risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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quaderni di geostrategia
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DOSSIER
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Africa
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Maria Egizia Gattamorta
Una sola mezzaluna, mille incognite
America Latina
Stefano Silvestri
Riccardo Gefter Wondrich
Erdogan, statista o califfo neo-ottomano?
pagine 70/77
Marta Ottaviani
«A Bruxelles per comandare»
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colloquio con Ahmet Davutoglu di Alvise Armellini
LA STORIA
L’ingresso in Europa: beneficio o catastrofe?
Virgilio Ilari
di Roberto de Mattei
pagine 78/82
Generali addio, sì alle armi di Andrea Nativi
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Dai Lupi grigi ad Al Qaeda
LIBRERIA
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Mario Arpino Andrea Tani
di Andrea Margelletti e Pietro Batacchi
Ankara, il supermercato dell’energia
pagine 84/91
di Davide Urso
Le relazioni “non” pericolose di Claudio Catalano
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RUBRICHE
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Beniamino Irdi Pierre Chiartano
pagine 4/53
Editoriali
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I
pagine 92/95
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Michele Nones Stranamore
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SCENARI
CAPOREDATTORE Luisa Arezzo
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Mission impossible: Copenhagen Alessandro Farruggia
L’Italia e il mercato europeo della Difesa Michele Nones pagine 58/69
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Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa
DIRETTORE Andrea Nativi
pagine 54/55
SCACCHIERE Unione Europea Osvaldo Baldacci
Medioriente Emanuele Ottolenghi
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COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Giovanni Gasparini REGISTRAZIONE
TRIBUNALE
RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani DI
ROMA N. 283
DEL
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GIUGNO
2000
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URAGANO TURCHIA Le istituzioni e i governi europei hanno in corso un complesso negoziato per l’ìingresso della Turchia nel club di Bruxelles. Molti dubbi e perplessità sono stati sollevati negli ultimi anni su questa trattativa. I fautori dell’adesione sostengono che la Turchia sarebbe un alleato naturale dell’Occidente contro il fondamentalismo islamico. E lo stesso Barack Obama, presidente degli Stati Uniti, si è personalmente speso affinché l’Europa non getti alle ortiche questa chance di allargamento verso un fedelissimo alleato della Nato. Ma la Turchia di oggi non è più quella secolarista di Kemal Ataturk: ed oggi è guidata da Recep Tayyp Erdogan, primo ministro dal 2002 con il suo Akp. Di lui si è detto tutto il male e il bene possibile. L’unica cosa certa è che, in perenne bilico fra Oriente e Occidente, esattamente come il suo paese, può essere a buon diritto considerato il politico più carismatico e innovatore che la Mezzaluna abbia visto negli ultimi 30 anni. L’unico in grado di imporre la Turchia sullo scenario internazionale, rendendo anche mediatica la figura del capo di governo nel paese, cosa che, in tre decenni di colpi di Stato militari, non era certo mai stata. E se da una parte si può a buon diritto affermare che Recep Tayyip Erdogan abbia regalato alla Turchia la prospettiva di entrare nel consesso europeo, restituendo così al Paese il suo peso politico, dall’altra è anche accusato di voler trascinare l’unica Mezzaluna a vocazione europea, nel baratro profondo dell’islamizzazione della repubblica. Strada che secondo molti sarebbe stata già imboccata in questi primi sette anni di esecutivo e che invece, secondo altri, rappresenta solo un modo di rendere più aperto e meno dipendente dai militari e dalla magistratura il paese, fermo restando che il problema più grosso della politica turca oggi è la mancanza di una reale alternativa allo strapotere del leader islamico-moderato. Che presto governerà un paese di oltre 85 milioni di persone. Non è un semplice dato demografico: se accolta nella Ue, la Turchia sarebbe il paese più popolato d’Europa e avrebbe il maggior numero di rappresentanti nel parlamento europeo. Senza dimenticare che la minaccia sia qaedista sia dei molti terrorismi che attraversano il paese, è lungi dall’essere sconfitta. Ne scrivono: Batacchi, Catalano, Davutoglu, de Mattei, Margelletti, Nativi, Ottaviani, Silvestri, Urso
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STRATEGICO MA RISCHIOSO: BRUXELLES SI INTERROGA SULL’INGRESSO TURCO NELLA UE
UNA SOLA MEZZALUNA, MILLE INCOGNITE DI
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STEFANO SILVESTRI
Unione Europea deve affrontare una situazione del tutto nuova. Gli ultimi allargamenti hanno portato la sua popolazione a circa 450 milioni, le sue frontiere terrestri sono ora lunghe circa 6mila chilometri e quelle marittime oltre 85mila. Questo mutamento di “dimensione”, sia geografica che economica e politica, la obbliga ad affrontare i cambiamenti
• in corso della sicurezza internazionale, dedicando la sua attenzione sia alle minacce “asimmetriche” del terrorismo internazionale e della criminalità organizzata, sia ai problemi di instabilità e insicurezza di vaste aree ai suoi confini, da cui per di più dipende per la sua sicurezza energetica, e dove crescono le minacce legate alla proliferazione di vecchie e nuove armi di distruzione di massa. L’Ue, che si è considerata sinora soprattutto un attore “civile”, dalle aspirazioni politiche “regionali”, deve fare i conti con una “regione” che ormai include paesi come la Russia e l’Ucraina, aree come il Caucaso, il Caspio, fino all’Afghanistan, l’intero Mediterraneo, il Medio Oriente e l’Africa e con crisi che richiedono una molto maggiore presenza e attività internazionale e spesso anche interventi armati. È in questo contesto che si è inserito un dibattito un po’ fumoso sui “confini dell’Europa” volto a ricercare un’identità insieme geografica e culturale di questa nostra penisola dell’Asia, mescolando tradizioni sociali, culturali e religiose, in un insieme tanto ambizioso quanto in genere inconcludente. L’Europa cristiana, che comunque include popolazioni islamiche (in cresci-
ta, anche grazie all’immigrazione e all’estendersi dei confini dell’Unione) o quella greco-romana (che peraltro include buona parte dell’attuale Turchia e che ha avuto per oltre mille anni la sua capitale nella attuale Istanbul) sono solo alcuni dei parametri “identitari” che vengono utilizzati di volta in volta per cercare di non affrontare l’inevitabile e cioè la commistione di Europa e di Asia che è sempre esistita, sin dalle migrazioni preistoriche che hanno popolato la penisola europea, e che caratterizza oggi in particolare regioni chiave come quelle dei Balcani e della ex-Unione Sovietica. In questa confusione si inserisce il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione. Si tratta di un grande Paese alla giuntura tra Europa ed Asia, i cui abitanti sono per lo più di religione islamica, economicamente ancora in via di sviluppo (anche se, col passare del tempo, il suo mercato e le caratteristiche della sua economia appaiono sempre più facilmente assimilabili nel grande mercato europeo), che nella sua lunga storia si è trovata anche ad essere la sede e il centro di un grande Impero antagonista di molte grandi potenze europee, e che ha tentato nel passato di impadronirsi sia dell’Europa 5
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Membro dell’Alleanza Atlantica sin dal 1952, la Turchia negli anni della Guerra Fredda, è stata il bastione essenziale della Nato contro l’espansionismo sovietico verso il Mediterraneo ed il Medio Oriente centro-orientale (arrivando sino a Vienna), sia del Mar Mediterraneo: una ex-grande potenza che a lungo ha costituito il potere di riferimento dei paesi della riva meridionale di questo mare, che ha sfidato la Russia sul Mar Nero, bloccando la sua spinta verso Sud e che è stata a lungo un fattore importante degli equilibri europei e un partner commerciale di tutto rispetto.
La Turchia è membro dell’Alleanza Atlantica
sin dal 1952 e, negli anni della Guerra Fredda, è stata il bastione essenziale della Nato contro l’espansionismo sovietico verso il Mediterraneo ed il Medio Oriente, oltre che l’anello più forte di una catena di contenimento che, per un certo periodo, aveva incluso anche l’Iran e il Pakistan. Successivamente la situazione era mutata, dando spazio soprattutto ai fattori di rischio, instabilità e insicurezza che affliggevano quell’area, dalla conflittualità con i curdi (che suscitava forti tensioni anche con la Siria, l’Iraq e l’Iran) al terrorismo, alla criminalità, agli scontri con la Grecia sull’Egeo e alla questione di Cipro, senza però rimettere mai in discussione il ruolo strategico del paese negli equilibri Est-Ovest. La situazione è mutata di nuovo alla fine della Guerra Fredda, anche se non tutte quelle problematiche hanno trovato una soluzione (basti pensare alla questione di Cipro, che ancora ostacola la piena
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normalizzazione dei rapporti tra Bruxelles e Ankara, o alla rinnovata importanza strategica della cosiddetta Af-Pak, la regione dell’Afghanistan e del Pakistan). Soprattutto è cambiata la percezione europea dei fattori di insicurezza, molto più ampi e globali di quanto si pensasse inizialmente, mentre è molto cresciuta, almeno dal 1992, la cooperazione tra Ue e Turchia nel campo della sicurezza e della gestione delle crisi: da quella data infatti la Turchia ha partecipato a quasi tutte le operazioni militari e di polizia condotte sotto l’egida dell’Ue. Ad esse si aggiungono naturalmente quelle condotte in ambito Nato. In particolare la Turchia si è persino offerta di partecipare ad un “gruppo di combattimento” (battle group) dell’Ue assieme con Italia e Romania ed è interessata a partecipare all’Agenzia Europea di Difesa. Infine, sembra realizzarsi una crescente convergenza tra le scelte di politica estera della Turchia e quelle dell’Ue, ultima riprova la normalizzazione dei rapporti con l’Armenia, accompagnata da significative riforme che tendono ad allineare il sistema giuridico, politico ed istituzionale turco agli standard europei. La Turchia ha così aderito alle dichiarazioni europee sul terrorismo e sulla non proliferazione, anche se non ha sottoscritto il Trattato per l’istituzione di un Tribunale Penale Internazionale, e spesso le sue posizioni politiche, in particolare sulle crisi medio orientali sono state significativamente più in linea con quelle di Bruxelles che con quelle di Washington. Altrettanto significativo è il ruolo turco nella questione energetica. La Turchia è un territorio privilegiato di passaggio per il petrolio ed il gas provenienti dall’Asia Centrale, dal Caspio e potenzialmente anche dall’Iran. Già oggi ospita uno dei pochi oleodotti Est-Ovest che non transita per la Russia e partecipa al programma per la costruzione del gasdotto Nabucco, che vorrebbe accrescere la diversificazione delle fonti energetiche europee. Di grande importanza è il ruolo turco nell’area del Mar Nero e dei Balcani (da cui passerà, con South
dossier Stream e con Nabucco, un’altra buona parte degli approvvigionamenti energetici europei). La politica turca è stata molto attiva, promuovendo l’istituzione, nel 1992, della Black Sea Economic Cooperation (Bsec) tra i rivieraschi Turchia, Bulgaria, Georgia, Romania, Russia e Ucraina e i non rivieraschi Albania, Armenia, Grecia, Moldova e, dal 1994, la Serbia e il Montenegro. Benché sino ad oggi la Bsec non sia stata molto attiva, l’allargarsi progressivo dell’Ue in quest’area è destinata ad accrescerne il significato, specie se andranno in porto le varie iniziative legate alla politica energetica. In ogni caso, la cooperazione della Turchia è un fattore importante di stabilità sia per la regione del Caucaso che per gli stessi Balcani (basti pensare alle importante minoranze turcofone che abitano la Bulgaria e la Macedonia). Né bisogna sottovalutare il capitolo delle crisi medio orientali. La Turchia, che riconosce Israele con cui mantiene importanti legami politici e militari (sia pure con alti e bassi periodici) ha anche condotto negli ultimi anni una politica di ripresa della collaborazione e del dialogo con il mondo islamico, a cominciare dai paesi più vicini, come la Siria e l’Iraq. La Turchia di oggi persegue una continua apertura verso il mondo arabo ed islamico (ne è prova la ripresa a piena forza dei rapporti con la Siria) senza tuttavia, almeno sino ad oggi, aver rinunciato a mantenere i suoi rapporti con Israele, né tanto meno i suoi legami atlantici ed europei. Esistono dunque importanti ragioni che spingono a guardare positivamente alla prospettiva di una maggiore integrazione della Turchia, in tempi non eccessivamente lunghi, nel contesto europeo, malgrado le resistenze politiche ed ideologiche di una parte dei nostri elettorati. Esse si incentrano sulla grande importanza strategica della collocazione geografica e politica della Turchia e includono argomenti disparati quali la lotta contro la criminalità organizzata e il terrorismo e la politica di sicurezza energetica. Più in generale, l’ingresso della Turchia consentirebbe
all’Unione di impostare una politica complessiva nei confronti della regione del Mar Nero e probabilmente anche del Caucaso. Nel Mediterraneo, l’ingresso turco sposterebbe l’intero arco settentrionale del Mediterraneo all’interno dell’Ue, creando un’unità istituzionale ed economica che va dall’Atlantico all’Asia Centrale e che potrebbe divenire uno degli assi portanti della politica europea, accrescendone significativamente l’importanza globale, oltre che regionale. Infine, l’ingresso a pieno titolo nell’Ue di un Paese islamico di questa importanza metterebbe fine una volta per tutte ai miti sulla “diversità” dell’Islam e infliggerebbe una sconfitta strategica, forse definitiva, ai piani di coloro che puntano alla prospettiva di una “guerra di civiltà”.
Tuttavia il raggiungimento di questi obietti-
vi non può essere demandato solo alla speranza di una conclusione positiva del processo negoziale in corso. È necessario preparare e favorire l’integrazione della Turchia in Europa attraverso un più deciso e marcato insieme di convergenze che in qualche modo spostino in secondo piano i problemi ancora aperti (da Cipro alla questione armena, dal trattamento delle minoranze curde alle divergenze sui diritti umani) rendendo meno drammatico il loro superamento. Tali convergenze dovrebbero altresì preparare progressivamente l’opinione pubblica europea a considerare positivamente l’adesione della Turchia e a “normalizzare” l’immagine di questo Paese. Si tratta di un processo già in atto da tempo per quel che riguarda l’economia (si pensi ad esempio ai crescenti investimenti europei in quel Paese) e che verrà certamente accresciuto dal negoziato circa la progressiva accettazione, da parte della Turchia, di tutto l’acquis comunitario (che comprendono anche gli aspetti cruciali della democrazia e dei diritti umani). È invece un processo ancora troppo lento proprio si punti di maggiore interesse strategico dell’Europa, e cioè la sicurezza, la difesa e la politica estera. Un forte sviluppo in 7
Risk questi campi potrebbe in ultima analisi fare la differenza tra successo o fallimento. La chiave della cooperazione nel campo della Difesa si situa però in primo luogo all’interno della Pesc: sono le grandi scelte politiche che guideranno le prossime mosse dell’Unione e che determineranno la possibilità di accrescere il ruolo e la partecipazione della Turchia. Purtroppo, mentre esistono alcuni collegamenti istituzionali (sia pure incompleti e insufficienti) tra la Turchia e la Pesd, non esistono meccanismi equivalenti per quel che riguarda la Pesc, che invece dovrebbero essere urgentemente sviluppati. Le scelte strategico-militari della Turchia, come del resto quelle dell’Ue, saranno determinate dalle posizioni che verranno assunte su alcuni grandi dossier internazionali quali ad esempio: • l’opportunità di sviluppare un approccio strategico complessivo nei confronti dell’area del Mar Nero; • l’adozione da parte europea di una politica complessiva di sostegno alla stabilizzazione del quadro politico e conflittuale iracheno e a quello israeliano-palestinese; • una maggiore convergenza sulla necessità di gestire e ridurre la conflittualità nel Caucaso, aiutando a promuovere un dialogo costruttivo, in primo luogo con i governi dell’Armenia e dell’Azerbaigian; • l’elaborazione di una politica complessiva sulla sicurezza energetica; • il dossier Iran e proliferazione nucleare; • ed infine, ultimo ma non meno importante, una più avanzata cooperazione euro-turca sul grande scacchiere dell’Af-Pak. Tutti argomenti di grande importanza e centralità politica e strategica che possono solo profittare di una maggiore considerazione europea del ruolo potenziale della Turchia e di una maggiore reciproca convergenza. 8
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PROTAGONISTA DI UNA RINASCITA ISLAMICA NEL PAESE, IL PREMIER È UN UOMO INDECIFRABILE
ERDOGAN: STATISTA O NEO OTTOMANO? DI
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MARTA OTTAVIANI
i lui si è detto tutto il male e il bene possibile. L’unica cosa certa è che Recep Tayyip Erdogan, primo ministro turco dal 2002 e come il suo paese in perenne bilico fra Oriente e Occidente, può essere a buon diritto considerato il politico più carismatico e innovatore che la Mezzaluna abbia visto negli ultimi 30 anni. L’unico in grado di impor-
• re la Turchia sullo scenario internazionale, rendendo anche mediatica la figura del capo di governo nel paese, cosa che, in trent’anni di colpi di Stato militari, non era certo mai stata. E se da una parte si può a buon diritto affermare che Recep Tayyip Erdogan abbia regalato alla Turchia la prospettiva di entrare nel club di Bruxelles, restituendo al Paese il suo peso politico, dall’altra è anche accusato di voler trascinare l’unica Mezzaluna a vocazione europea, nel baratro profondo dell’islamizzazione della repubblica. Strada che secondo molti sarebbe stata già imboccata in questi primi sette anni di esecutivo e che invece, secondo altri, rappresenta solo un modo di rendere più aperto e meno dipendente dai militari e dalla magistratura il paese, fermo restando che il problema più grosso della politica turca oggi è la mancanza di una reale alternativa allo strapotere del leader islamicomoderato. Recep Tayyip Erdogan nasce a Kasimpasla, un quartiere popolare e ultra conservatore sul Corno d’Oro a Istanbul, da una famiglia poco più che povera nel febbraio del 1954. I suoi genitori sono entrambi originari di Rize, sul Mar Nero, storicamente terra di confine e abitata da
etnie diverse. Particolare che più di una volta ha fatto sorgere il dubbio che il premier non sia di razza turca al 100 percento, aspetto che nel Paese della Mezzaluna non rappresenta un punto a favore. Cresciuto in un ambiente molto conservatore e non certo benestante, il giovane Recep frequenta le elementari e le medie passando i pomeriggi a fare il venditore ambulante di semi di sesamo e limonata, anche per aiutare la sua numerosa famiglia ad arrivare alla fine del mese. La forza di volontà non gli manca, e la determinazione, che dimostrerà lungo tutta la sua carriera, si fa già notare durante il liceo, che Erdogan frequenta in una imam hatip, una scuola dove si formano le figure che vanno a gestire la vita religiosa del Paese, soprattutto gli imam delle moschee e i cui studenti attualmente non vengono ammessi alle università pubbliche. Ma ai tempi di Erdogan la normativa non è ancora in vigore e così il futuro primo ministro si iscrive alla facoltà di scienze amministrative ed economiche dell’Università del Mar di Marmara a Istanbul. Per circa 10 anni, dal 1969 al 1980, gioca in diverse squadre di calcio con prospettive piuttosto promettenti, ma nel 1976 inizia a muovere i primi 9
Risk passi nella politica e soprattutto il golpe del 1980, il più duro dei tre ufficiali operati dai militari, strenui difensori dei principi su cui si fonda la Repubblica laica e moderna fondata da Atatürk nel 1923, rovina per sempre i suoi sogni di gloria. Il giovane Recep si dimentica presto la delusione sportiva. Nel 1976 entra nel Milli Selamet Partisi, il Partito nazionale della Salute, fondato da Necemettin Erbakan, leader storico della destra islamica e padre politico non solo di Recep Tayyip Erdogan, ma anche dell’attuale presidente della Repubblica Abdullah Gül. Proprio durante un congresso del partito nel 1977, incontra Emine Gülbaran, velata, proveniente anche lei da una famiglia povera quanto conservatrice, a differenza del premier di origine araba, e che sposa nel 1979. I due avranno 4 figli: Ahmet Burak, Necmeddin Bilâl, Esra e Sümeyye. Studieranno tutti negli Stati Uniti, soprattutto le due ragazze, che si recheranno oltre oceano con due borse di studio per poter frequentare l’università con il velo, cosa che in Turchia è proibita dal 1989 da una sentenza della Corte Costituzionale e che nemmeno il primo ministro fino a questo momento è riuscito a cambiare. Erdogan dimostrerà sempre grande affetto e devozione nei confronti della consorte, che secondo molti in Turchia è ancora più conservatrice e ambiziosa di suo marito, nonché sua attenta consigliera. Così tanto che, quando il primo ministro rinuncerà a correre per la presidenza della Repubblica candidando, secondo molti obtorto collo, Abdullah Gül, alcuni commentatori dichiararono: «Bisogna vedere se dispiace di più a Recep Tayyip Erdogan non essere diventato capo dello stato o alla sua consorte non poter fare la first-lady».
La prima volta che si sente
parlare di Erdogan come dirigente politico è il 1976, quando diventa il segretario dei giovani del Milli Selamet Partisi. Erbakan prende in simpatia quel giovane ambizioso e di belle speranze e così, quando nel 1983 fonda il Refah Partisi, il Partito islamico del 10
Benessere, gli affida subito incarichi di responsabilità e candidature che gli valgono, nel 1994, l’elezione a sindaco di Istanbul, che coincide anche con uno degli episodi più famosi della sua vita politica. Nel dicembre del 1997 a Siirt, città nell’est del Paese da dove proviene la moglie Emine, tiene un comizio in cui cita, cambiando le parole, versi del poeta ultra-nazionalista Ziya Gökalp, che diventano «Le moschee sono le nostre barricate, le cupole i nostri elmetti, i minareti le nostre baionette e la fede i nostri soldati». Nel 1998 viene condannato per istigazione all’odio religioso a dieci mesi, di cui ne sconterà solo quattro. In carcere conosce alcuni compagni di partito che lo aiuteranno, nel 2001, a fondare il suo nuovo partito come vedremo fra poco. Dopo la chiusura del Refah e del Fazilet partisi da parte della magistratura, Erdogan decide di lasciare il suo padre politico e fondare l’Akp, l’Adalet ve Kalkinma Partisi, di orientamento islamico-moderato, in grado di dare all’elettore un’alternativa di centrodestra. E qui inizia il grande dilemma riguardante Recep Tayyip Erdogan: creatore di un partito a sfondo religioso ma filo-europeo e rispettoso dei valori su cui si fonda la Turchia moderna di Mustafa Kemal Atatürk oppure di un cavallo di Troia da introdurre nel club di Bruxelles e nel Vecchio Continente? Nessuno ha ancora saputo rispondere a questa domanda. L’unica cosa certa è che il modello liberale di orientamento e liberista in economia ai turchi piace e alle politiche del 2002 e del 2007 votano Erdogan e il suo partito in massa, la seconda volta facendogli sfiorare addirittura il 47% dei consensi. Da quel momento la politica del premier sarà costantemente sotto la lente di ingrandimento dell’Unione Europea e soprattutto dell’opposizione, che tutt’oggi accusa il premier di voler islamizzare il paese secondo un’agenda ben precisa. Una delle critiche maggiori che ha subito Erdogan in questi anni si è concentrata sull’istruzione, che fra l’altro è uno dei settori che la Turchia deve rifor-
dossier mare in vista del suo ingresso in Europa. Huseyin Çelik, Ministro dell’Istruzione per tutto il primo governo Erdogan e parte del secondo, e noto a tutti nel Paese per le sue idee ultra conservatrici, è stato per sei anni una spina nel fianco per i militari e gli ambienti laici dello Stato per aver cercato in tutti i modi di cambiare la normativa vigente, soprattutto quella che vieta agli studenti che frequentano le imam-hatip di iscriversi all’università. Nel 2008 Çelik è stato al centro di una polemica feroce per aver dato mandato a una commissione ministeriale di cambiare il contenuto dei libri di testo del primo ciclo scolastico, che in Turchia include sia elementari sia medie. A fare le spese della censura sono stati il golpe militare del 12 settembre 1980 e il “golpe bianco” del 28 febbraio 1997, quando il governo guidato dal capo della destra islamica, Necemettin Erbakan, proprio il padre spirituale del primo ministro, fu invitato a dare le dimissioni, per difendere la laicità dello Stato turco. La motivazione con cui i due episodi sono stati cassati dal testo è che rappresentano un periodo carico di contraddizioni e contrastano con il consolidamento della Turchia come stato democratico. Nei nuovi libri c’è anche una versione diversa della cattura di Abdullah Ocalan, fondatore nel 1984 del Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, organizzazione terrorista che lotta per la creazione di uno stato curdo in territorio turco. La cattura del leader viene descritta come l’avvenimento più importante degli anni Novanta. L’opposizione laica insorge, i militari storcono il naso. Dalla Commissione arriva un comunicato in risposta alle critiche «I libri di storia turca e kemalismo contenevano parti che contraddicevano il carattere democratico della repubblica turca e ostacolavano il completamento della democrazia nel Paese. Si tratta di episodi contraddittori e che non hanno grande rilevanza nei programmi di istruzione in questa prima parte. Saranno sostituiti con testi che rispecchiano i principi della democrazia». Per completare l’opera, il presidente della Repubblica Abdullah Gül, a pochi
Recep Tayyip Erdogan: creatore di un partito a sfondo religioso ma filo-europeo e rispettoso dei valori su cui si fonda la Turchia di Atatürk oppure di un cavallo di Troia da introdurre nel club di Bruxelles? giorni dalla sua elezione alla carica più alta dello Stato, nomina a Capo della Conferenza dei rettori Yusuf Ziya Özcan, che prende il posto dell’ultra laico Erdogan Teziç.
In Turchia molti tremano perché la Con-
ferenza dei rettori gestisce l’istruzione universitaria. Gli orientamenti di Özcan diventeranno più chiari quando si schiererà a favore della legge sulla liberalizzazione del velo islamico nelle università turche di cui parleremo più avanti. All’amministrazione Erdogan va anche addebitata la mancata soluzione, fino a questo momento, del seminario greco di Halki, chiuso nel 1971, e di cui il Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli chiede da tempo la riapertura, nonché l’aver cercato di estendere l’insegnamento obbligatorio della religione sunnita anche agli aleviti, una confraternita di derivazione sciita, che pratica un Islam più moderato rispetto a quello ufficiale e che è stata oggetto di persecuzioni lungo tutto l’Impero ottomano e la Repubblica. Nella presunta islamizzazione strisciante del Paese, secondo l’opposizione, la televisione gioca un ruolo predominante. Anche se non sempre dovuto all’intervento diretto del governo targato Akp, in molti dicono che dall’avvento al potere di Recep Tayyip Erdogan ha pesantemente condizionato il 11
Risk contenuto dei palinsesti. La Trt, la televisione di Stato, i cui vertici sono di nomina governativa, in questi sette anni hanno sollevato più di un’obiezione da parte dell’opposizione e dell’opinione pubblica per i programmi mandati in onda.
Nel 2008 il Paese è stato
sconvolto dalla notizia che la Turchia stava per acquistare telenovele prodotte e girare niente meno che in Iran. L’accordo in realtà aveva fatto arricciare il naso anche ad alcuni esponenti del partito di maggioranza, ma l’opposizione ne ha fatto una vera e propria questione di principio, e ha iniziato a lanciare accuse pesanti, prima fra tutte quella di cercare di introdurre la Sharia, la legge islamica, attraverso la programmazione delle telenovele, da sempre molto seguite nel paese della Mezzaluna. E anche senza ricorrere alla televisione di Stato, c’è chi ha capito molto bene l’importanza di questa forma di comunicazione. Ne sa qualcosa Kanal 7, una televisione molto vicina agli ambienti della destra islamica, che nel 2006 ha mandato in onda la prima soap opera ispirata ai principi dell’Islam, dove tutte le protagoniste recitavano rigorosamente con il capo coperto. Ma l’influenza del clima instaurato da Recep Tayyip Erdogan nel Paese ha assunto connotati ben più singolari e secondo alcuni inquietanti. Nella Turchia laica e moderna la parola “religione” è riuscita a fare rima anche con “rea-
La rivoluzione economica, iniziata già negli anni Ottanta, con l’esecutivo islamico moderato di Erdogan ha trovato il suo pieno compimento. Si tratta del fenomeno delle tigri anatoliche 12
lity”. A settembre infatti il Paese della Mezzaluna ha ospitato “Tobvekarlar Yarisiyor”, che in turco suona come “pentiti in gara”, il primo reality religioso nella storia della televisione. Vi partecipavano concorrenti di quattro confessioni diverse, musulmani, ebrei, ortodossi e buddisti, e vinceva chi riusciva a convertire più miscredenti, il cui grado di ateismo era stato prima accertato da una commissione appositamente incaricata. Il premio consisteva in un pellegrinaggio nel luogo simbolo della propria fede e anche se il reality non riguardava solo musulmani la polemica è stata enorme, soprattutto da parte di chi accusa il sistema televisivo turco di dedicare sempre più spazio alla sfera religiosa. Il provvedimento più celebre per dimostrare il tentativo di islamizzare il paese da parte di Erdogan e del suo esecutivo, è la legge sulla liberalizzazione del velo islamico nelle università, che è stata bocciata solo all’ultimo momento, nel giugno 2008, dalla Anayasa Mahkemesi, la Corte Costituzionale, perché contro i principi della legge madre dello Stato turco. Il provvedimento era stato approvato a larga maggioranza dal parlamento nel febbraio dello stesso anno. Il premier aveva potuto contare non solo sui voti del suo partito ma anche su quelli curdi e quelli del Mhp, il Partito nazionalista, che per l’occasione aveva tradito la sua impronta tendenzialmente laica. La legge aveva spaccato il Paese in due. Studenti e cittadini scendevano in piazza a giorni alterni per manifestare ora pro ora contro il provvedimento. In sostanza si permetteva alle studentesse velate di entrare in ateneo a patto che si trattasse del türban, il velo islamico della tradizione turca, e non altri indumenti più restrittivi come il chador o il burqa. La sentenza della corte Corte Costituzionale ha eliminato il problema ma, paradossalmente, dall’altra parte, ne ha creato un altro. In Turchia, infatti, a furia di vietare il velo in alcuni luoghi, stanno sorgendo strutture interamente dedicate a musulmani devoti, indice ben più di una semplice legge, del clima che si sta venendo a creare nel paese della Mezzaluna.
dossier Ne sa qualcosa la provincia di Antalya, da sempre capitale delle vacanze turche, che in pochi anni si è ritrovata centro del turismo cosiddetto haremliselamlik, ossia per musulmani ortodossi. In queste strutture tutte le aree sono separate fra uomini e donne e, con poca fantasia, non è ammesso il consumo di bevande alcoliche. Molti alberghi hanno anche la moschea o la sala da preghiera, in modo tale da non rinunciarvi nemmeno in vacanza. Fino a questo momento i principali utenti sono stati i clienti provenienti dai paesi arabi, soprattutto quelli del Golfo Persico. Ma per il clima che si sta venendo a creare nel paese in molti temono che presto a prenotare potrebbero essere anche molti turchi. Intanto si accontentano delle piscine. In un’estate in cui in Italia è infuriata la polemica del burkini, in Turchia è successa la stessa cosa, con la differenza che il costume che copre interamente testa e corpo, nella Mezzaluna si chiama haslema ed è stato vietato dalle piscine pubbliche per motivi apertamente ideologici, con la diretta conseguenza che sono nati impianti apposta per ospitarle, a rimarcare che il fenomeno non si può più contenere e che adesso il Paese rischia di spaccarsi in due anche nella vita quotidiana. L’islamizzazione dei costumi in realtà ha contagiato anche parecchie tavole, alcune anche piuttosto rinomate. Ne sanno qualcosa alcuni ristoranti nella parte asiatica della moderna e cosmopolita Istanbul, che sorgevano in edifici di proprietà del comune e che hanno cessato di vendere alcol quando il governo cittadino è passato nelle mani dell’Akp. Uno degli aspetti meno noti della politica di Recep Tayyip Erdogan è la rivoluzione economica, iniziata già negli anni Ottanta, ma che con l’esecutivo islamico-moderato ha trovato il suo pieno compimento. Si tratta del fenomeno delle “tigri anatoliche”, piccole-medie imprese che si sono sviluppate soprattutto nella zona di Kayseri, Konya, Adana, Mersin e che sono condotte da persone molto religiose. Rappresentano la parte più consistente dell’elettorato di Recep Tayyip Erdogan e 13
Risk una delle manifestazioni sociali turche più interessanti degli ultimi 20 anni, che però inquietano gli addetti ai lavori. Molti osservatori internazionali per loro hanno coniato l’espressione di “calvinismo islamico”. Devoti alle finanze e al Corano, osservano le cinque preghiere rituali e, almeno fino a prima della crisi, sono state le grandi protagoniste della crescita che la Turchia ha fatto segnare negli ultimi 5 anni. Il modello liberista instaurato dal premier, accompagnato a un orientamento politico comunque conservatore, ha determinato anche lo sviluppo delle cosiddette banche dal capitale verde, che non applicano tassi sul conto corrente e dove convogliano i soldi delle persone più religiose del paese. Il più noto dei banchieri verdi, Adnan Büyükdeniz, nel 2006 era stato imposto proprio da Erdogan come governatore della Banca Centrale turca, l’istituzione economica più importante del Paese.
L’unico motivo per cui non ha ottenuto l’in-
carico è stata la ferma opposizione dell’allora Capo di Stato Ahmet Necdet Sezer, di orientamento ultralaico. Adesso che alla presidenza della Repubblica c’è Abdullah Gül, come il premier ex militante islamico, nessuno sa cosa potrà accadere la prossima volta. Nonostante tutto quello che è stato descritto fino a questo momento, una parte del Paese e gran parte della stampa internazionale continua a giudicare Recep Tayyip Erdogan l’unica alternativa praticabile in Turchia. Questo, di fondo, a causa della mancanza di un’opposizione reale, che metta in campo un programma in grado di contrastare quello del premier. L’arco parlamentare contro Erdogan è rappresentato sostanzialmente dal Chp, il Partito repubblicano del Popolo, guidato da Deniz Baykal, 70 anni e ormai incapace di rappresentare un’alternativa a un premier che ha comunque dato vita a un nuovo modo di fare politica. Non solo. Senza esagerare si può definire la politica del Chp ferma nel tempo e solo sulla carta filo europea. Il partito, fondato niente meno
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che da Mustafa Kemal Atatürk, che dovrebbe incarnare più di ogni altro valori progressisti e atteggiamenti di apertura, è solo sulla carta il più filo europeo, nella pratica è dominato da posizioni ancora troppo conservatrici su questioni che riguardano da vicino valori europei come la libertà d’espressione in riferimento all’oltraggio all’identità nazionale, le questioni curda e armena e anche il ruolo che i militari dovrebbero ricoprire nella vita civile dello Stato. L’unico valore che portano avanti con incessante vigore è la laicità dello Stato, che, non a torto, vedono minacciata dall’Akp. Una volta Recep Tayyip Erdogan in un comizio disse che il concetto di kemalismo nel Paese andava cambiato. Nella sostanza aveva ragione, il problema è che lui non appare l’elemento più indicato per farlo e dall’altra parte non c’è nulla che possa arrogarsi questo compito. Ma rimane l’unico sulla carta capace di proporre qualcosa di concreto per il futuro del Paese. I rettori nominati dal nuovo presidente della Conferenza sono anche quelli che stanno lavorando per istituire facoltà di lingua armena e di lingua curda. Con Erevan è stato siglato un protocollo che dovrebbe portare alla normalizzazione dei confini fra i due paesi. Il governo sta studiando una road-map per dare nuovi riconoscimenti all’etnia curda, vittima per anni di violenze. Durante il secondo mandato Erdogan vedrà la luce la nuova Costituzione, che andrà a sostituire quella attuale, figlia del golpe militare del 1980, renderà il Paese più democratico e completamente in linea con gli standard previsti da Bruxelles. Tutte cose portate avanti, in certi casi anche coraggiosamente, dal leader islamico moderato. Sul paese rimangono nubi dense, prima fra tutte il grado di coinvolgimento dell’Akp con i movimenti politici del resto del mondo musulmano, i tentativi di censura operati sulla stampa e capire quali siano le vere intenzioni di Recep Tayyip Erdogan. Ma questo è, o almeno dovrebbe essere, compito di Bruxelles.
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PARLA IL MINISTRO DEGLI ESTERI DAVUTOGLU, CHE LANCIA UN MESSAGGIO ALL’OCCIDENTE
«A BRUXELLES PER COMANDARE» COLLOQUIO CON
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AHMET DAVUTOGLU DI ALVISE ARMELLINI
pochi giorni dalla presentazione del rapporto annuale della Commissione europea il ministro degli Esteri turco Ahmet Davutoglu si è presentato a Bruxelles rivendicando il ruolo di potenza regionale del suo Paese, capace di tessere rapporti con Russia e Iran così come con Israele e Stati Uniti. E per lanciare un messaggio ad un’Eu-
• ropa sempre più turcoscettica: con la sua integrazione l’Unione Europea potrebbe compiere il salto di qualità, acquistando finalmente la credibilità necessaria per affrontare le grandi questioni internazionali. «Non appena la Turchia sarà entrata nell’Ue, l’Ue diventerà la più importante potenza mondiale per risolvere tutti questi problemi», assicura Davutoglu, riferendosi al conflitto mediorientale, alle tensioni nel Caucaso e al nodo Afghanistan-Pakistan. Di fronte ad una platea ristretta di giornalisti europei, a cui Risk ha partecipato venerdì scorso, il “Kissinger turco” ha spiegato che Ankara sta lavorando per portare in dote ai Ventisette la stabilizzazione del Caucaso e si offre come honest broker per rilanciare il processo di pace in Medio Oriente e riavvicinare l’Iran all’Occidente. Ma sulla partita nucleare il ministro ha lanciato un avvertimento: bisogna lasciare spazio alla diplomazia, appena ripresa con l’incontro a Ginevra tra il “5+1” e i rappresentanti di Teheran, lasciando da parte le minacce di nuove sanzioni. La spina nel fianco resta la questione cipriota, che potrebbe portare ad un nuovo intoppo nella marcia di avvicinamento verso Bruxelles.
