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risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA



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quaderni di geostrategia

DOSSIER

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O

M

M

A

LA STORIA

La luna di miele è già finita

Virgilio Ilari

Oscar Giannino

pagine 62/67

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I

O

Una presidenza di guerra Andrea Nativi •

Lisbona ha indebolito l’asse Usa-Ue

Mario Arpino Andrea Tani

John R. Bolton

Mosca e la politica del “Reset button”

pagine 68/75

Marcello Foa

L’equilibrio del terrore Carlo Jean

LIBRERIA

RUBRICHE

La chance indiana

Beniamino Irdi Pierre Chiartano

Neena Shenai

Non c’è l’America Latina, solo Chávez

pagine 76/79

Roger F. Noriega

Attenzione alla tela dell’Iran Danielle Pletka pagine 4/35

Editoriali

Michele Nones Stranamore pagine 38/39

SCENARI

DIRETTORE Andrea Nativi CAPOREDATTORE Luisa Arezzo

Dove va la Nato? A cura del Comitato Difesa 2000 pagine 40/55

SCACCHIERE

Unione Europea

COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Alessandro Marrone

Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Chiartano, Ilari, Irdi, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani

Alessandro Marrone

Africa Maria Egizia Gattamorta

America Latina Riccardo Gefter Wondrich pagine 58/61

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IL MONDO SECONDO OBAMA (E HILLARY) Euforia in casa e all’estero, è quella che Barack Obama suscitò un anno fa varcando la soglia della Casa Bianca. Ora, a meno di tre settimane dal 20 gennaio, data del suo insediamento ufficiale, si fanno i primi bilanci di questi dodici mesi di presidenza “dell’uomo del cambiamento”, il leitmotiv della sua campagna elettorale. E questo mentre la popolarità del Premio Nobel per la pace, registra le sue prime e significative flessioni. Ma non è del suo indice di gradimento in casa che vogliamo parlarvi in questo numero di Risk, bensì, occupandoci di geostrategia, di come è cambiato il mondo alla luce della strategia Obama. Dall’Asia al Medioriente, dall’America Latina all’Unione Europea, avendo sempre ben presente che l’Occidente è in guerra e che la Casa Bianca guida la “war on terror” (anche se non la chiama più così) contro la minaccia lanciata nel 2001 da Bin Laden. Quello che ne risulta è un quadro in divenire, ancora molto confuso e potenzialmente capace di destabilizzare le certezze conquistate dall’Occidente dalla fine della seconda guerra mondiale in poi. Instabilità che non possiamo certo dimenticare è anche figlia della violenta crisi economica che ha colpito il mondo intero. Quello che sembra, tuttavia, è che stante il fatto che gli Usa sembrano piacere di più all’opinione pubblica dei paesi stranieri, essa sia rispettata di meno dagli altri governi. Obama dice di essere pronto ad allungare un guanto di velluto invece di un pugno chiuso verso i nemici, ma dall’altra parte nessuno, fino ad oggi, gli ha teso la mano. L’America è ancora ferita, ridimensionata dalla crisi economica; perplessa all'interno dalla solo parziale attuazione delle promesse elettorali su materie come Guantanamo, Iraq e Afghanistan; protesa obbligatoriamente a un rapporto preferenziale con la Cina; ancora sprovvista di reali novità sul delicato tavolo tra Israele e palestinesi; più lontana dall'Europa di quanto fosse in passato; incerta come in precedenza su alcune discontinuità centro e sud americane.

Ne scrivono: Bolton, Foa, Giannino, Jean, Nativi, Noriega, Shenai, Pletka.


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UN ANNO FA L’INGRESSO ALLA CASA BIANCA DEL PRIMO PRESIDENTE NERO

LA LUNA DI MIELE È GIÀ FINITA? DI

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OSCAR GIANNINO

ual è il bilancio della politica estera americana, a oltre un anno dall’elezione di Barack Obama? Se giudichiamo i suoi tour esteri e le maggiori occasioni in cui la politica della nuova Amministrazione si è dispiegata in atti e decisioni concrete, direi che la formula più adeguata, dal mio punto di vista, è la seguente: un atterraggio molto ruvido. Dalle altezze

• dell’idealismo liberal alla ruvida complessità del mondo post Bush: con un’America ferita profondamente e ridimensionata dalla crisi economica; perplessa all’interno dalla solo parziale attuazione delle promesse elettorali su materie come Guantanamo, Iraq e Afghanistan; protesa obbligatoriamente a un rapporto preferenziale con la Cina; ancora sprovvista di reali novità sul delicato tavolo tra Israele e palestinesi; più lontana dall’Europa di quanto fosse in passato; incerta come in precedenza su alcune discontinuità centro e sud americane. Eppure, tutto questo è valso in pochi mesi al presidente Obama la trionfale concessione del Nobel per la Pace. Un incoraggiamento venuto ancor prima che Obama si trovasse in condizione di far seguire alle sue parole i fatti. E che ha inevitabilmente deluso molti, quando sono venute scelte come quella sull’Afghanistan. Controversa e sofferta per più di un semestre, tanto da simboleggiare per questo solo fatto la manifestazione sin qui più eloquente dell’hard landing obamiano, e del suo team di consiglieri, i più dei quali vengono dal Middle East Institute of Studies della Brookings. Eppure, nulla di tutto ciò si deve a presunta impreparazione del presidente. Né al fatto che l’Amministrazione sia troppo assorbita sull’assai impegnativa agenda di politica interna, eco-

nomica e sociale, considerando quantità e qualità di advisor di primo livello rotanti intorno al segretario di Stato Hillary Clinton, o in Congresso, come Paul Joula, Vance Serchuk, Bill Monahan, Tom Hawkins e Rick Kessler, l’ottimo staff director della Commissione Affari Esteri della Camera che a sua volta tra i suoi collaboratori può contare su una decina delle migliori menti liberal forgiate sotto l’amministrazione Clinton e nei migliori campus americani. Obama per primo, nella sua precedente breve esperienza parlamentare, è stato membro della Commissione Affari Esteri del Senato. Ed era Joe Biden a guidarla, il suo vicepresidente il quale non a caso a giudizio di molti in politica estera, è il più importante e ascoltato vicepresidente che la storia americana ricordi da molto tempo a questa parte. Tutto si può dire insomma, ma non che la politica estera fosse per Obama pane non abbastanza masticato, come invece i dossier che riguardano moneta, bilancio e industria. In questo primo anno, si può legittimamente affermare che dopo il discorso di insediamento due siano state le grandi occasioni in cui il presidente Obama ha deliberatamente concentrato la maggior enfasi, per dare vigore e impulso alla promessa che in politica estera l’aveva portato alla vittoria: una svolta netta, dall’unilateralismo 5


Risk

L’America di Bush jr. era quella dell’11 settembre 2001. L’America di Obama è figlia del 15 settembre 2008. Temo che, nei libri di storia, questa seconda data non sarà meno rilevante della guerra al terrorismo proclamato e perseguito dall’amministrazione Bush, al multilateralismo programmatico e compartecipato, per restituire all’America l’immagine e i consensi meritati di un Paese che «si propone al concerto internazionale per il suo esempio e per la sua instancabile ricerca della persuasione, del dialogo, della reciproca convenienza, non per la forza delle sue armi e per la superiorità del suo modello», come aveva ribadito all’insediamento. La prima occasione ha coinciso con il primo viaggio all’estero carico di simbolismo e significato, con la tappa del Cairo e il discorso all’università Al Ahzar, cuore e testa del delicatissimo equilibrio tra plurisecolare tradizione di alti studi, e trentennale slittamento verso ideologia, prassi e proselitismo dell’islamismo dei Fratelli Musulmani.

