni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale. Allora l’Europa appariva maggiormente legata ad Israele, sia dal punto di vista emotivo che pratico; in effetti, al tempo le convinzioni collettivistiche di molti leader israeliani e le politiche interne di stampo socialista generarono una maggiore empatia in quegli esponenti europei che si rifacevano ad una simile tradizione che non in quegli Stati Uniti animati da ideali fermamente individualistici e capitalistici. I Kibbutz? Non in Kansas, Dorothy. Al contrario, in alcune frange della destra americana, il percorso ideologico intrapreso in origine da Israele costituiva un motivo di ostilità che echeggia ancora oggi, anche dopo che lo Stato ebraico ha compiuto la propria svolta passando da un’economia ad impianto socialista ad un modello più affine a quello del libero mercato. In quei giorni idilliaci, tra le elités di sinistra delle capitali europee Israele appariva come parte integrante del proprio progetto. Ciò avveniva in quei giorni. Qualunque fosse il 60

motivo che indusse i socialisti europei ad accomunare i propri propositi a quelli di Israele, questo si è ora dissolto. Ed ancora più significativo appare il fatto che il senso di colpa degli europei occidentali per il radicamento del sentimento antisemita nel continente ed il ruolo che questo svolse nell’alimentare le fiamme dell’Olocausto si sia praticamente dissolto. Monumenti, cerimonie del ricordo nei cimiteri, riferimenti obbligati nei discorsi ufficiali sono tutto ciò che rimane. Proprio come la gratitudine europea nei confronti dell’America per averli liberati dal fascismo durò così poco, altrettanto avvenne con il senso di colpa del continente circa quanto era potuto accadere sul proprio suolo e nel proprio nome. E né la gratitudine né la colpa rappresenteranno, almeno nel breve periodo, dei fattori così potenti da animare la politica europea. L’allontanamento di Israele dall’Europa occidentale costituisce uno dei più significativi indicatori diplomatici del profondo lassismo, della prostrazione da declino di civiltà che domina i membri Ue nell’alveo dell’assise Onu ed in altri circoli diplomatici. Non rientra nei propositi di questo articolo l’addentrarsi nelle cause di tassi di natalità che denotano un affaticamento sempre più accentuato, di una popolazione che invecchia con sempre maggiore rapidità, di programmi di assistenza sociale sempre più onerosi, dell’incidenza dei flussi migratori: basti dire, però, che l’effetto risultante dalla combinazione di tutti questi fattori è devastante. Aggiungete a ciò il desiderio da parte di molti europei di poter essere una volta per tutte liberati dal flagello dei conflitti transnazionali, e si comprenderà come dal punto di vista europeo la questione israeliana rimanga priva di soluzioni. Dalla prospettiva europea, le minacce alla stabilità internazionale derivano non tanto da forze esterne ostili - nella loro visione, si ammette appena l’esistenza di elementi di questo tipo - quanto piuttosto da attori apparentemente amici come gli Stati Uniti ed Israele.


scenari Essi ritengono di essere minacciati da quelle nazioni che hanno (sino ad ora) deciso di non cadere preda della vana aspirazione di volersi districare dalla trama dei pericoli mondiali con l’assopimento o con un atteggiamento arrendevole di fronte ad un attacco sferrato nei loro confronti. Ciò che il tedio dell’Europa occidentale e la sua discesa nella fallace convinzione di aver oltrepassato la storia dimostrano è che l’atteggiamento del vecchio continente nei confronti dello Stato ebraico non comporterà alcuna modifica di atteggiamento di sorta. Sia Israele sia l’America possono e dovrebbero arrecare dei danni in termini diplomatici, ad esempio esercitando un controllo sui membri Ue al fine di rafforzare la posizione d’Israele; dopo tutto è questa l’essenza della diplomazia. Ma l’affievolimento delle preoccupazioni europee non sarà sufficiente a modificare il camino dell’Europa. Al contrario, Israele dovrà rivolgersi altrove se vuole uscire dal proprio isolamento. Per quanto sorprendente possa sembrare, le prospettive di successo in altre zone del globo si rivelano tutto fuorché scarse. La prima area verso cui rivolgere le attenzioni è rappresentata dal Medio Oriente, in cui la sempre più evidente minaccia posta dall’Iran determina le condizioni ideali per sancire alleanze di convenienza.Il pluridecennale programma iraniano di sviluppo di armi nucleari e di missili balistici, ed il suo ruolo di principale finanziatore del terrorismo internazionale, costituisce ovviamente una diretta, mortale minaccia all’esistenza stessa dello Stato di Israele. Altri gruppi terroristici internazionali sostenuti e assistiti dall’Iran, tra cui i più noti sono sicuramente i talebani e al Qaeda, minacciano regimi quali il Pakistan. I regimi arabi risultano sempre più preoccupati dalle crescenti implicazioni insite nell’aggressione iraniana. Il sostegno concesso da Teheran ai ter-

roristi è non settario, in quanto include gruppi a maggioranza sunnita come Hamas, i talebani e al Qaeda, così come terroristi di estrazione sciita quali il libanese Hezbollah. I sei Paesi produttori di petrolio e di gas naturale membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (Ccg) - tra questi il Kuwait e gli Emirati Arabi Uniti - guardano pertanto con timore ad un eventuale sostegno iraniano tanto alle popolazioni sciite dissidenti all’interno dei rispettivi Paesi quanto ai movimenti terroristici di altri estremisti islamici. Proprio come l’Iran ha assunto a pieno titolo un’egemonia su buona parte della Siria sunnita, e attraverso Hezbollah ha allargato la propria sfera d’influenza al Libano, così altri Paesi arabo-sunniti potrebbero correre il rischio di rimanere avviluppati nelle spire degli alleati di Teheran. In Egitto, il vuoto di potere che si creerà quando l’ottantunenne Hosni Mubarak uscirà dalla scena politica, potrebbe fornire un’allettante opportunità all’organizzazione dei Fratelli Musulmani, corrispettivo di Hamas.I leader arabi non desiderano ripercorrere le orme di Damasco nel trasformarsi in satelliti dell’Iran. Inoltre, vedendo la cocciutaggine dimostrata dai leader radicali palestinesi nel perseguire i propri obiettivi politici a spese del benessere quotidiano dei propri cittadini, sempre più esponenti del mondo arabo iniziano ad apprezzare quanto

In passato, il collettivismo israeliano e le politiche socialiste generavano più empatia nella Ue che negli Usa. Dividere la coalizione dei Paesi non allineati per Netanyahu dovrebbe essere una priorità, sia in ambito Onu che in qualsiasi altra sede 61


Risk l’agenda del Presidente Obama si incentri più sulla politica iraniana che non su una solidarietà tra Paesi arabi. Bisogna stare attenti a non esagerare tutti questi processi - il conflitto arabo-persiano che sembra ora emergere è opaco e multisfaccettato, e la tettonica delle placche della politica subisce frequenti mutamenti. Tuttavia, il malevolo ruolo dell’Iran nel Medio Oriente allargato rappresenta un problema da cui nessun leader arabo può permettersi di distogliere l’attenzione. Un Iran dotato di un arsenale nucleare costituisce un rischio evidente non solo per Israele, e gli Stati arabi ne sono perfettamente consapevoli. E ciò è alla base del misterioso silenzio da parte del mondo arabo nel settembre 2007, quando Israele bombardò il reattore nucleare nord-

del catechismo anti-israeliano hanno imposto agli Stati arabi di unirsi alla condanna. Ma vediamo di non commettere errori: in varie capitali del mondo arabo non si è celebrato alcun lutto per i colpi inferti a Hezbollah e Hamas. Allo stesso modo, qualora Israele dovesse portare attacchi mirati all’indirizzo del programma nucleare iraniano, in quelle stesse capitali si potrebbero udire silenziosi ringraziamenti. Sembrerebbero pertanto aprirsi degli spiragli favorevoli ad una diplomazia israeliana in sordina, in particolar modo sfruttando canali secondari e prese di contatto non ufficiali, al fine di pervenire ad un’intesa ai danni del nemico comune. Tra i possibili aspetti per l’avvio di una fruttuosa cooperazione possiamo citare: in primo luogo, lo scambio di informazioni di intelligence sul commercio iraniano di tecnologia nucleare per scopi tanto pacifici quanto militari e sul commercio di missili balistici sempre da parte iraniana; in secondo luogo, gli sforzi comuni per impedire che l’Iran fornisca assistenza, addestramento, equipaggiamento e finanziamento ai gruppi terroristici; ed infine, la definizione di procedure di notifica e di meccanismi atti a ridurre l’incidenza di conflitti minori nell’eventualità dell’apertura di ostilità con Teheran. Ovviamente, nessuno di questi punti dovrebbe virtualmente diventare pubblico, almeno nel caso in cui dovessero funzionare. Né dovrebbero modificare di molto la retorica pubblica degli Stati arabi su temi quali la sorte del popolo palestinese e di Gerusalemme. Nondimeno, spostando l’attenzione al tema della difesa dalla minaccia iraniana, si potrà guadagnare del tempo che potrà rendere possibile, anche se poco probabile, l’emergere di nuove svolte. La diplomazia sotterranea e la cooperazione contro il comune nemico potrebbero come minimo far guadagnare tempo prezioso ad Israele ed ai palestinesi al fine di prendere in considerazione alternati-

In varie capitali del mondo arabo non si è celebrato alcun lutto per i colpi inferti a Hezbollah e Hamas. Qualora Israele dovesse portare attacchi mirati all’indirizzo del programma nucleare iraniano, in quelle stesse capitali si potrebbero udire silenziosi ringraziamenti coreano quasi ultimato lungo il tratto siriano del Fiume Eufrate. Israele individuò e pose fine ad un nuovo programma nucleare clandestino nel Medio Oriente; un programma che non avrebbe potuto vedere la luce senza un qualche sostegno da parte dell’Iran. E l’assenza di rimostranze da parte degli altri Stati arabi fu assordante. Allo stesso modo, gli Stati arabi rimasero, almeno nelle prime fasi, in silenzio nel corso del conflitto tra Israele e Hezbollah del 2006 e, più di recente, durante l’offensiva militare israeliana a Gaza. Solo quando le ostilità si sono protratte le leggi di ferro 62


scenari ve diverse da quel punto morto rappresentato dall’espressione “soluzione che contempli la creazione di due stati”.Un altro luogo di pesca fruttuosa per Israele è dato dal cosiddetto Movimento dei Non Allineati (Mna). Tale movimento, reliquia della Guerra Fredda la cui creazione fu inizialmente proposta dal Maresciallo jugoslavo Tito e che racchiudeva al suo interno Nazioni che intendevano prendere le distanze tanto dagli Usa quanto dall’Urss, è ancora attivo a livello di Nazioni Unite. Supportata a volte anche da Paesi dell’America Latina e dell’Asia, la coalizione dei Non Allineati è ora in larga parte costituita da Stati arabi ed africani. Può rappresentare e spesso rappresenta a tutti gli effetti un cospicuo blocco di voti all’interno dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Il dividere tale coalizione su questioni chiave è sia fattibile che auspicabile, e dovrebbe costituire un obiettivo occidentale di lungo termine in ambito Onu ed in qualsiasi altra sede. Nel 1991, il voto decisivo dell’Assemblea Generale che abrogava l’infame risoluzione del 1975 dal titolo “Sionismo è razzismo” rappresentò il risultato diretto di fruttuosi sforzi miranti ad insinuare delle divisioni in seno al Movimento dei Non Allineati. Fu un compito difficile e che richiese molto tempo, ma alla fine molte Nazioni africane votarono a favore dell’abrogazione o si astennero; l’America Latina (con l’eccezione su tutti di Cuba) votò anch’essa in favore dell’abrogazione, e altrettanto fecero l’India e altri Paesi asiatici. Gli Stati arabi furono isolati e sconfitti. Un’azione tesa a spaccare la coalizione dei Non Allineati dovrebbe essere uno degli aspetti principali della strategia diplomatica di Israele (e dell’America), nella speranza di favorire ulteriori sviluppi sul modello dell’abrogazione della risoluzione “Sionismo è razzismo”. Oggi, l’Africa ha i suoi problemi con l’estremismo islamico, sul fronte mediterraneo, nel Sahara e nella vasta regione sub-sahariana. L’India, uno dei Paesi fondatori del

Movimento dei Non Allineati, deve anch’essa misurarsi con una grave emergenza terroristica, e potrebbe pertanto essere investita di un ruolo di rilievo nell’imprimere una svolta agli istintivi attacchi dei Non Allineati all’indirizzo di Israele verso obiettivi più consoni alle esigenze dei cittadini dei Paesi membri. In ogni occasione, persino sporadiche incursioni politiche nel territorio dei Non Allineati potrebbero dissuadere i membri del Movimento dall’aiutare gli avversari di Israele a bruciarlo sul rogo delle Nazioni Unite.

Il possedere l’abilità necessaria ad intrapren-

dere tali contrattacchi diplomatici non implica che il palco anti-sionista dell’Onu e di qualsiasi altra sede sia privo di significato. L’abuso pubblico vissuto in questo periodo da Israele e la contemporanea esplosione delle agitazioni antisemite in Europa prostra il morale dell’opinione pubblica israeliana. Le stoccate imbevute di critica che si pongono come obiettivo la delegittimazione delle sue misure di autodifesa contro la minaccia terroristica potrebbero dissuadere la sua leadership politica dall’intraprendere altre iniziative che potrebbero potenzialmente generare ulteriori critiche. Ciononostante, il riconoscere il ruolo in declino di quegli attori un tempo sostenitori di Israele e la sorprendente ascesa di nuove ed astute opportunità a livello diplomatico devono rappresentare la vera ricetta politica al fine di evitare o quantomeno minimizzare le minacce poste all’esistenza di Israele, delle quali l’isolamento è solo una, e per nulla la più significativa. Ciò che ora appare più importante è il ruolo degli Stati Uniti, per i quali semplicemente non esiste un sostituto. Questo è un punto che i simpatizzanti della causa israeliana devono avere ben chiaro in mente, in special modo negli Stati Uniti: la protezione di Israele dalle minacce alla sua esistenza inizia dalla porta di casa. 63


Risk

FRANCIA

«D

NATO SÌ, MA IN SAUCE FRANÇAIS DI

MICHELE MARCHI

al mio punto di vista peculiare presenza all’interno della le cose sono chiare: si Nato. La Francia di Sarkozy ha così deve parlare di completato il suo virage atlantiste, al momento l’unica vera e propria Europa della difesa e di Nato, non di rottura rispetto alla tradizione golliEuropa della difesa o di Nato. sta. Sono ancora le parole di Bisogna trattare i due temi insieme. Sarkozy, pronunciate a Strasburgo Proprio perché verrà rafforzata il 4 aprile scorso di fronte ai meml’Europa della difesa allora bisognebri del Consiglio Atlantico ed in rà rafforzare la Nato. È stato un grave particolare al presidente Obama, a errore quello di indebolire uno dei confermare l’apertura di un nuovo due pilastri pensando di rafforzare l’altro. Io mi faccio carico di questa Metà “ritorno a Canossa” e metà corso per la politica estera e di difetentativo di riaggiornare una sa transalpina: «La Francia riprenscelta politica, per nulla semplice da grandeur fuori tempo già negli de dunque il suo posto all’interno assumere in Francia. […] In Francia anni Sessanta. Il sigillo conclusivo dell’Alleanza. Noi facciamo parte a lungo si è fatto credere che la Nato posto da Sarkozy al percorso di reintegro francese nella Nato, una della famiglia e dunque noi siamo fosse una minaccia per la nostra indivolta ricondotto alle giuste nella famiglia. Siamo alleati ed pendenza. E nessuno si chiedeva coordinate storiche, pone in come mai eravamo i soli a porci que- evidenza una serie di criticità, sia amici. Abbiamo delle convinzioni, vogliamo essere alleati e amici in sta domanda. Io non farò mai nulla nel breve che nel lungo periodo piedi. Ciascuno qui può contare che metta in discussione l’indipendenza del mio Paese. Mai! L’alleanza con gli Usa e sulla Francia e la Francia sa che può contare su ognucon l’Europa ben lungi dal mettere in discussione l’in- no di quelli che sono seduti attorno a questo tavolo. dipendenza del mio Paese, contribuisce a rafforzare Certo, bisogna rinnovare il nostro concetto strategico, risale al 1999. Da allora abbiamo cambiato secolo. La questa indipendenza». Con queste parole, pronunciate alla Conferenza sulla questione è chiara: serve una strategia per il XXI secosicurezza in Europa di Monaco del 7 febbraio scorso, lo e non per quello oramai concluso». In queste brevi Sarkozy aveva confermato la sua decisione, annuncia- affermazioni di Sarkozy possiamo trovare condensate ta nel corso della campagna elettorale e poi ribadita tutte le novità e gli interrogativi che si porta dietro la con una serie di iniziative nei suoi primi due anni di decisione definitivamente assunta dall’inquilino presidenza (tra gli altri il discorso di fronte al dell’Eliseo. Se da un punto di vista operativo il reinteCongresso americano e l’aumento di truppe in gro francese di tutti i comandi Nato (meno quello relaAfghanistan): Parigi è pronta a chiudere con la sua tivo ai piani nucleari) non comporterà cambiamenti 64


scenari radicali, la scelta operata da Parigi deve essere ricompresa all’interno di un’evoluzione molto più ampia che coinvolge contemporaneamente la politica estera transalpina, l’evoluzione complessiva dell’Alleanza Atlantica e infine i rapporti tra Nato e Unione europea. È su questi tre tavoli che si giocherà, nei prossimi anni, il futuro incerto di quel che resta dell’Occidente euroatlantico. Vediamo come la novità che giunge da Parigi può modificare alcuni dati significativi di un processo, è indispensabile ricordarlo, ancora tutto da definire e dunque soggetto a numerosi e repentini cambiamenti.