A dicembre i leader dell’Ue dovranno verificare il rispetto del cosiddetto “Protocollo di Ankara”, che vi obbliga ad aprire i vostri porti e aeroporti alla Repubblica di Cipro. Vi adeguerete, sapendo che altrimenti rischiate un ulteriore congelamento dei negoziati di adesione? Purtroppo molti pensano che l’unico problema è l’apertura dei porti. Il vero problema è la Repubblica di Cipro, ammessa nell’Ue senza aver risolto i propri problemi territoriali e di vicinato, violando uno dei chiari principi del processo di adesione. Nessuno dovrebbe dimenticare quanto è successo nel 2004 (quando i greco-ciprioti entrarono in Europa pur avendo bocciato il piano di riunificazione Annan, lasciando al palo i turco-ciprioti che lo avevano accettato, ndr). Nessuno può pretendere che l’unico problema siano i porti: se nel 2004 i greco-ciprioti avessero detto “sì”, oggi non esisterebbe. Le promesse non sono state rispettate. E gli obblighi dell’Ue nei confronti dei turcociprioti sono importanti almeno tanto quanto quelli della Turchia nei confronti dei greco-ciprioti: erano stati promessi aiuti economici e la fine del loro iso15
Risk ressi strategici dell’Ue? In ogni caso, sono ottimista. Perché in Europa ci sono molte persone che hanno capito molto meglio chi vuole davvero la pace e chi no. Lei si dichiara ottimista sulla ripresa dei negoziati tra l’Iran e le potenze occidentali, allude alla possibilità di coinvolgere Teheran negli sforzi di stabilizzazione in Afghanistan e Pakistan, dove presto si recherà in visita il suo primo ministro Recep Tayyip Erdogan, e ricorda l’importanza delle risorse iraniani per i progetti europei sulla sicurezza energetica, a partire dal gasdotto Nabucco. Ma la recente lamento commerciale, ma tutto è rimasto bloccato. scoperta di nuovo sito di arricchimento delQuindi per noi è impossibile riconoscere i grecol’uranio a Qom ha riacceso le tensioni con ciprioti senza risolvere la questione cipriota. Israele. Qual è il suo giudizio sulla pericoloTuttavia, una strada per disinnescare la sità del regime degli Ayatollah? “bomba cipriota” forse c’è. Per esempio, la Siamo fiduciosi, siamo più ottimisti di prima, anche proposta di compromesso che avevate venti- se avremmo preferito che l’incontro con il 5+1 lato nel 2006, l’ultima volta che l’Ue affrontò fosse avvenuto prima dell’Assemblea generale il nodo del Protocollo di Ankara: allora si dell’Onu. Ma Teheran ha preferito aspettare. Ci parlò dell’apertura provvisoria di un porto stiamo impegnando molto nell’appianare le tensioturco in cambio dell’apertura del porto ni tra Iran e Occidente non solo perché l’Iran è un turco-cipriota di Famagosta... nostro vicino, ma anche per via della questione Negli ultimi sette anni la Turchia è stata l’unica a energetica: abbiamo bisogno che l’Iran torni sul compiere dei gesti di riconciliazione. Se nel frat- mercato dell’energia. E ci stiamo impegnando a tempo avessimo visto solo un gesto di risposta da fondo affinché non si arrivi a nuove sanzioni: prima parte dei greco-ciprioti nei confronti della Turchia di tutto perché non funzionano - come dimostra adesso saremmo più disponibili. Ma ora abbiamo l’esempio di quelle contro l’Iraq di Saddam perso la fiducia: chi ci garantisce che ad un passo Hussein negli anni ’90. Ma anche perché non da parte nostra ne seguirà uno da parte dei greco- vogliamo che il gas iraniano finisca in Cina invece ciprioti? Il fatto è che i turco-ciprioti sono conside- che nel gasdotto Nabucco. rati una specie sub-umana, a cui è negato il diritto Ma quali sono le “linee rosse” della Turchia di viaggiare e alla cultura, mentre i greco-ciprioti sul nucleare iraniano? sono una specie super-umana a cui è consentito dire Noi difendiamo alcuni principi. Primo, il diritto di “no” senza essere mai puniti. Quando arriverà il d’accesso alla tecnologia nucleare pacifica, che momento in cui l’Ue dirà basta: o accettate questo deve essere accessibile a tutti i Paesi e non monopiano di pace o dovete smettere di bloccare gli inte- polio solo di alcuni. Se c’è un progetto pacifico, in
«Quando faremo parte dell’Unione non ci limiteremo ad applicare passivamente le sue decisioni, ma faremo parte del processo decisionale. E non credo che saremo costretti a seguire quello che gli altri Paesi decideranno per noi: i meccanismi di democrazia interna dell’Ue funzionano molto bene e intendiamo sfruttarli, soprattutto per il Medioriente»
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dossier coordinamento con l’Aiea, non c’è motivo di impedire all’Iran di svilupparlo. Secondo, la Turchia non vuole alcun sistema di armi nucleari nella sua regione, né in Iran, né in Israele, né in Siria, né in Egitto, né in alcun altro Paese. Vogliamo un Medio Oriente senza armi nucleari. Noi non le vogliamo, e gli iraniani dicono non volerle nemmeno loro. Come verificarlo? C’é un’organizzazione atta a questo, l’Aiea, lasciamo che lavori. Terzo, dovremmo prediligere sempre la diplomazia e non le sanzioni, perché queste puniscono non solo il paese interessato, ma anche i suoi vicini. La Turchia, per esempio, è stato il Paese maggiormente colpito dalle sanzioni contro l’Iraq. Se le sanzioni non possono essere uno strumento negoziale con Teheran, con quali strumenti si può indurre il regime iraniano a scendere a patti con l’Occidente? Non ho detto che le sanzioni non possono essere uno strumento, ma che prima dobbiamo usare la diplomazia. Dobbiamo concentrarci sul dialogo, non sulle sanzioni. Se fosse necessario, se ne potrebbe parlare soltanto dopo il fallimento dei tentativi diplomatici. Ma ora che la diplomazia è in corso, perché parlare di sanzioni? Lei insiste molto sul profilo internazionale della Turchia, sottolineando il contributo determinante del suo Paese alle mediazioni svolte dall’Ue per mettere fine alla guerra di Gaza nel dicembre scorso, l’impegno nei negoziati indiretti tra Siria e Israele, gli sforzi di rappacificazione con l’Armenia, il ruolo di pontiere con l’Iran, e la fitta rete di rapporti con il mondo arabo, asiatico e africano. State costruendo una vostra sfera autonoma di influenza internazionale? No, noi non vogliamo costruire alcuna alternativa all’Unione europea: abbiamo un grande potenziale di sinergie tra la nostra politica estera e quella dell’Ue. Ma se non c’è coordinamento o se l’Ue ignora gli interessi della Turchia, questo potenziale andrà sprecato. Al momento collaboriamo bene sul
Medio Oriente e sui Balcani, dobbiamo farlo anche su altri fronti. Tuttavia, non temete di perdere la vostra autonomia in politica estera entrando nell’Unione? Dall’interno dell’Europa, per esempio, difficilmente avreste potuto congratularvi con Ahmadinejad come avete fatto dopo la sua vittoria contestata alle elezioni di giugno... Quando faremo parte dell’Unione non ci limiteremo ad applicare passivamente le sue decisioni, ma faremo parte del processo decisionale. E non credo che saremo costretti a seguire quello che gli altri Paesi decideranno per noi: i meccanismi di democrazia interna dell’Ue funzionano molto bene, e intendiamo sfruttarli. Per esempio, avremo un ruolo di primo piano sul Medio Oriente, perché è la zona che conosciamo meglio. E non pensi soltanto alle congratulazioni che abbiamo mandato ad Ahmadinejad, ma anche alla mediazione tra Siria e Israele: è un esempio di quanto di buono la Turchia può portare all’Unione europea. Saremo al centro dell’Ue: Ankara rimarrà ad Est, ma la Turchia sarà a Bruxelles. All’ultimo summit della Nato, la Turchia aveva espresso forti riserve sulla nomina del danese Anders Fogh Rasmussen a Segretario generale, evocando la questione delle vignette su Maometto non censurate dalla Danimarca e la mancata chiusura da parte del governo di Copenhagen dell’emittente Roj tv, da voi accusata di essere legata ai terroristi curdi del Pkk. Ora che Rasmussen è in sella da un paio di mesi, i vostri dubbi sono stati dissipati? E avete ottenuto quello che volevate dalla Danimarca? Non avevamo nulla di personale contro la Danimarca o contro Rasmussen, che è un amico personale del nostro primo ministro. I nostri dubbi erano legati a questioni di metodo e di merito. Di metodo, perché la Nato è un organizzazione basatasul consenso come l’Ue, e quindi tutti i Paesi 17
Risk dovrebbero essere consultati prima di prendere una decisione. E noi non eravamo stati consultati correttamente, nonostante la Turchia sia uno dei più grandi Paesi della Nato e sia stata un alleato fedele durante i lunghi anni della Guerra Fredda. Di merito, perché malgrado Rasmussen a noi piaccia, l’80-90 percento delle missioni Nato si svolge in territori musulmani, e l’aspetto psicologico delle operazioni è importante almeno quanto quello militare. Quindi è necessario sviluppare buoni canali di comunicazione per evitare i malumori legati alla “crisi delle vignette” in Paesi come l’Afghanistan. Eravamo perfino stati contattati da un grande paese musulmano - non voglio dire quale - per cercare un altro candidato. Per questo abbiamo avviato delle consultazioni e concordato alcuni passi dopo la nomina di Rasmussen, che lui ha svolto diligentemente. Ora non ci sono problemi, lui è il nostro Segretario generale. E per quanto riguarda la Danimarca, ora sono più cooperativi. Il 14 ottobre la Commissione ha pubblicato il rapporto annuale sui progressi della Turchia verso l’Ue, e una delle questioni all’ordine del giorno è il rispetto della libertà di stampa, alla luce della multa miliardaria per evasione fiscale inflitta al gruppo Dogan, proprietario di quotidiani critici nei confronti del governo Erdogan. Come risponde a queste preoccupazioni? Non è un problema di trattamento dei media, ovvero di libertà di espressione, ma di pagamento delle tasse, cioè di tutela dello Stato di diritto. La libertà di stampa è un principio sacro, ma il gruppo Dogan non è soltanto un gruppo editoriale. E l’anno scorso ha già patteggiato un’ammenda per evasione fiscale. Inoltre questa inchiesta non è un caso isolato: ce ne sono molti altre che riguardano altre aziende. Infine la vertenza non è ancora conclusa, e il gruppo Dogan può rivolgersi a un Tribunale per contestarla, visto che la Turchia è uno Stato di diritto. Per noi è una questione tecnica e non politica, e speriamo che rimanga tale. 18
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NEL 2015, CON 90 MILIONI DI ABITANTI, SAREBBE IL PAESE PIÙ POPOLATO DELLA UE
L’INGRESSO IN EUROPA: BENEFICIO O CATASTROFE? ROBERTO DE MATTEI
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e istituzioni europee, Commissione e Consiglio, hanno sempre ritenuto che il problema dell’identità europea non dovesse essere il primo, ma l’ultimo da risolvere: o meglio che si sarebbe risolto spontaneamente, grazie all’integrazione economica e istituzionale. In realtà il passaggio dalla dimensione economica alla dimensione politica dell’Europa compor-
• ta una ineludibile condizione: quella di definire le radici storiche e i confini geografici dell’Europa. Sappiamo che sul piano strettamente geografico l’identità del nostro continente è debole. Su di un planisfero, l’Europa appare innegabilmente come una propaggine del continente asiatico. Le frontiere d’Europa sono solo secondariamente geografiche o etno-linguistiche: il limes europeo delimita non tanto un confine geografico, quanto uno spazio culturale caratterizzato da una diversità di apporti e di identità. L’Europa è uno spazio geografico che evoca una memoria storica. Le frontiere dell’Europa passano dove la storia incontra la geografia. «La storia da sola la renderebbe troppo piccola, la geografia da sola, troppo grande - scrive Elie Bernavi. - È la combinazione della geografia e delle storia che fa l’Europa». I confini sono, nello spazio, ciò che le radici sono nel tempo. Le radici, prima di essere etniche o biologiche, sono storiche e spirituali: allo stesso modo i confini, prima di essere fisici e geografici, sono politici e culturali. I confini delimitano un territorio che ospita una cultura e una tradizione comune. La definizione dei confini dell’Europa è altrettanto importante della definizione delle radici.
È sotto questo aspetto che va considerato il problema, di enorme rilevanza, dell’adesione della Turchia all’Unione Europea. Sappiamo che sul piano geografico solo una piccola parte della Turchia fa parte dell’Europa. Sul piano storico, solo una limitata parte della sua storia può essere ricondotta all’Europa. Di fatto, l’Europa ha definito per secoli la propria identità combattendo contro l’Impero Ottomano, di cui la Turchia è erede e ancora oggi la Turchia, pur nella sua identità multipla, continua ad essere un paese profondamente estraneo all’Europa e al Cristianesimo. È vero che, dopo la prima guerra mondiale, sulle rovine dell’Impero ottomano si è instaurata una Repubblica di impronta fortemente laicista, guidata dal generale Mustafa Kemal, che nel 1934 ha ricevuto il titolo di Ataturk, “padre dei turchi”. Ed è vero che il processo di secolarizzazione del paese avviato da Ataturk con il nome di kemalismo è continuato, dopo la sua morte, sotto il pugno di ferro dei militari. È anche vero però che, partire dagli anni Settanta, sotto l’influsso dei Fratelli Musulmani, ha avuto inizio un processo di re-islamizzazione della Turchia, culminato nel 2002 con l’ascesa al governo dell’attuale premier Recep 19
Risk Tayyp Erdogan. La Turchia, presunto paese del laicismo, è oggi uno dei paesi dove si costruiscono più moschee e dove i partiti islamici registrano i maggiori successi elettorali. Nel paese sono 90mila gli imam stipendiati dallo Stato e 85mila le moschee attive, il più alto numero pro-capite di moschee nel mondo. Erdogan è cresciuto politicamente nel Refah Partisi di Erbakan, dove si distinse per le sue accese posizioni islamiste. Nel 1995, appena divenuto sindaco di Instanbul, propose di gemellare Istanbul alla Mecca e di finanziare i viaggi municipali alla Mecca e a Medina per «riconciliare il paese di Atatürk con l’Islam».
Nel 1996, ancora sindaco, organizzò una grande riunione islamica a Istanbul sul tema della necessità, per i musulmani, di creare un “mercato comune islamico” e una “Onu islamica” non assoggettati agli occidentali. Il 28 giugno 1998 fu condannato a 10 mesi di prigione e privato dei diritti civili, in base all’articolo 312 del codice penale turco, per “incitamento all’odio religioso”, dopo aver pubblicamente declamato, nel dicembre precedente, i versi del poeta Ziya Gökalp, che recitano: «I minareti sono le nostre baionette, le cupole i nostri elmetti, le moschee le nostre caserme e i credenti i nostri sol-
La Turchia è oggi uno dei paesi dove si costruiscono più moschee e dove i partiti islamici registrano i maggiori successi elettorali. Sono 90mila gli imam stipendiati dallo Stato e 85mila le moschee, il più alto numero pro-capite nel mondo 20
dati». La detenzione nelle carceri turche e il fallimento del partito Refah fecero comprendere ad Erdogan che la strada da seguire avrebbe dovuto essere diversa. Erdogan creò dunque un nuovo partito, l’Akp (“Giustizia e Sviluppo”) che, nel 2002, ottenne la maggioranza relativa dei voti (34,2%) e la maggioranza assoluta dei seggi parlamentari (363 su 550). Immediatamente dopo la sua vittoria, egli cercò di assicurarsi l’appoggio dell’Occidente, inviando messaggi rassicuranti agli Stati Uniti e all’Europa e annunciando di voler «accelerare la candidatura della Turchia nell’integrazione europea». La strategia di Erdogan era chiara. Per evitare quanto era accaduto nel 1997, quando l’esercito aveva costretto Erbakan alle dimissioni, occorreva indebolire il potere delle forze armate, e solo la pressione dell’Unione Europea era in grado di farlo. Da qui la richiesta di adesione all’Unione Europea e il successivo avvio dei negoziati, nel 2004. La Turchia odierna vive un’insanabile contraddizione. L’Unione Europea richiede, come condizione per il suo ingresso nelle istituzioni comunitarie, l’allineamento ai “criteri di Copenaghen” e agli “standard democratici” occidentali violati dall’arbitrio di potere dei militari; ma la ragione per cui oggi la Turchia non è un Paese totalmente islamico è proprio il fatto che l’esercito si fa garante del suo secolarismo. L’unico freno alla islamizzazione viene dalla nomenklatura militare, fedele all’eredità kemalista. Se la coercizione dell’esercito venisse meno, cadrebbe l’unico argine contro il fondamentalismo. I fautori dell’entrata della Turchia nell’Unione Europea sostengono che la Turchia sarebbe un alleato naturale dell’Occidente contro l’islamismo. Ma nella misura in cui la Turchia si democratizza è destinata ad abbandonare il secolarismo. L’Unione Europea avrebbe tra i suoi Stati membri un paese pienamente islamico, proprio grazie al rispetto delle regole democratiche, che in Turchia porterebbero rapidamente al potere il fondamentalismo. L’interesse di Erdogan sembra proprio quello di servirsi dell’Unione Europea per poter smantellare il potere dei
dossier militari e permettere alla Turchia di ritrovare la sua identità islamica, cancellata da Atatürk. Recep Tayyip Erdogan e Abdullah Gül assicurano di non essere islamisti e di riconoscersi sia nel kemalismo che nell’Unione Europea, ma è inquietante il fatto che pretendano che le loro mogli e sorelle indossino il velo. In realtà, il velo, prescritto dalla shari’a, è divenuto non solo una bandiera identitaria dell’Akp, ma il simbolo politico dei musulmani radicali in Europa. La grande rilevanza del fenomeno deriva dal fatto che esso travalica i confini della Turchia e dello stesso mondo islamico. Bassam Tibi osserva come nei grandi centri urbani della Turchia non si vedono tante donne velate quante se ne vedono in Germania, o in altri paesi europei. In Europa, il velo è un confine ideologico che proclama l’esistenza di una invalicabile cortina di separazione tra la società islamica e quella occidentale, un simbolo di lotta brandito in nome del rifiuto dell’integrazione. La disputa sul velo che ha investito la Turchia a partire dagli anni Ottanta ha dunque implicazioni più ampie della semplice discussione su un capo di vestiario. Gli islamisti turchi, prima di chiedere l’ingresso in Europa, l’hanno duramente avversata, definendo la Comunità europea come un «club di cristiani che vuole dettare la sua politica alla Turchia». Oggi questa espressione, coniata dagli islamisti antieuropei, è fatta propria dagli europeisti filo-turchi, che affermano che l’Europa deve aprirsi alla Turchia, cessando di essere un “club cristiano”. In realtà ventisette Stati europei fanno parte di un “club”, l’Unione Europea, che ha deliberatamente rimosso ogni accenno al Cristianesimo dalla sua carta fondativa. La Turchia fa invece parte di un “club” rigorosamente islamico, l’Oci, che raccoglie 57 Paesi di religione musulmana, uniti dalla consapevolezza di appartenere ad un’unica Umma. Il fine dell’Oci è difendere l’identità islamica dei musulmani che vivono in qualsiasi parte del mondo, compresa l’Europa: quel’Europa che ha rinunciato ad esprimere un sia pur generico richiamo alla propria identità cristiana. La rinuncia al richiamo alle radici cri-
stiane nel Trattato di Lisbona è una significativa espressione della “identità debole” dell’Europa. La Repubblica turca presenta invece una identità politico-religiosa estremamente forte e la sua richiesta di ingresso nella Ue non è stata avanzata per rinunziare a tale identità o diluirla, ma anzi per imporla nel continente europeo. Con o senza Erdogan, la Turchia postkemalista si affermerebbe come il paese leader del mondo islamico all’interno dell’Unione Europea, dove giocherebbe un ruolo da protagonista. Il Progetto di Trattato costituzionale attribuisce infatti agli Stati europei un peso politico proporzionale a quello demografico. Nel 2015 la Turchia, con 90 milioni di abitanti, sarebbe il paese più popolato dell’Unione Europea e quello che avrebbe il maggior numero di parlamentari. Attorno alla Turchia si coagulerebbero i musulmani, non solo turchi, di tutta Europa. È facile immaginare la creazione di un partito transnazionale islamico che potrebbe affermarsi come il primo partito europeo e pretendere la guida del Vecchio Continente e avrebbe tra i suoi stati membri un paese pienamente islamico, proprio grazie al rispetto delle regole democratiche, che in Turchia porterebbero rapidamente al potere il fondamentalismo. La Repubblica turca potrebbe rivendicare il diritto a guidare il Parlamento e la commissione europea, e dall’alto di questo ruolo, pretendere l’adozione di misure repressive contro ogni forma di “islamofobia”, favorendo cosi la trasformazione nel continente europeo nella “Eurabia” prevista dalla voce solitaria di Oriana Fallaci.
L’espansione islamica
verso l’Europa ha seguito nel corso della storia due grandi direzioni ed è stata condotta da due popoli diversi: gli arabi da Sud Ovest e i turchi da Sud Est. Gli arabi, dopo aver conquistato il Nord-Africa, invaso la Spagna e oltrepassato i Pirenei, furono fermati da Carlo Martello a Poitiers nel 732. Da allora essi arretrarono progressivamente, per essere definitivamente espulsi dalla penisola iberica nel 1492. I turchi, dopo aver sog21
dossier giogato l’Impero bizantino e parte di quello asburgico, furono fermati a Vienna nel 1683. Anche in questo caso la sconfitta militare dell’Islam fu un punto di svolta che portò a una progressiva perdita di territori nell’Europa centrale. L’offensiva musulmana nei confronti dell’Europa segue oggi le due stesse linee direttive. A Sud Ovest, attraverso la creazione dell’“Eurabia”: un’area di osmosi socio-economica e di ibridazione culturale, che dovrebbe unificare i paesi del Nord Africa (Maghreb e Mashrek) con quelli dell’Europa meridionale. A Sud Est, il fronte di attacco è l’ingresso della Turchia nell’Unione Europea: una mossa politica che oltre ad aprire le porte a una inarrestabile migrazione musulmana in Europa, rovescerebbe i rapporti di forza all’interno delle istituzioni comunitarie. In entrambi i casi, le conseguenze geopolitiche sarebbero di dirompente portata.
Al centro della civiltà islamica, fin dalle sue
origini, sta il concetto di Jihad, o “guerra santa”, la dottrina giuridico-teologica che impone ad ogni musulmano il dovere di combattere per difendere e diffondere l’Islam in tutto il mondo. Questa dottrina distingue il dar-al-Islam, o “territorio dell’Islam”, in cui regna la religione islamica, dal dar-al-harb, il territorio popolato dagli infedeli, contro il quale la guerra è obbligatoria finché essi rifiuteranno di riconoscere la sovranità dell’Islam, che nel suo senso originario significa “sottomissione”. Coloro che invece accettano la conquista musulmana sono riconosciuti come dhimmi, o zimmi, infedeli “protetti” dalla dhimma, un trattato di resa che subordina la protezione alla scelta di sottomettersi al dominio islamico. L’Europa, popolata dagli “infedeli” è “Casa della Guerra” per eccellenza. Ogni europeo, fino a che non si converta all’Islam o accetti la condizione di dhimmi, è considerato un harbi, un nemico dell’Islam. La categoria di “islamofobia” comprende gli harbi, ovvero tutti coloro che rifiutano l’alternativa tra la conversione all’Islam e la dhimmitudine. In Europa, i territori un tempo occupati da
musulmani sono considerati per sempre proprietà dell’Islam. La Spagna, ad esempio, conquistata per alcuni secoli dall’Islam, è considerata come un territorio islamico chiamato Andalus, che i musulmani hanno il dovere di riconquistare. Altrettanto può dirsi per la città di Gerusalemme. I musulmani non accettano che in un territorio dove gli ebrei furono, come i cristiani, dhimmi, essi oggi dominino sui musulmani. La conquista o riconquista dei territori europei avviene anche attraverso l’immigrazione. L’egira, o migrazione, che prende il nome dalla prima “migrazione” di Maometto dalla Mecca a Medina, è infatti, nell’Islam, una forma di Jihad, il nome dello “sforzo” condotto per impiantare l’Islam universale. Nella dottrina islamica, come ricorda Bassam Tibi, Jihad ed Egira sono due concetti complementari. In arabo, migrazione si traduce come Egira, un termine che non ha solo un significato di spostamento fisico o geografico, ma ha una portata religiosa. Dalla “migrazione” di Maometto, dalla Mecca a Medina, nell’anno 622 d.C., ha inizio il calendario dell’Egira, il primo anno della cronologia islamica. Da allora il termine di Egira è legato a quello dell’espansione dell’Islam nel mondo. L’Egira non è solo lo spostamento di un individuo o di un gruppo di individui da un luogo all’altro, ma il dovere missionario di diffondere l’Islam che all’interno di una nazione non musulmana può essere attuato con la violenza o con mezzi pacifici, come la propaganda (da’wah). Il Corano, nella Sura 8:72, ricorda «coloro che credono e adottano l’immigrazione e combattono per l’Islam con i loro beni e le loro persone per la causa di Allah». La dottrina dell’Egira equivale a una espansione in Europa del dar al-Islam e coincide con quello che Bat Ye’or definisce il soft-jihad, una guerra culturale diversa dall’hard-jihad, la guerra militare islamica. Si può anche distinguere tra un islamismo “gramsciano” e un islamismo “leninista”. L’islamismo leninista è quello dei musulmani che vogliono conquistare l’Europa attraverso gli strumenti della guerra e del terrorismo. Islamismo “gramsciano” può essere 23
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Dalla “migrazione” di Maometto, dalla Mecca a Medina, nell’anno 622 d.C., ha inizio il calendario dell’Egira, il primo anno della cronologia islamica. L’Egira non è solo lo spostamento di un individuo o di un gruppo ma il dovere missionario di diffondere l’Islam definito quello dei musulmani “moderati”, che vogliono giungere alla stessa meta con la prevalenza demografica, l’islamizzazione degli spazi sociali e l’introduzione del diritto islamico nelle istituzioni occidentali. Esso si esprime anche attraverso l’intimidazione e le minacce rivolte all’interno delle comunità islamiche e nei confronti di chi critica anche solo alcuni aspetti dell’Islam. L’islamo-gramscismo, o “soft-jihad”, è stato teorizzato fin dal 1974 nella II Conferenza islamica di Lahore, quando l’allora segretario generale della Conferenza islamica, Muhammad Hasan ‘al-Tuhami, propose di creare in tutto il mondo centri culturali e università per propagare l’Islam attraverso dibattiti, incontri, conferenze, pubblicazioni. Questa attività si è sviluppata sotto l’egida dei Fratelli Musulmani che hanno creato in tutta Europa centri culturali e banche islamiche per finanziare le attività della da’wah. Se il leninismo islamico è quello di Osama Bin Laden e degli “jihadisti”, l’islamo-grasmscismo è ben rappresentato dall’azione dei Fratelli Musulmani e di personaggi come Tariq Ramadan nipote del loro fondatore Hassan al-Banna. Ricostruendo il pensiero del nonno, Tariq Ramadan ricorda che egli 24
«non nutre alcun dubbio sul fatto che l’Islam, prima o poi, rinascerà e la sua civiltà fornirà al mondo le soluzioni che oggi non riesce a trovare (…). La promessa del Corano, il risveglio dei popoli islamici, il declino dell’Occidente, la legge del tempo, tutto ci porta alla stessa conclusione: il futuro appartiene all’Islam». Nel sistema di conquista dei Fratelli Musulmani, le moschee hanno un ruolo centrale. L’associazione dei Fratelli Musulmani, ricorda Magdi Allam, «promuove l’islamizzazione della società a partire dal basso, tramite il controllo delle moschee, dei centri culturali islamici, delle scuole coraniche, di enti caritatevoli e di istituti finanziari. La tattica perseguita è quella di dar vita gradualmente a uno Stato islamico in fieri all’interno dello Stato di diritto». Nell’Islam, privo di specifico sacerdozio e dunque di vero culto divino, la moschea ha la funzione di assemblea della comunità, di insegnamento coranico, di propaganda politica e culturale. Essa è il centro della diffusione della shari’a, la legge islamica. Lo Sceicco Yusuf al Qaradawi, in una fatwa del 29 ottobre 2001, ricorda che «da sempre la moschea ha avuto un ruolo nel jihad in nome di Allah, per combattere gli invasori, nemici di questa religione».
Non si intende negare la possibilità per la
Turchia di costituire per l’Europa un interlocutore privilegiato e un partner geopolitico. Ci domandiamo però se l’entrata della Turchia nell’Unione Europea, l’inserimento di novanta milioni di Turchi nelle strutture politiche e sociali europee, possa rappresentare un beneficio per l’Europa. Va aggiunto però che la responsabilità ultima di questa catastrofe non va addossata alla Turchia, che con coerenza ricerca e difende la propria identità, ma all’Europa, che sembra aver abdicato al proprio ruolo, rinnegando le proprie radici identitarie. È sorprendente, a questo proposito, come il “caso” della Turchia sia stato sempre assente dal dibattito politico dei parlamenti nazionali e del parlamento europeo. Non sba-
dossier glia chi ritiene che su di un tema così importante che tocca il futuro di ognuno di noi, sarebbe necessario un referendum popolare, a livello europeo o delle singole nazioni, per verificare che cosa i cittadini europei veramente pensano dell’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Ma l’opinione pubblica è sistematicamente estromessa da questo genere di dibattiti proprio per quella “dittatura del relativismo” che non ammette alternative all’ingresso della Turchia in Europa.
Papa Benedetto XVI, prima di essere eletto
pontefice, ha espresso il suo giudizio negativo sull’entrata della Turchia in Europa in due occasioni: un’intervista a Le Figaro Magazine del 13 agosto 2004 e un discorso del 18 settembre dello stesso anno alla diocesi di Velletri, di cui era titolare. In entrambi i casi ha precisato di esprimere un’opinione non della Santa Sede, ma sua personale. A Sophie de Ravinel, del Figaro Magazine, il cardinale Ratzinger ha dichiarato: «L’Europa è un continente culturale e non geografico. È la sua cultura che le dona un’identità comune. Le radici che hanno formato e permesso la formazione di questo continente sono quelle del cristianesimo. [...] In questo senso, la Turchia ha sempre rappresentato nel corso della storia un altro continente, in permanente contrasto con l’Europa. Ci sono state le guerre con l’impero bizantino, la caduta di Constantinopoli, le guerre balcaniche e la minaccia per Vienna e l’Austria. Penso quindi questo: sarebbe un errore identificare i due continenti. Significherebbe una perdita di ricchezza, la scomparsa della cultura in favore dei benefici in campo economico. La Turchia, che si considera uno stato laico, ma fondato sull’Islam, potrebbe tentare di dar vita a un continente culturale con alcuni paesi arabi vicini e divenire così la protagonista di una cultura che possieda la propria identità, ma che sia in comunione con i grandi valori umanisti che noi tutti dovremmo riconoscere. Questa idea non si oppone a forme di associazione e di collaborazio-
ne stretta e amichevole con l’Europa e permetterebbe il sorgere di una forza comune che si opponga a qualsiasi forma di fondamentalismo». Nel successivo discorso a Velletri, il cardinale Ratzinger ha affermato: «Storicamente e culturalmente la Turchia ha poco da spartire con l’Europa: perciò sarebbe un errore grande inglobarla nell’Unione Europea. Meglio sarebbe se la Turchia facesse da ponte tra Europa e mondo arabo oppure formasse un suo continente culturale insieme con esso. L’Europa non è un concetto geografico, ma culturale, formatosi in un percorso storico anche conflittuale imperniato sulla fede cristiana, ed è un fatto che l’Impero ottomano è sempre stato in contrapposizione con l’Europa. Anche se Kemal Atatürk negli anni Venti ha costruito una Turchia laica, essa resta il nucleo dell’antico Impero ottomano, ha un fondamento islamico e quindi è molto diversa dall’Europa che pure è un insieme di stati laici ma con fondamento cristiano, anche se oggi sembrano ingiustificatamente negarlo. Perciò l’ingresso della Turchia nell’Ue sarebbe antistorico». Non crediamo che il giudizio di Papa Benedetto XVI sia oggi diverso da quello del cardinale Josef Ratzinger, anche se nella sua visita in Turchia del 2006 il Pontefice, per evidenti ragioni diplomatiche, ha evitato di toccare questo delicato argomento. Il vero problema più che l’entrata della Turchia in Europa resta tuttavia l’adesione dell’Europa alla teoria e alla mentalità relativista. Bloccare l’adesione della Turchia all’Unione Europea e inserire un riferimento esplicito al Cristianesimo nel Trattato di Lisbona non significa certo restituire identità all’Europa. Potrebbe tuttavia rappresentare il sintomo di una inversione di rotta del continente europeo. Una manifestazione di questa scelta di campo potrebbe esprimersi in una maggiore attenzione prestata alla voce di Benedetto XVI che continua a offrire forti e inascoltati contributi di pensiero per comprendere la profonda crisi culturale e morale del nostro tempo. 25
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SIMBOLO DELLA LAICITÀ TURCA, DOPO L’AFFARE ERGENEKON, I MILITARI SONO PIÙ DEBOLI
GENERALI ADDIO, MA LE ARMI RESTANO DI •
L
ANDREA NATIVI
a Difesa e i generali sono da sempre cruciali in Turchia. Baluardo della laicità del paese e della eredità di Ataturk, i militari sono intervenuti almeno quattro volte in mezzo secolo per evitare la “minaccia” costituita da una deriva filoislamica tale da mettere a repentaglio i fondamenti della nuova Turchia. Ed oltre a colpi di stato, effettivi o solo pro-
• spettati, i militari sono stati anche costantemente coinvolti nella gestione del paese, evitando ogni tentativo di aggirare ciò che considerano principi da difendere ad ogni costo. E tutto ciò è avvenuto mentre le Forze Armate erano (e restano) impegnate in una guerra contro i guerriglieri curdi del Pkk, pericolo che si aggiunge al terrorismo interno-esterno, senza contare i motivi di tensione con i vicini, si trattasse di Iran, Iraq, Siria o ancora Armenia e, sul fronte occidentale, Grecia. Per anni Grecia e Turchia sono stati acerrimi avversari che più volte sono arrivati allo scontro diretto, mentre la spauracchio rappresentato dalla ex Unione Sovietica è stato a lungo presente, sia pure sempre meno grave ed imminente. Nondimeno la Turchia è stata ed è cruciale baluardo della Nato, sempre in prima linea, alla quale forniva un contributo importante in termini di basi, forze militari, a partire dal più consistente esercito tra quelli degli alleati europei. Un esercito basato sulla coscrizione obbligatoria, con consistenti obblighi di ferma, su una ferrea disciplina che includeva punizioni corporali e la pena di morte per chi si fosse macchiato di gravi reati. 26
Se mi è consentita l’eresia, vorrei iniziare questa analisi criticando la dabbenaggine europea che, in virtù di principi astratti sicuramente validissimi, sta in realtà offrendo la opportunità al governo Erdogan di attuare quella “normalizzazione” e ridimensionamento delle Forze Armate indispensabile per consentire una ulteriore accelerazione dell’islamizzazione del paese. In effetti, un passo alla volta, i generali stanno perdendo potere, in un confronto durissimo e combattuto senza esclusione di colpi. Ne è una prova evidente il famigerato processo Ergenekon, che coinvolge ambienti conservatori e alte sfere dell’establishment militare, oltre 150 imputati, colpevoli, secondo l’accusa, di aver ordito l’ennesimo complotto per rovesciare il governo legittimamente eletto. Il processo è un “arma” che viene brandita per tenere al loro posto i militari. Non solo, anche se l’attuale capo di stato maggiore della difesa, il generale Ilker Basbug è considerato un esponente dei “falchi” e un duro oppositore di ogni deriva filo-islamica, in realtà è stato costretto ad ingoiare più di un rospo nel confronto quotidiano con il governo e il partito di maggioranza Akp, che mantiene un saldissimo
dossier controllo sulle istituzioni politiche, a dispetto di qualche colpo a vuoto nel corso delle ultime elezioni amministrative. Non solo, le Forze Armate hanno anche dovuto rinunciare al processo di “purificazione”, che periodicamente portava all’allontanamento, al pensionamento forzato o quantomeno al blocco delle carriere di tutti gli ufficiali che si mostrassero men che rispettosi del credo laico. Queste “purghe” periodiche sembrano essere finite e oggi nei giochi di carriera diversi ufficiali tentano la carta della “moderazione” e della “comprensione” nei confronti della linea politica dell’Akp.