La seconda occasione ha coinciso con l’intervento all’assemblea generale dell’Onu, in settembre. I due eventi costituiscono l’inizio e la fine della luna di miele di Obama in politica estera. La punta più alta è venuta con il G20 di Pittsburgh, sotto molti punti di vista il più grande successo americano in questo 2009, una specie di rappresentazione vivente - con la sua photo opportunity per cui occorrevano non uno, ma due grandangoli giustapposti agli obiettivi dei fotocronisti - della decisione di estendere la governance condivisa planetaria secondo criteri, logiche e obiettivi sin qui mai sperimentati. Dopo tali occasioni, la realtà ha preteso i suoi aspri diritti, sostituendosi ai proclami di principio. Prendendo la forma, di conseguenza, del tour asiatico al vertice Asean e soprattutto della visita in Cina. E poi, della controversa e tanto attesa decisione sull’Afghani6

stan. Prima di due nuovi tentativi di ridare all’idealismo il suo afflato prioritario, a tribune cariche nuovamente di forte valenza simbolica ancor più che concreta, come il vertice di Copenaghen sul clima, e il discorso di accettazione del Nobel, a Oslo. Prima di approfondire l’esame di questa oscillazione pendolare tra il cielo dell’ideale e la terra della realtà, occorre però una premessa. Che costituisce l’orizzonte obbligato, per tanti versi, in cui la politica estera di Obama si trova ad essere inscritta, qualunque siano poi le sue stelle polari e decisioni concrete. L’America di Bush jr. era quella dell’11 settembre 2001. L’America di Obama è figlia del 15 settembre 2008. Temo che, nei libri di storia, questa seconda data non sarà scritta con neretto meno rilevante della prima. Anzi al momento, e per il futuro che possiamo scorgere di fronte a noi, direi proprio che le conseguenze della più grave crisi finanziaria ed economica del secondo dopoguerra determinano e determineranno una ridislocazione di forze, equilibri ed influenze assai più penetranti e di lungo periodo di quanto si sia prodotto per l’attacco jihadista all’America e per la sua strategia di guerra globale al terrorismo. Si è rotto un paradigma ventennale di crescita finanziaria con rendimento annuale a doppia cifra sul mercato americano, meccanismo che a propria volta rendeva sostenibile un paradigma di crescita mondiale realizzato da Clinton spalancando le porte le porte del Wto alla Cina. Con quest’ultima che canalizzava parti crescenti del proprio eccesso di risparmio, ingenerato dalla crescita vorticosa del proprio export nel mercato a più alto assorbimento mondiale di beni di consumo a basso costo, proprio a sostegno del doppio deficit Usa - commerciale e delle partite correnti - attraverso l’acquisto massiccio di asset denominati in dollari e l’ammassamento di riserve nella stessa valuta. Quel doppio paradigma si è infranto. La domanda interna americana per lungo tempo ancora stenterà a tornare ai livelli precrisi, dovendo riequilibrare l’eccesso di debito privato acceso per sostenere i consumi e il calo del contributo al reddito disponibile realizzato dal deprezzamento degli asset immobiliari, nonché da una disoccupazione a doppia cifra. L’America è economicamente assai


dossier più debole di un tempo, non solo perché la crisi è nata dal modello della sua intermediazione finanziaria. Ma perché, con un debito pubblico che in pochi anni passa dal 40% al 90% del proprio Pil, sono gli States ad aver bisogno del traino rappresentato nell’economia mondiale di oggi dalle ex emerging economies, ed è Washington ad aver bisogno che Pechino continui a comprare le obbligazioni pubbliche americane. Washington insomma ha bisogno di un asse con una Pechino economicamente e finanziariamente cooperativa, almeno se non più, rispetto a quanto in precedenza Pechino aveva interesse a estendere il suo export in America, per dare maggior forza alla propria crescita interna. L’Amministrazione Obama ha forse potuto sperare nei suoi primi mesi che anche la Cina vedesse la sua crescita interna più piegarsi verso il basso, verso un un 6% di aumento annuo che a giudizio di molti osservatori è la soglia sotto la quale nella Terra di Mezzo iniziano a determinarsi problemi interni di “mancate promesse” di benessere sin qui accese, con quantità di ridislocazioni coatte di manodopera dalle città alle campagne di troppi milioni di unità, per risultare gestibili senza sommovimenti e proteste. Va bene che la Cina è oggi il Paese con il più efficiente strumento al mondo di attuazione intertemporale delle delle decisioni economiche - l’Armata Popolare Cinese - ma a tutto c’è un limite. Al contrario, però, da aprile scorso Pechino ha mostrato una tempestività e una decisione economica assolutamente preziose. Non solo per sé, ma per il mondo intero. Incomparabilmente più importanti nella ripresa del commercio estero di quanto non si siano dimostrati i salvataggi bancari da una parte, e dall’altra i programmi occidentali di sostegno all’economia reale. Pechino ha deciso di sostituire domanda interna all’export che mancava per la caduta americana destinata a protrarsi. Lo ha fatto non solo con un programma mostruoso di lavori pubblici finanziato dalle riserve accumulate e annegando le proprie famiglie e imprese di liquidità bancaria (da agosto, la politica monetaria ha cambiato di segno, tornando alla prudenza). Soprattutto, Pechino ha saputo coinvolgere tutti i Paesi del Far East - di qualunque colore politico fosse il loro governo in carica - in una comune

scommessa di politica estera ed economica. Poiché la Cina non è in grado di produrre i beni intermedi e finali richiesti in quantità pazzesche da una domanda interna in via di esplosione - le vendite di auto sono schizzate nei trimestri ultimi a botte del più 76%, la Cina sarà nel 2009 il primo mercato mondiale con 13 milioni di unità vendute - Pechino ha abbassato selettivamente le maglie dell’import verso i prodotti del Far East, consentendo a tutti loro crescite record dell’export in sostituzione della domanda americana svanita.

In tal modo, non solo Corea del Sud e Taiwan, Thailandia e Vietnam contribuiscono a una crescita cinese da consumi superiore al 9%. Ma, soprattutto, disegnano un Pacific Ring politicamente ed economicamente sinocentrico, come nessun esperto di politica estera americana, nemmeno il più antieuropeo, avrebbe mai osato immaginare. È questa svolta obbligata di prospettiva, integralmente disegnata dall’evoluzione economica e finanziaria, dalla debolezza degli Usa e dalle vecchiezze dell’Europa, quella con cui Obama ha dovuto fare i conti nel primo bagno di realismo in cui ha dovuto immergersi, recandosi a Pechino. Non una delle sue richieste di fondo è stata accolta. Non la pressione sull’Iran fino alla disponibilità per nuove sanzioni, in caso di rifiuto di Teheran delle richieste Onu sul processo di arricchimento del combustibile nucleare, disponibilità che pure, almeno in termini generali, Obama era riuscito a strappare da Mosca. Né tanto meno Pechino ha aperto un varco alla rivalutazione dello yuan-renminmbi , legato al dollaro da un peg semifisso che per la Cina è oggi garanzia duplice. Non sciogliendolo, Pechino impedisce al dollaro di svalutare troppo, cosa che danneggerebbe le riserve di greenback cinesi - 1 trilione di $, più almeno altri 2 trilioni in titoli pubblici e corporate - e al contempo, poiché il dollaro svaluta comunque - più del 15% sull’euro da aprile scorso, oltre il 20% sullo yen - le merci cinesi ci guadagnano in competitività aggiuntiva, come ne avessero bisogno. L’Afghanistan è il teatro sul quale la torsione tra promesse e realtà si è manifestata con più evidenza. I sei mesi di rinvio della decisione, dal momen7


Risk to della nomina del generale McChrystal alla testa del contingente americano e della contestuale richiesta di un suo immediato assessment dei suoi desiderata per vincere, hanno accompagnato Obama alla perdita di quasi venti punti di popolarità tra gli americani. Alla fine, i 30 mila nuovi militari inviati, più gli altri 20 mila ai quali Obama aveva già detto sì alla sua elezione, non corrispondono né alla richiesta piena dei vertici militari, né tanto meno alle attese dei liberal e dell’elettorato che in Obama ha creduto. Le richieste rivolte al presidente Karzai, ulteriormente indebolito da un’elezione inficiata da brogli e imbrogli che avrebbe dovuto suggerirne il passo di mano, appaiono pressoché del tutto irrealizzabili.

