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risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA



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quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

Un incendio mai spento

M

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LA STORIA

R

I

O

Virgilio Ilari

Stefano Silvestri

pagine 74/79

Geopolitica del buco nero Carlo Jean •

Tutto può succedere Vincenzo Camporini

LIBRERIA

Federico Eichberg

Mario Arpino Maurizio Stefanini Andrea Tani

Dalla ricostruzione alla recessione

pagine 82/91

Un mosaico vitale per l’Italia

Bruno Dallago

Strategia di una fuga in sordina

Andrea Nativi

RUBRICHE

Andrea Margelletti

Beniamino Irdi Pierre Chiartano

pagine 4/45

pagine 92/95

Il demone balcanico degli Stati mafia

Editoriali

Michele Nones Stranamore pagine 46/47

SCENARI

Il secolo asiatico? È una bufala Minxin Pei

Finalmente Stoccolma! Michele Marchi pagine 50/63

SCACCHIERE

Medioriente Emanuele Ottolenghi

Africa

Giovanni Gasparini Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa

DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Renzo Foa

RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani

Maria Egizia Gattamorta

Unione Europea Giovanni Gasparini

America Latina Riccardo Gefter Wondrich pagine 64/73

REGISTRAZIONE

TRIBUNALE

DI

ROMA N. 283

DEL

23

GIUGNO

2000

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 12 - 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione: Cinzia Rotondi Abbonamenti: 40 euro l’anno Stampa Gruppo Colacresi s.r.l. via Dorando Petri, 20 - 00011 - Bagni di Tivoli Distribuzione Parrini s.p.a. - via Vitorchiano, 81 00189 Roma


SI SONO ROTTI I BALCANI? Nessuno parla più di Balcani. Eppure sono i nostri dirimpettai, tutt’altro che pacificati. La questione del Kosovo è ancora aperta, così come quella della Serbia e del suo eventuale ingresso nell’Ue. La Bosnia è ancora l’insieme di tre repubbliche separate, con un debolissimo centro federale, e il paese dove i politici raccolgono voti e consensi sulla base di un rafforzamento della separazione tra le tre comunità. La questione macedone-albanese rischia di riaprirsi. La crisi economica ha colpito duramente l’intera regione e non ha certo rafforzato l’appetito per la moderazione. Persino il processo di adesione della Croazia all’Ue incontra difficoltà. Mentre il Kosovo è il capofila della criminalità in Europa. L’Ue pensava di risolvere questi problemi cooptando all’interno dell’Unione, uno dopo l’altro, tutti i frammenti dell’exJugoslavia. Confidava, forse con eccessiva baldanza, che il miraggio di poter accedere al consesso europeo avrebbe messo in moto un processo di riforme virtuoso. Così non è stato. Ne prendiamo atto mentre la Nato, costretta dagli sforzi sul fronte AfPak e iracheno, decide di snellire (e che snellimento) la missione nei Balcani e di portarla, nell’arco di due anni, da 15mila a 2.300 uomini. Un vuoto a cui dovrebbe corrispondere un maggiore impegno da parte di Bruxelles. Sempre che le cose non precipitino. La scintilla potrebbe scoccare un po’ ovunque, anche in Grecia, alle prese con l’annosa rivendicazione sul nome di Fyrom. E l’Italia? Non sta a guardare e a livello militare è pronta a far fronte all’emergenza. Ma politicamente è fragile, esattamente quanto Bruxelles. Perché non basta più assicurare la propria presenza e promettere un lontano destino di integrazione nell’Ue: è necessaria una politica del giorno per giorno, che si iscriva in una strategia coerente di medio e lungo periodo, su cui l’Ue (e l’Italia) deve investire tutte le risorse necessarie. Oggi i Balcani sembrano dimenticati, ma il risveglio potrebbe essere tanto brusco quanto doloroso. Firmano il nostro speciale: Vincenzo Camporini, Bruno Dallago, Federico Eichberg, Carlo Jean, Andrea Margelletti, Andrea Nativi e Stefano Silvestri.


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ossier

KOSOVO, BOSNIA, CROAZIA, FYROM: NON SI DEVONO DIMENTICARE I BALCANI

UN INCENDIO MAI SPENTO DI •

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STEFANO SILVESTRI

embra strano, ma nessuno sembra più interessato ai Balcani. C’è stata una visita, lo scorso marzo, del vice-presidente americano Joe Biden, assieme all’Alto Rappresentante europeo, Javier Solana, e naturalmente continuano le missioni dell’Ue sia in Bosnia che in Kosovo, non si placano le polemiche tra la Macedonia (Fyrom)e la Grecia, mentre l’Albania

• sembra consolidare con nuove elezioni il suo regime democratico, ma i Balcani non sono più all’ordine del giorno dei maggiori incontri internazionali. Pochi giorni fa si sono svolti i funerali di altre 534 delle oltre 8mila vittime dei massacri di di Srebrenica, nel 1995, estratte dalle fosse comuni e finalmente identificate, ma la maggior parte dei giornali ha ignorato l’evento (malgrado sia ancora in corso il processo nei confronti di Radovan Karadzic, che di quei massacri era stato l’ispiratore, e sia ancora uccel di bosco il suo complice Ratko Mladic). Eppure le cose non vanno affatto bene. La questione del Kosovo è ancora aperta, così come quella della Serbia e del suo eventuale ingresso nell’Ue. La Bosnia è ancora l’insieme di tre repubbliche separate, con un debolissimo centro federale, e il paese dove i politici raccolgono voti e consensi sulla base di un rafforzamento della separazione tra le tre comunità. La questione macedone-albanese rischia di riaprirsi. La crisi economica ha colpito duramente l’intera regione e non ha certo rafforzato l’appetito per la moderazione. Persino il processo di adesione della Croazia all’Ue incontra difficoltà. L’Ue pensava di risolvere questi problemi cooptan-

do all’interno dell’Unione, uno dopo l’altro, tutti i frammenti dell’ex-Jugoslavia, ma la bocciatura del Trattato di Lisbona da parte degli elettori irlandesi ha anche fermato il processo di allargamento, in attesa di risolvere lo stallo istituzionale. Era stato finalmente sottoscritto un accordo di associazione con la Serbia, senza menzionare la questione dello status del Kosovo, malgrado la dura opposizione dei nazionalisti serbi, che era stato finalmente ratificato anche dal Parlamento di Belgrado, ma in realtà ora sembrano essere i paesi europei a trascinare le cose per il lungo, ritardando in molti casi la loro ratifica. Particolarmente grave è il veto posto dall’Olanda, che rifiuta la ratifica sino alla cattura e consegna di Mladic al Tribunale internazionale: forse all’Aja pensano così di far dimenticare l’immagine sconvolgente dei caschi blu olandesi che assistono immobili ai massacri di Srebrenica, ma in realtà non fanno che aggravare la situazione. La realtà è che questo non sembra più a troppi europei un dossier prioritario, e lo considerano quindi passibile di pressioni tattiche e di piccoli giochi politici interni. Rimane anche aperta la questione dell’indipendenza del Kosovo. Essa è un dato di fatto, ma ancora non è 5


Risk

La Bosnia e gli altri paesi dell’ex Jugoslavia sono un problema di primaria importanza per il futuro della sicurezza europea, nonché per la lotta alla criminalità organizzata, senza parlare del fatto che, nel caso del Kosovo, sono anche un banco di prova per i rapporti con la Russia pienamente consolidata dal punto di vista giuridico. È dell’ottobre 2008 una mozione approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite in appoggio all’iniziativa serba di portare la questione dell’indipendenza del Kosovo davanti alla Corte Internazionale dell’Aja. L’Unione resta divisa, con 22 paesi che lo hanno riconosciuto ed altri cinque che invece la considerano contraria al diritto internazionale e non opportuna. Il Parlamento europeo si è espresso a favore con una votazione che lo ha visto profondamente diviso. Malgrado tutte queste incertezze però l’Ue è largamente presente in Kosovo, anche se la sua missione Eulex (che prevede l’impiego di quasi 2000 uomini), ma non in proprio (come era inizialmente previsto) bensì su mandato Onu e sulla base di una risoluzione del Consiglio di Sicurezza che mantiene ancora aperta la questione dello status futuro di questa antica provincia serba.

Quale sarà il futuro del Kosovo? Non man-

cano certo i modelli. La soluzioni più favorevole a Pristina prevedrebbe la piena indipendenza, ma anche il riconoscimento di forti autonomie amministrative alle zone abitate dalle minoranze serbe, un po’ sul modello degli accordi De Gasperi-Gruber per 6

l’Alto Adige. La Serbia preferirebbe una sorta di modello Hong Kong, e cioè il riconoscimento della piena autonomia amministrativa e di politica interna del nuovo stato, ma il mantenimento per Belgrado della sovranità in termini di difesa e politica estera (e magari anche di garanzia per gli edifici di culto). Altri parlano del modello Taiwan, e cioè del riconoscimento da parte di ambedue le parti dell’unità della nazione, accettando però di fatto l’esistenza di due stati separati (il che però porrebbe a Pristina notevoli problemi di rappresentanza internazionale, analoghi a quelli sperimentati da Taiwan). Il modello europeo prevede infine l’integrazione a termine di ambedue queste entità all’interno di una Ue sempre più forte e integrata, con forti garanzie politiche e civili e con l’applicazione piena del principio di libera circolazione dei cittadini, diminuendo così l’importanza anche simbolica delle nuove frontiere. Nessuno di questi modelli o delle loro numerose varianti sembra in realtà vicino a raccogliere sufficienti consensi da parte di ambedue i contendenti, ma è evidente che l’Ue non può limitarsi a censirne l’esistenza e ad esprimere di volta in volta le sue più o meno motivate e lungimiranti preferenze: deve scegliere una strada (n po’ come fece a suo tempo con il piano Ahtisaari) e poi usare tutti gli strumenti a sua disposizione per portarlo a compimento. Siamo quindi, anche in questo caso, in una situazione di incertezza che si regge soprattutto grazie alla buona volontà di tutti e in particolare alla speranza di Belgrado di ottenere prima o poi lo status di paese candidato all’ingresso nell’Unione. Non tutto viene per nuocere: la legittimazione di Eulex da parte delle Nazioni Unite ne accresce l’autorità nei confronti delle altre molte presenze internazionali in Kosovo, da Unmik a Kfor. Tuttavia resta la sgradevole impressione di una politica europea troppo improvvisata. Maggiore attenzione dovrebbe essere data anche alla Bosnia. Durante la sua recente visita, il vice-presidente Biden ha tenuto a ribadire con chiarezza che il futuro della Bosnia dipende dalla sua capacità e volontà di integrarsi nell’Ue. In altri ter-


dossier mini, non esiste un piano B, che preveda un maggiore impegno americano nella regione. Eppure questo avvertimento molto esplicito non sembra aver modificato significativamente i comportamenti locali né, e questo è forse anche più grave, sembra aver stimolato una maggiore attenzione e iniziativa politica da parte europea. Certo, in Bosnia è oggi presente un’importante missione militare europea (Altea) e una più piccola missione di polizia. Soprattutto l’Ue nomina in Bosnia un rappresentante e coordinatore che alcuni paragonano alla vecchia figura coloniale del Viceré. Ma il problema principale è che anche la prospettiva di una possibile integrazione nell’Ue (con cui per il momento la Bosnia ha un accordo di associazione e stabilizzazione) non sembra più sufficiente a garantire un’evoluzione positiva della situazione. Alla fine dello scorso anno, dopo aver preso atto della lunga lista di problemi irrisolti, il Consiglio Europeo ha annunciato un rinnovato impegno in direzione della Bosnia. Ma siamo ancora alle formulazioni generali e non sembra delinearsi un deciso mutamento di rotta in favore di un più forte, continuativo e soprattutto politicamente coordinato e coerente intervento di tutte le istituzioni europee, D’altra parte le varie presidenze semestrali dell’Unione sono state distratte da altri problemi, mentre le istituzioni comunitarie sono in piena fase di rinnovamento, sempre aspettando l’eventuale ratifica del Trattato di Lisbona. L’Europa è certamente impegnata su moltissimi fronti, dalla Georgia al Medio Oriente, all’Afghanistan, all’Africa, alla ripresa dei rapporti con la Russia, al Mediterraneo, eccetera, ed è fortemente condizionata dai dossier economici e monetari a quelli energetici e sull’ambiente e il clima. Tuttavia la Bosnia e gli altri paesi dell’ex-Jugoslavia sono un problema di primaria importanza per il futuro della sicurezza europea, nonché per la lotta alla criminalità organizzata, senza parlare del fatto che, nel caso del Kosovo, sono anche un banco di prova per i rapporti con la Russia. Già una volta i paesi europei hanno sottovalutato gravemente l’importanza delle

crisi etniche e nazionaliste in quelle regioni, e si sono trovati a gestire vere e proprie situazioni di guerra, oltre che di emergenza umanitaria. Nulla fa pensare che tale eventi non possano ripetersi. Anche perché varie crisi annunciate potrebbero accendere la miccia. Non è forse neanche il caso di dilungarsi troppo sulla stabilità futura della Macedonia (Fyrom), in cui l’importante minoranza albanese può sempre essere tentata da un ricongiungimento con Tirana, in particolare se quest’ultima, da poco divenuta membro della Nato, dovesse anche avere l’auspicato sviluppo economico e stabilisse rapporti più stretti con l’Ue.

Ma ci sono anche crisi di natura diversa. Il

2009, ad esempio, ha visto un po’ tutti i Balcani in forte crisi per carenza di gas (a causa della crisi tra Russia ed Ucraina). Bosnia, Serbia e Croazia in particolare sono state messe in ginocchio, obbligando alla sospensione dei servizi di riscaldamento in molte città e alla chiusura di importanti impianti industriali. Ciò ha alimentato un nuovo round di alta diplomazia energetica, spingendo la Bulgaria e la Serbia ad accrescere i loro legami diretti con la Russia e riaprendo la questione della competizione tra i due gasdotti Nabucco (potenzialmente alternativo alla forniture russe) e South Stream (che invece permetterebbe ala Russia di saltare l’Ucraina). Giochi diplomatici, strumenti di influenza politica e intervento nelle politiche interne dei paesi interessati sono evidentemente all’ordine del giorno e, in mancanza di una solida presenza ed azione internazionale dell’Ue potrebbero facilmente alimentare le conflittualità appena sopite. Non basta più assicurare la propria presenza e promettere un lontano destino di integrazione nell’Ue: è necessaria una politica del giorno per giorno, che si iscriva in una strategia coerente di medio e lungo periodo, su cui l’Ue deve investire tutte le risorse necessarie. Oggi i Balcani sembrano dimenticati, ma il risveglio potrebbe essere tanto brusco quanto doloroso. 7


Risk

NAZIONALISMI E TENSIONI: LA REGIONE PUÒ ESPLODERE

GEOPOLITICA DEL BUCO NERO DI

I

CARLO JEAN

Balcani non sono una regione geograficamente ben delimitata. Sono uno spazio geopolitico, che possiede caratteristiche peculiari, derivate più dalla storia che dalla geografia. La storia ha reso i Balcani parte dell’Occidente, ma con forti influenze dall’Oriente bizantino prima ed ottomano poi. Nelle province in cui domina l’ortodossia, è poi tradizionalmente forte il prestigio di Mosca, che si era

autoproclamata protettrice dei popoli slavi ed ortodossi, e che aveva a lungo combattuto con l’Impero ottomano per l’egemonia sulla regione. I Balcani sono una zona dalle “frontiere mobili”. Molti loro Stati non hanno ancora trovato i loro assetti definitivi. Esistono molte dispute territoriali. Vi sono stati contrasti fra gli imperi bizantino, ottomano, asburgico e zarista, a cui si aggiunsero, alla fine dell’Ottocento, i nazionalismi tedesco (tendente a giungere al Golfo tramite la Turchia) e italiano, che estendeva fino al Danubio lo “spazio vitale” dell’Italia. Ad Ovest, i Balcani sono delimitati dall’Adriatico e dalle Alpi Giulie; a Sud dallo Ionio, dall’Egeo e dal Mar Nero; ad Est e a Nord dal Danubio, che lascia però fuori Moldavia e Valacchia, regioni appartenenti ai Balcani Orientali. Slovenia e Croazia, che non si considerano parte dei Balcani, pongono il loro confine settentrionale sulla Sava. La Dalmazia ha costituito, fino alla Seconda guerra mondiale e all’esodo di parte della sua popolazione, un’enclave veneta sotto il profilo culturale ed anche economico. 8

I Balcani sono caratterizzati da un’accentuata frammentazione. Le loro popolazioni appartengono a etnie e religioni diverse, spesso mischiate fra di loro in conseguenza delle politiche demografiche seguite dagli imperi che, nel corso della storia, hanno conquistato la regione oppure a causa di eventi bellici, che hanno sempre assunto nella regione aspetti molto feroci. Agli antichi popoli - quali gli illirici e i daci - alla fine dell’Impero Romano si sovrapposero prima le invasioni barbariche, poi popolazioni trasferite dai conquistatori. L’esistenza degli imperi, per loro natura tolleranti e multietnici, impedì che nelle varie regioni si determinasse l’omogeneità culturale e religiosa, che è base della delle nazioni-Stato nelle altre parti dell’Europa. Quando nel secolo XIX scoppiarono i nazionalismi, la convivenza fra i vari popoli divenne insostenibile. Saltarono le istituzioni - quali il millet e il komsiluk - che avevano contribuito alla pacificazione fra le varie nazionalità, unitamente alla forza della Sublime Porta. L’utilizzo di motivi etnici e religiosi costituisce sempre un ottimo strumento


dossier per la mobilitazione politica e per lo scatenamento di conflitti e violenze. Questo avviene non solamente nelle civiltà pre-moderne, come sono ancora per la gran parte quelle balcaniche. Il processo di nazionalizzazione, che in Europa aveva richiesto secoli, nei Balcani - in particolare, nella ex Jugoslavia dalla Sava alla Grecia - si verificò in pochi decenni, dando luogo a guerre sanguinose. Su di esse influirono grandemente gli interessi delle grandi potenze europee, mentre i capi politici locali si avvalsero sistematicamente di “signori della guerra”, spesso reclutati fra i criminali comuni (Arkan in Serbia, Gotovina in Croazia, ecc.). Alla fine dell’Ottocento e a seguito delle due guerre balcaniche e della prima guerra mondiale, si formarono Stati attorno ad un nucleo etnico compatto, ma estesi a regioni con popolazione mista. Si determinò così un ampio potenziale di aspri conflitti, non solo per l’incompatibilità del principio dell’autodeterminazione dei popoli con quello dell’inviolabilità delle frontiere, ma anche perché il concetto di nazione, affermatosi nei Balcani, è di derivazione germanica - basato cioè sulla cultura e sul “sangue” - mentre le istituzioni degli Stati costituiti nella regione erano mutuate dal modello francese. Esse sono fortemente centralizzate. Tendono a non tollerare le diversità, ma ad integrare le minoranze, con pressioni, discriminazioni e anche con la forza. Il processo di stabilizzazione fu poi reso difficile dal fatto che la minoranza in uno Stato costituisce maggioranza in uno Stato confinante. Ciò determina condizioni “ideali” per rivendicazioni nazionali, per secessioni e per conflitti sia etnici che interstatali. È la caratteristica del multiculturalismo nei Balcani, che è quindi molto diverso da quello americano o da quello russo.

I Balcani occidentali costituiscono ancora una specie di “buco nero”, circondato da Stati ormai facenti parte dell’Ue e della Nato. Ciò influisce sulla loro ripresa economica oltre che sulla loro pacificazione. Rimangono aperti vari problemi che potrebbero sfociare in tensioni locali. L’Ue ha molte ambizioni, ma non riesce ad avere né la credibilità per dissuadere lo scoppio di nuovi conflitti, né la volontà di intervenire con decisione per farli cessare Le contraddizioi scoppiarono con tutta la loro forza con il progressivo declino dell’Impero ottomano, sia per la pressione dei nazionalismi locali, che per la politica delle grandi potenze europee (“Questione d’Oriente”). In particolare, Francia ed Inghilterra cercarono di impedire non solo l’accesso al Mediterraneo dell’impero zarista, ma anche l’influenza degli imperi Centrali in Turchia e, tramite essa, nel Medio Oriente e in Mesopotamia (da ricordare in proposito la proposta di ferrovia Berlino-Baghdad di Friedrich List, contrapposta all’Orient Express promosso da Parigi). Per contrastare l’influenza austro-tedesca - ed anche le mire del nazionalismo italiano - alla fine della Prima guerra mondiale fu deciso di creare la Jugoslavia (inizialmente Regno dei Serbi, Croati e Sloveni) e di ingrandire la Romania a spese dell’Ungheria. Si determinarono così nuovi contrasti, che esplosero nel Secondo conflitto 9


Risk mondiale. In particolare, essi erano e, in parte, sono: della Bulgaria con la Grecia per la Tracia e la Macedonia; della Grecia con la Jugoslavia sempre per la Macedonia; della Bulgaria con la Turchia; della Serbia con l’Albania. È tuttora rimasta irrisolta la questione albanese, ignorata dagli stessi accordi di Dayton del 1995, che furono almeno indirettamente causa del conflitto per il Kosovo nel 1999. Questi contrasti assumono spesso aspetti difficilmente comprensibili in Occidente. Basti pensare alle dispute fra la Grecia e la Fyrom sulla denominazione di Macedonia, che ne hanno impedito l’ammissione alla Nato, oppure al fatto che la Bulgaria riconosca la Macedonia come Stato, ma non come nazione. Contrasti territoriali esistono anche fra la Slovenia e la Croazia, per il controllo degli accessi marittimi a Capodistria, per piccole dispute sul confine terrestre e per i diritti di pesca. Essi hanno bloccato l’ammissione della Croazia all’Ue e resa impossibile la cooperazione fra i porti dell’Alto Adriatico, peraltro necessaria per renderli competitivi rispetto a quelli del Mare del Nord. L’elevato potenziale di conflittualità dei Balcani si concentra su due poli. A Nord, sul contrasto fra la

Il Cremlino pensa di avere un diritto storico a un’influenza sui Balcani e guarda con sospetto alla “politica di vicinato” dell’Ue. Anche per questo motivo, la Russia ha strumentalizzato in funzione anti-Ue la questione dell’indipendenza del Kosovo 10

Serbia e la Croazia e ha per oggetto soprattutto il possesso della Bosnia. A Sud sulla questione albanese, la cui popolazione vive solo per metà in Albania, mentre l’altra metà è in Kosovo, in Macedonia e, in misura inferiore, anche in Serbia (nella vallata di Precevo) ed in Montenegro.

Con il Secondo conflitto mondiale si accen-

tuò la divisione della regione a causa degli scontri feroci che si verificarono fra le varie etnie, in particolare fra i croati (ustascia), i bosniacchi (musulmani) e gli albanesi contro i serbi (cetnici). I partigiani comunisti delle formazioni di Tito erano invece rappresentativi di tutte le etnie. Ciò dette loro un grande vantaggio sugli avversari. Nel periodo titino, durato praticamente per l’intera guerra fredda, conflitti e dispute furono congelati, ma continuarono a covare sotto le ceneri. La divisione dei Balcani assunse nuove dimensioni nel periodo bipolare: Grecia e Turchia (che è anche uno Stato balcanico per la storia, per la Tracia turca e per il fatto che negli ultimi 150 anni si sono rifugiati in Turchia diversi milioni di abitanti musulmani fuggiti dai Balcani) furono parte della Nato; Bulgaria e Romania del Patto di Varsavia, anche se Bucarest mantenne un orgogliosa peculiarità nazionale nei confronti di Mosca, specialmente in relazione a contrasti storici (Bessarabia e Bucovina settentrionale) e alla “latinità”, considerata più caratterizzante dell’identità romena di quanto lo sia l’ortodossia. La Jugoslavia titina costituì, dal canto suo, una zona cuscinetto fra la Nato e il Patto di Varsavia, formalmente non allineata con nessuno dei due blocchi, ma di fatto sostenuta politicamente e militarmente dall’Occidente. Alla fine della guerra fredda, mentre i Balcani Orientali (Romania e Bulgaria) mantennero la loro fisionomia di Stati sufficientemente omogenei e stabili, la Jugoslavia implose lungo le linee di divisione etnica. Geopoliticamente, ritornò ad assetti alquanto simili a quelli del 1913, dopo la fine delle due guerre balcaniche. Slovenia


dossier e Croazia non erano però più parte dell’impero asburgico, che dal 1876 si estendeva alla BosniaErzegovina. Mentre la Slovenia riusciva a sganciarsi dai Balcani (anche con l’appoggio serbo) data l’omogeneità della sua popolazione e gli stretti rapporti con l’Italia e l’Austria, lo scontro fra i nazionalismi serbo e croato provocò un sanguinoso conflitto che si estese rapidamente alla Bosnia-Erzegovina. In tale repubblica gli scontri furono alimentati anche dal revival islamico, che mirava alla ricostituzione della presenza musulmana nei Balcani. Il sostegno che ebbe in tutto l’Islam e soprattutto in Turchia - attivato anche da un’efficace uso del vittimismo - indussero gli Usa ad intervenire, cercando di imporre alla Bosnia i loro principi e valori, con risultati talvolta decisamente bizzarri. Grande Serbia, Grande Croazia e, in parte, anche Grande Albania, fornirono le ideologie per violenze, massacri e feroci pulizie etniche, che di fatto rispondevano agli interessi di “imprenditori etnici”, il primo fra i quali fu indubbiamente il serbo Milosevic. Dopo quattro anni di guerra, la Jugoslavia - che era alla fine della guerra fredda il Paese più intitolato ad entrare nell’Ue, regredì a condizioni quasi pre-moderne. i Balcani tornarono ad essere quelli che Leon Trotsky, inviato della Kieven Gazeta nella seconda guerra balcanica (quella contro la Bulgaria), aveva definito «un insieme di feroci tribù, divise da odi atavici e che non vedono l’ora di massacrarsi a vicenda». Solo gli interventi della Nato (in pratica, degli Usa) in Bosnia prima (dopo aver riarmato la Croazia), ed in Kosovo, poi - preceduti da uno schieramento preventivo di marines americani in Montenegro, per evitare che il conflitto bosniaco si estendesse a Sud (con il rischio di provocare un’insurrezione generale albanese e lo scontro fra la Turchia e la Grecia) - hanno fatto cessare violenze e massacri. Ma sussistono le tensioni e i contrasti. Essi si riferiscono, in particolare, al Kosovo, la cui parte settentrionale (Mitrovica) è popolata da serbi; alla Macedonia, dove continua

la contrapposizione fra slavi ed albanesi e, soprattutto, alla Bosnia i cui assetti costituzionali - stabiliti negli accordi-quadro di Dayton impediscono il funzionamento delle istituzioni centrali dello Stato. La Bosnia è tenuta assieme dalla presenza internazionale e dai Bonn Powers dell’Alto Rappresentante, che di fatto esercita i poteri esecutivo e legislativo. Alla cessazione dei conflitti armati non ha fatto però seguito la sua stabilizzazione politica. Furono vanificate le speranze che l’attrazione di divenire membri dell’Unione Europea pesercitasse un richiamo talmente forte da provocare l’accettazione dei “principi di Copenhagen” e, quindi, la reale pacificazione o, quanto meno, la definitiva stabilizzazione della regione.

Particolarmente delicata rimane la

situazione della Bosnia-Erzegovina, anche per la complessità (al limite dell’astrusità) dei compromessi che permisero gli accordi di Dayton. I croati non solo dell’Erzegovina, ma anche quelli rimasti nella Bosnia centrale, vorrebbero la costituzione di una terza “entità” croata, che li metta su di un piano di parità con i musulmani (o bosniacchi) e con i serbi-bosniaci. Oggi, essi fanno parte della Federazione croato-musulmana, dominata dai musulmani. Non è un’entità omogenea; le due etnie mantengono una gelosa separazione fra di loro, bloccando, tra l’altro, ogni decisione politica, anche quella riguardante la divisione degli aiuti internazionali. La Republika Srpska poi non accetta il rafforzamento dei poteri dello Stato e vorrebbe non solo accrescere la propria autonomia, ma anche avere il diritto di secessione dalla Bosnia e di unione con la Serbia. Nonostante la previsione di Kissinger circa l’inevitabilità della divisione della Bosnia-Erzegovina, la Comunità Internazionale, timorosa di mettere in discussione il principio dell’inviolabilità dei confini (peraltro violato con l’indipendenza del Kosovo), insiste nel mantenere in vita tale “mostro politico” innaturale. 11


Risk Esso non comporta solo costi rilevanti, ma anche tensioni, aumentate dal fatto che, sempre in nome dei “massimi sistemi” si cerca di promuovere il ritorno di sfollati e rifugiati nelle zone di origine, ricostituendo una Bosnia multietnica e aumentando così la probabilità di un nuovo conflitto. È un po’ come se a qualcuno saltasse in testa di “riposizionare” la Polonia ad Est, dove si trovava prima del 1939, e pretendesse il ritorno nelle località di origine dei 23 milioni di persone rifluite dall’Est verso Occidente alla fine del Secondo conflitto mondiale. Tale decisione, unitamente all’Icty dell’Aja (considerato, non senza ragione, “il tribunale dei vincitori”) contribuisce a mantenere vive la conflittualità e l’instabilità della Repubblica. Le preoccupazioni sono aumentate dal fatto che gli Usa hanno rivolto la loro attenzione al Medio Oriente. In caso di conflitto, non si può più contare sul loro appoggio incondizionato. L’Ue dovrebbe provvedere in proprio. Non è però in condizioni di farlo, non tanto militarmente, quanto per le divisioni politiche che impediscono decisioni comuni. Per l’integrazione dei Balcani Occidentali

in Europa esistevano due orientamenti contrapposti. Il primo era che l’integrazione orizzontale, cioè a livello regionale, dovesse precedere quella verticale in Europa. Attraverso l’integrazione regionale - ristabilendo cioè i legami economici e culturali che esistevano prima dell’implosione della Jugoslavia – si pensava di poter pacificare l’intera regione, ottenendo un effetto simile a quello che in Alto Adige aveva avuto l’integrazione dell’Austria nell’Ue. I confini sarebbero rimasti, ma la loro importanza sarebbe diminuita. Tale concezione sottovalutava il valore simbolico dei territori e dei segni culturali, nonché la difficoltà di superare il ricordo di massacri e violenze avvenute solo qualche anno fa. L’integrazione orizzontale è stata realizzata nei Balcani Occidentali solo dalla criminalità organizzata, spesso strettamente associata al potere politico, anche perché fra di essa erano stati reclutati molti dei comandanti militari che avevano diretto il conflitto. Va inoltre tenuto conto che la logistica delle guerre etniche era basata “sull’economia nera”, sullo sfruttamento della popolazione e sul saccheggio dei territori. I “signori della guerra” continuano a mantenere posizioni di potere, essendo le varie popolazioni persuase che i conflitti riprenderanno, forse con forme più subdole, ad esempio con attentati terroristici. Essi non si erano verificati nel corso dei conflitti degli anni ’90 verosimilmente a seguito di taciti accordi fra le fazioni in lotta e per il loro comune interesse di strumentalizzare lo scontro etnico per arricchirsi (la storia dell’assedio di Sarajevo è in realtà quella del suo “mercato nero”). L’integrazione orizzontale è fallita e oggi nessuno la propone più. Tutti riconoscono l’impossibilità di riattivare - dopo anni di sanguinosi conflitti - l’integrazione esistente nella Jugoslavia titina. Rimane l’integrazione verticale dei singoli Stati in Europa. Essa

Rimane l’integrazione verticale dei singoli Stati in Europa. Essa presenta da un lato, l’inconveniente di non utilizzare le sinergie esistenti fra le varie regioni balcaniche e, quindi, di accrescere gli oneri che l’Ue deve sostenere, e il rischio, dall’altro lato, di incrementare gelosie e rivalità fra i vari Stati e anche le divisioni all’interno dell’Ue 12


dossier presenta da un lato, l’inconveniente di non utilizzare le sinergie esistenti fra le varie regioni balcaniche e, quindi, di accrescere gli oneri che l’Ue deve sostenere, e il rischio, dall’altro lato, di incrementare gelosie e rivalità fra i vari Stati e anche le divisioni all’interno dell’Ue, per i diversi legami storici che uniscono i suoi singoli membri con i vari Stati Balcanici. È comunque l’unica via fattibile e quella che viene effettivamente percorsa. Essa trova però difficoltà non solo per le tensioni di varia natura - a cui prima si è accennato - esistenti nei Balcani, ma anche per una certa “stanchezza d’allargamento”, esistente in tutta l’Europa. Essa è verosimilmente destinata ad accrescersi a causa della crisi economica. Aumentano quindi le probabilità di nuovi conflitti. Essi metteranno a dura prova non solo la credibilità, ma anche il livello d’integrazione dell’Ue. Si confermerebbe in tal caso il detto, spesso ripetuto che “se non si europeizzasse i Balcani, l’Europa sarebbe destinata a balcanizzarsi”. In tal caso, si proverebbe quanto ebbe ad affermare Churchill, che «i Balcani hanno prodotto più storia di quanta fossero capaci di digerire». L’integrazione verticale corrisponde alla realtà economica. Il commercio dei singoli Stati con i paesi Ue supera nettamente quello interregionale. Solo l’interscambio della Macedonia con gli altri Stati balcanici supera il 10% del suo totale nazionale. Beninteso, i governi che conoscono maggiori difficoltà (come quello bosniaco) tendono a mantenere in vita il mito dell’integrazione regionale. Temono più della mancata ammissione nella Ue, il fatto che vi entri un altro Stato considerato rivale. I paesi in migliori condizioni - come la Croazia - rifiutano invece la regionalizzazione e puntano sull’integrazione verticale in Europa - cioè Stato per Stato che svincola Zagabria dall’onere di dover aspettare gli altri paesi dei Balcani Occidentali per iniziare il processo di membership nell’Unione. La Croazia sospetta, inoltre, che tale progetto (talvolta denominato “Euroslavia”) si proponga di ricostituire subdolamente una Jugoslavia integrata almeno economicamente, per ridurre i costi dell’integrazione a carico dell’Ue e per superare le tensioni interne ed

esterne. Ma anche nel caso croato, sono intervenute come accennato - dispute con la Slovenia, ormai membro dell’Unione. Lubiana ha praticamente bloccato l’integrazione croata in Europa, subordinandola alla soluzione delle dispute esistenti. Inoltre, ha ostacolato la costruzione dell’autostrada e ferrovia fra Trieste e Fiume, indispensabile per la valorizzazione dei porti dell’Alto Adriatico. Esiste anche il problema del Kosovo, strumentalizzato da Mosca per riprendere una parte della tradizionale influenza in Serbia ed in Montenegro. Il Cremlino pensa di avere un diritto storico ad un’influenza sui Balcani e guarda con sospetto alla “Politica di vicinato” dell’Ue. Anche per questo motivo, la Russia ha strumentalizzato in funzione anti-Ue la questione dell’indipendenza del Kosovo, approfittando anche della “distrazione” degli Usa nella “guerra del terrore”, nel “Grande Medio Oriente” e delle nuove Ostpolitik tedesca ed italiana.

I Balcani occidentali costituiscono così ancora

una specie di “buco nero”, circondato da Stati ormai facenti parte dell’Ue e della Nato. Ciò influisce sulla loro ripresa economica oltre che sulla loro pacificazione. Rimangono aperti vari problemi che potrebbero sfociare in tensioni locali. L’Ue ha molte ambizioni, ma non riesce ad avere né la credibilità per dissuadere lo scoppio di nuovi conflitti, né la volontà di intervenire con decisione per farli cessare, qualora dovessero scoppiare. La crisi economica ha fatto ridurre il sostegno finanziario occidentale per i Balcani. Ciò però - contrariamente al “politicamente corretto” dominante - potrebbe rappresentare, a parer mio, un salutare “colpo di frusta” per sbloccare la situazione dei Balcani. Dirigenti politici inefficienti e corrotti strumentalizzano il patriottismo e soprattutto “la paura dell’altro”. Vengono votati poiché gli elettori li considerano i loro protettori in caso di ripresa del conflitto. Non li cambiano, anche perché gli aiuti occidentali consentono alle popolazioni di sopravvivere e non le inducono a scegliersi dirigenti politici più capaci. La riduzione degli aiuti potrebbe rappresentare il catalizzatore del cambiamento. Potrebbe pe13


Risk rò anche determinare conflitti sociali, che le classi dirigenti cercherebbero di “scaricare”, creando artificialmente tensioni all’esterno. Ad ogni buon conto, qualora l’Europa - unificata come mercato e come moneta, ma frammentata politicamente ed ora in parte anche economicamente - reggesse allo shock della crisi mondiale (cioè non si disintegrasse, come taluni temono), è inevitabile che a poco a poco anche i Balcani occidentali si europeizzino ed entrino a far parte delle istituzioni europee.