Le conseguenze di questo mutamento delle
regole lo si vedrà sempre più evidente a mano a mano che i nuovi ufficiali faranno carriera e acquisteranno potere. Il fatto poi che l’Unione Europea insista affinché i militari “rientrino nei ranghi”, si assoggettino al pieno controllo da parte dell’amministrazione civile e politica della difesa, rendano un po’ più trasparente la gestione dei fondi e il bilancio stesso del dicastero è sicuramente lodevole. Ma sul piano interno tutto questo viene utilizzato per neutralizzare un contrappeso che fino ad oggi ha funzionato bene. Paradossalmente, una Turchia che rispetti i dettami europei sarà sicuramente formalmente più democratica e più vicina a standard che peraltro, a ben guardare, sono poi tutt’altro che universalmente adottati dai membri dell’Unione, ma, rischierà nella sostanza di avere ancora meno freni nell’imboccare un percorso di islamizzazione neanche troppo moderata. È questo che potrebbe creare seri problemi. Non più di forma, ma appunto, di sostanza. Gli esempi della trasformazione/involuzione politico-strategica sono molteplici. Per fermarci a episodi relativamente recenti, è nei fatti la fine della politica di “appeasement” con Israele, soprattutto in chiave anti-siriana. Non va dimenticato che nel 1990 Turchia e Siria quasi entrarono in guerra a
causa del supporto garantito da Damasco ai movimenti curdi del Pkk. In un passato ancora recente Turchia ed Israele erano partner discreti, ma concreti, nel campo della sicurezza, come confermato peraltro dallo “shopping” militare di Ankara che ha premiato in molte occasioni i prodotti e le tecnologie israeliane (dall’aggiornamento elettronico dei velivoli da combattimento a quello dei carri da battaglia). Venivano effettuate esercitazioni militari congiunte su scala crescente, c’era un inteso scambio di informazioni, i rapporti tra gli Stati Maggiori erano ottimi: ora il vento sta cambiando. Il governo di Ankara sta recidendo questi legami, come confermato dalla recente cancellazione di manovre militari che dovevano vedere la partecipazione di consistenti forze israeliane, e sta per converso annodando rapporti via via più stretti con la Siria. Basta ricordare la recente creazione di un “consiglio strategico” bilaterale con Damasco, la proposta abolizione dei visti per i rispettivi cittadini. Va anche detto che almeno per il momento Ankara continua a funzioare da “ponte” tra Tel Aviv e Damasco e ha più volte facilitato colloqui diretti/indiretti tra i due Paesi. Israele dal canto suo non ha ancora sospeso la vendita di sistemi d’armamento e tecnologie militari, sia perché si tratta comunque di un business importante, sia perché la Turchia non è considerata un Paese potenzialmente ostile o connesso con il fronte dei potenziali avversari, ai quali ovviamente non si venderebbero armi. Anche le relazioni con l’Iran sono tutto sommato decenti, al contrario di quelle con l’Iraq. Gli attriti con Baghdad sono ovviamente legati alla questione irachena. Il “nuovo” Iraq che garantisce una sostanziale autonomia, se non indipendenza, al Kurdistan non è certo visto con favore ad Ankara. Si, la Turchia sta finalmente “aprendo” alla minoranza curda e la fine delle discriminazioni e della politica del pugno di ferro potrebbe, nel tempo, sterilizzare la minaccia separatista e spuntare le unghie alla guerriglia. Tuttavia al momento il Pkk 27
Risk parti, che le relazioni con la Grecia siano in progressivo miglioramento e che la tensione si vada allentando, anche perché Atene ha ben altri problemi da affrontare sul piano economico piuttosto che attizzare i motivi di contenzioso con la Turchia. Peraltro ci vorrà molto tempo prima che si arrivi ad una completa normalizzazione e i due paesi fino ad oggi hanno continuato a modellare il rinnovamento dei rispettivi strumenti militari sulle scelte compiute dal vicino. Forse il ritorno al governo in Grecia dei socialisti potrà portare, complice la crisi economica, ad una riduzione degli investimenti militari. Sarà allora interessante scoprire se Ankara vorrà seguire ad una simile svolta, peraltro ancora tutta in divenire. Va anche riconosciuto che la scelta della Unione Europea di ammettere Cipro tra i suoi membri è stata a dir poco avventata e certo non ha portato a eliminare uno dei principali ostacoli tra i due paesi. Ankara invero sa perfettamente come rispondere agli sgarbi greci in sede europea: le basta mettersi di traverso su un diverso tavolo da gioco, quello Nato, bloccando o rallentando decisioni, operazioni e nomine. Così facendo non danneggia direttamente l’avversario, ma costringe gli alleati, talvolta in modo molto efficace, a dare in qualche modo ascolto alle ragioni turche. Lo scenario descritto spiega perfettamente perché gli Stati Uniti siano parecchio preoccupati per l’evoluzione della Turchia e perché esercitino formidabili pressioni affinché Ankara sia ammessa nell’Unione Europea. Gli Usa poi cercano di manovrare per evitare attriti con Bagdad ed in occasione dei grandi “raid” in territorio iracheno condotti dalle truppe turche non lesinano ad Ankara le informazioni intelligence che consentono di colpire con armi di precisione lanciate dagli aerei o con l’artiglieria basi, capisaldi e gruppi armati del Pkk, cosa questa che con-
Di una cosa si può essere certi: gli Usa continueranno a sostenere una Turchia moderatamente islamica come membro della Nato a dispetto di tutti i distinguo e della politica di Ankara. Il che è coerente con il sogno di Washington di trasformare la Nato in una alleanza globale, forse quasi un contro-altare dell’Onu rimane il “problema” principale per le Forze Armate, che proprio ai primi di ottobre hanno ottenute dal Parlamento una estensione del mandato che consente loro di operare al di là dei confini per combattere il Pkk. L’ultima grande operazione di controguerriglia aero-terrestre, ma con maggiore enfasi sulla componente aerea, è avvenuta nel febbraio 2008. Negli ultimi 25 anni la Turchia ha condotto ben 24 vaste operazioni militari oltre confine contro il Pkk e sembra che una nuova offensiva possa essere scatenata nei prossimi mesi. Questa dovrebbe costituire uno strumento di “pressione” per convincere il Pkk a cercare una soluzione negoziale e politica, rinunciando alla lotta armata. Che peraltro, sia pure a “bassa intensità” continua e provoca uno stillicidio di vittime da entrambe le parti. Secondo l’intelligence turca il Pkk/Kongra Gel può contare su circa 5mila armati, dei quali 1.500 sarebbero “volontari” stranieri. Ed almeno la metà dei combattenti si trova nei santuari nel nord dell’Iraq, in particolare nei santuari siti nella regione montagnosa di Qandil. La nuova politica di sicurezza turca presenta anche aspetti positivi: non vi è dubbio, al di là della retorica ancora molto forte da entrambe le 28
dossier sente di evitare lo sconfinamento di forti contin- quarto di secolo di operazioni controguerriglia. I genti terrestri turchi o addirittura la creazione di generali hanno comunque chiarito che alla leva una fascia di sicurezza in territorio iracheno. non si rinuncia, anche se oggi la ferma si è ridotta ad appena… 15 mesi, con grande gioia dei giovaDi una cosa peraltro si può essere relativa- ni coscritti. Una passeggiata rispetto al passato! mente certi: gli Usa continueranno a sostenere una L’impegno contro il Pkk non impedisce alla Turchia moderatamente islamica come membro Turchia di essere coinvolta in missioni internaziodella Nato a dispetto di tutti i distinguo e della nali anche impegnative, come è accaduto ad esempolitica di Ankara. Il che è coerente con il sogno di pio nei Balcani. E la Turchia ha anche assunto il Washington di trasformare la Nato in una alleanza comando delle forze Isaf in Afghanistan, sia pure globale, forse quasi un contro-altare dell’Onu, che quando la situazione militare nel paese non era estenda le sue competenze allo scacchiere del ancora così grave. Tra le iniziative di riorganizzaPacifico e si spinga verso Est ad incorporare zione in corso va segnalato lo sforzo intrapreso per chiunque possa essere “utile”. Che ciò possa por- migliorare il livello professionale del corpo dei tare invece alla fine dell’Alleanza non è preso in sottufficiali, che stanno acquisendo nuove compeseria considerazione. La Turchia ha tra le più con- tenze e responsabilità come accade negli eserciti sistenti ed agguerrite Forze Armate, che stanno professionali. Naturalmente la Forza Armata più compiendo una sostanziale, sia pur graduale, tra- importante resta l’Esercito, che conta quasi sformazione, con una riduzione del peso della 390mila uomini. Dei quali ben 370mila sono di componente di leva in favore di un incremento leva. La struttura è quella tradizionale, con 4 della presenza di volontari e di professionisti. Comandi di Armata, 10 Comandi di Corpo Parallelamente continua l’acquisizione di arma- d’Armata, dai quali dipendono le unità di manomenti sempre più sofisticati ed un potenziamento vra, essenzialmente brigate, un terzo delle quali di della mobilità: grazie ad aerei, elicotteri e mezzi fanteria e addestrative. La meccanizzazione e la blindati. Il tutto si traduce in una maggiore quali- motorizzazione stanno procedendo rapidamente, tà, con una finora lieve riduzione delle quantità. In anche grazie ad una serie di acquisti “intelligenti”: teoria il piano Force 2014 prevede una riduzione l’Esercito infatti ha approfittato ampiamente della degli organici compreso tra il 20 ed il 30% e, disponibilità sul mercato dell’usato di mezzi e parallelamente, la costituzione di unità di elite for- materiali di buona e ottima qualità, relativamente mate interamente da professionisti e volontari, a poco usurati e che, essendo stati dichiarati in surpartire dalle Brigate Commando che dovrebbero plus, erano acquistabili a condizioni di favore. È arrivare a contare circa 18mila uomini. Questi stato questo il caso dei carri da battaglia Leopard reparti sono primariamente destinati a combattere 2 tedeschi, dei Leopard 1 e degli M-60, questi ultila guerriglia del Pkk, anche perché le unità “rego- mi statunitensi. Sulla carta l’Esercito turco ha lari” spesso hanno dato una prova davvero poco ancora un numero di carri da battaglia degno dei soddisfacente ed hanno subito perdite elevate, tempi della Guerra Fredda, circa 3.300, e almeno compresa la cattura di prigionieri. Si spera che altrettanti mezzi corazzati da trasporto della fantequeste forze professionali consentano di diminuire ria, prodotti in larga misura localmente. Un po’ l’impegno delle forze regolari, che nei momenti di alla volta i materiali più vecchi e superati vengono crisi coinvolge anche oltre 150mila uomini. ritirati e sostituiti. Lo stesso sta accadendo per Il che ha anche un costo esorbitante: la Turchia l’artiglieria, grazie all’acquisizione di semoventi e calcola di aver speso un triliardo di dollari in un cannoni prodotti su licenza sudcoreana. La Tur29
Risk chia ha poi una notevole predilezione per i lanciarazzi d’artiglieria. Il desiderio, neanche troppo nascosto, sarebbe quello di dotarsi di veri missili balistici. Ma vista la “delicatezza” politico-strategica di un passo del genere ci si accontenta di acquistare e co-sviluppare razzi con gittata sempre maggiore, anche grazie alla disponibilità cinese a vendere anche armi di questo tipo. Un notevole piano di espansione è in corso per l’aviazione dell’esercito, con l’acquisizione di nuovi elicotteri da trasporto d’assalto e da combattimento. Il panorama delle forze terrestri va completato con la potente Gendarmeria, ad ordinamento militare, che può contare su circa 280mila uomini e che è
L’impegno contro il Pkk non impedisce alla Turchia di essere coinvolta in missioni internazionali anche impegnative, come è accaduto ad esempio nei Balcani. E il Paese, sia pure quando la situazione era meno grave, ha anche assunto il comando delle forze Isaf in Afghanistan ampiamente impegnata nel controllo delle frontiere e nel contrasto del Pkk. Il ruolo dei militari nella sicurezza interna e nel contrasto al terrorismo, di ogni matrice, è oggetto di un braccio di ferro con il governo e con il ministero degli Interni. Una soluzione definitiva sulla delimitazione delle responsabilità e delle competenze non è stata raggiunta ed è del tutto normale che all’indomani di un fatto di sangue provocato dal terrorismo sui giornali campeggino le dichiarazioni dei vertici militari i quali illustrano quale sia la minac30
cia e le contromisure messe in atto per combatterla. Per ora il terrorismo è oggetto di una duplice giurisdizione.
Se l’Esercito è basato
sui coscritti, la percentuale di professionisti è ovviamente maggiore presso le due Forze Armate più “tecniche”, Marina ed Aeronautica. La Marina conta quasi 55mila uomini e sta bruciando le tappe per acquisire una capacità alturiera, che si affianca però ad un accresciuto controllo delle acque costiere e territoriali e delle isole. La Marina si è sviluppata dal dopoguerra grazie alla cessione di unità da parte di Paesi Nato, successivamente ha iniziato ad acquistare anche navi di nuova costruzione, che in misura via via maggiore vengono realizzate nei cantieri locali. Questi ultimi in futuro saranno in grado di costruire ogni tipo di unità navale. Del resto, considerato lo sviluppo dell’industria cantieristica commerciale in Turchia, tale acquisizione di capacità è del tutto coerente. Non di meno le unità ex statunitensi hanno ancora un ruolo importante, ma vengono modernizzate localmente, mentre il fulcro della flotta consiste di fregate di progetto tedesco, così come i sottomarini e parte delle unità sottili lanciamissili. La Marina sta anche dotandosi di una cospicua forza anfibia, tipica capacità di proiezione di potenza, con un requisito per una-due grandi unità da assalto anfibio. E dispone anche di una considerevole aviazione navale. L’Aeronautica infine, con 65mila uomini (34mila di leva) è tra le più consistenti e meglio equipaggiate della Nato, con oltre 440 aerei da combattimento, la maggior parte dei quali F-16 statunitensi, in diverse versioni, affiancati da F-4 aggiornati in Israele. L’Aeronautica vuole acquistare il nuovo cacciabombardiere americano F-35, ma potrebbe anche affiancarlo con un velivolo da combattimento europeo, come l’Eurofighter Typhoon. Sempre dagli Usa arrivano gli aerei da sorveglianza radar B-737 AEW&C, mentre in Europa saranno acquistati una decina di
dossier aerei da trasporto quasi strategico A400M, che rappresenteranno i velivoli più capaci e moderni di una flotta da trasporto che fino ad ora aveva solo capacità tattiche. Il pragmatismo turco nel campo della Difesa è esemplificato dalle recenti scelte in tema di difesa antimissili. La Turchia starà migliorando i rapporti con i vicini armati di missili balistici, però se fidarsi è bene… prendere qualche seria precauzione è meglio. E così, dopo aver a lungo considerato l’acquisizione di sistemi antiaerei a lungo raggio/antimissile di produzione russa, cedendo alle richieste di Washington ci si è orientati sul sistema missilistico Patriot, con un investimento in più fasi che potrebbe richiedere anche 8 miliardi di dollari. Ed i Patriot sono concepiti per intercettare missili balistici tattici, con un raggio d’azione di qualche centinaio di chilometri. Per completare “l’ombrello” antimissile è probabile che Ankara accetti di ospitare sul proprio territorio uno dei radar mobili (ma super potenti) antimissile che gli Usa vogliono piazzare in posizione strategica sulle “rotte” dei missili. Ottenendo in cambio una certa copertura da parte dei sistemi antimissile navali SM-3 americani e, chissà, anche quella dei sistemi Thaad in corso di spiegamento da parte dello US Army.
La Turchia, a dispetto della situazione eco-
nomica non brillante, ma comunque in costante miglioramento, almeno fino all’ultima crisi che ha iniziato a “mordere” nel paese con un po’ di ritardo rispetto al resto del globo, ha sempre dedicato ingente risorse al potenziamento delle Forze Armate. Ciò è avvenuto sia per le indiscutibili esigenze di sicurezza, ma anche, soprattutto nel corso dell’ultimo lustro, per soddisfare l’ambizione strategica del paese di conquistare una crescente autonomia negli approvvigionamenti militari, grazie allo sviluppo dell’industria locale degli armamenti. Ma l’obiettivo strategico è ancora più ambizioso e mira a rendere la Turchia capace di sviluppare tecnologie per la difesa di elevato livello, tecno-
logie che poi potranno essere esportate in Paesi terzi, con una ovvia preferenza per Paesi islamici. Proprio per questo la spesa militare solo in parte è gestita dal ministero della Difesa e risponde direttamente ai desiderata dei militari. Una parte consistente delle risorse per gli investimenti fa capo all’Ssm, il Sottosegretariato per le industrie della difesa, il quale controlla le fondazioni che a loro volta detengono la maggioranza di buona parte dei complessi industriali militari. Questi gruppi sono quindi sotto controllo statale, anche se è in corso una sia pur limitata apertura alle industrie private, principalmente in campo navale-cantieristico, ma non solo. L’Ssm di fatto ha finito per gestire anche i fondi del bilancio ordinario per l’investimento. Il che porta ad un totale di circa 4 miliardi di dollari/anno. Cifre precise non ce ne sono perché, come detto, il bilancio della difesa, che ammonta per l’anno in corso a circa 10,3 miliardi di dollari (con un sostanziale incremento del 10 percento rispetto agli stanziamenti del 2004) e rappresenta l’1,3 percento del Pil, non include i fondi per la Gendarmeria, quelli per la Guardia Costiera e la dotazione dell’Ssm. Complessivamente la spesa militare verrebbe a sfiorare i 15 miliardi di dollari all’anno. L’Ssm conduce un gioco molto delicato nel bilanciare i requisiti dei militari, i quali vorrebbero capacità immediate, possibilmente interoperabili con quelle statunitensi e che quindi non amano affatto gli extra costi ed i ritardi dovuti agli sviluppi autoctoni o alle cooperazioni industriali. Le ambizioni del comparto industriale hanno segno opposto: si aspira a veder finanziati programmi “nazionali” anche quando non si possiedono le capacità tecnologiche e manageriali per realizzarli. Nel complesso però il piano ha funzionato e se nel 2003 l’industria locale soddisfaceva il 25 percento dei requisiti, la percentuale è salita al 41,6 percento nel 2007 e al 42 percento lo scorso anno. Il traguardo del 50 percento, che si vuole toccare entro la fine del 2011, è quasi a portata di mano. Questa crescita è in parte frutto di sapienti 31
Risk contratti che impongono al venditore un trasferimento sostanziale di tecnologia, nonché la produzione su licenza almeno parziale dei sistemi acquisiti. Sempre più frequentemente alle industrie straniere viene richiesto solo la tecnologia ed il mentoring, mentre l’attività produttiva deve essere sostanzialmente nazionale. Questo naturalmente è possibile solo per sistemi non troppo complessi. Però se la Turchia non è in grado di progettare e produrre da sola aerei da combattimento o sottomarini d’attacco, sta co-sviluppando una variante dell’elicottero da attacco italiano Mangusta, sta producendo navi da guerra, fregate leggere, frutto di un programma nazionale, sta lavorando, con la Corea del Sud, ad un nuovo carro da combattimento. E i prodotti made in Turkey conoscono un certo successo commerciale, perché costano poco ed hanno un discreto contenuto tecnologico.
Vendite sono state effettuate
in Arabia Saudita, Pakistan Giordania, Malesia e altrove. La Trchia poi utilizza in modo egregio le acquisizioni militari come strumento di politica estera. Intanto applica una disinvolta diversificazione delle fonti di approvvigionamento, comprando in Russia come in Corea del Sud, negli Stati Uniti come in Europa e poi è pronta a ripagare con un sostanziale ostracismo chi ne ostacoli le aspirazioni. Ad esempio i prodotti francesi, se non messi al bando, certo non sono privilegiati, per far pagare a Parigi l’ostilità sul fronte europeo. Alla Germania va meglio, a dispetto della posizione del cancelliere Merkel, ma solo in virtù degli storici rapporti bilaterali in campo militare ed economico. Comunque le industrie tedesche hanno perso recentemente più di un buon affare. Italia, Stati Uniti e Gran Bretagna sono invece favorite e stanno conquistando quote di mercato, mentre la Russia si deve accontentare di qualche significativa briciola. Israele è in fase discendente, mentre la Corea del Sud conquista posizioni. Quello che è certo è che la “torta” dei contratti militari turchi è tra le più interessanti per tutti i Paesi esportatori.
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dossier
ULTRANAZIONALISMO E TENSIONE ISLAMISTA: UNA MINACCIA GRAVISSIMA
DAI LUPI GRIGI AD AL QAEDA DI
L’
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ANDREA MARGELLETTI E PIETRO BATACCHI
eterno conflitto tra modernità e tradizione, tra secolarismo e radice islamica, continua a scuotere la Turchia. Anzi, se vogliamo, con l’avvento al potere degli islamici del Partito Giustizia e Sviluppo, Akp, questo conflitto si è addirittura riacutizzato. E così, ancora oggi, la Turchia vive in un limbo, stretta da una parte dalla spinta modernista figlia della tra-
dizione nazionalista e kemalista, dall’altra, dalle forze contrapposte che emanano dal corpaccione profondo della società e che chiedono il rispetto della tradizione e del carattere islamico del Paese. Nel mezzo di questa disputa, si agitano la minaccia dell’estremismo islamico di matrice qaedista, il separatismo curdo, che negli ultimi tempi ha rialzato la testa, mentre dal passato riemergono gli spettri legati all’ultranazionalismo pan-turco che gravita intorno alla galassia dei Lupi Grigi. Il processo di modernizzazione che, a partire dagli anni Venti, ha interessato la Turchia, è rimasto un incompiuto. O, quanto meno, si è risolto in una spinta modernizzatrice che, non essendo sostenuta da adeguati fondamentali economici, industriali ed infrastrutturali, ha finito con l’interessare solo una parte della popolazione, lasciandone molte fasce al di fuori. Un caso di sviluppo ineguale, o se si preferisce, di mancata simmetria tra estensione della sfera democratica e crescita economica. La grande vulnerabilità della Turchia, quella stessa vulnerabilità che oggi è esplosa in modo ancor più accentuato nelle more della lotta tra Akp e laici, sta proprio
nella faticosa sostenibilità di un processo di modernizzazione che alla fine ha portato dei benefici veri solo ad una parte del Paese, mentre le fasce più basse hanno continuato a vivere arroccate nella tradizione e nella conservazione del rassicurante orizzonte valoriale dell’Islam. La lotta di oggi tra le due anime della Turchia, quella kemalista e quella islamica, costituisce lo sfondo entro il quale prendono forma e si sviluppano tutte le altre dinamiche sociopolitiche che attraversano il Paese. Ed è in quest’ottica che va letta anche la straordinaria affermazione dell’Akp. L’irrompere sulla scena del partito dell’attuale premier Erdogan e del presidente della Repubblica Gul, ha rappresentato per certi aspetti il tentativo di giungere ad una sintesi tra le due tendenze contrapposte e di creare una nuova piattaforma politica, capace di mediare in modo proficuo tra vecchio e nuovo. Ma, mentre sul piano esterno, l’esperimento può dirsi completamente riuscito, è sul piano interno che l’affermazione dell’Akp ha provocato le maggiori conseguenze. Per quanto riguarda il primo aspetto, l’apprensione dell’Europa e degli Stati Uniti sul futuro del Paese, la cui 33
Risk
Negli anni 80 in Turchia operavano circa 1.700 organizzazioni gravitanti nell’orbita dei Lupi Grigi, con 200mila membri e un milione di simpatizzanti. Forti erano i legami con l’organizzazione paramilitare Contro Guerriglia, considerata una sorta di Gladio turca importanza strategica non è certo diminuita dopo la fine della Guerra Fredda, è svanita e con essa il timore che l’ingresso nella stanza dei bottoni di un partito islamico avrebbe fatto progressivamente scivolare la Turchia verso posizioni radicali, lontane da quelle filo-occidentali che ne avevano sempre ispirato la politica estera. L’Akp, in questo periodo di prova governativa, ha dimostrato di essere un partito con una forte impronta conservatrice certamente, ma allo stesso tempo un partito dotato di una vena pragmatica lontana dai velleitarismi tipici di certi movimenti di ispirazione islamica e fondamentalista. In politica estera non ha abbandonato le tradizionali direttrici seguite dal Paese - appartenenza alla Nato, avvicinamento all’Ue, forti partnership bilaterali con una serie di paesi, a cominciare dagli Usa e dall’Italia - anche se ha aggiunto qualcosa di nuovo aprendo una nuova stagione di relazioni con la Siria e raffreddando, almeno per ora, la partnership con Israele. Le spinte più antimodernizzatrici si sono semmai prodotte sul fronte della politica interna ed è proprio qui che si è sviluppato lo scontro più duro con la parte laica del Paese, arroccata sulla tradizionale difesa del portato kemalista. La decisione dei vertici dell’Akp di 34
abrogare il divieto per le donne di indossare il velo nelle università, rigettata poi dalla Corte Suprema, oppure la legislazione per limitare l’uso ed il consumo di alcol, sono stati un po’ il simbolo di un “interventismo conservatore” sul piano interno teso a mutare alcuni parametri della vita politica e sociale facendo della religione, per la prima volta nella storia della moderna Turchia, una questione politica. Questo interventismo poteva costare caro al premier Erdogan, quando lo scorso anno la Corte di Appello ha chiesto la messa al bando dell’Akp, accusandolo di attività contro la laicità dello Stato, con “derive di radicalismo religioso”. Per settimane la tensione ha attraversato la politica turca, mentre da più parti venivano sollevati inquietanti interrogativi sul futuro del paese e la sua stabilità. A fine luglio 2008, però, la decisione della Corte Costituzionale di salvare l’Akp, e non metterne al bando leadership e membri, ha riportato un po’ di serenità proprio quando gli spettri del passato, di un ennesimo intervento dei militari nella vita politica del paese, parevano ad una passo dal riaffacciarsi con drammaticità nella realtà. La stessa comunità internazionale ha tirato un grande sospiro di sollievo, timorosa che la decisione potesse precipitare il paese nel caos e nella guerra civile. Tutto bene quel che finisce bene, allora. Salvo che la vicenda della sospensione dell’Akp ha lasciato pesanti strascichi nella vita del Paese.
Quasi in contemporanea, infatti, è scoppiato l’affare “Ergenekon”, dal nome dell’organizzazione eversiva ultranazionalista, accusata di tramare un golpe contro il legittimo Governo dell’Akp e di essere dietro ad alcuni tra gli attentati più celebri avvenuti in Turchia negli ultimi due anni: il delitto del sacerdote italiano don Andrea Santoro, quello del giornalista armeno Hrant Dink e l’attacco al Consiglio di Stato, costato la vita al giudice Özbilgin. Il processo contro diversi appartenenti dell’organizzazione, tra cui i generali in congedo Sener Eruygur e Hursit Tolon, e il Presidente dalla
dossier Camera di Commercio di Ankara, Sinan Aygun, è attualmente sospeso, ma dovrebbe riprendere all’inizio del 2010. L’indagine ha finora svelato la presenza di una realtà politica parallela a quella democratica, una sorta di Stato nello Stato che, all’insegna dell’ultranazionalismo e del più estremo kemalismo, avrebbe tramato per destabilizzare le istituzioni e porre fine al governo dell’Akp favorendo il ritorno in grande stile delle Forze Armate nell’agone politico turco.
Tuttavia, la tempistica
dell’azione contro la presunta organizzazione ultra-nazionalista, ha fatto pensare molti che in realtà si trattasse solo di una macchinazione ordita dall’Akp per difendere se stesso ed il proprio potere. Fermo restando responsabilità vere o presunte, quello che è emerso da queste vicende è un duro scontro tra poteri, quello kemalista e quello islamico, per l’influenza all’interno della vita politica turca. Una lotta che però offre molto spazio per l’affermazione di quegli estremismi “veri” che scuotono in profondità la Turchia - dagli ultranazionalisti, ai fondamentalisti di Al Qaeda passando per gli estremisti curdi del Pkk - e che costituiscono una grave minaccia per la sicurezza del Paese più di tanti dossieraggi o complotti. L’ultranazionalismo turco, tutto quell’universo di sigle e gruppuscoli che ruota attorno ai Lupi Grigi, non è mai morto. Finita la Guerra Fredda, e con essa lo spauracchio del comunismo, si pensava che i Lupi Grigi, o organizzazioni simili, sarebbero andate irrimediabilmente incontro al declino. Era stata del resto la minaccia comunista a fare le fortune di questa organizzazione, nata ai primi anni Settanta come movimento giovanile del Partito di Azione Nazionale (Mhp) e poi progressivamente emancipatasi per assurgere a pieno titolo a movimento extra-parlamentare (dotato anche di un apparato militare). Per anni, i Lupi Grigi avevano costituito un utile manovalanza per combattere la diffusione del comunismo e le tendenze socialisteggianti che andavano insinuandosi nella vita politica
turca, godendo anche di appoggi in alcuni settori delle Forze Armate e dei servizi di sicurezza, non solo quelli nazionali. All’organizzazione è stata attribuita la responsabilità di centinaia di omicidi di attivisti politici di sinistra, esponenti sindacali, giornalisti e altri. Le sue attività propagandistiche hanno fatto leva sulle minoranze turcofone in Azerbaijan, Iran, Iraq e nelle repubbliche ex-sovietiche come il Turkmenistan e l’Uzbekistan cercando di favorire apertamente le tendenze disgregatrici in atto in questi paesi. Negli anni Ottanta in Turchia operavano circa 1.700 organizzazioni gravitanti nell’orbita dei Lupi Grigi, con 200mila membri e un milione di simpatizzanti. Forti erano anche i legami con la discussa organizzazione paramilitare Contro Guerriglia, considerata una sorta di Gladio turca, nata originariamente in seno alle Forze Armate, e poi passata nell’orbita della Polizia, come organizzazione per condurre operazioni di guerriglia in caso di invasione sovietica, e poi utilizzata anche per altri scopi come la lotta al Pkk (e l’eliminazione di politici scomodi…). I militanti dei Lupi Grigi e gli uomini di Contro Guerriglia, i famigerati “berretti rossi”, sono stati infatti usati in alcune occasioni dai servizi segreti turchi per assassinare membri della leadership del Pkk. La caduta del grande nemico sovietico non ha però significato la fine dell’organizzazione. Due ragioni hanno contribuito probabilmente più di ogni altra a tenere in vita un residuato della Guerra Fredda così ingombrante, ovvero l’evoluzione in senso moderato dell’Mhp ed il dibattito sull’ingresso della Turchia nell’Unione Europea. Durante tutti gli anni Novanta l’Mhp ha stemperato i caratteri più radicali della propria agenda politica, accentuandone i tratti conservatori e liberali, e spostandola su tematiche care anche a molti partiti di centro-destra europei. Un processo che alla fine ha fatto guadagnare al partito l’accesso all’area di governo nel 1999, ma che allo stesso tempo ha offerto all’estremismo nazionalista turco nuovi spazi di manovra. A quel punto Lupi Grigi e “soci” 35
dossier hanno visto nell’accentuazione del proprio tradizionale bagaglio propagandistico - la lotta contro le minoranze religiose nel Paese, l’accento sull’identità turca e sulla riunione di tutti i popoli di etnia e lingua turca - un utile strumento per reclutare nuovi appartenenti, soprattutto tra le giovani generazioni, ed occupare così il vuoto politico apertosi alla destra dell’Mhp. Il dibattito sull’ingresso della Turchia in Europa ha fatto il resto. Per i nazionalisti, in altri termini, l’Unione Europea è diventata il nuovo spauracchio ed una sorta di surrogato dell’Urss. Il grande calderone uniformatore in cui l’identità turca potrebbe essere pericolosamente annacquata o andare addirittura persa. Omicidi eccellenti avvenuti in Turchia negli ultimi anni sono stati attribuiti a gruppi ultra-nazionalisti che gravitano nell’orbita dei Lupi Grigi. Lo stesso caso “Ergenekon” testimonia l’esistenza ancora oggi in Turchia di una zona grigia, che potremmo definire di estrema destra, custode di una tradizione che va oltre il kemalismo, e che abbraccia piuttosto suggestioni tipiche, come il pan-nazionalismo, dei regimi fascisti degli anni Venti e Trenta. Difficile accertare la reale forza di questo universo, dopo che durante gli anni della Guerra Fredda questo costituiva una sorta di stato nello stato, resta il fatto che ancora centinaia, se non migliaia di persone, a tutti i livelli, ne fanno parte e che si tratta di un pericoloso residuato con cui Ankara deve fare i conti.
L’altro grande problema che da sempre ha
la Turchia, è il separatismo curdo. Con la cattura del leader del Pkk Ocalan, e la stagione degli arresti ai danni della leadership del movimento, sembrava che il problema fosse destinato ad esaurirsi come accaduto ad altri separatismi, quello nordirlandese, per esempio. Tuttavia, negli ultimi tempi la questione curda è tornata nuovamente di attualità. La rimozione di Saddam e la creazione del nuovo Iraq, in cui la componente curda ha un ruolo fondamentale, ha portato infatti una sgradita sor-
presa per Ankara: il rafforzamento dell’attività dei separatisti del Pkk che hanno approfittato della formazione del governo regionale autonomo curdo per santuarizzare alcune aree del nord dell’Iraq, da dove poi lanciare attacchi in territorio turco. Secondo alcune stime, in tale area sarebbero presenti oggi tra i 3.500 ed i 4mila miliziani del Pkk, su un totale di circa 6mila membri attivi che si ritiene abbia il movimento. La loro attività è favorita dalla conformazione montuosa del territorio che garantisce la possibilità di ricavare rifugi e postazioni sicure. Il gruppo è molto ben armato, organizzato e determinato. L’armamento è quello classico delle organizzazioni di guerriglia e comprende AK47, Rpg, mortai, sia a standard sovietico, 82 mm, sia standard Nato, 81 mm, piccoli cannoni senza rinculo, mitragliere su antiaeree e qualche sistema missilistico antiaereo a spalla. Almeno il 40% delle armi sequestrate dalle forze turche al Pkk sono di fabbricazione russa, ma un buon 30% è anche, udite udite, di fabbricazione italiana. In questo secondo caso si tratta per la gran parte di mine che i miliziani usano, molto spesso con successo, con-
Omicidi eccellenti avvenuti in Turchia negli ultimi anni sono stati attribuiti a gruppi ultra-nazionalisti vicini ai Lupi Grigi. Lo stesso caso “Ergenekon” testimonia l’esistenza ancora oggi di una zona grigia, che potremmo definire di estrema destra, custode di una tradizione che va oltre il kemalismo 37
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Un altro problema si sta profilando negli ultimi anni e potrebbe essere ben più grave della stessa presenza di cellule qaedsite in territorio turco, ovvero la radicalizzazione di settori della diaspora in Europa, dove si sta facendo sempre più strada la propaganda e il reclutamento tro le forze turche, assieme agli Ied, gli ordigni esplosivi improvvisati. Il Pkk finanzia le proprie attività con il traffico di droga che, nel solo 2008, pare abbia portato nelle casse dell’organizzazione ben 500 milioni di euro. Le armi provengono principalmente da paesi dell’ex blocco sovietico, i cui arsenali incustoditi sono stati letteralmente saccheggiati dopo la dissoluzione dell’Urss, ma anche da triangolazioni pericolose con paesi del terzo mondo o paesi europei. In più di un’occasione i miliziani del Pkk sono stati accusati di aver fatto uso anche di armamenti americani che lo stesso Pentagono aveva fornito alle forze di sicurezza irachene e che da queste sarebbe finito nelle mani, appunto, del Pkk. Stiamo parlando di pistole automatiche Glock, fucili d’assalto M-16 e mitragliatrici Browning. Nella vicenda potrebbe aver avuto un ruolo una società privata di sicurezza Usa che avrebbe favorito il trasferimento illegale di armi verso i miliziani. Sulla questione della rinnovata attività del Pkk, tra Ankara e Baghdad si sono raggiunti momenti di grande tensione. Anche perché, a partire dall’autunno del 2007, il governo turco, con il consenso del Parlamento, ha dato il via libera alle proprie Forze Armate per colpire obiettivi del Pkk in territorio iracheno. Tra il 2007 ed il 2008 38
l’Aviazione turca ha attaccato in diverse occasioni bunker, posti di comando e depositi del Pkk. Nelle operazioni aeree sono stati usati sia F-16 Block 50 equipaggiati con pod per l’acquisizione obiettivi Lantirn sia F-4E 2020. Secondo il governo turco durante questi raid sarebbero stati uccisi oltre 300 miliziani. Dopo di allora è iniziata una campagna militare strisciante, culminata con l’incursione su larga scala da parte dell’Esercito turco in Iraq nel febbraio 2008. L’operazione, denominata “Sole” e durata otto giorni, ha visto per la prima volta il massiccio coinvolgimento delle forze di terra. Vi hanno preso parte quasi 10mila soldati, appoggiati da elicotteri d’assalto Super Cobra, diverse centinaia di commando, aerei, artiglieria pesante e da una sessantina di carri M60. Le forze turche si sono spinte per una cinquantina di chilometri in profondità in territorio iracheno distruggendo postazioni e campi d’addestramento del Pkk. Al termine dell’operazione, lo Stato Maggiore turco ha comunicato la neutralizzazione di: 126 rifugi, 290 shelter, 12 posti comando, 11 posti di comunicazione, sei strutture addestrative, 23 istallazioni logistiche, 40 mortai e 59 sistemi d’arma antiaerei. Nella campagna sarebbero morti 237 miliziani e 24 soldati turchi.