Proiettando verso la parte finale del primo quadriennio di Obama il rischio di apparire impossibilitato a ritirarsi senza perdere la faccia da una parte, e dall’altra ancor privo di una netta distinzione tra Taliban, signori della guerra e leader tribali afghani da una parte, e al Qaeda dall’altra. Il Pakistan non è né rassicurato né impegnato, in fondo, da una tale strategia. La Cina continuerà ad aver mano libera con la minoranza uighura nello Xinjiang. L’India a temere di pagare prezzi crescenti all’intolleranza di nuovo in salita tra nazionalismo indù e musulmani. Persino l’Iraq potrebbe riesplodere, se a questo punto la surge afghana non dovesse aver successo di fronte a recrudescenze di caduti Usa ai quali l’Amministrazione si rivelasse non capace di reggere. Per gli alleati Nato impegnati in Afghanistan, tra cui l’Italia, è una decisione subìta, non compartecipata. Del resto, come il presidente francese Sarkozy non ha perso occasione di dichiarare al suo Consiglio dei ministri - almeno secondo la cronaca ufficiosa pubblicata da Le Canard - «La verità è che l’America di Obama considera oramai del tutto secondari noi europei». Anche i paesi esteuropei che più si erano avvicinati all’America di Bush, come Polonia e Cechia privati dello scudo antimissile per indurre Mosca a maggio collaborazione sul dossier iraniano. Ma è il Medio Oriente, la scacchiera in cui finora Obama non ha mosso un pezzo. Anzi, col tempo ha perso consensi. Eppure, al Cairo aveva 8

pronunciato un discorso tanto aperturista nei confronti dell’Islam e del blocco arabo-musulmano, che molti commentatori erano rimasti senza parole. Obama si è spinto allora a presentare l’Islam come luce della conoscenza che avrebbe aperto la strada al Rinascimento e all’Illuminismo. Lasciando tutti di stucco, si spinse a dire che l’Islam ci ha dato la stampa - ma come, e i cinesi? - e la comprensione delle malattie. Tutto ciò al fine di aprire un ponte verso governi e classi dirigenti musulmane, senza alcuna commistione con al Qaeda. E senza la tradizionale comprensione e solidarietà verso Israele. Come ammonisce Benny Morris, Obama si è abbeverato alla scuola multiculturalista di Edward Said, che in definitiva non conosce, non ama e non apprezza Israele. Sarà anche per questo che, senza mostrare al momento reale capacità di influenza sul governo Netanhyau e sulla sua agenda, l’America di Obama sta assistendo senza grandi iniziative a tre processi altrettanto pericolosi. Il primo è che Al Fatah e Abu Mazen trattano riservatamente il riavvicinamento con Hamas, a seguito del venir meno della prospettiva “due Popolidue Stati” dichiarata dal governo d’Israele. Il secondo è che Hamas ed Hezbollah in Libano continuano a riarmarsi, grazie all’Iran che attraverso di loro “parla” ai ceti dirigenti di Egitto e Arabia Saudita, oltre che naturalmente di Siria, Giordania ed Emirati. Il terzo è che, grazie a tutto questo, Ahmadinejad è più forte e non più debole, di fronte alla sua opposizione interna che non demorde dallo scendere in piazza, ma appare completamente isolata. Il Medio Oriente, proprio sulla tensione Iran-Israele, potrebbe tornare a diventare improvvisamente e tragicamente incandescente. Un bilancio troppo pessimistico e ingeneroso? No. Bisogna comunque augurarsi che Obama ce la faccia. Un anno è troppo poco, per giudicarlo. Che il realismo prendesse le sue rivincite, è amara lezione della storia che puntualmente si ripete. Ma le risorse politiche e diplomatiche degli Usa restano imprescindibili, in questo mondo più aperto e più caotico del dopo Lehman. Certo è la prima volta nella storia, che solo dopo aver vinto un premio Nobel per la pace, si deve dimostrare di meritarlo davvero. Facendo anche la guerra.


dossier

AFGHANISTAN, IRAQ, PAKISTAN: QUI SI GIOCA IL DESTINO DELL’OCCIDENTE. E AL QAEDA LO SA

UNA PRESIDENZA DI GUERRA DI

B

ANDREA NATIVI

arack Obama voleva evitare che quella in Afghanistan diventasse la “sua” guerra, ma non ci è riuscito. Proprio perché ha lungamente (troppo) meditato quale approccio seguire, caricando di significato la sua decisione come “la più importante della sua presidenza”, ormai l’esito della partita segnerà il suo mandato e probabilmente peserà in

• misura sostanziale sulla possibilità di rielezione. Ed avendo puntato tanto sull’Afghanistan otterrà solo un marginale “bonus” di popolarità e credibilità politica dalla conclusione della campagna in Iraq, questa si avviata, tra alti e bassi, ad un disimpegno militare statunitense, sia pure parziale. Ma avendo Obama promesso molto di più di un mini-ritiro da Bagdad e dintorni ora è costretto a tenere la sordina su un processo che, sia pure tardivamente avviato dal suo predecessore, adesso sta dando i suoi frutti. Quella di Obama rimarrà una presidenza “ di guerra”, con tutto ciò che ne consegue in termini di politica estera. Peraltro con il suo (ottimo) discorso di accettazione del premio Nobel per la Pace a Stoccolma Obama ha mostrato al mondo di averlo compreso e si è dichiarato pronto ad affrontare questo ingrato ruolo. Quanto al Pakistan, gli Usa non sono militarmente direttamente impegnati nel traballante paese islamico, che cercano appunto di sostenere sia in chiave anti-talebana, sia per evitare il collasso di Ismabad. In questo senso va letta la nuova “partnership” globale che è stata offerta al Presidente pakistano. Non vi è dubbio che l’Afghanistan sia ora diventato il principale teatro bellico. Obama ha vagliato diverse alternative, proposte dai suoi consiglieri, profondamente divisi sulla “ricetta”

da adottare, consci dei risvolti di politica interna, con buona parte dei Democratici apertamente contrari a proseguire la guerra in Afghanistan, una opinione pubblica a sua volta stanca di guerre e dei relativi costi e preoccupata piuttosto dalla crisi economica. Certo tra la proposta dei militari di avviare (finalmente) una vera campagna controguerriglia su vasta scala, impegnando gli uomini ed i mezzi necessari, appoggiata in una certa misura dal segretario alla Difesa Robert Gates e dalla stessa Hillary Clinton e la posizione del vicepresidente Joe Biden, fautore di un ritiro unilaterale, abbandonando l’Afghanistan al suo destino, per sostenere invece una campagna anti al Qaeda condotta indirettamente, con ricorso a forze speciali e velivoli killer senza pilota, il divario non poteva essere più netto. Biden ha trovato alleati insperati, come lo stesso ambasciatore Usa in Afghanistan, ma non è riuscito (per fortuna!) a convincere il Presidente a imboccare la strada della fuga, che avrebbe probabilmente sancito il rapido collasso dell’Afghanistan e una crisi profonda delle relazioni con i partner Nato, mettendo a rischio la stessa ragion d’essere dell’alleanza. Per non parlare del “sogno” di poter sostenere il Pakistan e combattere al Qaeda con un Afghanistan dilaniato da nuove guerre intestine e dove i 9


Risk generale McCrystal ne è perfettamente consapevole. Tanto più visto che i suoi “desiderata” sono stati accolti solo parzialmente. Certo, 33mila soldati sono molto meglio di 15 o 20mila e poi ci sono gli alleati Nato che non si sono tirati indietro, offrendo ben 7mila uomini e relativi mezzi. Però l’ufficiale, specialista della guerra non convenzionale, sa benissimo che non avrà le forze per “vincere” subito. Anzi. Il Generale, che ha fatto tutto il possibile (e anche di più) per costringere il vertice politico a scegliere chiaramente una strada, avrebbe desiderato di più ed una delle opzioni sottoposte andava ben oltre i 40mila soldati in più (60mila). Ma al contempo ha anche dipinto al situazione in modo più catastrofico di quanto non sia in realtà. Come è normale per qualunque “nuovo” comandante che quando assume l’incarico tende a dipingere in modo negativo ciò che eredita, aumentando così le sue chances di fare meglio dei predecessori. La strategia che McCrystal ha proposto e che la Casa Bianca ha fatto propria si basa sul concetto della “economia delle forze”: non ci sono uomini né per mantenere il pieno controllo del Paese (che non c’è mai stato), ma neanche per proteggere e tenere l’intera “ring road”, l’arteria (si fa per dire, in certe parti non è neanche asfaltata) che collega il Paese. Quindi la nuova strategia è improntata alla concentrazione dei soldati (a fine anno Ora i militari non hanno affatto chiesto una erano 68mila americani, dei quali 33mila circa con “surge” veloce stile Iraq/Bush, perché in Afghanistan Enduring Freedom, che conduce una sorta di guerra non ve ne sono le condizioni. La situazione di partenza separata nella regione orientale, oltre a 35mila soldati è deteriorata, semplicemente perché fino ad oggi alleati in Isaf) nei settori cruciali (il Sud del Paese e la l’Afghanistan è rimasto un teatro secondario, non fos- parte Est), limitandosi a “tenere” a nord e ad ovest, dove s’altro perché mancavano le forze per tentare una diver- oggettivamente la situazione è molto più tranquilla. sa strategia. Quindi i soldati in più bastano appena per Inoltre l’oggetto dello scontro sarà la “conquista” della rendere credibile un tentativo di stabilizzazione. Se popolazione, cuori e menti. Quindi sicurezza, protezioObama, il segretario alla Difesa Robert Gates e alcuni ne, aiuti concreti alla popolazione. Anche se questo alleati, Londra in primis, vogliono un “segno” tangibile significa abbandonare alcune zone remote del Paese. di cambiamento in tempi ragionevolmente rapidi, non Non è piacevole, ma non ci sono alternative. Parimenti più di 15 mesi, una inversione di tendenza non signifi- McCrystal non è ossessionato dal “body count”, dal ca affatto che si possa arrivare ad una soluzione stabile metro generalmente applicato per misurare il successo a breve come a medio termine. Il nuovo sforzo garanti- delle operazioni controguerriglia. Per lo stesso motivo sce solo la capacità di resistere all’attrito e di riprende- continuerà a mantenere uno stretto controllo sull’impiere l’iniziativa, cosa questa ben diversa dal successo. Il go delle armi pesanti, terrestri ed aeree, per evitare di