1. Il primo dato sul quale riflettere affrontan-

do l’argomento è l’evoluzione storica del rapporto tra Parigi e l’Alleanza Atlantica. Si tratta di un passaggio obbligato e necessario per sgomberare il campo da equivoci: la cosiddetta rupture del 2009 deve in realtà essere considerata più il punto di arrivo di un processo in atto da tempo che l’avvio di una nuova era. Sarkozy al vertice di Strasburgo-Kehl ha posto il suo sigillo originale a un percorso che aveva coinvolto, con differenti approcci, altri due presidenti transalpini: François Mitterrand e Jacques Chirac. Come la cosiddetta policy of alliance without integration sancita da de Gaulle con la famosa missiva al residente Usa Johnson del 1966 era frutto di almeno otto anni di elaborazione e passaggi progressivi (tra i più rilevanti il 1959, con il ritiro della flotta mediterranea, e il 1964, quello delle forze navali nell’Atlantico), così la scelta di Sarkozy è in larga parte debitrice di quelle dei suoi due predecessori. Nonostante Mitterrand all’indomani del crollo del Muro di Berlino avesse più volte descritto la Nato come un’organizzazione “figlia del suo tempo” e dunque destinata all’irrilevanza una volta sconfitto il nemico comunista, nel 1991 la diplomazia francese aveva intrapreso ripetuti contatti con Washington per avviare una riforma complessiva dell’Alleanza Atlantica che avrebbe avuto tra le sue principali novità il reintegro completo di Parigi. Fallito il tentativo ed esploso il conflitto balcanico (che peraltro vide Parigi

in prima linea e di conseguenza informalmente nel comando integrato) bisogna attendere l’elezione del 1995 per avere un salto di qualità nel percorso di avvicinamento di Parigi alla Nato. Chirac, a differenza di Mitterrand, era convinto che la via per creare un’Europa realmente unita passasse per il rafforzamento della difesa comune, grande fallimento per il processo di integrazione delle origini (la Ced nel biennio 1952-54), da portare però avanti parallelamente all’evoluzione della Nato. Ebbene l’Europa della difesa avrebbe dovuto, nell’ottica di Chirac, costituire il “pilastro europeo” della Nato, creando un rapporto di complementarietà sempre più stretta tra integrazione europea e solidarietà atlantica. Quindi si può senza dubbio affermare che la prima vera e propria rottura del principio “gollista-mitterrandiano” di politica estera sia stato compiuto da Chirac. Sarà infatti il predecessore di Sarkozy ad abbandonare la schematica visione gollista che tendeva a contrapporre Europa della difesa ad Alleanza Atlantica. Il vertice di SaintMalo del 1998, atto di nascita simbolico di una Pesd fortemente voluta dalla coppia Chirac-Blair, è solitamente considerato la risposta “sdegnata” di Parigi dopo il “no” americano dell’anno precedente al progetto di reintegro francese nel comando integrato Nato alle condizioni dettate dalla diplomazia transalpina (una riforma complessiva e il comando della zona sud ad un ufficiale francese). In realtà, come mostrano le successive scelte di Parigi (e in particolare l’ingresso di un centinaio di ufficiali francesi allo Shape e all’Act nel 2004), all’Eliseo non smetteranno più di considerare indispensabile il ritorno completo della Francia all’interno della Nato. Il rischio, come spesso accade, è quello di rimuovere passaggi importanti e finire per sopravvalutarne altri. Rispetto a questo secondo punto è necessario liberarsi dalla lettura giornalistica degli eventi successivi all’invasione statunitense dell’Iraq, che hanno finito per offrire un’immagine deformata di Chirac, vero e proprio paladino dell’antiamericanismo, quando al contrario il suo primo mandato si era mosso completamente nella direzione opposta. Rispetto poi alla rimo65


edizioni

IN LIBRERIA

RENZO E VITTORIO FOA

NOI EUROPEI Un dialogo tra padre e figlio All’inizio del Novecento l’Europa, illuminata dalla Belle époque, era divisa fra tanti Stati separati da confini e barriere, ma era nel suo complesso la capitale dello sviluppo industriale, della cultura e dei grandi imperi coloniali. All’inizio del XXI secolo, cento anni dopo, passati attraverso la catastrofe di due guerre mondiali, artefici e vittime dei grandi totalitarismi, perse le colonie, a lungo tenuti distanti dalla «cortina di ferro», gli europei scoprono di essere uniti e integrati come non lo sono mai stati in passato. E nonostante la profondità delle crisi economiche e finanziarie che si sono susseguite, sanno anche di vivere in una condizione di benessere, di protezioni sociali e di tutela dei diritti individuali come non succede in nessun’altra parte del pianeta. Però vedono anche quanto sia difficile capire dove passano le frontiere che essi stessi hanno via via allargato, quanto coraggio ci voglia per trovare la forza di affrontare i drammatici problemi esplosi sulla soglia di casa (come quelli della ex Jugoslavia nello scorso decennio e del terrorismo fondamentalista ora) o direttamente in casa (come l’incontro-scontro con l’immigrazione), quanto sia arduo tradurre princìpi e valori in azione politica e non avere paura del futuro. E, pur avendo assorbito nel profondo i modelli americani (nella vita, nei consumi e così via), si accorgono di voler segnare le distanze dagli Stati Uniti. Come è successo? In questo dialogo che ripubblichiamo – fra un padre e un figlio che hanno visto, con occhi e attenzioni diverse, l’uno tutto il Novecento e l’altro la sua seconda metà e che hanno avuto fra di loro un particolare scambio intellettuale – c’è il racconto di come sono diventati gli europei lungo un secolo di grandi cambiamenti.

104 pagine ●● euro 12,00


scenari zione del passato è fondamentale non dimenticare che la nascita della Pesd del 1998 fu innanzitutto attaccata dall’allora Segretario di Stato Usa Madeleine Albright, la quale con il famoso contributo dalle colonne del Financial Times finì per sostenere la validità dell’approccio “gollista”, parlando del rischio delle tre “D”: dividere, duplicare e disgiungere. Ebbene senza la ricostruzione appena accennata è difficile comprendere le scelte odierne di Sarkozy. Egli, come spesso accade, unisce all’analisi del contingente una forte dose di pragmatismo. Rispetto allo sviluppo in atto Sarkozy ha notato, perlomeno a partire dalla seconda amministrazione Bush (e ancor di più dopo l’elezione di Obama alla Casa Bianca) lo strutturarsi di un processo di progressiva convergenza tra le due sponde dell’Atlantico. Usa e Ue sembrano condividere strategie simili di risposta alle minacce globali, gli Usa poi hanno ripreso a considerare (come accaduto nel corso di larga parte della Guerra fredda) l’integrazione europea un’opportunità piuttosto che una minaccia e in Europa le voci che vorrebbero dare un’identità all’Ue contrapponendola agli Stati Uniti sono divenute minoritarie. Il dato pragmatico non deve essere ugualmente trascurato. Sarkozy ha preso atto di quanto la Nato sia ancora indispensabile per la sicurezza europea e della Francia in particolare. In secondo luogo, dato per scontato il necessario ripensamento degli obiettivi strategici dell’Alleanza, Sarkozy ha scommesso sulle maggiori possibilità di influenza da parte di Parigi una volta completamente all’interno del comando integrato. In terzo luogo, troppe volte difesa europea e Alleanza Atlantica sono state presentate come una escludente l’altra. La fine dell’anomalia francese, secondo l’inquilino dell’Eliseo, contribuirà a rassicurare gli alleati europei (in particolare quelli dell’est) che questa è una visione del distorta e superata. Infine, e questo è probabilmente il punto meno credibile dell’attitudine pragmatica di Parigi, una volta chiusa la parentesi gollista rispetto alla Nato, la Francia otterrà da Washington pressioni affinché Londra proceda sulla via del contributo alla difesa europea.

Dunque sul fronte dell’evoluzione europea il discorso di Sarkozy è chiaro (anche se sulla reale efficacia qualche dubbio, come si vedrà, è lecito averlo): più Francia nella Nato uguale più difesa europea. Si tratta di una sorta di baratto, un gioco a somma positiva nel quale tutti vincono. Se si osserva la scelta transalpina dal lato dell’evoluzione dell’Alleanza Atlantica e dal ruolo peculiare della politica estera francese all’interno dell’organizzazione si trova ulteriore conferma del dato di continuità, piuttosto che di quello di rottura. Sarkozy non

Parigi costiuisce l’asse portante del rilancio della Pesd. Dallo scranno della Nato, non solo la Francia si candida a guidare il pilastro europeo dell’Alleanza, ma dall’interno si ripromette di esercitare la sua rinnovata grandeur rinuncia per nulla all’idea francese di grandeur. Portando a compimento il percorso avviato all’indomani del crollo del mondo bipolare egli cerca di definire una declinazione rinnovata di grandeur. Dal punto di vista europeo Parigi costiuisce infatti l’asse portante del rilancio della Pesd. Da quello della Nato, non solo Parigi si candida a guidare il pilastro europeo dell’Alleanza, ma dall’interno si ripromette di esercitare la sua rinnovata grandeur contrastando sia l’idea Usa di Nato globale che quella inaugurata alla fine della Guerra fredda dei continui allargamenti. Dunque metà “ritorno a Canossa” e metà tentativo di ri-aggiornare una grandeur per certi aspetti già fuori tempo nei profondi anni Sessanta del Novecento, il sigillo conclusivo posto da Sarkozy al percorso di reintegro fran67


Risk

A porsi in contrasto con la scelta presidenziale sono due componenti storiche della destra transalpina: quella sovranista (e di antica tradizione monarchico-legittimista) rappresentata da Philippe de Villiers e quella di stretta osservanza gollista, guidata da Nicolas Dupont-Aignan cese nella Nato, una volta ricondotto alle giuste coordinate storiche, pone in evidenza una serie di criticità, sia a livello di politica contingente sia per ciò che riguarda gli scenari futuri.

2. È senza dubbio indispensabile inserire la

decisione di Sarkozy nel tempo lungo l’evoluzione di politica internazionale post 1989 (e post 11 settembre 2001) e altresì ricordarsi che essa non può essere disgiunta dalle analisi contenute nei due libri bianchi sulle prospettive strategiche di politica estera e difesa nazionale (il più noto è quello sulla difesa, ma non deve essere dimenticato quello sulla politica estera dal titolo La France et l’Europe dans le monde, coordinato dalla coppia Alain Juppé-Louis Schweitzer). Non si può nemmeno trascurare il valore simbolico racchiuso nella “diversità” francese rispetto alla Nato. L’idea “dell’alterità” francese all’interno del blocco occidentale da tratto distintivo del gollismo di Guerra fredda si è trasformato in vero e proprio elemento consensuale nel corso del primo mandato di Mitterrand, per poi tramutarsi in “specificità identitaria” della politica estera transalpina, fino a divenire strumento offensivo dell’antiamericanismo più acceso nel corso dei recenti eventi legati all’invasione statunitense dell’Iraq. Alla prova dei fatti lo “choc identitario” è parso colpi68

re molto più la classe politica transalpina rispetto alla cittadinanza. Numerosi sondaggi hanno confermato lo stesso dato: una maggioranza consistente di francesi (52% per LH2-nouvelobs.com e addirittura 58% per Ifop-Paris Match) si sono detti favorevoli al ritorno di Parigi all’interno del comando integrato della Nato. A dimostrazione di quanto l’attitudine francese fosse considerata oramai anacronistica solo il 27% si è detto contrario e anche tra le file del Ps, massicciamente schierato contro la decisione di Sarkozy, un militante su due considera quella del Presidente una scelta coerente. Il livello di sostegno al reintegro si fa poi davvero massiccio (70%) tra i giovani di età compresa tra i 18 e i 24 anni. Se l’opinione pubblica e la maggior parte degli esperti hanno minimizzato il carattere rivoluzionario della decisione, la politica si è divisa in un dibattito per certi versi davvero paradossale. Il governo Fillon, per evitare una lunga discussione parlamentare e il doppio voto (anche al Senato), ha scelto di impegnare la fiducia su un provvedimento più largo e di politica estera generale contenente anche l’importante decisione relativa alla Nato. Il voto al Palais Bourbon è scivolato via senza particolari problemi (329 contro 228) con 10 astenuti e un contrario tra le file della maggioranza. Oltre ai malumori interni all’Ump, che resta pur sempre diretto discendente del partito gollista, di estremo interesse è stata l’attitudine dei socialisti e di ciò che resta degli eredi del centrismo democratico-cristiano. In una sorta di evoluzione storica all’inverso, centristi e socialisti che nel 1966 avevano condannato la scelta anti-atlantica del generale de Gaulle, si sono posti in netta opposizione alla decisione di Sarkozy, in nome di una specificità francese che avrebbe garantito a Parigi una maggiore influenza nelle relazioni internazionali in passato e potrebbe dimostrarsi ancora utile nell’evoluzione del XXI secolo. Nel 1966 François Mitterrand alla guida della Fédération de la gauche démocrate et socialiste aveva depositato una mozione di censura nei confronti del governo guidato da Georges Pompidou e aveva usato parole durissime all’indirizzo di de Gaulle. Aveva parlato di una sorta di «poujadismo ele-


scenari vato a dimensioni universali», dicendosi incapace di comprendere come mai si fosse deciso di allontanarsi dagli «amici americani». Oggi sul fronte socialista il contrasto alla decisione di Sarkozy si è concentrato da un lato sull’illusione che maggiore integrazione nella Nato possa comportare più possibilità per lo sviluppo della politica di difesa comune (questa la critica di Louis Gautier, responsabile difesa del Ps e Hubert Vedrine, ex ministro degli Esteri, il quale ha anche ricordato polemicamente a Sarkozy che la politica europea si fa a Bruxelles e non a Washington). Dall’altro lato Laurent Fabius ha insistito sulla perdita di un tratto decisivo della politica estera francese, quella sua “singolarità” che, pur collocandola all’interno del fronte occidentale, le ha permesso di “fare da ponte tra il Nord e il Sud e tra l’Est e l’Ovest del mondo”. Su un registro simile ha reagito anche il leader centrista François Bayrou, erede di quella famiglia democratico-cristiana (lo scomparso Mrp) europeista e filoatlantica. L’attuale leader del Modem ha ribadito che la scelta di Sarkozy impone a Parigi di «rinunciare a ciò che ne faceva la singolarità, quel segno di indipendenza che permetteva a Parigi quell’autonomia altrimenti impensabile nel concerto delle nazioni». Ha concluso poi Bayrou: «gettare alle ortiche l’eredità gollista è un grave errore» sia per il presente che per il futuro del Paese. Più preoccupanti per gli equilibri di un quinquennato che Sarkozy sta, da oltre un anno, vivendo costretto a sopportare livelli di gradimento quasi mai superiori al 40% sono i malumori interni al suo partito, a proposito della scelta presidenziale di demolire “la cattedrale gollista” di politica estera. A porsi in contrasto più o meno netto con la scelta presidenziale sono due componenti storiche della destra transalpina: quella sovranista (e di antica tradizione monarchico-legittimista) rappresentata da Philippe de Villiers e quella di stretta osservanza gollista, guidata da Nicolas Dupont-Aignan, il quale si è addirittura spinto a fondare un movimento dal nome emblematico “in piedi, Francia”. Accanto a questa opposizione quasi folkloristica (che comunque non può essere trascurata dal momento che è risultata decisiva per la vit-

toria sarkozista del 2007) deve essere poi annoverata quella degli chiracchiani, in particolare l’ex primo ministro Dominique de Villepin, per non parlare del redivivo Alain Juppé. Anche a destra le critiche si sono concentrate sulla supposta perdita di autonomia e sulla necessità di aprire un dibattito pubblico a proposito di una scelta destinata a mettere in gioco l’avvenire della Nazione. Come troppo spesso accade però la classe dirigente politica si è ripiegata su se stessa in un dibattito autoreferenziale e guardato in maniera distratta da un’opinione pubblica favorevole alla ratifica formale di un processo oramai portato a conclusione. In secondo luogo l’approccio di natura ideologica ha finito per trascurare una serie di incognite che, al contrario, non possono essere eluse se si osserva in maniera obiettiva lo scenario del post vertice Nato di Strasburgo-Kehl.