Un altro fattore che rischia

di accrescere l’instabilità geopolitica dell’intera regione è la ripresa della presenza di Mosca, soprattutto in Serbia, ma anche in Bulgaria ed in Montenegro. Le tendenze panslaviste e neoimperiali, di cui Putin è portatore, hanno trovato condizioni particolarmente favorevoli in Serbia per la questione del Kosovo, vissuta non solo a Belgrado, ma anche a Mosca come un’umiliazione nazionale. Mosca utilizza come strumento di penetrazione ed influenza politica sia i rifornimenti energetici e gli investimenti dei “fondi sovrani”, sia i prestiti (ad esempio, quello recente di un miliardo di dollari a Belgrado). Essi sono ricercati anche perchè vengono concessi senza le condizionalità particolarmente cogenti pretese dal Fmi. Nonostante l’esistenza a Belgrado di un governo filo-occidentale (appoggiato peraltro anche dal partito che fu di Milosevic), il presidente Tadiç cerca di ottenere aiuti e vantaggi sia da Washington che da Mosca. La Russia poi sta acquistando una serie di imprese strategiche, con criteri che sembrano più politici che economici. In Serbia, ha acquistato la monopolista Nis. In Montenegro, la Rusal ha perso i controllo delle miniere e della produzione di alluminio. Fondi sovrani russi sono stati offerti a vari Stati balcanici, per l’acquisto di assets industriali, ma anche turistici e di altri servizi. Lo stesso avviene in Bulgaria, paralizzata dall’Ue per gli abnormi livelli di corruzione e di criminalità, considerati a Mosca con molta maggiore disinvoltura. La crisi economica che ha pesantemente colpito la 14

Russia e la riduzione dei prezzi delle commodities, che costituiscono la maggior parte dell’export russo, nonché la scadenza dei consistenti prestiti che Mosca ha ricevuto negli anni Novanta dal sistema finanziario internazionale, freneranno sicuramente un suo ritorno significativo sulla scena balcanica. Non cesserà invece la retorica politica di autoproclamare il proprio “sacro” diritto di proteggere gli slavi e gli ortodossi. Ma il fattore che più frenerà l’espansione dell’influenza russa sarà forse la maggiore attenzione che la nuova amministrazione Usa dedicherà ai problemi europei e al consolidamento degli assetti geopolitici conseguenti alla fine della guerra fredda. Esiste comunque la possibilità di una modifica profonda di tali assetti e di un definitivo blocco dell’integrazione in Europa di taluni Stati balcanici (in particolare della Serbia). Essa consiste nell’eventuale disimpegno della Germania dalle grandi istituzioni occidentali e nel suo avvicinamento a Mosca. Tale eventualità, considerata con sospetto a Washington, ma soprattutto a Varsavia e a Stoccolma, potrebbe divenire meno inverosimile di quanto oggi appaia in caso di successo della Spd nelle prossime elezioni tedesche. Allora la geopolitica dell’Europa subirebbe un mutamento molto profondo, che interesserà anche i Balcani. Aumenteranno le tensioni fra i vari Stati. Ciascuno di essi cercherà di appoggiarsi agli Stati europei a cui è più legato dalla storia e dall’economia. Nella sezione Nord dei Balcani potrebbe riaffermarsi il concetto di Mitteleuropa, questa volta dominata più da Berlino che da Vienna. I Balcani meridionali verranno emarginati dall’integrazione europea. In altre parole, cesserà il potere aggregante degli Usa, base anche della Pesc dell’Ue, che dal riconoscimento dell’indipendenza della Croazia e della Slovenia nel 1991 ha costituito - nel bene e nel male - la vera forza unificatrice della penisola. Ha infatti neutralizzato almeno in parte le tentazioni dei singoli paesi europei di ritagliarsi zone d’influenza privilegiate nella penisola balcanica, adottando cioè una politica simile a quella che seguivano a fine Ottocento.


dossier

I BALCANI VISTI DAL CAPO DI STATO MAGGIORE DELLA DIFESA

TUTTO PUÒ SUCCEDERE COLLOQUIO CON

D

VINCENZO CAMPORINI DI LUISA AREZZO

i sé, quando ancora dirigeva il Casd, il Centro Alti Studi per la Difesa che qualcuno ha definito l’università militare, il generale di Squadra aerea Vincenzo Camporini, diceva di essere stato «guidato nella vita da un filo sottile» che l’aveva condotto nel modo migliore attraverso una serie di vicende. Un filo sottile fatto di massimo impegno in ogni

• circostanza, di rigore nello studio, nel comando, nei rapporti con subalterni, colleghi e superiori, di analisi attenta delle situazioni, di decisioni basate sulla competenza professionale. E anche di un po’ di fortuna. Oggi, Camporini è il Capo di Stato Maggiore della Difesa, incarico che copre dal 2006, e non è cambiato. I suoi occhi celesti restano profondi, attenti e riservati. In una conversazione avuta in primavera si diceva preoccupato del silenzio che era calato sui Balcani, un focolaio di contraddizioni pronto a esplodere se non monitorato con attenzione. Le sue analisi non sono mai avventate, e dunque eccoci qui. Generale, qual è la soglia di rischio nei Balcani? Il “rischio Balcani” è quello di una regione dove la conflittualità è endemica, storica, secolare e dove il passato non si può certo risolvere nell’arco di una stagione. Siamo nell’area dal 1995, anno del nostro intervento in Bosnia, un tempo “importante” e tuttavia breve e insufficiente a far decantare le tensioni accumulate. Certo, oggi il quadro è diverso dagli anni Novanta: è chiaro che gli incentivi che la comunità internazionale sta fornendo agli attori sul terreno in termini di future aperture ai consessi internazionali siano questi nell’ambito dell’Unione Europea o della

famiglia atlantica - sono incentivi forti in grado di indurre a comportamenti razionali attori fino ad oggi guidati più dall’emotività che dalla razionalità. Quanto possa essere forte questo incentivo e la sua capacità di generare una spirale virtuosa è ancora presto per dirlo e questo giustifica la nostra attenzione sui Balcani e la nostra presenza militare, ancorché in forme più leggere, meno invasive, meno intrusive. Forse anche qualcosa di più: la Nato ha annunciato di voler ridurre la sua presenza da 15mila a 5700 uomini in sei mesi per arrivare a 2300 nell’arco di due anni. Un taglio sostanziale. È una riduzione corposa che va di pari passo con il ruolo più forte assunto dall’Ue con Eulex. Sotto un profilo militare noi giudichiamo questo “taglio” possibile, perché il clima che si respira oggi nei Balcani non giustifica l’entità di truppe che abbiamo sul campo. Questo però non significa un abbassamento del livello di guardia: vista la vicinanza di questo teatro operativo con le nostre basi stanziali, noi resteremo con un minimo di forze sul terreno e con la capacità e la possibilità di intervenire rapidamente partendo appunto dalle basi nella madre patria. Il nostro piano per la riduzione come si articola? 15


Risk Lo stiamo negoziando adesso. In linea di massima lo abbiamo già pianificato nell’ambito di questo semestre per calibrare lo sforzo finanziario con quelli che sono gli effettivi impegni sul terreno. Quello che è certo è che l’Italia resterà fra i maggiori attori della missione perché, al di là della volontà di partecipare agli sforzi della comunità internazionale e transatlantica nell’area, è nel nostro interesse nazionale. Quando parliamo di Balcani, parliamo del “nostro cortile”, e un maggiore occhio di riguardo è indispensabile. La palla, dunque, passa adesso a Bruxelles… La palla è già passata alla Ue, che per altro l’ha ricevuta non dalla Nato ma dalle Nazioni Unite. Ma non voglio certo nascondere una serie di problemi: è evidente che alcune comunità serbe non vogliono riconoscere l’autorità di Eulex. Detto ciò, il comportamento e l’attività di Belgrado, a differenza del passato, sono tali da attenuare le tensioni, e questo mi fa sperare che lo stallo del Kosovo sia in via di normalizzazione. Ricordiamoci però che le frizioni sono alimentate anche dall’atteggiamento verso le minoranze serbe. Noi siamo tradizionalmente schierati a protezione dei luoghi santi e sappiamo quanto, nella memoria dei serbi, questi siano stati in passato minacciati. È indispensabile che tale spada di Damocle cessi per sempre. L’impressione però, è che la Ue abbia giocato la carota dell’integrazione immaginando di mettere in moto un circolo virtuoso. Solo che ha fatto i conti senza l’oste e l’operazione non sembra riuscire. Frammentazione nazionalistica, assenza di governance, corruzione endemica e tensioni continue ci restituiscono l’immagine di una polveriera che potrebbe esplodere. E, ciliegina sulla torta, la Nato si ritira.. Io sono possibilista, ottimista e pienamente consapevole che parliamo di una regione dove i conflitti sono generati da valori secolari, a livello clanico, a livello familiare, a livello etnico. Di più: secondo me qualche volta l’etnia non è altro che il pretesto per giustificare questo tipo di conflittualità. Ogni volta che vado a Sarajevo ho la sensazione di camminare su una lastra di ghiaccio molto sottile. La verità è che i Balcani sono 16

un’area di crisi i cui problemi restano irrisolti. Ma noi li possiamo imbrigliare e lavoriamo in questa direzione. Ripeto: non dobbiamo abbassare la guardia. La frammentazione regionale può essere vista, secondo me, in due modi: come un moltiplicarsi delle rivalità geografiche ed etniche o come un’accettazione degli stati di fatto. Noi occidentali partiamo da un concetto ideologico che può essere o meno condiviso, non voglio entrare nel merito. Noi partiamo dall’idea che multietnico è bello, giusto e doveroso. I Balcani non la pensano allo stesso modo e rifiutano, da sempre, il melting pot. L’Occidente vuole imporre questa filosofia laddove viene rifiutata. Ecco, la frammentazione è il modo di rispondere di queste comunità alla pressione ideologica. Frammentazione che si manifesta nella creazione di entità (non voglio dire Stati) etnicamente autonome. Che ci piaccia o meno, loro preferiscono così e non so se sia giusto imporgli una visione diversa. Questo era anche il progetto di Tito e la sentenza della storia non è stata positiva. La Bosnia Erzegovina è il paradigma di questa sua riflessione… Diciamo che spesso le espressioni verbali della lotta politica interna sono più forti delle reali tensioni sul terreno. Però è certo che fra le tre entità e le due etnie - non si capisce più quante siano - i cantoni della repubblica bosniaca versino in una situazione fragilissima. In questo caso la presenza simbolica di truppe dell’alleanza atlantica e del mondo occidentale, ha incentivato tutti a comportarsi bene. Tuttavia, benché i problemi siano ancora tantissimi, non credo debbano essere impeditivi di un reshaping della presenza militare. Probabilmente in assoluto sarebbe giusto, ma nell’attuale contingenza internazionale diventa sbagliato perché se non si ridimensiona la presenza militare in quei teatri non si hanno le risorse per fare le altre cose che si devono fare. Allude all’Afghanistan, suppongo. Certamente. Ma restando ai Balcani: quello che sotto un profilo tattico è un problema preoccupante, politicamente diventa drammatico perché induce alcuni governi ai ritiri unilaterali. Si pensi ai francesi in


dossier Bosnia e agli spagnoli e inglesi in Kosovo. Qui parliamo di alcuni dei principali attori sul terreno che si rendono conto di non farcela più e procedono al ritiro unilaterale. Peraltro con risvolti paradossali: ho sentito con le mie orecchie le invettive dell’ex ministro della difesa britannico contro questa tipologia di ritiro a poche settimane di distanza da quello deciso dalla Gran Bretagna in Kosovo.. Ricapitolando: i Balcani sono a rischio, ma fra le tante emergenze che sconvolgono il pianeta sono percepiti come una preoccupazione minore. Se questo può valere per americani e spagnoli, è evidente che non vale per l’Italia. È così. Ecco perché a fronte di una riduzione di uomini siamo anche pronti a rinforzarli - se necessario - nell’arco di qualche giorno. Generale, quanto costa una missione ogni anno? Cominciamo col dire che quest’anno siamo riusciti a far passare un concetto: finanziare una missione non significa solo farsi carico delle spese vive (trasporto, alimentazione, pagamento del personale, munizioni e quant’altro) - ma anche provvedere alle spese per l’approntamento dei mezzi, all’addestramento delle truppe che devono partire, al ripristino dell’efficienza quando ritornano. Quest’ultimo punto è particolarmente oneroso perché se io considero il numero di Vtml (i cosiddetti Lince, ndr) che sono stati danneggiati da attentati vari in Afghanistan, io devo riaggiustarli e i quattrini necessari non devono venire dal bilancio della difesa ma da quello della missione. Il governo ha compreso questa esigenza e quest’anno ha stanziato per il primo semestre oltre 700 milioni di euro che sono da confrontare con gli 830 che abbiamo avuto per tutto il 2008. In più, abbiamo già avuto un’assegnazione per i primi quattro mesi del secondo semestre e questo ci fa ben sperare. Significa passare dagli 830 milioni del 2008 ai 1400-450 nel 2009. Una somma che copre tutte le missioni. A marzo la visita del vicepresidente Usa Joe Biden era stata letta come un rinnovato interesse americano per la regione. Di fatto, serviva a

preparare il ritiro delle truppe. Secondo me la visita di Biden significava questo: “ragazzi, noi siamo interessati a voi, vi diamo un’occhiata, comportatevi bene”. Io l’ho intesa in questi termini soprattutto nel momento in cui gli americani stanno utilizzando i loro sforzi altrove e non possono permettersi di più. Dagli astrusi accordi di Dayton, alla pessima gestione Onu dell’indipendenza kosovara è tutta una frammentazione regionale. La storia però ci mostra che questo minuzioso puzzle ha raramente avuto successo: Palestina, Eritrea, Corea, Etiopia: tutti precedenti finiti male. Non trova che dei pessimi accordi portano di solito a delle ottime guerre? E se sì, dove potrebbe scoccare la prima scintilla? Io non penso che ci sarà una scintilla, ma sono molto attento all’evoluzione dei rapporti tra Grecia e Macedonia. Secondo me quell’ostilità, che poi trova espressione in questa ridicola diatriba sul nome, è potenzialmente pericolosa perché finchè a litigare sono gli attori con cui siamo abituati a giocare, sappiamo come ricondurli alla ragione. Ma se c’è un coinvolgimento diretto di un altro paese la cosa può diventare antipatica. Io spero che il buon senso abbia a prevalere e che anche la Macedonia possa essere inserita nel sistema dell’Alleanza atlantica e in un certo senso disinnescata. D’altronde vedo in questi termini anche l’inserimento di Albania e Croazia: ce le portiamo a casa e così facendo disinneschiamo queste bombe. Non è prematuro parlare di adesione all’Alleanza per l’Albania e la Croazia? Dal punto di vista politico non so, ma certamente dal punto di vista militare sì. Loro però hanno meno voglia di battere i pugni perché si sentono parte del club. Dunque procediamo con l’integrazione Ue... Sì. Anche se io l’Europa la vedo in un modo po’ diverso (e finalmente se ne comincia a parlare), con un circolo più interno capace di stabilire livelli di integrazione di tipo confederale. Lei sa benissimo che nel momento in cui un 17


paese entra nell’Ue ha diritto a fondi per la ricostruzione e a degli investimenti. Se entrasse l’Albania, al di là del fatto contingente della mancanza di risorse, ci troveremmo davanti un problema che ha appena fatto chiudere ogni rubinetto verso Tirana al Fondo monetario internazionale: la corruzione della classe politica. Insomma, gran parte dei Balcani occidentali hanno un problema di governance. Manca. Perfetto, questo è il problema che abbiamo davanti. Quella che era la governance del passato, per quanto criticabile, funzionava. Adesso non funziona più. Una sintesi conclusiva: le truppe si ritirano perché devono essere spostate su altri teatri più urgenti; i Balcani sono estremamente fragili e non hanno una governance credibile; per quanto possibile, si cerca di “imbrigliarli” e farli procedere su una retta via; in questi ultimi dieci anni forse sono stati sottovalutati; se il volano dell’adesione alla Ue li stimolerà a migliorare le cose, potrebbero farcela, viceversa tutto può succedere… Tutto può succedere. Fermo restando che la nostra vicinanza ci consente di mantenere la guardia alta senza un pesante impegno sul terreno e di economizzare le risorse. Se io porto a casa 1500 uomini e ne lascio 7-800, riesco comunque a far percepire al kosovaro l’attenzione che c’è. Se poi non lo capisse, nell’arco di una settimana io di uomini gliene riporto tremila. Se non ci fossero state altre priorità il ritiro sarebbe stato ritardato? Non credo. Psicologicamente vederci andar via è necessario. Segna un passaggio fondamentale: non siete più un protettorato e la comunità internazionale si fida di voi. E poi mette fine a una falsa economia: quella che si basa sul denaro che i contingenti militari spendono in loco. Quando non ci sranno più dovranno rimboccarsi le maniche e far girare l’economia locale con i propri mezzi. Insomma: dovranno darsi da fare.


dossier

DALL’EMERGENZA UMANITARIA ALLA SICUREZZA, DALLA LOTTA ALLA CRMINALITÀ AL GAS

UN MOSAICO VITALE PER L’ITALIA DI

L

FEDERICO EICHBERG

a progressiva assunzione, nel mondo post-bipolare, del carattere “multidimensionale” della sicurezza, unitamente alla recente stabilizzazione della regione, hanno accresciuto la già significativa rilevanza dell’Europa sud-orientale per l’Italia. I Balcani, infatti, posizionati nel lembo più meridionale del continente europeo, tra l’Adriatico, l’Egeo,

l’Anatolia ed il mar Nero, hanno rappresentato per decenni un’area in cui al costante interesse strategico del nostro Paese non è giocoforza corrisposta una pari, fattuale proiezione del sistema nazionale. Ciò, prevalentemente, a causa delle rilevanti dinamiche storiche di cui il sud-est europeo si è trovato ad essere teatro nonché dell’insistenza di entità sovranazionali nella forma di tre imperi (austro-ungarico, ottomano e zarista). Mosaico di culture e nazioni, oggetto di svariate mire espansionistiche, tale regione ha, infatti, ereditato da secoli di forte fluidità, di esodi, vendette e riconquiste, una composizione etno-demografica eterogenea e complessa destinata a deflagrare nel XX secolo. Nel corso del ‘900, infatti, il processo di “omogeneizzazione nazionale” ha vissuto un drammatico dispiegamento. I nazionalismi d’inizio secolo sono spesso rimasti incompiuti, in coincidenza con l’ascesa, di volta in volta, di un’ideologia trainante (il comunismo), di uno stato multinazionale (le varie federazioni), di un leader politico (Tito, Ceausescu, Zhivkov, Hoxha…). I decenni comunisti hanno segnato un’interruzione nella maturazione della coscienza nazionale ed hanno congelato questo lento e drammatico processo, riesploso (in maniera schizofrenica e drammatica) in coincidenza con il declino socialista alla

fine del XX secolo. È nella seconda metà degli anni Ottanta che - alla morte delle figure cardine di diversi sistemi - prendono forma nuovi quesiti sulla tenuta di federazioni ed ideologie, di artifici politici (quali ad esempio il non allineatismo jugoslavo o l’autarchia albanese) e confini fittizi. Il nation building, rimasto incompiuto per decenni, entra allora nel perverso meccanismo di rivendicazioni e approssimative ricostruzioni storiche tese a dare ad ogni nazione un mito fondante, un evento archetipico che costituisse la pietra angolare della propria identità. Fonti di legittimazione dei nuovi Stati divengono ricostruzioni storiche di tipo deterministico, mistificazioni e antagonismi radicati nella conflittualità dei decenni precedenti. È in questo contesto che il nostro Paese “riscopre” i Balcani, e ne coglie - come detto in apertura - la rilevanza “multidimensionale” e l’importanza della agognata (ma mai raggiunta) stabilità: dai conflitti degli anni ‘90, infatti, l’Italia comincia a leggere l’Europa sudorientale con la molteplice lente della emergenza umanitaria e del conseguente engagement militare, della sicurezza e dell’ordine pubblico interni - scossi dei significativi esodi di rifugiati dalla regione -, della competitività di sistema sulla scia di una crescente presenza di imprese italiane nella fase della 19


Risk ricostruzione, della sicurezza energetica e delle connessioni intermodali essenziali per il ruolo di hub del nostro Paese. Le crisi degli anni Novanta (guerre civili jugoslave, implosione dell’Albania) hanno quindi aperto una “nuova narrativa” nei rapporti fra Italia e penisola balcanica, ora ricondotta alla cornice multilaterale (Nazioni Unite, Osce e Unione Europea) ora dispiegata in un quadro di rapporti bilaterali. E se nel primo caso il contributo ha assunto soprattutto i contorni della partecipazione ad operazioni militari o di ordine pubblico (Ifor/Sfor/Eufor in Bosnia-Erzegovina; Allied Force in Jugoslavia, Xfor/Kfor ed Unmik in Kosovo, Essential harvest, Allied Harmony e Concordia nella repubblica ex jugoslava di Macedonia) nel secondo caso è con l’avviarsi della fase di stabilizzazione post-conflict in tutta la regione e con il varo di politiche di sostegno alla ricostruzione economica e al consolidamento delle istituzioni democratiche che il nostro Paese comincia a recitare un ruolo autonomo e primario.

La cornice politica ha senz’altro agevolato il fio-

rire di rapporti, appunto, multidimensionali. Costante direttrice della politica estera italiana degli ultimi due decenni è stato, infatti, il sostegno attivo all’ingresso dei paesi della regione sia nell’Unione europea che nella Nato, ritenendo il completamento dell’allargamento euro-atlantico funzionale al disegno di stabilizzazione della regione. L’Italia ha sviluppato numerosi partenariati con i paesi dell’area nell’arco del decennio della transizione: Già dal ‘92 con l’Iniziativa Centro Europea (Ince, già quadrilaterale e poi pentagonale) e nel 2000 con l’Iniziativa Adriatico Ionica (Iai) in campo politico; dal ‘99 con la Brigata del Sud Est Europeo (Seebrig) in campo militare; fino al consolidamento, in campo commerciale, dell’area di Libero Scambio che ha preso forma sotto regia italiana a Roma nel 2003. Proprio dal punto di visto economico-commerciale, l’Italia ha sviluppato una forte presenza che l’ha portata ad essere, insieme alla Germania, il principale partner commerciale dei paesi della regione. Spiccano industrie del nostro paese nel settore manifatturiero, un’estesa partecipazione finanziaria e un interesse significativo per il settore delle public utilities e più in generale per i sistemi ener20

Abbiamo pensato per decenni che la nostra penisola non fosse orientata così ad Est, che Otranto non fosse più ad Est di Sarajevo e Bari più ad Est di Zagabria. Invece è proprio così ed è ora di prenderne atto getici nella regione. Rilevante in tal senso il fatto che l’Italia abbia istituito un Fondo Speciale di venture capital presso la finanziaria pubblica Simest esclusivamente finalizzato ad investimenti nei Balcani, un fondo rotativo che consente una partecipazione pubblica fino al 49% del capitale sociale delle imprese italiane che investono in insediamenti produttivi nei Balcani. Per quanto riguarda le esportazioni, il made in Italy si sta orientando a cogliere l’opportunità apertasi con la creazione de facto dell’area di libero scambio regionale che consente alle imprese di rivolgersi non più ad una serie di mercati frammentati ma ad un unico mercato di oltre 25 milioni di abitanti. L’Italia esporta verso i Paesi balcanici soprattutto calzature, articoli da abbigliamento e loro accessori, maglieria, tessuti, cuoio, metalli di base, materie plastiche, prodotti chimici di base, macchinari, mobili, autoveicoli ed importa dagli stessi Paesi tessuti, articoli di abbigliamento e loro accessori, calzature, metalli di base, petrolio greggio e gas naturale, prodotti alimentari, prodotti siderurgici, prodotti petroliferi, prodotti chimici, articoli in materie plastiche, legno/mobili, motori e generatori, navi ed imbarcazioni, autoveicoli. Se si tratti finalmente ed effettivamente del conseguimento dei “dividendi della pace” frutto della “vittoria nella Guerra Fredda” (secondo l’espressione di Ludovico Incisa di Camerana) non è semplice dirlo. Per certo è avvenuto un riposizionamento della penisola nell’iconografia, meglio nella cartografia regionale. Nel rappresentare, infatti,


dossier l’Italia un po’ meno diagonale per decenni si è voluto trasmettere visivamente l’idea che la nostra penisola non fosse orientata così ad Est, che Otranto non fosse più ad Est di Sarajevo e Bari più ad Est di Zagabria. Oltre a dimenticare la geografia, questa visione dimenticava anche la storia. La storia di un’Italia che aveva guardato ad Oriente ed aveva portato oltre Adriatico e spesso ri-portato dall’Oriente merci, cultura, scienza. La direttrice adriatica è stata compressa per quasi cinquant’anni dalla “cortina di ferro”, il suo mare non univa più, rappresentava il confine invalicabile tra Occidente ed Oriente. Venti anni fa quel muro è caduto e da allora si sono aperti nuovi spazi e liberate nuove energie. La storia dell’Adriatico si è rimessa in moto, tra conflitti e mercati. Con il Novecento finalmente dietro le spalle, il secolo delle grandi speranze ma anche delle grandi tragedie. L’area balcanica rappresenta finalmente per la sua posizione geografica la cerniera tra l’Europa e il continente asiatico, costituendo il futuro canale di transito da e per la Russia e i paesi dell’Asia. A questo proposito, per l’Italia è assolutamente prioritario che venga sostenuta e adeguatamente finanziata la realizzazione dei corridoi di trasporto pan-europei: Il sostegno pubblico all’internazionalizzazione delle imprese italiane deve oggi efficacemente indirizzarsi su elementi innovativi rispetto alle esigenze della I fase della ricostruzione (creazione di Joint Ventures, formazione professionale per settori labour intensive, azioni promozionali…) ed indirizzarsi decisamente alle azioni di sostegno per la realizzazione dei corridoi multimodali (studi di fattibilità e prefattibilità, capacity building, etc..). In tal senso si sono indirizzati i finanziamenti della Legge n.84/01 che, oltre ad azioni di promozione e investimento per i mercati dell’Europa sudorientale ha permesso un utilizzo degli strumenti di sostegno all’internazionalizzazione volto ad incentivare la predisposizione di studi di fattibilità, prefattibilità e assistenza tecnica, nonché la prestazione di servizi verso quei paesi e quelle tratte di corridoi transeuropei prioritari per lo sviluppo degli insediamenti produttivi italiani nell’Europa Sud Orientale. Inoltre, nello stesso settore della logistica, sembra non più procrastinabile l’obiettivo di creare un Sistema Regionale Integrato di Controllo del Traffico Aereo, un “remote air traffic control center” previsto dalla

Bei ed un sistema di sviluppo del traffico e del trasporto marittimo nel bacino Adriatico e Ionico secondo il modello dello short sea shipping. Tale approccio deve mirare a favorire la creazione di partnership strategiche di lungo periodo tra le singole regioni italiane e singole regioni - o unità amministrative o geografiche - dei paesi beneficiari. È necessario rafforzare la nostra azione anche promuovendo la partecipazione italiana con Ppp (Public Private Partnership) delle utilities locali.

Alla presenza imprenditoriale si affianca come detto una significativa presenza militare e civile (ad oggi Kfor ed Eulex in Kosovo, Eufor in Bosnia Erzegovina, Die in Albania) che complessivamente impegna circa 3500 uomini, ovverosia oltre un terzo del totale dei militari italiani impiegati all’estero. Quale lesson learned della presenza militare risulta senz’altro la critica questione della scarsa ricaduta sul sistema paese di cotanto sforzo. Potrebbe, in tal senso, essere opportuno inserire, all’interno delle missione di peacekeeping, specifiche azioni di valorizzazione della presenza imprenditoriale italiana in Kosovo, oggi pressoché totalmente assente. Una tale collaborazione dovrebbe andare ad inserirsi naturalmente nel solco già tracciato della Cimic, approfondendone gli aspetti economici e preparando il terreno per un modello esportabile di vera e propria collaborazione imprese/forze armate negli scenari di ricostruzione post bellici ove sono presenti soldati italiani. Si tratterebbe naturalmente non di stravolgere le attuali finalità e gli obiettivi della Cimic, che si basa soprattutto sugli aiuti umanitari, sulla ricostruzione, sulla raccolta d’informazioni utili alle attività del contingente e sulla creazione di un’immagine positiva tra la popolazione civile delle forze armate italiane; piuttosto si tratterebbe di sviluppare un nuovo asse, oggi esistente solo teoricamente, incluso nella Cimic ma esclusivamente “business oriented”. Tale settore operativo potrebbe essere una sorta di “Cimiec”, una Civil - Military - Economic Cooperation: scopo di tale attività sarebbe quello di utilizzare la presenza militare italiana, il know how paese e la cornice di sicurezza fornita dalle forze armate per inserire nel tessuto economico dei paesi destinatari (Balcani in testa) nuclei di imprenditori italiani intenzionati a realizza21



dossier re investimenti di medio lungo periodo con effetti positivi per lo sviluppo locale e l’integrazione del paese nell’economia regionale (si veda su questo Quercia 2008). È importante che i governi dell’Unione Europea, Italia in testa, sappiano porre con fermezza una politica di condizionalità e accelerazione istituzionale ai paesi dell’area. Negli ultimi anni, infatti, come prevedibile, la regione ha perso una parte rilevante del focus internazionale, e conseguentemente degli investimenti e del peso economico che contava in passato. Ciò, tra l’altro, per via della progressiva relativizzazione delle distanze geografiche e culturali che avvicinano aree emergenti. È non più procrastinabile il superamento delle faglie interne della regione che ancora creano un clima di incertezza e ostacolano il dispiegamento dei processi integrativi locali e regionali. L’irrisolta questione dello status del Kosovo, che ha prodotto una forte divaricazione fra ed all’interno dei governi locali ed europei, oltre ad una partizione de facto della provincia; la mancata consegna di Ratko Mladic al Tribunale penale internazionale per l’ex Iugoslavia (dove si è invece aperto il processo per crimini di guerra per Radovan Karadzic), la difficile «tenuta» della Bosnia-Erzegovina dopo il raggiungimento della firma dello Stabilization and Association Agreement con l’Unione Europea; l’irrisolta questione dei rapporti fra Fyrom e Grecia sulla denominazione. L’ingresso della Romania nell’Ue, inoltre, ripropone con vigore la questione della Moldavia rispetto alle strategie dell’allargamento. Ciò al netto degli enormi ritardi politico-economici del paese e soprattutto della questione del frozen conflict della Transnistria, con la presenza continuativa e oramai quasi ventennale di militari russi. Se tali questioni critiche hanno un rilievo interno e sono legate alla capacità dei governi locali di pervenire ad una soluzione, più ampia è la questione relativa alla dinamica delle relazioni fra Occidente e Russia negli ultimi anni e la ricaduta per la regione. Numerosi analisti hanno letto nell’azione statunitense in Europa sudorientale (1995 e 1999) una possibile strategia tesa a marginalizzare Mosca da quella che - in quanto

regione di “faglia” - potrebbe rappresentare lo snodo per i rifornimenti energetici (e, in fin dei conti, per il riemergere ciclico dell’aspirazione di Mosca ai mari caldi, costante di almeno 3 secoli di geopolitica russa). La nuova Guerra Fredda (o, come meglio è stata definita “new cold peace”) degli ultimi anni, si sarebbe alimentata di temi caldi quali lo scudo antimissile in Europa centro-orientale, il congelamento o la conferma dell’accordo Cfe(Conventional Forces in Europe), lo status definitivo del Kosovo (e specularmente delle regioni secessioniste caucasiche), il dossier Iran e la proliferazione nucleare, e vedrebbe la partita energetica (delle pipelines) giocata prevalentemente in quest’area di faglia, terminale dei corridoi petroliferi provenienti dal Mar Caspio e dal Centro Asia in genere.

In tale ottica la Russia avrebbe risposto al

decennio finale del XX secolo (che in qualche misura l’aveva vista marginale rispetto alle dinamiche adriatico-danubiane), riposizionandosi, all’alba del XXI, con vigore nella partita decisiva delle infrastrutture energetiche dei Balcani. Cremlino, Gazprom e LukOil avrebbero formato una santa alleanza finalizzata a portare la Russia al ruolo di master energetico nella penisola balcanica. Funzionale a tale strategia (e a tale great game) perseguita da Mosca sarebbe anche l’accordo relativo alla costruzione del sistema di gasdotti che porteranno gas russo in Italia e Austria, il “South stream” (Ss), destinato a passare sotto due mari, il Mar Nero e l’Adriatico. Tale progetto risulta particolarmente sensibile presso i fautori del “Nabucco”, gasdotto in qualche misura in cosharing fra Ue e Usa, destinato e trasportare in Europa, passando per Turchia, Bulgaria, Romania, Ungheria fino all’Austria, il gas prodotto da Azerbajdzhan, Turkmenistan e Kazakhstan (bypassando di fatto la Russia). L’opzione per l’Italia è più che semplicemente legata alle dinamiche locali. È funzionale alla vocazione di hub energetico europeo che il nostro Paese può avere. E i Balcani ridivengono centrali per la strategia nazionale. 23


Risk

CROLLO DELLA PRODUZIONE, DEL REDDITO E DELL’OCCUPAZIONE

DALLA RICOSTRUZIONE ALLA RECESSIONE DI

D

BRUNO DALLAGO

al 1989 il processo di trasformazione è stato spesso accompagnato da processi economici, istituzionali, politici e sociali che ne hanno complicato lo svolgimento e l’evoluzione, rendendone incerti e instabili i risultati. Il caso dei paesi balcanici, in particolare dei Balcani occidentali, è sicuramente il più travagliato. A causa delle loro vicende complesse e delle

piccole dimensioni nei Balcani occidentali i processi esogeni, fortemente influenzati dalla comunità internazionale, sono stati più importanti che altrove. Questi paesi, infatti, sono arrivati al 1989 con le economie in condizioni particolarmente difficili, vuoi per ragioni strettamente economiche, vuoi per l’influenza di fattori politici e sociali disgreganti. Tutta l’area è stata fra l’altro interessata, direttamente o indirettamente, dalla disgregazione e dalle vicende belliche che hanno travagliato la ex-Jugoslavia. Oltre a rendere più difficile, incerto e prolungato il processo stesso di trasformazione, queste vicende hanno caricato le popolazioni e i governi di compiti particolarmente difficili, complessi e costosi in condizioni economiche particolarmente svantaggiose. Questa osservazione è tanto più notevole, quando si pensi che nel 1989 pressoché tutti gli osservatori ritenevano che l’ex Jugoslavia fosse il paese meglio posizionato sia ai fini del successo della trasformazione stessa, sia per accedere in tempi rapidi all’Unione Europea. Il quadro era comunque complicato dell’esistenza di notevoli divari nei livello di sviluppo, nella produzione, nella struttura economi24

ca e nel livello di occupazione fra una Repubblica e l’altra della Federazione. All’opposto era il caso dell’Albania, il paese più isolato ed economicamente arretrato dell’Europa. Bulgaria e Romania, a loro volta, erano stati i due paesi comunisti che, almeno sulla carta, erano cresciuti più rapidamente durante il periodo comunista, ma che erano anche stati i due paesi economicamente più ortodossi, rendendo la trasformazione difficile fin dall’inizio. Le differenze erano notevoli anche da altri punti di vista. In particolare, nella ex-Jugoslavia erano particolarmente forti le tendenze inflazionistiche, anche se la struttura dei prezzi era simile a quella di mercato. L’Albania, al contrario, aveva un sistema dei prezzi rigidamente pianificato dal centro e quindi estremamente irrazionale dal punto di vista del mercato. Bulgaria e Romania erano fra i paesi comunisti meno riformati e quindi necessitavano di trasformazione particolarmente profonde e ampie. Quanto alla struttura della proprietà, mentre la Jugoslavia era basata su un sistema di autogestione fortemente decentralizzato, nel quale i diritti di proprietà spettavano ai collettivi dei lavoratori, l’Albania era il più


dossier centralizzato tra i paesi dell’Est. La Jugoslavia, inoltre, disponeva di un ampio numero di piccole e medie imprese che avevano spesso carattere privato. Niente di tutto questo esisteva in Albania, mentre la diffusione del settore privato era assai limitato negli altri due paesi. In queste condizioni, il processo di trasformazione ha avuto inevitabilmente vicende differenti e talvolta divergenti, con risultati non facilmente prevedibili e tuttora non consolidati. Delle tre classiche componenti del processo di trasformazione secondo il Washington Consensus, la stabilizzazione macroeconomica era particolarmente urgente e importante soprattutto nella ex Jugoslavia. La guerra seguita alla disgregazione del paese e l’isolamento internazionale avevano reso le tensioni inflazionistiche particolarmente drammatiche in Serbia ed elevate altrove. Le vicende belliche, con le conseguenti necessità di finanziamento, avevano da un lato messo in forte tensione le finanze pubbliche e, dall’altro, indotto i governi di gran parte dei paesi post jugoslavi ad appropriarsi dei diritti di proprietà delle attività economiche e quindi, di fatto, a nazionalizzarle. La privatizzazione vera e propria seguirà con molti anni di ritardo e non è ancora completata.