talebani radicali sarebbero tornati al potere. Obama ha deciso di giocare la carta dell’ “escalation”, pur accompagnata da una serie di caveat. Il primo dei quali è politico e riguarda il rapporto con il presidente dimezzato afgano, Hamid Karzai, che se prima era debole, oggi, dopo il pasticcio delle elezioni taroccate, ha perso ancora potere, carisma e autorità. Karzai è comunque di nuovo in sella e gli Usa non possono che giocare con questo pasthun astuto e spregiudicato. Washington sta cercando di aumentare la pressione affinché Karzai cerchi di costruire un po’ più di credibilità per sé e le istituzioni afgane. Ma si dice che almeno 15 dei ministri del nuovo governo diano ben poche garanzie in tal senso. Gli addetti ai lavori non sono ottimisti, ma certo non è difficile “migliorare” visto la situazione attuale. E va anche notato che anche nel mondo occidentale i ministri corrotti non mancano di certo. Obama, che si è dimostrato in più occasione abilissimo nel fare affermazioni di grande impatto e foriere di largo consenso, salvo poi disattenderle nei fatti, ci ha provato ancora una volta con l’Afghanistan. In pratica ha proposto una “surge”, una crescita militare consistente, ma temporanea, accompagnata da una exit strategy apparentemente ben delineata, con l’obiettivo di iniziare il rimpatrio delle truppe addirittura già da metà 2011, dopo 18 mesi.

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dossier provocare stragi di civili. Il che è il contrario del credo militare americano, da sempre basato sulla ricerca di una schiacciante superiorità in termini di potenza di fuoco e letalità, costi quel che costi. C’è di più, McCrystal vuole che i soldati alleati rimangano nei villaggi, offrano una prospettiva di medio e lungo termine a chi, letteralmente affiderà loro la propria vita, il proprio futuro. Niente più incursioni o rastrellamenti per poi lasciare il campo al nemico. La dove si concentra la popolazione i soldati si insedieranno. E non vivranno blindati in fortezze che dimostrano alla popolazione ed ai guerriglieri quanta paura abbiano gli avversari, ma andranno per le strade, scenderanno dai loro mezzi corazzati. È sintomatico che McCrystal non indossi mai giubbotti antiproiettile, elmetto e non porti un’arma da fianco alla cintura. Ovvio che un simile approccio sia estremamente rischioso: nella fase iniziale del build-up le forze alleate offriranno un ambiente “ricco di bersagli” al nemico, bersagli più esposti che in passato: le perdite potranno quindi essere molto elevate, superiori ai 500 morti/anno del 2009. E l’Amministrazione Usa sarà presto sotto pressione. Inoltre l’invio delle truppe non potrà che essere graduale. Per qualche tempo si era parlato di un invio dei soldati a tempo di record. Ma quello che si può fare in Iraq non è possibile in Afghanistan, non fosse altro che per ragioni logistiche: creare le infrastrutture e il flusso di rifornimenti necessario per sostenere altri 40mila soldati occidentali sul campo non è rapido, né semplice e richiede anche la collaborazione di Pakistan e Russia. Di fatto anche se i primi Marines sono arrivati in Afghanistan prima di Natale, il grosso della forza sarà schierato solo in estate. E lo stesso faranno gli alleati Nato. Quindi è doppiamente arduo attendersi un cambiamento in tempi brevi. Buona parte della sfida si gioca con la popolazione afgana, che ha tutte le ragioni per non fidarsi delle promesse. E certo se parlare di piani di ritiro è vantaggioso negli Usa, non funziona altrettanto bene in Afghanistan o in Pakistan, anzi. Gli stessi Talebani sono convinti che gli occidentali non abbiano la “stamina” per reggere un confronto nel lungo periodo. C’è anche da dire che come il “tetto” di 30mila

Nella fase iniziale del “surge” le forze alleate offriranno un ambiente “ricco di bersagli” al nemico, bersagli più esposti che in passato: le perdite potranno essere superiori ai 500 morti l’anno uomini è saltato nel giro di pochi giorni, così anche i discorsi sulla tempistica della surge, sull’inizio del rimpatrio delle forze, sono solo poco più di slogan. Che si possa iniziare il disimpegno dal 2011 è un auspicio, niente di più. Di certo non è una promessa vincolante. Se si vuole avere una prospettiva di successo le truppe devono rimanere fino a quando sarà necessario, a dettare i tempi di un eventuale ritiro non sarà il Congresso, ma i progressi ottenuti e la risposta dell’avversario.

Il secondo pilastro della nuova strategia si basa su una accelerata “afghanizzazione” del conflitto. Su questo aspetto lo stesso McCrystal ha dovuto far finta di credere a ciò che andava raccontando. Ma è inutile cullarsi in false speranze. Intanto perché gli Usa hanno lasciato alle spalle un precedente infausto, la vietnamizzazione del conflitto con il Vietnam del Nord, risoltasi con un clamoroso fallimento. E si è rischiato molto anche in Iraq, dove si sono persi anni preziosi. In Afghanistan finora si è fatto veramente poco. E proprio questo è l’aspetto più debole del piano di McChrystal. A fine anno l’Ana, l’Esercito afgano, sfiorava i 100mila e si spera di farlo arrivare 134mila uomini (che costeranno 3 miliardi di dollari all’anno, quando il bilancio statale afgano non arriva a 800 milioni, mentre la “surge” americana costerà 30 miliardi di dollari, in aggiunta ai 65 miliardi di dollari/anno già previsti con 70mila uomini), con un anno di anticipo sui piani iniziali, entro fine 2010. Ma una espansione di oltre il 30% in un anno rappresenta già una sfida immensa. Pensare di raddoppiare 11


Risk ancora questa forza per il 2011 sembra davvero eccessivo. Piuttosto si dovrebbe aumentare il soldo dei militari, cosa che consentirebbe di combattere lo spaventoso tasso di “attrito” delle diserzioni, che affligge non solo la truppa, ma anche sottufficiali e persino i quadri degli ufficiali. Almeno sul piano monetario bisogna surclassare il nemico. Bisogna in pratica resistere alla tentazione di produrre “numeri” e veder poi i nuovi reparti sciogliersi come neve al sole alla prova del campo. Serve gradualità nei compiti affidati e un “accompagnamento” che richiede oltre alla presenza costante di consiglieri militari occidentali anche l’affiancamento di interi reparti, in aggiunta al supporto di fuoco esterno. La polizia è in una situazione peggiore. Si tende ad usarla come clone povero dell’esercito con unità quasi militari, ma se la strategia Usa funzionerà, per “tenere” il territorio servirà polizia “normale” e in quantità. Ed è bene che già dal 2010 gli stipendi dei poliziotti aumentino tra il 33 e il 66%. Non parliamo poi degli “ondeggiamenti” occidentali sulla consistenza finale delle forze di sicurezza afgane, che tra esercito, polizia di frontiera e polizia dovevano arrivare a oltre 400mila elementi (240mila esercito e 160mila forze di polizia) entro inizio 2014. Ora c’è qualche ripensamento, perché si è finalmente compreso che questi uomini dovranno essere equipaggiati, pagati e mantenuti. A carico dell’occidente. Karzai ha parlato di 15 anni prima che l’Afghanistan possa pagare i suoi soldati. Ed ha ragione. Il terzo caposaldo del nuovo corso consiste in un approccio nei confronti dei talebani e dei potenti locali: seguendo quello che gli

Obama cercherà di lavorare contemporaneamente su India e Pakistan per attenuare odi stratificati. Se ci riuscirà, Zardari potrà dedicarsi ai talebani 12

inglesi propongono da almeno 3 anni, si è deciso di cercare di conquistare (o comprare) alla causa il supporto dei talebani moderati, di capi tribù e di signori locali.