3. Primo elemento che necessita

di essere chiarito: il rapporto Pesd-Nato non è per nulla self-evident. Oltre al rischio che si creino strutture di difesa ridondanti non si deve dimenticare che, a causa delle sue debolezze strutturali, è molto probabile una delegittimazione della componente militare europea. Al momento lo scenario più plausibile, anche se solo teorico, sarebbe quello di una sorta di divisione del lavoro: alla Nato il peace-enforcing e all’Ue il peace-keeping e la ricostruzione civile in linea con gli accordi Berlin+ del 2003. I problemi relativi alle forti differenze di budget impiegati per la politica di difesa tra le due sponde dell’Atlantico finirà inevitabilmente per ripercuotersi nel rapporto tra ipotetico esercito europeo e Nato (per non parlare poi del computo delle forze realmente dispiegabili, solo il 30% degli effettivi in Europa). Se la prima è un’incognita essenzialmente materiale e di natura tecnica la seconda è prettamente politica. La risposta del tutto insoddisfacente dell’Europa alle richieste Usa in Afghanistan mostra una cronica debolezza politica da parte dell’Ue sulle questioni che riguardano l’impiego della forza militare. Il rischio diventa duplice: un’Europa che si mantiene marginale rispetto alla Nato e all’interno di quest’ultima una 69


in edicola il nuovo numero

I QUADERNI DI LIBERAL Bipartitismo, riforma elettorale, Partito della nazione: dodici interventi sui nodi principali della costruzione del Centro • Il richiamo di Sturzo • Parola chiave partecipazione• Alla ricerca di nuove convergenze • Modello tedesco • Perché partito, perché nazione • Finché regge Berlusconi • Nostalgia della politica • Il coraggio di uscire dal Palazzo • Ricordiamoci di Bluntschli • Il rischio è il blocco dell’alternanza • Un nuovo partito holding • Il blocco e il boom

Buttiglione, Pezzotta, Forlani, Tabacci, D’Onofrio, Romano, Malgieri, Folli, Pombeni, Sabbatucci, Cisnetto, Canali


scenari fascia di serie A (composta dai Paesi che forniscono militari combattenti, cioè Usa, Canada e magari Gran Bretagna e Olanda) e una di serie B (i Paesi che mandano istruttori e personale civile, composta da Italia, Spagna, Francia e Germania). Ancora: rispetto alla dimensione più propriamente europea del dibattito non ci si può esimere dal domandarsi se gli altri partner europei maggiori, ad esempio Berlino, accetteranno di buon grado che Parigi diventi il portavoce del pilastro europeo della Nato. La Guerra fredda è finita e con essa se ne è andata anche una peculiare declinazione dell’asse franco-tedesco. È di certo eccessivo enfatizzare i dissidi tra Parigi e Berlino, ma bisogna altresì ricordarsi che il tentativo di revisione della grandeur operato da Sarkozy attraverso il reintegro della Francia nella Nato difficilmente non otterrà una risposta da parte di Berlino. Una quarta incognita è poi strettamente legata all’attitudine, al momento non ancora chiara, che la Francia deciderà di tenere di fronte all’elaborazione del nuovo concetto strategico dell’Alleanza Atlantica. Ha certamente ragione Sarkozy quando ricorda che l’ultimo update risale al 1999 e ora servono riflessioni che affondino le radici nel XXI secolo. Ma non bisogna dimenticare che dal Kosovo ad oggi la tendenza è stata quella della “doppia globalizzazione” della Nato (allargamento e aumento missioni fuori area), due evoluzioni in linea teorica contrarie al punto di vista francese. Come si comporterà Parigi? Asseconderà questa tendenza o continuerà a far sentire la sua voce fuori dal coro? Parigi spera, con la sua scelta di integrazione definitiva, di poter contare di più in questa delicata fase di ridefinizione della missione e dei piani (dovrebbe essere così se riuscirà ad ottenere il comando dell’Act di Norfolk). Deve essere però chiaro che nessun avanzamento a livello di Pesd sarà possibile prima che la Nato avrà deciso la sua evoluzione futura. Ancora a proposito di questa ridefinizione del concetto strategico è lecito domandarsi se non siano altri, rispetto al reintegro francese, i fattori realmente

determinanti per lo strutturarsi dell’Alleanza Atlantica del XXI secolo. Tra questi ad esempio il nuovo rapporto tra Nato e Russia e le ricadute della crisi economico-finanziaria sulle dinamiche geostrategiche mondiali. Il G20 di Londra ha tratteggiato un quadro per nulla ottimistico per il futuro dell’Europa. Il rischio della marginalizzazione del vecchio continente è evidente di fronte a giganti quali India e Brasile, ma lo potrebbe diventare ancora di più se dovesse davvero formalizzarsi quella sorta di G2 (Usa-Cina) che ha dominato il summit londinese. Infine, ma qui l’immagine è se possibile ancora più impressionistica, almeno due eventi recenti hanno portato il barometro dei rapporti tra Francia e Usa a segnare tempo instabile. Prima le affermazioni di Obama riguardo alla necessità che la Turchia venga integrata nell’Ue, per evitare il rischio radicalizzazione dell’unico islam ad oggi democratico. Poi i giudizi severi dell’Eliseo a proposito delle affermazioni di Obama sul disarmo nucleare, parole giudicate da Parigi scontate e per nulla innovative.Il filo-atlantismo di Nicolas Sarkozy prima di essere pragmatico e politico è culturale e ideale. Proprio tali caratteristiche ontologiche potrebbero, nel prossimo futuro, spingere il Presidente francese ad atteggiamenti e prese di posizione anche apertamente in contrasto con l’amministrazione Usa, pur continuando a rivendicare la sua scelta filo-atlantica. Le eventuali accuse di anti-americanismo sono destinate a non scalfirlo e la nuova grandeur sarkozista, in quel caso, costituirà la declinazione pratica di quell’immagine di “alleato in piedi” ricordata dallo stesso Sarkozy il 4 aprile 2009 a Strasburgo. Naturalmente, come nel caso di de Gaulle, sarà difficile stabilire dove inizia la concretezza politica e dove finisce la propaganda ideologica. È questo il prezzo da pagare quando una media potenza non accetta la sua dimensione e continua a riproporre al mondo e alla sua opinione pubblica, l’immagine deformata della grandeur, in realtà un’istantanea ingiallita di un passato oramai remoto. 71


lo scacchiere

I

unione europea/il rilancio della nato

e quell’alleanza sempre più difficile Perché Europa e Usa devono unire le proprie forze DI

GIOVANNI GASPARINI

l vertice dell’Alleanza Atlantica in occasione del suo sessantesimo compleanno non ha avuto solo una funzione celebrativa; al di là dei rituali, i temi di discussione erano molti e complessi, di grande attualità come l’impegno in Afghanistan e di decisivo impatto nel lungo periodo, quali la nuova strategia della Nato e l’allargamento. Gli aspetti positivi non sono mancati, due su tutti: si è potuto constatare un rinnovato rapporto transatlantico, ed è stata rilanciata l’iniziativa di dialogo nei confronti della Russia. Certo, sarebbe stato difficile peggiorare una situazione che, al termine degli otto anni di imprudenza strategica dell’amministrazione Bush, ha toccato il fondo lasciando essenzialmente rovine e problemi incancreniti. 72

E infatti il primo grande obiettivo della nuova amministrazione Usa, pienamente raggiunto, era proprio il riallaccio pieno dei rapporti con gli Alleati; l’accordo con la Francia che vede il reingresso di Parigi anche nelle strutture militari della Nato dopo decenni d’assenza ne è il simbolo. Il secondo successo di rilievo è venuto grazie all’adozione di un rapporto pragmatico di apertura e discussione nei confronti della Russia, secondo il principio di cooperare ove possibile e discutere ove permane il disaccordo. L’effettivo congelamento dell’ingresso di Ucraina e Georgia nella Nato (pur formalmente riaffermati), contribuiscono a svelenire il clima, così come il rilancio delle iniziative di controllo degli armamenti strategici. L’Europa deve stare attenta a non farsi tagliare fuori da questo dialogo bilaterale fra Usa e Russia, cercando di inserirsi al meglio nei dossier strategici in cui la sua competenza e interessi sono innegabili, quali il rapporto energetico, le difese antimissile e la politica di vicinato. Certo le divisioni interne fra gli europei e una certa attitudine dei Paesi nuovi entrati dell’Est a guardare al passato piuttosto che al futuro non aiutano; coloro che vorrebbero una Nato in funzione antirussa rischiano di generare una pro-


scacchiere fezia auto-rivelante. Questo non significa che la Nato non debba occuparsi di difesa collettiva, ma che questa funzione debba essere svolta senza l’identificazione di Mosca come nemico; d’altra parte, sarebbe opportuno che la Russia comprendesse meglio che il suo futuro politico, economico e sociale può volgere al bello solo in un’ottica di interdipendenza con l’Europa. La crisi economica e di fiducia iniziata dal comportamento avventato di Mosca in Agosto 2008 contro la Georgia dovrebbero far riflettere in tal senso. Al di là dei successi, molte sono le ombre e dossier inevasi lasciati dal vertice. Innanzi tutto, manca una chiara indicazione strategica che funga da guida per i prossimi anni di vita dell’Alleanza Atlantica e si dovrà attendere il prossimo vertice dei capi di Stato e di governo, sperando che l’equilibrio finale non sia un compromesso al ribasso, privo di reali indicazioni, come avvenne nel 1999. L’elezione di Rasmussen a Segretario generale a partire da Agosto non può certo essere considerata simbolo di un rilancio, quanto più che altro un compromesso dettato dall’esigenza di trovare un “sacerdote atlantista” che non cambi gli equilibri attuali, mentre sarebbe stata auspicabile la scelta di un esponente di un Paese “di peso” come la Germania o la stessa Francia. Inoltre, la Danimarca è l’unico paese dell’Ue a non prendere parte alla Politica Europea di Sicurezza e Difesa (Pesd), il che non è propriamente un buon viatico per le essenziali relazioni fra le due istituzioni. In realtà, si dovrebbe immaginare di ribaltare le tradizioni ed eleggere un Segretario Generale americano e asse-

gnare il comando militare ad un comandante (Saceur) di provenienza europea; ciò responsabilizzerebbe politicamente gli americani e pungolerebbe gli europei a sviluppare le loro capacità d’azione e non solo quelle dialettiche. La nomina di Ivo Daalder ad ambasciatore Usa presso la Nato, già analista di punta della Brookings Institution e sostenitore da tempo di una Nato allargata alle democrazie anche non europee come Giappone ed Australia, pare in qualche modo persino in contrasto con la solenne Dichiarazione sulla Sicurezza dell’Alleanza, che sembra riportare in luce la particolarità del rapporto transatlantico, nonché lo stop almeno per qualche tempo al processo di allargamento, con l’eccezione dei Balcani. Nonostante alcune pur lodevoli iniziative, quali l’avvio di una più robusta missione di training e il riconoscimento di dover sviluppare ulteriormente la componente non-cinetica dell’impegno, non si assiste ad un vero rilancio della strategia verso l’Afghanistan e nodi importantissimi quali il ruolo dell’economia della droga vengono appena sfiorati (ma la nuova parola d’ordine non era il comprehensive 73


Risk approach?). Inoltre, pur avendo già abbastanza problemi nell’ambito del suo core business, la Nato non resiste alla tentazione di andare a pesca di problemi che la riguardano solo marginalmente, come nell’ambito della sicurezza energetica. Dunque il bicchiere è mezzo pieno o mezzo vuoto? In realtà questa è una domanda sbagliata; la vera questione è se il processo avviato il 4 aprile permetta o meno di cominciare una seria inversione dell’attuale trend verso l’irrilevanza in cui versa ora la Nato; temo non siano sufficienti i 62 punti del comunicato finale né le autocelebrazioni per un passato glorioso, né tantomeno la scoperta dell’acqua calda del “comprehensive approach”. Serve un nuovo impegno politico che veda coinvolti i due lati dell’Atlantico

C

per ridisegnare un nuovo percorso in comune. Washington deve uscire allo scoperto e terminare la propria politica ambigua di promozione e freno dell’autonomia europea di difesa, supportandola e premendo i governi più riottosi a seguirla (Regno Unito, Danimarca, Polonia). Gli europei devono superare il mito della loro capacità di influenza e sovranità nazionale, ed interiorizzare il fatto che solo unendo le proprie forze politiche, morali, economiche e militari sotto un’unica bandiera europea ed un unico scopo possono pensare di contare ancora qualcosa. Se entrambi i processi procederanno in parallelo, l’Alleanza rinascerà e sarà capace di portare a termine anche i suoi compiti più difficili, altrimenti si assisterà a un lungo declino.

medioriente/il viaggio del papa?