I Balcani occidentali sono caratterizzati da economie di dimensioni limitate, a volte molto piccole, e da un livello di sviluppo basso o intermedio. Il ritardo di questi paesi nello sviluppo economico è testimoniato dal modesto livello del reddito pro capite, che è fra i più bassi in Europa e, per Bulgaria e Romania, ai minimi livelli dell’Ue

La liberalizzazione, infine, ha avuto alterne vicende per gli stessi motivi. Meno drammatiche, ma ugualmente complesse sono state le vicende economiche degli altri paesi balcanici in questa prima fase della trasformazione, pieni di difficoltà esacerbate spesso da conduzioni meno che virtuose della cosa pubblica e privata (si pensi ad esempio alle piramidi finanziarie albanesi), da corruzione negli affari (secondo Gallup, nel 2007 compresa fra 66% in Montenegro e 86% in Macedonia) e nel governo (da 49% in Montenegro a 84% in Kosovo) e criminalità. Questi paesi hanno vissuto un prolungato

periodo di incertezza istituzionale e geopolitica, anche per il loro incerto rapporto con la Ue. Per lungo tempo non è stato infatti chiaro, e per alcuni di essi non lo è tuttora, il rapporto con l’Unione Europea, nonostante l’evidente desiderio a livello governativo e fra la popolazione di entrare a farne parte e nonostante l’Unione Europea abbia firmato accordi di stabilizzazione e associazione con tutti i paesi dell’area. La mancanza di un ancoraggio internazionale e di stabilità interna hanno ritardato importanti riforme istituzionali, che hanno finito per ritardare lo sviluppo dei mercati fondamentali e per ostacolarne la loro efficacia. Un aspetto particolarmente critico di questo ritardo e di questa inefficacia è stato il forte sviluppo dell’economia sommersa e della corruzione, oltre che della criminalità organizzata, che costituiscono tutt’ora importanti ostacoli al buon funzionamento dell’economia e alla ristrutturazione delle imprese. Dopo anni difficili, comunque, Bulgaria e Romania sono entrate a far parte dell’Unione Europea, mentre i restanti paesi sono a livelli differenti di adesione e integrazione. Nei paesi che sono stati teatro di vicende militari e che ne hanno sofferto le distruzioni, il miglioramento della situazione politica e sociale ha permesso l’avvio di 25


Risk tali, sono caratterizzati da economie di dimensioni limitate, a volte molto piccole, e da un livello di sviluppo basso o intermedio (tav. 1). Il ritardo di questi paesi nello sviluppo economico è testimoniato dal modesto livello del reddito pro capite, che è fra i più bassi in Europa e, per quanto riguarda Bulgaria e Romania, è ai minimi livelli dell’Unione Europea (fra 1/4 e 1/6 della media europea). Vanno inoltre sottolineate le elevate disparità distributive, la disoccupazione e la povertà. Un altro indicatore particolarmente significativo della complessità delle vicende economiche balcaniche è la grande apertura dell’economia. Questa è infatti - a eccezione della Bosnia-Erzegovina e in parte della Bulgaria - notevolmente inferiore a quella esistente in altri paesi dell’Europa centro-orientale che pur sono partiti da un sistema economico simile, hanno vissuto processi di trasformazione paragonabili e hanno economie per lo più prive di risorse naturali e quindi anch’esse di trasformazione. Resta comunque da notare che in anni recenti il grado di apertura è andato crescenAndamento dell’economia. I paesi dell’Eu- do a ritmi sostenuti, soprattutto verso la Ue, a testiropa sud orientale, e in particolare i Balcani occiden- monianza del fatto che queste economie si stanno velocemente integrando delFig. 1 – L’andamento del Pil (a prezzi costanti in valute nazionali) l’economia mondiale. In questa prospettiva sono di notevole 350 importanza i risultati raggiunti 300 soprattutto dalla Bulgaria. A questo non ha fatto però riscon250 tro un’altrettanto rapida crescita dell’economia, a testimonianza 200 del fatto che il rapporto fra com150 mercio estero e crescita è tutt’altro che lineare. Un buon indica100 tore dell’efficacia delle riforme 50 realizzate è rappresentato dall’afflusso di investimenti diretti 0 dall’estero. L’afflusso, infatti, è 89 90 991 992 993 994 995 996 997 998 999 000 001 002 003 004 005 006 007 008 009 1 2 1 1 2 1 2 2 2 19 19 1 2 1 1 1 2 2 2 2 1 tanto più elevato quanto più Albania Bos nia-Herz egov ina Bulgaria Croatia l’economia del paese è integrata Macedonia Montenegro Romania Serbia nell’economia mondiale anche a Fonte: International Monetary Fund, World Economic Outlook Database, aprile 2009 livello produttivo, a parte i casi un processo di ricostruzione materiale che, assieme alla crescente integrazione nel mercato internazionale, ha favorito la crescita dell’economia, in alcuni casi anche a ritmi assai elevati, almeno fino alla crisi finanziaria ed economica del 2008 (fig. 1). Per quanto vi siano importanti differenze fra i singoli paesi, questa crescita non è sfociata ancora in un chiaro processo di convergenza verso i livelli di reddito dei paesi ricchi. Non è infatti ancora ovvio che questi paesi, a parte il caso particolare della Bosnia-Erzegovina dove la crescita è dovuta in buona parte agli effetti della ricostruzione, siano su un sentiero di crescita superiore a quello vecchio. Se la convergenza verso i livelli dei paesi più ricchi dell’Unione Europea, la cui economia ha pur teso a crescere a ritmi modesti, ha cominciato a mostrare qualche risultato positivo, non altrettanto si può dire se il confronto è fatto con le economie dell’Europa centro orientale, che sono state finora assai più dinamiche.

26


dossier Tav. 1 • Le

Pil (mld $)

ALBANIA BIH BULGARIA CROAZIA KOSOVO MACEDONIA MONTENEGRO ROMANIA SERBIA

10,5 14,3 49,4 46,4 3,3 7,1 3,1 132,5 35,0

Popol. (mln)

3,2 3,8 7,6 4,4 1,9 2,0 0,6 21,5 7,4

Fonte: World Bank, Cia (The World Factbook), Bers

economie balcaniche (2007) Pil pro capite($)

3290 3790 6860 10460 1383 3460 5180 6150 4730

di paesi particolarmente ricchi di materie prime e risorse energetiche, e quanto meno rischioso è l’investimento straniero in quel paese. Questo rischio dipende, in generale, dall’efficacia delle riforme, dalla stabilità politica e sociale e dal recepimento da parte del paese delle normative internazionali, comprese quelle sulla protezione degli investimenti. Gli investimenti diretti all’estero nei Balcani hanno avuto un progressivo aumento a partire dalla fine degli anni ‘90 e un’accelerazione all’inizio di questo decennio. Nel 2003 essi costituivano quasi il 30% di tutti gli investimenti diretti affluiti all’Europa centro-orientale. Tra l’altro, questi investimenti hanno portato all’acquisizione di molte banche nell’area da parte del capitale straniero, così come è avvenuto in altri paesi dell’Europa centro orientale. Nel 2008 gran parte delle banche di questi paesi erano di proprietà straniera, ma questo non ha portato a livelli sufficienti di credito al settore privato. Il credito è chiaramente insufficiente in Romania e Serbia ed è inferiore in generale alla metà del livello tipico delle economie di mercato sviluppate. Il successo di un’economia, sia per quanto riguarda la sua crescita, sia per l’accesso ai mercati internazionali, sia per l’attrazione di risorse dall’esterno, dipende in buona parte dalla capacità delle imprese di funzionare in modo efficace e di

Pil in % media Ue-27

9,7 11,0 17,7 37,1 4,7 12,2 17,3 25,0 18,3

Tasso di disocc.

35

3,6

12,5 29 6,3 14,8 40

(2008)

14,7

(2008)

18,8

Grado di apertura (X+M)/ Pil (%)

44,5 235,8 136,1 74,4 60,9 112,9 80,4 54,6 60,9

Indice di Gini

26,7 29 30 39

Povertà (%)

(2005)

56,2 30,7

(2008) (2006) (2003)

30 32 30

25 20 14,1

11

(2003)

25

(2005)

37 22 7

6,5

Con l’eccezione della Serbia, il debito a breve risulta elevato in tutti i paesi dell’area. Particolarmente critica appare la situazione della Bulgaria, paese in cui lo stock del debito estero a breve è arrivato nel 2008 a ben 167% delle riserve valutarie produrre in maniera efficiente. In un contesto globale in cui le economie sono sempre più aperte e integrate, politiche macroeconomiche differenziate sono sempre meno in grado di sostenere la competitività internazionale dei paesi e delle imprese.

Le politiche microeconomiche, istituziona-

li e di contesto assumono di conseguenza un ruolo sempre più importante. Al fine di valutare i fattori in grado di sostenere la competitività delle imprese, comparare la situazione esistente nei vari paesi e fornire suggerimenti ai governi, vari organismi 27


Risk internazionali, quali la Banca mondiale, l’Ocse e la Kauffman Foundation hanno predisposto modelli analitici volti a individuare i fattori di supporto all’attività d’impresa e, su questa base, hanno messo a punto dei database. L’esercizio più completo finora effettuato è quello della Banca mondiale che, con il suo database Doing Business intende evidenziare i fattori che sostengono la competitività delle imprese e comparare la situazione in ben 181 paesi. Questo esercizio presenta varie debolezze sia sul piano analitico, sia per le definizioni sottostanti alla raccolta dei dati e delle informazioni, sia infine per l’effettiva comparabilità delle situazioni in paesi talvolta estremamente diversi, tra l’altro, dal punto di vista delle dimensioni e delle differenze regionali. Esso resta nondimeno lo strumento più completo che abbiamo a disposizione per comparazioni internazionali. Sotto questo profilo, i paesi balcanici dimostrano tutta la problematicità della loro situazione. Va tuttavia notata una notevole differenza, secondo queste classifiche, fra i due paesi membri dell’Unione Europea, Bulgaria e Romania, che presentano valori pari o addirittura superiori ai paesi membri centro europei, e i Balcani occidentali veri e propri, che presentano valori assai più bassi. Questi risultati problematici appaiono tanto più critici se si pensa alla competitività delle imprese nell’ex

Le previsioni per il 2009 sono negative sia per quanto riguarda le grandezze finanziarie, sia per quanto riguarda l’economia reale. L’ Institute of International Finance prevede una contrazione dei flussi di capitale privato pari all’88 per cento 28

Jugoslavia, chiaramente superiore a quella degli altri paesi dell’Est. Anche se il significato di queste classifiche non va sopravvalutato, la problematicità della situazione delle imprese, e di conseguenza la competitività di queste economie, sono evidenziate anche da altre indagini fatte sul terreno. Una serie di importanti indagini realizzate nel 2002 a cura della Banca Europea per la Ricostruzione e lo Sviluppo (Bers), dell’Ocse e della Banca Mondiale hanno evidenziato l’esistenza di una serie di diffusi ostacoli a fare impresa. Queste stesse indagini, tuttavia, hanno chiarito anche come questi ostacoli non impedissero la formazione di imprese e la loro sopravvivenza, grazie anche alla diffusione dell’economia sommersa. Le valutazioni pubblicate annualmente dalla Bers sottolineano come la maggior problematicità del processo di trasformazione nei Balcani risieda negli assetti istituzionali microeconomici, quali ad esempio la ristrutturazione delle imprese, le politiche della concorrenza e per le istituzioni finanziarie non bancarie. La situazione nei paesi balcanici è chiaramente più sfavorevole rispetto a quella di paesi centro europei soprattutto per quanto riguarda gli assetti istituzionali microeconomici e in particolare nei Balcani occidentali.

Gli effetti della crisi. La crisi internazionale del

2008 è venuta a innestarsi su una situazione che, benché ancora problematica e fragile, stava mostrando chiari segni di miglioramento. Con la sola eccezione dell’Albania, l’economia di vari paesi cresceva a ritmi elevati e qualche risultato cominciava a diffondersi anche fra gli strati più svantaggiati della popolazione, anche se la povertà continua ad essere molto diffusa, così come le disparità nella distribuzione del reddito e della ricchezza. È pur vero che, come la Bers aveva messo in rilievo, la percezione dei cambiamenti nella ricchezza delle famiglie era complessivamente assai negativa e decisamente inferiore alla percezione esistente nei paesi dell’Europa centrale, Su questa fragilità economica e sociale la crisi sta avendo un


dossier impatto pesante, con possibili conseguenze negative anche per la stabilità politica. I canali di causa e diffusione della crisi a livello globale sono chiari: l’eccessiva diffusione del credito con condizioni molto morbide ha portato a una generale crisi di sfiducia nel sistema finanziario, diffusasi in seguito anche al settore reale. Questo ha portato ad una caduta della produzione e quindi del reddito, che sta ora diffondendosi all’occupazione. La caduta della produzione e del reddito hanno inevitabilmente portato al collasso della domanda per l’esportazione e allo stallo dei flussi finanziari internazionali. Questi effetti sono stati aggravati, per la verità in misura contenuta finora, dalla preoccupazione dei governi dei paesi ricchi di trattenere quanto possibile gli effetti delle manovre di rilancio dell’economia all’interno del paese e dall’estrema prudenza di qualche governo ad attuare manovre di rilancio significative. Questi eventi hanno avuto un effetto grave sui paesi dell’Europa centro-orientale indeboliti da un reddito interno ancora modesto e dall’importanza delle esportazioni per l’economia. Il grado di apertura di queste economie, infatti, era cresciuto in maniera rapida negli ultimi anni, pur con la rilevante eccezione della Romania, anche per via del crescente afflusso di investimenti diretti dall’estero. La situazione macroeconomica denota una fragilità estrema in tutti i paesi. Nel corso degli ultimi anni i consumi pubbliTav. 2 •

ALBANIA BIH BULGARIA CROAZIA KOSOVO MACEDONIA MONTENEGRO ROMANIA SERBIA

Squilibri interni ed esterni (2008)

Deficit/sufficit fiscale ’08 % Pil

-4,3 0,6 3,6 0,3 0,7

(2007) (2007)

3,1 -2,6

(2006) (2007) (2007)

-4,8 -2,1

ci e privati sono stati infatti assai elevati mentre il risparmio interno non è stato in alcun caso in grado di finanziare gli investimenti. Nel caso della Serbia, addirittura, il risparmio interno è stato negativo. In queste circostanze la crisi internazionale rende la situazione macroeconomica insostenibile con le sole risorse interne e il finanziamento della crescita difficoltoso. Sul fronte degli equilibri interni la situazione appariva complessivamente sotto controllo (tav. 2). Solamente la Romania aveva nel 2008 un rapporto deficit su Pil di un qualche rilievo. La situazione della bilancia commerciale, invece, era assai meno favorevole: tutti i paesi, infatti, erano caratterizzati nel 2008 da forti deficit delle partite correnti. La situazione di alcuni, a partire dal Kosovo, appariva dipendente dalla disponibilità della comunità internazionale a sostenere queste economie. Se si tiene conto della forte dipendenza di questi paesi dai flussi di risorse finanziarie dall’estero, è chiaro come la situazione macroeconomica fosse già estremamente delicata prima della crisi. Nel caso di crisi finanziari e internazionali i paesi in queste condizioni sono destinati a pagare un prezzo elevato. Una particolare ragione di preoccupazione deriva dal fatto che le istituzioni finanziarie, e soprattutto bancarie, sono in gran parte in proprietà estera. A questo va aggiunto l’indebitamento in valute convertibili di imprese e popolazione. I crediti concessi

Popol. (mln)

-9,0

-3,1 -7,4

(2007)

-15,8 -20,5 -10,8 – (2007) (2007)

-15,3 -18,4

Fonte: Business Monitor International, Cia (The World Factbook)

Debito pubblico/Pil

51,2

(2008)

48,9

(2008)

35,9 38 14,1 37

40 16,7 –

(2008) (2006) (2008) (2007)

Tasso di inflazione (Cpi)

1,5 3,8 -3,4 4,3 2,2

4 2 7,8 3

(2006) (2007) (2007) (2007) (2007)

Stock di debito estero % Pil

25,7 (2006) 46,2 (2006) 108,6 (64,5) 94,5 (87,6) 0,0 (2006) 48 (2008) 34,3 (2006) 59,0 (39,3) 64,2 (58,1)

Servizio del debito/export (2006)

3,4 8,9 12,0 31,6 – 15,7 0,8 21,7 20,4

29


Risk

Minore è la contrazione prevista per gli investimenti esteri: questa dovrebbe essere pari al 21%, con un passaggio da 69 miliardi di dollari a 54,1 miliardi di dollari. Questa differenza è dovuta all’elevato livello di integrazione produttiva nell’Ue-27 dalle banche estere in percentuale del Pil del paese si sono infatti spesso avvicinati al 100% e in qualche caso, ad esempio in Croazia, lo hanno abbondantemente superato. Complessivamente positivo è invece, rispetto agli altri paesi dell’area centro orientale, il rapporto fra debito a breve e debito a lungo. Nei paesi della ex Jugoslavia e in Albania questo rapporto è generalmente inferiore al 30%. Assai diversa è invece la situazione in Bulgaria, Romania e Croazia, dove questo rapporto, pur non raggiungendo i livelli drammatici dei paesi baltici, è comunque superiore al 100%. Ciò rende difficile il finanziamento di questo debito in una situazione finanziaria internazionale estremamente tesa. Va anche notato che in vari paesi (Croazia, Macedonia, Romania) il debito in maturazione nel 2009 è pari o superiore alle riserve in valute convertibili, mentre solo in Bulgaria questo indicatore è basso. Tuttavia, in tutti i paesi il rifinanziamento esterno necessario nel corso del 2009 è superiore al valore delle riserve in valute. Una nota di preoccupazione deriva dal forte aumento del debito estero registrato negli ultimi anni. Il debito in alcuni paesi, ad esempio in Bulgaria, aveva raggiunto un livello superiore a quello del Pil già nel 2008 prima dell’inizio della crisi internazionale. A causa di quest’ultima l’indebitamento è destinato a 30

crescere ulteriormente. Il tipo di debito estero più critico per la sostenibilità è naturalmente quello a breve, che ha bisogno di essere rifinanziato in tempi rapidi. Con l’eccezione della Serbia, il debito a breve risulta elevato in tutti i paesi dell’area. Particolarmente critica appare la situazione della Bulgaria, paese in cui lo stock del debito estero a breve è arrivato nel 2008 a ben 167% delle riserve valutarie. Grazie al rapido aumento delle esportazioni, con l’eccezione del Kosovo, la sostenibilità del debito estero è aumentata. La debolezza economica e finanziaria dei paesi balcanici e il rapido peggioramento delle variabili macroeconomiche ha portato all’aumento del rischio paese, che si è sommato all’indebolimento delle risorse finanziarie dei paesi ricchi: l’effetto congiunto di questi due fattori ha portato ad una rapida diminuzione degli afflussi di risorse finanziarie dall’estero. Dato il modello di crescita basato principalmente sulle esportazioni, che negli ultimi anni aveva pur dato frutti importanti, l’afflusso di investimenti diretti dall’estero è stato particolarmente rilevante. Particolarmente importante è l’andamento degli investimenti diretti dall’estero, che sostengono la trasformazione della ristrutturazione industriale e manifestano l’interesse strategico degli investitori. Se gli investimenti di portafoglio, guidati da motivazioni speculative, già nel 2008 erano diminuiti in tutti i paesi rispetto al 2007, gli investimenti diretti all’estero avevano avuto un andamento ancora differenziato da un paese all’altro. Anche a questo proposito, così come in altri casi, vanno sottolineati il comportamento e la situazione diametralmente opposti dei due paesi membri dell’Unione Europea, con forte diminuzione in Bulgaria e forte aumento in Romania.

Le prospettive.

Le previsioni per il 2009 sono negative sia per quanto riguarda le grandezze finanziarie, sia per quanto riguarda l’economia reale. L’ Institute of International Finance prevede una contrazione dei flussi totali di capitale privato verso le economie emergenti europee pari all’88%: questi dovrebbero passare da 250,2 miliardi di dollari a 30,2


dossier miliardi. Assai minore è la contrazione prevista per gli investimenti diretti esteri: questa dovrebbe essere pari al 21%, con un passaggio da 69 miliardi di dollari a 54,1 miliardi di dollari. Questa differenza è dovuta all’elevato livello di integrazione produttiva nell’Ue-27 e fra questa e i paesi circostanti con particolare riferimento ai Balcani. La contrazione degli investimenti esteri può comunque avere conseguenze rilevanti, in quanto concentrata nel settore bancario, dando luogo a disinvestimenti da parte dei proprietari esteri. Le previsioni per l’economia reale sono piene di ombre, ma non sono negative come nel caso delle economie più ricche. I tassi di crescita sono in forte decelerazione, ma permane un differenziale di crescita positivo sulla Eurozona che potrebbe ritornare a medio termine intorno al 2%, tasso che assicurerebbe comunque il proseguimento del processo di convergenza. Nel 2010 le economie dovrebbero tornare a crescere, con l’eccezione della Bulgaria, anche se a ritmi molto contenuti. Queste previsioni fanno intravedere la probabilità, nonostante il sostegno finanziario fornito dalle organizzazioni internazionali, di un aumento della disoccupazione e della povertà, dopo anni in cui queste si erano ridotte in maniera sensibile (tav. 1). Si tratta di problemi ancora estremamente rilevanti, così come forti sono le disparità distributive. Ciò getta un’ombra preoccupante sulle possibilità di sviluppo sostenibile a lungo termine di queste economie. Queste economie, infatti, con la trasformazione hanno ripreso a funzionare sulla base di un modello trainato dalle esportazioni: esse sono diventate la base per la delocalizzazione dei processi ad elevata intensità di lavoro, e talvolta più inquinanti, dai paesi europei più ricchi.È difficile immaginare alternative generali a questo modello di sviluppo nel breve periodo, soprattutto nel caso dei paesi più piccoli. La crisi ha reso evidente la precarietà di questo modello, ma un modello alternativo fa fatica a farsi strada. Se ritorniamo per un momento a vedere la situazione delle imprese, si può notare come fare impresa in modo interamente legale in questi paesi sia tutt’altro che semplice e vantaggioso. Benché per le

imprese straniere la situazione sia complessivamente abbastanza favorevole, la situazione è diversa per quanto riguarda le piccole e medie imprese locali. Il loro numero rispetto alla popolazione è molto più basso che nei paesi dell’Europa centrale (da 10 Pmi per mille abitanti in Serbia e Montenegro e 12 in Albania fino a 28 in Bulgaria, contro quasi 80 in Italia), la loro concorrenzialità è debole e non godono di canali di finanziamenti esterni efficaci. Il finanziamento proviene infatti essenzialmente da fonti interne, formali e informali. La diffusa economia sommersa (che ad esempio in Albania è stimata a quasi il 50% del Pil) è quindi allo stesso tempo uno strumento importante per la sopravvivenza di queste imprese e un ostacolo alla loro emersione e modernizzazione.

Queste note suggeriscono una possibile via di

sviluppo per i prossimi anni, a parte il sostegno della comunità internazionale per far fronte alla crisi, che in qualche caso è pur importante, ad esempio in Romania. Vi è un urgente bisogno di riforme efficaci a livello microeconomico, come i dati della Bers illustrano chiaramente, al fine di facilitare la fondazione delle imprese e di sostenerne la concorrenzialità. Queste riforme non abbisognano di costosi finanziamenti pubblici e fanno anzi diminuire i costi di gestione dell’economia. Queste riforme infine possono favorire l’imprenditorialità diffusa, resa possibile e necessaria dal prevedibile ritorno di un certo numero di emigrati dotati sia dell’esperienza, sia delle risorse finanziarie necessarie. Le rimesse degli emigrati sono infatti una voce importante della bilancia dei pagamenti e ammontano ad una quota importante del Pil (in Albania, ad esempio, esse sono il 15% del Pil). Questo modello potrebbe anche dare un impulso importante al necessario riequilibrio economico e sociale di queste economie, riducendo la dipendenza dall’estero, sostenendo un più attivo inserimento nella divisione internazionale del lavoro e una riduzione delle disparità distributive. Condizione necessaria è però la riforma e l’efficacia della pubblica amministrazione. 31


Risk

LO SFORZO IN AFGHANISTAN E IRAQ HA SPINTO LA NATO A “RIMPICCIOLIRE” LA KFOR

STRATEGIA DI UNA FUGA IN SORDINA DI

B

ANDREA NATIVI

asta! Non se ne può più: la comunità internazionale e in particolare i paesi europei ne hanno abbastanza di continuare a pagare i costi di una presenza militare che, per quanto in costante ridimensionamento, ha ormai poco significato, se non quello di deterrente, e contribuisce a logorare strumenti militari già impegnati allo spasimo per sostenere

uno sforzo bellico senza termine in Afghanistan e non solo. Gli Usa, che hanno le mani più che occupate con l’Iraq (fa un po’ ridere che a fine giugno si sia festeggiato il “ritiro” dal Paese, quando in realtà le truppe Usa resteranno sul terreno almeno fino a fine 2011 e certo non solo con ruoli di assistenza - il supporto aereo e navale sarà indispensabile sino al 2015) e in Afghanistan, dai Balcani hanno sostanzialmente levato le tende già da tempo, pur avendo in qualche misura contribuito al divampare dei conflitti nella regione, almeno per quanto concerne il Kosovo. Ed ora persino la pazienza degli europei è finita: naturalmente inutile aspettarsi una soluzione univoca, condivisa, politicamente e militarmente. No, ciascuno era pronto al “rompete le righe” individuale. Come dimostrato dagli improvvidi annunci della Spagna relativamente al contingente in Kosovo (peraltro la Madrid di Zapatero ci ha abituati: basta pensare a come annunciò ed eseguì il ritiro dall’Iraq). La mossa della Spagna, ancorché poi seguita da un ridicolo dietrofront diplomatico, ha spinto la Nato ad evitare una nuova pessima figura, con lo “sgonfiamento” della missione Kfor in Kosovo, un pezzo alla volta, alla chetichella. Del resto già una Gran Bretagna in vera emergenza economi32

ca-militare aveva annunciato una graduale riduzione del contingente, così come la Lituania. Così i ministri della Difesa dei paesi dell’Alleanza Atlantica hanno pensato bene di riunirsi, con una certa urgenza, a metà giugno per decidere un drastico ridimensionamento della Kfor, attraverso una serie di passaggi intermedi che dovranno essere attuati in tempi decisamente compressi. Perché nessuno vuole mantenere le proprie truppe in Kosovo un minuto di più di quanto non faranno “gli altri”, a prescindere dal fatto che ciò sia o meno giustificato dal miglioramento della situazione nel paese. La Nato ha stabilito una exit strategy, tanto per usare una terminologia alla moda, un piano fatto proprio dal Saceur, il comandante militare, il generale statunitense John Craddock, che porterà entro la fine dell’anno la Kfor dai quasi 15mila uomini che aveva a gennaio ad appena 5.700 unità: un “taglio” di quasi 2/3 della forza nel giro di poco più di sei mesi! E, nel volgere di due anni, si effettuerà una nuova contrazione di oltre il 50% delle truppe residue, che scenderanno quindi a 2.300 uomini. Non ci si è spinti a proporre una chiusura vera e propria della missione, ma considerando che buona parte dei soldati sarà assorbito in compiti di staff e supporto


dossier logistico, la componente operativa, la forza di manovra, conterà all’epoca poco più di due-tre battaglioni. Il che pone le basi per il passo successivo: la fine della missione Nato, con la abituale trasformazione in missione europea, con compiti molto meno impegnativi di supporto alle autorità locali, di addestramento e di minimo deterrente. Come sempre accaduto nella storia militare in caso di ritirate, la Nato dice che il piano per il Kosovo è comunque strettamente connesso alle condizioni di sicurezza e all’evoluzione del quadro politico nel Paese, ma certo gli addetti ai lavori ammiccano quando citano il diplomatico che ha parlato di ritiro “molto graduale”: come no, 10mila uomini su 15mila in sei mesi! Figurarsi se si fosse trattato di una riduzione drastica e repentina! Quella in atto è in effetti una vera svolta, politica e strategica, che viene comunque a quasi un anno e mezzo dalla dichiarazione unilaterale di indipendenza (avvenuta a febbraio 2008) di quella che era una “provincia” della Serbia. Il Kosovo, lentamente, ha ottenuto un discreto “successo” internazionale (quasi 60 Paesi lo hanno riconosciuto), che ha posto fine, senza che si verificasse la paventata catastrofe, alle ambiguità create dalla risoluzione 1244 della Nazioni Unite. Questa risoluzione ha posto in essere la Kfor e ne ha definito il mandato, senza peraltro chiarire quale avrebbe dovuto essere il futuro del Kosovo dopo la guerra del 1999 e il ritiro delle truppe serbe. 1999? Già, sono passati 10 anni da quando la Nato costrinse la Serbia, con 78 giorni di bombardamenti aerei, a lasciare il Kosovo. Un periodo estremamente lungo, caratterizzato da una costosissima (solo gli aiuti diretti ammontano a 15 miliardi di euro), pasticciata, inefficiente e inefficace co-gestione del dopo guerra e della ricostruzione istituzionale ed economica da parte di Onu e Nato. Per quanto riguarda il versante militare e della sicurezza, non sorprendentemente, ci sono stati consistenti progressi e relativamente pochi problemi davvero seri, ma il resto…

Quello del successo bellico seguito da lunghissi-

mi periodi di completa “tutela” da parte delle comunità internazionale, a causa della incapacità di risolvere una volta per tutte in modo ragionevole, anche se magari

poco elegante, i nodi politici (i quali sono poi stati concausa dei conflitti che hanno insanguinato la ex Jugoslavia) è un copione abbastanza comune. Pensiamo alla Bosnia-Erzegovina, che ha visto il primo intervento Nato di stabilizzazione nella regione, nel 1995, con lo schieramento di una forza combattente, la Ifor, forte di 65mila soldati subito dopo la minicampagna aerea. La Nato ha rimediato ai disastri subiti sul piano diplomatico, militare ed umanitario dall’Onu (la tragedia di Sebrenica resterà per sempre una macchia per l’Olanda), ma la Bih è ancora oggi monitorata da una forza mista, militare e di polizia, ora sotto egida Ue. Sono passati 14 anni! Quando ci si chiede quando potrà avere termine l’impegno americano in Iraq, iniziato “solo” nel 2003 e quello Nato-americano in Afghanistan, partito nel 2002, forse non bisognerebbe dimenticarsi questi istruttivi esempi. Con una differenza: nei Balcani, sia in Bosnia sia in Kosovo, le forze terrestri della Alleanza Atlantica andarono sul campo a bocce, ferme, dopo le conclusioni delle ostilità, condotte esclusivamente per via aerea, e con un contesto relativamente permissivo. In effetti non fu sparato un colpo, anche se si temeva il peggio. In Afganistan invece si combatte ancora, con intensità cre-

Non ci si è spinti a proporre una chiusura della missione, ma considerando che buona parte dei soldati sarà assorbito in compiti di staff e supporto logistico, la componente operativa, conterà poco più di due-tre battaglioni. Il che pone le basi per il passo successivo: la fine della missione Nato 33


Risk

Con il ritiro delle truppe serbe, il ruolo delle truppe Nato in Kosovo è diventato quello di…. proteggere le minoranze serbe dalla contropulizia etnica di stampo albanese. I ruoli sono invertiti e ora si discute quale possa essere l’autonomia della porzione serba del Kosovo scente e l’Iraq è tutt’altro che pacificato, sicuramente non stabilizzato.

Ma torniamo al Kosovo. Con il ritiro delle truppe

serbe, il ruolo delle truppe Nato è molto presto diventato quello di….proteggere le minoranze serbe dalla contropulizia etnica di stampo albanese. I ruoli sono invertiti e ora si discute quale possa essere l’autonomia della porzione serba del Kosovo. Si, all’Onu e alla Ue vaneggiano di multietnicità, ma di fatto i serbi residenti nella provincia hanno dovuto abbandonare quanto possedevano e rifugiarsi a nord, nella zona a maggioranza serba, dove per contro i rimanenti residenti albanesi si sono trovati subito in difficoltà. Un po’ alla volta le aree serbe in Kosovo si sono svuotate, anche se sono ancora molti i serbi che vivono a sud del fiume Ibar che dovrebbe, per la Serbia, costituire l’ipotetica linea di spartizione del Kosovo. E questo spiega perché il ruolo delle truppe Nato sia diventato poco gradito alla maggioranza albanese, specie quando le componenti di polizia militare hanno cercato di frenare traffici e organizzazioni criminali controllati da esponenti di spicco della politica e del governo locali. Ed è stato ironico assistere al riavvicinamento progressivo tra Nato e la stessa Unione Europea e una Belgrado che ha saputo rinunciare alle follie nazio34

nalistiche, nella sostanza se non nella forma. A partire dalla crisi della Macedonia. Per quanto riguarda la sicurezza, il Kosovo ha presentato non poche difficoltà, perché mentre era fin dall’inizio uno stato quasi sovrano, sia pure sottoposto ad occupazione militare e a stretto monitoraggio internazionale, era privo di proprie forze di difesa e polizia. Anzi, una delle prime preoccupazioni dei generali della Kfor fu proprio quello di ottenere una rapida smobilitazione dell’Uck/Kla, che fortunatamente a conflitto in corso si era evitato di armare (troppo), a dispetto delle pressanti richieste e di qualche tentazione americana. Il Kla alla fine dei combattimenti era una forza di guerriglia forte di 25mila uomini, dotati di armamento leggero e che nelle proprie fila annoverava la creme della criminalità e della delinquenza locale. Nei Balcani chiunque possieda un’arma considera saggio…tenersela e in Kosovo questo è ancora più vero. Per evitare di arrivare a dover imporre un peraltro impossibile disarmo, si è ricorsi all’espediente rappresentato dalla creazione del Kpc, Kosovo Protection Corps, un corpo di sicurezza interna paramilitare, ufficialmente disarmato, nel quale sono prontamente transitati… armi e bagagli buona parte dei guerriglieri dell’Uck/Kla: in tutto 3.500 uomini, con altri 7mila in riserva. Con la dichiarazione di indipendenza la finzione del Kpc non aveva alcuna ragione di esistere e quindi è stata costituita, lo scorso gennaio, la Kosovo Security Force, che a tempo debito diventerà un Esercito formale. La Ksf per ora ha una consistenza di 2.500 elementi professionisti e 800 riservisti, con un significativo numero di “nuovi arruolati”, non provenienti dal Kps, ma si può scommettere che questo tetto prima o poi sarà superato, anche se la normativa che lo istituisce ha addirittura fondamenta costituzionali. Già si pensa che la brigata leggera di reazione rapida, impiegabile anche per missioni all’estero, che costituisce l’obiettivo immediato potrà presto contare su una brigata di supporto, un comando forze terrestri etc. Insomma, quello che ci si può aspettare in un piccolo esercito, proporzionato ad un paese con 2,1 milioni di abitanti. La Nato aiuta la crescita del Ksf, l’addestramento del personale e il riequipaggiamento e tutti sanno che il Ksf è troppo piccolo anche


dossier solo per garantire la sorveglianza dei confini. Ma la trasformazione e la crescita richiederanno molti anni. Per quanto riguarda il versante delle forze di sicurezza/polizia, il Kosovo può contare sul Kps, Kosovo Police Service, che ha raggiunto la piena forza organica, 7mila unità, nel 2004, ma che, oltre ad essere afflitto dai “normali” problemi di corruzione e inefficienza, poco può contro i criminali di… governo e di potere, ammesso che volesse fare qualcosa. Sono stati compiuti sforzi per far si che le forze di sicurezza del Kosovo avessero struttura e composizione multietnica, ma con esito poco positivo. Il Kpc aveva una percentuale di membri delle minoranze nelle sue fila, ma i serbi erano solo 58. Le cose sono andate un po’ meglio con il Kps, si è arrivati al 10% di Serbi, anche se parte dei 700 poliziotti serbi si è dimessa per protestare con l’indipendenza. Però grazie allo schieramento dell’Eulex e al mantenimento forzato della Unmik Onu, le cose sono migliorate. In ogni caso è logico che la Nato abbia dovuto mantenere una forza consistente in Kosovo, potenziata di quanto in quanto in coincidenza di eventi politici/elettorali o scontri etnici, ricorrendo alle riserve di teatro over the horizon. Considerando che le distanze in gioco sono minime, i comandi Nato hanno ritenuto di tenere le proprie riserve non direttamente in Kosovo o comunque nei Balcani, ma nel territorio dei paesi membri che si sono impegnati a fornire forze aggiuntive in caso di guai. Sono forze pre-assegnate e identificate e devono ovviamente essere mantenute in un elevato o elevatissimo livello di prontezza per poter consentire uno spiegamento in tempi rapidissimi/rapidi, sulla base di un programma predefinito di attivazione-schieramento.

Questo approccio consente di limitare i costi, dato che le forze rimangano nelle proprie basi, con un livello di rischio accettabile e comunque riducibile procedendo all’invio di rinforzi su segnalazione intelligence, magari approfittando di periodiche attività esercitative. Però anche questo sistema è oneroso, perché “blocca” reparti pregiati, ovvero addestrati e pronti all’impiego, richiestissimi per altri impegni. Inoltre Paesi come

l’Italia faticano non poco a preparare e addestrare le truppe che andranno a dare il cambio a quelle utilizzate nei vari teatri operativi, tutte le altre sono, purtroppo, lasciate decadere a livelli addestrativi, di prontezza e di equipaggiamento miserevoli. Si è cercato di supplire ad eventuali “emergenze” grazie al concetto di mutuo supporto e di trasferimento di forze dalla Bosnia al Kosovo e viceversa. Le procedure sono oliate, le vie di movimento e le misure di sicurezza costantemente aggiornate e verificate. Ma certo ormai c’è ben poco da trasferire. Se fino a oggi Kfor potrebbe dare una mano rapidamente a Eufor nella BiH, nel giro di sei mesi tale capacità diventerà teorica vista la riduzione delle forze Nato. Con il dimagrimento della Kfor ai minimi termini diventa probabile una crescita della Eulex, la missione “civile” e di polizia targata Ue, che, dopo qualche falsa partenza, ha iniziato a schierarsi a fine 2008, con una forza a regime di 3mila funzionari di polizia/giudiziari/giudici e mille elementi locali. La Ue potrebbe ben farsi carico anche della dimensione militare, come è stato fatto in BiH.