Il committment di Obama

nei confronti dell’Afghanistan rassicura fino ad un certo punto i generali pachistani. I quali non si fidano. E in fondo fanno bene. Per Islamabad non è così conveniente fare la guerra seriamente ai talebani “afgani” se gli americani e la Nato ad un certo punto faranno le valigie e abbandoneranno il Paese al suo destino. E in questo senso i dibattiti, il temporeggiamento di Washington non hanno giovato. Dal punto di vista pakistano evidentemente è preferibile controllare l’Afghanistan appoggiando indirettamente e direttamente i “propri” talebani, piuttosto che tentare di stroncarli militarmente per sostenere un governo Karzai oggettivamente poco credibile. Ecco perché per ora i capi della guerriglia in Afghanistan continuano a trovare rifugio sicuro in Pakistan. Le operazioni che il Pakistan ha finalmente avviato, su vasta scala, contro una parte dei talebani prima nella valle dello Swat e quindi in Waziristan meridionale, nel cuore della Fata, l’area tribale autonoma, sono invece azioni di autodifesa provocate dalla arroganza di alcune fazioni talebane, legate al Ttp, che hanno tirato troppo la corda, mettendo a rischio la sopravvivenza stessa del governo pachistano. I militari pakistani e la stessa intelligence militare, l’Isi, hanno compreso che la minaccia era concreta ed hanno finalmente impiegato con decisione forze consistenti. Ma hanno anche siglato una serie di accordi con capi locali e fazioni talebane, combattendo solo alcuni gruppi e non altri. Il vecchio concetto del divide et impera, che però anche in questo caso è rischioso, perché non c’è da illudersi sulla stabilità e convenienza a lungo termine di certe alleanze. Per ora questa nuova politica ha prodotto risultati relativamente positivi. Vedere 30mila soldati Pakistani che attaccano i 10mila guerriglieri del Ttp e un migliaio di alleati uzebeki sarebbe stato impensabile un anno fa. Il generale Ashfaq Kavani fa sul serio. Peraltro in Afghanistan, che pure ha un confine in comune di 1.500 km che più poroso non si può, di fuggitivi ne arrivano pochi. Segno che si spostano in altre zone della


dossier Fata o si “dissolvono” in attesa di tempi migliori. Il cambio di marcia di Kavani prevede il mantenimento dell’iniziativa, non ci si limita a cercare di cacciare i talebani che si spingono nel cuore del Pakistan, li si va a braccare nei loro santuari. Gli Usa ovviamente benedicono questo sviluppo, anche se la politica di aiuti al Pakistan che deve fare i conti con incomprensioni reciproche, come la volontà del Congresso di legare gli aiuti militari ed economici esclusivamente alla lotta ai talebani. Quello che Obama cercherà di fare è di “lavorare” contemporaneamente su India e Pakistan per attenuare sospetti e odi reciproci stratificati. Se ci riuscirà, il Pakistan, che continua a mantenere il grosso e il meglio delle sue forze al confine con l’India, potrà dedicarsi ancora più seriamente ai talebani. Ma non sarà facile considerando che l’interlocutore politico, è quanto di peggio ci si potrebbe augurare, il debole presidente Asif Ali Zardari, che ha lo scorso anno ha visti ridimensionati i suoi poteri (a partire dal controllo dell’arsenale nucleare) a danno dell’ex compagno di cordata e ora fiero avversario primo ministro Yousaf Raza Gilani e che resta comunque a rischio impeachement. Ma questo offre oggi il Pakistan.

Per quanto riguarda l’Iraq, la situazione continua, lentamente, a migliorare. Le statistiche dicono che la violenza diminuisce, per quanto la guerriglia sia ancora perfettamente in grado di colpire ferocemente provocando vere e proprie stragi, come ha dimostrato ad esempio l’8 dicembre a Bagdad con una serie di attacchi coordinati. Peraltro non è difficile massacrare centinaia di persone se i bersagli sono innocenti civili. Ma il numero degli atti di violenza complessivamente diminuisce, anche se rimangono aree critiche, ad esempio a nord, in Kurdistan. Un Kurdistan che continua a rimanere un grosso problema, anche perché gli Usa hanno consentito dopo il 2003 pericolose “espansioni” curde al di là della vecchia “linea verde”, creando una questione territoriale che prima o poi Bagdad vorrà risolvere. Il primo ministro iracheno Nouri al-Maliki sta crescendo in Iraq, ma va anche considerato che la coalizione di partiti di cui è espressione ha ottenuto un 14% di

consensi. Un po’ poco per giocare “all’uomo forte” come ogni tanto gli capita di fare, pur mancandogli le caratteristiche anche solo fisiche. Le elezioni provinciali diranno se Al Maliki ha davvero acquistato più seguito. L’amministrazione Obama ha adottato un atteggiamento ragionevolmente prudente nei confronti dell’Iraq ed ha resistito alla tentazione di ordinare un ritiro accelerato per cercare un facile consenso. Di fatto l’Iraq è scomparso dalle cronache dei grandi media statunitensi, per quanto nel paese a novembre fossero ancora presenti 120mila soldati statunitensi, quasi il doppio di quelli schierati in Afghanistan. In Iraq la “surge” di Bush ha funzionato, però la missione è ancora tutt’altro che conclusa. Il rinvio delle elezioni provinciali a metà marzo poi certo non favorisce il disimpegno, anche se le autorità statunitensi dicono che questo non è un fattore decisivo. Ma si tratta di una realtà con la quale si devono fare i conti, così come si deve considerare il “buco” spaventoso che si è aperto nel bilancio statale iracheno a causa della flessione dei corsi petroliferi per buona parte del 2009. Si, è vero che ora il prezzo del petrolio si è ripreso, ma i piani per il 2009 sono stati in larga misura compressi. Il ritardo nel riequipaggiamento delle Forze Armate e delle Forze di Sicurezza irachene, nella costituzione e addestramento di nuovi reparti e nello sviluppo di capacità operative avrà un impatto sulle aspirazioni americane di ritiro di uomini e mezzi. Il generale Roy Odierno, che dirige le operazioni nel teatro, ha mostrato un cauto ottimismo, ha autorizzato il simbolico rientro di una Brigata di 4mila soldati, ma per il resto si muove con cautela. Si spera di accelerare il ritiro, ma è quasi impossibile che si scenda a 50mila soldati per agosto (e Obama aveva parlato di 3550mila) mentre è certamente impossibile completare il ritiro a fine 2011. L’Iraq non è in grado di badare a se stesso, non ha Marina, Aeronautica, un Esercito idoneo a costituire un deterrente da minacce esterne e per costruire queste capacità serviranno anni. Il trasferimento di responsabilità sicuramente continuerà e potrà accelerare. Ma Obama non può farsi illusioni e sa bene che al più tardi a fine anno di questi argomenti dovrà discutere con la leadership irachena. 13


Risk

L’EX AMBASCIATORE AMERICANO ALL’ONU CRITICA I NUOVI LEADER SCELTI DAI VENTISETTE

LISBONA HA INDEBOLITO L’ASSE USA-UE DI JOHN

L’

R. BOLTON

Unione europea, fortificata dal trattato di Lisbona, poche settimane fa ha scelto un presidente permanente e una rappresentante per la politica estera. Tony Blair, candidato alla presidenza, è stato rifiutato a favore del poco conosciuto primo ministro del Belgio con un processo così opaco che l’elezione di un nuovo Papa nel Collegio dei Cardinali,