un capolavoro di dioplomazia

La visita di Benedetto XVI in Terra Santa mira a unire ebrei e cristiani DI

EMANUELE OTTOLENGHI

ome in ogni altra visita pastorale, il viaggio di Papa Benedetto XVI in Terra Santa aveva una doppia dimensione: religiosa ma anche politica. I tre governi che lo hanno ospitato - Giordania, Israele e Autorità Palestinese - condividono senz’altro la speranza di vedere un Vaticano più attivo sulla scena internazionale a promuovere il processo di pace, in che modo, naturalmente, dipende dai desideri della capitale in questione. Ma difficilmente il Papa poteva soddisfare questa aspettativa, fosse ad Amman, Gerusalemme o Ramallah. Il Vaticano tradizionalmente non scende in campo su temi contenziosi, preferendo guardinghe dichiarazioni pubbliche e operando piuttosto dietro le quinte. Tuttavia, la dimensione religiosa del viaggio era ben più importante e il Papa ha saputo con grande abilità inviare messaggi ad audience diverse i cui contenuti erano potenzialmente contraddittori e la cui valenza politica, per quanto vaga, generica o ambigua, si prestava a essere interpretata in maniera soddisfacente dall’interlocutore designato. E non 74

poteva essere altrimenti, vista la natura altamente spericolata dell’equilibrismo richiesto al pontefice in questo viaggio. Il Papa in fondo in cinque giorni ha parlato al mondo mussulmano, ai cristiani in Medio Oriente e agli ebrei, ma anche agli arabi, agli israeliani e ai palestinesi. Considerando le animosità e le aree di potenziale scontro, meno diceva e meno rischiava. Invece, nella consueta abilità diplomatica del Vaticano, il Papa è riuscito a dir molto. Al mondo mussulmano ha portato un messaggio di dialogo improntato al rispetto, anche se non quel rispetto offerto da altri leader occidentali la cui premessa è sempre un viaggio a Canossa dell’Occidente. Il Papa infatti ha sostanzialmente ribadito il messaggio di Ratisbona, secondo cui la violenza stravolge la religione. Detto nel cuore del mondo arabo, mentre il papa si appresta a dar messa a migliaia di cristiani, il cui futuro è sempre più incerto, le parole di conciliazione nascondevano un monito fermo. Il papa del resto poi lo ha immediatamente ripetuto proprio nel suo messaggio alle comunità cristiane. Non solo il Papa non ha ignorato le difficili circostanze


scacchiere dei cristiani, ma, ben lungi dall’incoraggiare un atteggiamento di rassegnazione di fronte all’avanzare dell’Islam radicale, li ha invitati a resistere. La chiesa insomma rimane combattiva di fronte all’avanzare dell’integralismo - e questo lo ha detto in Giordania, subito dopo aver parlato di rispetto e riconciliazione con l’Islam! Subito dopo, il Papa si è recato in Israele, dove lo aspettava un esame sotto il microscopio di un Paese che guarda alla Chiesa di Roma con speranza e apprensione. Il suo arrivo è stato inevitabilmente accompagnato da critiche, da destra principalmente per la riammissione nei ranghi della Chiesa dei vescovi lefebvriani, da sinistra per le posizioni conservatrici del papa su grandi temi sociali come l’aborto e la contraccezione e dalla società in generale per l’annosa diatriba sulla beatificazione di Pio XII. Altri lo hanno criticato per non aver istruito la sua diplomazia ad abbandonare la sala del Consiglio dei Diritti Umani a Ginevra poche settimane fa quando il presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad ne usò il podio per ribadire le sue posizioni antisemite. Naturalmente, queste aspettative sono malposte e destinate a restare deluse. Non ci si può aspettare dal Papa un gesto politico sull’Iran. Né tanto più si può realisticamente immaginare un pontefice che rinnega la posizione della Chiesa sulla famiglia. Ma la sua visita a Gerusalemme non mirava ad altro che a cementare il dialogo ebraico-cristiano su base paritaria e riaffermare la centralità di questo dialogo nella visione teologica di questo pontificato nel cuore dello Stato ebrai-

L

co, riconoscendo quindi il profondo legame esistente tra popolo ebraico, terra e stato d’Israele. In questo contesto, la condanna ineluttabile dell’antisemitismo pronunciata durante la visita a Yad Vashem, il museo e memoriale dell’Olocausto di Gerusalemme, non contiene riferimenti specifici né al Cardinale Williamson né al presidente Ahmadinejad, ma si può dedurre una condanna a entrambi dal linguaggio usato, così come si può dedurre un monito all’Islam radicale nelle parole concilianti pronunciate dal pontefice in Giordania. E del resto questo atto di abile equilibrismo il Papa lo doveva fare anche sul minato terreno politico del conflitto mediorientale, dove una dichiarazione di troppo avrebbe alienato uno dei suoi tre ospiti, mentre la riaffermazione del diritto internazionale e delle esigenze di pace e riconciliazione che la Chiesa non può esimersi per il suo ministero di esigere ha evitato guai politici, e permesso di esaltare la dimensione pastorale del viaggio. Il fatto resta. Nei messaggi pronunciati chi vorrà potrà trovare un elemento politico importante - che resta quello di papa Benedetto XVI sin dall’inizio, che fu contrassegnato, non dimentichiamolo, dalla visita alla sinagoga di Colonia e dal discorso di Ratisbona. Da un lato, la Chiesa rimane schierata a fianco dei Cristiani nel mondo contro l’avanzare dell’integralismo mussulmano e dall’altro, il dialogo con il popolo ebraico avanza qualitativamente su premesse rivoluzionarie rispetto al passato della Chiesa, portando a compimento il percorso iniziato dal Concilio Vaticano Secondo.

america latina/la svolta di cuba

tra che guevara e la mano tesa di obama

Avanti i contatti tra l’Amministrazione e i Castro ma il disgelo è lontano DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

’obiettivo del quinto vertice dei Paesi americani tenutosi a Trinidad e Tobago il 17 aprile scorso era discutere dei principali problemi della regione: la crisi economica, l’integrazione commerciale, l’energia, l’ambiente. Da mesi, tuttavia, era

chiaro che l’appuntamento rappresentava più che altro il debutto formale della diplomazia dell’Amministrazione Obama nell’emisfero occidentale, e che il tema della politica statunitense nei confronti di Cuba avrebbe catalizzato l’attenzione generale. Così come per decenni i rapporti con il regime 75


Risk castrista hanno influenzato profondamente la prospettiva con cui Washington ha guardato l’America Latina, oggi si assiste alla situazione inversa. Per i Paesi latinoamericani Cuba ha assunto il ruolo di cartina di tornasole di un mutato atteggiamento statunitense rispetto alle precedenti amministrazioni Bush e Clinton, e ogni gesto a favore di Cuba è interpretato come un gesto di riavvicinamento nei confronti della regione. Le attese erano quindi concentrate più sulla dimensione politica dell’incontro che sui risultati concreti in materia economica. D’altro canto, dopo il fallimento del progetto dell’area di libero scambio emisferica disegnata da Bill Clinton nel 1994, la dimensione multilaterale dello sviluppo economico ha lasciato il campo agli accordi bilaterali, e gli Stati Uniti hanno preferito approfondire le relazioni con alcuni singoli Paesi della regione, Brasile, Colombia, Cile, Messico, Costa Rica, Perù. Il presidente brasiliano Lula Da Silva è stato il primo leader latinoamericano ad essere ricevuto da Obama a Washington nel marzo scorso. Il segretario di Stato Hillary Clinton e il presidente Obama si sono recati a Città del Messico in aprile per discutere di crisi economica e narcotraffico. La Casa Bianca ha annunciato un prossimo viaggio di Obama a Bogotà. È con questi Paesi che si declina l’agenda politica americana nella regione in ottica strategica. Cuba sarebbe un caso a parte, se non si fosse verificata questa particolare convergenza di solidarietà politiche verso L’Avana negli ultimi mesi. Ben sette presidenti latinoamericani hanno infatti visitato l’isola dall’autunno a oggi, oltre a quelli di Cina e Russia. Il governo cubano è stato ammesso a far parte del Gruppo di Rio su spinta del presidente brasiliano Lula. L’Unione delle Nazioni Sudamericane è arrivata il 10 marzo scorso a vincolare il miglioramento delle relazioni tra America latina e Stati Uniti addirittura alla rimozione dell’embargo. Il presidente del Costa Rica Óscar Arias e il presidente eletto del Salvador Mauricio Funes hanno annunciato la prossima normalizzazione delle relazioni diplomatiche, rispettivamente interrotte nel 76

1959 e nel 1961. Anche il Messico ha ormai ricomposto le fratture generatesi L’Avana durante l’Amministrazione di Vicente Fox, e l’Unione Europea ha comunicato per bocca del Commissario per gli Aiuti Umanitari Louis Michel che è arrivato il momento di rivedere la “posizione comune” -adottata nel 1996 su iniziativa di José María Aznar - che la allineava sulle posizioni statunitensi. La democratizzazione del sistema politico e il rispetto dei diritti umani e civili non paiono più precondizioni necessarie per mantenere fluidi rapporti con il governo dei fratelli Castro. In questo scenario, Obama sapeva di non poter arrivare al summit di Trinidad e Tobago a mani vuote, e che l’occasione era propizia per migliorare la visione degli Stati Uniti che si ha in America Latina. Aveva quindi manifestato fin dalla campagna elettorale il proprio assenso alla modificazione delle restrizioni ai viaggi e alle rimesse dei cittadini cubano-americani verso l’isola caraibica, una misura di portata relativamente modesta ma dal significato politico importante. Il processo parlamentare di riforma di quel provvedimento si è concluso nei tempi previsti, e ha permesso al governo americano di firmare la revoca delle restrizioni proprio alcuni giorni prima dell’inizio del vertice. Obama ha quindi annunciato la propria disponibilità a cercare la strada del dialogo con L’Avana e ha riconosciuto l’inefficacia dell’embargo per forzare un cambiamento in senso democratico a Cuba, rompendo un altro storico tabù. Con quest’apertura, il governo americano ha potuto evitare uno scontro politico con i principali alleati del governo castrista, disinnescando l’artiglieria diplomatica preparata dal presidente venezuelano. Hugo Chávez aveva infatti anticipato che i Paesi appartenenti all’Alternativa Bolivariana per le Americhe Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua, Repubblica Dominicana e Honduras - non avrebbero firmato la dichiarazione finale del vertice quale gesto di solidarietà nei confronti di Cuba, giacché il documento non conteneva un impegno esplicito a eliminare l’embargo statunitense. La giocata si è rivelata molto abile, poiché ha permesso di scaricare la tensione con Cuba


scacchiere lasciando ai fratelli Castro l’incombenza di fare la prossima mossa. La Casa Bianca sa bene che, con Fidel e Raúl in vita, è difficile immaginare qualsiasi processo endogeno di apertura politica, e ogni concessione nei confronti di Cuba comporta costi politici e risultati incerti. Obama tuttavia è ancora in luna di miele post-elettorale e il fronte parlamentare favorevole a una modifica delle relazioni con Cuba sta guadagnando spazio. Il presidente aveva quindi il capitale politico necessario per fare delle concessioni unilaterali. Raúl Castro per la prima volta si è detto disponibile a discutere anche di diritti umani e prigionieri politici, termini mai utilizzati in pubblico prima d’ora. Adesso è chiamato a far seguire i fatti alle parole, in ciò differenziandosi dal fratello Fidel. Superata la “trappola cubana”, Barack Obama ha potuto utilizzare il proprio carisma e la propria abilità per guadagnarsi le simpatie dei presidenti latinoamericani, marcando un evidente punto di flessione rispetto all’amministrazione Bush. Ha ascoltato con estrema pazienza gli interventi dei presidenti di Nicaragua e Argentina e le loro denunce del ruolo imperialista degli Stati Uniti nella regione. Ha riconosciuto gli errori commessi nella gestione della

N

politica emisferica, ma ha dichiarato con forza che la responsabilità dei governanti è di guardare avanti senza cercare alibi esterni o rifugiarsi nella denuncia del passato. Ha infine riaffermato che il suo governo intende trattare tutti i Paesi latinoamericani -anche quelli nei confronti di quali esistono profonde differenze politiche e ideologiche- con rispetto, e che non considera il Venezuela una minaccia per gli interessi strategici americani. Dichiarazioni che hanno trovato l’appoggio entusiasta del presidente brasiliano Lula, che si conferma una volta di più il principale interlocutore di Washington in America meridionale. Lo stesso Hugo Chávez ha pubblicamente apprezzato la disponibilità all’ascolto, l’umiltà e il tatto politico di Obama, annunciando la volontà di ristabilire le relazioni diplomatiche bilaterali interrotte dal settembre scorso. Questo rappresenta forse il risultato più concreto e insperato del summit di Trinidad e Tobago. La Casa Bianca dovrà dimostrare nei prossimi mesi di avere la volontà e la capacità di mantenere un’agenda emisferica all’altezza delle aspettative e delle aperture di credito ricevute. Il debutto diplomatico di Obama in America latina può comunque essere considerato un importante successo politico per gli Stati Uniti.

africa/la crisi del madagascar

punta a una quarta repubblica?

Dopo il golpe di Rajoelina non c’è pace per il popolo malgascio DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

umerosi tentativi di mediazione abortiti nel nulla, vecchi e nuovi presidenti a confronto, una situazione in rapida evoluzione: è questa la fotografia attuale del Madagascar, la Grande Ile dell’Oceano Indiano che negli ultimi mesi è venuta alla ribalta per gli scontri al vertice tra Marc Ravalomanana (al potere dal 2002 dopo aver eliminato dalla scena

politica il leader marxista Didier Ratsiraka) e Andrey Rajoelina (l’enfant prodige della politica malgascia, sindaco di Antananarivo dal dicembre 2007). Due imprenditori prestati alla politica; due stili a confronto sostenuti da poteri forti, dalle grandi famiglie locali preoccupate di tutelare i propri interessi economici. Da un lato colui che negli ultimi 7 anni ha aperto il Paese all’economia di libero mercato, riu77


Risk scendo a ottenere il placet dei grandi attori internazionali e l’annullamento del debito estero ma che - a causa di una gestione privatistica del bene pubblico - non è stato capace di sradicare la povertà che resta ad oggi un male endemico; dall’altro un self-made man che ha iniziato il percorso come disc jockey, divenendo poi un protagonista nel settore radio e pubblicità e quindi una delle voci politiche più trainanti dell’opposizione. La crisi, covata per alcuni mesi e scoppiata con tutta evidenza lo scorso gennaio, non sembra destinata a risolversi in tempi brevi e sta mettendo in evidenza tutta la debolezza dell’Unione Africana (Ua) e della Southern African Development Community (Sadc). Se inizialmente era forte il dissenso popolare nei confronti del presidente in carica, Ravalomanana, una volta uscito di scena in modo rocambolesco il 17 marzo (costretto o meno dalle forze armate e dall’opposizione, a seconda che si dia credito alle dichiarazioni da lui rilasciate nelle ultime settimane) è stato palese il sostegno all’amministrazione uscente di una parte numerosa della base sociale, che ha manifestato la sua insoddisfazione nei confronti del cambiamento. Subito sono state evidenti le contraddizioni del nuovo leader, Rajoelina, che ha violato la Costituzione sia per le modalità con cui ha assunto il potere, sia per essersi investito di una carica avendo un’età inferiore a quella prevista dalla legge, sia per aver chiuso immediatamente il Parlamento, impedendo il dissenso dei rappresentanti democraticamente eletti dal popolo. Anche in questo caso si è parlato di golpe, di ruolo anomalo giocato dai militari che sono tornati ad essere l’ago della bilancia nella politica africana. Gli avvenimenti degli ultimi mesi in Mauritania, Guinea Conacry, Guinea Bissau hanno, infatti, riportato l’attenzione su questo “potere occulto”, arbitro in campo e supporter determinante per un corretto andamento democratico. 78