Il “pasticcio” della BiH è forse più lontano di

quello del Kosovo da una soluzione definitiva. Questo perché gli accordi di Dayton hanno imposto la finzione della doppia federazione (federazione tra Bosgnacchi e Croati e federazione tra questa entità e la repubblica serba Sr), con un sistema politico ed istituzioni che non possono funzionare: si pensi ad esempio che esistono 180 ministri e 13 parlamenti ed una popolazione di 4,6 milioni di abitanti. La BiH “doveva” sopravvivere, ma sarebbe stato molto più semplice accettarne semplicemente lo smembramento e definire piuttosto quali territori sarebbero dovuti andare alla RS inevitabilmente riunita Serbia, quali alla Croazia e quali ad un neo costituito stato bosgnacco. Certo istituzionalizzare uno stato musulmano (ma musulmano alla maniera balcanica) in mezzo all’Europa sarebbe stato un azzardo, ma avrebbe consentito di evitare l’ingarbugliatissimo imbroglio della BiH. Ma lasciamo stare le questioni politiche ed istituzionali e concentriamoci sul settore sicurezza il quale (pensa che strano..), è quello che ha fatto registrare i maggiori progressi. Già, perché la situazione iniziale era 35



dossier ben più preoccupante di quella del Kosovo post bellico, data la presenza di consistenti ed agguerriti eserciti irregolari che si erano ferocemente scannati per anni. C’è voluto tempo, ma questi eserciti basati su volontari non ci sono più. Sono stati sostituiti da uno scarno e tutto sommato abbastanza credibile ed affidabile esercito federale professionale, che conta appena 10mila uomini, 5mila riservisti e mille civili, rispetto ai 200mila armati presenti nella BiH al termine del conflitto. È bene dirlo subito: l’idea di creare un esercito federale multietnico non ha funzionato. I reparti base sono quindi su base esclusivamente etnica. Però, un passo alla volta, acquistano credibilità e competenza e si può sperare (incrociando le dita) che stiano diventando uno dei fattori di coesione nella BiH. E c’è un unico ministero della difesa. Sicuramente gli effettivi sono pochi, ma le finanze del paese non si possono permettere nulla di più e il bilancio della difesa non supera l’1,35% del Pil. Così le 3 Brigate di fanteria sono davvero molto smilze, hanno un equipaggiamento “leggerino” e in larga misura basato sulle donazioni di materiale da parte di paesi Nato ed europei, con una pletora di sistemi di varia provenienza, in larga parte posti in deposito e non utilizzabili. È già positivo che si siano potuti sostituire mezzi ed equipaggiamenti “bellici” ed eterogenei. C’è un battaglione corazzato, 1 Brigata di supporto logistico, non esiste una Aeronautica, ma solo una Brigata integrata che include la difesa aerea e un pugno di elicotteri. Il quadro è meno positivo per quanto riguarda la sicurezza interna: l’Alto Rappresentante ha ovviamente proposto l’unificazione delle forze di polizia, ma non se ne è fatto nulla. E la presenza internazionale? C’è ancora, naturalmente, ma nell’arco del tempo ha cambiato struttura, consistenza e compiti. La BiH è affaire della Unione Europa, la Nato è uscita di scena dal 2004. E l’Unione europea mantiene nel Paese una forza “duale”, Eufor Altea, della consistenza (teorica) di 2.500 uomini (in realtà meno di 2.200) e con quartier generale a Sarajevo. Eufor è l’erede della Ifor, poi divenuta Sfor. Consiste di un battaglione di manovra (Mnbn) ed un battaglione di polizia militare (Ipu) ed una quarantina di team di osservatori (Lot) che hanno il “polso” della situazione locale. Una decisione

sul futuro della missione e dell’Ohr (Alto Rappresentante) era attesa per marzo, poi rinviata a giugno. E ancora non se ne è fatto nulla. Ma se le cose si muovono in Kosovo, la BiH non può restare indietro e visto che il mandato di Eufor scade a novembre, ci si augura che si decida la fine della presenza militare e il mantenimento di una missione “civile” con la sola Ipu, fino alle elezioni locali del prossimo anno, con la speranza di chiudere poi bottega una volta per tutte. Le tensioni locali rimangono, ma la maggior parte degli osservatori dubita che torneranno a divampare conflitti, mentre anche il rischio di radicamento di una presenza islamica estremista o che si sviluppi un “brodo di cultura” favorevole alla crescita di cellule simil al Qaeda sono remoti. Non sorprende che i pochi wahabiti nel nord del paese fatichino a fare proseliti. E se l’Arabia Saudita finanza moschee e istituti religiosi forse ha capito che non è conveniente esagerare.

Per quanto riguarda gli altri paesi dei Balcani, per

tutti l’obiettivo comune consiste nell’avvicinamento e l’ingresso nella Unione europea e nella Nato. Ma se questa è la tendenza, ben diversi sono i tempi e i modi con i quali è stato/sarà possibile raggiungere il traguardo, anche considerando che lo sciagurato periodo delle “porte aperte a tutti”, complice la crisi economia mondiale e quella politica della Unione europea è ormai concluso. Tanto più nella consapevolezza che praticamente tutti i nuovi/aspiranti membri vedono nell’ingresso nella Nato la soluzione ai propri problemi di sicurezza, nel senso che la Nato dovrebbe farsi carico di garantire la sicurezza nazionale e di stemperare le frizioni con i vicini, ex nemici o poco amici, il tutto naturalmente gratis o quasi. Quanto alla Ue, l’ingresso significa garantirsi l’accesso ad aiuti economici indispensabili per sostenere economie nazionali spesso estremamente arretrate o da ricostruire da zero. Ma ci sono anche i “primi della classe”: è questo ad esempio il caso della Slovenia, che già ai tempi della Jugoslavia titina era una delle repubbliche benestanti, culturalmente ed economicamente più vicine all’Europa e ai suoi standard. La secessione del 1991 è stata pratica37


Risk mente indolore, visto che i serbi si sono quasi subito ritirati ed hanno lasciato perdere. Questa ha permesso di evitare distruzioni infrastrutturali ed ha consentito un processo virtuoso di “rincorsa” e integrazione con i vicini d’Europa, così come parallelamente il governo si è mosso per uniformarsi agli standard organizzativi e operativi Nato. La Slovenia ha oggi un piccolo strumento militare professionale, con una componente attiva di circa 7mila uomini e altri 1.600 nella riserva selezionata,

Il Kosovo può contare sul Kps, Kosovo Police Service, che ha raggiunto la piena forza organica, 7mila unità, nel 2004, ma che, oltre ad essere afflitto dai “normali” problemi di corruzione e inefficienza, poco può contro i criminali di governo e di potere totalmente integrata, senza le usuali suddivisioni in Forze Armate. La componente terrestre ha un paio di brigate, quella navale una forza costiera/guardacoste, quella aerea ha capacità di trasporto e sorveglianza e minime di difesa aerea. La spesa per la difesa non è certo prioritaria, ma il materiale è discretamente moderno ed efficiente. Le cose non sono andate altrettanto bene alla Croazia, che alla fine della guerra di secessione si è trovata a costruire praticamente da zero forze armate degne di questo nome. L’ingresso nella Nato ha avuto luogo prima che la Croazia avesse una reale capacità di difesa, mentre il piano di ammodernamento 2006-2015, che prevede una forza complessiva professionale di 16.300 uomini, 1.600 dipendenti civili e 6mila riservisti selezionati, procede molto a rilento, anche a causa della crisi economica, che ha bloccato o portato a rinviare molti programmi. 38

Lo strumento militare croato comunque è già e sarà ancor di più in futuro ben più potente e consistente di quello sloveno. In parte i mezzi sono stati ottenuti attraverso “donazioni” di paesi Nato o Ue, in parte però sono stati e vengono acquisiti direttamente dalla Croazia. La Croazia dispone anche di una forza di polizia non solo consistente, con 25mila uomini, ma che ha anche una capacità combat e di controllo ordine pubblico più che significativa. Per quanto la Serbia sia stata duramente provata dalla disintegrazione della Jugoslavia è anche vero che non si è combattuto sul suo territorio, se si escludono le operazioni aeree che comunque sono state selettive e limitate per intensità ed ampiezza dei target sets. Anche le operazioni in Kosovo non sono costate poi così care all’Esercito, mentre certamente l’ Aeronautica ha sofferto di più. La Marina invece…semplicemente non c’è più, in assenza di porti e sbocchi sul mare. Anche la Serbia sta abbandonando il sistema di coscrizione obbligatoria, sia pure selettiva, e in teoria dovrebbe avere una forza professionale di 30mila uomini entro fine 2010. Il Modello di Difesa 2015 presupponeva investimenti costanti pari al 2,5% del Pil, ma è in grave ritardo a causa della crisi economica, per quanto la Serbia stia progredendo velocemente sul piano economico. Belgrado ha poi una industria della difesa piuttosto vivace che è già tornata a soddisfare in parte i requisiti nazionali e che si affaccia su alcuni mercati stranieri. Ma per il momento la maggior parte degli investimenti è dedicata a mantenere in servizio e modernizzare il materiale già in linea. Il Montenegro è scampato quasi integralmente ai conflitti balcanici e si è trovato ad “ereditare” stock relativamente consistenti di materiali ed equipaggiamenti Serbi, potendo poi contare su un nucleo di quadri e personale addestrato. L’obiettivo, tanto per cambiare, è quello di accedere prima o poi alla Nato, ma il piano di costituzione e potenziamento delle forze armate (unificate sotto l’Esercito), la cui prima fase si doveva completare nel 2010, è in realtà in ritardo. Si tratta al momento di una piccolissima forza professionale con una consistenza di neanche 2.400 uomini, con una brigata, qualche unità da pattugliamento


dossier marittimo e pochi elicotteri. È la lotta alla criminale la vera priorità. La situazione della Albania era e resta disastrata a causa delle difficoltà economiche che affliggono il Paese e del malgoverno economico e politico. L’Albania non ha particolari problemi di sicurezza esterna, quanto serie questioni di sicurezza interna e di controllo e contrasto alla criminalità, organizzata e non. L’assistenza e l’aiuto diretto, fornito in particolare dall’Italia, hanno portato a ottimi risultati, in particolare per quanto concerne i traffici illeciti marittimi e l’immigrazione clandestina verso il nostro Paese, ma ci vorrebbe ben altro. L’Albania è entrata nella Nato quest’anno, ma certo non ha capacità militari adeguate. La professionalizzazione delle Forze Armate è in corso e dovrebbe essere completata nel 2010, con un obiettivo di 14mila militari e 2mila impiegati civili. Non ci sono forze armate separate, ma un a forza integrata il cui elemento centrale è quello terrestre, con una brigata di reazione rapida, supportata da una piccola aeronautica senza aerei ad ala fissa ed una forza navale che ha compiti principali di guardia costiera. La Macedonia rimane esposta ai rischi di una destabilizzazione, di conflitti interni su base etnico/politica e prima o poi il Kosovo indipendente potrebbe tentare di “allargarsi” ai danni della Macedonia, che negli scorsi anni ha faticato non poco ad evitare la guerra civile ed è stata assistita in ogni modo dalla Nato e dalla Ue. La Macedonia sperava in un ingresso nella Nato già nel 2008, ma la solita querelle con la Grecia ha bloccato tutto ed ora comunque il clima non è più così favorevole. La Macedonia ha avviato un piano di potenziamento delle Forze Armate, 2009-2018, che peraltro incontra difficoltà di bilancio. Le Forze Armate sono comunque professionali e hanno un obiettivo di forza di quasi 13mila uomini, la maggior parte dei quali nella componente terrestre, visto che quella aerea ha minima consistenza.

Tirando le somme,

la comunità internazionale, l’Onu, la Nato, la Ue e i singoli Paesi membri hanno sperperato immense risorse nei Balcani, ottenendo risultati davvero risibili. Un tempo Paesi collassati come

l’Albania o teatro di una guerra civile fermata con…la guerra, come BiH e Kosovo, sarebbero diventati protettorati. Ma la forma oggi impone soluzioni diverse, che, come visto in Kosovo, dove Onu, Ue, e Nato si sono sovrapposti, non funzionano. I paesi da aiutare sono diventati assuefatti agli aiuti esterni ed è comprensibile che cerchino di protrarre il più a lungo possibile tale regime e in particolare le missioni internazionali che rappresentano un business immenso, spesso il più importante per l’economia locale. Naturalmente i Paesi assistiti vogliono autonomia politica e decisionale, ma non le responsabilità. E gli aiuti esterni, che drogano l’economia e arricchiscono i criminali, certo non stimolano l’iniziativa. Possiamo quindi dire “grazie” alla crisi economica globale e alle esigenze militari internazionali reali che stanno finalmente ponendo fine alla stagione delle missioni militari balcaniche. Non che quelle civili siano poco costose: la Eulex dovrebbe costare 1 miliardo di euro all’anno, ma almeno gli oneri non saranno a carico del capitolo “Difesa”. Kosovo e BiH dovranno presto affrontare da soli o quasi i propri problemi. Non potranno delegarli. Le diverse fazioni e etnie dovranno confrontarsi e dialogare direttamente. È davvero l’ora. Esistono ancora contrasti e tensioni, né può essere diversamente dopo i traumi e i massacri degli anni ’90. Ma se gli Usa vogliono lasciare l’Iraq dopo “appena” sette anni, non si vede perché i soldati Nato ed europei debbano rimanere inchiodati nei Balcani dopo lustri di attività. Con la speranza che dagli errori politici della stagione delle missioni di stabilizzazione nei Balcani si sia imparato qualcosa. Un’ultima notazione. Gli Usa sono stati giustamente criticati per aver vinto la fase bellica in Iraq nel giro di pochi messi e aver poi lasciato che la situazione degenerasse, creando i presupposti per una guerriglia feroce. E le cose non sono andate meglio in Afghanistan. Ma gli europei e la Nato, che hanno i Balcani alla propria periferia, non hanno fatto poi molto meglio in una situazione certamente più favorevole (persino in BiH), complice l’Onu. E anche nei Balcani la fase “bellica” è durata pochi giorni o pochi mesi. Forse è il caso di non dimenticarlo. 39


Risk KOSOVO, CROCEVIA DEL TRAFFICO DI UOMINI, EROINA E CONTRABBANDO

IL DEMONE BALCANICO DEGLI STATI MAFIA DI

M

ANDREA MARGELLETTI

orto e sepolto il Maresciallo, i Balcani, oltre al dramma della guerra, hanno dovuto subire un’altra piaga: la criminalità. E tra tutti i Paesi che compongono questa disgraziata penisola, a uno va senza dubbio l’appellativo di più criminale. Stiamo parlando del Kosovo. Da anni ormai questa scomoda etichetta è stata affibbiata al paese e in tutte

le sedi se ne sottolinea il carattere di Stato in mano alla criminalità ed alle organizzazioni dedite ai conrabbandi di ogni genere. Nonostante la presenza della Nato, e adesso dell’Unione europea con la missione Eulex, dalla dichiarazione unilaterale d’indipendenza della ex provincia serba nel febbraio 2008, la situazione sarebbe addirittura peggiorata. Il Kosovo rimane un consolidato crocevia del traffico di eroina, del contrabbando di sigarette e del traffico di essere umani. I contingenti Nato di Kfor sono concentrati nei compiti relativi al mantenimento della sicurezza, della libertà di movimento - in particolare nella protezione delle enclavi serbe diffuse su tutto il territorio kosovaro - e nel controllo della linea delineata dal fiume Ibar lungo il confine con la Serbia, dove è concentrata la maggior presenza di serbi-kosovari. Un compito che assorbe risorse e uomini - visto che per proteggere un sito, come per esempio un monastero ortodosso, sono necessari fino a due plotoni ai quali vanno aggiunte le forze in servizio di Qrf (Quick Reaction Force) - e distoglie attenzione dal contrasto dei fenomeni a bassa intensità quali, appunto, la criminalità. Inoltre, il numero delle forze Nato presenti nel paese, che oggi si aggira sulle 13mila unità, a breve potrebbe essere ridotto ancora. Lo stesso ministro italiano della Difesa, La Russa, ha proprio di recente confermato questa eventualità affermando che dal prossimo anno la presenza del contingente italiano sul terreno verrà radicalmente rimodulata. Questo significa che la polizia kosovara, Kp (Kosovo 40

Police), dovrà assumersi sempre maggiori compiti in attesa che la Ksf (Kosovo Security Force, l’embrionale “esercito” ancora in fase di addestramento) le si affianchi, sgravandola da alcune attività per potersi così concentrare al meglio sulla lotta alla criminalità. Nel complesso, traffici e illegalità costituiscono il problema principale che affligge il paese. Considerato l’attuale quadro della sicurezza, tutto sommato stabile, beninteso reso tale dalla presenza delle truppe Nato, il futuro del Kosovo può essere minacciato solo dall’aggravarsi dei fenomeni legati alle attività illecite. Fenomeni che non pregiudicano certo la stabilità del Paese, così come quella delle regioni vicine, ma che costituiscono pur sempre un grave problema, di ordine pubblico, anche per l’Europa.

Sin dai primi anni Novanta, il Kosovo ha rappresentato un crocevia privilegiato per il traffico di droga. La sua importanza in tal senso è letteralmente esplosa con la guerra in Bosnia, che ha portato alla chiusura della rotta dei traffici che passava da quella regione, e poi con la crisi in Albania nel 1997, che ha provocato l’afflusso sulle coste italiane di centinaia e centinaia di profughi che i clan sono riusciti a gestire ricavandone una fortuna. Secondo l’Interpol, già nel 1997 la criminalità kosovara, legata a quella albanese, controllava il traffico di eroina sui mercati di Austria, Belgio, Germania, Ungheria, Norvegia, Repubblica Ceca e Svezia. La guerra del 1999, alla quale


dossier ha fatto seguito la disastrosa esperienza dell’amministrazione Onu con la missione Unmik, ha accentuato questa caratteristica ed il peso dei clan e delle organizzazioni criminali kosovare. Nel 1999, infatti, si è ripetuto uno scenario simile a quello albanese del 1997. Con l’aggravante che in tale circostanza la scala è stata decisamente maggiore e i profughi costretti a lasciare le proprie terre, sotto l’incalzare della pulizia etnica serba, sono stati quasi mezzo milione. Una manna per le organizzazioni criminali, pronte a sfruttare il grande spostamento di persone per imporre “il pizzo” e avviare lucrosi traffici di esseri umani. Ma il conflitto serbo-kosovaro ha portato anche al drastico incremento del traffico di armi che da allora ha iniziato ad alimentare in modo sempre più costante la guerriglia degli estremisti albanesi dell’Uck. Secondo uno studio dell’Onu, durante quel periodo, 200mila fucili mitragliatori, per lo più Kalashinkov, sono stati introdotti illegalmente dall’Albania in Kosovo. Ed è così che i legami tra criminalità organizzata, che gestiva il contrabbando di armi, e Uck sono andati via via rafforzandosi. Nel marzo del 1999 il Times ha pubblicato un articolo secondo il quale dalla nascita dell’Uck, risalente al 1997, e fino, appunto, all’avvio delle ostilità, in Kosovo sono entrati oltre 900 milioni di marchi tedeschi. Una parte proveniente dalle rimesse della diaspora, che appoggiava in buona fede la causa secessionista, ma una parte, probabilmente ancor più cospicua, frutto delle attività illecite compiute all’estero dagli immigrati albanesi. In altri termini, l’Uck, per affermarsi e consolidarsi nella sua lotta contro Belgrado, aveva bisogno di soldi, visto che l’Occidente è sempre stato piuttosto restio a concedere finanziamenti a questo gruppo, e di radicamento in una società, come quella kosovara, basata su una struttura tipicamente clanico-familiare. Per cui l’abbraccio con la criminalità, che poteva portare in dote entrambe le cose, è diventato quasi una scelta obbligata. Del resto, la società albanese-kosovara è strutturata su un fitto intreccio di rapporti parentali e di clan distribuiti in senso orizzontale e ampiamente diffusi sul territorio. La criminalità è modellata di conseguenza, con un’organizzazione scarsamente verticistica, ben dispersa e governata più che da una cupola, sul modello della vecchia Cosa Nostra, da un’oligarchia di clan, legati da rapporti sostan-

zialmente paritari, ben inserita nel tessuto parentale locale. Dopo la fine della guerra del 1999 e l’avvio dell’amministrazione Unmik, la situazione non è cambiata. Secondo molti, anzi, addirittura è peggiorata proprio per le mancanze e la debolezze della stessa Unmik. La missione Onu, durante tutto il suo mandato, è stata duramente contestata da tutte le parti per le sue inefficienze e la mancanze di un reale contatto con la società civile kosovara. In più, il personale Unmik, con la sua polizia - possiamo dirlo, la famigerata Unmik Police - non ha mai fatto sostanzialmente nulla contro il traffico di droga e in più di un’occasione diversi suoi funzionari sono stati toccati da inchieste relative a casi di corruzione. In pratica, considerato che il compito di Kfor è sempre stato, ed è, quello di garantire un ambiente stabile e sicuro nel Kosovo e proteggere la minoranza serba, era ad Unmik che spettava il compito di monitorare, prevenire e contrastare tutte le attività illegali in atto sul territorio kosovaro. Ebbene, da questo punto di vista il bilancio della missione Onu è stato totalmente deficitario. Vediamo adesso quello che succederà con la missione dell’Unione Europea, Eulex. Le prime contestazioni da parte albanese ricevute suggeriscono, come molti osservatori non hanno mancato di far notare, una lettura secondo la quale in realtà dietro di esse possa nascondersi la criminalità, ansiosa di non veder mutare il regime di quieto vivere instaurato nel corso degli anni con Unmik che aveva permesso di fare lucrosi affari. Ad oggi è ancora presto per dirlo. Eulex si è insediata da neanche un anno e, a differenza della missione Onu, che aveva a tutti gli effetti compiti di governo sul territorio kosovaro, il suo compito è semplicemente quello di supportare, soprattutto in chiave legale, e consigliare le nascenti e gracili istituzioni locali alle prese col difficile processo del consolidamento democratico. Ragion per cui molto, da qui in avanti, sul fronte del contrasto alla criminalità dipenderà dall’atteggiamento e dalle reali intenzioni del governo locale e della Polizia. Ma sul punto è lecito nutrire qualche dubbio. Attualmente, le stime disponibili sulla mafia albanese-kosovara indicano questo fenomeno come una delle principali organizzazioni criminali al mondo, forte di rapporti consolidati con cartelli come quello colombiano (i narcos colombiani usano infatti il Kosovo come zona di afflusso per la droga desti 41



dossier nata al mercato europeo) e con un’organizzazione di distribuzione ben ramificata in tutta Europa: su tutte le principali piazze, a cominciare da Londra dove le gang albanesi oltre a fornire droga forniscono anche altri tipi di “servizi”, come omicidi su commissione. La mafia albanese-kosovara controlla il 75% del traffico di eroina diretto in Europa occidentale e fino al 50% di quello destinato agli Usa, con una trentina di clan attivi sul campo, ciascuno responsabile per il proprio settore, e un fatturato annuo pari ad oltre due miliardi di dollari. A questi numeri bisogna aggiungere il controllo su più di 200 banche private ed imprese di cambiavalute e su tutta una serie di attività commerciali che vanno dai saloni di bellezza, alle profumerie, ai caffè e così via. Gli interessi, le ambizioni e le ramificazioni sono enormi. I narcos kosovari riescono a controllare circa l’80% del mercato dell’eroina ungherese e sono ampiamente diffusi anche da noi in Italia, dove hanno intessuto legami con la camorra e addirittura con l’impenetrabile ndrangheta con cui il business arriva a toccare anche il traffico di armi. La Svizzera è diventata la loro principale “base” in Europa e qui ben il 72% degli imputati per crimini di droga è di origine kosovaro-albanese. Addirittura, durante una visita in Svizzera del ministro degli Esteri serbo Jeremic la sicurezza è stata elevata fino al 4° livello a causa di una minaccia di attentato da parte del crimine albanese. A causa di queste trame, sul banco degli imputati è finito il clan Osmani, uno dei più potenti clan kosovaro-albanesi. Ma gli albanesi del Kosovo controllano anche l‘80% del traffico di droga in Svezia e Norvegia, e sono diventati i principali distributori su questi mercati di cocaina, eroina e marijuana greca. Per i trasferimenti si conta sui porti greci, dove si riforniscono migranti albanesi e vagabondi da Turchia, Pakistan, Sri-Lanka, Cina e da altri Paesi per farli agire come corrieri. Secondo fonti della Polizia slovacca, quasi il 100% dell’eroina arriva dall’Afghanistan attraverso la via balcanica, ovvero il Kosovo, la Macedonia e l’Albania. Recentemente, i gruppi albanesi hanno iniziato a farsi avanti nel business del controllo dei porti rumeni. Quasi tutto il territorio del Kosovo serve come base del narcotraffico e si è ormai consolidato come la linea principale di transito della droga destinata all’Europa. Come corrieri, i clan usano bambini, anche di 43


Risk

La mafia albanese-kosovara controlla il 75% del traffico di eroina diretto in Europa occidentale e fino al 50% di quello destinato agli Usa, con una trentina di clan attivi sul campo, ciascuno responsabile per il proprio settore, e un fatturato annuo pari ad oltre due miliardi di dollari. A questi numeri bisogna aggiungere il controllo su più di 200 banche private età inferiore ai 14 anni, ma anche muli. È capitato, infatti, in diverse occasioni che i militari di Kfor di pattuglia lungo i confini, soprattutto quelli con il Montenegro, si imbattessero in muli senza conducente che portavano droga (o sigarette). Anzi, il trasporto per mulo è uno dei più in voga perché più sicuro e meno rischioso.

Oltre alla droga, le principali attività illegali

dei clan albanesi-kosovari sono il contrabbando di sigarette e legname, il traffico di armi e di essere umani. Insomma, un’autentica fiera dell’est che si snoda lungo i sentieri che attraversano le montagne kosovare. Il traffico di minori e ragazze da avviare alla prostituzione è una floridissima attività. Seppur l’importanza del Kosovo, come destinazione finale dei traffici, sia negli ultimi due anni diminuita, dopo gli scandali che hanno visto coinvolto il personale di Unmik in passato, il Paese resta un importante crocevia ed un luogo di origine. Secondo un rapporto del Dipartimento di Stato reso pubblico lo scorso anno, Kosovo e Albania sono i due principali Paesi di origine per il traffico di uomini, donne e bambini per lo sfruttamento sessuale e l’avvio alle attività legate al lavoro forzato. 44

Alle “bionde” ed al traffico di essere umani, bisogna poi aggiungere il contrabbando di sigarette e legname, i cui proventi sono però difficili da quantificare. Soprattutto il secondo, il traffico di legname, rischia di mettere gravemente a rischio una delle principali risorse del Kosovo, ovvero le sue foreste, e sempre più organizzazioni non governative si stanno occupando della questione. Infine, resta il problema del traffico di armi. Nonostante il fatto che in questo caso l’attenzione delle istituzioni locali sia un po’ più alta, su pressione di Kfor, tante armi, soprattutto armi leggere, continuano a passare per il Kosovo andando ad alimentare il mercato nero. C’è poi l’altro problema della residua presenza, tutt’altro che trascurabile, delle armi ereditate dalla guerra del 1999 e che la Nato e la polizia kosovara non sono riuscite a confiscare e rastrellare del tutto. Ne sono una testimonianza le caratteristiche raffiche di Kalashinkov che molto spesso si odono per festeggiare i matrimoni, come impone la tradizione di queste parti. Dietro il rafforzarsi della criminalità in Kosovo c’è sicuramente l’attuale situazione economica nell’area. Disastrata a dir poco. L’economia kosovara continua a non crescere ed a permanere in uno stato di stagnazione e, se si preferisce, di mancato decollo. A seconda delle stime, il tasso di disoccupazione si aggira tra il 40 ed il 70%. Per la Banca Mondiale, 37 kosovari su 100 vivono sotto la soglia della povertà, mentre 15 addirittura in condizioni di “povertà estrema”. Chi ha un lavoro a stento ce la fa ad arrivare a 200 dollari al mese, ma in questa categoria rientrano anche le più svariate forme di collaborazione che molti kosovari hanno con le organizzazioni internazionali che operano sul terreno. Lavori che certo non garantiscono stabilità. Date queste condizioni, sono soprattutto i giovani a non avere prospettive e chi non può permettersi di emigrare, per andare a vivere da partenti o conoscenti, molto spesso non ha alternative se non quella del lavoro nero o dell’affiliazione alla criminalità. Secondo un sondaggio promosso dal Centro per i diritti umani di Pristina, e pubblicato lo scorso giugno dal quotidiano Gazeta Express, più dei due terzi dei disoccupati in Kosovo sono disposti ad accettare un lavoro con un salario inferiore ai 200 euro, mentre il 44% vorrebbe abbandonare il Paese a causa della forte disoccupazione. Ogni anno circa 25mila-


dossier 30mila giovani restano fuori dal mercato del lavoro. Per assorbire questa grande mole di disoccupati servirebbero tassi di crescita del 7/8% annuo, ma per il momento questi numeri restano un miraggio. Uno smacco anche per la comunità internazionale che dal 2000 al 2007 ha riversato sul Kosovo quasi tre miliardi di dollari di aiuti, aiuti che avrebbero dovuto fare da volano per la ripresa di un’economia più legata, o legata in misura minore, ad attività criminali. Il problema è che nessuno finora è stato in grado di monitorare la destinazione di questo fiume di denaro - non Unmik, né Eulex che, a differenza della prima, neanche legalmente ha questo potere - ed è evidente che una cospicua fetta di questo sia andata a finire nelle tasche di potenti e potentati, e degli stessi vertici istituzionali. Nell’estate del 2008, la Conferenza dei donatori ha stanziato un altro miliardo e duecentomila dollari di aiuti, dei quali 500 milioni da parte della Commissione Europea, ma ad oltre un anno di distanza questi soldi non si sono ancora materializzati e c’è chi è pronto a giurare che una buona parte di questi siano già su conti svizzeri risalenti ad importanti uomini politici. La corruzione è infatti l’altro grande tarlo che erode le fondamenta della società politica e civile kosovara e che favorisce la presa della grande criminalità. Secondo il Programma anti-corruzione Transparency, il Kosovo detiene la non invidiabile quarta posizione al mondo in quanto a tasso di corruzione, subito dietro Cambogia, Camerun e la “cugina” Albania. La corruzione interessa un po’ tutti i livelli della vita politica e istituzionale, dal singolo funzionario di amministrazione pubblica, o dal singolo poliziotto, fino ad alti esponenti governativi. Le istituzioni si sono sforzate di mostrare un certo impegno nella lotta alla corruzione, ma il tutto sembra più un esercizio di facciata che altro. La stessa Agenzia kosovara per la lotta alla corruzione costituisce più uno specchietto per le allodole, ad uso e consumo esterno, che un autentico organo per il contrasto del fenomeno. In un suo rapporto pubblicato lo scorso anno, naturalmente minimizzato dal governo, si parlava esplicitamente di frodi in “quasi tutte” le transazioni delle compagnie pubbliche, e di intrecci tra malaffare, politica e magistratura locale, con notevoli danni, pari a decine di milioni di euro, alla già misera economia della regione. Inoltre, dall’inizio del

2008, non è stato registrato alcun miglioramento. Stando solo ai casi denunciati, la corruzione è costata sei milioni di euro se si considerano solo i primi due/tre mesi dopo l’indipendenza, e ha coinvolto decine di uomini politici, magistrati e manager pubblici: inclusi 21 «funzionari governativi di rango elevato». Il punto è che le indagini sono arrivate solo «alla punta dell’iceberg del fenomeno», poiché «la corruzione inquina quasi tutte le compagnie pubbliche», ritenute coinvolte in episodi di truffa sulle transazioni più importanti e le procedure d’asta. Mentre, sempre secondo il Rapporto, «i meccanismi giudiziari restano inadeguati» perché i procuratori locali spesso «non agiscono se si tratta di colpire istituzioni o alti funzionari». Una situazione drammatica aggravata, semmai ce ne fosse bisogno, dalla corruzione che regna anche in settori della Kp che questi fenomeni, come quelli della criminalità, li dovrebbe invece contrastare.

La criminalità kosovaro-albanese è sicuramente la più organizzata e pericolosa di tutti i Balcani e, probabilmente, di tutta Europa. C’è però chi mette in guardia da una possibile evoluzione di questa verso una sorta di ombrello da estendere anche a tutte le altre organizzazioni criminali che agiscono nella regione. È in particolare un rapporto del World Security Network che ha agitato questa prospettiva, per niente rassicurante viste le intenzioni di integrazione europea che nutrono gran parte di questi Paesi. Secondo l’autorevole fondazione con base a New York, creata dal giornalista tedesco Hubertus Hoffmann e che raduna oltre 300mila aderenti in 15 paesi, diversi gruppi criminali balcanici starebbero cercando di unificarsi, in maniera sistematica e settoriale, per gestire così al meglio i diversi soggetti coinvolti nelle varie attività illegali. L’obiettivo sarebbe allora creare un’organizzazione multidimensionale, costituita da gruppi di diverse nazionalità, sviluppata in tutta Europa ed estesa in svariati settori della vita economica e sociale. Insomma, una piovra con tentacoli che porterebbero i più “bei” nomi della mafia balcanica: dai clan serbi Surcin e Zemun, ai kosovari Osmani e, in genere, a tutti quelli che, a prescindere dall’etnia, hanno voglia di fare business approfittando delle frontiere aperte e del lassismo dei Paesi europei. 45


Risk

Una nuova sfida per l’industria italiana della Difesa

GLI

EDITORIALI/MICHELE

Senza grande scalpore e quasi senza attenzione, se si esclude una piccola parte degli addetti ai lavori, in quest’ultimo biennio sono state gettate le basi di quello che, nel prossimo decennio, sarà il mercato europeo della difesa. Le due Direttive europee, quella sui trasferimenti intra-comunitari e quella sugli acquisti pubblici di prodotti per la sicurezza e per la difesa, sono state, infatti, definitivamente approvate e vincolano giuridicamente gli Stati membri alla loro applicazione. Insieme, non va dimenticata la Posizione Comune sulla politica esportativa di prodotti militari che li impegna a rispettare criteri comuni e, di fatto, eventuali “dinieghi”, condividendo le informazioni sulle esportazioni autorizzate. Ovviamente la prevista data di partenza “ufficiale”, il 201112, sarà solo l’inizio di un processo di integrazione che richiederà poi qualche altro anno per dispiegare tutti i suoi effetti. A parte i possibili ritardi di qualche paese nel recepimento degli impegni europei all’interno della propria normativa nazionale, vi continuerà ad essere un approccio diversificato a livello nazionale per quanto riguarda l’utilizzo dei diversi strumenti disponibili. Si andrà, quindi, da paesi che spingeranno l’acceleratore su liberalizzazione dei trasferimenti e/o competizione negli acquisti a paesi che schiacceranno, nel limite del possibile, il freno. Maggiore competizione e collaborazione spingeranno le principali società verso una nuova fase di razionalizzazione, basata sulla concentrazione e specializzazione delle loro capacità tecnologiche e industriali. I grandi paesi europei dovranno puntare sulle loro aree di eccellenza tecnologica, accettando una maggiore interdipendenza nelle rimanenti. Alcuni, e in particolare Regno Unito e Francia, si sono già mossi in questa direzione, concentrandovi le risorse finanziarie, la politica della ricerca e industriale e il supporto all’export. Diverso è il caso italiano perché fino ad ora è stata meno forte l’azione di guida di governo e amministrazione, mentre, sul fronte industriale, si è dovuta digerire una concentrazione industriale e una razionalizzazione nazionale avvenuta in ritardo rispetto agli altri players europei. Tutto questo con una domanda interna inferiore e in progressiva

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riduzione. Nel prossimo futuro le scelte non potranno, quindi, essere rinviate perché la coperta finanziaria è stretta e lo sarà ancora di più. La stessa riorganizzazione dello strumento militare avviata dal Governo porterà ad un suo ridimensionamento e a un ribilanciamento a favore delle spese di funzionamento. I fondi disponibili per ricerca e acquisizioni dovranno, inoltre, far fronte alle esigenze legate alle missioni internazionali e non sempre ciò corrisponderà all’effettiva offerta delle nostre imprese. Di qui la necessità di identificare le attività strategiche chiave che potranno essere mantenute a condizione che abbiano un adeguato livello di sostegno e tutela e trovino nuovi sbocchi sul mercato internazionale. È un compito soprattutto della Difesa che, col necessario supporto delle altre amministrazioni coinvolte, dovrebbe predisporre un Piano nazionale di queste attività strategiche chiave. Tale Piano potrebbe poi trovare il necessario avallo interministeriale da parte del governo. Alla base di questa scelta vi dovranno essere le capacità che l’industria italiana ha saputo dimostrare in questi anni. Ma una strategia nazionale di rafforzamento e sviluppo delle nicchie non può limitarsi ad individuare i sistemi completi e deve misurarsi anche con i sottosistemi ed apparati. È un esercizio difficile che richiede un’approfondita conoscenza dello scenario tecnologico internazionale. È però indispensabile perché le capacità di progettazione e realizzazione di un sistema rappresentano il vertice della piramide tecnologica e industriale, cioè le grandi imprese, ma la parte intermedia è data dalle capacità nel campo degli apparati e dei sottosistemi, cioè le imprese medie, e questa fascia assicura stabilità alla struttura industriale e ne può assicurare una più forte internazionalizzazione, anche partecipando ai sistemi di altri prime contractors. Da questa verifica dovrebbero partire governo e amministrazione per definire una strategia nazionale di salvaguardia, attraverso tutti gli strumenti disponibili, delle nostre nicchie di eccellenza nel campo dell’aerospazio e difesa in modo da favorire anche un effettivo rafforzamento della nostra industria.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Perché scegliamo di essere ricattati da Kim Jong-il? Il Segretario Generale dell’Onu, Ban Ki Moon, si era appena raccomandato di evitare ogni iniziativa che deteriorasse una “situazione già molto seria”, che subito la dirigenza Nord Coreana ha risposto, il 4 luglio, lanciando una raffica di missili balistici Scud-C e Ro-Dong, questi ultimi con gittata di oltre 1.200 km, che fanno seguito ai lanci del 2 luglio (4 missili a breve raggio) ed alle più gravi sfide alla comunità internazionale a base di test nucleari, di lanci di satelliti con vettori spazili/missilistici e di missili di ogni tipo. Senza trascurare le minacce esplicite nei confronti di vicini e di chiunque si azzardi ad applicare le nuove (blande) sanzioni Onu che prevedono il diritto di ispezione dei bastimenti nordcoreani sospettati di coinvolgimento nel traffico di tecnologie e materiali utilizzabili per i programmi clandestini di produzione di armi nucleari e missilistiche. Non vogliamo discettare sui motivi che spingono Kim Jong Il a mostrare i muscoli. Alcuni dicono che i fuochi artificiali servono a compattare il regime nel momento in cui il dittatore, che stenta a recuperare dopo un infarto, prepara la strada per la successione dinastica in favore di uno dei suoi pargoli. Magari sarà così, ma francamente i “perché” non sono così rilevanti. Quello che conta è che il regime, dopo aver espulso gli ispettori dell’Iaea, ripreso il trattamento del plutonio, preparato la riaccensione del reattore, ha fatto esplodere una vera bomba e continua a sparare minacce e missili. I buonisti suggeriscono di attendere ancora, lasciar fare, tentare nuove trattative, nella consapevolezza che il Paese soffre sempre più gli effetti del progressivo disastro energetico, economico, alimentare e che il collasso non può tardare ancora molto. Ma sono anni che l’intelligence racconta che l’implosione è vicina. In realtà l’intelligence è quasi impotente nei confronti di un paese autosegregato e arretrato, controllato con mano di ferro da un apparato di sicurezza paranoico. Non sappiamo né cosa vogliono fare i nord coreani, né quanto possono resistere, né tantomeno quali potrebbero essere le decisioni della nomenklatura nell’imminenza del collas-

so o di una minaccia esterna, ancorché solo percepita. E questa incertezza è davvero rischiosa quando ci sono di mezzo armi nucleari. Senza contare il pericolo di contrabbando di Wmd (armi per distruzione di massa) e relativi vettori. Si possono controllare i voli internazionali, i traffici marittimi, ma non si arriverà al blocco totale e comunque i traffici con Paesi come Burma non sono monitorabili. In un contesto del genere qualunque inasprimento delle sanzioni ha un effetto politico-strategico nullo, il regime se ne infischia dell’isolamento, anzi, forse lo cerca. E allora che si fa? Non si può lasciare che Pyongyang arrivi a produrre in serie vere armi nucleari e ne esporti la tecnologia o le componenti. Si discute tanto di Iran, ma la situazione della Corea del Nord è assai più critica. E richiede iniziative forti. Personalmente troverei più che giustificato un intervento militare preventivo mirato quantomeno a eliminare selezionate basi militari nordcoreane o un embargo totale, con la sospensione di ogni aiuto, per provocare una crisi interna e la attesa implosione, nella consapevolezza che Pyongyang potrebbe scatenare i 13mila pezzi d’artiglieria schierati al confine e gli 80mila fanatici delle forze speciali, in aggiunta a forze convenzionali consistenti, ma strutturate in modo arcaico. Lo strumento militare nordcoreano non può che soccombere in un confronto con i vicini del sud e le forze statunitensi, ma prima di essere fatto a pezzi può fare male. E vedere che può lanciare, con poco preavviso e notevole discrezione una raffica di missili balistici a propellente liquido montati su rampe mobili…non è piacevole. Logica vorrebbe quindi che ci si assumesse l’iniziativa decidendo dove, come e quando colpire, con effetto sorpresa. Ma proprio perché un attacco preventivo sarebbe la risposta strategicamente più logica… non sarà mai attuata. Lasciando che il regime arrivi alle vere bombe ed amplifichi il suo potere di ricatto, cercando poi di fare un po’ di cassa vendendo il suo know how a chi fosse interessato. E purtroppo sono in tanti a volerlo e a poterlo pagare. 47