• a confronto, sembra trasparente. La rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea non ha esperienze in politica estera. Che impatto avrà il Trattato di Lisbona e la sua nuova gestione burocratica sulle relazioni Unione europea, fortificata dal trattato di Lisbona, poche settimane fa ha scelto un presidente permanente e una rappresentante per la politica estera. Tony Blair, candidato alla presidenza, è stato rifiutato a favore del poco conosciuto primo ministro del Belgio con un processo così opaco che l’elezione di un nuovo Papa nel Collegio dei Cardinali, a confronto, sembra trasparente. La rappresentante per la politica estera dell’Unione Europea non ha esperienze in politica estera. Che impatto avrà il Trattato di Lisbona e la sua nuova gestione burocratica sulle relazioni tra l’Unione Europea e Washington? Molto probabilmente, diversamente dai difensori del Trattato, non ci sarà alcun effetto. L’Unione Europea ha realizzato quello che sembrava impossibile, compiendo un passo importante per poi quasi subito dopo indietreggiare. Un aspetto dell’ingorgo dell’Unione è semplicemente stato sostituito da un altro, entrambi creati dagli europei per gli europei. Nel corso degli anni i sostenitori di un’Unione Europea più forte hanno 14

affermato che un’integrazione più stretta potrebbe rendere l’Ue in grado tenere testa agli Stati Uniti. Questi stessi sostenitori si sono poi voltati e hanno dichiarato agli americani che un’Unione europea più forte sarebbe un partner globale migliore per gli Stati Uniti. Forse credevano che non eravamo attenti. O forse si illudono che le frasi di circostanza e apprezzamento pronunciate dal presidente Obama all’indomani delle nomine di Van Rompy e Ashton lascino presagire un futuro positivo. Ad ogni modo, non sappiamo ancora quale metà delle loro affermazioni intimamente contraddittorie, semmai ci fosse, sia corretta. Nonostante infinite trattative, innumerevoli trattati e comunicati e continue chiacchiere da parte dei commentatori pro-Bruxelles, l’Unione Europea resta debole e inefficiente a livello internazionale. Precisamente, una «forte Ue» non è evidentemente come una forte Europa, e non è il tipo di partner di cui ha bisogno Washington. In linea di massima, infatti, gli americani restano confusi e i media statunitensi tutti, nessuno escluso - sono frustrati dal fatto che l’Europa non agisca come uno stato nazione. La verità è che gli autori e i fautori del Trattato di Lisbona lo definirono con orgoglio una “Costituzione” dell’Ue


dossier ma questa etichetta è sparita a favore di una terminologia più pacata dopo poche variazioni essenzialmente cosmetiche al suo testo. Molti, sia favorevoli che contrari alla ratifica, minimizzarono il cambiamento di nome come una vera inversione, quale fu in una certa misura. Ma soprattutto quando il “progetto europeo” non riesce nè a dire la verità agli europei, nè a decidere quale sia realmente la verità, il grosso problema è lì. Quindi oggi l’Unione Europea ha un nuovo trattato potenzialmente forte ma una nuova leadership debole. Fino a quando le persone all’interno non avranno deciso cosa vogliono realmente - e c’è motivo di credere che non vogliano una «Ue più forte» - nessun tipo di emendamento al Trattato o nessuna intricata selezione del personale cambierà la fondamentale assenza di accordi che seguirà. In verità, nascondere a lungo il disaccordo di base, un’abilità ben levigata dell’Ue, non fa che peggiorare il problema. Anche se gli europei creassero una «Ue più forte», non sarebbe uno stretto alleato degli Stati Uniti. L’Europa è già così concentrata su se stessa che è probabile che una «forte Ue» sarà ironicamente ancora più isolazionista e attenta ai suoi interessi di quanto lo sia oggi, esattamente all’opposto di quanto vorrebbe l’America. Inoltre, il viscerale antiamericanismo che permea la maggior parte della politica europea, svanito solo con la presentazione di un presidente evidentemente post-americano come Barack Obama, sarà ancora più rilevante in una «forte Ue». La realtà è che l’Unione Europea ha un valore inferiore rispetto alla somma delle sue parti, e così è stato per molto tempo. Dalla prospettiva degli Stati Uniti, si tratta di cattive notizie, perché per rispondere alle sfide mondiali - minacce di terrorismo e proliferazione di armi di distruzione di massa - c’è bisogno di una forte Europa che collabori con gli Stati Uniti. Ciò che farebbe davvero bene all’America e all’Europa sarebbe un gruppo di Statinazione europei indipendenti e sicuri che siano capaci di decidere democraticamente che vogliono difendere i loro interessi, i loro valori e i loro alleati di tutto il mondo. Un tempo ne avevamo uno nella

Nato, ma non più. La scomparsa della minaccia sovietica e le richieste di un comportamento “comunitario” dell’Ue hanno indebolito sia la Nato che i suoi singoli membri europei. Quando il Canada si lamenta, legittimamente, che l’Europa non sta prendendo posizioni in Afghanistan, gli europei dovrebbero realizzare in che guaio si trovano. Vista l’irrisolutezza dell’Unione Europea delle scorse settimane, è solo una questione di tempo prima che i difensori di una maggiore integrazione europea avanzino richieste per un altro Trattato. Questo è stato il modello costante, e non c’è motivo di pensare che non si riaffermi. Quando lo farà, sarà questa l’occasione tangibile per chiamare in questione l’intero tentativo integrazionista. Che inizi il dibattito allora, mentre i sostenitori di ancora un altro tentativo costituzionale sub silentio si staranno per organizzare, piuttosto che aspettare fino a quando il documento non sarà emerso, pronti a piegarsi alle maggioranze parlamentari isolate dall’opinione popolare. Le singole nazioni europee, guidate da leader forti, non saranno invariabilmente i “cagnolini” degli Stati Uniti, come gli oppositori hanno maliziosamente e fantasiosamente accusato Blair dopo aver rovesciato Saddam Hussein. I leader forti dovrebbero - e probabilmente lo faranno - sostenere gli interessi dei loro paesi nei confronti di Washington, dove le questioni possono venire individuate e magari risolte. Quello che sarà evitato da questa riemersione di nazioni europee forti, tuttavia, è una presa di decisioni europea, un raro processo umano che ha appena dimostrato scegliendo la sua nuova leadership. Resta certo una possibilità: che nel lungo periodo una persona conciliante come Van Rompuy, capace di trovare il consenso tra punti di vista diversi, sia una scelta meno peggiore (in termini europei, sia ben chiaro) delle aspettative. E forse, sempre nel lungo periodo, l’amministrazione Obama capirà che i dossier che deve negoziare con l’Unione sono complessi e impossibili da trattare a livello di singoli stati membri. Ma questo accadrà solo se, i singoli stati membri, lo vorranno. E l’aria che tira va in tutt’altra direzione. 15



dossier

DALLO SCUDO SPAZIALE AI DIRITTI UMANI: LA PAROLA D’ORDINE È NON DARE FASTIDIO

MOSCA E LA POLITICA DEL “RESET BUTTON” DI •

U

MARCELLO FOA

na nuova America, una vecchia Russia, in un mondo senz’altro più sereno, ma anche molto più incerto. L’amministrazione Bush aveva tanti difetti, ma certo non le si poteva imputare di non avere le idee chiare. Anzi, chiarissime e in un certo senso coerenti. Ha portato alle estreme conseguenze la politica di ridimensionamento della Russia (e

• prima ancora dell’Unione Sovietica), applicata da tutti i presidenti Usa da Ronald Reagan in poi e volta a ottenere il controllo definitivo dello scacchiere euroasiatico. Oggi sappiamo che quella strategia non è più valida. Sottovoce a Washington si ammette che gli Usa non sono più in grado di perseguire una politica globale, come hanno fatto per tutto il dopoguerra e sono costretti a selezionare le priorità. I dossier prioritari sono tre: Afghanistan, Iran, controllo geostrategico, in funzione anticinese, del Sud est asiatico. Una svolta imputabile alla crisi economica, allo stratosferico indebitamento del governo americano e alle interminabili guerre in Iraq e in Afghanistan. Il rapporto con la Russia continua ad essere giudicato importante, ma viene affrontato con uno spirito nuovo, tipicamente obamiano, che esclude qualunque intenzione conflittuale. Sia chiaro: sebbene l’attuale presidente Usa sia stato accusato più volte, giustamente, di essere troppo arrendevole, non gli si può imputare di aver cambiato rotta nei rapporti con il Cremlino. Quando è entrato alla Casa Bianca, lo scorso gennaio, il cambiamento era già avvenuto. La crisi in Georgia nel 2008 dimostrò, drammaticamente, l’incapacità degli Usa di difendere un alleato fedele e

dunque di perseguire la politica di indebolimento della Russia. Obama si è limitato a prenderne atto, aggiungendo un convincimento personale e filosofico. Obama è il presidente della mano tesa, del dialogo ad ogni costo, è un uomo prudente di natura e votato al compromesso. Non ama gli scontri ed è, pertanto, paradossalmente, il leader più indicato per tentare una politica di apertura nei confronti del Cremlino. Da qualche mese la Casa Bianca si prodiga per rassicurare Mosca. Non ha più riaperto la questione dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, non solleva più dubbi sul rispetto dei diritti umani in Russia, né sul livello della sua democrazia. Ha gratificato Medvedev (e Putin), con una visita spettacolare e accomodante a Mosca, che è servita al Cremlino per accreditare le proprie pretese di grandezza. Ha accettato di negoziare con molta disponibilità il Trattato Start 1 sul disarmo nucleare strategico, scaduto ai primi di dicembre, e, soprattutto, ha di fatto congelato il progetto, voluto da Bush, di uno scudo spaziale in Europa, ufficialmente rivolto verso un imprecisato nemico, ma che il Cremlino interpretava, non del tutto a torto, in funzione antirussa. Obama ha ottenuto un risultato molto importante: ovvero il transito sul terri17


Risk

L’impressione è che la Casa Bianca non abbia ancora elaborato una nuova dottrina verso Mosca e che navighi a vista. L’America è consapevole di essere più debole e si accontenta di mantenere lo status quo, sperando che il mondo continui a riconoscerla come superpotenza torio russo degli approvvigionamenti militari per le truppe americane impegnate in Afghanistan, che di fatto sancisce il via libera del Cremlino alle operazioni degli alleati a Kabul. Ma al di là di questo successo, permangono non poche incognite sulla natura del rapporto tra le due potenze. La Russia continua ad essere vecchia, nel senso che non ha cambiato leadership. Il presidente Medvedev ha un ruolo di rappresentanza, ma le linee strategiche, sia di politica estera sia interna, continuano a essere determinate da Putin e, soprattutto, dal gruppo di potere che dopo Eltsin governa il Paese.