Lungi dall’aver mollato
la presa dopo “Sole”, il 7 ottobre 2009, il parlamento turco ha votato l’estensione per un altro anno delle missioni militari contro il Pkk nel nord dell’Iraq. La situazione continua pertanto ad essere estremamente delicata. Baghdad considera la politica di Ankara una violazione della propria sovranità, mentre gli americani, pur ritenendo legittimi gli attacchi turchi, allo stesso tempo ne colgono il potenziale destabilizzante sia sulla stabilità dell’ancora fragile Iraq sia sulla stabilità dell’intero quadro regionale. Ma l’inasprimento della situazione nel nord dell’Iraq ha conseguenze anche sul piano interno, con il rafforzamento dell’estremismo nazionalista che ha nella lotta senza quartiere al separatismo
dossier curdo un potentissimo fattore legittimante. Per questa ragione il governo turco si è deciso a lanciare ai
primi di ottobre un piano di pace che prevede, tra le altre cose, l’abolizione dei limiti all’insegnamento della lingua curda e al suo utilizzo nelle trasmissioni radio e tv, il rafforzamento delle autonomie locali, la modifica dei programmi scolastici che negano l’esistenza dell’etnia curda e la restaurazione dei nomi curdi dei villaggi del sudest.
La Turchia è un obiettivo naturale dell’estre-
mismo islamico. Il carattere laico dello Stato, e l’accento sulla separazione tra questioni religiose e politiche, ne hanno fatto da sempre un bersaglio per gli strali dell’estremismo salafita o wahabita. Senza parlare poi della storica vicinanza del Paese all’Occidente ed alla Nato, una vicinanza ritenuta oltraggiosa per un paese islamico che si rispetti. Non a caso, il terrorismo qaedista negli ultimi anni ha colpito più volte la Turchia. Nel novembre 2003, ad Istanbul una catena di attentati contro diversi obiettivi - due sinagoghe, la sede della banca Hsbc ed il consolato britannico - ha provocato oltre 50 morti e centinaia di feriti. L’episodio più sanguinoso avvenuto negli ultimi dieci anni in tutto il Paese. La scorsa estate un attacco al consolato americano ha lasciato sul campo sei morti, tre guardie e tre assalitori. Probabilmente anche in questo caso a colpire sono state cellule qaediste-jihadiste oppure gruppi jihadisti locali utilizzati da al Qaeda secondo l’ormai collaudata strategia del franchising: si cede il marchio della casa madre, ma per il resto il gruppo locale ha piena autonomia logistica, organizzativa ed operativa. Questi episodi hanno allertato le autorità e le forze di polizia turche che adesso cercano di agire in modo preventivo. Tra gennaio e aprile 2009, un’ondata di arresti in tutto il Paese ha colpito una serie di persone accusate di essere coinvolte nelle stragi del 2003 e di progettare altri attentati. A gennaio la località al centro del blitz della polizia turca è stata la città di Konya, roccaforte degli islamici in Anatolia. Tra gli arrestati c’era anche il capo della cellula, ritenuto molto vicino alla vecchia organizzazione qaedista guida39
Risk ta da Zarqawi in Iraq. Il blitz è stato replicato ad aprile, quando 37 persone sono state arrestate in varie regioni della Turchia, perchè sospettate di appartenere al gruppo terroristico che fa capo a Osama bin Laden, ed a ottobre, quando altre 50 persone ritenute vicine all’estremismo islamico sono finite in prigione. E che l’attenzione di Al Qaeda verso la Turchia sia sempre alta, lo dimostra un video del 28 settembre apparso su Internet, nel quale il numero due dell’organizzazione Ayman alZawahiri ha lanciato un duro attacco al governo Erdogan per il suo coinvolgimento nella guerra in Afghanistan, in concomitanza con l’assunzione da parte della Turchia del comando delle operazioni nella capitale Kabul.
Probabilmente le parole del “dottore” cela-
vano anche il risentimento per il durissimo colpo portato dalle autorità di Ankara ai movimenti islamici nel Paese in tutto il 2009. Ma c’è un altro problema che si sta profilando negli ultimi anni e che potrebbe essere ben più grave della stessa presenza di cellule qaedsite in territorio turco, ovvero la radicalizzazione di settori della diaspora in Europa, soprattutto in Germania, dove si è fatta sempre più strada la propaganda e l’attività di reclutamento di movimenti jihadisti. E così è accaduto che diverse decine di giovani turchi abitanti in Germania abbiano lasciato le loro città per andare ad addestrarsi nei campi in Nord Waziristan dell’Islamic Jihad Union (Iju), una costola dell’Islamic Movement of Uzbekistan (Imu) affiliata ad al Qaeda e molto vicina alla rete di Haqqani. La Iju, negli ultimi due anni, ha condotto un’intensa attività propagandistica sfruttando soprattutto un sito web turco - per reclutare nuovi adepti residenti in Germania ed Europa, sia tra cittadini turchi ma anche tra cittadini europei convertiti all’Islam, e per accreditarsi come movimento islamista paladino della causa dei musulmani turcofoni presenti in Europa ed Asia Centrale. L’organizzazione - il cui capo, Najimuddin Jalolov, è morto in un raid condotto nelle Fata pachistane da 40
Predator americani lo scorso settembre - è considerata molto pericolosa e attiva, ed è stata accusata di preparare attentati sul territorio europeo e organizzare l’afflusso di militanti jihadisti in Afghanistan. Un afflusso che proprio attraverso la Turchia ha uno dei crocevia principali. L’ultimo caso è avvenuto a metà ottobre, quando 12 uomini sono stati intercettati al confine tra il Punjab e le Nwfp dopo aver attraversato la Turchia ed essere entrati in Pakistan passando dall’Iran. Il fatto di essere un Paese diviso, a metà tra Occidente ed Europa, tra Europa e Asia, fa della Turchia il terreno di scontro tra due identità. L’identità modernizzante ed europea, custodita soprattutto in seno alle Forze Armate in nome del portato kemalista, e quella tradizionalista ed islamica, da sempre celata nelle viscere più profonde della società ed oggi venuta completamente alla luce grazie all’affermazione dell’Akp. Le continue tensioni tra queste due “Turchie” offrono un terreno fertile per l’affermazione e l’avanzamento di estremismi di matrice diversa che ancora oggi costituiscono una grave minaccia per il paese. Il separatismo curdo del Pkk che negli ultimi anni, per effetto della guerra in Iraq e l’acquisizione grazie essa di una serie di santuari nel nord del paese, ha rialzato la testa, o la minaccia qaedista che vede nella Turchia una pericolosa forma di apostasia oscillante tra lo stretto kemalismo ed un islamismo troppo annacquato. E poi, l’eterno ultranazionalismo dei Lupi Grigi, o gruppi simili, che sembrava aver perso la sua ragion d’essere con la fine della Guerra Fredda e della minaccia comunista, ma che improvvisamente ha trovato nuova linfa negli ultimi anni a causa delle tensioni e delle paure che attraversano la società turca. È così che la Turchia si ritrova a vivere una dilemma culturale irrisolto che allo stesso tempo rappresenta un grave problema strategico e di sicurezza. Un’ambiguità identitaria che offre terreno fertile ad una minaccia variegata, figlia del nuovo mondo, certo, ma anche di un passato che non passa.
dossier
VIA DELLA SETA DEL XXI SECOLO, COLLEGA IL CAUCASO E L’ASIA CENTRALE ALL’EUROPA
ANKARA, IL SUPERMERCATO DELL’ENERGIA DAVIDE URSO
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L
a Turchia ha scarse risorse energetiche naturali. Circa il 30% della domanda totale di energia è soddisfatta dalle risorse interne, mentre il resto da un mix diversificato di importazioni. La Turchia importa circa il 90% del suo fabbisogno di gas, di cui il 60% proviene dalla Russia, il 20% da Algeria e Nigeria (Gnl), il resto dall’Iran. È diminuito il consumo
• di petrolio: se nel 1983 esso copriva il 47% dei consumi energetici, nel 2008 la percentuale è scesa al 35%. Per il resto il consumo energetico è coperto per il 27% dal gas naturale, 26% dal carbone e 12% da idroelettrico e rinnovabili. Vi è assenza di nucleare. La crescita economica degli ultimi anni ha comportato un incremento del 7% della domanda energetica turca, soprattutto di gas. Se nel 2002 il sistema interno di trasmissione del gas era di 4.500 km e serviva 9 città con un consumo interno pari a 17 miliardi m3, nel 2007 la rete di distribuzione si è estesa a più di 10mila chilometri con una domanda di gas di 36,5 miliardi m3. A breve saranno 80 le città con accesso alla rete della Botafl (società nazionale turca di gas e petrolio). La Turchia ha una produzione di elettricità di 182 miliardi kWh l’anno e un consumo di 142 miliardi kWh. Il surplus elettrico permette un’esportazione di circa 2,6 miliardi kWh/anno e un’importazione limitata a 863 milioni kWh. La maggior parte di energia elettrica della Turchia proviene da fonti termiche convenzionali. Nel settore del gas naturale, la Turchia ha una produzione di circa 1 miliardo m3, lo 0,03% dell’intera produzione mondiale, contro un consumo di oltre 38 miliardi
m3. Ciò rende la Turchia l’ottavo paese al mondo per importazioni di gas, che si attestano a circa 37 miliardi m3. Le riserve provate sono stimate in 15 miliardi m3, pari a circa lo 0,001% delle riserve globali. La Turchia ha una bassa produzione di petrolio, pari a circa 41 mila barili/giorno, a fronte di un consumo di circa 680 mila b/g. La dipendenza dalle importazioni è molto elevata, oltre 720 mila b/g. Le riserve provate di petrolio sono stimate in 1.200 milioni di barili. Nel settore dei combustibili solidi (carbone e derivati), la Turchia ha una produzione di 77,6 milioni di tonnellate, circa l’1% della produzione mondiale. Le riserve provate sono stimate in 1.814 mt e sono relative alla sola lignite, circa lo 0,2% delle riserve globali. Non ha produzione di uranio e ha riserve stimate, a costi tra i 40 $/kgU e i 130 $/kgU, in circa 7,3 mila tonnellate, meno dello 0,2% delle riserve provate mondiali. Il settore delle rinnovabili ha un elevato dinamismo nell’idroelettrico, nel geotermico e nell’eolico, mentre sono ancora poco sfruttate l’energia solare e le biomasse. Ankara ha sviluppato un vasto programma idroelettrico con circa 4mila MWe in costruzione e ulteriori 19mila MWe pianificati. La capacità installata al 41
Risk 2008 è stata pari a 13.600 MWe, con una generazione di elettricità pari a 35.500 GWh. La Turchia è il settimo paese più ricco al mondo per potenziale geotermico. Sfrutta le enormi risorse a medio-bassa entalpia (la quantità di energia che un sistema termodinamico può scambiare con l’ambiente) a sua disposizione. La capacità geotermica di generazione elettrica ammonta a 85,4 MWe, grazie all’installazione alla rete elettrica nazionale nel marzo 2009 del nuovo impianto da 47,4 MWe di Aydin Germencik. Alla fine del 2008, la capacità geotermica installata era pari a 38 MWe, per una produzione annuale di 158 GWh. Il 9° piano di sviluppo (2007-2013) contiene gli obiettivi per il 2013 sia per la produzione di energia elettrica e l’uso diretto.
Per l’energia elettrica l’obiettivo è installare
550 MWe di potenza, sfruttando il potenziale dei 13 campi disponibili. Per l’uso diretto la finalità è raggiungere gli 8.000 MW termici, contro i 1.385 MW termici della fine del 2007. Nel 2008, la Turchia aveva una capacità eolica installata di 192 MWe e una produzione elettrica annua di 265 GWh. Facendo un paragone, nella stesso periodo, in Italia erano installati 2.726 MWe, per una produzione di elettricità pari a 4.073 GWh. Nell’eolico si registra oggi un consistente investimento italiano della Italgen, per la costruzione di un parco eolico di 57 pale, per una capacità di produzione elettrica di 114 MWe. Il valore dell’investimento si aggira sui 250 milioni di euro. L’impianto sarà localizzato nell’area di Balikesir (Turchia nord-occidentale), in un altopiano caratterizzato da costante vento e dalla vicinanza di nodi di interconnessione con la rete di distribuzione elettrica nazionale. Gli obiettivi di politica energetica della Turchia sono: perseguire una maggiore indipendenza energetica, attraverso la realizzazione del programma nucleare e la diversificazione del mix delle fonti di produzione, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e dotare il paese di un ruolo strategico primario nella “geopolitica delle rotte” energetiche, prin42
cipalmente gas e petrolio. Infatti, a fronte di un consumo totale di energia di circa 100 milioni di tonnellate equivalenti di petrolio (mtep), le importazioni dei combustibili fossili, insieme alla produzione interna, soddisfano l’88% dei consumi interni. Una percentuale di dipendenza dai fossili che la Turchia dovrà ridurre se intende rispettare i vincoli di Kyoto e favorire l’avvicinamento alla membership dell’Ue. Anche se le emissioni di Co2 della Turchia sono sotto la media regionale, i livelli stanno aumentando per lo sviluppo del sistema-paese. Le stime prevedono una crescita del consumo di energia primaria a 126 mtep nel 2010 e 222 mtep nel 2020. Pertanto, l’obiettivo della Turchia è la massima diversificazione delle importazioni sia in termini di volumi, sia di stati d’origine, nonché il pieno utilizzo delle risorse indigene di carbone, idroelettrico e delle risorse rinnovabili. Per il piano nucleare, le centrali con una capacità installata di 5mila MWe dovrebbero entrare in servizio dopo il 2013. L’attuale politica energetica della Turchia è possibile grazie allo sviluppo magmatico che il paese ha avuto negli ultimi quindici anni. La pesante crisi economica del 2001 è stata affrontata - anche se non del tutto superata - con una drastica revisione dei piani di sviluppo, soprattutto con riforme strutturali. Da stato chiuso, oggi la Turchia si è aperta agli scambi con l’estero e sempre più vicino ai modelli occidentali, dotando il paese di un quadro istituzionale più liberale e moderno, che lo qualifica come un interlocutore più affidabile sulla scena internazionale. Bisogna quindi parlare di “geopolitica energetica” della Turchia o, meglio, di “geo-energia”. Secondo la prospettiva di riferimento, potremmo chiamarla “hub strategico di transito regionale” oppure “corridoio energetico alternativo alla Russia” oppure, molto più generale, “prendo tutto, detto le mie condizioni, e aspetto che gli altri facciano il loro dovere”. La Turchia è certamente passata da corridoio tout court a “hub regionale”. Ciò grazie alla sua posizione geografica, che la colloca al centro di un crocevia energetico strategico. Il paese è infatti situato nelle immediate vicinanze del
dossier 72% delle riserve provate mondiali di gas e del 73% di petrolio, in particolare del Medio Oriente e del Caspio. In questo modo è un ponte naturale di energia tra i paesi di origine e i mercati dei consumatori e rappresenta un paese chiave nel garantire la sicurezza energetica attraverso la diversificazione dei volumi e delle rotte, soprattutto per l’Europa. Il ruolo di transito, peraltro, è già riconosciuto nel caso del petrolio, in cui il paese è un plusvalore per i mercati mondiali. Ad esempio, volumi crescenti di petrolio russo e del Mar Caspio sono inviati da navi cisterna via Stretto del Bosforo verso i mercati occidentali, mentre un terminale sulla costa mediterranea della Turchia a Ceyhan consente al paese di esportare petrolio dal nord dell’Iraq e dall’Azerbaigian. Per quanto riguarda il gas naturale, la Turchia detiene una posizione strategica tra il secondo più grande mercato al mondo di gas, l’Europa continentale, e le massicce riserve di gas del bacino del Caspio e del Medio Oriente. Per diventare il quarto corridoio del gas (dopo Russia, Nord Africa e Norvegia) verso l’Ue, la Turchia sta potenziando la propria rete di trasmissione e il sistema di stoccaggio ed esportazione. Il governo turco sta pensando di sviluppare il trasporto su rotaia del Gnl e diverse società internazionali (tra cui le italiane Technimont e Abb Process Solutions and Services) si sono qualificate nella gara per la costruzione di depositi sotterranei per il gas nell’Anatolia centrale sotto il Tuz Golu (Lago Salato).
Negli ultimi anni, la Turchia ha firmato una
serie di accordi di importazione con i paesi vicini ricchi di risorse energetiche, ha inaugurato nuove pipeline, altre sono in costruzione e molti progetti sono in progettazione. Ma la Turchia può realisticamente porsi come “corridoio alternativo alla Russia”? Il “corridoio energetico est-ovest” - chiamato “via della seta del XXI secolo” - che collega il Caucaso e l’Asia centrale all’Europa, avrà un ruolo cruciale per l’integrazione della regione con
l’Occidente, oltre che per garantire stabilità e prosperità alla regione stessa. Le pipeline strutturali principali del corridoio sono: l’oleodotto BakuTbilisi-Ceyhan (Btc) e il gasdotto Baku-TbilisiErzurum (Bte). Vediamo più in dettaglio. La componente centrale del “corridoio est-ovest” è l’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), un sistema petrolifero che si estende dal giacimento Azeri-ChiragGunashli Deepwater (Acg) attraverso l’Azerbaijan e la Georgia al terminale di Ceyhan, sulla costa mediterranea della Turchia, bypassando il Mar Nero e gli
Gli obiettivi di politica energetica turca sono: ottenere una maggiore indipendenza con il nucleare, ridurre la dipendenza dai combustibili fossili e dotare il paese di un ruolo strategico primario nella “geopolitica delle rotte” Stretti turchi. L’oleodotto, inaugurato nel 2006, ha una capacità di 1 milione di b/g (circa il 1,5% delle forniture mondiali di petrolio) e ha una lunghezza di 1.760 km, che lo pone come secondo più lungo al mondo. Nel 2006, il Kazakistan ha aderito al Btc. Secondo l’accordo, il petrolio kazako è spedito a Baku attraverso il Mar Caspio, e poi pompato attraverso Btc a Ceyhan. Per la sicurezza energetica, gli Stretti del Bosforo e dei Dardanelli sono molto importanti, visto che circa il 3,7% del consumo mondiale di petrolio vi transita ogni giorno. Tanto per fare un esempio, la quantità petrolifera trasportata attraverso lo Stretto di Istanbul è aumentata da 60 milioni di tonnellate nel 1996 a 150 nel 2005. Questa cifra dovrebbe 43
Risk raggiungere circa 190-200 nel 2009 per l’aumento dei volumi attesi dal Mar Caspio fino al Mar Nero, attraverso il Caucaso, e le grandi quantità di petrolio russo. Visto che gli Stretti stanno raggiungendo il limite di transito, sono state proposte “condotte by-pass”. Tra le varie proposte, nel 2007 il governo turco ha deciso di iniziare la costruzione dell’oleodotto Trans Anatolian (Samsun-Ceyhan) o Tap. I vantaggi del Tap sono: la vicinanza di Samsun agli exit-point di petrolio sul Mar Nero Orientale minimizza il trasporto via mare di petrolio nel Mar Nero; le infrastrutture energetiche a Ceyhan non necessitano di ulteriori investimenti; l’oleodotto è l’opzione by-pass più gestibile in termini ambientali. Samsun-Ceyhan, che dovrebbe entrare in funzione nel 2011, sarà lungo 550 km e avrà una capacità di trasporto iniziale di 50 milioni di tonnellate di greggio l’anno, fino ad un massimo di 70. La capacità prevista è di 1,5 milioni b/g. L’Eni prevede di coprire il 25% della capacità iniziale della condotta con la produzione del giacimenti kazaki di Kashagan e Karachaganak. Inoltre, il porto di Samsun avrà una capacità di stoccaggio di 6 milioni di barili, mentre quello di Ceyhan di 8 milioni di barili. Per gestire il Tap, che costerà circa 2 miliardi di dollari, è stata costituita la società Tapco, joint venture tra Eni e il gruppo turco Çalik, con la partecipazione dell’Indian Oil. Trattative sono in corso anche con la giapponese Mitsubishi e con Gazprom, attraverso la controllata Gazpromneft. Samsun-Ceyhan collegherà i porti turchi di Samsun, sul Mar Nero, e di Ceyhan, nel Mediterraneo sudorientale.
L’obiettivo, oltre ad alleggerire il carico di
traffico negli Stretti, è realizzare un percorso alternativo per il petrolio russo e kazako, che così arriverà dal Mar Nero all’hub commerciale di Ceyhan, contribuendo ad aumentare gli approvvigionamenti stabili verso l’Ue e i mercati mondiali. Il Samsun-Ceyhan si aggiunge ad altri progetti bypass, quali gli oleodotti Burgas-Alexandropolis e
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Costanza-Trieste. Il Burgas-Alexandroupolis è stato considerato dalla Commissione Ue come un progetto d’interesse pan-europeo e inserito nel programma Inogate, che individua rotte strategiche per gli idrocarburi. L’oleodotto, che entrerà in esercizio nel 2010, avrà una lunghezza di 280 km e una capacità annua iniziale di 35 milioni di tonnellate, fino ad un massimo di 50. Con l’entrata in funzione del TAP, dal porto di Ceyhan, passerà il 6-7% della produzione mondiale di petrolio. Ceyhan sta diventando un vero snodo nel “grande gioco” del greggio. Ai suoi terminali arrivano già l’oleodotto Baku-Ceyhan, che parte da Baku in Azerbaijan, sulla costa occidentale del mar Caspio, e quello da Kirkuk, nella zona curda dell’Iraq. Il Baku-Ceyhan passa a sud del confine controllato da Mosca, aggira a nord l’Armenia, in conflitto con gli azeri, attraversa la Georgia e piega a sud verso la Turchia, arrivando al Mediterraneo. Ciò rende l’Azerbaijan meno dipendente da Mosca. L’oleodotto Kirkuk-Yumurtalik (1,6 milioni b/g) proveniente dall’Iraq attraversa il confine turco, non molto lontano da Kirkuk, e arriva a Ceyhan. Infine, un progetto turco-israeliano farebbe di Ceyhan il punto di partenza di un corridoio sottomarino verso la città israeliana di Haifa, composto da cinque condotte per petrolio, gas, elettricità, acqua e comunicazioni. L’oleodotto sarebbe una continuazione del Btc, mentre il gasdotto sarebbe il prolungamento del Baku-Tbilisi-Erzurum (Bte). La seconda componente del “corridoio est-ovest” è l’oleodotto Bte, che dovrebbe diventare operativo entro l’anno. Il Bte trasporta 6,6 miliardi m3 l’anno di gas dal giacimento Shah Deniz in Azerbaigian sul Mar Caspio, attraverso la Georgia fino alla Turchia. Il Bte è considerato la prima tappa della TransCaspio Natural Gas Project, che attinge dalle quarte riserve di gas al mondo in Turkmenistan e in Kazakhstan. Essa contribuirà ulteriormente alla diversificazione delle rotte e dei volumi. Inoltre, in termini di sicurezza di approvvigionamento, è
dossier importante che il Kazakistan e il Turkmenistan non diventino dipendenti da un solo paese o da un percorso obbligato per esportare il proprio gas e petrolio ai mercati occidentali. Per questo il trasporto di petrolio e gas del Mar Caspio in Europa attraverso multicondotte e multi-interconnessioni delle reti è la linea che la Turchia sta perseguendo con chiarezza. Ankara ha l’appoggio della Ue e degli Usa, visto che le “multi-rotte” ridurranno la dipendenza dell’Europa dal gas russo.
Ad esempio, l’integrazione della rete ener-
getica della Turchia con quella dell’Ue è stato realizzata con la costruzione nel 2007 dell’Interconnector Turchia-Grecia, che trasporta via Turchia 3 miliardi m3 e 8 miliardi m3 rispettivamente per Grecia e Italia. Sono stati siglati accordi intergovernativi tra i tre stati per l’estensione del tubo verso l’Italia attraverso il mare Adriatico, per il trasporto di gas dal Caspio e dal Medio Oriente verso l’Europa. L’Interconnector Turchia-GreciaItalia (Itgi) è in parte operativo da fine 2007, con il tratto Turchia-Grecia (da Karacabey a Komotini); mentre è in fase di progettazione la sezione Grecia-Italia, che ha come coordinatore l’italiana Edison. Tale tratto si estenderà per 815 km (600 km onshore, 215 km offshore) da Komotini fino a Otranto e dovrebbe entrare in funzione nel 2013 con una capacità di 8 miliardi m3 l’anno. La realizzazione richiede un investimento di circa 950 milioni di euro. Il progetto Itgi è stato inserito dall’Ue in uno dei 5 assi prioritari di sviluppo del sistema energetico trans-europeo, il South European Gas Ring Project. Nel 2009 entrerà in funzione la Arab Natural Gas Pipeline (Agp) per portare il gas egiziano alla Turchia attraverso la Giordania e la Siria. Per quanto riguarda i progetti transnazionali di pipeline, i più ambiziosi sono il Nabucco e il South Stream. Il Nabucco, sostenuto da Ue e Usa, prevede la costruzione di un gasdotto di 3.300 km, di cui 2mila passeranno in territorio turco, che trasporterà il gas del Caspio dalla
Turchia all’hub di gas dell’Europa centrale, che si trova a Baumgarten in Austria. Il progetto - sottoscritto il 13 luglio 2009 ad Ankara da Austria, Bulgaria, Romania, Turchia e Ungheria - è stato ideato per ridurre la dipendenza europea dal gas russo e diversificare le forniture d’importazione. Secondo il Green Paper della Commissione europea del 2006, tra 20-30 anni le importazioni copriranno circa il 70% del fabbisogno energetico dell’Ue, contro il 50% del 2006. Nabucco - che ancora non ha sufficienti volumi di gas (si stanno definendo contratti con i fornitori: es. Azerbaijan, Turkmenistan, Iraq ed Egitto) e risorse finanziarie per poter essere completato - dovrebbe essere realizzato entro il 2018 con una capacità di 31 miliardi di m3 e un costo complessivo di 5-6 miliardi di euro. È impensabile al momento che ciò accada. Nel medio-termine, l’Ue e la Turchia formeranno un maxi-consorzio per l’acquisto del gas del Caspio, così da assicurare ai potenziali fornitori che le società europee e turche sono in grado di prendere impegni per l’acquisto e il pagamento del gas. L’Europa potrebbe ricevere 15 miliardi m3 di gas attraverso la Turchia, avvicinando Ankara a Bruxelles. Anche se la Turchia, nel 2007, ha firmato due accordi energetici con l’Iran - il primo consente alla turca Tpao di sviluppare tre aree del giacimento di gas di South Pars che dovrebbe fornire 20 miliardi m3 di gas l’anno, circa i due terzi del fabbisogno turco; il secondo prevede la costruzione di due gasdotti: uno servirà per l’esportazione di gas turkmeno verso la Turchia attraverso condotte iraniane e l’altro per l’afflusso di gas iraniano verso l’Europa attraverso la Turchia - difficilmente l’opzione Iran come Stato fornitore sarà presa in considerazione dagli europei fino a quando non sarà risolta la questione del nucleare e vista la bocciatura degli Stati Uniti. Il problema è che, senza le pipeline iraniane, neanche il gas del Turkmenistan potrebbe rifornire la rete turca nel medio termine. Possibili volumi potrebbero arrivare dal prolungamento dell’Agp tra Aleppo (Siria) e 45
Risk la città turca di Kilis, da dove il gas sarà immesso nella rete nazionale e poi nel Nabucco. Anche l’Iraq si candida a fornire 5 miliardi m3 di gas l’anno dal giacimento di Akkas. La Turchia ha recentemente firmato con l’Iraq un accordo a Baghdad per costruire un nuovo gasdotto che trasporterà 8 miliardi m3 di gas iracheno l’anno in Turchia e da qui, attraverso connessioni (es. Nabucco o Itgi), rifornirà i mercati Ue. Tale gasdotto consentirà una diversificazione strategica delle fonti di approvvigionamento turche rispetto al gas russo. Dovrebbe entrare in funzione entro il 2014. Tuttavia, le forniture egiziane e irachene, seppur importanti, non sono sufficienti a riempire il Nabucco. Un’ultima opzione è dotare il Nabucco del gas russo dal Blue Stream che, attraverso il Mar Nero, collega giacimenti russi alla Turchia. In questo caso la dipendenza dal gas russo aumenterebbe. Il Nabucco e l’Itgi competono con il progetto russo South Stream. Il 6 agosto 2009, Turchia e Russia hanno firmato ad Ankara l’accordo per il gasdotto. Con una capacità massima di 63 miliardi m3 di gas l’anno, il progetto South Stream, promosso da Gazprom e da Eni, collegherà la Russia al Sud-Est Europa attraverso il Mar Nero sino al Mar Adriatico. La conduttura dovrebbe essere messa in funzione nel 2014-2015 e costerà circa 25 miliardi di euro. Gazprom, in partnership con l’Eni, ha già concluso accordi di fornitura, stoccaggio e costruzione con paesi europei, inclusi alcuni coinvolti nel Nabucco (Austria, Bulgaria e Ungheria).
Il South Stream, che attraverserà il Mar
Nero bypassando l’Ucraina e la Turchia, potrebbe giungere anch’esso a Baumgarten, il cui 50% è stato venduto a Gazprom dalla società austriaca Omv (membro del Nabucco). Ciò significa che, nonostante i progetti europei per ridurre la dipendenza dal gas russo, la Russia continuerà a giocare un ruolo chiave nelle forniture di gas all’Ue, anche quelle di transito in Turchia. Parte dell’in46
dossier tesa russo-turca ha riguardato la partecipazione russa al Samsun-Ceyhan (Tap), che Mosca aveva in passato scartato preferendo l’oleodotto BurgasAlessandropoli, dal Mar Nero alla Bulgaria e da qui alla Grecia. In base all’accordo, la Turchia concederà al South Stream il passaggio attraverso le sue acque territoriali, mentre per il Tap si prevede la partecipazione di Gazprom, che ha anche esteso i contratti di fornitura di gas alla Turchia oltre la scadenza del 2011. Inoltre, è stato concordato il potenziamento del gasdotto Blue Stream e l’intenzione di creare il gasdotto sottomarino Blue Stream-2 fino a Ceyhan per l’esportazione di petrolio verso Israele, Libano, Siria e Cipro. Di fatto, la Turchia non è mai stata così vicina alla Russia come oggi.
La duplice intesa russo-turca per il South
Stream e il Tap appare più un do ut des: Mosca fa un passo avanti verso la realizzazione del South Stream, inguaiando il Nabucco e mettendo in difficoltà l’Itgi, e Ankara porta i russi nel Tap sempre osteggiato da Mosca, che permette alla Turchia di alleggerire il traffico nel Bosforo e nei Dardanelli. La speranza geo-energetica di Ue e Usa che la Turchia possa essere un vero “corridoio anti-russo” appare tramontata. Primo, Gazprom fornisce oggi quasi i due terzi del gas importato dalla Turchia. Secondo, la Russia, con la sua politica, sta facendo della Turchia non solo un hub strategico per l’intera regione, ma anche un importante centro logistico europeo dell’energia. Terzo, tra South Stream e Nabucco, il primo oggi è in vantaggio. Inoltre, oltre al gasdotto Blue Stream, che trasporta 16 miliardi m3 di gas russo in Turchia sui fondali del Mar Nero e collega la Russia alla Turchia attraverso l’Ucraina, la Moldavia, la Romania e la Bulgaria, il Blue Stream-2 prevede un secondo tubo parallelo, la creazione di una infrastruttura di gas in Turchia e un gasdotto di collegamento marittimo della Turchia a Israele. Inoltre, Mosca si impegnerà a
sostenere la costruzione in Turchia di un deposito di stoccaggio sotterraneo di gas e un terminale di rigassificazione di Gnl. La Turchia decide di non rinunciare a nulla e così aderisce più o meno a tutto ciò che potrebbe transitare per le sue acque e il suo territorio. È un “supermercato dell’energia”, ben conscia del fatto che dei tanti progetti firmati, solo alcuni prenderanno vita. Dipendendo de facto dalle importazioni estere, sta cercando di rafforzare la propria capacità interna di produzione elettrica, attraverso lo sviluppo di un piano nucleare nazionale e facilitare l’entrata di investimenti esteri nel settore delle rinnovabili. Inoltre, Ankara ha ancora bisogno di Mosca, sia per le rotte, sia per i volumi. Sta però, al contempo, costruendo pipeline alternative e firmando contratti per un “transito orizzontale” sul proprio territorio di gas e petrolio dal Medio Oriente, dal Caucaso e dall’Asia Centrale verso i mercati europei. Infine, è impossibile che la Turchia diventi un “heartland regionale”. Ciò per due motivi. Primo, è un paese con scarse risorse naturali, quindi continuerà a dipendere dall’estero ancora per decenni. Secondo, l’idea di una “Grande Turchia” - simile ai fasti dell’Impero Ottomano - non è più realistica. La multidimensionalità e l’interconnessione delle fonti energetiche la rendono un “hub strategico”, dandole al massimo il ruolo di “baricentro tri-continentale” (Europa-Asia-Africa). Per passare da hub a baricentro però la Turchia dovrà fare una scelta di campo. Non potendo correre da sola - e non essendo né un mega-Stato, né una super-potenza spingerà per l’ingresso nell’Ue, magari dettando le proprie condizioni come paese di transito. Inoltre, è ben consapevole che i paesi musulmani dovranno accettare un ruolo di leadership ad Ankara. Quindi, l’idea geopolitica di una “Grande Turchia dell’energia” è irrealizzabile alle attuali condizioni multipolari, inter-regionali e di inter-dipendenze. 47
Risk
DOPO GERMANIA E RUSSIA, L’ITALIA È IL TERZO PARTNER COMMERCIALE DELLA TURCHIA
LE RELAZIONI “NON” PERICOLOSE DI
L’
•
CLAUDIO CATALANO
ambasciatore britannico presso lo Zar Nicola I definì nel 1853 l’Impero Ottomano il “grande uomo malato d’Europa” per le continue rivolte nazionaliste. Oggi, la Turchia ha un corpo sano, ma debilitato da due gravi crisi economiche: la crisi valutaria del 2001 e l’attuale crisi finanziaria. Il terremoto del 1999 aveva indebolito l’economia e nel febbraio
• 2001, il crollo della Lira turca causava la peggior recessione degli ultimi 60 anni. La crisi valutaria portava drastici cambiamenti nella politica fiscale del governo, che effettuava forti tagli alla spesa pubblica per ricevere gli aiuti del Fondo Monetario Internazionale (Fmi). La Turchia ha applicato con determinazione il programma di risanamento economico concordato con il Fmi rendendo, in quegli anni, l’economia più stabile. Nel 2002 la crescita economica era all’8% e toccava il picco del 10% nel 2004 per stabilirsi al 4,5% nel 2007, quando raggiungeva una produzione totale del valore di 659 miliardi di dollari, attestandosi al 17° posto al livello mondiale. Tra il 2002 e il 2007, inoltre, le esportazioni aumentavano del 200%, l’interscambio commerciale del 216%, le importazioni del 340%, il Pil del 187%. Nel 2008, la crisi finanziaria globale si è abbattuta su un corpo convalescente. L’economia turca ha parzialmente tenuto grazie alla tutela del Fmi, terminata nel maggio 2008. La Turchia ha assorbito le pressioni esercitate sugli indicatori macroeconomici interni dalla crisi, più di quanto sperato, ma il corpo non si è ancora del tutto ristabilito e la ricaduta è stata solo una questione di tempo. Secondo uno studio della Banca Mondiale, 48
l’economia turca necessita di una crescita non inferiore al 6% all’anno per almeno 10 anni per raggiungere la metà del reddito pro-capite europeo e nel 2008 il Pil è cresciuto in media dello 0,9% e l’economia è entrata in recessione. La priorità della lotta all’inflazione è stata sostituita dalla necessità di far fronte al calo di domanda e produzione soprattutto nei settori più colpiti come l’automobilistico, le costruzioni, gli elettrodomestici, il tessile e il cemento. La Tusiad, la confindustria turca, ha chiesto nel novembre 2008 al governo di adottare un piano di riforme strutturali a favore dei settori e dei ceti maggiormente colpiti. Così, nel marzo 2009, il governo ha varato un pacchetto di provvedimenti del valore di 2,7 miliardi di euro, contenente sgravi fiscali, come la riduzione dell’Iva per acquisti di immobili, riduzioni di tasse sui consumi privati su auto, moto ed elettrodomestici, oltre a finanziamenti alle Pmi, alle imprese esportatrici e al settore agricolo. Probabilmente le misure del governo e i tagli al tasso d’interesse hanno contribuito a fermare il declino: il consumo privato è passato da -10,2% del primo trimestre 2009 a -1,2% del secondo trimestre. La recessione si è dimezzata: la crescita del Pil è passata dal -14,3% del primo trimestre del 2009, al -7% del
dossier secondo, rispetto agli stessi periodi del 2008. Così l’economia interna si è ridotta solo del -10% nel secondo trimestre 2009 rispetto al -20% del primo. I dati non sono certo incoraggianti, ma si registra una modesta ripresa, i cui effetti si consolideranno forse nel 2010. Nel 2010, il governo si aspetta infatti una crescita del Pil del 3,5% e secondo il Fmi si potrebbe raggiungere il 3,7% se la crescita economica raggiungerà il 10%. Per il Fmi, una crescita economica del 5% può essere raggiunta senz’altro se aumenterà l’interscambio con l’estero. L’economia emergente turca ha registrato un rallentamento della crescita, ma con opportuni interventi ed aggiustamenti strutturali, può ripartire con slancio ai primi segnali di ripresa, ma non può attuare manovre correttive in autonomia, perché ha una forte dipendenza finanziaria dall’estero. L’attuale clima di “avversione al rischio” degli investitori, crea difficoltà al governo turco nel reperire fondi per le priorità economiche: il taglio degli oneri fiscali, la lotta all’economia sommersa e la creazione di un mercato del lavoro più flessibile, riducendo la disoccupazione e lo squilibrio dei redditi. La Turchia, quindi, si trova nella necessità di negoziare un nuovo prestito del Fmi. Le misure del Fmi sono viste come una intromissione negli affari interni, ma data la situazione il governo, dopo un’iniziale chiusura, è sceso a più miti consigli e ha iniziato in gennaio i negoziati con il Fmi, ospitando in ottobre l’incontro annuale tra Fmi e Banca Mondiale. L’accordo, se concluso, dovrebbe avere un valore tra i 20 e i 40 miliardi di dollari e ha l’obiettivo di ristabilire la fiducia degli investitori e assicurare la disciplina fiscale, come nel precedente programma del Fmi. Nel 2006, le tasse sulle imprese furono ridotte dal 30% al 20%, così la tassazione sul reddito delle persone fisiche è stata contenuta tra il 15% e il 35%. Il governo ha introdotto in giugno e luglio tasse sul consumo di sigarette e sulla benzina per cercare di ottenere entrate per circa un miliardo di dollari entro l’anno. La Banca Centrale Turca ha abbassato i tassi e ridotto le riserve obbligatorie per creare liquidità. Nonostante ciò, il rapporto deficit/Pil passerà da 1,5% del 2008 al 6,5%
nel 2009. Per il Fmi il rapporto debito pubblico/Pil deve essere ridotto al 30% entro il 2010 e devono essere introdotte riforme per ridurre l’evasione. L’economia sommersa è un fenomeno di rilevanti proporzioni in Turchia, che è al primo posto fra i paesi Ocse, con un Pil “sommerso” di oltre il 30% di quello ufficiale. Il governo ha deciso di combattere il fenomeno, per evitare un ulteriore incremento delle imposte, varando un piano che rende operativo un sistema di incrocio dei dati fra ministeri e agenzie dello stato in collaborazione con il mondo imprenditoriale. Secondo il Fmi, la disoccupazione per un paese esportatore, come la Turchia, è il risultato del calo della domanda globale: il commercio mondiale si è contratto del 8,2%. Influisce anche la bassa domanda interna, causata dalla scarsa fiducia dei consumatori e dal basso reddito. Il tasso medio di disoccupazione era il 10,7% nel 2007, ma ha toccato il 13,6% nel dicembre 2008 e nel febbraio-aprile 2009 è salito al 15,8%, con il maggiore incremento degli ultimi quattro anni nel numero dei disoccupati: 1,2 milioni di persone, che ha portato il totale dei disoccupati a 3,8 milioni.