Effettivamente non è ancora chiara la funzione che abbiano avuto alcuni alti ufficiali nella partita in corso. Il potere che gli è stato affidato è infatti stato subito trasmesso al gruppo di Rajoelina, anche se in una fase precedente i vertici militari avevano garantito la loro neutralità. Disegno previsto o meno dai protagonisti della vicenda, il Senato non è stato coinvolto (come invece indicato dalla Costituzione vigente) e in modo anomalo, ma indolore, si è operata un’alternanza già da tempo nell’aria. La nuova Alta Autorità costituita per gestire la politica nazionale si è impegnata a rivedere tutti i contratti con imprese straniere e a promuovere un cambiamento generale, volto a tutelare la fascia più debole della popolazione che vive con meno di 2 dollari al giorno. Demagogia oppure impegno serio? I risultati raggiunti dalle Assises Internationales il 2 e 3 aprile non permettono di intravedere ad oggi né un rinnovamento profondo né la volontà di dialogo con la vecchia dirigenza. A piccoli segnali formali di apertura da entrambe le parti si contrappongono indizi sostanziali di netta chiusura e perseguimento di percorsi paralleli, non orientati a soddisfare i reali bisogni della nazione. Il quadro politico attuale è molto confuso poiché di fronte all’incapacità di offrire nuovi percorsi politici, chiari e necessari per rimettere in moto l’economia locale, emerge solo la manovra che viene fatta a latere dalle forze politiche in campo, capaci solo di spingere il popolo nelle piazze per manifestare il proprio supporto all’una o all’altra forza. Legalisti e fautori del cambiamento hanno manifestato in diverse occasioni, portando in piazza in diverse occasioni 15.000-20.000 persone per esprimere la propria posizione e richiamare l’attenzione esterna, di mass media e grandi attori internazionali. La presenza di due governi, uno di transizione, legato ai cambiamenti in atto degli ultimi due


scacchiere mesi guidato da Monja Roindefo, l’altro legale ma non fattuale diretto da Manandafy Rakotonirina a partire dal 16 aprile, inducono a non credere - né tanto meno sperare - in una breve, lineare e semplice risoluzione della questione malgascia. È vero che il nuovo esecutivo appare tecnico ed equilibrato con esperti inseriti nei posti chiave decisionali; è conclamato che la nuova Alta Autorità ha subito annullato l’accordo che prevedeva la vendita alla Daewoo di un vasto appezzamento di terra (cosa inaccettabile per le tradizioni locali); è un dato di fatto che i nuovi vertici politici abbiano fissato il percorso elettorale dei prossimi mesi ma per riportare la stabilità e una parvenza di ordine istituzionale sono indispensabili altri segnali. Accuse alla precedente amministrazione, mandati di arresto per malversazione di fondi all’ex presidente Ravalomanana e ai precedenti responsabili delle finanze non sono misure sufficienti a colmare lacune effettive, interne ed internazionali. Ormai in Africa sta prevalendo il messaggio che è lecito sovvertire il potere con qualsiasi mezzo, che non ci sono regole o volontà popolare da rispettare. Le sanzioni? Possono durare qualche mese ma poi rientrano. Le espulsioni da organizzazioni locali? Sono espedienti inutili che non possono prevalere sulla volontà di chi ha assunto il comando. Il boicottaggio commerciale? Si può proseguire sul proprio cammino. Anzi, sono gli stessi protagonisti che si autoescludono, non potendo accettare di subire l’onta di essere messi alla porta da determinate strutture, come successo nei primi giorni di aprile con la fuoriuscita del Madagascar dall’organizzazione regionale australe. Il Paese si sta chiudendo, politicamente e commercialmente, nonostante l’accorata richiesta di alcuni operatori locali che vedono l’apertura delle frontiere e gli sbocchi regionali come un concreto vantaggio, capace di rendere maggior-

mente competitivi i prodotti nazionali.Quali sono gli scenari ipotizzabili? Un confronto diretto tra le forze in campo, al limite della guerra civile non è da escludere, ma d’altra parte non è nell’interesse effettivo delle parti. Il ritorno di Ravalomanana, promesso ma di difficile attuazione nel breve periodo, deve essere fatto nella consapevolezza che i privilegi di cui si è usufruito un tempo, le commistioni tra interesse pubblico e privato, sono finiti e non sono riproponibili per una sana gestione dell’economia nazionale. Il ritorno di vecchi fantasmi politici come gli ex presidenti Didier Ratsiraka e Albert Zafy può essere valutato solo come influenza sui protagonisti odierni, ipotizzato al massimo in un tavolo di concertazione ampio e di larghe intese. Nuove Assise militari, in programma per la fine di aprile, potrebbero chiarire il ruolo delle Forze Armate locali e quanto meno esplicitare il loro compito in una nuova dialettica con il potere politico, ma di fatto dovranno ribadire la neutralità e l’estraneità del corpo alla gestione del potere. Si potrebbe pensare anche ad una Quarta Repubblica ma su basi completamente diverse, con protagonisti alternativi e realmente innovativi. Non basta voler prendere ad esempio i governi di coalizione di Kenya e Zimbabwe che nell’ultimo anno sono stati protagonisti di pagine cruenti della stampa internazionale. I due casi in questione sono la prova tangibile di una gestione capace solo di rinviare problemi, non pronta a fare un gesto di auto-accusa. Il Madagascar, come del resto l’Africa, non ha bisogno di una semplice cosmesi, di una pausa tra uno scontro violento e l’altro, di un accordo tra oligarchi. Il continente, tutto il continente, necessita di un cambiamento profondo che faccia emergere istanze dal basso e promuova un processo bottom-up. Per questo… il Madagascar ha ancora tempo per maturare la sua crisi! 79


La storia

L’OPERAZIONE CARLOTTA DEL COMPAGNO FIDEL

L’

di Virgilio Ilari

intenzione dell’amministrazione Bush era di basare sulla sponda meridionale del Mediterraneo il nuovo Africa Command (UsAfricom), istituito il primo ottobre 2007 e attivato un anno dopo a Stoccarda. A seguito però del rifiuto opposto per ora da tutti i Paesi nordafricani, si è ventilato di trasferirlo a Napoli, già sede delle Forze Meridionali della Nato nonché storica base delle spedizioni italiane d’Oltremare e dell’Afrika Korps. La creazione del sesto dei combatant unified commands regionali americani è solo uno dei molteplici segnali del crescente rilievo strategico del continente africano, ma ha anche offerto nuove armi alla polemica antimperialista, ora flebile in Europa ma non 80


storia nel 1976 Gabriel Garcia Marquez dedicò “all’Operacion Carlota” (così denominata dalla ferocissima schiava negra che aveva capeggiato la rivolta cubana del 1843), Gleijeses dimostra che l’iniziativa di Fidel Castro fu all’inizio sconfessata dall’Urss, il cui impegno seguì solo due mesi più tardi, quando i volontari cubani avevano già invertito il rapporto di forze e salvato i comunisti angolani. La guerra civile tra il Mpla marxista di Agostinho Neto (1922-79) e poi di José Eduardo Dos Santos e l’Unita di Jonas Sawimbi (19342002) durò fino al 2002 con un bilancio di mezzo milione di morti. Altrettanti furono però i volontari, tra militari e cooperanti civili, che si avvicendaDi origini italiane (nato a rono nella Mision InternacioVenezia nel 1944 da un “uffinalista de cubanos in Angola La battaglia ciale di marina” meridionale (Mica) dal 1975 al 1991, con di Cuito Cuanavale che raccontava poi al figlio di due picchi di 36mila e 50mila essersi rallegrato della resimilitari nel 1976 e 1988. Per avvenuta alla fine degli stenza sovietica sul Don nel questo gli Stati Uniti e il anni Ottanta (1987-1988) dicembre 1941), formatosi a in Angola, con la successiva Sudafrica dovettero negoziare Ginevra, Pietro Gleijeses è con Cuba la pace in Angola e il caduta del presidente per certi versi una simpatica futuro della Namibia, decisi Botha, può essere definita icona del Sessantotto: studionell’Accordo tripartito di New so dell’imperialismo americaYork del 22 dicembre 1988. È la Guadalajara no in America Centrale e nei però innegabile che l’accordo di Fidel Castro. Caraibi, insignito nel novemquadro era già stato raggiunto Ma non rivaluta il ruolo bre 2003 della medaglia cubail primo giugno nel vertice di dell’internazionalismo na dell’Amicizia, ha sposato Mosca tra Reagan e Gorbaciov comunista nelle guerre una scultrice giapponese assai e che fu l’Unione Sovietica ad nota a Cuba, anche se meno assumere la leadership diplodi liberazione africane della sorella Yoko Ono (la matica e militare dell’internae nella sconfitta vedova di John Lennon, dei zionalismo comunista in dell’apartheid Beatles). Inoltre la tesi centraAfrica e a dirigere l’impiego sudafricano le del suo libro, basato su solidelle truppe cubane. Secondo de ricerche negli archivi ameDouglas Rivero, uno storico ricani e cubani, è il ruolo autonomo e trainante della distensione, quasi un terzo delle forniture svolto da Fidel Castro nel decidere l’intervento in militari sovietiche a Cuba (400 milioni di dollari Angola invasa dai mercenari e dai reazionari su 1.500) era in realtà destinato per procura sostenuti dagli Stati Uniti, dalla Cina, dalla Corea all’Angola, segno che l’Urss preferiva intervenire del Nord, dallo Zaire di Mobutu e dal Sudafrica. in Africa piuttosto che in America Latina. L’Urss Riecheggiando l’enfasi di un famoso articolo che però non esiste più: e se la sinistra internazionali-

nel resto del mondo, inclusi gli stessi Stati Uniti. Infatti è stato proprio un professore della Johns Hopkins University di Washington a rivalutare il ruolo dell’internazionalismo comunista nelle guerre di liberazione africane e nella sconfitta dell’apartheid, in un saggio del 2002 (Conflicting missions: Havana, Washington and Africa, 1959-1976, University of North Carolina Press) che è divenuto un punto di riferimento per la storia strategico-militare dell’Africa sub sahariana e ha ricevuto il premio Robert Farrell della Society for the Historians of American Foreign Relations (la disciplina accademica in cui è incardinato l’autore).

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Risk

storia

sta coltiva ancora la “Ddr Forze cubane Nostalgia”, ha decretato un’ingrata Forze SADF-UNITA Golpe aereo a Calueque damnatio memoriae nei confronti Fronte al 26.06.1988 Calueque della patria sovietica, ergendosi Basi FAR-FAPA Scala 1:11.000.000 contro Putin e gli altri veri o preBasi SAAF sunti epigoni, e a favore delle rivoluzioni rosa o arancione nell’ex“Impero interno” di Mosca. Del resto anche durante la guerra fredda la sinistra respingeva con sdegno l’ossessione reazionaria di vedere ovunque lo zampino sovietico, considerandola un tentativo di screditare le lotte di liberazione e di legittimare la repressione. Il regime cubano non ha mancato di sfruttare propagandisticamente la tesi di Gleijeses: il 6 dicembre 2005, in occasione del trentesimo anniversario della missione militare cubana in Angola, Fidel Castro sottolineò Lo schieramento delle forze militari in Angola alla vigilia della battaglia di Cuito Cuanavale. che fu decisiva per consolidare l’indipendenza dell’Angola e conseguire quella della Namibia e contribuì in modo separa l’Angola dal Botswana). Questo territorio, significativo alla liberazione dello Zimbabwe e per ragioni etniche e sociali, era la roccaforte alla scomparsa dell’odioso regime dell’apartheid. dell’Unita, il movimento anticomunista appoggiaNel luglio 2007, in occasione del ventennale del- to dalla Cia e dal Sudafrica, che aveva impiantato l’inizio della battaglia di Cuito Cuanavale, l’ulti- una capitale a Jamba, nell’estremo Sud a ridosso ma della guerra in Angola, Gleijeses l’ha comme- del confine con Zambia e striscia di Caprivi. morata con un breve articolo, accreditando autorevolmente la tesi ufficiale che la considera la defi- Fin dal settembre 1980, con l’appoggio nitiva disfatta inflitta dalle forze cubane alle trup- delle forze di difesa sudafricane (Sadf), l’Unita pe di Botha, nella più grande battaglia combattuta aveva occupato l’ex-base portoghese di Mavinga, in Africa dopo la seconda guerra mondiale e - 200 km più a Nord-Ovest, riaprendo così i fuochi secondo una fonte angolana - la “più grande mai di guerriglia nelle province settentrionali di combattuta al disotto dell’Equatore” (trascurando Moxico e Lunda al confine con lo Zaire. Secondo però Isandlwana e Adua, le due sconfitte del colo- il generale Huambo, capo dell’intelligence di nialismo britannico e italiano in Africa). La batta- Sawimbi, nel 1986 le forze ribelli (Fala) contavaglia fu combattuta nella provincia di Cuando no 28mila regolari (44 battaglioni) e 37mila guerCubango (compresa tra i due fiumi omonimi), riglieri, mentre i governativi (Fapla) erano da 50 a incuneata tra lo Zambia ad Est e la Namibia a Sud 65mila, appoggiati da 58mila stranieri: 37mila (in particolare la striscia orientale di Caprivi che cubani (12 reggimenti di fanteria, 7 corazzati, 1 82


storia d’artiglieria e 2 brigate contraeree con aviazione e istruttori, comandati da Gustavo Freitas Ramirez), 2.500 sovietici (generale Konstantin Shaknovich?), 2.500 tedesco-orientali (generale von Status?), 2.500 nord-coreani, 3.500 comunisti portoghesi (colonnello Leitao Fernandes?) e 10mila esuli dai paesi confinanti (1.400 katanghesi, 7.500 namibiani dello Swapo e 1.200 sudafricani dell’Anc). Secondo il generale Rafael Del Pino, che aveva comandato le forze aeree cubane in Angola e nel maggio 1987 fuggì negli Stati Uniti, i cubani avevano avuto in Angola 10mila morti, feriti e dispersi e ben 56mila disertori. Già nel 1985 i governativi avevano tentato invano di riprendere Mavinga. Una seconda offensiva scattò l’11 luglio 1987, con l’evidente intento politico di rafforzare la posizione di Luanda nel negoziato bilaterale con gli Stati Uniti cominciato il mese prima e di accrescere l’impatto della visita fatta in Europa dal presidente Dos Santos. Secondo le Sadf a dirigere l’operazione Saludando Octubre erano i sovietici e le forze consistevano in 18mila uomini (14 brigate Fapla e 2 cubane), con 150 carri T-54/55 e 250 veicoli blindati, appoggiati da caccia MiG-21/23 ed elicotteri Mi-8/24/25 operanti dalla base aerea arretrata di Menongue (300 km a Nord-Ovest di Mavinga e a 500 da Jamba, situata oltre il raggio operativo dei MiG). Il 4 agosto il presidente sudafricano Botha autorizzò un ennesimo intervento militare in sostegno dell’Unita. Comandata dal colonnello Deon Ferreira (che dopo la caduta dell’apartheid divenne il primo capo di stato maggiore del nuovo esercito sudafricano), l’operazione Modular fu condotta da 3mila uomini delle Sadf (32° battaglione commandos, 61° meccanizzato, 20° artiglieria) e delle Swatf (Namibia), con 3 batterie di mortai, razzi Valkiri da 122 mm derivati dal russo Grad e cannoni a lunga gittata da 155mm (G-5 e G-6). Le Fapla sferrarono un attacco diversivo da Nord (Lucusse) e uno principale da Est (Cuito Cuanavale). In realtà l’avanzata fu poco decisa e il

13 settembre le Fala bloccarono la colonna aggirante di destra ad appena 40 km a S-E di Cuito Cuanavale. Il 3 ottobre l’artiglieria sudafricana distrusse la 47a brigata corazzata delle Fapla mentre tentava disperatamente di ripassare a guado il fiume Lombo. Fiera del successo, Pretoria rivendicò ufficialmente il merito, provocando l’irritazione di Sawimbi.

Le Fala e le Sadf proseguirono intanto l’inse-

guimento su Cuito Cuanavale, dove 3 brigate Fapla (59a motorizzata e 21a e 25a di fanteria) si attestarono tra la sponda occidentale del Tumpo e quella orientale del Cuito. La posizione era però sotto il tiro dei pezzi da 155mm che dalle alture di Chambinga, a 30-40 km di distanza, martellavano il villaggio, il ponte sul Cuito e la pista di atterraggio, ostacolando i rifornimenti. La versione ufficiale delle Sadf fu poi che non intendevano impadronirsi di Cuito Cuanavale, ma solo completare la distruzione delle forze governative e impedire che vi venisse creata una base aerea avanzata, da dove i MiG potessero effettuare raid contro la capitale dell’Unita. Secondo Luanda e l’Avana, invece, l’obiettivo di Pretoria era di conquistare Menongue e di installarvi il governo provvisorio di Sawimbi. Il 15 novembre Dos Santos chiese aiuto a Castro, il quale gli mandò il meglio dell’aviazione, migliaia di rinforzi, molto materiale e il famoso stratega Arnaldo T. Ochoa Sanchez, già comandante dell’operazione Carlota e poi della spedizione del 1977 nell’Ogaden, molto apprezzato dai colleghi sovietici e insignito nel 1984 del titolo di Eroe della Rivoluzione cubana. L’operazione fu battezzata Maniobra XXXI Aniversario de las Fuerzas Armadas Rebeldes; il 5 dicembre i primi 200 specialisti e consiglieri cubani arrivarono a Cuito, il cui comando fu assunto dal generale cubano Leopoldo “Polo” Cintras Frias. I cubani fortificarono la testa di ponte con trincee, rifugi sotterranei per elicotteri e munizioni, torrette di carri interrati e soprattutto campi minati. Inoltre i 83


Risk MiG operanti da Menongue (sia pure vulnerabili sotto i 16mila piedi di quota ai micidiali missili Stinger forniti nel gennaio 1986 da Reagan a Sawimbi) assicurarono la superiorità aerea tenendo in rispetto i cacciabombardieri sudafricani (Mirage e Impala). Il 9 gennaio 1988 i sudafricani riuscirono ugualmente a distruggere il ponte sul Cuito con un aereo teleguidato di fabbricazione israeliana, ma i cubani ripristinarono i collegamenti con una passerella di legno e il 13 respinsero il primo di cinque assalti terrestri. Frattanto Ochoa fu richiamato a Cuba e sostituito da Cintras Frias, mentre gli Stati Uniti accettarono di allargare il negoziato ai cubani e la delegazione, guidata da Jorge Risquet, arrivò il 28 gennaio. Esponendo al segretario del partito comunista sudafricano la sua strategia, Castro si paragonò ad un «pugile che para col sinistro e colpisce col destro».