Dal 2004 Putin era ossessionato dal timore che gli Usa potessero organizzare una rivoluzione di piazza, come quella che in Ucraina permise a Yushenko di sconfiggere il candidato filorusso Yanukovich, e in Georgia a Saakashvili di cacciare l’ex ministro degli esteri sovietico Shevardnadze. Un’ossessione che lo aveva indotto a stringere i controlli sulla società civile e a organizzare movimenti di giovani ultranazionalisti e putiniani, da inviare sulle piazze in caso di necessità. Oggi la sindrome della Rivoluzione arancione è svanita: Putin e Medvedev 18

non temono più un’insurrezione ispirata dagli americani. Ma lo stile di governo è immutato, avido nella gestione delle considerevoli risorse naturali del paese, e sovietico nei rapporti con i paesi limitrofi, ovvero basato esclusivamente su relazioni di forza. Oggi Mosca esercita una grande influenza sull’Asia centrale e nella stessa Ucraina, ma anziché forgiare alleanze basate sul reciproco interesse, tende a imporre le proprie condizioni in un rapporto dall’alto al basso e con qualunque forma di pressione, a cominciare da quella etnica. In ogni paese dell’ex Unione sovietica, resistono consistenti minoranze russe che, come accaduto in Ucraina e nella stessa Georgia, possono essere attivate per destabilizzare governi non amici. Inoltre, molti di questi Paesi continuano ad essere dipendenti dalla Russia in molti settori economici e dunque potenzialmente sotto ricatto, come si è visto con Kiev. Sia chiaro: gli strateghi del Cremlino si dimostrano da qualche tempo abili e tempisti nel perseguire i propri obiettivi e lo hanno dimostrato proprio in Georgia, osando un intervento militare che un anno e mezzo fa diversi osservatori occidentali giudicarono impulsivo, ma che in realtà era stato attentamente calibrato. I russi avevano capito che Washington si sarebbe limitata a protestare e alla fine avrebbe abbozzato pur di non rischiare un conflitto più serio con la Russia, che non poteva certo permettersi. La loro analisi si dimostrò azzeccata. Ma che partner può essere la Russia nel lungo periodo? I dubbi sono consistenti. Certo, oggi il Paese è più ricco, ma le entrate generate dal petrolio e dalle materie prime vanno ad appannaggio dell’élite politica ed economica e non della società civile, che resta povera e depressa. Le carenze infrastrutturali sono colossali, l’esercito molto arretrato, la zona del Caucaso, sebbene ufficialmente normalizzata, è in realtà sempre a rischio e percorsa da forti tensioni, di cui il mondo è tenuto all’oscuro da una censura implacabile. La Russia vede diminuire rapidamente la propria popolazione, con un saldo demografico drammaticamente negativo e l’emigrazione di centinaia di migliaia di abitanti ogni anno. Gli esperti più avveduti segnalano


dossier la lenta conquista della Cina della Siberia e dei territori limitrofi. Una conquista che non è militare, ma umana: l’immigrazione è tale che intere aree si stanno «cinesizzando». Insomma, la Russia rischia nell’arco del prossimo decennio di non riuscire più a controllare il proprio territorio. E le élite russe che fanno? Ufficialmente si dicono preoccupate e più di una volta hanno varato misure e leggi ma, come tradizione, in questo Paese gli ukaze vengono regolarmente disattesi e la situazione continua a peggiorare. Dalla somma di queste considerazioni emergono consistenti dubbi sulla tenuta e sulla lungimiranza dell’attuale leadership. D’altra parte bisogna chiedersi: quali sono i nuovi obiettivi strategici dell’Amministrazione di Obama? E quanto credibile, a sua volta, questa America? Se le intenzioni del nuovo presidente sono chiare, non altrettanto sono i suoi scopi. L’impressione è che in realtà la Casa Bianca non abbia ancora elaborato una nuova dottrina, in sostituzione di quella di controllo dello scacchiere euroasiatico, e che navighi a vista. L’America è consapevole di essere più debole rispetto a qualche anno fa e - con l’eccezione di Afghanistan e Iran - si accontenta di mantenere lo status quo, nella speranza che il mondo continui a riconoscerle il rango di superpotenza. Da qui molte indecisioni nel rapporto con Mosca. Sull’Ucraina, ad esempio. Bush voleva portarla nella Nato e spingerla rapidamente nelle braccia dell’Unione europea, Obama che intenzioni ha? L’adesione di Kiev al Patto atlantico è ancora in agenda? Se la risposta è no, che cosa si propone Washington, un partneraiato o, forse, considera ormai perso il «granaio d’Europa»? E ancora. I negoziati sul Trattato Start rappresentano un successo, ma vanno collocati in un contesto più ampio o sono fini e a se stessi? Medvedev, ad esempio, ha proposto alla fine di novembre un nuovo Trattato molto ambizioso che mira a ridisegnare l’architettura della sicurezza euroatlantica.Washington come risponde? Ha elaborato una proposta alternativa? Ritiene Mosca così affidabile da superare le strutture come l’Osce o il Consiglio Russia-Nato, che hanno garantito il dialogo fino ad

oggi? Mistero. Obama non risponde e la mancanza di una visione coerente ed articolata rischia di indebolire il prestigio e la sua capacità di influenza. Anche sul dossier che più sta a cuore agli americani, quello iraniano. Dopo le ultime peripezie e gli inganni dell’Iran, certificati anche dall’Aiea, Mosca sembra essersi schierata con l’Occidente e dunque pronta a varare nuove sanzioni, come richiesto da Washington. Ma altre volte, in passato, il Cremlino ha rilasciato dichiarazioni analoghe, salvo poi ricredersi o modificare sostanzialmente il proprio atteggiamento al momento delle discussioni al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. E solo se Medvedev si schiererà in modo convinto a fianco degli Usa e dell’Europa, la Cina, che di fatto tutela l’Iran, potrà essere messa di fronte alle proprie responsabilità.

Ma finora non sembra che Washington abbia ottenuto dalla Russia le rassicurazioni desiderate. Mosca è pronta davvero ad approvare le sanzioni severe caldeggiate dagli Usa? O, invece, continuerà sulla vecchia strada, senza abbandonare l’ambiguità che ha caratterizzato fino ad oggi il suo atteggiamento verso il regime sciita? La questione iraniana rappresenta un test decisivo per capire se ci sia davvero l’intenzione di aprire una nuova era di dialogo e amicizia con gli Usa o se il Cremlino intenda approfittare di questa fase per rafforzare la propria influenza, perseguendo logiche meramente speculative, come sospettano alcuni analisti occidentali, secondo i quali le élite russe sarebbero ancora prigioniere di uno spirito complottista e dunque non si fiderebbero ancora completamente del nuovo presidente americano. Anzi, in realtà perseguirebbero un mondo autenticamente multipolare, a danno, naturalmente, della supremazia americana. Un’ipotesi che la Casa Bianca al momento sembra escludere, in un gioco di ombre e di luci, che è destinato a caratterizzare ancora per qualche tempo il rapporto tra Stati Uniti e Russia. Il tempo di capire quale sia lo spessore politico di Barack Obama e quali le vere intenzioni del duo Medvedev & Putin. 19