Gli occupati sono scesi di 241mila unità rispet-
to al 2008 e il totale di occupati è di 20 milioni di lavoratori. In netto calo la produzione industriale, che su base annuale nel 2008 è scesa del 17,6%. Il crollo, ora, si è fermato e c’è una modestissima ripresa, che dovrebbe continuare nei prossimi mesi del 2010, ma solo in termini relativi rispetto ai valori bassissimi del 2009. Infatti, nel 2009, il valore totale della produzione è crollato a -23,8 in febbraio per risalire al -20,9% in marzo e il -18,5% in aprile rispetto agli stessi mesi del 2008. Nella produzione manifatturiera il declino era del -23,3% in marzo e del -20,6% in aprile. Il potenziale industriale non è sfruttato al massimo, soprattutto nel manifatturiero le imprese lavorano al 70% del regime. I settori esportativi sono i più colpiti: nella produzione automobilistica il calo è intorno al 50%. Il grado di apertura della Turchia al commercio internazionale è elevato. Il sistema produttivo è trainato dalle esportazioni, principalmente composte da beni 49
Risk
Nel 2005, le imprese italiane in Turchia erano 350 e nel 2009 sono 696. Il 2008 è stato un anno spartiacque: l’interscambio commerciale con l’Italia ha raggiunto i 18,8 miliardi di dollari, con un saldo positivo pari a 3,2 miliardi, in crescita del 28% rispetto al 2007 di consumo e beni intermedi, mentre sono in crescita i beni di investimento. Le importazioni consistono in beni capitali e beni intermedi e in minor misura da beni di consumo. Nel 2008 le esportazioni hanno registrato un incremento del 23% rispetto al 2007, raggiungendo il totale di $140,7 miliardi, mentre le importazioni erano $193,9 miliardi, con un deficit commerciale di $ 53,2 miliardi. Secondo i dati pubblicati dall’Ufficio Statistico Turco, tuttavia, si è registrata una battuta d’arresto nell’ultimo trimestre del 2008 con -22,3%, con le esportazioni industriali al -25%. Nel primo mese del 2009 si è assistito ad un vero e proprio crollo del commercio estero turco, soprattutto sul versante delle importazioni. Le esportazioni di beni e servizi sono scese del 11,2% nel primo trimestre e del 10,2% nel secondo, mentre le importazioni si sono ridotte rispettivamente del 31,3% e del 20,5%. La Turchia esporta in aree colpite dalla crisi, come Unione Europea, Russia e Medio Oriente, la cui domanda potrebbe rimanere bassa ancora per tutto il 2010. La crisi sta facendo emergere le vulnerabilità del sistema turco, come la dipendenza dalla domanda estera dei mercati dell’Unione Europea, la concentrazione delle esportazioni su settori in crisi, come l’auto50
mobilistico e il tessile, e la dipendenza energetica dall’estero, che può gravare sul sistema imprenditoriale e sulla stabilità valutaria. Lo sviluppo economico turco dal 2002 al 2008 è stato ottenuto attuando riforme strutturali del sistema finanziario e un sistema industriale pesantemente influenzato dallo Stato in alcuni settori. Il sistema bancario è solido, ha scarsa dipendenza dai fondi esteri e sufficiente liquidità, condizioni che costituiscono oggi un vantaggio. Una legge quadro regola gli investimenti esteri, una moderna normativa regola la creazione delle imprese e un programma di privatizzazioni interessa le infrastrutture e i trasporti, l’energia elettrica, il petrolchimico e i servizi pubblici. Dal 2003 al 2008, le privatizzazioni hanno fruttato 32,5 miliardi di dollari, e il prossimo round di privatizzazioni, che realizzerà 30 miliardi di dollari fino al 2012, potrebbe interessare le grandi imprese pubbliche e la liberalizzazione dei mercati elettrico, del gas, degli alcolici e della telefonia fissa, la riforma del diritto commerciale. Le imprese turche non hanno significativi investimenti diretti all’estero, né una vera dimensione transnazionale. Tuttavia si sbaglierebbe a pensare che la Turchia sia un sistema economico chiuso agli investimenti stranieri. Molti capitali privati stranieri sono investiti nel sistema industriale turco. È proprio il venire a mancare di questi capitali che ha acuito la crisi. Fin dagli anni Novanta, gli investitori esteri hanno scelto la Turchia, perché rappresenta un mercato emergente di 80 milioni di persone, oltre ad essere un ponte tra l’Europa, la Russia, il Caucaso, il Medio Oriente e l’Asia Centrale. Gran parte di questi investimenti sono italiani. Nel 2005, le imprese italiane in Turchia erano 350 e nel 2009 sono 696. il 2008 è stato uno spartiacque: l’interscambio commerciale tra la Turchia e l’Italia ha raggiunto i 18,8 miliardi di dollari, con un saldo positivo pari a 3,2 miliardi, in crescita del 28% rispetto al 2007. L’Italia è il terzo partner commerciale della Turchia dopo Russia e Germania, il primo nell’ambito del Mediterraneo. Nel 2008, con un valore di $ 11 miliardi, l’Italia è stato il quinto paese fornitore dopo Russia (principalmente fornitore
dossier di gas naturale), Germania, Cina e Stati Uniti. L’Italia fornisce beni strumentali ed intermedi, oltre ai settori tradizionali del “made in Italy”. In aumento anche le esportazioni italiane di fibre sintetiche ed artificiali e l’oreficeria. Con un valore di 7,8 miliardi di dollari, l’Italia è il terzo mercato di sbocco dopo Germania e Regno Unito ed importa soprattutto cuoio, prodotti in metallo e legati alla carta. Nel 2009, l’Italia conferma la sua posizione come terzo partner commerciale, pur subendo una contrazione, su base annua, dell’interscambio oscillante fra il 10% ed il 15% per la congiuntura interna ed internazionale. In termini comparativi si registra un’erosione della quota di mercato italiana sul totale delle importazioni della Turchia: dal 7,1% del 2004 essa è scesa fino al 4,3 del 2009. Il sistema industriale turco si concentra nel manifatturiero ed è per questo complementare con quello italiano. La Turchia è un importatore netto di macchinari e beni strumentali, che costituiscono, con circa 22 miliardi di dollari, la seconda voce delle importazioni dopo le materie prime. Circa il 40% dell’export italiano verso la Turchia riguarda questo settore e il livello tecnologico italiano è conosciuto ed apprezzato in Turchia. Per questo, le esportazioni italiane di beni strumentali potrebbero risentire meno della crisi, rispetto ad altri settori, perché il sistema industriale turco avrà bisogno di acquistare impianti e tecnologie avanzate per assicurare alla imprese l’innovazione, l’aumento della produttività e il miglioramento della qualità. Al contrario, le esportazioni turche in Italia, che si concentrano soprattutto sul settore automobilistico e tessile, potrebbero soffrire la crisi che i due settori attraversano anche in Italia. Soprattutto il tessile è strategico per la Turchia, perché rappresenta la prima voce delle sue esportazioni e l’Italia è il primo fornitore di tessuti e filati in Turchia ed uno dei più importanti clienti. La crescente attenzione dell’industria turca alla qualità del prodotto finito ha aumentato la domanda di tessuti e filati pregiati, anche per far fronte alla aggressività della concorrenza cinese, che sta costringendo alla chiusura numerosi stabilimenti produttivi del tessile turco.
L’industria turca ha un sempre maggiore interesse ad accrescere il proprio contenuto tecnologico e il know how, in questo la cooperazione con imprese italiane può creare mutuo beneficio, perché sviluppare mercati e investire in settori ad alto contenuto tecnologico sono due strategie cruciali per operare in questo periodo di crisi. Per le imprese italiane, oltre a partecipare allo sviluppo di un mercato a forte potenziale, la debolezza della Lira turca offre una occasione per effettuare investimenti diretti esteri (Ide) per consolidare la presenza nel mercato. Il 2008 ha rappresentato un salto di qualità anche per gli investimenti bilaterali. Lo stock di Ide italiani ha registrato una crescita sostanziale con 4,7 miliardi di dollari, circa il 4,4% dello stock complessivo degli Ide presenti in Turchia. C’è stato un balzo dei flussi di Ide italiani che hanno raggiunto i 219 milioni di dollari, ovvero 1,2% dei flussi di Ide in Turchia, con un incremento del 196% rispetto al dato del 2007, che ammontava a 73 milioni di dollari.
Sempre nel 2008, le imprese italiane sono state
al primo posto nell’aggiudicarsi i contratti banditi dall’amministrazione pubblica turca, con sette progetti per 783 milioni di dollari, circa il 38% del totale assegnato ad imprese estere nell’anno. Nel 2007 l’Italia era stata seconda, con 232 milioni di dollari e una quota del 10%. Il primato è dovuto all’attivismo delle imprese italiane in settori strategici come le infrastrutture e trasporti, nel settore energetico, nei cementi, nell’automobilistico, nell’aerospazio e difesa. Nell’energia, l’Eni ha costruito con Saipem il gasdotto Blue Stream per il trasporto di gas dalla Russia alla Turchia attraverso il Mar Nero, inaugurato nel novembre del 2005 in base all’accordo tra Russia, Italia e Turchia, mentre partecipa alla costruzione dell’oleodotto da Samsun a Ceyhan per il trasporto del petrolio proveniente dai campi operati da Eni in Kazakhistan, partecipa infine finanziariamente, per una quota pari al 5%, all’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan (Btc), gestito dalla British Petroleum. Edison è coinvolta nel progetto Itgi (interconnettore, Italia, Turchia, Grecia) in 51
Risk base all’accordo del 2007, che sarà esteso anche all’Azerbaijan. Per le energie rinnovabili, Ansaldo Energia Fuel Cells di Finmeccanica, in collaborazione con Centro Nazionale di Ricerca turco, ha aperto un innovativo impianto di generazione di energia elettrica, mentre Italgen del Gruppo Italcementi, costruirà un parco eolico. Nei cementifici, il Gruppo Italcementi è presente in Turchia dal 1989 con la controllata Set Group e mantiene dagli anni ‘90 la leadership nel calcestruzzo. La Cementir del Gruppo Caltagirone ha rilevato l’impresa locale Cimentas, mentre Barbetti ha effettuato investimenti nei cementifici turchi. Nel settore automobilistico, la Pirelli ha uno stabilimento avanzato ad Izmit, mentre la Fiat, grazie alla joint venture con Tofaaz, ha una posizione preminente nel mercato turco e sta realizzando un sito produttivo a Bursa con una capacità di produzione di 400mila veicoli. Nel 2008 ha venduto un totale di 277.843 veicoli, esportati in tutto il mondo, ma gli effetti della crisi stanno investendo il settore. Nel comparto infrastrutturale, Astaldi ha concluso nel 2007 la realizzazione dell’autostrada Ankara-Istanbul e nel 2008 si è aggiudicata una gara per la costruzione di un tratto della metropolitana di Istanbul e del ponte “Metro Golden Horn Metro Crossing Bridge Construction Project”. La linea ad alta velocità Ankara-Istanbul ha rappresentato un affare per Mer Mec che si è aggiudicata nel corso del 2007 la gara dalle ferrovie turche per il noleggio di un locomotore, costruito da Ansaldo Breda; per Italferr che ha ottenuto nel 2007 il contratto per due impianti di manutenzione per treni ad alta velocità e per la Lucchini che ha realizzato rotaie. Nel 2008, Ansaldo Sts di Finmeccanica è stata scelta come fornitore dalle Ferrovie di Stato turche per la progettazione e realizzazione degli apparati di segnalamento e telecomunicazioni per le due linee ferroviarie BogazköprüUlukisla-Yenice e Mersin-Toprakkale, e si è aggiudicata la gara per le opere di rafforzamento della metropolitana di Ankara, mentre AnsaldoBreda fornisce la metropolitana leggera di Ankara e tram per la municipalità di Samsun e Kayseri, Il Gruppo Finmeccanica 52
ha avviato importanti collaborazioni di elevato valore strategico in tutti i settori di competenza. Oltre ai progetti già citati nei trasporti ed energia, nelle attività spaziali ha attivato la partnership del dicembre 2008 tra Telespazio, con il supporto di Thales Alenia Space e l’industria della difesa turca tramite Tusas Aerospace Industry (Tai), Aselsan, Tubitak-Uekae per la realizzazione del satellite da osservazione terrestre Gokturk, nell’elicotteristica, AgustaWestland è fornitore delle forze armate turche fin dagli anni ’60 e ha ottenuto una importante commessa con il T-129 Atak in partnership con Tai, nell’aeronautica, Alenia Aeronautica fornisce pattugliatori marittimi ATR-72ASW in collaborazione con Tai ed è capofila nella campagna di commercializzazione dell’Eurofighter Typhoon. Nel settore difesa, Finmeccanica assicura alle forze armate turche l’addestramento alla guerra elettronica e in particolare Selex Galileo fornisce radar navali, Oto Melara artiglieria navale e Mdba collabora con Rocketsan nei programmi internazionali missilistici. Selex Si e Selex Communications forniscono sistemi di comunicazione e di gestione del traffico aereo. Con l’industria aerospazio e difesa Turca, Finmeccanica ha creato vere e proprie partnership, la Tai agisce come prime per il T-129 di AgustaWestland, che verrà anche esportato all’estero. La collaborazione nella difesa è forte: Fincantieri ha avviato dal maggio 2008 il programma programma Sars (Search and Rescue) per quattro pattugliatori per la guardia costiera, mentre la Beretta controlla la Stoeger basata ad Istanbul e ha deciso di trasferire in Turchia alcune linee di produzione. Il mercato dell’aerospazio e difesa turco è però strettamente controllato attraverso specifiche normativa ed il sottosegretariato all’industria della difesa (Ssm). Per un gruppo con molteplici competenze, come Finmeccanica, importanti opportunità derivano dalla collaborazione industriale strategica con la Turchia, per creare sinergie nei mercati nazionali e per cogliere opportunità comuni di esportazione sul mercato internazionale. Una tappa fondamentale nelle relazioni economiche Italo-turche è stato il Media and Economic Forum svoltosi il 17 e 18 aprile
dossier 2009 a Instanbul e presieduto dal direttore generale di Finmeccanica, Giorgio Zappa, come copresidente della Italian Turkish Friendship Society. La Friendship Society è intesa come un pilastro della relazione bilaterale: partendo dall’alto livello di complementarietà dei rispettivi sistemi industriali, l’Italia può proporre il proprio knowhow tecnologico e la propria esperienza e tradizione industriale per consentire all’industria turca l’accesso a mercati altamente concorrenziali. Aiutare a stabilizzare l’economia turca può essere un beneficio per l’Unione Europea, che a fine 2009 opererà una revisione dei negoziati di accessione.
La Turchia ha una struttura
economica di mercato ben più evoluta di altri paesi già membri dell’Unione e dal punto di vista commerciale, industriale e finanziario, la sua adesione rappresenterebbe una opportunità per entrambe le parti. L’Italia sostiene l’accessione turca, ma l’avvio di negoziati di adesione non è sufficiente a vincere lo scetticismo di larghi strati della popolazione turca, che deve essere convinta dei vantaggi dell’adesione. La Turchia sta facendo i passi giusti anche con i propri vicini. In settembre si è svolto positivamente il primo Consiglio di cooperazione turco-iracheno e recentissimamente si è concluso un accordo con l’Armenia, tanto che la confindustria armena, Umba, considera di aprire una rappresentanza in Turchia. Quando sarà passata questa malattia economica stagionale, la Turchia ha le potenzialità per riprendere un cammino positivo. 53
Risk
GLI
EDITORIALI/MICHELE
NONES
L’addestratore M346 Master: un programma di interesse nazionale L’industria aeronautica italiana è oggi considerata un importante attore internazionale. Decenni di impegno ne hanno favorito la crescita e la maturazione. In particolare, nel segmento degli addestratori ha conquistato il mercato internazionale con l’MB326, seguito dal MB339 ed oggi si presenta con l’M346 Master, il più moderno “trainer” a livello internazionale. Quest’ultimo è l’unico velivolo militare operativo concepito e sviluppato in Italia. È, quindi, anche un simbolo. Per questo deve essere oggetto di una riflessione che non può essere limitata alla Alenia Aermacchi, né alla sua capofila Alenia Aeronautica, né alla capogruppo Finmeccanica. Deve coinvolgere anche gli attori istituzionali e governativi. Un prodotto completo, sviluppato e messo in produzione, costituisce la dimostrazione che un’industria ha effettive capacità sistemistiche e di integrazione. Quando si tratta di un velivolo avanzato questa dimostrazione è ancora più forte perché comporta la padronanza di tecnologie complesse, multisettoriali e trasversali. Nuovi materiali, elettronica, propulsione, componentistica sono state integrate nelle competenze aeronautiche dando vita ad un sistema ad elevata complessità. Siamo, in altri termini, nelle fasce più avanzate della tecnologia. L’M346 è, quindi, un importante biglietto da visita dell’industria, ma anche del sistema-paese. Questo velivolo è il frutto di un consistente impegno pubblico che ha assicurato la crescita delle innovative conoscenze e competenze che vi sono racchiuse. È in via di acquisizione, in un numero limitato di esemplari, da parte dell’Aeronautica Militare che, utilizzandolo, potrà ulteriormente favorire sia la sua crescita tecnologica, sia la promozione sul mercato internazionale (il primo contratto con gli Eau è in via di definizione). Si tratta, quindi, di un programma di interesse nazionale e lo diventerà sempre di 54
più perché il suo sviluppo condizionerà le sorti dell’industria aeronautica italiana. In altri termini, l’M346 è diventato, ed è, troppo importante per l’intera industria italiana perché ci si possa permettere qualcosa di meno di un pieno successo. Dopo anni di discussioni i paesi europei hanno lanciato a metà luglio, tramite l’Eda, la Request for Information con scadenza all’inizio di gennaio per un sistema di addestramento integrato che potrebbe finalmente assicurare la preparazione di piloti europei che, fin dall’inizio della loro carriera, imparino a lavorare insieme utilizzando una stessa macchina (seppure personalizzata in rapporto al velivolo da combattimento a cui sono destinati). Uno dei punti di forza dell’M346 è proprio la sua flessibilità ed adattabilità all’addestramento nei confronti di più macchine (anche se saranno necessari specifiche configurazioni). Sembra, di conseguenza, il candidato ottimale per questo programma europeo. Ma quest’ultimo prevede un sistema di addestramento completo e cioè gestione operativa, simulatori e velivolo. Per l’Italia vi è, quindi, lo spazio e l’esigenza di associare qualche altro partner europeo nel progetto. Un sistema di addestramento comune europeo richiederà uno sforzo maggiore, ma ha anche una valenza strategica maggiore: rafforzerebbe la successiva integrazione operativa e anche la definizione di requisiti comuni per gli equipaggiamenti. Il campo aeronautico è il più adatto per maturare questa esperienza visto il costo e la durata dell’addestramento. L’Europa della difesa potrebbe, quindi, trovarvi un’occasione di ulteriore crescita. Ma per arrivare a questo risultato serve un accordo politico, oltre che industriale e militare. Di qui la necessità di un impegno diretto del Governo che consenta uno sforzo congiunto di amministrazioni interessate, forze armate e industria.
editoriali
GLI
EDITORIALI/STRANAMORE
Berlusconi rilancia l’Euroesercito, ma Tremonti taglia i fondi alla difesa Un esercito europeo per risparmiare sulla spesa militare. L’idea l’ha rilanciata estemporaneamente qualche tempo fa Silvio Berlusconi, ipotizzando che, grazie ad un impiego integrato delle risorse, sia possibile ridurre del 70% i costi. Probabilmente un obiettivo di tale entità è comunque troppo ambizioso, almeno se si vogliono mantenere capacità pari a quelle attuali. Tuttavia è certo che i Paesi europei, che vogliono strumenti militari con tutte le capacità, ma con dimensioni minime, “sprecano” in larga misura il poco disponibile. D’altro canto non è ipotizzabile creare un esercito europeo se non si viene a realizzare una unione politica, un’Europa federale che dopo gli ultimi fallimenti è davvero molto lontana. C’è davvero da augurarsi che il prossimo via libera al Trattato di Lisbona, che dovrebbe essere conseguito entro la fine dell’anno, dia un nuovo impulso al processo, con la nomina di un presidente dell’Ue, il potenziamento del responsabile della politica estera & di sicurezza e l’ampliamento delle competenze delle istituzioni europee. Ma per arrivare a risultati nel campo della pianificazione, organizzazione, equipaggiamento ed impiego degli strumenti militari ci vorrà ancora parecchio tempo. In attesa dell’Euro-esercito una soluzione tampone potrebbe venire dalla “specializzazione”, in base alla quale ciascun paese avrebbe la responsabilità di creare un certo numero di forze “pregiate” da mettere a fattor comune in caso di necessità. Però cosa accade se un paese che possiede una capacità fondamentale decide di non partecipare o comunque offre le sue forze solo con limitazioni? Un’altra possibilità consiste nel condividere i costi di sistemi molto costosi: la Nato lo sta facendo con gli aerei da trasporto strategico, lo ha già fatto con gli aerei radar e lo farà con i grandi velivoli da sorveglianza senza pilota. Ma si tratta di poche eccezioni, la cui attuazione poi ha richiesto lustri. Risulta difficilissimo anche solo acquistare gli stessi sistemi d’arma ed equipaggiamenti: si segue que-
sta strada solo quando non si è in grado di fare da soli. Però a livello nazionale una razionalizzazione del sistema difesa è possibile. L’Italia spende poco per la difesa, ma spende anche male. Anni fa è stato chiesto allo Stato Maggiore Difesa di mettere a punto una completa riorganizzazione. Il lavoro è stato completato, anche se è come chiedere ad un tacchino di mettere il collo sul ceppo. Poi il progetto è stato rivisto. E ancora. Nell’ultima versione prevede un bel taglio degli organici, 177mila uomini rispetto agli attuali (teorici) 190mila e molti risparmi grazie ad una “rivoluzione” interforze. Ma tutto resta fermo. È stata infatti costituita una “Commisione di alta consulenza” per riesaminare il progetto. La Commissione ha impiegato 4 mesi per scegliere un segretario e riunirsi. Doveva ultimare l’attività a luglio, quando avrebbe dovuto essere presentato in Parlamento il testo “base” di una legge delega al governo per attuare la riforma. Ma a fine ottobre il testo non si era ancora visto. Così la riforma della difesa la sta facendo il ministro Tremonti, tagliando i capitoli di spesa in modo automatico. Il bilancio difesa 2010 segna un decremento dello stanziamento per la Funzione Difesa, che si attesta a 14.2 miliardi di euro e scende allo 0.91% del Pil. Mentre è positivo l’aumento delle risorse per l’investimento e che si sia arrestata la crescita della spesa per il personale, rimane gravissimo il sottofinanziamento delle spese per l’esercizio, con una “sofferenza” strutturale superiore al miliardo di euro/anno, che sta devastando l’efficienza dello strumento militare. Per rimediare occorre una riforma urgentissima e draconiana, che comporterà una abdicazione da livelli di “ambizione” non sostenibili, specie se monta la tentazione di tagliare anche le missioni all’estero e relativi finanziamenti. Se si procede con questa velocità e in questo modo a livello nazionale, figuriamoci dunque quando sarà possibile una razionalizzazione paneuropea. 55
S
CENARI
MONDO
MISSION IMPOSSIBILE: COPENAGHEN
«N
DI
ALESSANDRO FARRUGGIA
ulla accadrà fino aiuti ai paesi poveri per adattarsi a due minuti al cambiamento climatico, dalla mezzanotinvestimenti nei paesi in via di te, perché è così che i negoziati sviluppo e nelle energie rinnovanno: nessuno si vuole muovere vabili, un forte meccanismo per primo, nessuno vuole scoprirsi. finanziario. Questa sarebbe la premesMa sono cautamente ottimista che il sa per completare le negoziazioni di Fra meno di un mese aprirà la Cop15, la Conferenza delle mondo non possa permettersi un falun nuovo trattato globale che prenlimento e che un accordo alla fine si parti della Convenzione quadro da il posto del protocollo di Kyoto». Onu sui cambiamenti climatici. farà». Il professor Rajendra Pachauri De Boer saggiamente non fissa E già si grida al fallimento. Non è detto: un nuovo Trattato è il capo dell’Ipcc, l’organismo creato date, ma - osservano negoziatori forse non si avrà, dalle Nazioni Unite per investigare esperti - le prospettive sono incerte ma un accordo è possibile. sul cambiamento climatico che ha ed è possibile che se a Copenaghen Il punto è: sarà vincolante oppure no? Lo firmeranno prodotto i quattro fondamentali rapsi troverà una intesa politica di base, i presidenti o i ministri? porti che fanno da colonne portanti per raffinarla (forse per indicare con dell’intero edificio della lotta ai camprecisione gli impegni, che a biamenti climatici e per questo è stato insignito del pre- Copenaghen potrebbero essere indicati in una “forchetmio Nobel per la pace 2007. E guarda all’appuntamen- ta”) si potrà decidere di “fermare gli orologi” e riconvoto di Copenaghen - la 15° Conferenza delle parti (Cop) care attorno alla metà del 2010 una “Copenaghen bis” della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cam- (non necessariamente a Copenaghen) proprio come biamenti climatici - con l’ottimismo della volontà: un accadde nel 2000 dopo il fallimento della conferenza accordo si farà. Il problema è: che accordo? delle parti dell’Aia (Cop6), che fu riconvocata (come «È fisicamente impossibile, sotto qualsiasi scenario, Cop6-bis) a Bonn, nel luglio 2001. «Il che, pur non che a Copenaghen si possano completare tutti i dettagli essendo desiderabile in assoluto sarebbe forse il male di un nuovo trattato - mette le mani avanti Ivo De Boer, minore - osserva Pachauri - perché è meglio un accorsegretario esecutivo della Convezione - ma è invece do ritardato di sei mesi o un anno che un accordo di possibile ed è assolutamente necessario che si raggiun- pura facciata, che non inciderebbe in alcun modo sulla ga un forte accordo politico. Un accordo che includa crisi climatica in atto che richiede invece azioni chiare, cinque punti chiave: forti tagli alle emissioni da parte nette, efficaci». Un rinvio a una “Copenaghen bis” condei paesi industrializzati, azioni da parte dei paesi in via sentirebbe di fare pressione sul Senato americano per di sviluppo per rallentare la crescita delle emissioni, spingerlo a ratificare in primavera (in modo da evitare 58
scenari che possa essere frenato dall’approssimarsi delle elezioni di mid term che nel novembre 2010 ne rinnoveranno un terzo) la legislazione climatica proposta da Barack Obama: l’American clean energy and security act che ragionevolmente il presidente americano non riuscirà a far approvare prima di Copenaghen e che qualificando l’impegno degli Stati Uniti è la precondizione per un accordo globale, legalmente vincolante e ratificabile, da concludere tecnicamente nel dicembre 2010 alla Cop16 e da negoziare tecnicamente in quella successiva mentre si procede con le ratifiche, il modo da arrivare in tempo per la scadenza di fine 2012, quando cesserà il primo periodo di impegno stabilito dal protocollo di Kyoto. Un’altra precondizione ad un accordo che davvero possa incidere è l’asse, che potrà crearsi in occasione del prossimo viaggio in Cina, tra Washington e Pechino. I due paesi infatti sono entrambi fuori Kyoto (gli Stati Uniti perché non l’hanno mai ratificato, la Cina perché non è parte dei paesi “Annesso I”), entrambi hanno mostrato un interesse esplicito (gli Stati Uniti) o sottotraccia (la Cina) per essere parte attiva del processo. E soprattutto assieme pesano per qualcosa - dati World energy outlook 2008 - come 11,8 gigatonnellate di carbonio, come dire il 41% delle emissioni globali di Co2. Se questi sono i dati è lapalissiano che sono decisivi e che un accordo senza di loro sarebbe velleitario. Ma il fatto che sia desiderabile non significa di per sé che sia raggiungibile. Quel 41% nasconde infatti due realtà ben diverse. La Cina infatti produce il 21% delle emissioni mondiali avendo il 20% della popolazione mondiale, mentre gli Stati Uniti producono il 20% avendo “solo” il 5% della popolazione mondiale. È in una difficile intesa tra questi paesi così diversi e con un così diverso peso di emissioni pro capite, che passa la strada per un accordo globale, che sarebbe ingenuo credere si negozi solo nelle sedi ufficiali. Da parte loro i negoziatori, stretti tra le roboanti dichiarazioni di principio dei leader politici e le prudenti indicazioni tattiche fornite da quelle stesse segreterie e dai loro ministeri e le loro agenzie di riferimento a non fare concessioni che all’ultimo minuto, sono passati in questi mesi di incon-
tro in incontro - gli ultimi a Bangkok e a Barcellona seguendo le indicazioni della conferenza di Nairobi (Cop12) e ancor più del “mandato di Bali” (conferito dalla Cop13 svoltasi in Indonesia nel 2007) che ha tra l’altro previsto la creazione di due gruppi di lavoro, uno in ambito protocollo di Kyoto sugli impegni dei paesi “Annesso I” e uno in ambito Convenzione sulle “azioni cooperative di lungo termine”. Il combinato disposto darà vita al nuovo trattato, la cui forma giuridica - uno snodo chiave - è pero ancora in alto mare. È infatti ancora da vedere se ciò che nascerà a Copenaghen sarà una semplice modifica ed “estensione” del protocollo di Kyoto o piuttosto un protocollo nuovo di zecca (a sua volta da vedere se in ambito Kyoto, quindi ristretto ai paesi sviluppati che hanno ratificato Kyoto o in ambito Convenzione, e quindi aperto a tutti coloro che ratificarono la Convenzione quadro sui cambiamenti climatici che fu firmata a Rio de Janeiro nel 1992 quindi inclusi gli Stati Uniti, la Cina, l’India, il Brasile, il Sudafrica e tanti altri. O, ancora, potrebbe trattarsi anche di un mero accordo non legalmente vincolante magari sotto forma di dichiarazioni volontarie di impegno individuale da parte dei singoli paesi: e nel caso sarebbe ben poca cosa. Per adesso la spaccatura tra Nord e Sud del mondo - il primo orientato a un accordo in sede di Convenzione che “superi” Kyoto in modo da prevedere impegno di vario genere per tutti, mentre il secondo è schierato a difesa del “modello Kyoto”, in modo da lasciare gli obblighi di riduzione ai soli paesi sviluppati - è tanto evidente quanto ideologica, mentre gli americani, anche per ragioni interne, a Bangkok hanno mostrato una posizione ancora più soft e pur dicendosi pronti ad una intesa hanno fatto capire che propendono per un accordo non vincolante. Ma converrebbe cancellare Kyoto e tutta la complessa architettura che lo sorregge? «Se togliessimo il protocollo per darne vita ad un altro - osserva il professor Graciela Chichilnsky, tra i leading authors del quarto rapporto dell’Ipcc - avremmo qualcosa di molto simile con un nome diverso. Ci sono voluti 13 anni per negoziare il protocollo di Kyoto. Sicuri che valga la pena perdere tempo prezioso per riordinare le sedie sul ponte del 59
Risk Titanic?». A meno di non volere qualcosa di davvero diverso, la risposta è implicita nella domanda: no. il gruppo di lavoro in ambito protocollo di Kyoto (AWG-KP) non ha ancora un testo negoziale unico (e forse non lo avrà mai, essendo stata scelta la strada di testi settoriali), ma il suo leader John Ashe ha comunque chiesto ai paesi che compongono il gruppo di chiarificare il livello al quale sono pronti ad impegnarsi, un livello ancora non ben chiaro. L’altro gruppo è più avanti. Ma anche qui tutto è relativo perché nelle 181 pagine della seconda bozza di testo negoziale preparata il 15 settembre dal gruppo di lavoro sulle azioni cooperative di lungo periodo (AWG-LCA) in ambito Convenzione, guidato dal maltese Michael Zammit Cutarjar, le parentesi quadre (che contengono parti di testo sulle quali non c’è accordo) abbondano. Anzi, debordano.
Il testo è stato suddiviso in cinque blocchi: visione condivisa, mitigazione, adattamento, finanziamento e trasferimento tecnologico. Il blocco mitigazione è stato a sua volta suddiviso nelle seguenti sezioni: mitigazione nei paesi industrializzati, mitigazione nei paesi in via di sviluppo, attività di riduzione delle emissioni derivanti dalla deforestazione e dal degrado forestale (REDD-plus), approcci settoriali, strumenti di mercato, azioni di risposta. E i numeri, quando ci sono, sono i più vari. Per capirsi, una nuova versione degli impegni di riduzione delle emissioni comunicati formalmente o informalmente al Segretariato della Convenzione da parte di paesi “Annesso I” vede riduzioni medie al 2020 quantomeno piuttosto deludenti, con gli Usa tra il -1 e il -8%, il Canada al -3%, la Federazione Russa tra il 10 e il -15%, l’Australia tra il -2 e il -22%, l’Ucraina al -20%, l’Europa al -20% (elevabile al 30% in caso di accordo globale), il Giappone al -25%, la Svizzera tra il -20 e il -30%, la Norvegia al -40%. Si può fare di più, anzi si deve perché globalmente questi impegni sono molto lontati da quel 25-40% di riduzione rispetto ai livelli del 1990 suggerita dall’Ipcc per il 2020 come tappa intermedia in vista della riduzione dell’80-95% al 2050 per contenere il riscaldamento entro i 2 gradi. Ma
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i numeri, si è detto, sono ballerini e saranno influenzati da molti altri fattori. Tra questi il negoziato sulle attività di forestazione, uso del suolo e cambio d’uso del suolo (LULUCF) che i paesi “Annesso I” vorrebbero negoziare tenendo presenti gli impegni di riduzione delle emissioni, mentre i paesi in via di sviluppo vorrebbero trattare a parte. Così come peserà l’impatto dei nuovi meccanismi come quello che dovrebbe premiare le attività di riduzione della deforestazione e della degradazione forestale (REDD, del quale si parla da Cop11 e che costituisce una ottima occasione per i paesi in via di sviluppo per monetizzare la tutela delle proprie foreste e che comunque è buono in sé perché consente la tutela di vaste aree di interesse per la protezione della biodiversità) e comunque i vari meccanismi flessibili già in atto nel protocollo di Kyoto che così faticosamente si sono messi in piedi in questi anni. L’obiettivo delle Nazioni Unite sarebbe creare un protocollo ratificabile e legalmente vincolante - magari in ambito Convenzione - che fissi per i paesi “Annesso I” riduzioni almeno del 25% al 2020 e almeno del 50% al 2050, mentre per i paesi in via di sviluppo si limiti ad un impegno per limitare il tasso di crescita delle emissioni compatibilmente con le loro necessità di sviluppo e solo se supportato da un flusso finanziario e tecnologico da parte dei paesi sviluppati. Le emissioni dei paesi sviluppati, secondo un passo della bozza di accordo, dovrebbero raggiungere un picco entro il 2015, mentre quelle dei paesi in via di sviluppo potrebbero crescere fino al 2025 per poi iniziare a scendere. Quanto, è tutto da vedere. In questo senso è interessante una simulazione presentata ad ottobre a Bangkok dall’International energy agency (Iea). L’Iea si è posta come obiettivo la stabilizzazione del contenuto di gas serra in atmosfera a quota 450 ppm (al 2007 il tasso della sola Co2 era a quota 384 ppm). Secondo l’Iea l’obiettivo sarebbe raggiungibile al 2045, con un picco di 510 ppm al 2035, fissano impegni di riduzione relativamente modesti e a un costo di 10.5 trilioni di dollari, dei quali 8.1 da spendere tra il 2021 e il 2030. In particolare, a fronte di emissioni attuali da fonti fossili per 29 gigatonnellate e di un trend “business as usual” che
scenari crescerebbe fino alle 40 gigatonnellate nel 2030, basterebbe contenere l’aumento a livello globale entro il +6% al 2020, come dire entro le 30.9 gigatonnellate, per poi giungere nel 2030 a una riduzione globale del 9% che porterebbe le emissioni annuali a quota 26,4 gigatonnellate. Naturalmente gli impegni di riduzione sarebbero comuni ma differenziati. L’Europa potrebbe limitarsi nel 2020 ad una riduzione delle emissioni del 20% (ma rispetto al 2007, quindi ben inferiore rispetto al 20% rispetto al 1990 già fissato), il Giappone del 22%, gli Stati Uniti del 18% (sempre rispetto al 2007). Mentre alla Cina sarebbe consentito al 2020 un aumento delle emissioni del 38% e all’India del 44%. Sono numeri che tornano? In molti obietteranno magari che si tratta di impegni troppo lievi per centrare un obiettivo difficile come quota 450 ppm. E altri obietteranno che il livello di 450 ppm è troppo alto dato che secondo l’Ipcc ha il 54% di probabilità di produrre comunque un aumento di temperatura globale superiore ai 2 gradi. E due gradi potrebbero essere troppi. Quello che servirebbe è allora un target ancora più basso, se possibile sotto le 400 ppm. Ma sebbene sia desiderabile da un punto di vista ambientale è anche molto oneroso. Ed è difficilmente ipotizzabile che la volontà politica sia così forte da aggregare il consenso necessario - e in ultima analisi le risorse necessarie - per raggiungerlo.