Così, raggiunto lo stallo a Cuito Cuanavale,

l’8 marzo Cintras Frias concentrò il grosso delle forze cubane (40mila uomini) a Sud-Ovest, minacciando le Sadf alla diga di Calueque, 11 km a Nord del confine con la Namibia. Il 16 marzo un giornale di Pretoria scrisse che il governo aveva offerto il ritiro “in” Namibia (e non “dalla” Namibia) contro quello dei cubani dall’Angola. Il 23 marzo si svolse l’ultimo e più intenso assalto contro Cuito Cuanavale, respinto dopo 15 ore di combattimenti. Botha accettò di entrare nel negoziato e il primo incontro tripartito si svolse al Cairo il 3 maggio. Risquet respinse però la richiesta del ritiro bilanciato, dichiarando che Pretoria non avrebbe ottenuto a tavolino quel che non aveva ottenuto con le armi. Il 27 giugno i MiG fecero un raid dimostrativo su Calueque. L’8 agosto fu concordato un cessate il fuoco e il 30 le Sadf si ritirarono unilateralmente dall’Angola. Le perdite dichiarate da Pretoria furono di 31 morti e 280 feriti contro 4.785 e 1.800 Fapla e cubani, e di 3 carri Oliphant, 5 trasporti truppe e 1 veicolo logi-

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stico contro 94, 100 e 389. L’Unita perse 3mila uomini su 8mila: quanto ai velivoli il bilancio sarebbe di 3 Mirage contro 9 MiG ed elicotteri. L’accordo tripartito fu firmato il 22 dicembre a New York. Il ritiro cubano iniziò il 10 gennaio 1989 e fu completato solo il 25 maggio 1991. Nell’aprile 1989 i delegati sudafricani riuniti a Matanzas per il VII congresso dell’Anc risposero al saluto di Risquet inneggiando a Cuito Cuanavale. Due mesi dopo, il 12 giugno 1989, Ochoa fu arrestato per corruzione e narcotraffico, condannato a morte e fucilato il 12 luglio a Baracoa, ad Ovest dell’Avana. Il suo nome è stato sbianchettato dalle commemorazioni angolane, cubane e sudafricane e neppure Gleijeses lo menziona nel suo articolo sul ventennale della battaglia. Il 6 dicembre 2007 il ministro degli Esteri angolano Paulo Teixeira Jorge, accompagnato da alcuni reduci, l’ha commemorata al Parlamento sudafricano, una cui delegazione, guidata dal presidente dell’Anc (e del Sudafrica) Jacob Zuma, ha visitato il campo di battaglia nel marzo 2008. Queste iniziative sono state criticate dal capo dell’opposizione, il liberale progressista Frederik van Zyl Slabbert, il quale ha esortato i concittadini a non «cadere in un’invenzione storica». Pur riconoscendo di non aver avuto accesso alle fonti sudafricane, ancora classificate, Gleijeses ha liquidato in poche battute il tentativo “revisionista” dei reduci delle Sadf, e in particolare dell’ex ministro della Difesa Magnus André de Merindol Malan (classe 1930, la stessa del suo storico avversario Ochoa), di contestare la tesi della vittoria cubana. In effetti la maggior parte della cinquantina di libri che ho potuto reperire circa la guerra in Angola e Namibia e le covert operations (“Koevoet”) delle Sadf, sono di impronta reducista e filo-apartheid, in particolare le memorie di Malan, i cinque saggi di Peter Stiff e i tre del colonnello dei paracadutisti Jan Breytenbach, già comandante del 32°


storia

Il generale Arnaldo T. Ochoa Sanchez detto “El Moro” (1930-1989), grande stratega e comandante delle forze cubane in Angola (1975) e in Etiopia (1977), fucilato per alto tradimento. Le locandine cubane di commemorazione del trentesimo anniversario della battaglia.

Battaglione “Buffalo” formato nel 1975 coi veterani del Flna (guerriglieri angolani già inquadrati nell’esercito zairese) inquadrati da ufficiali bianchi (e tanto famoso da essere citato nel film Blood Diamond di Edward Zwick, del 2006, come l’unità di provenienza del protagonista, interpretato da Leonardo Di Caprio).

Tuttavia questa riserva ideologica non può

inficiare studi indipendenti come quelli del maggiore dei Marines Michael F. Morris, che ha considerato tecnicamente esemplare l’operazione condotta dalle Sadf nel 1987-88 (Flying Columns in Small Wars, 2000, PDF online); o di storici militari come James M. Roherty (State Security in South Africa: Civil-Military Relations under P. W. Botha, M. E. Sharpe, 1992), John Turner (Continent Ablaze. The Insurgency Wars in Africa, Cassell 1998) e Edward George (The Cuban Intervention in Angola 1965-1991. From Che Guevara to Cuito Cuanavale, Frank Cass Military

Studies Series, New York 2005). Secondo George «Cuba’s much-heralded ‘victory’ over the South Africans at Cuito Cuanavale is shown to have been no more than a costly stand-off, its real significate lying in the impetus it gave to the Americanbrokered peace process». In definitiva, Pretoria non cedette per la resistenza del caposaldo angolano e la relativa superiorità aerea cubana, ma per le pressioni americane, l’isolamento internazionale e la crisi interna che condusse di lì a poco alle dimissioni anticipate del presidente Pieter Willem Botha (1916-2006). Cuito Cuanavale ha avuto nondimeno un effetto politico più duraturo e importante: quello di concedere ad un regime oppressivo un’attenuante morale e un alone di simpatia. E se è risibile il paragone con Stalingrado, pure calza quello con Guadalajara. Anche quella una vittoria esagerata, ma il cui mito sopravvisse alla sconfitta dei repubblicani spagnoli e contribuì realmente alle future fortune della sinistra internazionale. 85


la libreria


libreria

DE SAINT-EXUPÉRY E LA VERTIGINE DELL’IMPREVEDIBILE INCIDENTE AEREO S

di Mario Arpino

e Il Piccolo Principe è il libro che ha reso rapidamente celebre Antoine de SaintExupéry in tutto il mondo, gli scritti raccolti in Manon Ballerina (ed altri inediti) rappresentano le sue prime prove letterarie. La vasta produzione, spesso inedita o pubblicata in raccolte di frammenti dopo la morte, è una vera miniera letteraria, che ancora oggi continua a sorprendere e rappresenta una testimonianza fedele del modo di essere, di pensare e di comportarsi nella Francia tra le due guerre. Vi è da dire che nel caso di queste pagine si precorrono i tempi e lo sviluppo delle sue opere più celebri. Già emergono atmosfere e personaggi che saranno poi da lui stesso approfonditi, come l’attenzione alla vita di tutti i giorni, alle notti parigine, alla vita sregolata di un giovane dell’epoca, la psicologia dell’aviatore, le delusioni e gli slanci. Ma soprattutto traspare già l’elemento caratterizzante di tutta la sua opera, l’amore per il volo e la riflessione profonda su tutto l’ambiente che lo circonda. Sensazioni che diventano presto espressione di legame organico tra l’uomo, la macchina e l’ambiente, in una reciproca interazione che ha l’alea del destino, e del mistero. Secondo i critici, in questi suoi primi scritti Saint-Exupéry è già forte, efficace, in grado di disegnare con semplicità e immediatezza sia i sentimenti che le scene della vita quotidiana. Come per Proust, c’è all’origine una forte capacità autobiografica, che l’Autore cerca continuamente di mascherare e nascondere. Senza però riuscirci del tutto. Manon Ballerina non è, come abbiamo già detto, un vero libro, un’opera organica che contenga una storia attraverso la quale si sviluppa una sequenza, dal primo capitolo all’ultimo. Eppure la storia c’è, ed è, attraverso storie e personaggi diversi, la vita stessa dell’Autore, condita con i suoi sentimenti e le sue suggestioni. In questo senso le due storie giovanili di apertura, che assieme formano il primo capitolo - Manon, ballerina e L’Aviatore - sono due aspetti della stessa introspezione, e sono ben rappresentative, direi che sono i prodro-

ANTOINE DE SAINT–EXUPÉRY Manon ballerina (e altri inediti)

Bompiani Editore pp. 231 • Euro 19,00 L’Autore non ha bisogno di presentazioni. Noto ai più come autore de Il Piccolo Principe, era un pilota civile che negli anni Venti e Trenta volava su piccoli aerei del Servizio Postale da un punto all’altro del Sudamerca e dell’Africa occidentale. Nel corso della guerra, divenne pilota militare nell’aviazione della Francia libera. Scomparve un giorno del luglio 1944, durante una missione operativa isolata sul Mediterraneo, circondato da un’aureola di leggenda.

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Risk mi di tutta l’opera romanzesca di Saint-Exupéry, pur essendo molto diverse l’una dall’altra per trama e ambientazione del racconto. Chi ha letto abbastanza dei suoi scritti, vi avrà sempre trovato concetti e suggestioni che già sono embrionalmente presenti in questi suoi due racconti giovanili. Il primo, Manon, dove è possibile trovare gli echi degli anni parigini dell’autore, lo lasciamo scoprire interamente ai lettori. Sul secondo è invece opportuno approfondire almeno un po’, perché in esso si trovano in anticipo già tutti i temi fondamentali che Saint-Exupéry andrà poi sviluppando nelle successive esperienze letterarie. Il racconto viene pubblicato per la prima volta nel 1926, su una rivista che nella Parigi di allora andava per la maggiore nell’ambiente della cultura e delle arti belle: Le Navire d’argent. La figura centrale è l’uomo aviatore, con le differenze tra la vita consapevolmente rischiosa di un pilota e il lavoro degli altri, quelli che svolgono un lavoro convenzionale, magari importante, ma “tranquillo” perché si svolge a terra. È ovviamente una visione romantica del pilota e del suo imponderabile ambiente, ma, se pensiamo a cosa era all’epoca l’aviazione, si comprende come difficilmente l’approccio avrebbe potuto essere diverso. Non è certo una storia a lieto fine, quella dell’Aviateur, che perde un’ala durante una manovra acrobatica, e inesorabilmente precipita e si schianta. Ma lo fa con incredulità e meraviglia, stupito che proprio a lui, che in quegli attimi passa in rassegna tutta una vita, stia capitando proprio in un momento sublime “quell’imprevedibile” che lui, invece, in modo inespresso sapeva che prima o poi sarebbe accaduto. Alla fine della storia, il lettore si scoprirà emozionato, ma più come succede davanti a un vertiginoso quadro di Aeropittura, piuttosto che davanti alla repentinità di una morte presagita. Il secondo capitolo è formato da una pregevole introduzione di Alban Cerisier, che ha curato tutta questa raccolta, e contiene altri tre racconti, anche questi basici nell’opera dell’autore e costruiti su ragionamenti, impressioni e sentimenti sempre ricorrenti. È difficile, soprattutto per chi ha conosciuto un certo ambiente, non riconoscersi in alcune situazioni o non ritrovare almeno alcuni dei propri sentimenti inespressi. Si tratta di Questa sera sono andato a vedere il mio aereo, Il Pilota o Si può credere negli uomini. Anche in questo caso si tratta di 88

manoscritti inediti autografi, con diverse parentesi quadre che racchiudono puntini oppure la frase o la parola presunta laddove l’originale è risultato illeggibile. Il pilota, in verità, non è un racconto, ma il testo di una delle tante conferenze che l’Autore, assieme ad altri due colleghi aviatori, veniva invitato a tenere in varie capitali del Mediterraneo. Vale la pena riportarne l’incipit, che ne dà tutto lo spirito. «…Non sarà una storia di viaggi in senso stretto. Non vi descriverà Rio de Janeiro al tramonto. Non abbellirò, colorandoli di verde, blu o rosa, i paesaggi aerei, tanto spesso così monotoni. Ciò che di essenziale l’aereo insegna all’uomo non può essere sostituito da una collezione di cartoline…Neanche l’Africa è traducibile in storie di caccia». Il terzo capitolo è una raccolta di materiale, lettere e appunti che riguardano i due suoi libri fondamentali del filone aviatorio, ovvero Corriere del Sud e Volo di notte, mentre il quarto raccoglie sette lettere dell’Autore scritte nel 1942 a Natalie Paley, principessa Romanoff nipote dello zar Alessandro II, sua ultima grande fiamma. Anche se fu una relazione di breve durata, il critici ritengono che queste lettere completano la figura di Saint-Exupéry rivelandone il suo tipico lirismo, che «…oscilla tra il bisogno di amare, quello di essere consolato e la disperata volontà di cercare nell’amore un rifugio per trovare pace…». A questo punto è necessaria, oltre che doverosa dopo la discontinuità di questa carrellata, qualche nota biografica dell’autore, la cui vita è già di per sé un romanzo misto di avventure, sentimenti e tormenti ad alta intensità. Nasce a Lione il 29 giugno 1900, terzogenito del conte Jean de Saint.Exupéry. A dodici anni, a Le Mans, riceve il suo “battesimo dell’aria”, volando con il pioniere del volo Vedrinés. In collegio presso i Padri Maristi a Friburgo, si forma culturalmente leggendo sopra tutto Balzac, Pascal, Descartes, Baudelaire e Dostoevskij. Nel 1921 compie il servizio militare a Strasburgo e in Marocco, ottenendo i brevetti di volo di pilota civile e, successivamente, quello militare. Congedato, riprende a volare nel 1926 a Orly, dove scrive L’Aviateur. Nello stesso anno viene assunto come pilota di linea dalla Compagnia Cenerale di Imprese Aeronautiche, che collegava la Francia Meridionale con l’Africa occidentale, e viene assegnato a uno scalo africano, da dove svolge servizio postale con lunghi voli diurni e notturni sul deserto del


libreria Sahara, che lo affascina. Nel 1928 scrive Corriere del Sud, il suo primo successo letterario. Due anni prima di morire annoterà che «…chiunque abbia conosciuto la vita del Sahara, dove tutto sembra essere solitudine e squallore, rimpiange quegli anni come i più belli della sua vita». L’anno successivo parte per Buenos Aires e diventa capo pilota dell’Aeropostale argentina, dove diviene amico di piloti leggendari come Mermoz e Guillaumet. Con queste nuove esperienze, nel 1931 scrive il suo secondo romanzo di successo, Vol de nuit, che andrebbe letto per primo, come introduzione per ogni sua opera. Prima della guerra, come

pilota e giornalista, cerca di compiere raid di successo, ma va incontro a gravi incidenti, tra i quali il peggiore avviene nel 1938 nel deserto africano. Si ferma per la convalescenza negli Stati Uniti, dove nel 1939 scrive Terra degli uomini, altra introspezione filosofica. Sebbene abbia il fisico ormai compromesso dagli esiti degli incidenti, si arruola come pilota ricognitore nell’aviazione della Francia Libera, dove vola fino al tragico epilogo del 31 luglio 1944. Nel frattempo non smette di scrivere. Il piccolo principe è del 1943, mentre La Cittadella, uscito postumo e incompleto, è del giugno 1944.