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CENARI

ASIA

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IL SECOLO ASIATICO? UNA BUFALA DI

MINXIN PEI

tiamo entrando in una nuova delle spese militari da questi sosteera della storia mondiale che nute nel 2008 ha rappresentato solo sancirà il tramonto del domiun terzo di quella statunitense. E nio occidentale e l’alba del secolo nonostante gli attuali, frenetici tassi asiatico. Ormai lo pensano un po’ di crescita annui, all’asiatico medio tutti. Sin dalla fine del secondo conoccorreranno 77 anni per eguagliaflitto mondiale, il rapido sviluppo re il reddito dell’americano medio. economico che ha caratterizzato la Il cinese avrà invece bisogno di 47 regione ha sospinto a ritmi sostenuanni. Per ciò che concerne gli indiati tanto la produzione economica ni, le statistiche prevedono un quanto le infrastrutture militari periodo di attesa di 123 anni. Ed il Non credete alle voci circa della regione. Ma sarebbe una gros- un presunto declino statunitense budget militare complessivo non solana esagerazione affermare che e l’avvento di una nuova era in eguaglierà quello statunitense per cui il continente asiatico la farà l’Asia emergerà come il principale da padrone. Ci vorranno molti i prossimi 72 anni. In ogni caso, attore nelle dinamiche mondiali. La decenni prima che la Cina, l’India appare insensato parlare dell’Asia ed il resto della regione possano crescita del continente asiatico in quanto singola entità di potere, dominare il mondo. Se mai determinerà al massimo l’avvento dovessero riuscirci. Anche perché ora o in futuro. Ciò che invece Usa ed Europa non stanno di un mondo informato da logiche risulta molto più probabile è che solo a guardare. multipolari, in contrapposizione la rapida ascesa di un singolo all’unipolarismo che ha contraddiattore regionale verrà salutata con stinto il XX° secolo. L’Asia non è al momento nean- timore dai suoi vicini. La storia asiatica è costanteche lontanamente in grado di assottigliare il divario mente segnata da esempi di competizione per il economico e militare che la separa dall’Occidente. potere e persino di conflitti militari tra i suoi attori La regione contribuisce per circa il 30% alla quota più influenti. Giappone e Cina hanno ripetutamente totale della produzione mondiale, ma a causa della combattuto l’uno contro l’altra per assicurarsi il sua vasta popolazione, il suo prodotto interno lordo controllo della Corea; l’Unione Sovietica si è più pro capite risulta pari a 5.800 $; ed il raffronto è evi- volte alleata con India e Vietnam al fine di contenedente se paragonato ai 48mila dollari annuali pro re l’espansionismo cinese, mentre la Cina ha fornicapite degli Stati Uniti. I paesi asiatici si stanno to supporto al Pakistan al fine di controbilanciare impegnando in un’affannosa opera di ammoderna- l’egemonia dell’India nella regione. E la fase di svimento delle rispettive forze armate, ma la somma luppo che sta ora caratterizzando la Repubblica

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scenari Popolare Cinese ha già reso più stretti i rapporti tra Giappone ed India. Se l’Asia divenisse il centro di gravità della geopolitica mondiale, questo sarebbe un centro dominato da logiche piuttosto instabili. Coloro che ritengono che l’aumento di hard power dell’Asia comporterà inevitabilmente un aumento del suo peso specifico a livello geopolitico dovrebbero forse dare un’occhiata a un altro ingrediente essenziale per uno suo futuro ruolo egemone: le idee. La Pax Americana è stata resa possibile non solo grazie al travolgente potere economico e militare degli Stati Uniti, ma anche in virtù di una serie di idee visionarie: il libero commercio, il liberalismo di matrice wilsoniana e le istituzioni multilaterali. L’Asia odierna potrà anche disporre delle economie più dinamiche su scala mondiale, ma ciò non è sufficiente a svolgere un ruolo tanto esaltante quale quello di un leader del pensiero. L’acquisizione di potere è la grande idea che anima i progetti degli attori asiatici; ed essi si ritengono giustamente orgogliosi della nuova rivoluzione industriale a cui hanno dato il via. Ma la fiducia in sé stessi non costituisce un’ideologia, ed il tanto pubblicizzato modello di sviluppo asiatico non appare un prodotto esportabile. Non fateci troppo affidamento. Le percentuali che il continente asiatico ha recentemente fatto registrare sembrerebbero garantirgli lo status di superpotenza economica. Goldman Sachs, ad esempio, stima che la produzione economica cinese supererà quella statunitense nel 2027, mentre quella indiana raggiungerà tale risultato solo nel 2050. Quantunque il reddito pro capite delle popolazioni asiatiche si attesti su percentuali relativamente modeste, nel prossimo futuro il tasso di crescita della regione sopravanzerà in realtà quello dell’Occidente. Ma nei decenni a venire l’Asia dovrà misurarsi con gli enormi problemi dati dal boom demografico. Nel 2050 più del 20% degli asiatici avranno varcato la soglia della terza età; e l’invecchiamento della popolazione rap-

L’ascesa dell’Asia non conosce soste

presenta la causa principale della stagnazione in cui si trova invischiato il Giappone. La popolazione anziana della Cina aumenterà vertiginosamente a partire dalla metà del prossimo decennio. Il suo livello di accumulazione del risparmio scenderà bruscamente mentre i costi per l’assistenza sanitaria e la previdenza sociale toccheranno picchi impressionanti. L’India rappresenta la sola eccezione a questi trend generali, ognuno dei quali potrebbe determinare uno stallo nella crescita della regione. Le restrizioni allo sfruttamento delle risorse ambientali e naturali potrebbero rivelarsi anch’esse causa di un rallentamento nei ritmi produttivi. L’inquinamento rende sempre più limitata la disponibilità di acqua, mentre l’inquinamento dell’aria esige un pesantissimo tributo dalla salute delle popolazioni (è responsabile di più di 400mila decessi l’anno nella sola Cina). In assenza di progressi rivoluzionari nel campo delle energie alternative, l’Asia potrebbe dover far fronte a una crisi energetica di enormi proporzioni. E gli effetti del cambiamento climatico potrebbero causare la devastazione del comparto agricolo della regione. Inoltre, l’attuale crisi economica determinerà un eccesso della capacità produttiva in quanto la domanda dei paesi occidentali diminuirà considerevolmente. Le compagnie asiatiche, costrette a fare i conti con un’asfittica domanda interna, non saranno in grado di vendere i propri prodotti nella regione. Il modello di sviluppo asiatico incentrato sulle esportazioni si dissolverà o cesserà in ogni caso di fungere da produttivo motore di crescita. L’instabilità politica potrebbe altresì spingere la locomotiva economica asiatica fuori dai binari. Il collasso delle istituzioni governative in Pakistan o un conflitto militare nella Penisola di Corea potrebbero causare immani devastazioni. In Cina, l’aumento delle diseguaglianze e la corruzione endemica potrebbero alimentare disordini sociali ed imprimere una brusca frenata alla crescita economica del paese. E se una svolta democratica dovesse in qualche modo costringere il Partito Comunista ad 51


Risk abbandonare il potere, la Cina dovrà molto probabilmente affrontare una lunga fase di transizione caratterizzata da frequenti motivi di instabilità, con un governo centrale debole e delle performance economiche mediocri. Difficile a dirsi. Con gli Stati Uniti colati a picco a causa di Wall Street e le economie dei paesi europei debilitate a causa di uno stato sociale e di un mercato del lavoro egualmente rigidi, la maggior parte delle economie asiatiche appaiono in gran forma. È allettante pensare che il modello capitalistico di stampo asiatico, mescolando ininterrottamente lo strategico intervento statale, una pianificazione di lungo termine e un insopprimibile desiderio popolare di progresso materiale potrebbe superare tanto il modello statunitense devastato dalla cupidigia quanto la sua variante europea. Ma sebbene le economie asiatiche - a eccezione del Giappone - possano annoverarsi tra quelle con i più alti tassi di crescita mondiali, poche sono le prove a sostegno della tesi che vuole tale apparente dinamismo come frutto di una forma misteriosamente ben riuscita di capitalismo all’asiatica. La verità appare molto più banale: il dinamismo della regione deve molto ai suoi ferrei fondamentali (tasso elevato di accumulo del risparmio, elevata densità d’urbanizzazione e forte aumento demografico) e ai benefici del libero mercato, delle riforme dei mercati e dell’integrazione economica. La relativa arretratezza dell’Asia rappresenta in un certo senso una manna: i paesi asiatici devono infatti crescere a ritmi più sostenuti in quanto partono da situazioni maggiormente deficitarie. Il capitalismo asiatico racchiude in sé tre caratteristiche uniche, ma queste non gli conferiscono necessariamente un vantaggio in termini competitivi. In primo luogo, gli stati asiatici intervengono molto più pesantemente nelle economie dei rispettivi paesi attraverso una pianificazione delle politiche industriali, degli investimenti infrastrutturali e la promozione delle esportazioni. Ma se ciò abbia reso

Il capitalismo asiatico è più dinamico

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o meno il capitalismo asiatico maggiormente dinamico rimane un enigma privo di soluzione. Il classico del 1993, lo studio della Banca Mondiale dal titolo Il miracolo asiatico, non riuscì a individuare prove a suffragio della tesi secondo cui i puntuali interventi statali fossero responsabili del successo dell’Asia orientale. In secondo luogo, due tipi di compagnie - i conglomerati a conduzione familiare e le gigantesche imprese a gestione statale - dominano il panorama industriale asiatico. Sebbene tale modello di politiche aziendali consenta alle maggiori compagnie asiatiche di non tener conto delle fosche prospettive a breve termine per la maggior parte delle imprese statunitensi, esso le protegge altresì dalle pressioni esercitate nei loro confronti tanto dagli azionisti quanto dai mercati, la qual cosa rende le imprese asiatiche meno responsabili, meno trasparenti e meno innovative. Infine, l’elevato tasso di accumulo del risparmio dell’Asia, fornendo una cospicua riserva di capitale indigeno, alimenta la crescita economica della regione. Ma poveri risparmiatori asiatici. La maggiori parte di questi sono dediti al risparmio in quanto i loro governi forniscono ammortizzatori sociali inadeguati alle esigenze delle popolazioni. Le politiche governative in Asia penalizzano i risparmiatori attraverso la repressione finanziaria (mantenendo i tassi sui depositi a livelli contenuti e corrispondendo ai risparmiatori profitti esigui) e ricompensa i produttori mediante una sovvenzione del capitale (in genere attraverso tassi d’interesse modesti). Persino la promozione delle esportazioni, virtù apparentemente asiatica, appare sopravvalutata. Le banche centrali della regione hanno investito buona parte dei proventi determinati dai massicci flussi di esportazioni in asset dallo scarso rendimento e sui quali imperversa lo strapotere del dollaro; asset che perderanno gran parte del proprio attuale valore per via delle pressioni inflazionistiche di lungo termine prodotte dalle politiche fiscali e monetarie statunitensi. Non nell’arco temporale delle nostre vite. Se si osservano le percentuali in crescita dei brevetti sta-


scenari tunitensi rilasciati a inventori asiatici, gli Stati Uniti sembrerebbero segnare una battuta d’arresto per ciò che concerne l’innovazione. Per fare un esempio, nel 2008 gli inventori della Corea del Sud hanno ricevuto 8.731 brevetti statunitensi - cifra che colpisce se paragonata ai 13 del 1978. Nel 2008, quasi 37mila brevetti statunitensi sono stati concessi a inventori giapponesi. Tale trend potrebbe apparire allarmante, al punto che uno studio ha classificato gli Stati Uniti all’ottavo posto dal punto di vista dell’innovazione, dietro a paesi quali Singapore, Corea del Sud e Svizzera. Le voci sulla morte della leadership tecnologica statunitense sono, parafrasando Mark Twain, decisamente esagerate. Sebbene le economie più avanzate della regione asiatica, quali Giappone e Corea del Sud, abbiano assottigliato tale divario, il vantaggio degli Stati Uniti rimane ampio. Nel 2008, gli inventori americani hanno ottenuto 92mila brevetti, due volte il totale di quelli rilasciati agli inventori sudcoreani e giapponesi. I due giganti asiatici, Cina ed India, si collocano ancora molto indietro. L’Asia sta riversando un quantitativo considerevole di fondi nell’istruzione superiore. Ma almeno nel breve periodo le università asiatiche non potranno essere annoverate tra i principali centri mondiali di formazione. Nessuna tra le 10 più importanti università del mondo si trova in Asia, e la sola università di Tokyo si attesta tra le prime 20. Negli ultimi 30 anni, solo otto asiatici, sette dei quali giapponesi, hanno vinto un Premio Nobel nelle scienze. La cultura gerarchica della regione, la centralizzazione burocratica, le deboli università private, l’enfasi sull’apprendimento mnemonico e le continue prove di verifica dell’apprendimento continueranno a rendere vani gli sforzi di clonare i brillanti istituti di ricerca degli Stati Uniti e dell’Europa. Persino la tanto strombazzata superiorità numerica risulta a conti fatti minore di quanto possa sembrare. La Cina sforna apparentemente 600mila nuovi ingegneri ogni anno, l’India

Il cosiddetto miracolo economico dei quattro dragoni - Corea del Sud, Taiwan, Singapore, l’Indonesia sotto Suharto ed ora la Cina - ha prodotto la più spettacolare crescita economica sotto regimi non democratici altri 350mila. Gli Stati Uniti seguono a distanza con solo 70mila nuovi laureati in ingegneria all’anno. Sebbene queste cifre possano far pensare a un più sostenuto sviluppo delle risorse umane da parte asiatica, esse si dimostrano in ultima analisi completamente fuorvianti. Metà dei laureati in ingegneria della Cina e i due terzi di quelli indiani possiedono semplici diplomi universitari. E se si prende in esame la qualità, il presunto vantaggio asiatico scompare. Uno studio spesso citato del McKinsey Global Institute datato 2005 stima che i responsabili del settore risorse umane prendono in considerazione come “idonei per la posizione lavorativa” solo il 10% degli ingegneri cinesi, il 25% di quelli indiani, mentre la percentuale di ingegneri statunitensi si attesta all’81%. Nessuna autocrazia, in special modo nell’Asia orientale, sembra aver reso il proprio paese più prospero. Il cosiddetto miracolo economico dei quattro dragoni - Corea del Sud, Taiwan, Singapore, l’Indonesia sotto Suharto ed ora la Cina - ha prodotto la più spettacolare crescita economica sotto regimi che operavano secondo criteri non democratici. I frequenti paragoni tra Cina e India sembrano confermare la visione secondo cui uno Stato a partito unico, senza l’intralcio di una politica caotica e competitiva può allocare le risorse economiche in modo più efficiente rispetto ad un sistema multipartitico caratterizzato da eccessivi vincoli democrati-

Le dittature: un vantaggio per l’Asia

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Risk

Sebbene la Cina diventerà il protagonista regionale, la sua ascesa denota limiti strutturali. È improbabile che possa sostiuirsi agli Stati Uniti nel mantenimento della pace e influenzare in maniera sostanziale le politiche estere degli altri paesi ci. Ma l’Asia testimonia altresì di molte autocrazie che hanno impoverito i paesi che governavano Myanmar, Pakistan, Corea del Nord, Laos, la Cambogia sotto l’orribile dittatura dei Khmer Rossi di Pol Pot, e le Filippine sotto il regime di Marcos. La Cina stessa appare come un esempio di duplice lettura. Prima che il Regno di Mezzo riemergesse nel 1976 da un volontario isolamento e da una gestione totalitaria del potere, la sua economia cresceva a livelli impercettibili. Anche sotto Mao, la Cina ebbe l’ambiguo merito di provocare la peggiore carestia di cui si ha memoria. Anche se si guarda alle autocrazie a cui si attribuiscono successi in campo economico, si riscontrano due fatti interessanti. In primo luogo, il loro rendimento economico è migliorato quando hanno allentato la propria morsa repressiva e hanno concesso maggiori libertà individuali ed economiche. In secondo luogo, il segreto del loro successo fu il risultato di una serie di sensate politiche economiche, quali una cauta gestione macroeconomica, investimenti infrastrutturali, la promozione del risparmio e l’incentivazione delle esportazioni. Le dittature non hanno pertanto alcuna formula magica per lo sviluppo economico. Il porre a confronto uno stato a partito unico come la Cina e una democrazia come l’India non è 54

un facile esercizio intellettuale. Ovviamente, l’India denota vari elementi di debolezza: povertà diffusa, carenze infrastrutturali e un’assistenza sociale ai minimi termini. Sotto questi punti di vista, la Cina sembra aver raggiunto risultati più soddisfacenti. Ma spesso l’apparenza inganna. I regimi dittatoriali sono bravi a nascondere i problemi che creano mentre le democrazie sono brave nel pubblicizzare i propri difetti. Pertanto il vantaggio autocratico dell’Asia è, nella migliore delle ipotesi, un’illusione ottica. Poco probabile. Quest’anno la Cina è sulla buona strada per strappare al Giappone il titolo di seconda economia del pianeta. In quanto fulcro economico della regione, la Cina si è ora messa alla testa dell’integrazione economica dell’Asia. Anche il peso diplomatico di Pechino sta aumentando considerevolmente, apparentemente grazie al suo nuovo soft power. Persino l’esercito un tempo antiquato ha acquisito tutta una serie di nuovi sistemi di armamenti e ha significativamente migliorato le capacità di gestire le proprie forze. Sebbene sia vero che la Cina diventerà il primo paese della regione sotto ogni punto di vista, la sua ascesa denota limiti strutturali. È improbabile che la Cina eserciti un proprio dominio sull’Asia nel senso che così facendo si sostituirebbe agli Stati Uniti nel mantenimento della pace e influenzerebbe in maniera sostanziale le politiche estere degli altri Paesi. La sua crescita economica non è poi in alcun modo garantita. Le insofferenti minoranze secessioniste (i Tibetani e gli Uighuri, in questi giorni sotto la morsa del regime) risiedono in aree importanti dal punto di vista strategico che rappresentano il 30% del territorio cinese. Taiwan, il cui ritorno all’ovile di Pechino non appare come una prospettiva realistica quantomeno nell’immediato futuro, costringe la Cina a mantenere dislocati in quell’area ampi settori delle proprie forze armate. Il Partito Comunista Cinese al potere, nella cui visione il mantenimento del sistema mono-

La Cina dominerà l’Asia


scenari partitico risulta più importante dell’espansionismo d’oltremare, non sembra incline a farsi sedurre dalle illusorie prospettive di grandezza imperiale. La Cina ha dei formidabili vicini quali la Russia, l’India ed il Giappone che opporranno un’accanita resistenza ad ogni tentativo cinese di egemonizzare la regione. Anche il sudest asiatico, dove negli ultimi anni la Cina sembra aver guadagnato i maggiori vantaggi in termini geopolitici, si è dimostrato riluttante a gravitare completamente attorno all’orbita di Pechino. Né tantomeno gli Stati accetterebbero di capitolare di fronte alla forza d’urto dello schiacciasassi cinese. Per ragioni complesse, l’ascesa della Cina ha generato paure ed inquietudini, e non di certo entusiasmo, tra gli asiatici. Solo il 10% dei giapponesi, il 21% dei sudcoreani ed il 27% degli indonesiani intervistati dal Chicago Council on Global Affairs hanno dichiarato il proprio favore a una Cina leader dell’Asia. Fin troppo per l’offensiva dello charme di Pechino. Assolutamente no. Impantanati in Iraq e in Afghanistan ed avvolti nelle spire di una gravissima recessione, gli Stati Uniti appaiono certamente come una superpotenza in declino. Conformemente con questa visione, l’influenza statunitense in Asia sembra aver conosciuto una battuta d’arresto, con il dollaro un tempo potente che arranca nei confronti dello yuan cinese e il regime nordcoreano che fa la voce grossa nei confronti di Washington. Ma è prematuro dichiarare la fine della preminenza americana in Asia. Con ogni probabilità, i meccanismi di autoregolazione che contraddistinguono il sistema economico a stelle e strisce permetteranno agli Stati Uniti di recuperare il terreno perduto. La leadership americana in Asia prende le mosse da vari fattori, non solamente il suo peso militare o economico. Come la bellezza, l’influenza geopolitica di una nazione balza spesso agli occhi dell’osservatore. Sebbene alcuni ritengano la minore influen-

Il crollo dell’influenza americana

za statunitense nella regione un dato di fatto, molti asiatici la pensano diversamente. Il 69% dei cinesi, il 75% degli indonesiani, il 76% dei sudcoreani e il 79% dei giapponesi interpellati dal Chicago Council affermano che l’influenza degli Stati Uniti è cresciuta nel decennio appena trascorso. Un altro motivo, forse più importante, della duratura preminenza statunitense nella regione è la constatazione di come la maggior parte dei paesi asiatici veda di buon occhio il ruolo di Washington in quanto garante della pace in Asia. Le élite asiatiche da Nuova Delhi a Tokyo continuano a fare affidamento sullo Zio Sam per tenere sotto controllo Pechino. Quantunque il fenomeno asiatico sia eccessivamente gonfiato o meno, la regione è destinata ad incrementare rapidamente la propria influenza geopolitica ed economica nei decenni a venire. È già diventata uno dei pilastri del nuovo ordine internazionale. Ma nel pensare al futuro dell’Asia, proviamo a non fare il passo più lungo della gamba. La sua ascesa economica non è scritta nel firmamento. E date le differenze culturali ed una storia di intensa rivalità tra i paesi della regione, appare improbabile che l’Asia pervenga ad una qualsiasi forma di unità regionale ed evolva sino a divenire un’entità stile Unione Europea, almeno nel prossimo futuro. Molti anni or sono, Henry Kissinger fece la famosa domanda, «Se devo parlare con l’Europa, chi chiamo?» Potremmo dire la stessa cosa per l’Asia. Tutto sommato, lo sviluppo dell’Asia dovrebbe presentare più opportunità che minacce. La crescita della regione non solo ha fatto uscire milioni di persone dalla povertà, ma ha altresì fatto accresciuto la domanda di prodotti occidentali. Le sue crepe interne consentiranno agli Stati Uniti di testare l’influenza geopolitica di potenziali rivali quali Cina e Russia a costi e rischi ragionevoli. E si spera che l’Asia possa fornire le pressioni competitive di cui gli occidentali hanno urgentemente bisogno per rimettere ordine in casa propria: senza cadere preda degli slogan o dell’isteria. 55


Risk

EUROPA

A

FINALMENTE STOCCOLMA! DI

MICHELE MARCHI

nche se non dichiarato in ingresso nell’Ue (1995), la Svezia maniera così esplicita, queoffre migliori garanzie per ciò che sto è il sentimento condiviriguarda l’autorevolezza e la proso dalla maggior parte degli sherpa fessionalità della sua tradizione di Bruxelles e anche da molte candiplomatica. Anche dal punto di cellerie europee. Il semestre di presivista della stabilità governativa denza della Repubblica Ceca si è Stoccolma può offrire la garanzia stancamente trascinato verso la sua di un esecutivo di coalizione di conclusione formale, quando in realcentro-destra guidato dal giovane e tà aveva perso gran parte del suo talentuoso Reinfeldt che, nonopotenziale già a marzo, con la cadustante un brusco calo nel gradita del governo Topolanek e l’instaumento popolare, si trova saldamenReinfeldt, il giovane Primo ministro svedese, si trova razione del debolissimo esecutivo te al timone del Paese e intende utial timone del semestre Ue a Fischer, controllato dal presidente lizzare il palcoscenico europeo per gestire un mix, potenzialmente della Repubblica, l’euro-scettico lanciare la sua ricandidatura alle esplosivo, di “ordinaria amministrazione” e di “incognite Klaus. Se si eccettuano la mediazioelezioni del 2010. Infine, all’interistituzionali”. Tre le grandi sfide: ne tra Russia e Ucraina di gennaio no di un trend generalizzato di economia, clima e sicurezza per scongiurare una nuova crisi aumento dell’euroscetticismo, in interna. Il peggiore incubo: fra Parigi e Berlino una rottura energetica e il discreto lavoro di Svezia si deve registrare un livello coordinamento svolto per convinceancora accettabile di sostegno re l’Irlanda a ripetere il referendum sul Trattato di generalizzato alla membership europea. Secondo le Lisbona, la presidenza di turno di Praga ha presenta- ultime stime Eurobarometro la media svedese di citto un bilancio fallimentare. Un semestre di così scar- tadini che considerano l’appartenenza all’Ue un fattoso protagonismo delle istituzioni europee è parso re positivo è del 59%, sei punti percentuali in più ancora più evidente dopo i sei mesi a guida francese rispetto a quella europea, ma soprattutto 19% in più e non ha certo contribuito a migliorare il clima di sfi- rispetto all’Italia. ducia che si è così clamorosamente incarnato nel- Nonostante presupposti e condizioni di partenza l’astensionismo alle elezioni per il parlamento di molto migliori in confronto a quelle del 1 gennaio Strasburgo del 4-7 giugno scorso. 2009, la presidenza svedese si trova a dover affrontaIl primo gravoso compito che spetta a Stoccolma è re una fase alquanto complicata. Innanzitutto l’Ue sta quindi quello di voltare pagina e, pur trattandosi di un attraversando la peggiore crisi economica dal 1929. I Paese di medie dimensioni e di relativamente recente tentativi di rilancio sono stati declinati a livello nazio-

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scenari nale e l’Ue ha operato al minimo, cercando di garantire un coordinamento di massima tra i differenti piani, fino a oggi con scarsi risultati. In secondo luogo sul semestre pende la “spada di Damocle” del referendum irlandese, che si svolgerà quasi certamente a inizio ottobre 2009. Qualunque sarà il risultato si apriranno complicati scenari nella fase conclusiva della presidenza svedese, peraltro la più complessa. Dal 29-30 ottobre (data prevista per il Consiglio dell’Unione di metà semestre) al 18 dicembre (conclusione della conferenza Onu sul clima di Copenaghen) si giocheranno le principali chances di riuscita del semestre.

Terzo dato da non trascurare al momento dell’avvio del semestre di presidenza, le istituzioni europee si trovano ad attraversare una fase di delicata transizione. Il Parlamento è stato appena rinnovato, con la netta affermazione del partito popolare, lo spostamento del suo baricentro verso destra e la conferma dell’accordo di legislatura tra Ppe e i socialisti europei, ora riuniti nel nuovo gruppo denominato Alleanza Progressista dei socialisti e democratici. I lavori, anche se formalmente aperti con la sessione plenaria del 14-16 luglio, non inizieranno prima della metà di settembre e ancora in bilico è la ratifica formale del nuovo presidente della Commissione, il riconfermato (dai Capi di Stato e di governo) Barroso. Il 31 ottobre cesserà poi il suo mandato la Commissione e bisognerà capire con quale Trattato sarà rinnovata (Nizza o Lisbona). Per non parlare infine dell’eventualità di dover nominare il Presidente fisso e l’Alto Rappresentante per la politica estera. Insomma quello avviato dal Primo ministro Reinfeldt il 1 luglio 2009 sarà, almeno nelle attese, un semestre cruciale. Il giovane Capo del governo svedese si trova a gestire un mix, potenzialmente esplosivo, di “ordinaria amministrazione” e di “incognite istituzionali” da far tremare i polsi al più navigato dei leader continentali. Cercando di schematizzare, la cosiddetta “ordinaria amministrazione” si può esemplificare attorno a tre grandi ambiti di intervento: economia,

clima e sicurezza interna. Il primo è quello che riguarda la crisi economico-finanziaria globale. Il difficile compito che spetta a Stoccolma è quello di procedere nella definizione di che tipo di potere effettivo i nuovi organi di supervisione finanziaria, decisi dall’ultimo Consiglio europeo, avranno sugli organi di supervisione nazionale e in generale sui singoli governi. Su questo fronte Stoccolma sembra aver scelto il doppio binario del pragmatismo e del volontarismo. Da un lato Reinfeldt ha dichiarato di voler procedere attivamente sul fronte delle iniziative portate avanti da Consiglio e Commissione (coadiuvate dalla Commissione Larosière) con l’obiettivo di creare un nuovo sistema finanziario europeo. Stoccolma dovrà fornire un impulso fondamentale affinché i progetti per la creazione di un European System of Financial Supervisors (che deve fissare gli standard europei ai quali le supervisioni nazionali dovranno adattarsi) e di un European Systemic Risk Board (vero e proprio termometro in grado di emettere early warnings in caso di rischi alla stabilità finanziaria) passino dalla teoria alla pratica. Le maggiori difficoltà sono politiche. Stoccolma, infatti, dovrà cercare di mediare tra la posizione francese (e in parte tedesca), decisa a sfruttare “l’occasione” della crisi per creare un sistema articolato di regole (spesso non troppo sfavorevoli a Parigi) e quella inglese, con Londra non convinta rispetto alla possibilità che la supervisione europea possa sostituirsi a quella nazionale. Interessante sarà vedere come la leadership svedese riuscirà a sbloccare una situazione che nella peggiore delle ipotesi potrebbe arrivare alla rottura e nella migliore concludersi in una impasse. La Gran Bretagna, infatti, condivide con Stoccolma la non appartenenza all’area euro e il punto di vista inglese di opposizione all’idea di attribuire nuovi poteri di controllo e regolazione finanziaria alla Banca centrale europea (fino ad arrivare a nominare il suo presidente alla guida dello European Systemic Risk Board), potrebbe trovare in Reinfeldt un certo sostegno. La questione si complica ulteriormente di fronte alla proposta franco-tedesca di regolare in maniera ferrea hedge funds e private equi57



scenari ty. In questo progetto Londra, più che una risposta alla crisi finanziaria, vede un tentativo di mettere in discussione il suo primato come centro propulsivo della finanza europea. Servirà dunque una dose massiccia di pragmatismo e di capacità di mediazione per non arrivare allo scontro frontale tra un approccio che permane liberal oriented (quello inglese) e le tendenze dirigiste portate avanti in maniera sempre meno mascherata dall’Eliseo. Accanto a questa complicata opera di mediazione tra le due anime dell’Ue, Reinfeldt non ha poi esitato ad inserire anche il suo personale punto di vista a proposito dei piani di rilancio economico anti-crisi. In questo senso il Primo ministro svedese sembra non voler rinunciare a una certa dose di volontarismo. La sua impronta liberal-conservatrice non ha esitato ad emergere: basta con l’abuso del deficit spending, è tempo di chiudere con i piani di rilancio all’insegna dell’aumento costante e incontrollato del debito pubblico. Un Paese di medie dimensioni come la Svezia, certamente geloso del suo mitico welfare state, in questa fase non può che sentirsi minacciato dai proclami provenienti da alcune capitali europee (prima fra tutte Parigi) che prospettano scenari foschi di protezionismo e dirigismo economici. In questa direzione anche il ministro degli Esteri Carl Bildt non ha esitato a ricordare che «la prosperità economica in Europa non si è certo costruita sul protezionismo, ma al contrario sull’apertura dei mercati». Il secondo grande dossier è quello climatico. Su questo fronte Stoccolma può, prima di tutto, vantare gli ottimi successi ottenuti e a ragione definirsi una delle economie più “verdi” d’Europa, in grado di combinare buoni livelli di crescita con una progressiva riduzione delle emissioni. L’appuntamento decisivo è certamente la Conferenza Onu sul clima di Copenaghen (7-18 dicembre 2009). Come però ha chiarito Cecilia Malmstrom, il ministro svedese degli Affari europei «il pacchetto clima è stato solo un importante primo passo. Ora è necessario far salire a bordo il resto del mondo. E questo non sarà facile». La sincerità della responsabile svedese per le questio-

ni europee coglie certamente nel segno, ma la difficoltà per la presidenza svedese potrebbe addirittura risultare duplice. Da un lato, infatti, la crisi economica in atto potrebbe ridimensionare le promesse assunte innanzitutto dagli stessi Paesi europei (in particolare da quelli più in difficoltà, cioè i Paesi dell’est). Per risultare credibile a dicembre l’Ue dovrà rafforzare le proprie politiche interne relative alla diminuzione di emissioni di gas serra. Come anticipato dal ministro dell’Ambiente Andreas Carlgren, la presidenza svedese intende imporre una carbon tax che intervenga

Il difficile compito che spetta a Stoccolma è quello di definire che tipo di potere i nuovi organi di supervisione finanziaria, decisi dall’ultimo Consiglio europeo, avranno sugli organi di supervisione nazionale e in generale sui singoli governi sulle emissioni non coperte dallo European Emissions Trading Scheme. Infatti, lo schema europeo copre circa il 40% delle emissioni inquinanti. Secondo Carlgren anche il restante 60% deve diminuire. È stato poi lo stesso Reinfeldt ad alzare ulteriormente la posta, arrivando ad affermare che per aumentare la sua credibilità l’Europa dovrebbe spostare dal 20 al 30% il livello di riduzione complessiva delle emissioni di anidride carbonica, per compensare temporaneamente la condotta non virtuosa delle restanti nazioni industriali. Evoluzioni interessanti dal punto di vista dello sforzo sembrano poi emerse anche dall’accordo ambizioso proposto al G8 dell’Aquila, anche se solo a Copenaghen potrà essere formalizzata una strategia credibile post Kyoto. 59


Risk

Il dossier più spinoso è quello dell’allargamento. Posto che la Svezia ha una visione “anglosassone” dell’evoluzione geografica dell’Ue, Stoccolma contribuirà a fare avanzare le domande di adesione di Islanda, Serbia e Montenegro. Resta l’incognita Turchia Dall’altro lato il secondo passaggio proibitivo consisterà nel non giungere all’appuntamento danese accorgendosi di essere l’avanguardia di un fronte che in realtà non esiste. L’Unione europea deve aiutare gli Usa di Obama, impegnato nel difficile compito di far accettare al suo Paese scelte drastiche nel settore energetico. Ma ancor di più deve porsi accanto a Washington nel tentativo di coinvolgere la Cina (e naturalmente gli altri membri del G5, in particolare India e Russia) nel negoziato di Copenaghen. Difficilmente un nuovo protocollo sul clima avrà senso senza la partecipazione delle economie emergenti. Peraltro un forfait cinese condurrebbe il Senato Usa a bocciare qualsiasi piano di riduzione delle emissioni di gas tossici.