L’obiettivo dell’Onu sarebbe creare un protocollo ratificabile e legalmente vincolante che fissi per i paesi “Annesso I” riduzioni almeno del 25% al 2020 e almeno del 50% al 2050
Sinora infatti le curve delle emissioni sono andate sempre su. Basti pensare che solo dal 1971 al 2007 sono più che raddoppiate, passando dalle 14.1 gigatonnellate alle 29 gigatonnellate l’anno, con un aumento che nel 2007 è stato, rispetto al 2006, del 3%. Ora mettiamo in relazione questo 3% di aumento in un solo anno con il protocollo di Kyoto. L’intero processo di Kyoto, iniziato nel 1997, produrrà nel 2012 una riduzione del 5% delle emissioni di Co2 dei paesi che l’hanno firmato e ratificato e che oggi pesano per circa il 30% delle emissioni globali. Cioè produrrà una riduzione del 5% del 30%: l’1,5% in quindici anni. Anche
considerato il tendenziale evitato, non è proprio un gran risultato. È solo un faticoso piccolo primo passo nella lotta contro i cambiamenti climatici. «Se il mondo prosegue con le politiche energetiche attuali - osserva il direttore dell’Iea, Nobuo Tanaka - gli impatti dei cambiamenti climatici saranno severi. Il settore energetico, che è responsabile dei due terzi delle emissioni è il cuore del problema. Quello che ci serve è una vera rivoluzione energetica ed ecologica che ci consenta di cambiare il suo volto». È una sfida importante, ardua, che richiede coraggio e capacità di visione. Ma la storia ci offre un’insperata occasione. La crisi economica e finanziaria infatti farà ridurre l’aumento delle emissioni nel 2008 e forse provocherà una riduzione nel 2009. Il che è una occasione da cogliere al volo. «La riduzione delle missioni causata dalla crisi globale - osserva Ivo De Boer - è una straordinaria finestra di opportunità per imboccare il target verso quota 450 ppm, una opportunità unica che va colta adesso perché ogni ritardo verso una ristrutturazione del sistema energetico e infrastrutturale determinerebbe il rischio di non centrare l’obiettivo o di centrarlo più tardi e a costi più alti». Il rapporto stilato da Sir Nicholas Stern per conto del governo britannico lo dice a chiare lettere: prima si tagliano le emissioni, meglio è. Un intervento per mantenere entro i 550 ppm di Co2 equivalente è fattibile e costerebbe non poco: l’1% del Pil mondiale. Ma non intervenire costerà ancora di più in termini di adattamento: tra il 5 e il 20% del Pil mondiale. E non garantirà comunque risultati accettabili. Se continuiamo una politica magari apparentemente improntata alla soste61
Risk te lo sarà, che almeno sia intesa di vertice nella quale i leader ci mettano la faccia. Un accordo politico di una simile portata firmato solo da ministri dell’ambiente avrebbe una consistenza incerta e un futuro potenzialmente periglioso, uno con presidenti e primi ministri sarebbe altra cosa. Peraltro, se pure sono necessari, i leader non sono di per sé sufficienti. Conta infatti - e qualcuno se ne sorprenderà nell’era nella quale con l’apparenza ci si illude di risolvere ogni cosa - anche la sostanza. Se a questo possibile ma arduo accordo politico ai massimi livelli si sottraessero tre essenziali ma fondamentali testate d’angolo (accordo legalmente vincolante; target di riduzione al 2020 e al 2050; coinvolgimento dei grandi paesi in via di sviluppo in un processo di riduzione delle emissioni di gas serra) l’edificio crollerebbe sotto il peso della sua inconsistenza e non potremo che chiamarlo fallimento. Tanto nibilità ma sostanzialmente fedele al “business as per parlare chiaro. Riusciremo a fare il salto di qualità? usual” pagheremo molto di più e senza avere alcuna Il passato remoto non conforta. L’ascesa, il trionfo e la garanzia che interventi così onerosi come quelli neces- rovina di Chaco Canyon, la Manhattan degli indiani sari ad adattarci ai cambiamenti climatici attesi ci pos- Anasazi. Il crollo di Copan e di tanta altre città Maya. sano garantire un mondo simile a quello che conoscia- La parabola delle isole di Nihoa, Necker e di Pasqua. È mo. Secondo Stern abbiamo tra i 10 e i 20 anni per lungo l’esempio di civiltà umane che hanno creduto di avviare una politica adeguata alla sfida. Non è molto, a poter vivere in ecosistemi delicati senza farsi alcuno meno di trovare la volontà politica per avviare uno scrupolo, come se lo sviluppo fosse una variabile indisforzo di tale portata. pendente. Che fosse possibile procrastinare sine die. E che, senza accorgersi del baratro nel quale stavano preE questo è il punto. Come osservò l’ex segretario cipitando a causa dello sfruttamento eccessivo o inapgenerale delle Nazioni Unite Kofi Annan intervenendo propriato delle risorse che avevano a disposizione, nel alla conferenza di Nairobi (Cop12), «sul tema dei cam- giro di alcune centinaia o migliaia di anni sostanzialbiamenti climatici si avverte una carenza di leadership» mente si autodistrussero. La loro lezione dovrebbe quando invece servirebbe «che il tema fosse considera- averci insegnato qualcosa. Dovrebbe. to nell’agenda mondiale alla stessa stregua della lotta Secondo Paul Crutzen, premio Nobel per la chimica, il alla povertà, contro le guerre, contro il terrorismo». 1750 è l’anno di confine fra due epoche nella scala dei Come una questione prioritaria. Un tema che mobilita tempi geologici, e cioè fra l’Olocene che è l’epoca inipresidenti e primi ministri. E nonostante tutto, nono- ziata circa 10 mila anni fa e una nuova epoca definita stante il G8 e il G20, ancora non ci siamo. Copenaghen dallo stesso Crutzen come “Antropocene” cioè l’epoca avrà successo se davvero Obama, Brown, Sarkozy, la che è caratterizzata da un dominio delle attività umane Merkel e gli altri Capi di Stato e di Governo dei paesi tale da modificare le caratteristiche naturali del nostro chiave si metteranno in gioco e andranno lì a sporcarsi pianeta. L’età del dominio dell’uomo sulla natura. le mani per dare il drive giusto ad una intesa politica Vediamo di dimostrare che è anche un dominio intellidavvero forte. Perché se non sarà trattato, e difficilmen- gente. Copenaghen può essere un’occasione preziosa.
Copenaghen avrà successo se Obama, Brown, Sarkozy, la Merkel e gli altri Capi di Stato e di Governo dei paesi chiave si metteranno in gioco per dare il drive giusto ad una intesa politica davvero forte. Perché se non sarà trattato, e difficilmente lo sarà, che almeno sia intesa di vertice
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Risk
EUROPA
L’ITALIA E IL MERCATO EUROPEO DELLA DIFESA
L
DI
MICHELE NONES
del mercato europeo siano state e diverse iniziative in corso adottate in questo periodo (anche per integrare il mercato eurose erano state tutte preparate in peo della difesa muovono da epoca non sospetta) ha inevitabiluna valutazione, largamente condimente creato qualche ulteriore previsa dai diversi stakeholders europei, sulla sua necessità piuttosto che occupazione. sulla sua opportunità. In altri termini Ma non può essere dimenticato che si ha l’impressione che gran parte questa posizione industriale è degli attori europei comprendano emersa anche nel periodo preceche la strada dell’integrazione sia dente e può essere ricondotta all’inormai da tempo obbligata, ma la persoddisfazione e alla delusione per La Ue deve acquistare corrano senza grande entusiasmo, le aspettative che si erano create una sua dimensione più preoccupati per quanto devono nel campo della difesa e sicurezza. alla fine dello scorso decennio accettare di rischiare di perdere a quando era sembrato che per lo Senza di essa non può giocare un ruolo significativo livello nazionale che stimolati da meno i maggiori paesi europei sullo scenario internazionale. quanto potrebbero guadagnare avessero l’intenzione di favorire Deve dunque investire di più e deve farlo dall’Europa della difesa. Dei tre la ristrutturazione dell’industria in termini comunitari attori principali del sistema della europea attraverso la concentrae non solo nazionali difesa, mondo politico, militare e zione della domanda in termini di industriale, sono soprattutto i rapregole di mercato, di requisiti presentanti di quest’ultimo che manifestano perples- comuni delle Forze Armate e di nuovi programmi sità, influenzando i politici; in particolare, quelli con comuni. È in questo senso che venivano interpretaresponsabilità di governo. te dai più l’Accordo Quadro/LoI del 2000 fra i sei Su questo atteggiamento ha certamente pesato il dif- maggiori paesi europei che prefigurava una omogeficile momento dovuto alla crisi economica e finan- neizzazione del loro procurement e di alcune imporziaria che nell’ultimo anno ha scosso tutto il merca- tanti regole di mercato (esportazioni, sicurezza degli to internazionale ed ha visto molti paesi europei, approvvigionamenti, sicurezza delle informazioni anche alcuni campioni del “liberismo”, adottare classificate, politica della ricerca, trattamento delle misure nazionali di sostegno a favore di alcuni set- informazioni tecniche, armonizzazione dei requisiti tori industriali che, al di là dell’incerta legittimità, militari), l’Occar del 1998 (un’unica agenzia comusono aiuti di stato mascherati. Il fatto che alcune ne per gestire i programmi comuni sulla base del importanti decisioni sul cammino dell’integrazione ritorno globale e non della regola cost sharing/work 64
scenari sharing applicata ai singoli programmi), e poi a metà di questo decennio, il Comitato Militare dell’Ue con il suo staff e l’Agenzia Europea della Difesa (il primo anche per favorire l’armonizzazione dei requisiti militari e l’Eda per sviluppare una politica europea della ricerca, degli armamenti, delle capacità e industriale). I risultati concreti sono stati però minimi. L’Accordo Quadro/LoI ha definito numerose regole che non sono però diventate operative: due sole Licenze Globali di Progetto nel campo della semplificazione dei trasferimenti fra i Paesi LoI, mentre non è ancora concluso il pacchetto di misure riguardanti la sicurezza degli approvvigionamenti; di positivo si può registrare, invece, il confronto e coordinamento delle diverse posizioni nazionali su tutti i temi interessanti il mercato della difesa. La LoI ha favorito la crescita di una reciproca fiducia e conoscenza fra i sei Paesi coinvolti ed ha rappresentato e rappresenta sempre più la sede di coordinamento delle loro politiche nei confronti di tutte le iniziative che coinvolgono il mercato europeo della difesa e le sue regole. Così è stato per quelle della Commissione Europea (in particolare la direttiva sul procurement militare e quella sui trasferimenti intracomunitari, attività che continua ora nella fase del recepimento) e per quelle dell’Eda (anche se con qualche maggiore difficoltà dovuta anche al numero delle iniziative e ai ritmi incalzanti con cui sono portate avanti). L’Occar ha visto assegnato un solo nuovo importante programma fin dalla sua impostazione, il velivolo da trasporto A 400 M che sta, però incontrando serie difficoltà finanziarie e industriali. Per il resto l’Occar sta gestendo programmi traferiti sotto il suo controllo ad un grado abbastanza elevato di definizione. La definizione di requisiti comuni europei procede con difficoltà e l’Eda continua a presentare preoccupanti debolezze: sul piano istituzionale (fino alla ratifica del Trattato di Lisbona), decisionale (ogni stato un voto ed, essendo un organismo intergovernativo, necessità di raggiungere preventivamente un vasto consenso su ogni decisione), gestionale (partecipa-
zione volontaria degli stati), finanziaria (poche risorse per il funzionamento e per gestire qualche programma di ricerca e sviluppo). Sul fronte della domanda non si sono, quindi, fatti grandi passi avanti, per lo meno a livello inter-governativo, evidenziando le difficoltà di trovare accordi basati solo sul consenso, senza che nessuno rappresenti l’interesse comune europeo. In questo contesto hanno obiettivamente finito col prevalere interessi ed egoismi nazionali, frenando il processo di integrazione europeo. Solo una forte volontà politica come quella espressa negli anni 1997-98 dagli allora capi di governo e ministri della difesa (per l’Italia l’indimenticabile e ineguagliato Beniamino Andreatta) avrebbe potuto vincere le resistenze corporative e “autarchiche”, ma negli anni successivi i potenziali promotori di un simile disegno sono diventati sempre più rari. E le difficoltà politiche-istituzionali dell’Europa allargata, prima, e quelle economiche, poi, li hanno messi ulteriormente in minoranza.
I maggiori segnali positivi sono venuti nel-
l’ultimo biennio dall’Unione Europea e, in particolare dal pilastro comunitario, soprattutto sul fronte delle regole del mercato. Le due Direttive europee, pubblicate quest’anno e operative dal 2011-12, nascono dalla constatazione che l’industria della difesa non ha fino ad ora tratto un consistente vantaggio dalla creazione del mercato comune europeo perché gli stati membri hanno applicato estensivamente le deroghe previste dall’articolo 296 del Trattato ed hanno mantenuto più o meno esplicite barriere a tutela dei loro mercati nazionali. Ma lo sviluppo del mercato della sicurezza e il progressivo affievolimento del confine fra mercato civile e militare, nonché la diffusione di tecnologie duali utilizzabili e utilizzate in campo civile e militare, hanno spinto la Commissione Europea a guardare con sempre maggiore attenzione al settore della difesa. Così come la più diffusa convinzione che il settore dell’aerospazio, sicurezza e difesa svolge un importante ruolo di traino verso l’intera industria 65
scenari perché portatore di significative innovazioni sia di prodotto sia di processo. D’altra parte è sempre più difficile trovare imprese esclusivamente “militari”, così come trovare ricerche militari che non abbiano ricadute in campo civile. Queste “riserve di caccia” dei maggiori paesi europei sono viste ormai con sospetto dai gruppi industriali e dagli Stati più legati al mercato civile, così come dalla stessa Commissione che ne teme gli effetti distorsivi sul cosiddetto Level Playing Field. Il problema è che si rischia di “buttare via il bambino con l’acqua sporca” perché fino a quando la domanda non sarà integrata a livello europeo, la domanda “nazionale” continuerà ad essere inevitabilmente condizionata dalle esigenze nazionali e non ci sarà verso di impedire che chi finanzia i programmi di ricerca e produzione voglia avere anche adeguati ritorni industriali, tecnologici e occupazionali. L’unica soluzione credibile è quella di accompagnare la messa a punto di regole comuni con la messa in opera di nuovi programmi di investimento comuni, basati su esigenze europee e non solo multi-nazionali e utilizzanti risorse aggiuntive a carico del bilancio europeo. Solo l’europeizzazione della domanda parallelamente ad una più estesa europeizzazione dell’industria creeranno le condizioni per poter superare, senza velleitaristiche fughe in avanti, le resistenze nazionali. Ovviamente si tratta di un obiettivo di lungo periodo perché, anche sul piano giuridico e istituzionale, saranno necessari significativi cambiamenti dell’architettura europea. Ma, intanto, dovrebbe essere possibile muovere qualche ulteriore passo avanti, utilizzando nuovi finanziamenti in due direzioni: • Dedicare maggiore spazio nell’8° Programma Quadro al settore della sicurezza e alle tecnologie duali. Con l’attuale 7° Programma Quadro la Commissione europea ha, per la prima volta, riconosciuto la specificità e l’importanza delle tecnologie associate alla sicurezza. Bisogna potenziare questo approccio perché in molte aree la comunalità è ormai assai spinta: basta pensare ai satelliti o ai
L’unica soluzione credibile è quella di accompagnare la messa a punto di regole comuni con la messa in opera di nuovi programmi di investimento comuni, basati su esigenze europee e utilizzanti risorse aggiuntive a carico del bilancio Ue mezzi non pilotati terrestri, aerei, subacquei o ai sistemi di sorveglianza o di gestione di crisi ed emergenze. • Destinare fondi dedicati alla ristrutturazione e razionalizzazione della struttura industriale. È evidente che vi sono segmenti in cui l’Europa ha delle sovracapacità (soprattutto nel terrestre e nel navale). Una maggiore integrazione del mercato europeo comporterà una riorganizzazione dell’industria con inevitabili riduzioni occupazionali. Sarebbe auspicabile sostenere questo processo attraverso un intervento europeo in analogia a quanto si è fatto in altri settori e a quanto hanno fatto gli stessi Stati Uniti a metà degli Anni Novanta. Più in generale sembra opportuno sottolineare che l’approccio “obbligato” verso l’integrazione europea si basa anche su altre due considerazioni di carattere strategico: • L’Europa deve acquistare anche una sua dimensione nel campo della difesa e sicurezza. Senza di essa non può giocare un ruolo significativo sullo scenario internazionale, né tutelare la sua esistenza e i suoi interessi. Deve, quindi, dotarsi di una sua autonoma capacità militare e le sue Forze Armate devono poter contare su equipaggiamenti efficaci, economicamente competitivi e tendenzialmente comuni. A questo fine bisognerà definire requisiti comuni per i futuri equipaggiamenti e rendere disponibili 67
Risk
Il sistema della difesa è rappresentato da un triangolo con ai vertici le istituzioni che definiscono obiettivi e risorse, lo strumento militare che realizza la politica di difesa e le capacità tecnologiche e industriali che devono assicurare i necessari equipaggiamenti i necessari finanziamenti. L’Europa deve investire di più per assicurare la sua difesa e sicurezza e deve farlo in termini “comunitari” e non solo “governativi”. In altri termini solo un investimento “europeo” può assicurare una politica di difesa “europea”: di qui la necessità di aumentare i finanziamenti all’Eda per favorire nuovi più ambiziosi programmi di ricerca e sviluppo e di potenziare i programmi comuni di approvvigionamento attraverso l’Occar. • Le imprese europee devono potersi rafforzare per affrontare un mercato sempre più globale e competitivo. Bisogna, quindi, che possano passare dalla fase “multidomestica” a quella “transnazionale”. I benefici della concentrazione si ottengono con la razionalizzazione basata sull’eccellenza tecnologica a livello settoriale e a livello di centri di ricerca e produzione. Questo richiede un mercato continentale integrato in cui le imprese possano riorganizzarsi come fanno oggi solo all’interno dei mercati nazionali. Ciò comporterà la progressiva perdita della loro identità nazionale per acquisirne una europea. Ma questo, a sua volta, richiederà la costruzione di adeguate istituzioni europee che possano essere interlocutori e diventare un nuovo punto di equilibrio “europeo” fra domanda e offerta. Il rischio è 68
che, altrimenti, le nuove imprese europee finiscano con l’essere “figlie di nessuno”, perdendo il supporto nazionale senza poter contare su uno europeo. Basti pensare al sostegno nei confronti delle esportazioni che richiede iniziative a livello politico, militare, finanziario, oggi assicurati (seppur in modo differenziato) dai governi e dalle amministrazioni dei paesi produttori. Se, per ipotesi, tutti i principali equipaggiamenti europei fossero il risultato di collaborazioni integrate, chi si assumerebbe l’onere di promuovere e sostenere l’export, soprattutto in un mercato internazionale sempre più complesso e competitivo? Ma, come si è detto, riorganizzare il sistema europeo della difesa costa sia perché bisogna far fronte a nuove esigenze con nuovi equipaggiamenti sia perché ogni ristrutturazione costa. E questo vale per le Forze Armate come per l’industria. Il problema è che, nel settore della difesa, il cliente è solo pubblico ed è ampiamente diffusa in Europa la presenza pubblica nella proprietà di molte delle principali imprese. In altri termini non c’è né una domanda privata, né un’esclusiva proprietà privata su cui scaricare i costi della ristrutturazione. Su ambedue i fronti sono alla fine solo gli Stati a poter e dover intervenire. Il problema è che molto difficilmente si può conciliare un intervento nazionale con una prospettiva europea a meno che non ci sia un fermo controllo da parte delle istituzioni europee nei confronti di tutti gli stati membri (compresi i più potenti) e/o una qualche forma di incentivo economico verso soluzioni che favoriscano anche la tutela di interessi europei. Ma quest’ultimo problema ripropone l’irrisolta questione delle carenze istituzionali e giuridiche sul fronte della politica europea di difesa. Il sistema della difesa è rappresentato da un triangolo con ai vertici le istituzioni che definiscono obiettivi ed assegnano le risorse, lo strumento militare che con le forze armate realizza la politica di difesa e le capacità tecnologiche e industriali che devono assicurare i necessari equipaggiamenti. Il sistema deve trovare un punto di equilibrio e deve evolvere simmetricamente per
scenari non perderlo. Vale a livello nazionale, ma vale anche a livello europeo. Oggi le carenze maggiori si concentrano istituzionalmente e politicamente nel primo dei tre vertici. Spingere verso una maggiore integrazione solo gli altri due non è sufficiente e, per di più, rischia di incontrare limiti invalicabili. In questo quadro l’Italia ha davanti due sfide: • Partecipare attivamente al processo di integrazione del mercato europeo della difesa attraverso una sua politica nazionale che sappia individuare e tutelare i suoi interessi nazionali. Innanzi tutto bisogna continuare ad assicurare uno stretto coordinamento interministeriale di tutte le numerose amministrazioni che hanno competenza sulla materia: Difesa, Esteri, Sviluppo Economico, Economia e Finanze, Interno. Negli ultimi anni questo è stato assicurato dall’impegno della presidenza del Consiglio dei ministri e dalle sue strutture. Si è rivelata, per giudizio unanime, una scelta vincente. Questo coordinamento ci ha permesso di assicurare coerenza e omogeneità di posizioni a Roma e a Bruxelles ed ha rafforzato la nostra capacità negoziale. Ma bisogna continuare su questa strada e, in mancanza di strutture e procedure adeguate, molto dipende dalla volontà e dal supporto dell’autorità politica. Senza di esse, il rischio è quello di precipitare rapidamente nella situazione precedente in cui il nostro paese è stato poco attore e molto spettatore sullo scenario europeo. • Recepire tempestivamente le nuove regolamentazioni europee. Dobbiamo evitare i tradizionali ritardi nazionali. Per l’Accordo quadro abbiamo impiegato tre anni (2000-2003), per l’Occar due (19982000), per la posizione comune europea sull’arms brokering stiamo superando i sei (è dal 2003 che ci si lavora). L’emendamento all’articolo 16 dell’Accordo quadro LoI che introduce la Licenza per Componenti è stato approvato a marzo 2008 e già la Svezia lo ha ratificato, la Gran Bretagna lo farà entro fine anno ed entro primavera è previsto entri in vigore in tutti i cinque partner. Per l’Italia dovremo aspettare la riforma della legge 185/90,
cioè metà 2011. Le due direttive europee hanno tempi stretti e richiederebbero che il recepimento fosse definito con congruo anticipo per poter adottare tutti i necessari e conseguenti provvedimenti operativi (strutture e procedure). Le direttive per gli appalti per i prodotti per la difesa e la sicurezza e quella sui trasferimenti intra-comunitari entreranno in vigore a metà del 2011 (con un ulteriore anno per assicurare l’operatività di quest’ultima). • Sulla prima non dovrebbero esserci problemi perché molto articolata e il lavoro dovrebbe essere relativamente semplice (la Difesa predisporrà tecnicamente il testo e il Dcpc della Pcm assicurerà il coordinamento con le altre amministrazioni interessate (quasi tutte). Il problema è caso mai legato alla necessità di preparare l’amministrazione ad utilizzare una nuova strumentazione molto più flessibile di quella attuale. • Sulla seconda ci sono, invece, a mio avviso ritardi e preoccupanti segnali di resistenza corporativa ad un effettivo cambiamento. La nuova Direttiva europea si basa su una logica di responsabilizzazione delle imprese e controlli soprattutto “ex-post” e non si concilia con la nostra, basata su un atteggiamento “sospettoso” e controlli quasi esclusivamente “exante”. Attualmente non abbiamo le strutture, il personale, le procedure necessarie, ma soprattutto non sembra esserci lo “spirito” per un cambiamento davvero epocale. Al recepimento della Direttiva si sommano altri impegni internazionali (posizione comune sull’arms brokering, emendamento all’articolo 16 dell’Accordo Quadro/LoI, posizione comune sul controllo delle esportazioni a paesi terzi) e la necessità di semplificare e ammodernare l’intero sistema italiano di controllo delle esportazioni. Il mantenimento delle nostre aree di eccellenza tecnologica nel campo dell’aerospazio, difesa e sicurezza, fra le poche ancora presidiate dall’Italia, si gioca in gran parte sul terreno delle capacità del nostro sistema politico ed amministrativo di realizzare quanto sopra indicato. È questa la sfida con cui il paese si deve misurare nei prossimi mesi. 69
lo scacchiere
I
Unione europea/presidenza ue,
spunta il primo ministro belga
La candidatura di Van Rompuy suggerita dal tandem Merkel-Sarkozy DI
OSVALDO BALDACCI
n Europa c’è solo il Belgio contro il candidato belga Herman Van Rompuy. Non perché non lo amino, ma anzi perché lo amano troppo e lo vogliono tutto per loro. Il nome del primo ministro belga, un democristiano fiammingo, sembra essere improvvisamente balzato in pole position per la candidatura a presidente dell’Unione Europea, ora che si è sbloccato il Trattato di Lisbona. In lizza c’erano nomi ben più noti e altisonanti, a partire dall’ex premier britannico Tony Blair, ma anche per il loro peso sono rimasti bruciati. Blair poi paga anche le difficoltà della sua patria, dello scetticismo di molti cittadini britanni-
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ci sull’Europa e della crisi dei laburisti. Nessuno dei nomi circolati avrebbe comunque ottenuto l’unanimità, neanche gli altri due leader del Benelux, l’olandese Jan Peter Balkenende e il lussemburghese Jean-Claude Juncker. Sembra invece che il nome del primo ministro belga abbia incontrato l’insolito favore di tutti e 27 i Paesi dell’Unione, oltre a risultare il più gradito (o il meno sgradito) a Francia e Germania, immancabili king-maker di ogni scelta di questo genere. Secondo fonti diplomatiche, quindi, Van Rompuy non è candidato ma è favorito. Il portavoce del sessantaduenne politico non ha voluto fare dichiarazioni. Ma proprio il premier belga, frutto della scuola di Lovanio, sarebbe incerto e titubante. Molti lo starebbero sollecitando ad accettare, e nessuno gli si oppone. Ma il fiammingo ha molti dubbi e lo stesso Belgio lo guarda con orgoglio ma anche con preoccupazione. Questo per la situazione politica molto particolare del suo Paese. Con la sua nomina a primo ministro, infatti, il Belgio è uscito da un anno di crisi parlamentare - probabilmente la più
scacchiere lunga mai registrata in una democrazia - sciogliendo un rebus di governo che è enormemente complicato, perché non coinvolge solo fattori politici. Il problema del Belgio infatti consiste soprattutto nei conflitti fra la comunità vallone e quella fiamminga, conflitti che negli ultimi anni si sono esasperati fino al punto di ipotizzare lo scioglimento del Belgio. Van Rompuy è stato eletto mettendo insieme una coalizione molto variegata, fatta da democristiani e socialisti fiamminghi, democristiani e socialisti valloni, democristiani e socialisti tedeschi, sei partiti diversi diversamente “scollegati” fra loro a seconda se si guarda l’aspetto politico o quello linguistico. Fuori invece i liberali, anch’essi molto compositi e molto spesso al governo con gli uni o con gli altri. Anche a livello personale il premier si è impegnato a risolvere alcune delle questioni più gravi, prima fra tute quella sulla circoscrizione elettorale di Bruxelles-HalVilvorde. Visto da fuori, si potrebbe pensare che passare dal Belgio all’Europa potrebbe essere una opzione rilassante per il premier, ma il suo carattere - molto stimato - gli impone di non lasciare irrisolti i problemi e di pensare prima al Paese e poi a se stesso. Da qui le sue resistenze. Con in più la preoccupazione, non solo sua, che rimettere in gioco le carte della politica belga in questo momento potrebbe comportare dei rischi davvero gravi, senza che si possa dare per scontata una nuova soluzione. Ecco allora che tutti
vogliono Van Rompuy in Europa, ma sono proprio le realtà belghe a mettere un freno a questa soluzione. Certo, a vantaggio di questa ipotesi spinge proprio l’esperienza del cristiano democratico fiammingo nel mettere insieme realtà così diverse, e questo per chi deve coordinare l’Ue non può che essere un elemento a favore. Si è poi già detto dell’apprezzamento riscosso prima di tutto presso gli ingombranti vicini, e in più il leader politico riscuote fiducia negli ambienti cristiani e democristiani, ma sta dimostrando di guadagnarsi anche il rispetto e la fiducia dei socialisti. Tutto insomma lo spinge alla presidenza, ma a patto che ci si faccia carico di risolvere la questione del Belgio. A meno che il primo presidente dell’Unione Europea non finisca per mantenere il doppio incarico continuando a guidare anche il Belgio. Un’opzione certamente difficile e che farà molto discutere. D’altra parte è evidente che non dipende tutto solo da lui: l’Europa oggi più che mai è un mosaico a incastro dove sono tante, forse troppe le poltrone da sistemare, compresa tutta la Commissione e il famoso mister Pesc. 71
Risk
Medioriente/la russia media con l’iran, è vero.