GLI USA E LA TRILOGIA DELL’ERRORE

B

Crisi economica, politica e militare: per la prima volta gli Stati Uniti affrontano tre emergenze assieme. È davvero l’era del tramonto?

el libro, acuto, denso, ben scritto. Sta avendo un grande successo di vendite e di critiche anche perché sembra aver preconizzato il lato geopolitico e strategico-militare della crisi americana in atto. Sarebbe un testo capitale di questi anni se le sue tesi non trasudassero una partigianeria affascinante ma non sempre condivisibile. L’autore, Andrei J. Bacevich, è una singolare e insolita figura di politologo. Docente di relazioni internazionali alla prestigiosa Boston University dopo aver insegnato alla John Hopkins Unversity e a West Point, è stato ufficiale di carriera dell’Us Army per oltre un ventennio, dal 1969 ai primi anni Novanta, quando ha lasciato il servizio con il grado di colonnello, probabilmente per le conseguenze di un tragico incidente che ha interessato l’unità che comandava in Germania e del quale si è preso l’intera e – si dice - immeritata responsabilità. Sin dai tempi delle varie scuole di guerra, il personaggio ha brillato per le sua acutezza negli studi storici e politici, anche se non nelle vesti consuete del “red neck” intellettuale in grigioverde, come tanti agguerriti e allineati prodotti delle sofisticate think tank del Dipartimento della Difesa. Era allora - ed è adesso, ancor più - un battitore libero

della prateria culturale americana, un “cattolico conservatore”, come egli si definisce, seguace e propugnatore delle idee di Reinhold Niebhur, il celebrato teo-politologo americano degli anni Cinquanta. Sviluppando e aggiornando le idee del suo maestro, Bacevich è pervenuto ad una critica totalizzante dei dogmi consolidati “dell’eccezionalismo americano”, soprattutto da quando ha gettato la divisa alle ortiche indossando la cappa del professore. E, possiamo ipotizzare, ancor più da quando è scaturito per lui, dalle conseguenze più recenti di tale eccezionalismo, un terribile dramma personale, con la perdita in Iraq del suo unico figlio, ufficiale dell’esercito dislocato in quel teatro. Difficile pensare che questa sciagura non lo abbia influenzato, accentuando un pessimismo che aveva messo già solide radici. Questo pessimismo non è assimilabile alle posizioni delle correnti liberal più o meno radicali che hanno fatto a pezzi Nixon, Reagan, Bush, Cheney e Rumsfeld ma tutto sommato salvano la parte buona dell’America Shining Town Upon A Hill. Per Bacevich questa dicotomia non esiste. L’America non è né buona né cattiva, e non brilla affatto su una collina, ne ora né mai, come tutte le altre istituzioni dell’uomo. Da un cinquantennio è 89


Risk costretta dalle circostanze e da una percezione di sé eccessivamente lusinghiera e del tutto bipartisan, comune a liberal e repubblicani, a comportarsi in modo scriteriato, inanellando un errore dietro l’altro. Analogamente ai suoi libri precedenti - fra quali in particolare The long War (2007) e The new american militarism: how America is seduced by war - anche questo nuovo e intrigante saggio focalizza il ridimensionamento dell’autostima americana attraverso una critica senza appello della politica estera di Washington della Guerra Fredda e della Pace Calda (o “Nuovo Ordine Mondiale”, definizione beffarda come poche). Secondo il nostro autore, per conseguire i loro obiettivi gli Stati Uniti hanno sviluppato un’eccessiva consuetudine con l’uso della potenza “hard” - militare - a detrimento di quella “soft” diplomazia e influenza della propria cultura e civiltà sugli altri. Ovvero l’arma più decisiva dell’America nell’agone globalizzato. Questo è accaduto anche perché il popolo yankee, e in particolare i suoi rappresentanti politici, hanno sempre tenuto in eccessiva considerazione l’utilità e la percorribilità dell’uso della forza bellica nei rapporti internazionali, sedotti anche dalla rappresentazione romantica del fenomeno guerra che la cultura popolare esprime, soprattutto, nella cinematografia. A questa visione distorta e contraffatta corrisponde paradossalmente una carenza di esperienza militare diretta nella maggior parte dei cittadini americani, sopratutto da quando la leva è stata abolita. Tale carenza riguarda anche le classi dirigenti, in particolare i decision maker politici. Dei tre ultimi presidenti, nessuno ha mai visto la prima linea, e due di essi non hanno mai vestito un’uniforme (uno ha formalmente eluso la coscrizione). Per contro, i nove presidenti della Guerra Fredda hanno tutti servito in divisa il loro Paese in guerra. Alcuni di loro sotto il fuoco nemico, con ferite, sofferenze durate tutta la vita, commilitoni uccisi sotto i loro occhi e tutta la consapevolezza della tragica complessità del fenomeno bellico, anche in termini del costante scollamento fra gli obbiettivi che i belligeranti si pongo90

no e i risultati che ottengono. L’effetto di questa interazione fra l’idealizzazione romantica della guerra e la mancanza di esperienza bellica di chi la decide si tradurrebbe - secondo Basevich - in una percezione americana della conflittualità del tutto falsata. Essa finisce per suscitare autentici pericoli proprio per quel mantra della “Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti” in nome del quale più o meno tutte le iniziative vengono azzardate. La faciloneria e la superficialità con la quale il Paese viene trascinato in conflitti dagli esiti incerti con motivazioni inconsistenti finisce per essere una costante della politica americana degli ultimi decenni. È evidente il riferimento ai due ultimi episodi della corposa vicenda guerriera americana, Iraq e Afghanistan, anche se l’autore mette in luce che essi fanno parte di una lunga teoria di analogie pre e post Guerra Fredda, senza contare gli eventi precedenti all’impero globale americano, di quando l’America era solo un impero continentale in fieri. Oltre a questo difetto fondamentale di percezione e di impostazione dei rapporti con il mondo, lo smarrimento americano di oggi descritto da Bacevich riguarda tre crisi interconnesse, alle quali vengono riservati altrettanti capitoli fondamentali del libro. La prima crisi è economica, definita «dello spreco, dello scialacquio, della dissolutezza (profligacy)», ovvero una propensione collettiva radicata nel pubblico e nel privato americano «nell’acquistare a credito, nel dilapidare, nell’indulgere in comportamenti chiaramente rovinosi e a volte anche fraudolenti, perseguiti anche rimuovendo con la forza qualsiasi ostacolo al loro manifestarsi». La pretesa tutta americana di dissipare smodate quantità di energia a basso costo, fruire di un credito personale illimitato e irresponsabile, consumare molto più di quanto non si produca, mantenere un iperbolico double deficit - federale e nazionale -, pretendere premi miliardari da aziende in fallimento finanziate con denari pubblici - sono tutti aspetti di questa fuga corale dalla responsabilità. La seconda crisi è politica e riguarda la concentrazione abnorme del potere statunitense nell’Esecutivo di


libreria Washington, a detrimento dei dettati costituzionali e del tradizionale check and balance che avevano servito così bene l’Unione per due secoli. Ad essa si somma la svalutazione e l’inettitudine del Congresso - la cui principale funzione è, secondo l’autore, l’autoperpetuazione a detrimento del ruolo fondamentale che la Carta Fondamentale gli assegna - nonchè la complessiva mediocrità della governance che presiede al funzionamento delle istituzioni federali. Gli esempi di malgoverno che l’autore porta a sostegno della sua tesi - l’uragano Katrina, l’assistenza sanitaria incompleta e costosissima, la sicurezza sociale che frana, la gestione fallimentare dell’immigrazione - fanno ormai parte della contro-mitologia degli Stati Uniti, di quella presa di coscienza universale che ha trasformato la “Speranza del genere umano” evocata da Reagan nel suo discorso per il Bicentenario in una utopia in liquidazione. La terza crisi sarebbe militare e risulta la meno condivisibile (le altre due lo sono in toto). Deriverebbe da quella cultura nefasta della Sicurezza Nazionale alla quale abbiamo accennato, in nome della quale tutto è giustificato, anche combattere guerre sulle quali si sa poco, nel momento meno opportuno e contro il nemico sbagliato. Secondo Bacevich i militari non si sarebbero opposti a sufficienza a questa deriva facendosi coinvolgere in conflitti rovinosi per i quali hanno raschiato il fondo del barile delle loro capacità, senza ottenere i risultati imposti con arroganza e presunzione da referenti politici chiaramente incompetenti. La tesi è alquanto

approssimata, almeno per un addetto ai lavori, e meriterebbe un’analisi ben più ampia di quanto sia possibile qui e ora. Si può solo osservare che in democrazia sono i leader rappresentativi della volontà popolare che decidono se la politica debba essere proseguita con l’uso della forza e di quale forza. Senza se e senza ma. I militari possono solo dare consigli e fare al meglio quello che è stato ordinato loro. Ed è quello che “capi e i gregari” statunitensi hanno fatto con capacità professionali di altissimo livello e il risultato complessivo di abbattere un regime odioso e destabilizzante, avviando ad una probabile rinascita un paese molto travagliato (Iraq), cercando nel contempo di fare più o meno altrettanto in un contesto ancora più difficile (Afghanistan) e combattendo altrove il resto della War on Terror, la quale non era e non è una quisquilia del terz’ordine. Per ora fallimenti non se ne sono visti ed è improbabile che se ne vedano. In quanto al fondo del barile del Pentagono, è stato raschiato solo quello delle forze terrestri, a suo tempo sottodimensionate quando le tre vicende si sono avviate per il ruolo da poliziotto globale degli Stati Uniti. I barili della US Navy e dell’Usaf sono invece colmi fino all’orlo. Il poderoso dispositivo aeronavale degli Stati Uniti è intatto e mai così potente e combat ready come adesso, anche per l’ottimizzazione operativa e logistica che la conflittualità di questi anni ha determinato. La supremazia militare degli Stati Uniti nei confronti degli altri stati - che sono quelli che contano, non equivochiamo - è ancora “stellare,” di nome e di fatto.

ANDREW J. BACEVICH

Limits of power The end of America exceptionalism

Metropolitan Books Henry Holt & Company pp. 224 • $ 14,00 Non sarebbero gli interessi degli affari o un militarismo vecchio stile che guidano le ambizioni di Washington oltre confine. Sarebbe piuttosto il concetto espansivo che gli Usa hanno di libertà e di “good life” che nel corso degli anni ha stimolato crescenti “appetiti” che possono essere soddisfatti solo attraverso una Pax Americana. Ma un mondo a guida Usa con credito facile, petrolio abbondante e beni di consumo a buon mercato non è sostenibile. Facendo eco alle idee di studiosi come Barry Posen, Ian Shapiro ed altri, lo storico (e politologo) Andrew J. Bacevich, cattedra alla Boston University in Relazioni internazionali (dopo aver insegnato alla John Hopkins Unversity e a West Point), invoca una grande strategia di contenimento, riducendo il sovraesteso impegno militare e ritornando ad un’agenda di politica estera più modesta.

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Risk U S C I T I • VICTOR DAVIS HANSON Una guerra diversa da tutte le altre. Come Atene e Sparta combattevano nel Peloponneso Garzanti 2008

Victor Davis Hanson, autorevole storico militare dell’antica Grecia e uno dei più fini interpreti degli eventi del nostro tempo, narra lo scontro che mise fine al predominio della prima superpotenza occidentale. L’autore racconta la guerra del Peloponneso descrivendone i retroscena politici e, addentrandosi nei dettagli tattici e operativi delle sanguinose battaglie che la scandirono, in terra e in mare, ne porta alla luce i presagi dei lati più oscuri dei conflitti dei nostri giorni. Tortura, omicidi politici, terrorismo erano strumenti comuni, così come l’uso di guerrieri-bambini che combattevano sui pony e l’invio di superstiti delle epidemie fra le file nemiche con lo scopo di infettarle. Con la sua abituale maestria narrativa, Hanson collega il passato al presente e rende moderno il suo messaggio. • JEAN MARIE COLOMBANI Un americano a Parigi. Le scelte e gli errori di Sarkozy Rizzoli 2009

Il Sarkozy di Colombani è dispotico, talvolta demagogico, ma ha l’innegabile merito di avere riportato la Francia al centro della scena internazionale. Tramite un rinnovamento della politica estera di Parigi, e circondandosi di personaggi-simobolo come Rachida Dati e il cofondatore di Medici senza frontiere Bernard Kouchner, il nuovo

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N E L

M O N D O

Presidente ha restituito alla Francia una parte della sua grandeur. La sua origine familiare da parvenu della politica, il tormentato divorzio, il matrimonio con Carla Bruni, l’ostentazione del lusso e la cura dell’estetica, sono, agli occhi dell’autore, altrettanti elementi che fanno della vita privata di Sarkò uno spettacolo che, pur spesso criticati, ricordano in fondo la tradizione dei grandi monarchi francesi. Il nuovo inquilino dell’Eliseo, si chiede Colombani, è solo un governante improvvisato e ambizioso, o ha scovato un modo nuovo ed unico di riadattare al presente il protagonismo assolutista dell’antico regime? • VIJAY PRASHAD Storia del Terzo Mondo Rubbettino 2009

Il libro di Prashad è un tentativo di riportare al centro del dibattito politico un soggetto che, spesso relegato dalla storia a teatro di catastrofi umanitarie e ambientali, ha giocato un ruolo da protagonista nel Ventesimo secolo. Arena contesa dalle due superpotenze nel corso Guerra Fredda, l’insieme dei Paesi in via di sviluppo è stato anche un laboratorio di idee, concezioni e visioni politiche, in lotta contro le formidabili forze dispiegate dal colonialismo prima e dal neocolonialismo poi. L’autore ripercorre la storia di questo soggetto, dalla sua nascita in funzione anticolonialista ai suoi fallimenti socioeconomici, sulla cui eredità Prashad si interroga, anche alla luce del fallimento, altrettanto catastrofico, del modello sovietico.

a cura di Beniamino Irdi

• GILLES KEPEL Oltre il terrore e il martirio Feltrinelli 2009

Al centro dell’opera del mediorientalista francese c’è il contrasto fra la narrativa americana della “guerra al terrorismo” e quella jihadista dell’esaltazione del martirio. Da un panorama fatto di ostaggi sgozzati in Iraq, prigionieri abusati ad Abu Ghraib e a Guantànamo, e una lunga scia di sangue che da Gerusalemme va fino a Mumbai, Kepel conclude che entrambi gli schieramenti hanno perso la loro battaglia. Ravvivando, anzi, l’antico scontro interno al mondo islamico fra sciiti e sunniti, che ha restituito forza al nemico comune, l’Iran, e prodotto un Golfo Persico sempre più a rischio di instabilità. Dopo il fallimento della strategia di Washington, argomenta Kepel, l’unico soggetto che può restituire la pace al Medio Oriente è l’Europa, sul cui territorio vivono già milioni di cittadini di religione musulmana, attraverso la costruzione di uno spazio di prosperità che ricopra tutto il Mediterraneo. • THOMAS L. FRIEDMAN Caldo, piatto e affollato Mondadori 2009

Dopo avere annunciato la fine dell’epoca dei grandi divari fra Paesi ricchi e quelli del terzo mondo, attraverso lo slogan “il mondo è piatto”, l’economista americano aggiunge ora che esso è anche “caldo e affollato”, allargando così l’orizzonte di analisi dall’economia all’ambito demografico ed ecologico. Se le immense popolazioni asiatiche sono

destinate a consumare le risorse naturali al ritmo dell’occidente, argomenta Friedman, il sistema ecologico globale si troverà prima o poi ad affrontare il rischio di un tracollo totale. Una via d’uscita, la concreta speranza di evitare il disastro ecologico, secondo l’autore, dovrà fondarsi su un nuovo modello economico “verde” che può rappresentare al contempo il motore di una crescita economica forte e rapida, guidata dalla ricerca e dalla sperimentazione delle economie già sviluppate. • MARK R. LEVIN Liberty and Tyranny: A Conservative Manifesto Threshold Editions 2009

Liberty and Tyranny è la chiamata dell’autore all’America repubblicana, un manifesto del movimento conservatore per il Ventunesimo secolo. Nel libro Levin mette in guardia dalla corrosione dei valori della costituzione ad opera del movimento liberal, e dalla tendenza di quest’ultimo a trasformare il Governo federale in un conglomerato massiccio e privo di responsabilità. Portando, in ultima analisi, verso la tirannia, mentre «i valori conservatori sono l’antidoto alla tirannia, precisamente perché sono i nostri principi fondatori». In una serie di saggi, Levin formula le sue proposte per una nuova “contro-visione” conservatrice che tocca i temi di maggior rilievo per l’America di oggi, dall’economia, all’ecologia e l’immigrazione, suggerendo che il cauto e graduale cambiamento conservatore è sempre un passo in favore della libertà degli individui.


riviste L A

R I V I S T A

VICTOR DAVIS HANSON Phony War: Afghanistan and the democrats World Affairs Winter 2009

Molti americani nel 2003 pensavano che le guerre in Afghanistan e Iraq fossero complementari. La sinistra anti-guerra in Iraq era convinta che i due fronti fossero connessi, in maniera antitetica ma simbiotica. Per loro la guerra unilaterale in Iraq veniva perseguita a spese del ben più legittimo - sotto il cappello del multilateralismo – conflitto in Afghansitan. È utili ricordare che quando gli Usa hanno invaso l’Afghanistan, il 6 ottobre del 2001, molti a sinistra avevano previsto un disastro militare. Nessuno, pensava che l’America non avrebbe più subito attentati per 7 anni. Le montagne dell’Hindu Kush erano troppo alte. L’acqua troppo ghiacciata. Con l’uccisione di Massoud, l’alleanza del Nord non sarebbe stata più in grado di combattere. Lo stesso infausto destino che aveva accomunato le sconfitte britanniche e sovietiche in quelle terre stava aspettando anche l’alleanza occidentale.