Il terzo ambito privilegiato nel quale si dovrà

dispiegare l’operato della presidenza svedese è quello del JHA (Justice and Home Affairs). La Svezia intende utilizzare il suo semestre per coordinare e raccogliere le priorità dei 27 attorno ad un coerente piano per la sicurezza interna e l’immigrazione. L’ambizioso progetto è quello di arrivare alla redazione definitiva del “Stockholm Programme”, che dovrà, nel periodo 2010-2014, sostituire “l’Hague Programme” (operativo dal 2004). Qui sono due le possibili

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difficoltà che si troverà ad incontrare la presidenza svedese. Il Trattato di Lisbona avrebbe reso una serie di materie legate al settore JHA sottoponibili al voto a maggioranza qualificata. Ad oggi permane la necessità di votare all’unanimità, difficilmente raggiungibile per l’opposizione inglese quasi certa. In secondo luogo la crisi economica e il conseguente aumento della disoccupazione hanno finito per rendere inefficaci le proposte svedesi in materia di immigrazione, in particolare laddove, invece di essere improntate alla chiusura, ponevano l’accento sulla necessità di favorire un tipo selezionato di immigrazione. Nonostante queste difficoltà il cosiddetto “Programma di Stoccolma” resta ambizioso e ricco di interessanti proposte. Gli ambiti di intervento sono numerosi e di estrema rilevanza. Si va dalla creazione di un sistema comune per l’attribuzione del diritto d’asilo fondato sul cosiddetto burden sharing, finalizzato cioè a spartire il carico di richieste d’asilo tra tutti i Paesi membri e di conseguenza allentando la pressione su Paesi iper-sollecitati come Malta, Italia e Spagna, a quello della più grande banca dati di impronte digitali al mondo. Ultimo e ambizioso progetto la creazione di una carta d’identità comune a tutti i cittadini dell’area Schengen, emessa dallo stesso consolato europeo. Anche su questo punto è soprattutto la Gran Bretagna a dichiararsi scettica. Se dunque questi sono i tre ambiti principali lungo i quali si dispiegherà l’operato della presidenza svedese non si possono trascurare almeno altri quattro dossier a proposito dei quali Stoccolma non mancherà di far sentire, anche se in maniera meno articolata, la propria voce. Il primo di questi temi, e probabilmente quello più spinoso, riguarda la controversa questione dell’allargamento, con particolare riferimento alla delicata situazione del dossier turco. Posto che la Svezia ha una visione “anglosassone” dell’evoluzione geografica dell’Ue, e che da sempre contrasta l’idea francese di opporre alle politiche di allargamento quelle di approfondimento, certamente Stoccolma nel corso dei prossimi mesi contribuirà a far avanzare le


scenari domande di adesione di Islanda, Serbia e Montenegro maggiormente questo senso di precarietà. Oltre a essere in scadenza di mandato, e quindi formalmente (per la Croazia i giochi sono praticamente fatti). in carica solo per l’ordinaria amministrazione fino al Ma è proprio rispetto ad Ankara che la situazio- 31 ottobre prossimo, si trova nella strana condizione ne potrebbe portare a spaccature tra i 27. A pochi gior- di essere “guidata” da un nuovo Presidente che galni dall’apertura del semestre ha fatto molto scalpore, leggia in una sorta di limbo: formalmente riconfermaperlomeno a Parigi, l’affermazione di Carl Bildt in to dai Capi di Stato e di governo, ma non politicamenoccasione di un’intervista a Le Figaro. «L’Europa ha te in grado di operare per l’assenza del voto del parlaun interesse strategico di primaria importanza nell’in- mento di Strasburgo. Inizialmente Reinfeldt era stato tegrare la Turchia. Se noi chiuderemo la porta in fac- chiaro e abbastanza ultimativo: la Svezia non intende cia alla Turchia, finiremo per incoraggiare le tenden- assumere la presidenza dell’Ue con un presidente ze nazionaliste e manderemo un segnale molto nega- della Commissione, Barroso, in realtà “anatra zoppa”. tivo a tutto il mondo». Un navigato esperto di diplo- In sostanza da Stoccolma si chiedeva un rapido voto mazia come Carl Bildt difficilmente ha pronunciato di conferma parole così nette senza essere consapevole di quanto da parte di Strasburgo. Gli ultimi sviluppi hanno camesse possano pesare in una Ue dominata da un asse biato le carte in tavola. La riconferma di Barroso diffranco-tedesco che, sull’allargamento alla Turchia, ficilmente arriverà prima di settembre, quasi certanon sembra disposto ad ammettere discussioni. mente dopo il 15, ma a questo punto si aprirebbe un Sempre riguardo al ruolo dell’Ue in politica estera altro grosso problema: il Parlamento, votando la fidudevono poi essere menzionati i progetti della Eastern cia a Barroso in base al Trattato di Nizza (maggioranPartnership e della Baltic Sea Strategy. Nel primo za semplice dei votanti), darebbe l’impressione di forcaso si tratta di un’iniziativa congiunta svedese e zare i tempi a due settimane da un referendum che ha polacca, lanciata nel corso della presidenza della qualche probabilità di contribuire ad instaurare il Repubblica Ceca, con l’obiettivo di rendere più stret- Trattato di Lisbona, secondo cui la votazione del ti i rapporti tra l’Ue e alcuni Stati orientali, in partico- Presidente della Commissione deve essere condotta a lare l’Ucraina, la Moldavia, l’Armenia, Azerbaijan, la maggioranza assoluta dei membri del Parlamento. Georgia e per la prima volta la Bielorussia. Resta da Proprio il secondo referendum di Dublino turba ultecapire la reazione di Mosca a un’iniziativa nella quale riormente i sonni di Reinfeldt. Se l’ipotesi di un non è coinvolta. Per quanto riguarda l’area del Baltico nuovo “no” non è quasi “scaramanticamente” conl’idea è quella di utilizzare le risorse esistenti e i pro- templata, anche in caso di ratifica gli scenari che si grammi di cooperazione europei per rendere la regio- aprono non sono dei più lineari. A quel punto si tratne all’avanguardia sui temi ambientali e della compe- terebbe di gestire la delicata nomina del Presidente titività del lavoro. Infine un primo impulso dovrebbe dell’Ue e dell’Alto Commissario, per poi passare alla giungere da parte di Stoccolma per rimettere mano formazione della Commissione, con l’ulteriore incerall’Agenda di Lisbona che, a fine 2010, dovrà essere tezza del numero dei commissari (una clausola voluformalmente rinnovata. ta da Dublino impone il mantenimento di un commisSe la cosiddetta “ordinaria amministrazione” appare sario per Paese membro, ma nessuno ha stabilito per impegnativa, le incognite istituzionali potrebbero quanto la norma durerà in vigore, dato che Lisbona in rivelarsi proibitive. Come si è detto la situazione di origine prevedeva un numero di Commissari pari ai fondo è di grande transizione. Se il nuovo Parlamento 2/3 dei Paesi membri). Inoltre su questo fronte ad marcia spedito verso il solito accordo di legislatura tra aggiungere ulteriori difficoltà ci ha pensato lo stesso popolari e socialisti, è la Commissione a trasmettere Reinfeldt dichiarando, non appena assunta la presi61



scenari denza di turno, il suo personale punto di vista sul profilo dell’eventuale primo Presidente dell’Ue con incarico di due anni e mezzo. Si dovrebbe trattare di un semplice chairman, capace di lavorare in grande sintonia con la Commissione. Sempre secondo Reinfeldt se la scelta dovesse cadere, al contrario, su una personalità più carismatica e “forte”, il rischio sarebbe quello di vedere il futuro presidente dei 27 assecondare il punto di vista dei Paesi maggiori a scapito di quelli medio-piccoli e delle istituzioni comunitarie, prima fra tutte la Commissione. Anche su questo punto la sensibilità di Reinfeldt sembra più vicina a quella anglosassone rispetto a quella del blocco continentale e in particolare a quella francese che, come ha anche recentemente mostrato il suo semestre di presidenza, rimane nettamente intergovernativa.

Di fronte ad una congiuntura

così complessa viene da domandarsi se la Svezia, che garantisce la presidenza della Ue per la seconda volta (la prima era stata nel 2001) dal suo ingresso nel 1995, sarà all’altezza dei compiti. Non pochi osservatori hanno sottolineato che, dopo “l’encefalogramma piatto” della presidenza della Repubblica Ceca, difficilmente si potrà fare peggio. Di sicuro a Stoccolma siedono un Primo ministro giovane, ambizioso e moderno (un conservatore atipico, sul modello dell’inglese Cameron, liberale convinto ma attento alla dimensione sociale) e un ministro degli Esteri, Carl Bildt, con esperienza da vendere e ottimi contatti in tutte le capitali europee. Ciò non toglie che non sarà semplice per la presidenza svedese navigare tra le acque tempestose della complicata crisi economica europea, cercando di portare l’Unione finalmente fuori dalle “secche istituzionali”, riuscendo a conquistarsi un minimo di autonomia tra l’assillante protagonismo francese (che dal dicembre 2008 esercita una sorta di “presidenza ombra” dell’Ue) e le più o meno visibili crepe nella governance economica europea. All’evidente contrasto tra il protezionismo francese e il liberalismo

anglosassone, potrebbe aggiungersi a breve l’inedito, e ben più pericoloso, scontro tra ortodossia di bilancio di Berlino e “spese folli” dell’Eliseo. La recente decisione tedesca di arrivare a cancellare (entro il 2020) qualsiasi forma di debito pubblico contrasta in maniera evidente con il progetto di riforma del modello economico-sociale transalpino prospettato da Sarkozy a Versailles, tutto fondato su un utilizzo piuttosto spregiudicato del deficit. L’impressione è quella che si stiano delineando due vie di politica economica diametralmente opposte, con la prospettiva di un coordinamento delle scelte economiche ed industriali a livello europeo sempre più chimerica e addirittura la possibilità che la mancanza di “unione” tra Parigi e Berlino metta a rischio il sistema della moneta unica. L’asse franco-tedesco si trasformerà in qualcosa di simile al rapporto tra Usa e Cina, con il risparmio tedesco utilizzato per acquistare buoni del debito pubblico francese? E come corollario si avrà lo sgretolarsi dei criteri fissati a Maastricht, in quello che ad oggi rimane l’ultimo grande passaggio dell’integrazione dopo gli “anni eroici” dei Trattati di Roma? La Svezia si trova insomma a guidare un’Europa davvero in bilico, in quello che potrebbe diventare l’ultimo semestre a rotazione della storia dell’integrazione comunitaria. La chiusura della lunga e tormentata parentesi di riforma istituzionale non risolverebbe come di incanto i problemi dell’Ue, che come si è cercato di sottolineare sono profondi e hanno finito per evidenziarsi anche di fronte alla drammatica crisi economica globale, ma costituirebbe un successo anche simbolicamente di grande rilevanza. È una sfida ambiziosa quella che attende Stoccolma. Si spera che i “grandi” d’Europa, e in particolare Parigi e Berlino, continuino a ritenere che i loro interessi possono coincidere, se non totalmente perlomeno in parte, con quelli della Ue. Una profonda crisi alla base dell’edificio europeo sarebbe davvero troppo anche per il volenteroso Reinfeldt. 63


lo scacchiere

L

medioriente/la scure di khamenei,

il faro dell’onda verde

I due fronti della sanguinaria partita che si gioca in Iran DI

EMANUELE OTTOLENGHI

e elezioni iraniane del 12 giugno dovevano essere business as usual. Il regime aveva minuziosamente controllato le credenziali islamiche rivoluzionarie dei Quattro contendenti e le aveva trovate impeccabili. Di loro, solo Mehdi Karrubi apparteneva al clero, e solo il presidente uscente, Mahmoud Ahmadinejad, era persiano. Ma al di là della preponderanza “rivoluzionaria” laica rispetto al clero o degli sfidanti membri di etnie non persiane, nessuno in sé e per sé sembrava poter destare sospetti o preoccupazioni. Lo stesso Mir Hossein Mousavi, da tanti in Occidente acclamato come la nuova speranza riformatrice, era un membro fedele del regime. Prima della Rivolu64

zione, il giovane Mousavi era stato un discepolo di Ali Shariati - l’ideologo iraniano della fusione incendiaria dell’Islam sciita con le dottrine rivoluzionarie marxiste - la sintesi di divino e sovversivo che rende la rivoluzione islamica così seducente anche in Occidente. Da primo ministro, durante il conflitto Iran-Iraq, aveva gestito l’economia di guerra come un burocrate sovietico. Sotto la sua finestra devono essere sfilate migliaia di oppositori diretti ai patiboli improvvisati dalla rivoluzione mentre al fronte infuriava la guerra. È considerato il mandante degli attentati di Hezbollah contro i marines americani e i parà francesi a Beirut nel 1983 - fu lui a inviare come ambasciatore a Damasco Ali Akbar Mohtashemi-pur, l’uomo che poi probabilmente coordinò gli attacchi a Beirut. Ed ebbe un ruolo nella decisione di rivolgersi allo scienziato pakistano Abdel Qader Khan nel 1987 per acquisire clandestinamente tecnologia nucleare compresi elementi del programma con chiara applicazione militare. Perchè allora il regime ha deciso, a urne ancora aperte, di infliggere a questo figlio della rivoluzione una cocente e umiliante sconfitta, annun-


scacchiere ciando un risultato cui nessuno riesce di credere? Non che la repubblica islamica sia una democrazia - ma è difficile imbrogliare le elezioni in siffatta e palese maniera, anche in Iran. Il regime avrebbe potuto attendere i tempi ragionevoli dello spoglio per annunciare la vittoria di Ahmadinejad. Avrebbe potuto barare di meno, assegnandoli una vittoria più risicata. O avrebbe potuto permettere a Mousavi di vincere - in fondo, una figura riformista ma solidamente ancorata nell’ideologia e nei segreti torpidi della rivoluzione avrebbe potuto servire gl’interessi del regime altrettanto bene se non ancora meglio di Ahmadinejad. Chiaramente, dietro le quinte è in corso uno scontro di potere, e non è detto che la faccenda sia finita qui. Ma rimane l’interrogativo del perchè. La risposta si trova, più probabilmente, nella combinazione di due fattori: la paura, di fronte all’inattesa ondata di entusiasmo popolare scatenata dalla candidatura Mousavi, che il regime potesse perdere il controllo della situazione, e la volontà di trasformare la minaccia di un’onda riformista che finisse con il travolgere il regime stesso in un’occasione per chiudere i conti contro i riformisti. Il putsch effettuato dal Leader Supremo dell’Iran Ali Khamenei e il suo presidente, Ahmadinejad, ha messo a nudo due dinamiche parallele all’interno della Repubblica Islamica. La prima, in corso da più di dieci anni, è la competizione tra le diverse anime del regime - una con-

servatrice e rivoluzionaria e l’altra riformista. In questo gioco si sono inseriti i guardiani della rivoluzione, i pasdaran, che hanno suggellato il colpo di stato con la forza. La seconda dinamica è lo scontro tra regime e popolazione, avvenuto mediante l’entrata in scena della società civile, di nuovo mobilitata a favore di un cambiamento ancor più radicale di quanto immaginato e sostenuto dall’ala riformista del regime. La divisione all’interno delle elites è stata per anni gestita senza che i perdenti - i riformisti - rompessero i ranghi. Ma l’acuirsi del malessere economico e sociale nel paese ha imbaldanzito i loro sostenitori e la candidatura di Mousavi ha offerto improvvisamente - e inaspettatamente per il regime - la speranza di una svolta democratica che l’ala più conservatrice ha deciso di schiacciare. Sarebbe un errore presumere che i leader politici che hanno cavalcato la piazza fino al giorno delle elezioni sarebbero stati pronti a spingersi fino a dove i loro sostenitori avrebbero voluto. Rimane da esplorare la possibilità 65


Risk che dopo il 12 giugno anche i leader riformisti, quelli almeno che sopravviveranno politicamente alla repressione, si schierino con la piazza. La partita che si gioca oggi in Iran dunque ha due fronti: lo scontro tra le forze rappresentate dal presidente contro le forze che sostengono il suo sfidante da una parte - lo scontro ai vertici del potere - e lo scontro tra il regime e la società civile. Molto si è detto della rivalità tra il Leader Supremo Khamenei e l’ex presidente Ali Akhbar Hashemi Rafsanjani. È una rivalità personale oltre che politica. Ma essa trascende il controllo del clero sciita - che fino al consolidamento al potere di Khamenei costituiva la spina dorsale della Rivoluzione. Khamenei, le cui credenziali religiose di “modello”, o di autorità religiosa da emulare e seguire, non erano certo robuste al momento della sua nomina a successore del fondatore della Repubblica Islamica Ayatollah Ruollah Khomeini, ha pazientemente consolidato il suo controllo negli anni affidandosi sempre di più all’apparato di sicurezza e ai guardiani della rivoluzione. A loro ha affidato sempre più controllo sull’economia e sui gangli del potere dello stato, a scapito delle due tradizionali classi sociali che determinano il corso politico in Iran - il bazaar e il clero. Rafsanjani, che in un primo tempo aveva sostenuto l’ascesa di Khamenei, oggi si trova nell’occhio del ciclone perchè egli rappresenta non solo una posizione meno millenarista rispetto ad Ahmadinejad ma anche perchè egli cerca di riaffermare il controllo del clero su stato e Rivoluzione. Khamenei ha dunque utilizzato le elezioni per sferrare un colpo decisivo ai suoi avversari e ha utilizzato le manifestazioni di piazza come scusa per schiacciare gli oppositori a risultati annunciati. L’ondata di arresti ha interessato non solo la cittadinanza media che, defraudata del suo voto, si è riversata in piazza a protestare, ma prima di tutto i giornalisti, i politici, gli intellettuali e altre figure chiave ai vertici dello stato che non condividevano la linea scelta dal Leader Supremo e dai suoi allea66

ti. Nella scelta del Leader Supremo di schiacciare l’opposizione gioca però un ruolo importante la società civile. Come indicato sopra, Mousavi non rappresentava, almeno non prima del 12 giugno, un vero e proprio cambiamento. Ma la sua scesa in campo ha risvegliato la volontà popolare di una svolta che andasse al di là delle timide riforme represse anche allora nel sangue - che la breve stagione riformista dell’ex presidente Mohammad Khatami aveva offerto agli iraniani. Il regime deve aver ragionato che la mobilitazione di piazza senza precedenti gli sarebbe sfuggita di mano e che la crisi offriva un’opportunità: di chiudere i conti con l’opposizione interna e di soffocare nel sangue ogni velleità democratica. Quali opzioni si prestano all’Occidente di fronte a questo quadro? La tentazione di negoziare a dispetto di quanto è accaduto è forte - e lo si è visto nel linguaggio blando e del G8. Ma gli eventi di giugno dovrebbero aver chiarito anche ai più dediti fautori della diplomazia a oltranza che non ci si può attendere una svolta pragmatica a Teheran dopo questi avvenimenti. Il regime - una volta consolidata la sua vittoria e completata l’opera di purga di dissidenti e oppositori - cercherà la rissa con l’Occidente, non la riconciliazione. Si tratta dopotutto di un regime che ha dimostrato ampiamente di non aver a cuore la propria immagine internazionale; di non essere interessato a un calcolo razionale di costi-benefici; di essere pronto ad agire d’impulso; di essere ossessionato da intrighi e complotti immaginari; ma di essere, per contro, un regime fragile che ha perso ogni legittimità popolare. Perchè dunque un regime, in questa situazione, sarebbe ora disposto a conciliare, dimostrando un pragmatismo e una vulnerabilità alle pressioni che non possono che risvegliare il dissenso interno? Chi reprime a casa ha sempre bisogno di nemici all’estero per spiegare patiboli e polizia segreta. È nella logica di un regime di questo genere - specie uno che si potesse ancora sentire minacciato


scacchiere internamente - di non cercare l’apertura al mondo esterno e la strada del compromesso in politica estera. Invece evocherà costantemente e in maniera paranoica i complotti che si tessono contro l’Iran, puntando ad accelerare al contempo i suoi sforzi sul fronte nucleare come garanzia ultima di sopravvivenza ed egemonia dell’ideologia rivoluzionaria uscita trionfante dal putsch di giugno. Se l’impegno diplomatico serve a convincere i fautori del dialogo riguardo alla sua futilità allora ben venga. Ma nel frattempo, vorremmo ricordare a chi non vede altra alternativa tra l’attacco militare e il dialogo con questo regime grondante di sangue, che esiste una terza via. La società civile iraniana terrorizzata, azzittita, brutalmente repressa, ma straordinariamente viva e forte nei numeri - ha dimostrato di volere trasformare l’Iran in un paese diverso. Il regime ha dimostrato che la sua ideologia gode di pochissimo seguito e può solo contare sulla forza e la repressione per imporsi. Quella società civile e le sue speranze di democrazia - che il regime vede come una minaccia esistenziale devono diventare i nostri alleati e la nostra priori-

S

tà. Un Iran democratico aprirà le porte del suo nucleare alla trasparenza. Cesserà di sostenere la sovversione e il terrorismo a Gaza, in Libano, in Iraq e in Afghanistan. Cambierà le sue priorità economiche puntando a investire sul futuro invece che distruggere in nome di un mitico passato. Sarà un agente di stabilità e moderazione in una regione che non è né l’uno né l’altro. Sarebbe un alleato naturale dell’Occidente. Offrire il nostro aiuto e la nostra solidarietà tangibile, attraverso sagge e oculate politiche mirate a isolare il regime e rafforzare l’opposizione democratica deve diventare il nostro imperativo politico. Di fronte a questo regime, sostenere la democrazia non è solo un disperato gesto utopico o l’espressione idealista di un imperativo morale. È un atto dovuto che mira anche a servire i nostri interessi strategici. È inutile dialogare con questo regime - nulla ne verrà fuori se non tempo prezioso perchè i suoi gerarchi consolidino il loro potere e avanzino le loro ambizioni. È tempo di isolarlo e aiutare quelle forze politiche in Iran che, dopo le immagini di queste settimane, ci dovrebbe risultare impossibile ignorare.

africa/aspettando copenaghen

il clima impazzito fa migrare gli africani

Degrado ambientale, carestie, alluvioni: l’emergenza è sotto i nostri occhi DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

ono sempre più numerose le voci allarmanti riguardo gli effetti dei cambiamenti climatici sulla mobilità umana. Da un lato ipotesi che parlano di temperatura in aumento, di tempeste tropicali, di pericoloso innalzamento del livello dei mari; dall’altro, drammatiche realtà che si leggono in numeri sempre più alti di disperati che si spostano da una zona all’altra di un continente per garantirsi la sussistenza, oppure intraprendono dei veri e propri “viaggi della speranza” verso il nord ricco del pianeta. I

temi dell’ambiente e della climatologia spingono a guardare oltre i ristretti limiti temporali e a proporre politiche di lungo periodo, vantaggiose non solo per i Paesi industrializzati ma anche per quelli del cosiddetto “terzo” e “quarto” mondo. Dopo i numerosi avvertimenti di scienziati e fisici (ahimè novelle “Cassandre” dei nostri tempi!) solo ora, sembra che la comunità internazionale si stia rendendo conto di quali ripercussioni possano avere l’envrionmental issue e il climate change sulle fasce deboli, in regioni dimenticate dai ricchi occidentali. 67


Risk Africa e Asia appaiono i continenti più esposti e anche i meno capaci di fornire risposte adeguate, per le quali servirebbero linee politiche, finanziamenti e strutture appropriate. I suddetti continenti tornano così alla ribalta dell’attenzione internazionale, con richieste impellenti e non procrastinabili ulteriormente. Di fatto si sono scoperti negli ultimi anni “legami diabolici”: l’input è dato dal degrado ambientale, dalla scarsità di acqua, dalla siccità, dal deterioramento del terreno, dalla desertificazione, e l’output si può leggere nei conflitti che ne derivano per la divisone di risorse sempre più insufficienti e nelle conseguenti migrazioni forzate verso aree più promettenti. Catene queste, difficili a rompersi a meno che non si mettano in atto iniziative multilaterali e si avviino partenariati mirati con i grandi Paesi industrializzati. Infatti se una volta erano i fattori naturali, come i cambi dell’intensità solare e le eruzioni vulcaniche a determinare l’innalzamento della temperatura, oggi sono anidride carbonica, metano, alocarburi, gas di scarico di origine antropica a provocare il surriscaldamento dell’atmosfera. La vulnerabilità del continente africano è palese. Come dimostrato in diversi studi dell’Intergovernamental Panel on Climate Change (Ipcc), sia la conformazione geologica stessa della regione sia la sua incapacità strutturale a rispondere alla sfida climatica, comporterebbero un effetto maggiore di global warming quantificabile in un aumento compreso tra i 3° e i 4° centigradi tra il 2000 e il 2099, vale a dire 1,5 volte in più rispetto ad altre aree del pianeta. Va da sé che mentre le coste e le fasce equatoriali saranno le meno colpite, le fasce del Sahara e quelle interne saranno maggiormente coinvolte dal rialzo della temperatura. Ciò comporterà quasi sicuramente una variabilità estrema delle piogge: in alcune zone estrema siccità, in altre alluvioni, con conseguenze inimmaginabili su fauna, flora, salute, agricoltura. Sono ben note le tristi vicende in Etiopia dell’autunno 2008, riguardanti oltre 6 milioni di persone esposte alla siccità nelle regioni sud orientali del paese. 68

In tale zone, il binomio siccità-carestia è un nemico conosciuto che si ripropone costantemente. Lo scorso ottobre il ministro dell’Agricoltura, Mitiku Kassa, si è rivolto per l’ennesima volta chiedendo aiuto alla comunità internazionale per raccogliere l’equivalente di 195 milioni di euro. Un semplice palliativo che non ha risolto la vera causa del problema, cogliendone solo l’epifenomeno. All’opposto è invece il caso delle inondazioni, come quelle registrate nella regione australe, dalla Namibia al Mozambico, dove le precipitazioni hanno causato lo scorso aprile in pochi giorni oltre un migliaio di morti e circa due milioni di sfollati. Il disastro di tre mesi fa è stato solo l’ultimo di una lunga serie: come dimenticare quanto accaduto nel 2000 e nel 2007? Nel febbraio 2007 il livello del Basso Zambesi era rimasto per lungo tempo oltre la soglia di allerta; in Mozambico in pochi giorni erano state distrutte 4600 case, 100 scuole e 4 ospedali, oltre 50mila persone erano state costrette alla fuga. Nel marzo 2000 invece i fiumi in piena nella regione avevano causato disastri ancor più gravi, andando a colpire soprattutto le popolazioni dello Zimbabwe, già abbrutite da anni di crisi economica. Per non parlare poi dell’incidenza che i cambi atmosferici possono avere sull’invasione di alcune specie particolarmente nocive, quali cavallette o insetti che attaccano le produzioni locali. Basti pensare che tra fine maggio e inizio giugno la sicurezza alimentare nelle regioni orientali e occidentali del Somaliland è stata messa a serio rischio dalla devastazione procurata dalle locuste che hanno distrutto una superficie di oltre 3mila ettari. World Food Programme, Croce Rossa internazionale, Oxfam, Medici Senza Frontiere, piccole e grandi Ong ogni volta si prodigano nel reperimento di fondi, dando un aiuto di emergenza, ben consapevoli di affrontare con pochi mezzi storie differenti, di voltare pagine di storia, presto dimenticate. Il cambiamento del clima inevitabilmente si ripercuoterà anche sulla salute e sulla malnutrizione. Come? Influendo sulla distribuzione di mosche, zanzare, di


scacchiere parassiti che veicolano malaria e febbre dengue ad esempio. Secondo i dati dell’Ipcc, Paesi come Etiopia, Kenya, Rwanda, Burundi un tempo non esposti a forme di malaria potrebbero diventarne vittima nel giro di un quarantennio, il Sud Africa potrebbe raddoppiare il numero di persone colpite passando a 8 milioni di casi a fine secolo, al contrario Paesi nella regione occidentale potrebbero registrare una diminuzione di casi in virtù di un calo delle piogge. L’effetto sull’agricoltura dei cambiamenti climatici è poi ben immaginabile per un continente che affida a tale risorsa il 21% del suo prodotto interno lordo e che vi impiega il 64% della popolazione dell’ampia regione sub-sahariana. Non solo la concentrazione in un settore limita la flessibilità del lavoro a detrimento dell’industria e dei servizi, ma espone completamente alla rovina in caso di carestia, diminuzione di raccolta di grano, cereali e altre derrate alimentari. Se a questi fattori naturali si aggiunge l’incidenza e le conseguenze che può avere la deforestazione o l’esclusivo utilizzo di terre per il pascolo del bestiame, è sempre più allarmante la figura che ne esce: erosione del suolo, riduzione della produttività e quindi moltiplicazione del rischio di carestia. Da qui i conflitti per l’appropriazione di terre produttive, da qui una forma di mobilità indotta, che determina un movimento obbligato, forzato da push factors delle aree di origine piuttosto che da pull factors delle aree di destinazione. I percorsi sono difficilmente immaginabili, di certo in questi casi sono tendenzialmente intraregionali, sud-sud, temporanei e quasi sempre dalla campagna alla città. Se parlare di environmental refugee o climate refugee può sembrare eccessivo in riferimento alla tutela giuridica che verrebbe a richiedersi, d’altro canto il termine environmental migrant o climate migrant potrebbe sottolineare maggiormente il fattore attrattivo del Paese di arrivo e sgravare la comunità internazionale della responsabilità chiamata a gestire per assicurare il benessere di quanti colpiti da disastri ambientali e climatici. A parte bie-

che considerazioni terminologiche, contano i numeri e quelli parlano chiaro: secondo dati dell’Unione Africana dei 190 milioni di migranti stimati dalle Nazioni Unite, 50 milioni potrebbero essere africani, tale quota si attesterebbe invece a 20 milioni per l’International Labour Organization (Ilo) e scenderebbe a 17 milioni per l’International Organization for Migration (Iom). A tali cifre devono essere aggiunte quelle dei rifugiati secondo la definizione classica: 11,4 milioni in totale, di cui almeno oltre 3 milioni potrebbero essere africani (il condizionale in questi casi è d’obbligo, poiché la rilevazione dei dati lascia sempre ampi margini di dubbio). Quanti di essi dovuti a cause ambientali e specificatamente climatiche? In base ad alcune proiezioni fatte negli anni passati da istituti specializzati si potevano ipotizzare 50 milioni di environmental refugee nel 2010 e tale numero sarebbe potuto addirittura salire a 200 milioni nel 2050. Il dato è agghiacciante! Ogni elemento si viene a legare ed è dimostrato chiaramente che il cambiamento climatico può minacciare seriamente lo sviluppo umano e la sicurezza dell’intero pianeta. A cosa serve destinare nelle conferenze internazionali una minima percentuale di aiuto pubblico allo sviluppo quando poi si producono gas altamente tossici o si distruggono intere foreste, privando il mondo di risorse fondamentali? Lotta alla povertà, politiche per la difesa dell’ambiente, controllo -dove possibile - dei cambiamenti climatici dovuti a cause antropiche, gestione delle politiche migratorie: tutto è correlato in un disegno complesso. Fori internazionali e singoli governi sono chiamati a fare una scelta per gestire il proprio futuro: le catastrofi naturali, africane e non, possono ripercuotersi come un boomerang sulla propria sicurezza e stabilità. Il climate change è una sfida ed un’opportunità allo stesso tempo: agire ora e agire insieme, unendo forze americane, europee, asiatiche, australiane, africane, promuovere scelte lungimiranti e relativamente costose, permetterà di garantire il futuro delle prossime generazioni. 69


Risk

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unione europea/l'europa e il problema

della proliferazione nucleare

Dagli Usa all’Asia, tutti intervengono sull’atomica. Tranne noi. Perché? DI

GIOVANNI GASPARINI

l presidente Obama ha scelto Praga per enunciare le nuove linee guida della politica americana nei confronti degli armamenti nucleari. Il luogo non è privo di significato, poiché la Repubblica Ceca è uno dei due governi (insieme alla Polonia) che, ai tempi dell’amministrazione Bush e pur fra mille dubbi e contrasti, hanno aperto le porte all’installazione di elementi del sistema di difesa antimissile strategico americano.Inoltre, il primo passo della nuova politica americana è proprio legato al recupero del rapporto con la Russia e avvio di una nuova stagione di dialogo, ad iniziare dai problemi strategici nucleari. L’obiettivo dichiarato, l’annullamento delle armi nucleari della faccia della terra, va letto come l’indicazione di un fine ultimo che probabilmente si sa già di non poter raggiungere, ma che potrebbe favorire l’ottenimento di risultati intermedi importanti, soprattutto se si tiene conto che il discorso di Obama, al di là della nobile dichiarazione d’intenti iniziale, prosegue citando elementi tradizionali di controllo degli armamenti largamente noti e condivisibili. L’avvio dei negoziati bilaterali con la Russia per la riduzione delle testate nucleari e dei lanciatori per via di “tradizionali” trattati è un buon passo avanti, ma potrebbe scontrarsi con problemi irrisolti soprattutto nell’ambito delle difesa anti-missile e dei negoziati per gli armamenti convenzionali. Sebbene un accordo con Mosca rappresenti l’inevitabile primo passo, non sarà certo sufficiente a garantire che gli altri paesi nucleari seguano la stessa strada; Cina e India stanno attivamente ampliando e sviluppando i rispettivi arsenali, ma

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la vera sfida è legata a quei Paesi che cercano di dotarsi di testate e tecnologia nucleare in barba ai regimi di non proliferazione. La Corea del Nord ha affidato la sua risposta a Obama ad un test nucleare sotterraneo di discreta potenza e al lancio di missili a lunga gittata. Se la Corea del Nord ha voluto mostrare il proprio potenziale nucleare, l’Iran rimane il sospettato principale e in qualche misura la ragion d’essere dello scetticismo verso l’attuale regime di non proliferazione rappresentato dall’Npt (Nuclear Non-Proliferation Treaty), e quindi dell’esigenza di dotarsi di strumenti anti-missile. Visto in un’ottica regionale, il problema iraniano diventa di difficile soluzione se si omette di considerare l’ambiguità israeliana circa l’esistenza e la consistenza del proprio arsenale nucleare. Ciò indebolisce indirettamente la posizione americana, rendendola meno credibile, poiché ne mette in evidenza l’approccio comunque asimmetrico. Non si possono infine dimenticare i rischi che provengono dal Pakistan, la cui difficile situazione politica interna crea giganteschi rischi di proliferazione in particolare verso temutissimi attori non-statuali di tipo terroristico. Davanti a queste iniziative gli europei sono destinati forse ad avere un ruolo da spettatori? In realtà l’interesse europeo dovrebbe essere grande, dal momento che ben due Paesi dell’Ue sono potenze nucleari dichiarate (Francia e Regno Unito), altri sono produttori di tecnologie nucleari (Francia, Germania, Italia), altri ancora ospitano armi nucleari tattiche americane il cui remoto impiego è legato a cacciabombardieri europei (si presume Germania, Italia,


scacchiere Belgio, potenzialmente altri ancora), e tutti sono sottoposti alle pressioni iraniane e al rischio di proliferazione nucleare. Ma gli europei si auto-impongono una posizione irrilevante per ragioni diverse, riconducibili a due problemi di fondo: da un lato l’incapacità di superare il tabù del nucleare, operando così un’operazione di rimozione che impedisce quindi discutere in maniera razionale del problema se non per principi generici (tutti noi “buoni” vorremmo un mondo senza armi nucleari, purtroppo però esistono e non si possono disinventare...), dall’altro la volontà di legarsi a livello nazionale a dei “feticci di sovranità” quali sono le politiche nazionali di difesa e ancor di più quelle nucleari, rendendo così impossibili politiche comuni. La spinta di Obama dovrebbe invece suggerire

una revisione radicale e complessiva del rapporto europeo con il problema nucleare, sviluppando un approccio strategico basato su tre elementi complementari: la condivisione comunitaria dello strumento nucleare francese mantenuto ai minimi necessari per garantire una capacità di “secondo colpo”, l’impostazione di difese attive (sistemi anti-missile) soprattutto a livello substrategico e tattico (in particolare sistemi imbarcati e dispiegabili), la condivisione di una politica di non-proliferazione supportata da un regime stringente di controlli, opponibile come elemento di condizionalità nei confronti dei Paesi terzi. Sono obiettivi complessi e non raggiungibili nell’immediato, ma è giunto il momento di avviare la discussione prima che siano altri a decidere per noi.