N
ma non per difendere gli interessi occidentali Le cinque ragioni di Putin sulla questione nucleare DI
EMANUELE OTTOLENGHI
el corso dei sette anni di confronto e scontro tra comunità internazionale e Iran sul programma nucleare iraniano, l’Europa e gli Stati Uniti hanno perseguito con coerenza una strategia multilaterale. Gli Stati Uniti sostennero la decisione europea di aprire un dialogo critico con l’Iran sul nucleare nel 2003, nonostante gl’istinti dell’allora Amministrazione di George W. Bush invitassero a guardare la diplomazia con l’Iran con profondo scetticismo. Successivamente, l’America di Bush decise di unirsi alla diplomazia europea nel tentativo multilaterale di risolvere la questione attraverso la diplomazia. Nonostante significativi ritardi e risultati annacquati, questa strategia diede i suoi primi frutti all’inizio del 2006, quando l’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica dichiarò a larga maggioranza che l’Iran aveva violato i suoi obblighi di firmatario del Trattato di Non Proliferazione Nucleare e votò per deferire l’Iran al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Pochi mesi dopo, nel luglio 2006, il Consiglio di Sicurezza passò una prima risoluzione (1696) che ingiungeva all’Iran di sospendere l’arricchimento dell’uranio, pena “serie conseguenze”. Successivamente, il Consiglio approvò all’unanimità altre due risoluzioni, la 1737 a fine dicembre 2006 e la 1747 a marzo del 2007, che introducevano sanzioni contro l’Iran. Ma il successo della strategia multilaterale ne rivelava anche i limiti. Ci volle un altro anno per approvare nuove sanzioni e la risoluzione 1803, passata nel marzo 2008, aggiunse soltanto pochi nominativi alla già breve lista di figure del regime, banche e imprese colpite in precedenza. Da allora, il Consiglio di Sicurezza non è stato in grado di andare oltre una 72
periodica, plateale e poco significativa reiterazione delle risoluzioni precedenti. La principale causa dello stallo diplomatico è la Russia - la Cina, anch’essa contraria a nuove sanzioni, usa il veto russo come scudo e come scusa per la sua posizione, che difficilmente sosterrebbe da sola. E se non si supera l’ostruzionismo russo non si può sperare in una continuazione di una strategia multilaterale che funzioni. Molto del nuovo approccio alla Russia inaugurato dalla nuova Amministrazione del presidente americano, Barack Obama, mira a indurre il Cremlino a una svolta sull’Iran - dall’ostruzionismo alla cooperazione. Finora non ha dato i risultati sperati, ma l’investimento diplomatico è comprensibile. Le cancellerie occidentali hanno perso anni nel tentativo di mantenere un fronte diplomatico internazionale unito. I risultati sono scarsi, il loro impatto incerto. Ma non c’è dubbio che se la Russia iniziasse a sostenere una robusta politica di sanzioni sarebbe un grande risultato, i cui effetti potrebbero ovviare ai limiti e ai ritardi di cui sopra. Ma è possibile convincere la Russia a un nuovo corso sull’Iran? Un esame attento degli interessi russi dimostra come esista un’irriducibile divergenza tra interessi russi e occidentali sul nucleare iraniano. Ci sono cinque ragioni per cui la Russia continuerà a impedire che la comunità internazionale adotti misure efficaci contro l’Iran. Primo fra tutti è l’interesse economico. Oltre che un importante mercato per la tecnologia nucleare e per l’industria militare, l’Iran è un importante partner commerciale per la Russia. La sua presenza, e il suo ruolo leader, nel Bacino del Caspio - deposito di immense riserve di petrolio e gas naturale -
scacchiere forniscono un ulteriore potenziale per Mosca. L’Iran potrebbe formare un cartello energetico che aiuti il Cremlino a sabotare i tentativi occidentali di liberarsi della dipendenza energetica dalla Russia. Mantenere l’amicizia con Teheran per Mosca è la miglior garanzia non solo per neutralizzare un potenziale concorrente ma anche per garantirsi la lealtà politica di paesi più vulnerabili ma ricchi di risorse e attratti politicamente dall’offerta di un’alleanza con l’Occidente. Il sostegno russo al programma nucleare iraniano - che si manifesta in vendita di combustibile e tecnologia e training di scienziati, tra le altre cose - serve anche a un secondo importante scopo. La Russia sfrutta il suo ruolo critico nello sviluppo del programma nucleare iraniano come strumento di pressione con l’Occidente e ne trae vantaggio per estrarre concessioni di ogni tipo - finora con discreto successo e a basso costo. Terzo, per la Russia l’Iran rappresenta un punto di entrata (e di rientro) in Medio Oriente. Attraverso la sua influenza in Iran, la Russia è in grado di riacquistare un ruolo (e un accesso) a una regione chiave, dalla quale mancava e dove non aveva più una posizione d’influenza sin dalla fine della Guerra Fredda. Quarto, la Russia non considera un arsenale nucleare iraniano come una minaccia esistenziale - il Cremlino sa benissimo che la Russia è in fondo alla graduatoria dei nemici mortali della Repubblica Islamica e che il giorno che gl’iraniani avessero la bomba, punterebbero i loro missili in un’altra direzione. E quinto, la Russia ha buona memoria - quando l’Iran, sotto lo Shah, era un alleato dell’Occidente, gl’interessi russi nella regione ne soffrirono molto. Adottare politiche che potrebbero aumentare la vulnerabilità dell’attuale regime iraniano non può trovare favore a Mosca dunque, perché il timore che la Repubblica Islamica ceda il passo a un regime più libero - e più occidentale - agisce da forte incentivo contro ogni tipo di sanzioni. La cosa peggiore che potrebbe succedere all’Iran, dal punto di vista russo, è un ritorno nell’orbita occidentale
insomma. Tutto questo naturalmente non significa che la Russia guardi a un Iran nucleare con favore. Ma visto che l’Iran è un mercato redditizio per le industrie belliche e nucleari russe, visto che l’Iran probabilmente collaborerà a sabotare ogni tentativo occidentale di ridurre la dipendenza energetica dalla Russia (e dal Medio Oriente), visto che l’Iran è un prezioso strumento di contenimento dell’influenza americana nella regione, e visto che dunque serve avere un Iran ostile all’Occidente (e quindi occorre mantenere l’attuale regime al potere), stupisce che ci si aspetti dalla Russia di adottare politiche che mettano a rischio quanto sopra. I fautori del multilateralismo, naturalmente, risponderanno che alla fine la Russia cambierà corso perché non può comunque desiderare un vicino guidato da un fervore islamico e armato di armi nucleari. Ma si può subito controbattere che intanto la Russia sembra non prendere troppo sul serio le capacità tecnologiche dell’Iran - esiste una corrente di pensiero influenzata dal nazionalismo slavo che guarda con sufficienza alla capacità di altre nazioni di poter dominare i segreti dell’atomo. E comunque, non è da escludere che a Mosca si pensi che prima o poi, Israele o l’America (o entrambi) bombarderanno i siti nucleari iraniani. Perché allora essere ostili con l’Iran? La Russia beneficerà degli esiti di un attacco in ogni modo, visto che politicamente ci penserà qualcun altro a eliminare una minaccia nucleare ai suoi confini, ed economicamente saranno con tutta probabilità compagnie russe a ricostruire l’infrastruttura colpita dalle bombe di qualcun altro. In poche parole, la Russia ci guadagna da una situazione intermedia tra l’assenza di guerra e assenza di pace. Continuerà a giocare le sue carte in modo da lasciare l’Occidente impantanato in questa posizione, garantendosi proventi e influenza, senza dover concedere nulla che pregiudichi quanto sopra. In breve, gl’interessi della Russia non sono i nostri. Non aspettiamo la Russia sull’Iran dunque - ogni tentativo di convincerla a cambiar corso è una perdita di tempo. 73
Risk
Africa/ellen, fatima, fatma-zhora e le altre:
P
chi sono le donne al comando nel continente nero Due presidenti, un sindaco e un generale. Qualcosa si muove? DI
MARIA EGIZIA GATTAMORTA
arlando di Africa si trattano temi inerenti al petrolio, agli affari con la Cina, alla corruzione, ai dittatori longevi, oppure si affrontano questioni legate ai conflitti, alla povertà e alle pandemie. Ognuno di questi argomenti, tra l’altro, viene considerato secondo logiche e gestioni al “maschile”. Possibile che il mondo africano sia tutto qui? Cosa ne è “dell’altra metà del cielo”? Qual è il ruolo delle donne nel continente? Viene loro riconosciuto uno spazio nell’arena politica o nel contesto economico? Sono portatrici di valori propri che possono contribuire ad uno sviluppo sostenibile di una delle regioni più arretrate del globo? Al primo impatto, guardando le difficoltà vissute in particolare nelle zone rurali, verrebbe istintivo dare una risposta negativa, ma un’analisi più attenta e approfondita permette di “andare oltre” una parziale evidenza. Anche in questo settore di “genere”, esaminando i dati, risultano evidenti forti dicotomie. Infatti se è vero che in alcuni paesi (ad esempio lo Swaziland) le donne non hanno il permesso di registrare proprietà terriere a loro nome ed hanno bisogno del consenso maschile per aprire un conto in banca o iniziare un business, se è provato che in molti casi (ad esempio la Tanzania) non possono ereditare la terra alla morte di un genitore o di un marito, se è drammaticamente triste che sui loro corpi si praticano ancora mutilazioni genitali o che sono loro a pagare in prima battuta il prezzo della povertà e del sottosviluppo, è anche un dato di fatto che le donne stanno conquistando ruoli sempre più decisivi e stanno acquisendo spazi significativi in ogni sfera del sociale. Queste non sono solo parole, sono fatti. Ellen Johnson Sirleaf (presidente della Liberia), Rose Francine Rogombe (presidente ad interim del Gabon dopo la scomparsa di Omar Bongo Ondimba), Gertrude Mongella (primo presidente del 74
parlamento panafricano), Fatima Zahra Mansouri (neo sindaco di Marrakesh) sono tutte donne impegnate in politica, che hanno fatto un percorso spesso sofferto che le ha portate a conquistare degli incarichi prestigiosi e ricchi di onori, ma allo stesso tempo “scomodi” e gravati da oneri non indifferenti. La responsabilità ha sempre un costo, costo che sfortunatamente per le donne ha sempre un valore più alto rispetto agli uomini, sia in termine di critiche esterne (spesso distruttive) al proprio operato, sia di rinuncia a spazi familiari. Si potrebbe estendere l’attenzione anche ad altri campi come quello militare, forense, dell’economia, del business e dell’editoria non facendo distinzione tra chi resta nel continente e chi fa parte della diaspora, poiché comunque con il suo impegno quotidiano concorre a dare un qualificato contributo di genere. Il 4 luglio scorso, Fatma-Zohra Ardjoun, medico algerino di servizio all’ospedale militare di Ain-Naadja è stata promossa dal presidente Abdelaziz Bouteflika al grado di generale; l’avvocato tunisino Samia Maktouf residente a Parigi, specializzata nel diritto internazionale degli affari e nella difesa dei diritti d’autore, si è distinta tutelando molti artisti africani e prestando la sua opera per imprese miste franco-tunisine; il legale algerino Wassyla Tamzali, è molto attiva nella tutela dei diritti delle donne e promuove il lavoro di alcune organizzazioni non governative mediterranee di settore; l’economista dello Zambia, Dambisa Moyo ha conquistato nell’ultimo anno l’attenzione dei media internazionali con la pubblicazione del libro Dead Aid, opera incentrata sulla denuncia dei danni che può provocare l’aiuto internazionale, favorendo la corruzione e fomentando i conflitti locali; la business woman sudafricana Sibongile Sambo che opera con successo nel settore dei servizi aerei e la rwandese Janet Nkubana titolare di un’azien-
scacchiere da con 3mila dipendenti, specializzata nella lavorazione di cesti artigianali (i famosi “peace basket” promossi dalla nota conduttrice televisiva Oprah Winfrey in un talk show americano nel 2005) sono state riconosciute come imprenditrici di successo all’interno del progetto Doing Business–Women in Africa coordinato dalla World Bank; la scrittrice senegalese Fatou Diome ha conquistato i primi posti dei best-seller francofoni con i suoi libri focalizzati sui temi dell’immigrazione e della solitudine; la romanziera nigeriana Sefi Atta si è distinta negli Stati Uniti con opere dedicate alle lotte contemporanee delle sue conterranee contro una società maschilista, oppressiva e accentratrice. Si potrebbero aggiungere anche i nomi di migliaia di protagoniste silenziose impegnate nelle tontines, formula di finanza informale che permette una risorsa di credito fondamentale per il sostentamento di numerose comunità in Senegal, Mali e altri paesi dell’Africa occidentale. Il quadro che emerge induce a sperare per un inserimento sempre più numeroso e paritetico in ogni settore lavorativo, ma più che altro comporta una prospettiva di azione di lungo periodo. Perché coinvolgere le donne? Secondo alcuni sondaggi, in linea generale l’impegno femminile risulterebbe vincente per diversi motivi: sarebbe maggiormente teso a favore del bene pubblico e meno incline alla corruzione. Non solo. Le donne verrebbero percepite più open minded rispetto agli uomini, inclini alla mediazione e disposte al dialogo. Queste loro caratteristiche costituirebbero il valore aggiunto determinante in ogni sfera del sociale, non solo in quella della res publica. Che sia Europa, o America, o Asia o Africa la sfumatura femminile garantirebbe un diverso impegno in ogni causa portata avanti. Proprio sulla base di tale riconoscimento, sempre più Ifad e Fao considerano essenziale il coinvolgimento delle donne nei loro progetti dediti alla lotta alla fame e alla povertà nelle vaste aree sub-sahariane, progetti che hanno un nucleo nelle aree di campagna. Molteplici i motivi a supporto di tale linea politica: non solo in passato la netta distinzione dei ruoli maschili e femminili nell’agricoltura non ha portato alcun giovamento ai risultati, ma i cambiamenti sociali odierni hanno di fatto indotto gli uomini ad anda-
re a lavorare nelle città o ad emigrare all’estero, lasciando tutto il lavoro dei campi e buona parte del sostentamento giornaliero familiare alle donne. Un solo esempio dà il senso della realtà: oggi in Burkina Faso le donne rappresentano l’80% delle popolazione rurale. Il problema è che di fatto le donne sono diventate capofamiglia naturali ma in molti casi non è loro riconosciuto un potere decisionale effettivo. È proprio su tale contesto che le Agenzie delle Nazioni Unite o strutture ad essi collegate intendono lavorare. Promuovere l’empowerment femminile, dare nozioni di base per le sementi o per coltura di alcuni prodotti, insegnare a leggere e scrivere, diffondere la conoscenza sanitaria di base, rimuovere pregiudizi legati alle tradizioni, significa dare una chance di successo ad aree sottosviluppate e far rinascere un continente. Tutto questo comporta grande sacrificio perché significa scardinare un sistema complesso. Non è solo l’assegnazione della terra che colpisce le donne direttamente, non è il divorzio che le può privare di ogni mezzo di sostentamento, è anche il complesso creditizio e bancario che con le sue regole non premia il coraggio e la loro voglia di fare. Un sistema che isola le donne, che le rende vittime principali di malattie sessualmente trasmissibili, che continua ad usare nel XXI secolo la violenza fisica come arma di guerra, punisce in primo luogo se stesso, impedendo uno sviluppo concreto delle proprie potenzialità. Se l’Africa vuole rinascere come più volte riconosciuto negli ultimi anni nei documenti dell’Unione Africana e della New Partnership for African Development, deve riconoscere un ruolo paritetico alle donne, non relegarle ad uno spazio limitato e umiliante, deve perseguire nel cammino illuminante intrapreso già in alcuni paesi. Esempi illustri permettono di dire che un cambiamento di rotta è possibile, che è possibile e altamente produttivo una donna mettere alla guida di un paese o di una grande impresa. L’affermazione della gender equality, radicata nelle coscienze e concretizzata nei fatti, può essere un’arma ulteriore per combattere arretratezza e povertà: è su questa convinzione che dovrà proseguire il lungo cammino africano. 75
Risk
I
America latina/quell’asse usa-colombia
contro il blocco dei paesi sudamericani L’uso delle basi colombiane nella strategia militare statunitense DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
governi di Colombia e Stati Uniti hanno negoziato un accordo che permette alle forze armate statunitensi di utilizzare sette basi militari in territorio colombiano. La notizia è filtrata sulla stampa a fine giugno. Il governo americano ha dichiarato che l’uso delle basi è necessario per proseguire le attività antinarcotici dopo il mancato rinnovo da parte dell’Ecuador della concessione per l’uso della base Eloy Alfaro di Manta. Gli accordi prevedono che le forze militari americane operino in costante coordinamento con quelle colombiane e dietro approvazione del governo ospitante. Non è previsto un aumento del numero dei civili e dei militari americani di stanza in Colombia. Delle sette basi oggetto del negoziato, la più importante è la base aerea di Palanquero sul fiume Magdalena, un centinaio di chilometri a nord-ovest di Bogotà. Alle navi da guerra statunitensi sarà invece facilitato l’accesso ai porti di Malaga Bay, sul Pacifico, e di Cartagena, sulla costa caraibica. In cambio, la Colombia otterrà un trattamento preferenziale per l’acquisizione di armamenti e velivoli di fabbricazione statunitense. Immediata è stata la reazione dei governi sudamericani. Dal Venezuela all’Ecuador, dal Brasile al Cile e all’Argentina tutti i presidenti hanno espresso profonda preoccupazione per quello che viene interpretato come un aumento della presenza strategica statunitense nella regione. Il 28 agosto si è tenuto nella città argentina di Bariloche il vertice dell’Unione delle Nazioni Sudamericane – Unasur -, proprio allo scopo di acquisire maggiori informazioni sull’accordo Colombia-Stati Uniti e adottare una risposta comune. In tale occasione, il presidente venezuelano Hugo Chávez ha citato un documento delle forze aeree statunitensi chiamato Global En Route Strategy, presen76
tato nello scorso aprile. Nel testo si legge che la base di Palanquero potrebbe diventare una cooperative security location da cui eseguire operazioni tattiche. Lo strumento per realizzare tali attività è l’aereo di trasporto militare C-17, che da Palanquero potrebbe raggiungere «quasi metà del continente senza necessità di rifornimenti». In vista della sottoscrizione dell’accordo, la Camera dei deputati statunitense ha approvato lo stanziamento di 46 milioni di dollari per adattare le infrastrutture della base (pista e hangar). Con queste informazioni, Chávez ha avuto gioco facile ad affermare che si è di fronte ad un’espansione militare che è parte integrante della globale strategia di dominazione degli Stati Uniti. Il presidente brasiliano Lula si è allineato su queste posizioni, proponendo di discutere direttamente con Barack Obama il tema dell’espansione militare statunitense. Sebbene gli Stati Uniti insistano sul fatto che gli obiettivi dell’accordo si limitano all’appoggio delle operazioni di contrasto al narcotraffico e di controllo dello spazio aereo in Colombia, l’uso della base di Palanquero risponde ai due obiettivi strategici in America latina indicati nel libro bianco dell’U.S. Air Mobility Command: «contribuire alla strategia di conflitto (engagement) regionale e favorire la mobilità verso l’Africa». Di fatto, grazie a vettori quali il C-17 e alle flotte navali, per gli Stati Uniti è oggi più importante garantirsi l’accesso e l’utilizzo di porti e basi navali piuttosto che stanziare fisicamente grandi contingenti militari all’estero. In altri termini, è meglio poter esercitare un controllo a distanza con effetti di dissuasione, riservando gli interventi diretti solo in caso di situazioni realmente critiche. Che vi fosse il rischio di incrementare lo “scetticismo” sulle intenzioni militari americane nella regione da parte di Paesi quali
scacchiere Venezuela, Ecuador e Bolivia era chiaro anche alla commissione del Senato Usa per i Servizi Armati, che il 2 luglio scorso aveva suggerito al Comando di Southcom di consultare preventivamente le nazioni partner. Così non è stato, con il risultato di polarizzare la comunità sudamericana e isolare la Colombia dal contesto regionale. È seguita una discussione circa i reali interessi strategici degli Stati Uniti, che a parere di governi e analisti latinoamericani vanno ben oltre la lotta al traffico di droga. Il ministro degli Esteri brasiliano Celso Amorin ha fatto rilevare la contraddizione che esiste tra la posizione del governo colombiano secondo cui le Farc sarebbero ormai quasi annientate, e l’aumento della presenza militare Usa per combatterle. I veri interessi degli Stati Uniti riguarderebbero invece la regione amazzonica e le risorse naturali lì presenti. Il presidente Lula si è spinto a collegare la riorganizzazione e il rilancio della Quarta Flotta americana con la scoperta di enormi giacimenti di petrolio al largo delle coste meridionali del Brasile. In generale, si legge nella riorganizzazione strategica degli Stati Uniti un tentativo di contenere o contrastare l’aumento dei flussi di beni e risorse energetiche tra l’America meridionale, l’Asia (con la Cina in primo piano) e l’Africa. La Colombia è così tornata al centro dell’attenzione emisferica, scenario della dialettica tra i Paesi sudamericani e gli Stati Uniti. Governi tradizionalmente alleati di Washington, quali quello cileno e in parte quello brasiliano, questa volta si sono appiattiti sulle posizioni più ideologiche del Venezuela di Chávez. Nel recente incontro dell’Unasur a Quito, in Ecuador, è stata presentata l’idea di creare un’entità regionale per la lotta alla droga. Essa dovrà dipendere dal Consiglio di Difesa Unasur e avere un proprio sistema di ispezioni militari, con un monitoraggio e una valutazione preventiva sui piani di costruzione di nuove basi militari e sull’utilizzo di quelle esistenti. Per la prima volta gli Stati Uniti sono chiamati a confrontarsi con un organismo regionale promosso dal Brasile e interessato a trattare in maniera continentale temi quali Difesa, Sicurezza e narcotraffico. 77
La storia
LA FESTA (PER DECRETO) E IL MIRACOLO DI S. NAPOLÉON
«D
di Virgilio Ilari
omani, 15 agosto, festeggerete l’Assunzione o San Napoleone?» A questa domanda, nella rubrica “yahoofrance, questions réponses”, hanno risposto in quindici, otto dichiarando d’infischiarsene e sette scegliendo la Vergine. Il minisondaggio sarà apprezzato da Vittorio Messori che ha affrontato la questione nelle Ipotesi su Maria, e da Bruno Volpe, che su “Petrus, il quotidiano online sul pontificato di Benedetto XVI”, ha ricordato i «Cardinali mani pulite» (uno dei quali si chiamava Di Pietro) che si opposero al culto simoniaco. Ma sui siti napoleonici gli emuli dei grognards continuano ad augurarsi bonne Saint Napoléon e se volete una statua del santo a grandezza naturale (di resina dipinta, 180 cm e 35 kg), potete commissionarla per 5.500 euro a www.statuesacre.net. La posa, in toga, a braccia conserte e capo chino, allude forse ai celebri versi manzoniani («chinati i rai fulminei, le braccia al sen conserte»), ma il volto giovanile sfuma l’identificazione col prigioniero di Sant’Elena. Lo stesso può dirsi circa la vetrata della chiesa di Chesnay (donata nel 1882 dalla castellana di Rocquencourt per le nozze della figlia con un pronipote del maresciallo Ney), dove San Napoleone compare sì in tenuta militare (corazza, scudo e lancia) ma con un volto androgino, che 78
storia evoca semmai Giovanna d’Arco. L’allusione a ti per la costruzione di una nuova identità nazionale e Napoleone I (sia per le fattezze del volto sia perché di una nuova memoria collettiva. Un processo di impugna lo scettro) è invece esplicita nell’immagine nazionalizzazione delle masse proseguito poi sotto la del santo effigiata nella vetrata della chiesa di San Terza Repubblica, malgrado la débacle e il bagno di Luigi a Vichy. La chiesa, inaugurata nel 1865, fu infat- sangue fratricida del 1870, e la scelta definitiva (nel ti donata da Napoleone III, e altre due vetrate dedicate 1880) di riportare la festa nazionale alla data della alle Sante Ortensia ed Eugenia, sono i ritratti della presa della Bastiglia. madre Ortensia de Beauharnais (moglie di Luigi Molti equivoci e pregiudizi ideologici continuano tutBonaparte, fratello dell’imperatore ed effimero re tavia a circondare il significato originario della Saint d’Olanda) e della moglie Eugenia de Montijo. Per Napoléon, anche se la genesi è stata già ricostruita da quanto ambigue, le vetrate non implicano però la san- Joseph d’Haussonville (1809-84) nella sua ponderosa tificazione dei personaggi storici che vi sono ritratti, storia delle relazioni tra chiesa romana e primo impema piuttosto la loro identificazione coi patroni onoma- ro (1864-79), nonché in un articolo di Charles stici. Non dimentichiamo che due anni dopo l’inaugu- Duvivier (in Revue de l’Université de Bruxelles, octobre 1908) e ora nella voce, un po’ razione delle vetrate di Vichy, gli Chassepots difesero il potere sintetica ma eccellente, redatta da A partire dal 1803 temporale contro il Mangiapreti padre Gérard Mathon, storico l’Almanac National francese che battezzava i bambini con rito dell’agiografia. Non c’è dubbio sacrilego dicendo: «Ti benedica sostituì la festa di S. Rocco che Napoleone fosse megalomail Cristo legislatore della umanine e le gerarchie cattoliche ricat(16 agosto), con quella tà». Durante il Secondo Impero tate e inclini al compromesso, ma dedicata all’imperatore. la festa nazionale francese cadeil punto non è questo. In realtà i In realtà, il padrone va infatti a Ferragosto, genetliariti pubblici sono questioni politidella Francia, chiamato co di Napoleone I, ed era popoche di primario rilievo, come larmente chiamata “la Saint emerge dal campo di studi inauin Corsica “Nabuliò”, Napoléon”. La decisione era gurato dai saggi di Mona Ouzouf era adespota, cioè senza stata presa dal nipote suo omonie François Furet sulle feste della un santo in Paradiso. mo quand’era ancora presidente Rivoluzione. Prima di diventare Ma la ragion di Stato della Seconda Repubblica, riprila Saint Napoléon, Ferragosto convinse Papa Pio VII stinando in forme laiche una non era, in Francia, soltanto la festa ibrida, al tempo stesso civifesta dell’Assunzione (subentrata le e religiosa, istituita il 19 feballe Feriae Augusti, a loro volta braio 1806 da Napoleone e abolita il 16 luglio 1814 da derivate dalle Idus Nemorenses), ma anche quella del Luigi XVIII. Durante il Primo Impero era stata solo la “Voto di Luigi XIII”, ossia della consacrazione mariasagra del conformismo catto-massonico e della piag- na della Francia fatta dal re nel 1638. Abolita dalla geria prefettizia, ma sotto la Restaurazione era divenu- Rivoluzione insieme alla proibizione dei culti pubblita la festa - spontanea e talora clandestina - dei circoli ci, la festa era diventata la bandiera della resistenza catbonapartisti e della dissidenza politica, acquistando un tolica e realista, contrapposta all’anniversario della autentico radicamento popolare. Uno storico anglo- presa della Bastiglia. Le due feste simboleggiavano le indiano, Sudhir Hazareesingh, professore ad Oxford, due memorie inconciliabili da cui si alimentava la ha pubblicato nel 2004 due interessanti saggi sul mito guerra civile permanente; la dittatura militare, nata per di Napoleone e sulla festa del suo genetliaco, utilizza- unire la Francia contro l’aggressione straniera, doveva 79
Risk far cadere in desuetudine sia la Bastiglia che il Voto e sostituirli con una nuova memoria, un nuovo mito e una nuova festa. Il fatto che il genetliaco di Bonaparte - signore della guerra e padre dell’Armata - coincidesse con la data del Voto dava modo di rimettere in circolo il Ferragosto senza provocare troppi traumi. L’idea del resto non sembra essere stata del Primo console, ma piuttosto del suo entourage e soprattutto del ministro per il culto, il giurista Jean Etienne Marie Portalis (1746-1807) che fu il principale artefice del codice civile. Fu su suo consiglio che Bonaparte chiese che la pubblicazione del concordato con la Chiesa, autenticato il 15 luglio 1801, avvenisse il 15 agosto.
Ciò non fu possibile, ma quello fu comunque il
giorno della firma di Pio VII. A prima vista il papa fu umiliato: dovette infatti firmare un testo predisposto unilateralmente da Napoleone e che fu poi pubblicato come legge dello stato l’8 aprile 1802 insieme ai cosiddetti “articoli organici” che sanzionavano l’ingerenza dello stato nell’esercizio del culto cattolico e protestante (cui nel 1806 fu equiparato quello ebraico) e che non furono mai accettati da Pio VII. Ma nella sostanza la Chiesa bloccò le speranze di chi, come Madame de Stael, perorava la proclamazione del protestantesimo come religione di stato e ottenne il ristabilimento del culto pubblico in Francia e il riconoscimento del cattolicesimo come religione della grande maggioranza dei francesi. Inoltre, assecondando la richiesta di Bonaparte di azzerare l’episcopato francese, Pio VII ottenne il riconoscimento implicito del primato giurisdizionale del papa, mettendo così fine, malgrado le apparenze, ai principi della Chiesa gallicana forgiati dai teologi parigini e che avevano dato origine ai grandi conflitti di Filippo il Bello e del Re Sole con Bonifacio VIII e Innocenzo XI. Fu proprio la fedeltà ai principi gallicani, e non già alla Chiesa di Roma, a motivare lo scisma anti-concordatario di una parte dei vescovi deposti e la formazione della Petite Eglise, forte soprattutto in Belgio e in Vandea e sopravvissuta fino ad oggi. Senza contare che l’inserimento dell’Italia continentale nel sistema politico fran-
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storia
storia cese favorì l’influenza del cattolicesimo italiano su quello francese anche sotto il profilo spirituale, come ha dimostrato (1973) uno studio di Jean Guerber sul ralliement del clero francese alla morale antirigorista di Sant’Alfonso de’ Liguori operato dal cardinale Thomas Gousset (1792-1866), capofila del movimento antigallicano e grande sostenitore di Napoleone III. Il suggerimento di Portalis accrebbe l’enfasi sul genetliaco di Napoleone: il consolato a vita, decretato il 3 agosto 1802, fu reso pubblico il 15. Ma contemporaneamente si diffuse, a livello popolare, pure il culto del presunto onomastico. A partire dal 1803 l’Almanac National, che riproduceva sia il calendario rivoluzionario che quello gregoriano, sostituì la festa di San Rocco (16 agosto) con quella di un San Napoleone. In realtà il padrone della Francia, battezzato come “Napolione” e chiamato in Corsica “Nabuliò”, era “adespota”, cioè senza un santo in Paradiso. Ciò tuttavia non impedì che altari e quadri fossero dedicati a San Napoleone anche prima dell’inclusione della festa tra le cinque protocollari dell’Impero. Perfino i monaci benedettini del Moncenisio, beneficati dai continui passaggi delle Armate napoleoniche, ringraziarono il munifico donatore e restauratore dell’ospizio ritoccando il quadro dell’Assunzione: San Giovanni Battista fu infatti sostituito dal patrono dell’imperatore, e restaurato solo nel 1838. La cosa può apparire un disgustoso servilismo: ma bisogna tener conto che la massoneria - religione esoterica dell’impero e più importante delle tre ufficialmente riconosciute - aveva già santificato direttamente Napoleone e perfino altri membri della sua famiglia: almeno nove logge furono intitolate a San Napoleone (a Lione, Saumur, Angers, Gand, Amsterdam, Corfù, Genova, Firenze e al 4e régiment de la garde) e altre a San Giuseppe Napoleone (l’accorto e concreto fratello avvocato, fatto Gran Maestro di Francia e poi re delle Due Sicilie e infine di Spagna) e alle mogli, Santa Joséphine e Santa Marie-Louise. Il culto cattolico di un patrono fittizio poteva perciò essere un modo di arginare questa deriva blasfema.
Austerlitz, la più grande vittoria militare di Napoleone, avvenne nel primo anniversario dell’incoronazione imperiale (2 dicembre 1804), ma il 2 dicembre rimase una festa secondaria rispetto al 15 agosto. Questo era già così affermato che proprio nell’esaltazione prodotta dalla vittoria di Austerlitz il tribunato incluse fra i suoi voti la celebrazione del genetliaco imperiale. Il 4 gennaio 1806 Portalis dichiarò che se la monarchia festeggiava San Luigi, l’impero poteva ben festeggiare San Napoleone. Un decreto del 19 febbraio 1806 prescrisse perciò che la festa del patrono e del ristabilimento della religione cattolica in Francia fossero celebrate nel giorno dell’Assunta.
Da notare che il decreto, pur prescrivendo un
Te Deum e un’omelia in onore del sovrano, non faceva esplicito riferimento al genetliaco imperiale: i contemporanei in realtà potevano interpretare il senso del decreto come una riconsacrazione ufficiale del voto mariano di Luigi XIII. Non fu dunque per vile servilismo che il 3 marzo il cardinale legato Giovanni Battista Caprara (1733-1810), impegnato a discutere un argomento serissimo come il testo del catechismo unificato per tutte le diocesi l’impero, dette in buona fede la sanzione ecclesiastica del decreto. Il problema fu che il riconoscimento ufficiale fece subito emergere tutti i dubbi sull’effettiva esistenza del patrono. Il povero Caprara dovette sudare freddo, ma alla fine riuscì abilmente a rimediare al pasticcio mescolando due laconici accenni dei Martirologi di Benedetto XIV e Geronimiano per inventare un “Neopolo”, ufficiale romano e compagno di martirio di San Saturnino durante la grande persecuzione di Diocleziano. L’esegesi di Caprara fu comunicata ai vescovi dell’impero con istruzione del 21 maggio. Naturalmente il fatto fece saltare su tutte le furie il prefetto della Propaganda Fide, cardinale Michele Di Pietro (1747-1821), che oltre ad essere un pozzo di scienza teologica e giuridica era pure burino e di umili origini (mentre Caprara era nobile). Pio VII gli dette ovviamente ragione, ma quello della 81
Risk festa simoniaca era un girino, rispetto ai rospi che per il bene della Chiesa aveva e avrebbe ancora dovuto ingoiare. Queste sottane cardinalizie che a tratti ci sembrano tremanti la sapevano più lunga non solo di Napoleone ma pure degli atei devoti che pretesero invano da Pio VI la scomunica della Rivoluzione e dei circoli whig che, esaltati dal mito della guerriglia calabrese e spagnola, sognavano di porre il papa a capo di una crociata antinapoleonica e nel settembre 1808 tentarono pure di farlo esfiltrare dal Vaticano e d’imbarcarlo ad Anzio. Il papa e i suoi cardinali italiani sapevano quale terreno conveniva cedere e quali erano i capisaldi davvero importanti sui quali resistere a oltranza e da dove contrattaccare. Né mancavano di reti clandestine di resistenza, come, fra le altre, quella organizzata dalle “amicizie cristiane”, nate in Francia nell’ambito delle Congregazioni mariane della Compagnia di Gesù e importate nel 1783 a Torino dal Venerabile Lanteri, fondatore nel 1816 degli Oblati di Maria Vergine. E, col clamoroso fallimento del concilio nazionale di Parigi (1811), Napoleone scoperse che perfino lo zio materno Joseph Fesch (1763-1839) - l’ex prete spretato e commissario di guerra che il nipote aveva fatto riammettere nella Chiesa come cardinale e aveva creato gran cappellano dell’impero, conte e senatore, preferiva perdere tutte le cariche piuttosto che sconfessare l’atteggiamento del papa detronizzato e prigioniero a Savona. Da dove, beffando la polizia politica di Fouché, impartiva ordini perentori al clero parigino. A trasmetterli era stato proprio Di Pietro, internato in Francia e nominato penitenziere maggiore interinale. Tradotto nella fortezza di Vincennes, fu lui, insieme al cardinal Bartolomeo Pacca, a convincere il papa a 82
ritrattare il cosiddetto concordato di Fontainebleau, estorto da Napoleone al ritorno dalla Russia. Pacca, subentrato nella segreteria di stato ad Ercole Consalvi, sacrificato nel 1808 all’intimazione di Napoleone, aveva subito una durissima detenzione nella tetra e micidiale Fenestrelle (il campo di sterminio della resistenza borbonica e pontificia usato sia da Napoleone che da Vittorio Emanuele II). Andò a finire che nel Memoriale di Sant’Elena Napoleone continuò a gloriarsi del concordato atteggiandosi a uomo della provvidenza con altre perle di generico deismo. Suo fratello Luciano, il famoso ribelle rifugiato a Roma, sorvegliato dalla polizia imperiale, catturato in mare dagl’inglesi mentre cercava di raggiungere gli Stati Uniti, autore di un poema epico-religioso su Carlomagno, fu creato da Pio VII principe di Canino con chirografo del 31 agosto 1814. A Roma visse pure Fesch, collezionando opere d’arte nel Palazzo Falconieri in via Giulia, insieme alla sorellastra più anziana Madame Mère, la strega corsa che aveva tormentato Nabuliò per sistemare tutta la famiglia sui vari troni d’Europa. Consalvi ottenne al Congresso di Vienna l’integrale ricostituzione degli Stati della Chiesa. E i generali che nel 1809 avevano scalato le mura del Quirinale (quelle difese dalla guardia nobile Alberto Sordi nelle vesti di Onofrio del Grillo!) per arrestare il papa, gli chiesero perdono in lacrime. Alla fine San Napoleone un miracolo lo fece, suo malgrado e a sua insaputa: quello di romanizzare la Chiesa francese. Non per niente René de Chateaubriand era stato segretario di legazione a Roma quando l’ambasciatore francese era Fesch.
edizioni
PROSSIMAMENTE IN LIBRERIA
PERVEZ MUSHARRAF CONFINI DI FUOCO La trincea del Pakistan tra storia e autobiografia La guerra al terrorismo è solo uno dei temi affrontati da questo libro che ripercorre la storia completa degli eventi che hanno portato Pervez Musharraf al potere nel 1999 in Pakistan. Perché per l’ex presidente pachistano (il libro è uscito in lingua originale nel 2006, quando Musharraf era ancora al governo del Paese) narrare la propria vita è solo il pretesto per far capire al lettore il complesso intreccio di poteri militari, civili e religiosi che per molti anni hanno funestamente caratterizzato il vertice dello Stato e allo stesso tempo offrire “nero su bianco” le sue possibili soluzioni per un’area colma di tensioni e conflitti: dal Kashmir al nucleare, da al Qaeda all’impasse devastante fra Israele e Palestina. Già supporter dei talebani e dei muhijaiddin afgani ai tempi della lotta contro l’invasione sovietica dell’Afghanistan, Musharraf di fronte al disastro dell’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre 2001 si trova, da musulmano, in una posizione inequivocabile di nemico dell’Islam militante e terrorista. Da allora, è sopravvissuto a due tentativi di assassinio, ha sradicato gli estremisti islamici dal suo governo, ha organizzato e diretto un grande numero di raid militari contro al Qaeda nelle città e sulle montagne, dove ha fatto inseguire il mullah Omar e Bin Laden con tutti i mezzi a sua disposizione. Nel libro, rivela con sorprendente semplicità i retroscena di un gran numero di eventi che hanno destato l’interesse del mondo intero. Tra questi, quale sia la vera storia del cosiddetto “golpe” militare contro Sharif, come Pakistan e India siano riusciti a evitare il confronto nucleare, la lotta contro la corruzione, la simbiosi tra terrorismo e religione dopo l’11 settembre, le cause del radicamento di al Qaeda in Pakistan. Tutto questo e di più, compreso il terribile terremoto nelle province del Nord-ovest e del Kashmir, che nel 2005 ha fatto 3,5 milioni di senzatetto e oltre 70 mila vittime.
400 pagine ●● euro 22,00
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AL QAEDA: TUTTO COMINCIÒ CON LA GUERRA IN BOSNIA (E ALIJA IZETBEGOVIC) L
di Mario Arpino
a voce dell’Autore di questo libro è controcorrente rispetto al flusso di informazioni - radio, televisioni e carta stampata - che il pubblico occidentale ha assorbito tra il 1992 e il 1995, gli anni cruciali della guerra etnica in Bosnia. Tanto che oggi nessuno dubita che i serbi siano stati all’origine di tutti i mali, i croati anche, ma un po’ meno, e i bosniaci musulmani le vere vittime sacrificali dell’intera vicenda. D’altra parte, sopra tutto le immagini della catastrofe umanitaria di Srebrenica del 1995 hanno lasciato in noi l’impressione di una feroce depravazione dei serbi, la cui causa ci è sempre stata rappresentata come ingiusta e, con tutta evidenza, genocida. Secondo le versioni ufficiali, il “viale dei cecchini” e l’assedio di Sarajevo non sarebbero stati altro che i prodromi della tragedia che Holbrooke ha cercato di risolvere, congelandola, con gli accordi di Dayton. Solo raramente le immagini e le corrispondenze si soffermavano sulle atrocità - non sono state poche - commesse dai musulmani di Bosnia, e dai loro fiancheggiatori stranieri. Lo stesso Alija Izetbegovic, sindaco di Sarajevo ai tempi della crisi, ci è stato presentato come un personaggio moderato, schivo, per il quale le anime candide, ignare dei suoi precedenti e delle sue trame, sono state indotte a sentimenti di simpatia e di rispetto. Ricordo che anche il nostro governo aveva raccolto uno dei suoi tanti appelli, trasportandolo fortunosamente a Roma con un aereo militare, per consentirgli di esporre le sue verità. L’Autore, che non condivide affatto questo giudizio su Izetbegovic, lo ritiene colpevole di doppio giuoco, sviluppando la tesi che la Bosnia, sotto la sua guida, negli anni Novanta avrebbe svolto per al Qaeda lo stesso ruolo di quello svolto dall’Afghanistan negli anni Ottanta, offrendo ai propri amici
JOHN R. SCHINDLER
Jihad nei Balcani Guerra etnica e al Qaeda in Bosnia
Libreria Editrice Goriziana pp. 423 • Euro 30,00 L’Autore è docente di strategia al Naval War College ed è un ex analista di intelligence come ufficiale del controspionaggio del National Security Agency. Secondo lui: «Fu la guerra civile bosniaca che trasformò Bin Laden e il suo organico in un pilastro per i mujaheddin di tutto il mondo». Il suo primo libro, “Isonzo, il massacro dimenticato della Grande Guerra” (2002) fa parte delle opere selezionate dall’History Book Club. Vive a Newport, Rhode Island (Usa).