D E L L E

Il New York Times aveva ricordava la disfatta in Vietnam. La realtà da quelle parti ha però raccontato un’altra storia. La rapida sconfitta dei talebani, così come la presa del potere del governo Karzai, tranquillizzò per un certo periodo le polemiche. Giusto un anno dopo i successi afghani erano diventati un motivo per un maggior attivismo, non certo per una maggiore cautela. Sull’onda di questo clima i democratici, nell’ottobre del 2002 – poche settimane prima delle elezioni di medio termine - votarono per la seconda operazione militare: quella in Iraq. Molti di loro pensarono che in Iraq sarebbe stata una passeggiata. Dopo una spettacolare vittoria militare ottenuta in sole tre settimane, il 70 per cento degli americani erano a favore della guerra irachena. Poi nel 2004 cominciarono i guai. Centinaia di militari Usa venivano uccisi. La passeggiata si trasformò in un bagno di sangue. Cambiò il vento nell’opinione pubblica. Ma la storia militare Usa ha insegnato che si possono combattere guerre su più fronti, come avvenne nel secondo conflitto mondiale. Il mantra dei liberal americani che occorra lasciare l’Iraq per concentrasi in Afghanistan non terrebbe conto della storia, secondo Hanson. La guerra in Iraq è sostanzialmente stata vinta. A ottobre del 2008 sono stati solo 7 i militari caduti, contro i quaranta omicidi che mediamente avvengono, in un mese, solo a Chicago. Obama oggi con la responsabilità di un

R I V I S T E comandante in capo ha una visione diversa. Non basteranno poche migliaia di militari in più per battere i talebani. Obama candidato e Obama presidente non sono più d’accordo.

DAMON LINKER The future of Christian America The New Republic April 2009

È veramente finita l’era dell’America cristiana? Si domanda l’autore dell’articolo sull’onda di una inchiesta del settimanale Newsweek. No, non così presto. La risposta è piuttosto chiara, ma nasconde un cambiamento comunque epocale. «La stampa e l’editoria da anni amano stupirci, annunciando la morte di mode, politiche, tendenze culturali, ma se si vanno a leggere i numeri poi, al di fuori dell’effetto annuncio, rimane ben poco. Vale anche per il titolo di un pezzo che vorrebbe leggere una svolta epocale nella cultura d’oltre Atlantico, cristiana per nascita, laica per scelta». I dati dell’inchiesta vedono il numero di chi non si riconosce in nessuna fede religiosa aumentare da un 8 per cento del 1990 al 15 per cento del

a cura di Pierre Chiartano 2008. Sempre nello stesso periodo, la quota di chi si dice cristiano è scesa dall’87 al 76 per cento. Più che un’inversione culturale, che suonerebbe un cambiamento storico, Linker parla di un Paese che dall’essere a «stragrande» maggioranza cristiana è passato a essere semplicemente una nazione a «grande» maggioranza cristiana. «Ma dove sarebbe la notizia?», si chiede l’autore. Jon Meacham di NW avrà voluto dire che l’America ha avviato un trend che la porterà ad essere meno cristiana, in tempi molto lunghi. Forse. Ciò che le sue statistiche mostrano è meno epico di quanto affermato, ma forse più interessante da un certo punto di vista. Le dispute sul ruolo della religione nella vita pubblica statunitense vertono quasi sempre su quale teologia – e in che misura – sia incorporata, influenzi di più la religione civile del Paese. Il che significa penetrare nella dimensione spirituale dell’identità nazionale. Nei decenni a metà del Ventesimo secolo, la vittoria la ebbe il protestantesimo liberale e Mecaham vedrebbe con favore un suo ritorno in auge. Negli ultimi decenni, invece, il conservatorismo religioso ha fatto uno sforzo enorme per promuovere una sintesi fra tradizionalismo evangelico protestante e ortodossia cattolica romana, portandola al centro della vita pubblica americana. Ciò ha avuto come conseguenza un certo malumore tra la popolazione non cristiana, cristiana meno fervente, o cristiana non dottrinaria. E oggi 93


Risk L A

R I V I S T A

spiega, in qualche maniera, perché un numero meno elevato di americani si dichiarino cristiani e un numero maggiore si definisca secolarista. Ma non spiega quale contenuto dovrà aver la religione civile americana, ora che la formula catollico-protestante si è sarebbe rivelata inadatta per le esigenze di una società complessa e multietnica nel Terzo millennio. L’autore propone la formula del sociologo Christian Smith: il deismo teologico-terapeutico. Questa teoria presenta una tavola delle legge in cinque punti, che definisce lui stesso una forma «poco attraente», anemica e insipida di cristianogiudaismo. 1) Dio ha creato un ordine universale e veglia sugli uomini e sul creato. 2) Dio vuole che gli uomini si comportino bene fra loro, come affermano tutte le religioni. 3) L’obiettivo principale della vita è essere felici e sentirsi soddisfatti. 4) Dio non deve essere coinvolto nella vita degli uomini, se non per risolvere dei problemi. 5) La gente che si comporta bene va in paradiso quando muore. Allo scarso appeal teologico di questa formula, si accoppia però una perfetta funzionalità politica: è anodina, inoffensiva e tollerante. Sul termine di America cristiana si apre dunque una disputa sui contenuti, e secondo la visone di Linker sembrerebbe tramontato il vecchio asse Washington-Vaticano. 94

D E L L E

MILTON BEARDEN Obama’s War Foreign Affairs March/April 2009

Obama va alla guerra. Sin dai suoi primi passi il conflitto sugli altipiani afgani è stato l’orfanello di Washington. Dall’ottobre 2001 l’impegno militare nell’Asia centrale non era ai primi posti delle priorità della Casa Bianca. Oggi, invece con il revamping della politica, anche per il Pakistan, voluto dal nuovo presidente, rischia di diventare la guerra di Obama. Ne è convinto l’autore dell’articolo, capostazione Cia in Pakistan dal 1986 al ’89 e che, in un precedente intervento su FA del dicembre 2001, aveva sottolineato i fallimenti di tutti coloro si erano cimentati in Afghanistan, da Alessandro Magno all’Unione sovietica. Oggi, gli Usa si stanno confrontando con l’elenco completo degli stessi problemi già visti e patiti dai protagonisti precedenti della lunga storia afgana. Ciò che farà l’America nel prossimo anno sarà decisivo, per vedere se saprà rompere questa tradizione storica di sconfitte. La prima mossa di Obama sarebbe stata positiva. «Non ha parlato di exit strate-

R I V I S T E gy», il sistema migliore per confrontarsi col nemico. Non dandogli la possibilità di rintanarsi in attesa che il vento della ritirata soffi più forte. In Patria, l’ala dei democratici più contraria alla guerra, teme che l’approccio obamiamo invischi l’America nel conflitto, ancora più profondamente. In realtà gli Usa ne sarebbero già dentro mani e piedi. Il piano e la squadra del presidente che vede schierati Hillary Clinton, Robert Gates, Richard Holbrooke e David Petraeus dovranno avere il coraggio per impostare un nuovo approccio e fare scelte anticonvenzionale per invertire il corso della storia. I 17mila uomini del surge afgano, più i 4mila istruttori per le forze di sicurezza porteranno il totale dei militari Usa a 60mila, cui si aggiungono i 30mila dei Paesi Nato. I sovietici ne avevano 120mila, ma ne sarebbero serviti 400mila per controllare tutto l’Afghanistan. Un conto simile era stato fatto anche dal Pentagono, ai tempi di Bush. Il problema, già affrontato da Mosca è l’impossibilità di dispiegare una tale schieramento su di un terreno la cui morfologia, piena di imbuti e strettoie, avrebbe reso inutile l’utilizzo di brigate e battaglioni. Nel 2008, intervistato dal Der Spiegel il generale Dan McNeil, già comandante di Isaf, aveva calcolato in 400mila gli uomini necessari per pacificare il Paese. Numeri sono al di fuori della portata delle possibilità di Usa e Nato. I 5mila rinforzi dell’Allenza previsti non avranno un grande effetto sul campo.

Anche se il surge dovesse godere di altri 21mila uomini, questi servirebbero giusto a rimpiazzare le truppe in rientro nei Paesi europei nei prossimi 2 anni. Ora, visto che gli obiettivi militari sarebbero fuori portata, a Obama non rimane che ridefinire la politica afgana. In pratica abbassare il tiro e pretendere meno da quella missione. Mantenere la lotta ad al Qaida senza quartiere, ma aprire a quella parte di talebani che potrebbero indulgere a più miti consigli, se adeguatamente incentivati. Specialmente quelli al servizio dei narco-trafficanti a 10 dollari al giorno. L’esperienza ha insegnato che anche acerrimi nemici come il leone del Panshir, Massoud e il generale filosovietico, l’uzbeko Dastun, potevano sedersi a un tavolo per negoziare una tregua. Senza dimenticare che i 15 milioni di Pashtun in Afghanistan e i 25 milioni in Pakistan sono la chiave del problema.

KURT JACOBSEN E SAYEED HASAN KHAN Rough Justice in Pakistan Harvard International Review Winter 2009

Oscar Wilde affermava che ottenere ciò che si vuole, potrebbe essere peggio che non


riviste L A

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ottenerlo. E Nawaz Sharif potrebbe presto apprezzare il significato della saggezza del pensiero occidentale. Tutti coloro che immaginavano che la partenza del presidente Pervez Mushararf avrebbe significato un miglioramento della vita quotidiana in Pakistan sarebbero degli ottimi candidati per un istituto psichiatrico. Questo scenario da Alice nel Paese delle meraviglie ha avuto sostanzialmente due vincitori: Nawaz Sharif e Asif Zardari le cui fortune si sono accumulate, in una maniera più discutibile, del destino e delle fortune di un militare che, nonostante molti errori, sembra fosse meno soggetto a certi vizi. Nel marzo 2007 Musharraf chiese le dimissioni del presidente della Corte suprema, Muhammad Chaudhry. I disordini cominciarono in maggio e il movimento degli avvocati indipendenti si mise in luce nella battaglia politica. L’estromissione di Musharaf dal governo del Pakistan fu paragonata – dalla stampa internazionale – alla cacciata di Ceausescu e di Idi Amin. Il mondo veniva così diviso fra i dittatori con i loro vizi e i democratici con le loro virtù. Ora che Musharraf non c’è più, i partiti al governo si rendono conto che non c’è più un capro espiatorio per il caos in cui versa il Paese. Insomma gli utili “tartari” non sono più all’orizzonte. Non solo, ma il sistema giudiziario pakistano che, in qualche modo, è stato protagonista del cambiamento di regime, è rimasto quello di

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prima. Difficilmente questo sistema può essere definito o percepito come un dispensatore di giustizia. I cittadini pachistani hanno bene in mente il “listino prezzi” per una sentenza favorevole. Benazir Bhutto, Musharraf e molti piccoli partiti d’opposizione avevano negoziato un accordo per la transizione verso la democrazia, avendo Washington come mediatore. Musharaf che cercava garanzie, fu spiazzato dalla decisione della Corte suprema che gli diede la sgradevole sensazione di rischiare di essere dato in pasto ai lupi. I giudici forse avevano calcolato che pur sabotando la transizione, avrebbero guadagnato in consenso popolare. Fu forse l’unico momento in cui lo slogan “miliatri cattivi” e “operatori della giustizia buoni” funzionò. Le elezioni del febbraio 2008 andarono bene a dispetto dell’assassinio della Bhutto. L’eroina aprì la strada a suo marito “mister dieci per cento”, il Partito del popolo raggiunse un risultato anche più lusinghiero di quello conquistato nel 1970 da Ali Bhutto. L’unica attività andata in porto nel suo gabinetto di primo Ministro, però è stata per Sharif quella di far arrestare Zardari. Da quando è tornata la “democrazia” i prezzi dei generi alimentari e dell’energia hanno penalizzato la popolazione pachistana e l’attivismo dei talebani è esploso. L’Occidente dopo la caduta di Musharraf è diventato giustamente nervoso. Il problema è: quale sarà la prossima mossa di Islamabad?

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CLAUDE BERREBI What the Israeli right owes to Hamas Foreign Policy (web esclusive) February 2009

Le elezioni in Israele, ancora una volta, hanno fallito nel compito di definire un vincitore che possa governare il Paese. Ma i risultati delle urne segnalano due tendenze di cui tenere conto. Primo, l’attacco di Hamas, che ha poi provocato la reazione israeliana, con l’operazione Cast lead, ha ulteriormente spostato il baricentro politico verso destra. Secondo, nella Terra Santa, come in altre parti del mondo, le scelte politiche dipendono molto da dove vivi. In questo caso, se nella tua città hai subito di recente attacchi suicidi o lanci di missili da parte di Hezbollah o Hamas. Quando si arriva a dover decidere sulla scheda elettorale, gli abitanti di quelle zone scelgono, indipendentemente da come la pensano, per la propria difesa. Cioè votano per la destra. Berrebi fa l’esempio della città di Sderot, particolarmente colpita dal lancio dei missili Qassam e Grad che partivano da Gaza. Nel 2006 il partito Likud, di Netannyahu, che aveva preso solo il 10 per

cento dei voti è schizzato alle ultime elezioni al 33 per cento. I laburisti, nello stesso arco di tempo, sono passati dal 12 per cento al 5 per cento: un vero crollo di consensi. A dimostrazione che di fronte a i fatti – il terrorismo – i discorsi elettorali servono a poco. La stessa tendenza la si può registrare anche nella capitale Gerusalemme che, storicamente, è stata la città che ha più sofferto per gli attacchi terroristici. Nella più secolarizzata Tel Aviv, dove non si sono visti razzi e kamikaze, Kadima ha fatto il pieno dei voti, Likud e Yisrael Beiteinu, il partito della destra radicale di Avigdor Lieberman, hanno avuto un modesto incremento. I dati statistici ci raccontano che è possibile scrivere un’equazione diretta fra attentati e spostamento di consensi. Nelle città colpite, dopo ogni episodio cruento, i partiti della destra guadagnavano 1,35 per cento di consensi elettorali. Si potrebbe addirittura affermare che Hamas abbia giocato un ruolo centrale nell’affermazione del nuovo falco della politica israeliana, Liebermann. Con i 15 seggi conquistati nella Knesset, potrebbe ridurre le chance per nuove concessioni ai palestinesi, ma potrebbe anche spingere Hamas verso un accordo. Sia per le trattative per il rilascio del militare Shalit, un ragazzino rapito più di due anni fa, che per quelle sulla chiusura dei tunnel del contrabbando tra Gaza e l’Egitto. Hamas potrebbe ritenere più conveniente chiudere un accordo col governo uscente 95


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del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa

JOHN R. BOLTON: Ambasciatore, Senior Fellow all’American Enterprise Institute, già Rappresentante Usa presso le Nazioni Unite

ROBERTO CAJATI: Capo Ufficio Studi dell’Is.I.A.O. - Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente MARIA EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali e il CeMiSs RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore

GENNARO MALGIERI: deputato Pdl, giornalista e scrittore

MICHELE MARCHI: analista presso il Centro Studi per il Progetto Europeo ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali

EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles

ANTONIO PICASSO: analista Ce.S.I. – Centro Studi Internazionali ENRICO SINGER: giornalista, esperto di Affari europei MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore ANDREA TANI: analista militare, scrittore DAVIDE URSO: esperto di geopolitica

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