america latina/la mano di obama sull’honduras

I

gli usa preoccupati per il narcotraffico

A Tegucicalpa la base americana per la lotta alla droga e al terrorismo DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

l 28 giugno scorso l’America latina ha fatto un tuffo nel passato. Un presidente democraticamente eletto veniva prelevato all’alba in un’operazione militare e trasportato all’estero, da dove denunciava il golpe in diretta televisiva. Poche ore più tardi, il congresso trasferiva i poteri a un governo de facto, dopo aver letto una lettera di rinuncia probabilmente fasulla del presidente deposto. Negli anni ’70 o ’80 un evento di questa natura avrebbe riempito un capitolo nel libro della Guerra Fredda, e il golpe avrebbe potuto contare su qualche forma di appoggio e protezione esterna. Gli ultimi due tentativi di colpo di stato erano avvenuti in Venezuela nel 1992 e nel 2002, rispettivamente da parte e ai danni dell’at-

tuale presidente Hugo Chávez. Da allora sembrava che il rispetto delle regole della democrazia fosse un fatto ormai acquisito in tutto il continente americano, fatta eccezione per la Cuba castrista. Il golpe in Honduras ha rotto quest’illusione, ma la prima reazione della comunità internazionale è stata più energica e unanime che in passato. Negli ultimi due anni il presidente deposto Manuel Zelaya aveva condotto l’Honduras sotto l’orbita del Venezuela. Nell’agosto 2008 il Paese centroamericano era entrato nell’Alleanza bolivariana dei popoli delle Americhe, ricevendo aiuti e petrolio venezuelani. Questa svolta a sinistra aveva iniziato a preoccupare le istituzioni honduregne, dalle Forze Armate ai par71



scacchiere titi tradizionali, dalla Chiesa cattolica al mondo imprenditoriale. In cambio, Zelaya aveva conquistato il supporto dei settori popolari, operai, contadini e studenteschi. La polarizzazione sociale era andata crescendo negli ultimi mesi, quando Zelaya aveva voluto realizzare una consultazione popolare per riformare la Costituzione e permettere la rielezione presidenziale. Prima di lui, quest’operazione era già riuscita a Chávez in Venezuela, a Morales in Bolivia, a Correa in Ecuador e a Uribe in Colombia. A differenza di questi Paesi, tuttavia, in Honduras i principali poteri dello Stato hanno dimostrato d’essere non solo autonomi dalla figura del presidente, ma anche radicalmente contrari alla possibilità di una sua rielezione. Il golpe è avvenuto nel giorno previsto per la consultazione. L’obiettivo non era instaurare un regime o occupare il potere in maniera stabile, bensì sbarrare la strada al progetto di Zelaya e traghettare il Paese fino alle elezioni del prossimo novembre. Gravi violazioni della legge si sono verificate da entrambe le parti. Quando il Tribunale Supremo Elettorale ha dichiarato illegittima la consultazione popolare, Zelaya ha cercato di organizzarla comunque utilizzando le Forze Armate e con l’appoggio internazionale di Chávez. Quando la Corte Suprema gli ha imposto di riabilitare il Capo di Stato Maggiore della Difesa che aveva estromesso per insubordinazione, Zelaya ha detto che avrebbe ignorato tale risoluzione. Più grave è stata la decisione del congresso di realizzare un golpe civile-militare, deponendo il presidente senza un processo legale previo (nella Costituzione honduregna non è previsto l’impeachment). L’operazione ha fatto leva su un vasto sostegno trasversale nella società honduregna, anche se ha probabilmente sottostimato la reazione internazionale che si sarebbe scatenata. Nei giorni successivi l’Honduras si è trovato ad avere due

presidenti. Uno democraticamente eletto e ricevuto con tutti gli onori alle Nazioni Unite, all’Organizzazione degli Stati Americani (Oea) e in diversi altri Paesi, che rischiava però d’essere arrestato se rientrava in patria. L’altro Roberto Micheletti, già presidente del congresso honduregno - riconosciuto dalle istituzioni honduregne, ma considerato un golpista dall’intera comunità internazionale. Tra i due s’inseriva la figura del segretario generale dell’Oea, il diplomatico cileno José Miguel Insulza. L’Oea non ha esitato a chiamare il golpe con il suo nome, non riconoscendo legittimità alcuna all’esecutivo guidato da Micheletti. Dopo un ultimatum di 72 ore, i membri dell’Oea hanno votato all’unanimità l’espulsione dell’Honduras secondo i dettami della Carta Democratica e sono scattate le prime sanzioni economiche. Il governo de facto ha impedito il rientro di Zelaya a Tegucigalpa e, con il passare dei giorni, ha iniziato a organizzarsi per resistere alla pressione internazionale cercando di spiegare le ragioni alla base del conflitto istituzionale. Prendendo atto che la crisi non si sarebbe risolta con il rapido ritorno di Zelaya al potere come successe con Chávez nel 2002, il governo degli Stati Uniti e il presidente del Costa Rica Oscar Arias si quindi sono offerti per mediare tra i due presidenti honduregni. L’allineamento iniziale sulle posizioni dell’Oea serviva al governo Obama per rafforzare i rapporti con l’America latina, anche a costo di esporsi alle critiche interne di appiattimento sulle posizioni di Chávez. Oltre agli aspetti politico-diplomatici, in gioco vi sono anche interessi strategici per gli Usa. In Honduras si trova infatti una delle maggiori basi militari statunitensi, da cui il Comando Sud gestisce le azioni contro narcotraffico, terrorismo e crimine organizzato in America centrale, Caraibi e Messico meridionale. 73


La storia

SI CHIAMA USAFRICOM MA COPIA LO STILE JFK

I

di Virgilio Ilari

l 3 dicembre scorso, in una conferenza stampa congiunta all’Ambasciata americana a Roma, l’ambasciatore Ronald Spogli e il ministro degli Esteri Franco Frattini hanno annunciato l’accordo tra i due Paesi per insediare presso i comandi americani di Napoli (Naveur) e Vicenza (Setaf) “due delle quattro componenti” (rectius sottocomandi di forza armata) del nuovo comando americano per l’Africa (Usafricom) attivato due mesi prima a Stoccarda, e precisamente i comandi navale (Navaf) e terrestre (Usaraf, quest’ultimo composto da appena 50 ufficiali), rimanendo in Germania i comandi dell’aviazione (Afafrica a Sembach) e dei Marines (Marforaf a Boeblingen). Alla base di questa scel74


storia ta c’è la decisione, presa già nel giugno 2007, di risalto nell’edizione mediorientale di Star and semplificare la struttura appoggiando i comandi Stripes (il quotidiano delle Forze Armate ameridi forza armata dipendenti da Africom sugli omo- cane) è stata ignorata dalla stampa italiana, ad loghi sottocomandi del Comando Europeo eccezione di due striminziti e imprecisi trafiletti (Useucom). Africom nasce infatti come una del Mattino e del Corriere della Sera e dei tam costola di Eucom e attinge a una parte delle forze tam di protesta diffusi sul web dai gruppi pacifiassegnate a quest’ultimo, in particolare la 6a sti e terzomondisti (in particolare il Comitato No Flotta del Mediterraneo, la 17th Air Force (creata Dal Molin, padre Alex Zanotelli e un manifesto di in Marocco nel 1953 e trasferita nel 1956 in Libia 62 studiosi africanisti promosso dalla professoe nel 1959 a Ramstein e Sembach in Germania), ressa Cristiana Fiamingo dell’Università Statale la 173rd Airborne Brigade, riattivata il 12 giugno di Milano). Maggior risalto hanno avuto invece in 2000 a Vicenza (Caserma Ederle), la IInd Marine Spagna le indiscrezioni sull’incontro del giugno Expeditionary Force di Campo Lejeune (North 2008 a Madrid tra il capo di stato maggiore della Carolina) e infine il 3rd e il 5th Special Forces difesa spagnolo e il comandante designato di Group (Airborne) di Fort Africom e sulla richiesta ameBragg (NC) e Fort Campbell ricana di utilizzare in tale quaLa politica di sicurezza (Kentucky), rispettivamente dro la base navale di Rota per l’Africa ricorda orientati sull’Africa Sub-saha(Cadice); la levata di scudi riana e il Corno d’Africa. La pacifista ha messo in imbarazquella kennediana ripartizione dei sottocomandi zo il governo socialista, menper l’America Latina. Africom tra l’Italia e la tre la stampa di destra lo ha Una struttura semplificata Germania era dunque naturale, accusato di aver ceduto al che appoggia senza contare che l’Italia, già Marocco e all’Inghilterra il i comandi di forza armata tornata in Africa nel 1993-94 secolare controllo spagnolo con le missioni di pace in delle Colonne d’Ercole, venai sottocomandi europei. Somalia e Mozambico, ha pardute per un miserabile piatto Ma Africom è solo tecipato alla componente navadi lenticchie come l’ammisil capitolo odierno le dell’Operation Enduring sione al G20. A sua volta il di una storia militare Freedom - Corno d’Africa sindaco di Rota, denunciando cominciata due secoli fa, (“Task Force 150” con base a la violazione dei fueros autonomisti per non essere stato Gibuti) e che proprio a Vicenza con le spedizioni navali consultato, ha intimato al (Caserma Carlotto) opera dal americane contro governo di quantificare urgen1° marzo 2005 - senza rimoi Barbary Pirates temente le ricadute occupaziostranze pacifiste o leghiste! - il nordafricani nali e turistiche. Africom è “Centro di Eccellenza per le solo il capitolo odierno di una Unità di Polizia di Stabilità” (CoEspu), voluto dall’Italia e gestito dai storia militare cominciata due secoli fa, con le Carabinieri, che riceve cospicui finanziamenti spedizioni navali americane contro i Barbary americani per l’addestramento delle forze di poli- Pirates nordafricani: e, a parte il fallimentare zia di 18 Paesi per metà africani, e rientra in esperimento della Liberia, gli Stati Uniti si sono pieno, come vedremo, nelle finalità e nei metodi ripetutamente interessati all’Africa e specialmendi Africom. La notizia, pubblicata con un certo te al Marocco. Da qui, nel 1942, iniziarono l’in75


storia

Risk

tervento militare in Europa e la lunga marcia che li ha portati a ereditare i vecchi imperi coloniali europei, ed era qui che, all’inizio della guerra 17th Air Force Usafricom fredda, pensavano di arroccarsi se Stalin fosse arrivato a Cherbourg. I sette Comandi interforze Marforaf Naveur di teatro (Unified Combatant Commands) creati da Truman il 14 dicembre 1946 erano la prosecuzione di quelli Citf_Hoa Setaf creati durante la seconda guerra mondiale e la somma delle loro giurisdizioni territoriali (“aree di responsabilità”, Aor) copriva già l’intera superCoEspu Vicenza 17 Airborne Brigade Area di responsabilità AFRICOM ficie della Terra. L’Africa fu inizialmente ripartita tra i comandi dell’Europa (Nordafrica), dell’Atlan- africane da impiegare in operazioni di tico (Africa Subsahariana) e del Pacifico (Mada- Peacekeeping (Pko), stanziando 121 milioni di gascar, Comore, Seychelles e Mauritius). Con la dollari in sei anni per addestrare 6mila militari di ristrutturazione del 1983 i Paesi del Mar Rosso e 7 Paesi (Mali, Senegal, Costa d’Avorio, Benin, del Corno d’Africa (Egitto, Sudan, Eritrea, Ghana, Malawi e Uganda) e nel 1998 la 173rd Etiopia, Somalia e Kenia) passarono nell’Aor del Airborne svolse in Marocco la prima edizione nuovo Comando Centrale (Uscentcom), mentre dell’esercitazione congiunta biennale detta l’Aor dell’Useucom fu esteso al resto dell’Africa African Lion. Contemporaneamente gli Stati Uniti rilanciarono la loro presenza nel Corno Subsahariana. d’Africa, tanto da poter essere accusati di aver Durante la guerra fredda l’impegno milita- istigato e sostenuto l’offensiva revanscista scatere americano in Africa si risolse in operazioni nata il 13 maggio 1998 dall’Etiopia contro coperte e guerre per procura contro i regimi l’Eritrea. Gli attentati del 7 agosto 1998 alle sostenuti da Cuba e dall’Urss e in seguito gli ambasciate americane a Dar es Salaam e Nairobi, interventi umanitari furono scoraggiati dalla fal- con 223 morti e 4mila feriti, dimostrarono che il lita Operazione Restore Hope in Somalia (1993- terrorismo islamico si stava pericolosamente 94). Tuttavia già nel 1997 l’Amministrazione radicando in Africa. Nel 1999 un team di berretti Clinton varò un programma (Acri - African Crisis verdi del Comando Operazioni Speciali Europa Response Initiative) per l’addestramento di forze (Soceur) svolse in Costa d’Avorio la prima edi3d

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storia zione delle esercitazioni Flintlock, che sono del tipo Jcet (Joint Combied Exchange Training). Intanto l’offensiva etiopica era clamorosamente fallita e nel maggio-giugno 2000 furono gli eritrei a puntare su Addis Abeba. Nel gennaio 2001 la rivista della Scuola di guerra dell’esercito americano (Parameters) pubblicizzò per la prima volta l’idea di creare un comando autonomo per l’Africa. Lo stesso anno l’orgoglio nazionale fu abilmente solleticato dal film di Ridley Scott Black Hawk Down (sul famoso scontro di Mogadiscio del 3 ottobre 1993, costato la vita a 19 soldati americani e a più di mille somali). A sua volta l’African Oil Policy Initiative Group (Aopig) mise sul tappeto la crescente penetrazione commerciale cinese in Africa e la crescente dipendenza sia della Cina che degli Stati Uniti dal petrolio africano e in particolare nigeriano, e in un rapporto del gennaio 2002 invocò la creazione di uno speciale Sotto-Comando militare per la sicurezza del Golfo di Guinea. Non fu però il petrolio, ma la guerra al terrore a polarizzare la politica americana in Africa dopo l’attacco alle Twin Towers. L’edizione 2002 della direttiva sulla National Security Strategy affermava che la minaccia agli Stati Uniti non veniva più dagli stati conquistatori ma dagli stati “falliti” e, a partire dal 28° vertice di Kananaskis del 26-27 giugno 2002, il sostegno alla pace e alla sicurezza in Africa entrò nell’agenda del G8. Lo stesso anno fu avviata la Pan Sahel Initiative (Psi) per addestrare le forze del Mali, del Niger, della Mauritania e del Chad al controllo dei movimenti sospetti di persone e di beni attraverso le frontiere e all’interno del territorio: il 7 ottobre 2002 fu insediata a Gibuti una cellula dell’Operazione Enduring Freedom per il Corno d’Africa (OefHoa) e dodici giorni dopo arrivò una speciale forza combinata congiunta (Cjtf-Hoa), incaricata non solo di addestrare le forze locali, somale ed etiopiche, ma anche di condurre programmi di assistenza civile (edilizia, trasporti, sanità, veteri-

naria). La forza, comandata da un generale dei marines e poi da un ammiraglio, rimase a bordo in attesa che i seabees riattassero la vecchia base francese di Camp Lemonier, dove si trasferì nel maggio 2003. Per il riattamento furono stanziati ben 2 miliardi di dollari, anche se la base è dominata dall’altopiano eritreo e perciò vulnerabile ad attacchi di artiglieria. Un’altra Task Force congiunta, denominata Aztec Silence, fu costituita nel 2003 nell’ambito della 6a Flotta: i suoi compiti non sono noti, ma si avvale degli assets di intelligence, sorveglianza e ricognizione dell’Us Navy basati a Sigonella (inclusi pattugliatori P3 Orion) e di elementi del Soceur operanti ad Algeri. A sua volta il Sudafrica ospitò la Flintlock 2003. La Global Posture Review del 2004 aumentò il numero delle installazioni militari leggere, creando tre nuove Cooperative Security Locations (Csl) a Dakar, Entebbe e Libreville e due nuovi Forward Operating Sites (Fos) in Tunisia e Marocco in aggiunta a Gibuti. Le Csl, che si trovano solo in Africa e Sudamerica, sono punti d’appoggio per l’addestramento regionale al controterrorismo e punti di accesso di contingenza ai Continenti, mentre le Fos sono basi con modesta presenza permanente di personale logistico e contractors, capaci però di supportare sustained operations.

Al 30° vertice di Sea Island (9-10

giugno 2004) il G8 approvò la proposta congiunta di Bush e Berlusconi (Global Peace Operations Initiative, GPOI) di addestrare ed equipaggiare entro il 2010 una forza di 75mila peacekeepers in maggioranza africani. Il Gpoi, finanziato dagli Stati Uniti con 660 milioni di dollari in cinque anni e gestito dal dipartimento di Stato, include lo sviluppo di un sistema internazionale di trasporto e sostegno logistico delle Pko, la formazione di poliziotti (affidata al citato CoEspu di Vicenza) e i programmi Imet (Internnational Military Education and Training) e Acri (allargati al Kenia 77


Risk e ribattezzati Acota, African Contingency Operations Training and Assistance). L’Italia e altri Paesi europei della Nato parteciparono alla Flintlock 2005, che coinvolse i quattro Paesi del Sahel più Algeria e Senegal; questi sei Paesi, più Nigeria, Marocco, Tunisia e Libia, furono inclusi nella Trans Saharian Counterterrorism Initiative (Tsci) finanziata dagli Stati Uniti con 500 milioni di dollari in sei anni.

L’esigenza di coordinare meglio le compo-

nenti militari di tutti questi programmi, e soprattutto le operazioni coperte svolte da Eucom nel Sahara e da Centcom nel Corno d’Africa riattualizzò l’idea di creare un nuovo comando a spiccata vocazione civile e militare, ma influì probabilmente pure l’allarmante ascesa delle Corti islamiche della Somalia, infiltrate da Al Qaeda ma sostenute pure dall’Eritrea e dall’Egitto. Il progetto fu messo allo studio dal segretario alla difesa Donald Rumsfeld nel giugno 2006, mentre le Corti vincevano la seconda battaglia di Mogadiscio. L’intervento etiopico, incoraggiato e sostenuto dagli Stati Uniti, ebbe inizio il 20 luglio. In agosto Rumsfeld approvò lo schema di un comando speciale per l’Africa con funzioni “preventive e proattive”, che fornisse “a single military organization for agencies like State Department and CIA”, e in dicembre lo presentò a Bush. Fu però il suo successore Robert Gates a comunicare alla Commissione Forze Armate del Senato, il 6 febbraio 2007, che il Presidente aveva approvato la creazione del 10° Unified Combatant Command (6° dei “regionali”). Lo stesso giorno la componente militare della Tsci fu elevata al rango di Operation Enduring Freedom–Trans Sahara (Oef-Ts). Composta da 959 militari (inclusi 480 americani, 250 algerini, 200 ciadiani e 25 sanitari senegalesi), vanta a tutt’oggi l’eliminazione di 363 terroristi (di cui solo 100 “in combattimento”). Mentre l’ammiraglio 78

Robert Moeller partiva per Stoccarda per assumere la direzione dell’African Transition Team, la rivista della Naval Postgraduated School mise altra carne al fuoco di Africom sostenendo che la politica americana in Africa doveva essere rivista alla luce della crescente importanza del petrolio nigeriano, che rappresentava già il 18 per cento delle importazioni americane (contro il 21 dal Medio Oriente) e il 30 per cento di quelle cinesi. L’intenzione originaria era di basare il comando in un Paese africano. Secondo l’Economist del 16-22 giugno 2007 vari Paesi del Continente erano in competizione per assicurarsi finanziamenti e prestigio e il 25 giugno la presidente Ellen Johnson Sirlea formalizzò la candidatura della Liberia. Ma il Washington Post del 26 giugno scriveva di un diniego di Libia e Algeria e di un insuccesso della delegazione inviata a Rabat. La Nigeria e il Sudafrica, le due superpotenze regionali, ammonirono i Paesi confinanti e fecero prendere posizione anche alle comunità economiche regionali (Sadc ed Ecowas). In un’audizione al Congresso degli Stati Uniti un esperto sudafricano testimoniò che la creazione di Africom stava suscitando crescenti preoccupazioni e reazioni in Africa. Malgrado ciò il 28 settembre il Senato confermò la nomina a comandante di William ‘Kip’ Ward, l’unico generale a quattro stelle afroamericano, che aveva combattuto in Somalia nel 1993 ed era stato rappresentante militare in Egitto. Il 1° ottobre Africom fu attivato alle Kelley Barracks di Stoccarda come subcomando di Eucom. In novembre il premier etiopico si dichiarò disposto a cooperare con Africom e il 5 dicembre un colonnello dell’Usaf dichiarò che l’Etiopia era in pole position come Paese ospitante. Nel febbraio 2008 il portavoce di Africom smentì che gli Stati Uniti intendessero basare il comando in Africa e dichiarò che sarebbe rimasto a Stoccarda nel prevedibile futuro. In maggio fu definita ufficialmente la missione del nuovo


storia Umaru Musa Yar’Adua ha infatti attenuato l’opposizione del suo governo ad Africom.

La Military Review del febbraio 2008

Il Generale William ‘Kip’ Ward, Comandante AFRICOM

comando, incaricato di condurre, di concerto con gli enti governativi degli Stati Uniti e i partner internazionali, “sustained security engagements”, mediante programmi “military-to-military”, attività “military sponsored” e “altre operazioni militari dirette a promuovere un ambiente africano stabile e sicuro in sostegno della politica estera degli Stati Uniti”. Il 1° ottobre Centcom e Pacom trasferirono le rispettive responsabilità africane ad Africom, che entrò pienamente in funzione con un’Aor estesa su quasi tutto il Continente (tranne l’Egitto) e sulle Isole africane dell’Atlantico e dell’Oceano Indiano. L’intensa azione promozionale condotta dal generale Ward nelle varie capitali africane non mancò infine di dare i suoi frutti. Il 13 dicembre, durante una visita alla Casa Bianca, il presidente nigeriano

ha dedicato ad Africom un importante articolo, sottolineandone il carattere “fortemente civile” (con un deputy commander per le attività civili-militari nominato dal Dipartimento di Stato, nella persona di Mary Carlin Yates, già ambasciatrice in Burundi e Ghana) e l’ampiezza dei suoi compiti preventivi, non limitati alla cooperazione contro il terrorismo ma estesi alla lotta contro l’Hiv/Aids, alla promozione dello sviluppo e della democrazia e al riequilibrio del “soft power” cinese nel Continente. La Military Review presenta il modello organizzativo e operativo di Africom come una novità assoluta, come “an experiment in early 21st Century security” e un potenziale “prototipo” per i comandi interforze del dopo guerra fredda, ma in realtà sembra piuttosto l’estensione all’Africa del tipo di controllo militare che gli Stati Uniti hanno stabilito sull’America Latina attraverso il Comando interforze Meridionale (UsSouthcom) creato nel 1963 a Miami e ispirato al principio approvato dal presidente Kennedy di prevenire e limitare il contagio sovversivo (allora comunista) con la psychological warfare, ossia con la civic action e i peace corps (incunabolo delle Ong) sostenuti da una rete di programmi militari non pervasiva e a basso costo. Il punto qualificante di questo modello sono infatti i programmi di formazione e addestramento dei militari locali, che in America Latina sono stati condotti dall’Escuela de las Américas, centro di elaborazione della famigerata doctrina de la seguridad nacional (creata a Panama nel 1946, trasferita nel 1984 a Fort Benning in Georgia e ribattezzata nel 2001 Western Hemisphere Institute for Security Cooperation, ha formato 60mila ufficiali di 23 Paesi latinoamericani). 79




la libreria


libreria

KESSELRING, ASSOLVERLO NO. RIABILITARLO, FORSE SÌ N

di Mario Arpino

el dicembre 1941 Albert Kesselring, nominato capo del settore mediterraneo di tutte le forze armate tedesche - eccettuate quelle dislocate in Libia, guidate da Rommel sotto alto comando italiano - stabiliva il suo quartier generale a Frascati. Nel 1943 diventò anche comandante supremo della Wehrmacht in Italia, con responsabilità crescenti, dal contrasto dell’avanzata alleata verso nord alla lotta senza quartiere alle formazioni partigiane, particolarmente cruenta al centro-nord della Penisola. Nell’immaginario collettivo italiano la sua connotazione è quindi quella di un generale - più propriamente un Feldmaresciallo - dell’esercito tedesco. Ma non è così. Kesselring era ufficiale dell’Aeronautica e vestiva l’uniforme della Luftwaffe, della quale era persino stato capo di stato maggiore dal giugno 1936 al maggio del 1937. Bavarese di nascita (1885 - 1960) e di carattere, combattente quale ufficiale d’artiglieria durante la prima guerra mondiale, attraverso alterne vicende era passato nei ruoli dell’Aeronautica a quarantotto anni, prendendo il brevetto di pilota militare in una delle scuole segrete - precisamente a Lipetsk, 350 chilometri a sud di Mosca - dove la Germania di Hitler, contravvenendo alle regole del trattato armistiziale, addestrava piloti da guerra e comandanti di unità aeree. Era sua convinzione che un comandante dovesse saper fare ciò che fanno i suoi soldati, e quindi che un aviatore dovesse saper combattere come i suoi piloti. Responsabile dell’efficienza e l’impiego della legione Condor durante la guerra di Spagna, comandante della regione aerea di Amburgo, dal settembre 1939 all’aprile del 1940 ha avuto il comando della 1^ Squadra Aerea, decisiva nelle operazioni in Polonia, per assumere poi il comando della 2^ Squadra Aerea, impegnata a fondo nell’offensiva del fronte occidentale e nella battaglia d’Inghilterra, dove le perdite di velivoli e di piloti

VASCO FERRETTI Kesselring

Mursia pp. 298 • Euro 17,00 Albert Kesserling (1885-1960), comandante supremo della Wehrmacht in Italia, arresosi agli americani nel maggio 1945, fu testimone al processo di Norimberga, ma a quello di Venezia del 1947 venne dichiarato colpevole di crimini di guerra e condannato a morte dalla Corte militare britannica. La sentenza, per volere di Churchill, venne commutata in ergastolo. Nel 1952 ottenne la grazia. Non fu mai scritto al partito nazista, ma rimase fedele al giuramento di fedeltà dato a Hitler.

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Risk furono numerose. Sotto il profilo organizzativo e dell’impiego, Kesselring - che operava agli ordini di Goering e di Milch - può essere considerato il vero artefice della nuova Aeronautica tedesca e, assieme a Guderian e a Student, rispettivamente capo delle forze corazzate e dei paracadutisti, il vero innovatore delle tattiche di impiego nella cooperazione aeroterrestre. La battaglia per l’invasione della Polonia - esempio di cooperazione tra i velivoli Stukas e i carri armati - assieme alla conquista di Creta con i paracadutisti di Student e la pianificazione dell’invasione di Malta restano gli esempi da manuale delle innovazioni militari di Kesselring. Non iscritto al partito, ma militarmente fedele a Hitler per il giuramento prestato, riuscì a ottenere che l’arma aerea continuasse a combattere con valore fino al tragico epilogo, senza per questo essere contaminata dall’ideologia nazista. Tant’è vero che ancora oggi gli Stormi da combattimento di Tornado ed Eurofighter sono intitolati ai piloti più valorosi della seconda guerra mondiale - accade medesima cosa anche per quelli della nostra Aeronautica - e i primi comandanti di Stormo del dopoguerra erano tutti piloti da combattimento con esperienza bellica. Restituito alla Luftwaffe ciò che era della Luftwaffe, prima di passare al libro ritorniamo alla figura di Albert Kesselring come generale, come uomo e come comandante interforze. Innanzi tutto, vi è da dire che tra i grandi generali della Wehrmacht è uno dei pochi che non appartengono alla casta degli Junkers prussiani. Nasce in Baviera in una normalissima famiglia di insegnanti, conseguendo i galloni di ufficiale e percorrendo tutta la sua carriera non per supporti politici, ma per una sua intrinseca integrità morale e di carattere, spirito di azione e grande impegno professionale. Racconta Ovidio Dallera, che ha curato la prefazione del libro, che il generale avesse confidato più o meno scherzosamente, a un amico italiano, che «…sono un maresciallo tedesco, ma rimedio a questo difetto con il mio certificato di nascita bavarese». Sembra che lo stesso Goering, ai tempi dell’insediamento dell’Alto comando a Frascati, abbia detto a un diplomatico italiano a Berlino «…ringraziate Dio che vi ha mandato il catto84

lico Kesselring a fare da paraurti tra voi e Hitler…da questo si vede che anche Dio deve essere proprio cattolico…». Sempre secondo Dellera, le parole di Goering avevano un fondo di ragione, verificata poi dai fatti, in quanto Kesselring, pur fedele a Hitler, non fu mai passivo esecutore dei sui ordini. Tant’è che dopo l’8 settembre, a differenza di quanto avvenne in nord Italia, al sud, dove le truppe tedesche erano sotto il suo comando, i soldati italiani non vennero catturati e inviati nei campi di concentramento oltralpe, ma semplicemente disarmati e lasciati liberi di tornarsene a casa loro. Anche dopo l’attentato di via Rasella le conseguenze avrebbero potuto essere ancora peggiori se lo Stato Maggiore del Feldmaresciallo avesse eseguito testualmente gli ordini pervenuti da Berlino, che prevedevano la fucilazione di 50 italiani per ogni tedesco ucciso, la distruzione dell’intero quartiere e la deportazione da Roma di mille italiani per ogni tedesco caduto nell’attentato dei partigiani comunisti. L’orribile strage delle Fosse Ardeatine purtroppo rimane tale, ma dell’atteggiamento “mitigatorio” di Kesselring - riconosciuto dal Tribunale di Venezia dove il generale fu processato - non se ne era mai parlato. Nel bene e nel male, la lunga e spesso vittoriosa resistenza all’avanzata degli Alleati lungo la penisola, iniziata con lo sbarco in Sicilia il 10 luglio 1943, porta il nome di Albert Kesselring che, indubbiamente, assieme a Erwin Rommel va annoverato tra i migliori condottieri del Terzo Reich nello scacchiere mediterraneo. Gliene danno atto gli stessi Alleati, che, con lo storico inglese generale Shelford Bidwell, affermano che «…oggi i tedeschi possono legittimamente nutrire ammirazione per l’ufficiale di stato maggiore generale che ebbe una parte preponderante nella ricostruzione dell’Esercito tedesco e dell’Aeronautica. Anche gli inglesi, che hanno una lunga esperienza di battaglie difensive e di ritirate, hanno motivo di rispettare chi, a dispetto delle circostanze avverse, tenne in scacco gli alleati in Italia durante una combattuta ritirata di 1.300 chilometri, dalla punta dello stivale fino alle rive del Po, durata venti mesi…». Tuttavia, in questi mesi di comando,


libreria e segnatamente nell’ultima fase, le truppe tedesche, valorose al fronte, hanno anche commesso gravi e ripetuti crimini di guerra, specie nei confronti della popolazione civile, come ritorsione alle continue, esasperanti azioni di disturbo dei partigiani. In un suo articolo sul Corriere della Sera dell’8 febbraio del 1947 Indro Montanelli, ricordando le stragi, i lutti e le rovine subite dalla popolazione, scriveva che «…la guerra in Italia si chiamò Kesselring, che è un terribile nome». Processato a Venezia da un Tribunale militare alleato dal 10 febbraio al 6 maggio 1947, fu condannato a morte per crimini di guerra. La pena fu commutata in ergastolo da Churchill, ma nel 1952 ottenne la grazia. Il libro di Vasco Ferretti - l’Autore si dedica da tempo alla ricerca storica sul periodo dell’occupazione tedesca in Italia - tratteggia assai bene la figura del Feldmaresciallo, contestualizzandola all’epoca dei fatti, che vengono continuamente ricordati anche con ricchezza di particolari inediti. La ricerca si articola in undici capitoli e un’appendice, che raccoglie la rispettosa testimonianza di un tenente inglese che gli fece da guardia del corpo e custode a Venezia, durante i mesi del processo. I titoli dei capitoli, che possono essere

letti anche isolatamente (Venezia, entra la corte; Professione soldato; Ai vertici della Luftwaffe; Ritirarsi combattendo; Dalla linea gotica alla resa; Testimone a Norimberga; La legge dei vincitori; Venezia, accusa e difesa a confronto; La condanna a morte; La Wehrmacht e la Resistenza; Il destino di un combattente), rendono già esplicito il contenuto del libro e la dimensione della ricerca. Alla fine, pur tra tutte le luci e le tante ombre, è difficile non provare almeno un moto di rispetto - e forse anche di simpatia - per questo soldato pluridecorato, non coinvolto ideologicamente nel nazismo, quattro volte ferito, con duecento missioni di combattimento all’attivo volando con la Luftwaffe assieme ai suoi piloti, che i soldati solevano chiamare “il sorridente Kesselring”. Ma, come dice nella sua breve presentazione Ovidio Dellera, il libro non vuole assolutamente assolvere il Feldmaresciallo, ma solo cercare di proporne un’immagine coerente con la realtà. Perché il compito dello storico - e questo l’Autore lo tiene sempre presente non è assolvere o condannare, ma ricostruire correttamente, eliminando da circostanze e personaggi le incrostazioni create dai pregiudizi e, purtroppo, anche dagli interessi di parte.

LA TURCHIA IN EUROPA, BENEFICIO O CATASTROFE?

Posizione geopolitica e potenziale economico ne fanno un possibile partner. Ma Bruxelles si chiede se sarebbe un alleato contro il fondamentalismo

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di Maurizio Stefanini

isogna infine ammettere la Turchia nell’Unione Europea? Preside del Corso di Laurea in Scienze Storiche e docente di Storia del Cristianesimo presso l’Università Europea di Roma, direttore della rivista Radici Cristiane, Roberto de Mattei è inoltre presidente di una Fondazione Lepanto il cui stesso nome rimanda alla lunga contrapposizione armata che l’Europa dovette affrontare, per evitare di essere fagocitata dall’invasione ottomana. Questo libro si sforza

però di mantenersi sul piano del ragionamento, piuttosto che dell’invettiva. Punto di partenza, la Turchia nella storia, con le complesse vicende che l’hanno infine modellata come Paese dalle quattro identità: quella islamica, che è tuttora la più forte, specie nella campagne; quella ottomana, a sua volta caratterizzata da un’ambigua combinazione tra tolleranza e imperialismo; quella nazionale turca, che a sua volta porta ai sogni di grandeur del panturchismo; quella europeizzante e illuminista, propria soprattutto delle élites intellettuali di Istanbul. Ed è appunto Istanbul il mag85


Risk gior simbolo di questa “duplicità” che ha portato Samuel Huntington a parlare della Turchia come di un “Giano bifronte”. Megalopoli di 15 milioni di abitanti, distesa sulle rive di due continenti, ed erede della tradizione di tre grandi imperi multinazionali come quelli romano, bizantino e ottomano. Eppure, proprio Istanbul è oggi un avamposto del panislamismo turco: prima città, a metà degli anni ’90, a eleggere sindaco un islamista come Recep Tayyp Erdogan, di lì poi proiettatosi fino a quella carica di primo ministro che tuttora detiene. C’è però una quinta identità, che la Turchia ha invece cancellato: quella cristiana di quell’Asia Minore in cui nacque Paolo di Tarso, in cui per la prima volta a Antiochia i seguaci della nuova fede furono definiti cristiani, in cui a Efeso concluse la sua vita terrena la Madonna, in cui si trovavano le “Sette Chiese dell’Asia” destinatarie dell’Apocalisse di San Giovanni, e in cui si tennero i primi sette Concili ecumenici della Chiesa. La terra che «ha visto spuntare i primi germogli del Vangelo», come ricordava Giovanni Paolo II. Ma dal 30% almeno della popolazione che i cristiani rappresentavano durante l’Impero Ottomano dopo il genocidio degli armeni e l’espulsione dei greci i cristiani sono ridotti a meno dell’1% dei cittadini della Repubblica turca attuale: «le responsabilità di questa drammatica situazione», spiega de Mattei, «risalgono alla convergente intolleranza anticristiana del laicismo kemalista e del neoislamismo turco». Dopo gli ulteriori pogrom degli anni ’50 e le nuove espulsione degli anni ’60, sui poco più di 100mila cristiani rimasti negli ultimi anni si è abbattuto anche l’odio dell’agitazione jihadista, con ad esempio l’omocidio nel 2006 di padre Andrea Santoro e il massacro nel 2007 di tre evangelici. Ma la stessa legislazione ufficiale sulla libertà religiosa è restrittiva al punto che alle denominazioni non islamiche diverse da quella ortodossa, armena e ebrea è negata la personalità giuridica. Ma d’altronde il riconoscimento non ha rispar86

miato al Patriarcato di Costantinopoli la chiusura del seminario dell’isola di Heyboli, che continua dal 1971. Bartolomeo I, massima autorità spirituale per gli ortodossi di tutto il mondo, per il governo di Ankara è solamente il patriarca del quartiere del Fanar. Osserva de Mattei: «in Turchia, ottenere il permesso di costruire o restaurare un edificio religioso cristiano né un’impresa quasi impossibile. Passeggiando oggi in molte cittò e villaggi, ci si accorge che la quasi totalità delle chiese sono trasformate in musei, moschee, scuole, biblioteche o granai». Questa situazione non è stata in realtà sanata dal pur laborioso processo di adattamento che la Turchia ha intrapreso per adeguarsi ai criteri imposti dall’Unione europea per valutare la richiesta d’adesione. Secondo de Mattei, perché all’Ue al momento sembrano importare di più i requisiti economici. Ma anche sotto questo punto di vista la Turchia appare poco omogenea rispetto alla media europea: «Pil (Prodotto inrerno lordo) per abitante basso (meno di 6mila euro per abitante nel 2003. contro una media europea di 22mila euro); forte indebitamento estero (da trent’anni la Turchia figura tra i quattro Paesi più indebitati del mondo, con un debito estero che rappresenta il 90% del suo Pil); supefiscalizzazione in relazione alle sue capacità economiche reali (il governo preleva più del 27% del suo Pil attraverso le imposte dirette; se si aggiunge il 15% di deficit pubblico si arriva ad una spesa pubblica, dedicata soprattutto al finanziamento dell’esercito e del debito pubblico, pari al 42% del Pil e ciò pur in assenza di un reale sistema di previdenza sociale); crisi economica permanente; da trent’anni il tasso medio di inflazione della Turchia è del 65%; dal 2001 essa ha subito una diminuzione del Pil del 7,5%; il debito pubblico globale è arrivato a 145 milisardi di euro, pari al 92% del Pil, una percentuale sopportabile da Paesi sviluppati ma non da Paesi emergenti». Se la Turchia entrasse in Europa, dunque, il prin-


libreria cipio della libera circolazione spingerebbe verso gli altri Paesi membri milioni e milioni di emiogranti: turchi e non solo, vista la porosità delle frontiere turche. Nel contempo, la Turchia diventerebbe il primo beneficiario dei fondi strutturali europei, per un costo complessivo variamente stimato tra i 10 e i 33,5 miliardi di euro. Altri nodi in sospeso riguardano il paradosso della democrazia turca: sottoposta a una poco democratica vigilanza da parte di organismi militari, che però d’altro canto rappresentano il principale baluardo verso l’islamizzazione totale cui potrebbe portare una democrazia genuina. E la questione di Cipro: membro dell’Ue, ma con metà del territorio tuttora occupato da una Repubblica Turca di Cipro del Nord sotto la stretta tutela di Ankara, che è la sola a riconoscerla. E la negazione del genocidio armeno. E la questione curda. E un movimento islamista che in Turchia è sempre più influente e che vede l’Europa come terra di conquista: anche se non necessariamente nel senso leninista e jihadista del termine, ma anche secondo un metodo gramsciano di impossessamento dal basso. E il peso demografico che la Turchia verrebbe ad avere, diventando nel 2023 con 90 milioni di abitanti il Paese più popoloso dell’Unione europea. Conclude de Mattei: «non vogliamo negare la possibilità per la Turchia di costituire per l’Europa un interlocutore privilegiato e un partner geopolitico. Neghiamo che l’entrata della Turchia nell’Unione

europea possa rappresentare un beneficio per l’Europa. Riteniamo, al contrario, che l’inserimento di 90 milioni di turchi nelle strutture politiche e sociali europee costituirebbe un’irrimediabile catastrofe per il nostro continente. Dobbiamo aggiungere però che la responsabilità ultima di questa catastrofe non va addossata alla Turchia, che con coerenza ricerca e difende la propria identità, ma all’Europa, che ha abdicato al proprio ruolo e rinnegato le sue radici. Benedetto XVI ha parlato più volte della “dittatura del relativismo” che minaccia l’Occidente un tempo cristiano. È questo relativismo culturale e morale che vorrebbe oggi imporci l’ingresso della Turchia nell’Unione europea, censurando in nome del “politicamente corretto” ogni voce contraria. È sorprendente, a questo proposito, come il “caso” della Turchia sia stato sempre assente dal dibattito politico dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo». Dunque, «non sbaglia chi ritiene che su di un tema così importante che tocca il futuro di ognuno di noi sarebbe necessario un referendum popolare, a livello europeo o delle singole nazioni, per verificare che cosa i cittadini europei veramente pensano dell’ingresso della Turchia nell’Unione europea. Ma l’opinione pubblica è sistematicamente estromessa da questo genere di dibattiti proprio perché la sua voce suonerebbe critica nei confronti della classe politica che dirige le sorti dei popoli d’Occidente».