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Risk mujaheddin internazionali un campo di battaglia dove continuare esercitarsi alla jihad, la guerra santa. A lui, secondo Schindler, va ascritto il merito di aver importato e sviluppato consapevolmente, contagiando anche una parte della gioventù bosniaca, l’estremismo integralista musulmano nell’Europa balcanica. Le dimostrazioni e le documentazioni nel libro di certo non mancano. La prima parte, una approfondita ricerca storica di grande interesse, cerca di spiegare, riuscendoci, il perché di una conformazione etnica del territorio bosniaco articolata a macchia di leopardo. È base indispensabile per la comprensione non solo del libro, ma dei fatti e misfatti che hanno caratterizzato la vita sul territorio fin dai tempi delle prime scorribande dell’Impero ottomano, per giungere all’amore-odio verso la dominazione asburgica prima e quella serba poi. L’Islam, come ovunque, all’inizio era stato portato ed imposto a fil di spada, ma solo pochi musulmani - parte rilevante della classe dirigente - erano veri ottomani, importati dalla penisola anatolica. La conversione delle etnie locali, che erano in parte di religione ortodossa ed in parte cattolica per lo più di rito bizantino, in seguito ebbe carattere volontario, spesso per convenienza economica o per affrancarsi dalle discriminazioni operate dalla classe dominante. Fu lentissima e durò secoli, senza mai raggiungere valori superiori al 40 per cento. Sotto il regime ateo comunista di Tito questa componente restò in sordina, ma alcuni estremisti, che avevano aderito alle Waffen SS durante l’occupazione nazista e, nel dopoguerra, all’organizzazione estremista egiziana dei Fratelli Musulmani, continuavano a coltivare il sogno i fare della Bosnia il luogo di riferimento di tutti i musulmani d’Europa. Tra questi, figura di rilievo era Alija Izetbegovic che, dopo alterne vicende, nel 1989 riunì i suoi amici islamisti radicali in un partito politico che denominò banalmente Partito di Azione democratica (Sda), evitando l’utilizzo di terminologia religiosa o nazionalista, vietata dalle leggi federali. Nella sua Dichiarazione Islamica, tuttavia, si scopre affermando che lo scopo era quello di contribuire a «creare una comu86
nità musulmana omogenea dal Marocco all’Indonesia». Cioè la umma, il califfato globale, che è lo stesso obiettivo dichiarato da bin Laden per al-Qaeda. È in questa luce, secondo l’autore, che vanno guardati tutti gli avvenimenti successivi e l’ambiguo comportamento della componente radicale della compagine musulmana di Bosnia, che riuscì a mimetizzarsi assai bene operando sottotraccia, pur soffiando, di nascosto, sul sacro fuoco dell’estremismo islamico. Il libro dà anche una plausibile spiegazione alla noncuranza, per non dire cecità, con cui l’occidente trascurò questo movimento islamista, noto ma sottovalutato, e ne ascrive la causa, o la colpa, a motivazioni politiche interne degli Stati Uniti. Quando l’America, con buona parte del mondo occidentale, era impegnata contro il comunismo e cercava di erodere l’allora apparente solidità dell’Unione Sovietica, pragmaticamente non aveva disdegnato alleanze innaturali. Aveva così supportato, militarmente ed economicamente, le brigate internazionali di mujaheddin impegnate in una lotta senza quartiere contro l’Armata Rossa in Afghanistan, e per fare ciò aveva anche favorito gli intrighi dei Servizi pachistani con i propri estremisti, e quelli transfrontalieri. Ora finalmente il muro era caduto, l’ex Unione sovietica era allo sbando, e i Paesi dell’Est europeo avevano già fatto le loro scelte. Nei Balcani Tito era morto da dieci anni, e anche la Repubblica federale si andava sfaldando, come previsto. Ma bisognava combattere e distruggere l’ultimo nucleo duro comunista rimasto in Europa, il regime di Milosevic a Belgrado. I musulmani e i croati di Bosnia avrebbero potuto essere assai utili in questo, visto che, pur essendo nemici tra di loro, entrambi odiavano i serbi. Così anch’essi, come già i mujaheddin, furono supportati economicamente e militarmente. Identica cosa fu fatta più tardi con i musulmani kosovari di etnia albanese. Occasione unica per gli estremisti di Izetbegovic e per i suoi amici integralisti arabi, che la colsero al volo e furono prodighi di finanziamenti, aiuti e…costruzione di nuove moschee. Per rendersene conto oggi, basta recarsi a Sarajevo e constata-
libreria re con i propri occhi la differenza di sviluppo tra le tre enclavi cittadine. Al primo posto vi è quella musulmana, segue quella croata e alla distanza, buona ultima, quella serba, che è rimasta la più povera. Ma a metà degli anni Novanta l’integralismo islamico stava già preoccupando gli americani, e l’organizzazione di bin Laden stava sfuggendo da ogni controllo, compreso quello dei sauditi. Ma nei Balcani continuavano a essere utili, e gli Stati Uniti non potevano, né se la sentivano di contraddirsi con posizioni schizofreniche. Fu così, secondo Schindler, che venne alimentata sui media l’immagine pacifica di un governo bosniaco prevalentemente composto sì da musulmani, ma moderati, che non poteva essere in alcun modo un pericolo per una democrazia in fase di impianto. Anzi, i musulmani di Bosnia, facendo di ogni erba un fascio, venivano presentati come illuminati e multiculturali, ma assediati da nazionalisti radicali - i serbi, ma anche i croati - decisi ad annientare loro e la loro virtuosa società. Certo, gli assediati non erano dei santi, ed anche loro avevano
le loro colpe, commettevano i loro crimini e alimentavano le loro tresche. Era noto, ma non se ne era quasi mai parlato. Questa è l’immagine che, a meno di revisioni profonde, è giunta fino ai giorni nostri e che ancora conserviamo. Idem per il Kosovo, dove però qualche ripensamento sulla validità di questa immagine sembrerebbe essere già in corso. Qualche parola, ora, sulla validità e la struttura del libro. Diciamo subito che, per la sua meticolosità, i dettagli e la sua articolazione, non è un’opera facile da leggere. Si nota subito che la mano dell’autore è quella del professore e del ricercatore, e non quella dello scrittore. L’analisi talvolta pecca di valutazioni scaturite da illazioni logiche dell’estensore, piuttosto che dall’oggettività dei fatti. Questo, lascia evidentemente trasparire la trascorsa esperienza dell’autore come analista della National Security Agency, dove, più che le informazioni fattuali, viene richiesta la loro valutazione. In ogni caso, è un libro fondamentale per chi ne vuol capire di più sull’intricatissima questione balcanica.
ECCO COME LA REGIA MARINA BATTÈ LA ROYAL NAVY
Gli storici della seconda guerra mondiale hanno sempre avallato la supremazia della marina britannica e ridicolizzato la nostra: un grave errore
Q
di Andrea Tani
uesto è il quarto o quinto libro autorevole pubblicato nel mondo anglosassone in sessantacinque anni per descrivere la guerra nel Mediterraneo 1940-1945. Anzi, per quanto riguarda la copertura degli interi cinque anni del conflitto, è il primo, perché tutti gli altri si fermano al settembre ’43. L’autore, Vincent O’Hara, noto saggista navale americano, esperto in Kriegsmarine, tratta con molta scrupolosità sia la fase 40-43 che le operazioni navali degli Alleati dopo l’armistizio con l’Italia, nonchè la guerriglia marittima portata avanti successivamente dai tedeschi, molto più intensa ed efficace di quanto si sapesse fino ad
oggi. Anche se - a suo dire - non raggiunse lo stesso rendimento operativo delle precedenti operazioni della Marina italiana. Vengono illustrate anche le complesse vicende della flotta francese, trovatasi a fronteggiare in successione l’Asse, la Royal Navy, la France Lìbre, i GI e poi nuovamente la Germania hitleriana in un caleidoscopio di colpi di scena degni di una saga hollywoodiana. A fronte dei quattro - cinque testi di cui sopra, sono andati alle stampe centinaia di titoli che hanno operato una delle più radicali e prolungate mistificazioni della storia militare recente. Ovvero quella di una Royal Navy ordinariamente superlativa che ha costantemente ridicolizzato una Regia Marina italiana già patetica per conto suo, tanto da 87
Risk essere descritta, di volta in volta, come un coacervo di “Mussolini lazy sailors” o una “Crowd of Italian jackals” oppure con termini tipo “Fair Weather”, “Sugar Cake” o, generalmente, “Dago” Navy (quest’ultima ineffabile denominazione risale al più autorevole storico della Marina americana, il professor Samuel Eliot Morison). Si tratta di “miti”, come li definisce O’Hara - o di antimiti, come li definiremmo noi - che hanno caratterizzato la storiografia navale postbellica anglosassone e anche tedesca a proposito delle operazioni belliche nel “Middle Sea” e che sono stati assecondati da molti dei cultori (o pseudocultori) nostrani della materia, col risultato fiale di far sì che questa stessa denigrazione mettesse solide radici anche chez nous. Con questo saggio, pubblicato dal più autorevole istituto navale statunitense, O’Hara cerca di smontare le denigrazioni meno sostenibili, fra le quali quella relativo allo squilibrio dei rendimenti operativi fra la Royal Navy e la Regia Marina nella contrapposizione ‘40-43. Ci riesce al di là di ogni aspettativa. Per dirla con l’autore «Un’obiettiva e disinteressata analisi della campagna del Mediterraneo porta ad una conclusione opposta (alla vulgata corrente). Nel corso del conflitto la Marina italiana si batté duramente e spesso molto bene, conseguendo in pieno i propri obbiettivi principali, ovverosia rifornire le armate dell’Asse in Africa e nei Balcani - cosa che fece in modo completo ed esaustivo (più del 90% complessivo delle varie tipologie di rifornimenti arrivarono a destinazione, o meglio, nei porti: il follow on non era responsabilità della Marina) - e conservare il controllo del Mediterraneo centrale, missione quest’ultima della massima valenza strategica». Portata a termine, possiamo aggiungere, interrompendo nel contempo la vitale giugulare esistente tra il Regno Unito e i suoi possedimenti in Medio ed Estremo Oriente. Gli effetti di questo blocco dal giugno del Quaranta al luglio Quarantatre transitarono da Gibilterra ad Alessandria solo otto 88
piroscafi in tre convogli fortemente scortati, a fronte dei 2.343 che alimentarono il dispositivo dell’Asse in Africa settentrionale - contribuirono in modo determinante alla disfatta britannica in Asia quando il Giappone entrò in guerra, particolare che quasi nessuno storico ha mai messo in evidenza. Il drenaggio di tonnellaggio e scorte che comportava la circumnavigazione dell’Africa sostitutiva della rotta mediterranea - una navigazione di quaranta giorni per un convoglio veloce, di tre mesi per uno lento - provocò altri due risultati egualmente rovinosi per la Gran Bretagna: il collasso delle importazioni verso la madrepatria dovuto alla mancanza di naviglio, e un nuovo Eldorado atlantico per i sommergibili tedeschi, che infatti ne approfittarono alla grande. Da questa serie di disastri l’autore tira le sue conclusioni, invero non convenzionali, affermando che la focalizzazione sul Mediterraneo fu per la Gran Bretagna un errore strategico di prima grandezza, a dispetto dei brillanti successi tattici conseguiti nel bacino dal White Ensign. A differenza, peraltro, di quanto riuscirono a fare le altre marine impegnate nel Mediterraneo - italiana, tedesca, francese e americana - le quali, chi più chi meno, conseguirono i risultati strategici di fondo prefissati in circostanze non agevoli. La tesi non è convenzionale, ma rimane comunque interessante. Andrebbe approfondita. È il caso di sottolineare che i suoi specifici risultati la Regia Marina li conseguì dovendosela vedere contro la Royal Navy, la maggiore e migliore marina che il mondo avesse visto fino ad allora, una formidabile macchina da guerra che aveva al suo attivo, a parte un numero spropositato di navi di linea, cinquecento anni di tradizione eccelsa, due secoli di vicende che ne avevano fatto uno dei principali attori strategici della scena mondiale e l’esperienza di una guerra asperrima combattuta e vinta solo venti anni prima contro un avversario formidabile come la Marina Imperiale Tedesca. Nove mesi di operazioni belliche contingenti (settembre ‘39-giugno ‘40) contro
libreria lo stesso nemico germanico avevano poi rimosso le eventuali incrostazioni routinarie del tempo di pace, fra le quali una ventata di ribellismo socialisteggiante che aveva scosso il Senior Service all’inizio degli anni Trenta. Si trattava non soltanto di una Marina poderosa, ma anche uno dei leader tecnologici del pianeta; basti pensare al ruolo dell’Ammiragliato britannico nello sviluppo dell’industria petrolifera o allo sviluppo lungimirante della nascente elettronica. Il retroterra della Marina italiana senza tradizioni degne di nota, espressione di un paese povero e di industrializzazione recente, carente di capacità rigenerative e di risorse operative (combustibile, logistica, munizionamento, sensori), vincolata ad un potere politico bombastico e velleitario - non poteva essere più diverso. Come avversario, in effetti, la Regia Marina non avrebbe potuto trovarne uno meno indicato. Infatti non se lo era cercato, avendo fatto presente per tempo nella sede politica deputata (il cesariano testone di Mussolini) quelle che erano le relatività strategica del mondo. Lo stupefacente blitz della Wermacht nella Douce France e la propensione al gioco d’azzardo di un Duce autodidatta in geopolitica oltre il lecito decisero altrimenti. A quel punto le diffuse previsioni di chi dava per scontato il prossimo, rapido sbriciolamento del “Cake” navale italico da parte di un’eletta schiera di novelli Nelson redivivi non erano, oggettivamente, campate in aria, considerato anche che la Flotta britannica del
Mediterraneo era affiancata da una omologa francese di pari stazza che avrebbe potuto seguire le vicende del suo paese sconfitto, ma anche non accodarsi, affiancandosi, in tutto o in parte, ai compagni d’arme della Royal Navy (cosa che fu definitivamente affossata dallo spietato attacco di Mers el Kebir del 3 luglio 1940 da parte della Forza H dell’ammiraglio Sommerville). Nel gennaio 1939, in vista del conflitto imminente, il governo britannico aveva elaborato una strategia mediterranea che prevedeva di sbaragliare rapidamente la flotta italiana nei primi mesi di guerra, estromettere del tutto ogni velleità mussoliniana in Africa e in Medio Oriente, riaprire la rotta GibilterraAlessandria, aggredire l’Asse dal suo ventre molle meridionale e solo allora passare ad occuparsi dell’Estremo Oriente (scacchiere che aveva rappresentato la preoccupazione maggiore nel ventennio precedente, prima del riarmo tedesco, dell’antagonismo con l’Italia e della nascita dell’Asse). Nessuno di questi obbiettivi fu raggiunto fino all’estate del 1943, quando l’irrompere nel Mediterraneo della strapotenza americana cambiò le sorti della guerra. Da solo l’Impero britannico non ce l’avrebbe mai fatta. Come afferma ripetutamente O‘Hara, questo risultato fu dovuto in gran parte all’azione della Regia Marina che combatté una lunga, aspra e incessante campagna contro un avversario superiore in mezzi - ma soprattutto in know how senza mollare mai e neanche vacillare, prendendo tante legnate, ma re-
VINCENT O’HARA
Struggle for the Middle Sea
Naval Institute Press pp. 334 • euro 26 L’autore, Vincent O’Hara, noto saggista navale americano, esperto in Kriegsmarine, tratta con molta scrupolosità la guerra nel Mediterraneo: sia la fase QuarantaQuarantatre che le operazioni navali degli Alleati dopo l’armistizio con l’Italia, nonchè la guerriglia marittima portata avanti successivamente dai tedeschi, molto più intensa ed efficace di quanto si sapesse fino ad oggi. Anche se - a suo dire - non raggiunse lo stesso rendimento operativo delle precedenti operazioni della Marina italiana. Vengono illustrate anche le complesse vicende della flotta francese, trovatasi a fronteggiare in successione l’Asse, la Royal Navy, la France Lìbre, i GI e poi nuovamente la Germania hitleriana in un caleidoscopio di colpi di scena degni di una saga hollywoodiana.
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libreria stituendole in buona misura e riuscendo a padroneggiare sempre la propria cruciale metà campo. Oltre ai milioni di miglia percorsi nella scorta convogli - il citato fiore all’occhiello che ottenne i risultati sottolineati in precedenza - le nostre unità combatterono contro il nemico trentaquattro battaglie navali di varia misura (sulle cinquantatré complessive che i vari contendenti mediterranei affrontarono a varie riprese in diverse configurazioni, un record superiore a quello che avvenne in qualsiasi altro teatro di guerra del secondo conflitto mondiale ), nelle quali in genere pareggiavano di giorno e nei mesi estivi (qualche volta prevalsero), ma subivano l’iniziativa dell’avversario, fortunatamente non troppo incalzante, di notte e con tempo cattivo. Questo non solo per l’indiscussa mastership professionale dei Master & Commander albionici in mare e per gli “hedge” tecnologici che la cultura scientifica e la potenzialità industriale di una superpotenza aveva conferito alle forze armate britanniche - radar, sonar e Ultra ma anche per una maggiore lungimiranza prebellica dell’Ammiragliato di Londra nello sviluppare le tecniche di combattimento notturno e l’aeronavale, nonché per le superiori qualità di sea keeping delle navi inglesi, frutto dello loro genesi nordicooceanica. Il primo fattore - combattimento notturno e aeronavale - non erano fuori della portata della Regia Marina, se i suoi ammiragli fossero stati meno conservatori e dogmatici. Il secondo gap - il seakeeping - era connaturato alla geografia e alla meteorologia, ed era di ardua perequazione. Era stato così al tempo delle galere veneziane e dei vascelli di Elisabetta I, e un po’ è ancora così, con le costruzioni navali britanniche che pongono la tenuta al mare al vertice dei requisiti e quelle italiane che fanno lo stesso per l’armamento.I compagni d’arme della Regia Marina in questa epica lotta - Regia Aeronautica e tedeschi (essenzialmente aviazione e sommergibili) - combatterono una guerra parallela conseguendo ottimi, a volte eccellenti risultati. Tuttavia, come l’autore mette
bene in evidenza, questi stessi compagni d’arme erano svincolati dalle prosaiche necessità del controllo dei bacini e del mantenimento delle vie di comunicazione e potevano dedicarsi anima e corpo all’offensiva. Nessuno di loro si preoccupò o era realmente in grado di fornire alla Regia Marina quell’indispensabile supporto aereo senza il quale ogni flotta della Seconda Guerra Mondiale era votata alla distruzione, come accadde un po’ a tutti coloro ci provarono nei vari scacchieri, dalla corazzata Bismarck, alle omologhe Prince of Wales, Repulse, Musashi e Yamato Le formazioni della Regia Marina operarono costantemente in queste condizioni e se non andarono subito a fondo tutte fu per le capacità manovriere delle navi (la loro contraerea non era granché, come quella degli avversari e degli stessi tedeschi) e l’esiguità del potere aereo avversario, che comunque era lo stesso (in gran parte vecchi ma coriacei biplani Swordfish in versione aerosilurante) che aveva segnato la fine della Bismarck. Quando arrivarono a stormi le fortezze volanti americane, la musica cambiò e diventò tutto inutile.
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Risk U S C I T I • HYUNG GU LYNN Ordine bipolare. Le due Coree dal 1989 EDT 2009
Le due Coree divise dal 38° parallelo rappresentano, secondo l’autore, l’ultimo baluardo della Guerra fredda. Pur condividendo con Seoul storia, lingua e tradizioni, Pyongyang sembra rimanere aggrappata, con uno sforzo quasi disperato, a un’ideologia fuori dal tempo. A fronte di ciò, le due Coree stanno sperimentando negli ultimi anni un cauto processo di avvicinamento: il Nord sembra aver cessato di considerare i sudcoreani come nemici da combattere e il Sud sembra voler prendere in considerazione l’apertura di Pyongyang. Nel libro, l’autore si chiede se la Corea del Nord non è più percepita dalla sua vicina come una minaccia e se un’eventuale riunificazione si stia trasformando in un obiettivo verosimile e condiviso. Esaminando testimonianze, dati e ricerche delle più autorevoli fonti internazionali, l’autore delinea un quadro vivo e completo della realtà e della storia di entrambi i paesi, illustrando i cambiamenti degli ultimi vent’anni, le principali dinamiche in atto e i possibili scenari futuri. • OPHIR FALK, HENRY MORGENSTERN Suicide Terror:Understanding and Confronting the Threat Wiley and Sons 2009
Basato su materiale di prima mano, questo volume esamina l’esperienza operativa israelia92
N E L
M O N D O
na e americana nel contrastare il terrorismo suicida. Dalla sua disamina, l’autore trae diverse conclusioni sul futuro dell’impiego di quest’arma, nel tentativo, rivolto principalmente a studenti e policymaker, di fornirne una comprensione profonda ed esaustiva. Attraverso case-study e interviste con esponenti politici e militari israeliani e statunitensi, il libro di Falk e Morgenstern parla la lingua di coloro che sono responsabili per capire, prevenire e confrontarsi con questa minaccia. Gli autori compongono così una sintesi delle esperienze dei più noti e qualificati esperti antiterrorismo che, da Washington a Gerusalemme, si sono misurati con il terrorismo suicida.
• PIETRO GRILLI DI CORTONA Come gli Stati diventano democratici Laterza 2009
Nel Novecento, argomenta Grilli di Cortona, la democrazia ha alternato successi e fallimenti. Se gli anni fra le due guerre apparivano come il preludio alla sua fine, la fine della Seconda guerra mondiale ne segnò la rinascita e la conclusione della Guerra sospinse la democrazia verso nuovi e imprevisti successi e orizzonti, ben oltre i confini dell’Occidente che ne furono la culla. Dagli anni Settanta a oggi, un processo più o meno intenso di democratizzazione ha investito quasi la metà dei Paesi del mondo, dall’Europa meridionale e orientale all’A-
a cura di Beniamino Irdi
merica latina, all’Asia e all’Africa. In alcuni di questi le trasformazioni politiche sono sfociate nella nascita di democrazie poi consolidate, ma in altri il processo si è interrotto fino ad incorrere in vere e proprie inversioni di tendenza. Grilli di Cortona si domanda perché alcuni Stati si democratizzano prima di altri, e perché le cause e i percorsi che portano alla democrazia e al governo del popolo siano così diversi fra loro, fino a giungere al dilemma se sia o no possibile esportare la democrazia.
• BRUCE BUENO DE MESQUITA The Predictioneer’s Game: Using the Logic of Brazen Self Interest to See and Shape the Future Random House 2009
Bueno de Mesquita disegna un quadro dettagliato delle implicazioni strategiche e predittive della teoria dei giochi. Questioni come i negoziati per il disarmo nordcoreano e il processo di pace in Medio Oriente sono alcuni fra gli strumenti che De Mesquita utilizza per esporre la forza predittiva della teoria matematica elaborata da John Nash, mentre guardando al futuro l’autore dimostra come essa può fornire preziose indicazioni strategiche su temi come il riscaldamento globale e il terrorismo. E tuttavia, come sostiene l’autore, la teoria dei giochi non serve solo per salvare il mondo, ma trova applicazione nella vita quotidiana di chiunque si
trovi alle prese con una causa in tribunale o l’acquisto di un’automobile. Saggio, provocatorio e utile, The Predictioneer’s Game cerca, spesso con successo, di cambiare il modo del lettore di comprendere il mondo e amministrare il futuro. • CARMEN REINHART, KENNETH ROGOFF This Time is Different: Eight Centuries of Financial Folly Princeton University Press 2009
Reinhart and Rogoff hanno accumulato un’impressionante mole di dati che copre otto secoli di storia economica, analizzando crisi, debiti pubblici e tassi d’inflazione delle maggiori potenze mondiali. Il risultato di questo studio è ciò che gli autori chiamano “una panoramica” degli infiniti ed ineluttabili cicli di boom e crolli che invariabilmente hanno caratterizzato l’economia mondiale, a dispetto di ogni previsione contraria. Partendo dalle cause della crisi finanziaria globale, This Time Is Different, si propone anche di formulare una roadmap dei suoi possibili svilupi negli anni a venire. Concludendo che, nonostante la loro natura varia e imprevedibile, le crisi economiche non nascono misteriosamente come terremoti sottomarini, ma possono spesso essere individuate in anticipo a condizione di conoscerne gli indicatori.
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DMITRI TRENIN Russia’s Spheres of Interest, not Influence The Washington Quarterly Fall 2009
Influenza o interesse, la differenza scorre sul filo della semantica? No, della sostanza, se parliamo di Russia e della pretesa di ristabilire dei confini al cortile di casa. Un posto dove fare e disfare, con una certa libertà, le trame della geopolitica. Soprattutto senza che Washington o Bruxelles mettano il naso. A seguito della guerra in Georgia, nel 2008, il presidente Dmitri Medvedev, fissando i principi della politica estera russa, aveva parlato di una sfera di «interessi privilegiati» e l’obbligo del governo di difendere i cittadini russi all’estero. L’autore che è direttore del Moscow center of Carnagie Endowement, spiega in un lungo articolo – come tradizione del WQ – perchè l’Occidente non deve lasciarsi ingannare. A meno di un mese dalla risposta armata della Russia, con l’attacco della Georgia nella sua provincia ribelle dell’Ossezia del Sud, l’affermazione del Cremlino aveva prodotto uno
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shock. Anche perché i residenti di quella regione erano stati, per la maggior parte, forniti di passaporto russo. Sembrava che Mosca non avesse bonificato l’eredità geopolitica sovietica delle sfere di influenza e fosse pronta ad intervenire con forza in Paesi con significative minoranze etniche russe. Si è cominciato a parlare di assertività moscovita, a cominciare dalla metà del Duemila. Una percezione che è stata sostanzialmente rafforzata dalle continue accuse di operare una politica aggressiva, rivolte al Cremlino. Poi quest’anno ci sono stati avvenimenti senza precedenti a livello mondiale: la crisi economica e finanziaria, una nuova amministrazione a Washington, e una diminuzione delle tensioni tra la Russia e gli Stati Uniti. I problemi che avevano portato vicino a uno scontro i due Paesi, erano il sostegno a senso unico degli Usa al presidente della Georgia Mikheil Saakashvili, le azioni di Mosca in Abkhazia e Ossezia del Sud, i piani d’azione della Nato per l’adesione (Map) di Georgia e Ucraina. Il progetto d’installazione del sistema americano di difesa missilistica nella Repubblica Ceca e in Polonia, anche se non è uscito completamente fuori dal tavolo, è stato accantonato. Verso la fine del 2008, tuttavia, il ministro degli Esteri, Sergei Lavrov, si esercitava in un ampia dichiarazione sulle relazioni «uniche» e molto forti che legavano la Russia ai Paesi della Comunità degli Stati Indipendenti (Csi) post-
R I V I S T E sovietica. Parlava di «unità di civiltà» per le terre che un tempo formarono l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche, e prima ancora, l’impero russo. Così, nascerebbe una domanda: qual è la differenza, se c’è, tra la sfera degli interessi proclamata dall’attuale leadership russa, e la più tradizionale sfera di influenza condannata dall’opinione pubblica internazionale? Quali sono, dopo tutto, i motivi e le finalità di Mosca? Non c’è dubbio che gli interessi russi coincidano con la vecchia sfera d’influenza sovietica, ma il Cremlino non è più in grado di esercitare quel vecchio potere. L’influenza c’è ancora ma non sarebbe più dominante.
JAMES KURTH The protestant deformation The American Interest Fall 2009
L’autore ha scritto, otto anni fa, un libro a cui il tempo ha dato ragione. Parliamo di Protestant Deformation, che trattava dell’influenza del pensiero riformato su quella che diventerà la via maestra della politica estera americana. Un concetto messianico di manifest destiny che ha per-
a cura di Pierre Chiartano vaso la politica ben prima che, con George W. Bush, questa cultura entrasse in ogni stanza della Casa Bianca. L’articolo va inteso come un aggiornamento di quella pubblicazione, e tratta di un argomento che, anche in piena presidenza Obama, tiene banco in America: Dio è tornato. Forse dovremo chiederci se l’Altissimo abbia mai abbandonato un Paese, dove la fede praticata raggiunge delle percentuali da studio antropologico, rispetto alla quasi atea Europa. Si tratterebbe di un ritorno del trascendente nella versione che ha permesso al cristianesimo di vincere la sfida con la modernità. Il ruolo della cultura protestante è stato fondamentale, soprattutto dopo l’11 settembre 2001, ma non nella maniera in cui molti pensano, e ben prima di quella fatidica data. Kurth spiega perché. Non c’è dubbio che la dottrina Bush abbia imposto una grande trasformazione alla politica estera Usa, ma siamo proprio sicuri che l’impronta religiosa, quella che spingeva a voler esportare quel «dono di Dio» che è la libertà, anche in Medioriente, sia alla base della sconfitta in Iraq? E allo stesso tempo, gli amici del presidente alla Casa Bianca, come il neocon Paul Wolfowitz, il “petroliere” Dick Cheney, e l’ipernazionalista Donald Rumsfeld, possono essere definiti corresponsabili di un errore? Molte delle risposte sono contenute nella forte religiosità del presidente Usa e nell’origine del suo supporto elettorale, legato 93
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alla cosiddetta «destra protestante» in contrapposizione con una «sinistra secolare», come la stampa, semplificando, ha dipinto la situazione statunitense. Sull’argomento è stato scritto molto, ma ciò che non è sufficientemente chiaro, è quanto questa influenza abbia radici lontane nel tempo e sia stata un segno distintivo della politica americana, nei confronti con il resto del mondo, dalla sua nascita. Un’analisi delle convinzioni di fede profonda di un presidente per capire l’America.
JOHN MAKIN The Keynes Bubble Commentary Fall 2009
Se ci fosse stato lui, la recente crisi finanziaria si sarebbe evitata. Ma lui chi è? John Maynard Keynes, padre del mercato governato dall’intervento pubblico. E chi si mette nella lunga schiera degli economisti delusi dall’infallibilità della formazione dei prezzi e dell’efficienza del mercato? Si chiama Robert Skyldeski, economista e accademico britannico 94
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che ha scritto un libro Keynes: il ritorno del Maestro. Un titolo che è tutto un programma, ma che deve essere piaciuto a John Makin, economista dell’American Enterprise, passato temporaneamente nelle file di Commentary. Il movimento dei teorici dell’economia moderna, lontano dalle intuizioni di Keynes, – sostiene Skildesky – è stato una delle principali cause che hanno portato alla formazione delle bolle finanziarie, al crollo e alle conseguenze dolorose che conosciamo. I colpevoli hanno anche un nome. Il primo sarebbe Eugene Fama, padre del concetto di «mercato efficiente» e poi verrebbe la nuova scuola di macroeconomia classica di Robert Lucas. Semplificando, per Lucas, l’intervento del governo, con la politica fiscale o quello delle banche centrali, con la politica monetaria, sarebbero inefficaci. Sia l’aumento della spesa pubblica che quello della carta moneta sono eventi che vengono largamente anticipati dagli agenti economici razionali, quindi con scarsa efficacia quando attuati. La teoria sull’efficienza del mercato asserisce che il prezzo dia, all’istante, ogni informazione utile sul prodotto, che sia finanziario o industriale. Questo in teoria dovrebbe scongiurare le speculazioni. L’economia è da sempre soggetta ad alti e bassi e, a seconda in quale parte del grafico ci si trovi, prendono fiato teorie e ricette differenti. La Fed ha comunque cercato sempre di ovviare ai momenti di crisi
R I V I S T E con un certo interventismo. Cioè facendo il suo mestiere. Quindi l’informazione sarebbe alla base del mercato. Qualche anno fa Joseph Stiglitz vinceva il Nobel per la teoria delle asimmetrie informative. Detto in soldoni, se chi compra non ha le stesse conoscenze di chi vende, il mercato è deviato e si creano le bolle speculative. Che in qualche caso si chiamano truffe. Ma Makin è figlio della scuola di Chicago e obietta che la crescita è determinata dall’ottimismo con cui famiglie e imprese guardano la futuro. In tempi incerti si va sul sicuro e non si spende, così la politica monetaria verrebbe annullata. Una prima gamba keynesiana sarebbe a mancare subito. Rimarrebbe la convinzione dell’effetto moltiplicatore sull’economia dell’indebitamento pubblico, per sostenere l’economia reale. Ma la storia ha più volte dimostrato come le situazioni evolvono e le crisi hanno sempre facce diverse. Come la dinamica sui salari, in costante diminuzione per lo spostamento geografico della produzione. La fortuna di Keynes è durata dagli anni Quaranta fino ai Settanta, quando Lyndon Johnson usò male la sua teoria, per pagare contemporaneamente i costi della guerra in Vietnam e quelli per la Great society. Il risultato fu un decennio d’inflazione a due cifre e la caduta del dollaro. Milton Friedman dimostrò invece che stampare banconote, in tempi di crisi, non aiutava la crescita, ma solo l’inflazione.
E oggi con lo stimulus di Obama che ha solo riempito i forzieri delle banche, abbiamo un’altra dimostrazione di come sia utile leggere Keynes, ma sui libri di storia.
STEFAN HALPER The World of Market Authoritarianism The American Spectator October 2009
Nel lontano settembre del 1972, Richard Nixon giocò la carta cinese. Fu una scommessa brillante. In un colpo solo gli Usa aprirono le relazione con la Cina e congelarono quelle tra Pechino e Mosca. I quarant’anni successivi videro lo sfaldamento del sistema sovietico, mentre i cinesi emergevano dal fanatismo della Rivoluzione culturale maoista, per diventare la potenza globale che sono oggi. Lungo questo percorso la Cina ha lanciato una formidabile sfida all’egemonia economica e militare statunitense. Più seria ancora è la sfida di Pechino ai principi su cui si è sviluppato l’Occidente negli ultimi 300 anni e su cui ha fondato la propria leadership mondiale. Oggi, la raffinata visione politica di Nixon sembra essere andata perduta. Nell’ultima
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audizione davanti alla Commissione esteri del Senato Usa, Hillary Rodham Clinton ha fatto una lunghissima relazione, in cui solo sei passaggi riguardavano la Cina. Politici e intelletuali americani non amano parlare del problema cinese, preferiscono evitare l’argomento. A meno che non appartengano alle cosiddette «China gang» di Washington. L’ex segretario di Stato, James Schlesinger, ha spiegato questo fenomeno di parcellizzazione. Esistono molte lobby e gruppi d’interesse, quelli che si occupano delle questioni militari, oppure di commercio e lavoro, di difesa della proprietà intellettuale, di tecnologie e altro ancora. Procedono tutti in ordine sparso, seguendo linee autonome. Ma prese nell’insieme hanno prodotto molte mode, come «la Cina sta per conquistarci» oppure «la Cina sta per comprarci», e non ultima «la Cina ci darà una mano». In questa maniera si sono creati gruppi di simpatizzanti, i «panda hugger» che predicano il coinvolgimento e che affermano che l’Asia sia destinata, prima o poi, ad abbracciare un sistema democratico in salsa occidentale, e gli antipatizzanti, i «panda basher» che vedono minacce un po’dappertutto. La verità è che nessuno di loro ha ragione. Il problema cinese è così complesso che nessuno ha in mano la chiave per capirlo, né per risolverlo. Pechino è un alleato economico, ma un rivale politico. Trent’anni di successi nelle riforme econo-
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miche indicano che il Partito comunista cinese non è in procinto di crollare. Ma non è neanche sul punto di trasformarsi in un soggetto democratico. Il fatto è che i cinesi hanno scelto un modello politico-economico perfetto per rispettare l’ordine sociale e culturale di una società confuciana. Se in Occidente il legislatore ha il dovere di garantire a ogni cittadino il diritto di espressione politica, di riunione e di dibattito pubblico, con i cittadini che hanno il dovere di esercitare questi diritti, in una comunità confuciana è vero il contrario. Lì se il potere ha la responsabilità di proteggere e aiutare, il cittadino ha il dovere di obbedire. Nel confronto tra Confucio e Jefferson, l’Occidente sta perdendo appeal e ricchezza, anche se gli Usa sono ancora in grado di gestire meglio ricchezza e tecnologie a favore del sistema.
MICHAEL O'HANLON Star Wars Retreats? Foreign Affairs november/december 2009
Poco tempo fa l’amministrazione Usa ha annullato il programma antimissile. Si trattava di una base radar in
R I V I S T E Cechia collegata con una piattaforma con dieci vettori antimissile in Polonia. Il sistema sarebbe dovuto servire per proteggere Europa e Usa dalla minaccia dei vettori iraniani a medio e lungo raggio. Dal primo giorno in cui è stata annunciata la decisione, si sono levate critiche contro un Casa Bianca poco conscia della reale minaccia strategica e troppo incline a non scontentare Mosca, che aveva in più occasioni protestato. La scorsa primavera il segretario alla Difesa, Robert Gates aveva tagliato i fondi del progetto di 2 miliardi di dollari l’anno. Secondo molti un brutto segnale mandato a Iran, Corea del nord e Cina che invece stavano sviluppando programmi missilistici in grado di minacciare il suolo degli Usa e dei suoi alleati. L’autore dell’articolo segnale come, già da dieci anni, il dibattito sulla difesa missilistica è prettamente ancorato all’ideologia piuttosto che alla realtà. Fa infatti notare come, pur con i tagli di Gates, il programma potrà contare su 10 miliardi di dollari ogni anno. È il 50 per cento in più di quanto aveva previsto Ronald Reagan per il suo famoso Sdi: le cosiddette «guerre stellari». Gli Usa sono dunque lungi dall’aver abbassato la guardia in campo militare. E il sistema antimissile rimane la più importante acquisizione come sistema d’ar-
ma. In più la struttura basata in Cechia e Polonia si sarebbe fondata su tecnologie già utilizzate in Alaska e California, per difendersi dalla minaccia nordcoreana. L’iniziativa non avrebbe avuto un costo proibitivo, anche se non proprio economico: circa 6 miliardi di dollari. Ma avrebbe costituito una difesa solo per la prima ondata di una mezza dozzina di missili, lasciando scoperte ampie zone dell’Europa dell’est. In più il Pentagono utilizza già diversi sistemi antimissile. Quello Aegis navale, il laser aerotrasportato per colpire i vettori appena dopo il lancio e i più classici Patriot, l’ultima griglia di difesa prima dell’impatto, E per l’Europa ci sarebbe già l’Sm-3, un sistema navale adattabile, che potrebbe un giorno essere installato anche in Cechia. Le considerazioni russe sullo scarso valore strategico del sistema, in Europa centrale, non sono peregrine. Mosca possiede ancora migliaia di testate atomiche e sistemi che potrebbero rendere inutile quella struttura difensiva. Sarebbe stato meglio, invece, per la Casa Bianca non cancellare gli altri due programmi in fase di sviluppo: quello del cannone laser – che lascerà comunque a disposizione delle Forze armate un prototipoi operativo – e dell’ipertecnologico intercettore a energia cinetica. 95
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del numero
ALVISE ARMELLINI: giornalista
MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa
OSVALDO BALDACCI: giornalista, analista di politica internazionale
PIETRO BATACCHI: senior analyst Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali CLAUDIO CATALANO: analista di relazioni internazionali AHMET DAVUTOGLU: ministro degli Esteri della Turchia
ROBERTO DE MATTEI: storico, vicepresidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche ALESSANDRO FARRUGGIA: giornalista e scrittore
EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo
RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina
VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore
ANDREA MARGELLETTI: presidente Ce.S.I. - Centro Studi Internazionali MARTA OTTAVIANI: giornalista, corrispondente dalla Turchia
EMANUELE OTTOLENGHI: direttore del Transatlantic Institute di Bruxelles
STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai) ANDREA TANI: analista militare, scrittore DAVIDE URSO: esperto di geopolitica
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