ROBERTO DE MATTEI

La Turchia in Europa Beneficio o catastrofe? Sugarco pp. 148 • euro 15

L’eventuale ingresso della Turchia in Europa costituirebbe un beneficio o un’irreparabile catastrofe per il nostro continente? Questo volume solleva il problema e lancia l’allarme. La Turchia è un grande Paese, situato in un’area strategica del pianeta. La sua posizione geopolitica il suo peso demografico, il suo potenziale economico, e anche la bellezza del suo territorio e l’ospitalità dei suoi abitanti, ne fanno un possibile «partner» e certamente non un «nemico» dell’Europa. Il rapporto di partnership è tuttavia diverso dall’inserimento a pieno titolo nelle istituzioni pubbliche europee. Il problema che viene sollevato da de Mattei è questo: un’eventuale entrata della Turchia nell’Unione Europea – vista dal primo ministro turco Erdogan come «un incontro di civiltà» – costituirebbe un beneficio o una catastrofe per il nostro continente? Si tratta di una questione esaminata in maniera approfondita e senza pregiudizi perché tocca direttamente il nostro avvenire e quello dei nostri figli.

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Risk

NEL 2025 IL MONDO SARÀ COSÌ

L’

Non è uno scenario futurista, ma il rapporto del Nic, il think tank dell’intelligence Usa. Da non sottovalutare… di Andrea Tani

US National Intelligence Council (Nic) è il sancta santorum e allo stesso tempo il think tank della comunità intelligence del governo statunitense. Essa concorre a definire le previsioni strategiche a medio e lungo termine per il governo di Washington - per il quale produce anche il quadriennale National Intelligence Estimate, che ha componenti classificate e una valenza strategicomilitare più accentuata - coinvolgendo e cooptando le istituzioni, il mondo accademico e l’intellettualità privata per approfondire le analisi che i Servizi elaborano con una prospettiva essenzialmente operativa. Di fatto il Nic amplifica il contesto di riferimento per la progettazione della strategia internazionale degli Stati Uniti e nel contempo pone i risultati non classificati di gran parte della sua attività a disposizione del mondo intero, pubblicandoli su Internet e sulla stampa specializzata. Oltre al suo merito scientifico, questo approccio conferisce alle istituzioni governative che ne sono responsabili un’aura di autorevolezza e onestà intellettuale che torna a loro vantaggio nei rapporti internazionali. Alla fine di novembre del 2008 il Council ha pubblicato la sua quarta proiezione a quindici anni sullo stato del mondo, dopo tre edizioni che si sono susseguite dal 1993. Il documento - Global trends 2025: a transformed world - è passato relativamente sotto silenzio per la concomitanza delle assordanti elezioni americane. Esso descrive i fattori che andranno a configurare la scena internazionale fra sedici primavere, mettendo in luce più le tendenze e le traettorie presumibili che le previsioni vere e proprie. Hanno dato il loro contributo i principali istituti statunitensi di ricerca strategi88

ca e geopolitica e anche importanti istituzioni estere, attraverso un ciclo di workshop interattivi che si sono tenuti ai quattro angoli del pianeta. Il documento ha quindi un respiro veramente globale, oltre a risultare particolarmente apprezzabile per qualità, profondità e concisione. Queste caratteristiche vanno a beneficio sia del lettore - che assimila senza sforzo le cento stringate pagine di un testo quanto mai comprensibile, nonostante la gravitas degli argomenti - che dell’editore, ovvero il Governo americano, che è certo che la sua iniziativa non rimarrà serrata nelle cyber librerie di Google. Le conclusioni del rapporto sono in parte scontate e agevolmente condivisibili, in parte innovative. Tutte dovrebbero essere comunque prese in attenta considerazione, al di là delle proprie convinzioni, data l’autorevolezza della fonte e l’attendibilità scientifica dei dati di partenza, che solo raramente sono confutabili per l’emergere - peraltro piuttosto trasparente - di un certo pregiudizio di parte. Accenniamo ai punti più significativi. Con la crescita di Cina, Unione europea, Russia, India, Turchia, Iran, Brasile ed altri new comer si sta configurando nel mondo un sistema globale multipolare che comprenderà attori statuali e non - quest’ultime rappresentate da comunità di affari, etnie, lobby, confessioni religiose, congregazioni ideologiche, consorterie varie, reti di relazione, grandi corporation transnazionali, organizzazioni non governative e associazioni criminali. Nel 2025 una comunità internazionale univoca e composta solo di stati-nazione non esisterà più: il potere sarà più disperso e le regole del gioco si modificheranno, con il rischio che le tradizionali alleanze - soprattutto occidentali - si indeboliscano. Molti Paesi tenderanno a non imitare più i


libreria modelli occidentali di sviluppo politico ed economico, e saranno più attratti da sistemi alternativi, come quello della Cina. Le potenze emergenti confermeranno un’ambivalenza di fondo nei riguardi delle istituzioni globali come l’Onu, l’Imf, la Banca Mondiale i G-qualcosa, ma il loro consolidarsi farà presumibilmente crescere il senso di responsabilità nei confronti della comunità internazionale. Data la tendenza della maggioranza dei Paesi ad investire sempre di più nel proprio benessere economico, aumenteranno gli incentivi verso la stabilità geopolitica complessiva (chi ha molto da perdere non rischia). Dovrebbe persistere lo straordinario trasferimento di ricchezza e potere economico da ovest verso est che è già in atto. Questo trasferimento di ricchezza potrebbe continuare a rafforzare anche e soprattutto gli stati che vogliono sfidare l’ordine occidentale (ad esempio la Russia, la Cina, l’Iran, il Venezuela, etc.). A questo proposito, non è scontato che Russia e Cina procedano in modo significativo verso quella autentica democratizzazione che costituisce una delle premesse per la diminuzione delle tensioni potenziali del pianeta. L’affermazione di un autentico pluralismo politico sembra paradossalmente meno probabile in Russia, che l’aveva sfiorato, soprattutto se permarrà l’attuale assenza di diversificazione dell’economia. In Cina, invece, l’ascesa della classe media che gestisce il tumultuoso sviluppo in corso è in grado di aumentare la

probabilità di una liberalizzazione politica, ma nel contempo potrebbe essere la causa di un nazionalismo crescente, dando vita ad una specie di fascismo in salsa cantonese. Per quanto riguarda la decisiva questione dell’energia, chiave di volta di molte dei trasferimenti e delle competizioni di potere nel mondo, non è chiaro se nel prossimo quindicennio avrà luogo una transizione decisiva dagli idrocarburi a nuove (o vecchie, ma rigenerate) fonti - nucleare di terza generazione, eolico, nettunico, fotovoltaico - accompagnata da immagazzinamenti più efficace dell’elettricità, da biocarburanti e da carbone pulito. Se dovessero riproporsi gli alti prezzi energetici di qualche mese fa il rango politico e strategico dei maggiori produttori come i citati Russia e Iran, e poi l’Arabia Saudita e l’Iraq - dovrebbe lievitare. Il Pnl della prima potrebbe raggiungere quello di Regno Unito e Francia. Viceversa un declino prolungato degli stessi prezzi, accompagnato magari da un passaggio a nuove fonti energetiche, potrebbe determinare un regresso economico e quindi politico dei produttori, a livello regionale e globale. Nel mondo del 2025 ci saranno un miliardo e due di persone in più, in parte per il miglioramento complessivo del tenore di vita delle popolazioni. Le risorse di energia, cibo ed acqua non cresceranno di pari passo, anzi non cresceranno affatto, anche per i mutamenti climatici in corso, e aumenterà in modo decisivo la competizione per il loro controllo &

US NATIONAL INTELLIGENCE COUNCIL Global trends 2025: A Transformed World US Government Printing Office pp. 98 • on line

Quarta proiezione a quindici anni sullo stato del mondo pubblicata dal Council, dopo tre edizioni che si sono susseguite dal 1993. Il documento - Global trends 2025: a transformed world è passato relativamente sotto silenzio per la concomitanza delle assordanti elezioni americane. Esso descrive i fattori che andranno a configurare la scena internazionale fra sedici primavere, mettendo in luce più le tendenze e le traiettorie presumibili che le previsioni vere e proprie. Hanno dato il loro contributo i principali istituti statunitensi di ricerca strategica e geopolitica e anche importanti istituzioni estere, attraverso un ciclo di workshop interattivi che si sono tenuti ai quattro angoli del pianeta.

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Risk sfruttamento. Diventerà di cruciale importanza la dinamica dell’innovazione tecnologica, ovvero la chiave dello sviluppo e del soddisfacimento dei crescenti e più variegati bisogni di un’umanità più affollata. Le tecnologie oggi disponibili o prevedibili in modo certo sembrano inadeguate per soddisfarli adeguatamente. Nei quindici anni che mancano al 2025 è difficile che le nuove che già si intravedono possano maturare abbastanza per modificare lo statu quo. Dovrebbe diminuire il numero di Paesi con popolazioni “giovani” del cosiddetto “Arco di Instabilità” (nell’accezione del Nic esso va dalla regione andina dell’America Latina fino alla parte settentrionale del sud-Asia, attraverso l’Africa sub-sahariana, il Medioriente e il Caucaso) ma alcuni stati, come Afghanistan, Nigeria, Pakistan e Yemen, manterranno ratei di crescita demografica piuttosto elevati. A meno che le condizioni di disoccupazione giovanile diffusa di questi Paesi non migliorino, essi continueranno a rimanere vittime di instabilità continua e fallimento delle rispettive governance. I pronostici Nic non danno risposte univoche sulla possibilità che il mondo avanzato - e in particolare Europa e Giappone superino nei prossimi tre lustri la crisi demografica che più o meno lo caratterizza, ad eccezione degli Stati Uniti. Per l’Europa ciò potrebbe avvenire, almeno in parte, ad opera delle migrazioni nordafricane islamiche, che peraltro sono foriere di altri problemi. Per il Giappone, Paese estremamente coeso ed omogeneo nonché refrattario alle contaminazioni, ciò non è altrettanto prevedibile. Se la crisi demografica dovesse permanere, le due aree andranno incontro ad un declino strategico più o meno accentuato. Come dicono i geopolitici, «nel breve periodo la potenza è militare, nel medio è economica; nel lungo è demografica». Il potenziale per i conflitti si incrementerà anche in relazione alla possibilità che il mercantilismo ovvero il protezionismo - torni in auge e la globalizzazione dei mercati regredisca. Pure la presumi90

bile ricomparsa ad un mondo di nazionalismi focalizzati sulle risorse aumenterà il rischio di competizione fra piccole e grandi potenze, come la diffusione di capacità letali di armi di distruzione di massa, soprattutto nel Medioriente “allargato” (neologismo vago quanto basta). A questo proposito è più che verosimile che i timori regionali circa un Iran nucleare diano il via ad una corsa agli armamenti e ad una militarizzazione accentuata del Medioriente, qualunque sia la prospettive di una composizione degli specifici contenziosi mediorientali. Anche la transizione dagli idrocarburi a qualche nuovo tipo di energia potrebbe avere in questa area conseguenze non necessariamente positive. Nel complesso, le analisi del Rapporto Nic sono concordi nell’ipotizzare un incremento della turbolenza regionale relativa all’intero Medioriente Allargato, più Asia Meridionale (basta leggere i giornali per concordare, ovviamente). L’opportunità che gli Usa continuino ad assolvere la funzione di massimi garanti dell’equilibrio planetario seguiterà a sussistere, anche se altre potenze esterne, Russia, Cina e India, rivestiranno un ruolo strategico maggiore rispetto ad oggi (sostituendo di fatto quello tradizionale di Francia e Regno Unito). Se gli Stati Uniti rimarranno il singolo Paese più potente, come è molto probabile, la loro egemonia complessiva diminuirà. La riduzione di risorse economiche e di capacità militari potrebbero forzare Washington ad un difficile riequilibrio fra le priorità domestiche e quelle di politica estera. La Nato avrà sempre maggiori problemi nell’affrontare i presumibili crescenti impegni del fuori area, soprattutto in presenza di un declino delle capacità militari europee che viene dato per inevitabile, in assenza di un rafforzamento della valenza politica della Ue. In Asia viceversa si potrebbe verificare una qualche forma di integrazione politico-strategica a livello multilaterale in grado di condurre ad istituzioni regionali più robuste. È in questo continente che continueranno ad


libreria accalcarsi le maggiori turbolenze e quelle con un maggior potenziale detonante. Il Pakistan, l’Iran, l’Afghanistan e la Corea del nord sono i maggiori indiziati (domani come oggi, peraltro) Per quanto riguarda il terrorismo, è improbabile che esso scompaia per il 2025, anche se la sua capacità di attrazione dovrebbe diminuire con il progredire dello sviluppo economico del Medio Oriente e la conseguente riduzione della disoccupazione giovanile (demografia permettendo). Tuttavia, gli eventuali episodi di terrorismo e i conseguenti conflitti a bassa intensità che ne dovessero scaturire potrebbero condurre ad escalation non intenzionali delle crisi e ad allargamenti dei conflitti esistenti, come del resto è anche oggi. Cosa sono infatti le guerre e guerriglie in Iraq, Afghanistan e Pakistan se non derivazioni dirette del maggior episodio di terrorismo dell’epoca contemporanea (almeno questo sostiene il politicamente corretto )? Il vero problema del futuro - secondo il NIC - è che la diffusione delle tecnologie distruttive porrà nelle mani dei forse pochi terroristi che rimarranno attivi capacità operative estremamente letali. Le opportunità per attacchi terroristici di massa che utilizzino armi biologiche, chimiche e - meno verosimilmente nucleari cresceranno con la diffusione delle connesse tecnologie e l’espansione worldwide dei programmi nucleari. Se dovessero concretizzarsi – e il Rapporto non è molto ottimista sul tema - le conseguenze di tali attacchi in un mondo sempre più globalizzato sarebbero catastrofiche. Si tratta del maggior pericolo che l’umanità dovrà affrontare, ancora maggiore di una ipotetica pandemia apocalittica, sul tipo della Spagnola del secolo scorso. Questo a maglie molto larghe quanto dice il Global trends 2025: A Transformed World. Per chi è interessato o ha qualche dubbio, si consiglia la visione dell’originale. Oltre agli innegabili e sottolineati meriti, esso ha qualche pecca non banale, come ad esempio il fatto che non è culturalmente globalizzato, a dispetto delle buone

intenzioni; che tiene in costante sottotono il Giappone e l’Europa, e in particolare ignora la fondamentale Germania e la sua decisa marcia verso Oriente, che potrebbe avere un successo clamoroso, ben superiore alle due precedenti dello scorso secolo; che non approfondisce la sfaccettature del mondo arabo e iranico, stereotipa troppo Cina e India, anche sotto il livello minimo di guardia (in particolare per quest’ultima). Ma tant’è. Fosse anche per sapere quanto bias è rimasto nelle analisi dell’intelligence community dell’ex Iper ma ancora abbondantemente Super-potenza (se il tessuto economico regge e la presidenza Obama non si rivela un flop), vale abbondantemente al pena di futureggiare un po’chez Nic, tendo presente che se è facile criticare e persino ironizzare, nessuno è comunque in grado di produrre qualcosa di equivalente o comparabile con lo stesso grado di attendibilità istituzionale. Nel prossimo anno il medesimo Council pubblicherà la nuova e attesa edizione quadriennale del “National Intelligence Estimates,” il primo dell’amministrazione Obama. Si potrà allora verificare, oltre ad una conferma delle grandi linee di sviluppo evidenziate in questo documento, se e quanto sarà stata impostata nei fatti la virata che il giovane presidente ha intenzione di far compiere al suo Paese, anche nel suo standing geopolitico.

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Risk U S C I T I • ELISABETTA AMBROSI, ALESSANDRO ROSINA Non è un Paese per giovani. L’anomalia italiana: una generazione senza voce Marsilio 2009

Ambrosi e Rosina sostengono che, in Italia, il conflitto generazionale è disattivato. Il nostro Paese, secondo gli autori, è privato della principale spinta al rinnovamento di una società, rendendo quella italiana rigida e poco reattiva davanti alle grandi sfide. I giovani, che dovrebbero travolgere le barriere della tradizione e proporre inedite letture della realtà, in Italia si sentono rapinati del proprio futuro e non accennano a reagire. Ne emerge un quadro fatto di genitori che monopolizzano spazi e risorse disponibili e figli che dipendono morbosamente dalla famiglia senza coraggio né capacità di immaginare un futuro diverso: Rendendo l'Italia un paese che non cresce, dove i giovani hanno scarso peso e poca voce. • RICCARDO REDAELLI L’Iran contemporaneo Carocci 2009

A distanza di trent’anni dalla Rivoluzione degli Ayatollah, la Repubblica islamica iraniana rimane un mistero politico e un puzzle religioso che l’occidente, con le sue categorie logiche, ha sempre fatto fatica ad interpretare. Il libro di Redaelli ricostruisce le intricate vicende storiche e politiche pre-rivoluzionarie ripercorrendo il processo di creazione e sviluppo di una classe dirigente

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N E L

M O N D O

clericale sciita. L’autore guarda poi alle trasformazioni della società iraniana che hanno dato origine alle diverse fazioni della scena politica, con le loro divergenze di ideologia e, soprattutto, di interesse. Notando come, nonostante le contraddizioni interne, gli sforzi diplomatici dell’Occidente e la grave crisi in cui versa l’economia del Paese, l’Iran sia riuscito a rimanere un giocatore chiave nel complesso scacchiere mediorientale, attraverso un accorto sfruttamento tattico delle crisi afgana e irachena e, soprattutto, del suo programma nucleare. • MICHAEL DOBBS One Minute to Midnight. Kennedy, Khrushchev and Castro on the Brink of Nuclear War Vintage 2009

La crisi dei missili di Cuba del 1962 è probabilmente il singolo episodio più analizzato della Guerra Fredda. Nell’ultimo decennio, documenti americani e russi desecretati hanno provato che uno scambio nucleare era più vicino ancora di quanto ipotizzato dalla maggior parte degli esperti. Dobbs, un reporter del Washington Post usa queste e altre fonti per presentare un quadro della vicenda ricco di informazioni nuove, descrivendo i personaggi coinvolti nel dramma e convogliando, soprattutto, l’immagine di un gruppo di uomini sotto l’immensa pressione degli eventi che, in tredici giorni, avrebbero potuto portare alla catastrofe nucleare.

a cura di Beniamino Irdi

• ROSS DOUTHAT, REIHAN SALAM Grand New Party: How Republicans Can Win the Working Class and Save the American Dream Anchor 2009

Questo libro fa parte di un movimento volto a ricostruire l’identità e principi fondamentali del Partito Repubblicano alla luce della sconfitta del 2008. La strategia elaborata dagli autori prevede un recupero della classe lavoratrice attraverso una combinazione di prudenti iniziative governative. Partendo da un’analisi sociologica, ma anche da una prospettiva storica di classe, gli autori hanno prodotto un lavoro prescrittivo di autentica policy making piuttosto che concentrarsi sulla mera osservazione del fenomeno. Le loro idee sono esposte con una linearità che non può lasciare indifferenti, e delineano una credibile strategia organica per la riconquista repubblicana dei blue-collar.

• ALEXANDRA CAVELIUS, REBIYA KADEER La guerriera gentile. Una donna in lotta contro il regime cinese Corbaccio 2009

La più nota dissidente della Cina si racconta in un'autobiografia che è anche una nitida fotografia di un regime spietato. Kadeer ha assistito al fallimento disastroso del grande balzo in avanti e subìto la rivoluzione culturale. Di etnia uiguri e religione musulmana, è stata perseguitata, discriminata, cacciata dalla propria terra e costretta

a ricominciare la sua vita. Da lavandaia è diventata imprenditrice e miliardaria: impersonando il simbolo di un riscatto della donna nella Cina convertita al neocapitalismo. Imprigionata dal Regime, ha trascorso in carcere cinque anni, fino al 2005, quando è stata rilasciata in seguito a un accordo con gli Stati Uniti, dove attualmente risiede insieme al marito e a sei figli. Quella di Kadeer è una storia personale romanzesca, che getta una luce su un grande tema politico più che mai attuale. • JEAN-CLAUDE CARRIERE, UMBERTO ECO Non sperate di liberarvi dei libri Bompiani 2009

Quello di Carriere ed Eco è un libro sui libri. Il volume ripercorre duemila anni di storia dei contenitori del sapere, attraverso una discussione fra gli autori, un semiologo e uno sceneggiatore entrambi collezionisti di libri rari. Dai monaci cistercensi alla riproduttività tecnica, dal papiro agli e-book, nonostante l’accelerazione esponenziale della tecnologia, i libri continuano a resistere a tutte le invenzioni successive, dimostrandosi il corrispettivo della ruota nella storia della tecnologia: un’invenzione che non ha mai ceduto il passo a suoi rivali. E proprio questo è il fulcro del messaggio dei due studiosi: non l’importanza del libro in sé, ma il concetto di permanenza e di durevolezza della memoria, che è veicolata dai libri e che, come concetto collettivo, rappresenta la cultura.


riviste L A

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DAVID BUKAY Is the militare bulwark against islamism collapsing? The Middle East Quarterly Summer 2009

Nel 1975 la Freedom House aveva classificato come «politicamente liberi» solo il 25 per cento dei Paesi nel mondo. Trent’anni dopo la proporzione è aumentata passando al 46 per cento, considerando ben 122 nazioni come «democrazie elettorali», spiega l’autore, dalle pagine di un’iniziativa editoriale nata nel 1994, come spin off del Middle East Forum, iniziativa promossa da Daniel Pipes. Le radici della democrazia possono aver preso forma in alcuni Paesi dell ‘Est Europa dell’America latina e dell’Estremo oriente, ma nel Medioriente le cose sono andate diversamente. È nata così un’alleanza di molti Stati con la classe dei militari e con obiettivi più legati alla stabilità interna che ai pericoli provenienti da oltre confine. In Algeria, Egitto e Turchia i militari sono serviti come ultimo argine all’espansione dell’ultrafondamentalismo islamico. Secondo questa analisi l’Occidente si dovrebbe preparare al giorno in cui gli

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uomini in divisa faranno il salto della quaglia, cambiando fronte. Dalla seconda metà del XX secolo i militari, in molti di questi Paesi, sono diventati la forza trainante, riformatrice e laica. In Arabia Saudita e Iran c’è stata una buona convivenza con gli islamisti, percepiti, durante la guerra fredda, come una forza anticomunista. Uno strabismo che portò, in Iran, ad una strana alleanza tra Cia e fronte musulmano contro Mosadeq, considerato una quinta colonna di Mosca. In quegli anni anche una formazione come quella dei Fratelli musulmani non era guardata con troppa apprensione. Oggi lo Stato nazione è in crisi e lo è di più nel mondo musulmano che può attingere a concetti sostitutivi, come la umma. E non parliamo solo di Medioriente. Anche il dittatore Suharto, scatenò i militari, in Indonesia, contro i movimenti islamisti che ne minacciavano il potere. Il clima ora è cambiato e il primo passo verso un rovesciamento di fronte potrebbe essere la dichiarazione di neutralità fatta dalle forze armate. È stato così in Iran e ha permesso alla Repubblica islamica di prendere piede. È avvenuto anche in Sudan nel 1989. In Egitto, dopo l’ultima repressione degli anni Novanta, il governo ha cooptato molti radicali musulmani nel governo e ha parzialmente islamizzato la società egiziana. Da qualche tempo anche alcuni analisti occidentali sostengono la causa del coinvolgimento di formazioni come i Fratelli

R I V I S T E musulmani. Tra questi troviamo Robert Kagan e Peter Beinart. Certo è che per la cultura musulmana concetti come «contratto sociale» e cittadinanza hanno una declinazione poco occidentale. In Europa e negli Usa farebbero bene a prepararsi nel prossimo decennio ad un futuro con gli islamisti in divisa e al governo.

LEON ARON Samizdat in the 21st Century Foreign Policy June 2009

Madre Russia comincia a fare i conti con se stessa. Meglio con il regime di zar Putin. Boris Nemtsov e Vladimir Milov hanno messo nero su bianco i numeri della degenerazione. La casta moscovita messa sotto la lente nel rapporto dei due autori di Putin. Itogi, che significa i risultati di Volodja. Dopo otto anni di governo dove si è centralizzato tutto, amministrazione pubblica ed economia, i risultati sono sconfortanti. Corruzione, favoritismi e incompetenza hanno vanificato l’unica grande occasione che il Paese aveva per

a cura di Pierre Chiartano modernizzarsi e avviare le riforme. Aggiungiamo che prima le cose non è che andassero tanto meglio. Le conclusioni dei ricercatori sono che «la situazione può essere cambiata. L’attuale classe dirigente non è in grado, non ha le competenze, l’onestà e la responsabilità neanche per cominciare il cambiamento. Solo se i russi saranno capaci di prendere nelle loro mani il destino del Paese la situazione potrà mutare». A dispetto del curriculum di tutto rispetto dei due autori, il documento è circolato quasi clandestinamente sul sito web www.grani.ru e poi in un pamphlet con una modestissima tiratura. Il nome di Nemtov è legato alle riforme degli anni Novanta, quando è stato vice primo ministro, prima di passare dall’altra parte della barricata. Milov, invece, è stato anche putiniano, come viceministro dell’energia. Le loro idee sono circolate come un samizdat (le pubblicazioni clandestine della dissidenza, ndr) dei giorni nostri, all’interno della ristretta cerchia dei circoli intellettuali liberali, di cui nessuno si curava ai tempi del barile a 140 dollari. Ora che la bolla speculativa sul greggio si è sgonfiata dimezzando le entrate di un Paese che puntava tutto, o quasi, sul petrolio e che vede il pil russo perdere colpi e la produzione industriale anche, forse il clima è cambiato. Ora qualcuno in più ad ascoltare le prediche inutili di Nemtov e Milov c’é. Il 93


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rublo debole e la disoccupazione che galoppa verso l’8 per cento stanno facendo rivalutare tutta l’era Putin. I suoi risultati in campo economico prima di tutto. E questo rende più facili le critiche di ordine politico, si sa. Anche ora che sembra ci siano segni di ripresa del valore del barile e che la borsa di Mosca ha cominciato i rimbalzi dopo il precipizio, la gente è più propensa a considerare le occasioni perse nel periodo delle vacche grasse, piuttosto che mettersi col pallottoliere a contare i decimali di punto guadagnati. Sam Huttington la definiva «leggitimità da prestazioni». Per molti anni la “modernizzazione autoritaria” di Putin è stata giustificata dall’esempio cinese e dalla sua spettacolare crescita. Ma la versione moscovita del miracolo cinese si è rivelata una sorta di «villaggio Potemkin». Secondo molti scrittori, pensatori e attivisti l’eredità del puntinismo è fatta di troppo autoritarismo e troppo poca modernizzazione. Una brillante commentatrice russa, Yulia Latvinya ha ben sintetizzato le differenze con Pechino. «In Cina il governo dice agli imprenditori: datevi da fare e diventate ricchi. Se un burocrate vi da fastidio gli rompiamo il collo. In Russia lo Stato dice ai burocrati: arricchitevi. E se un imprenditore protesta gli rompiamo la testa». 94

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STEPHEN BIDDLE Is it Worth it? Amrican Interest August 2009

Ora che le luci sull’Iraq si stanno attenuando, l’Afghanistan sta attirando l’attenzione dell’opinione pubblica americana. Per Obama non sarà così semplice gestire la faccenda. Nessuna via d’uscita facile, nessun risultato sicuro nel caso Washington voglia rilanciare l’impegno militare in Asia centrale. La posta in gioco a Kabul è alta per gli Stati Uniti. Puntare a risultati più modesti non basta, visto che gli Usa sono seriamente impegnati a rimodellare il governo di Kabul, afflitto da corruzione e inefficienze. Ma è certo che quel Paese non sia destinato a diventare la Svizzera dell’Hindukush. L’approccio militare è migliorato con la nuova dottrina controinsurrezionale e lo Us Army non può esser paragonato all’esercito sovietico contro i mujahiddin. Per gli Stati Uniti non è un conflitto destinato per forza a finire male. La guerra cosiddetta “invisibile” per il pubblico d’oltre Atlantico sta ora entrando nel cono di luce dei media e delle priorità di questa amministrazione. Tutte le guerre sono

R I V I S T E costose e cercare di fare un calcolo del rapporto costi-benfici può diventare un esercizio fuorviante. I vantaggi sono sempre incerti e spesso indeterminati, i danni sempre visibili. Ma cosa c’è veramente in ballo da quelle parti? L’Afghanistan non dovrà più essere la base per pianificare attacchi all’America ed essere un elemento destabilizzante per la regione, leggi per il Pakistan. Se nel primo caso si tratta di ciò che ha giustificato l’intervento armato dopo l11/09, oggi non basta più. Al Qaida non c’è più in Afghanistan, si è trasferita nelle regioni tribali del Pakistan, le cosiddette Fata. Se dovessero collassare Stati come Iraq e Pakistan, allora al Qaida avrebbe a disposizione delle basi di ben altro valore che una nazione arretrata ferma all’età della pietra o poco più. Un Paese come il Pakistan con 173 milioni di musulmani, un pil da 160 miliardi dollari e un arsenale nucleare che può contare dalle venti alle cinquanta testate atomiche, sarebbe una base per il terrorismo ben più pericolosa. Una realtà dove l’influenza Usa è minima, simile a quella del governo di Islambad. E dove il gioco delle alleanze e dei conflitti, vedi quello con l’India, gioca dei brutti scherzi. L’Isi, l’intelligence pakistana, ha sempre mantenuto rapporti con i movimenti islamici fondamentalisti per utilizzarli contro Delhi. Se gli Usa non sono in grado di esercitare un’influenza positiva su Islamabad, dovrebbero cercare almeno di non fare danni, secondo la tesi dell’autore. Un governo talebano a

Kabul agirebbe più facilmente contro quello secolare e traballante oltre la linea Durand. Ma gli Usa si potrebbero dissanguare per stabilizzare l’Afghanistan per poi veder comunque collassare il Pakistan. Non vi sono certezze sui risultati. I costi? La dottrina di counterinsurgency (Coin) non prevede i saldi, serve un security provider ogni 50 abitanti. Significa 650mila uomini tra esercito e polizia. Considerando che solo in metà del Paese sia necessaria una politica Coin, si tratta di 300mila uomini. Ammesso e non concesso che il governo di Kabul possa far fronte a una parte dell’impegno, il resto rimarrebbe un onere per gli Usa e la Nato. Con obiettivi di qui a 15 anni. Obama ha centrato la sua politica su di un surge afghano, ma tra gli americani - secondo un recente sondaggio Gallup - sono sempre di meno quelli convinti che laggiù le cose stiano andando bene.

ANDREW F. KREPINEVICH The Pentagon’s wasting assets Foreign Affairs August 2009

Le ragioni della potenza militare americana e del suo dominio globale, starebbero per esaurirsi. Almeno così la


riviste L A

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pensa l’analista di FA che legge come giunto al termine il lungo periodo in cui il controllo sulla ricerca tecnologica e la grande disponibilità di risorse economiche avevano dato agli Usa un vantaggio indiscutibile sul resto del mondo. Una capacità senza uguali di proiezione e progettazione del potere oltre confine. Un fatto che aveva garantito a Washington l’accesso ad ogni tipo di risorsa e garantito la sicurezza del Paese. Così gli Usa si erano sentiti in grado di sottoscrivere e rispettare accordi e trattati. La grande strategia americana dava per scontato che questo vantaggio sarebbe durato nel tempo. In realtà tutto questo starebbe per scomparire. Numerosi eventi negli ultimi anni hanno dimostrato come i vecchi metodi per costruire e utilizzare il potere di un Paese siano stati soggetti a grandi cambiamenti e trasformazioni. Ciò che serviva ieri oggi sembra obsoleto. Sono i «wasting assets» secondo la terminologia utilizzata dagli strateghi americani, cioè attività inutili e costose. Inutili per garantire che un’economia come quella Usa continui a macinare numeri, costose perché gravano in maniera ormai inaccettabile sulle finanze di una nazione uscita malconcia dalla crisi finanziaria globale. In più, la continua diffusione delle tecnologie militari, in combina-

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zione con la crescita della Cina come potenza mondiale e l’avvento di nazioni ostili come l’Iran, hanno reso sempre più costoso reggere lo scettro dei destini globali. Regioni come quelle del Golfo Persico o dell’Estremo Oriente sono diventate sempre più dispendiose da controllare con un dispositivo militare efficiente. E sono quelle di vitale interesse per Washington. Allo stesso tempo la capacità del Pentagono di dominare ambienti come spazio e cyberspazio viene continuamente sfidata. Guerre asimmetriche e conflitti “irregolari”, come quello in Afghanistan, stanno mettendo alla prova l’apparato militare di Washington. Lo stesso segretario alla Difesa, Robert Gates ha affermato - proprio dalle pagine di FA - che servirebbe un miglior bilanciamento delle spese militari. «Sarebbe da irresponsabili non prepararsi per il futuro» affermava. La politica però non sta tenendo conto degli scenari possibili e delle nuove minacce che potrebbero comparire all’orizzonte. Un sistema sicuro per garantirsi delle belle sorprese in campo strategico. Ciò che servirebbe invece - suggerisce l’autore - sarebbe una profonda revisione dei concetti strategici americani. Un po’ come successe agli albori della guerra fredda, quando si dovette cambiare prospettiva, passando ai concetti più complessi legati alla deterrenza nucleare.

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JENNIFER COTTLE The third Obama The new republic July 2009

Cronaca di un retroscena tutto americano nei palazzi del potere. Il carisma di Obama visto attraverso uno dei suoi talent scout in rosa. Ovvero il potere delle donne. Richard Holbrooke è un diplomatico di lungo corso, era stato nella squadra di Bill Clinton e si era occupato della spinosa vicenda dei Balcani. Quando Hillary aveva deciso di correre per la Casa Bianca, le si era affiancato, nella speranza che quella corsa lo potesse riportare sugli scudi della diplomazia. Non era un mistero per nessuno a Washington, che volesse tornare in azione. Per quanto fosse un diplomatico di rango, non aveva però accesso al cosiddetto inner circle di Barack Obama. Almeno fino a quando non ha incontrato Valerie Jarrett. Grazie ai buoni uffici del democratico Vernon Jordan – imparentato con la Jarrett – Holbrooke era riuscito a ottenere un invito a cena all’hotel St. Regis di New York. Un incontro «elettrizzante» secondo i commenti riportati dallo stesso diplomatico. Insomma, la Jarrett si era presentata come l’incarnazione

delle promesse di Obama. «Sono rimasta impressionata dalla profondità e dalla vastità delle sue esperienze e dal suo spiccato patriottismo» aveva commentato la stessa Jarrett, ricordando l’incontro. Dopo la cena e una serie di considerazioni, fatte anche con Hillary Clinton, Holbrooke si era ritrovato con un incarico nuovo di zecca: inviato speciale per l’Afghanistan e il Pakistan. Così la Jarrett che si è occupata di raccolta fondi, campagne elettorali è oggi, di fatto, il personaggio più importante nel regno di Obamaland. Ha un incarico che non potrebbe comparire su di un normale biglietto da visita: White House Senior Advisor and Assistant to the President for Intergovernmental Affairs and Public Engagement. Valerie è la persona di cui il presidente si fida di più. Così la mossa di Holbrooke è stata vincente. Il ruolo di questa donna intraprendente oltre ad essere di potere e di prestigio, ha un suo rovescio. Deve camminare lungo una linea assai tenue, che divide l’efficacia della sua azione dal dover stare sempre un passo indietro. Sembrare credibile, senza avere una personale agenda politica da portare avanti. Il faro deve restare sempre puntato su Obama. Andare oltre in un senso significa non essere presi sul serio. Troppo nell’altro significa non essere più visti come il fedele consigliere del presidente. La Jarrett non ama parlare di se stessa e guarda con celata diffidenza all’ambiente della capitale. Cerca solo di essere l’honest broker del presidente nella nuova era di Obamaland. 95


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del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa VINCENZO CAMPORINI: Capo di Stato Maggiore della Difesa

BRUNO DALLAGO: ordinario di Economia, Università di Trento FEDERICO EICHBERG: direttore della fondazione Farefuturo

EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo

GIOVANNI GASPARINI: ricercatore presso l’Istituto Affari Internazionali e il CeMiSs RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

CARLO JEAN: presidente del Centro Studi di geopolitica economica, docente di Studi Strategici presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore

MICHELE MARCHI: assegnista del dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia presso l’Università di Bologna e analista al Centro Studi Progetto Europeo di Bologna ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali

EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles

MINXIN PEI: direttore del China Program al Carnegie Endowment for International Peace di Washington STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) MAURIZIO STEFANINI: giornalista e scrittore ANDREA TANI: analista militare, scrittore

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