Risk

LE PRIORITÀ USA FRA ATLANTICO E PACIFICO E FRA GIAPPONE E CINA

L’EQUILIBRIO DEL TERRORE DI

L

CARLO JEAN

a crisi ha accelerato lo spostamento del centro di gravità dell’economia mondiale dall’Atlantico al Pacifico. Inoltre, nell’Asia Orientale, ha aumentato il “peso” regionale e globale della Cina rispetto al Giappone. Hanno contribuito a ciò la diminuzione dell’influenza degli Usa, la rilevanza assunta nella politica dall’economia, come avviene in

• tutti i periodi di recessione, ed anche la “politica della mano tesa” di Barack Obama verso la Cina. Il suo recente viaggio a Pechino è stato raffigurato come quello di un debitore insolvente che si reca dal suo banchiere. Essa ha reso più incerti e complessi i rapporti di Washington da un lato con il Giappone - alleato tradizionale degli Usa in Estremo Oriente - dall’altro, con l’India - con cui George Bush aveva stretto un partenariato strategico, determinante per i futuri equilibri asiatici e mondiali - ed infine con i paesi dell’Asean, che si sono chiesti quanto possano realmente contare sulla garanzia strategica che gli Usa hanno sempre fornito loro. Sotto questi aspetti il recente viaggio di Obama in Asia è stato un vero “buco nell’acqua”. Ha fatto danni, senza ottenere in cambio nessuna concessione da parte cinese, né sulla Corea del Nord né sull’Iran. La trasformazione geopolitica è ancora in corso. Essa è determinata più da fattori oggettivi, quali la demografia e l’economia, che da scelte politiche. Cause e, al tempo stesso effetti, sono ad esempio. Primo, l’affermazione del G-20 come principale 20

foro economico mondiale e la possibilità che estenda il suo interesse anche al campo politicostrategico, con conseguente marginalizzazione del G-8. Secondo, il mutamento in Strategic and Economic Dialogues (S&ED) degli incontri semestrali ad alto livello fra Usa e Cina, deciso da Obama e dal presidente cinese Hu Jintao a Londra, nell’aprile 2009. Ritorneremo sull’argomento perché, durante la visita di Obama in Cina, sembrano siano emerse opinioni contrastanti fra il presidente americano ed il primo ministro cinese Wen Jibao in merito al G-2 ed al significato di Chimerica, alleanza informale di Washington e Pechino. Terzo, il miglioramento dei rapporti fra Pechino con il Giappone e con Taiwan ha contribuito a migliorare le relazioni sino-americane e ad aumentare la centralità del Pacifico. Quarto, la vittoria elettorale del Partito Democratico nipponico (Jdp) ha ridotto la dipendenza psicologica di Tokio da Washington, migliorato i rapporti nippo-cinesi ed aumentato quindi l’attenzione di Washington nella regione, dato l’aumento della potenza militare di Pechino. Per ora, la superiorità americana non è in


dossier gioco, anche per le crescenti tensioni fra India e Cina. Esse hanno diverse cause: il contenzioso territoriale tuttora aperto tra i due paesi; il sostegno cinese al Pakistan; il blocco da parte di Pechino dell’accesso di New Delhi alle istituzioni politiche ed economiche che stanno rimodellando l’Asia Orientale; il fatto che la Cina non abbia veri alleati, mentre l’India continua a godere del prestigio che si era conquistata quando era la guida dei paesi non allineati. La situazione è fluida. Molti scenari sono stati ipotizzati sul futuro dell’Asia Orientale. A fattor comune essi hanno solo la constatazione che essa sarà, nel medio-lungo periodo, una regione sempre più importante per gli equilibri mondiali, anche per il relativo indebolimento americano e la fine del “mito” dell’unipolarismo, propagandato dallo stesso Obama non si sa ancora bene se per un realistico riconoscimento della realtà, oppure per scelta intesa ad accrescere il soft power e rafforzare il prestigio e la leadership americana nel mondo. A breve termine - contrariamente a quanto molti pensano - l’Asia Orientale non potrà invece né competere con la supremazia politico-strategica degli Usa, né far uscire l’economia globale dalla crisi che l’ha colpita. Sotto il primo aspetto, la competizione per la primazia politica fra il Giappone e la Cina non è scomparsa con il miglioramento dei rapporti fra i due paesi. Gli Usa hanno un sistema di alleanze, dominano gli oceani e le vie di comunicazione marittime, indispensabili alla Cina, da quando si è trasformata da continente in isola, con la sua integrazione nell’economia globalizzata. Inoltre, gli Usa dispongono di alleati e di basi che circondano la Cina. Gli stessi paesi dell’Asean, sempre più integrati economicamente alla Cina, a cui forniscono componenti e sub-sistemi, che la Cina assembla per esportarli poi in Europa ed Usa, corrono a rifugiarsi sotto l’ombrello Usa non appena si profila una pressione cinese nei loro riguardi. L’economia cinese denuncia gravi vulnerabilità, poiché è troppo export orien-

Tra Pechino e Washington esiste un legame che le obbliga alla cooperazione. Si tratta di una specie di equilibrio economico-finanziario, simile alla Mad (Mutual Assured Destruction) fra Usa ed Urss nella guerra fredda ted. Il 60% delle sue esportazioni è diretto ai mercati europeo e statunitense. Il commercio interno all’area riguarda soprattutto la componentistica. I consumi interni non possono essere aumentati rapidamente, eccetto nel settore dei lavori infrastrutturali e delle spese militari. La locomotiva della crescita mondiale può essere costituita solo dalla ripresa degli Stati Uniti e dell’Europa. Senza di essa, le economie asiatiche entreranno in una profonda crisi. Essa potrebbe essere simile a quella conosciuta dal Giappone dagli anni Novanta e che oggi sta divenendo disastrosa anche per l’apprezzamento del 30% dello yen rispetto al dollaro. Per inciso, è un motivo per il quale è irrealistico prevedere una forte rivalutazione dello yuan. L’economia cinese è stata meno colpita dalla crisi, anche per il forte stimolo dato all’economia. Ma è tuttora fragile. Forti tensioni sociali esistono nelle campagne. Mentre l’XI Piano Quinquennale - del dicembre 2006 - prevedeva di trasferire in quindici anni ben 300 milioni di persone dall’agricoltura all’industria ed ai servizi e dalle campagne alle città, il rallentamento del 20% delle esportazioni conseguente alla crisi mondiale ha costretto le autorità cinesi a far rientrare nelle aree rurali di provenienza circa 20 milioni di operai (i cd. Nong 21


Risk Mingong con doppia carta d’identità) rimasti disoccupati. Sono così aumentati i timori di rivolte del tipo di quella di Piazza Tienanmen. Tra Pechino e Washington esiste un legame che le obbliga alla cooperazione. Si tratta di una specie di “equilibrio del terrore” economico-finanziario, per molti versi simile alla Mad (Mutual Assured Destruction) fra Usa ed Urss nella guerra fredda. Una guerra commerciale distruggerebbe entrambe le economie. Peggiore sarebbe comunque la situazione della Cina. Gli Usa potrebbero svalutare il dollaro, creando così per l’economia europea una situazione ancora più insostenibile dell’attuale (lo yuan seguirebbe le sorti del dollaro, a cui è legato da un tasso di cambio praticamente fisso ed i consumatori americani continuerebbero ad avvalersi dell’effetto deflattivo dei beni di consumo cinesi). Si svaluterebbero così le enormi riserve valutarie cinesi impiegate in dollari e bond americani. Oppure, gli Usa potrebbero diminuire il loro duplice deficit interno ed internazionale con l’inflazione o con misure protezionistiche. Le economie asiatiche - eccetto quella indiana, basata più sui consumi interni che sulle esportazioni - ne soffrirebbero grandemente. Questo spiega perché, nella sua visita in Cina, il presidente Usa non si sia comportato come un debitore che si rechi dal suo banchiere per chiedere nuovi crediti. È consapevole della forza degli Usa. Sapeva anche che i cinesi sono andati sempre più d’accordo con i presidenti repubblicani - da Theodore Roosevelt, a Nixon, a Bush - che con quelli democratici, i quali hanno sempre privilegiato i rapporti con l’Europa ed anche con la Russia, rispetto a quelli con l’Asia. L’Obamamania, così dominante in Europa, non ha toccato la Cina, in cui Bush godeva di un maggiore livello di consenso. Questo spiega perché Obama abbia fatto di tutto per compiacere i cinesi. Prima della sua visita non ha voluto ricevere il Dalai Lama. Nel suo discorso a Shanghai ha accettato l’umiliazione di un’audience preconfezionata e di non essere mandato in onda dalla Tv di Stato. 22

Non ha neppure accennato alla necessità di rivalutare lo yuan rispetto al dollaro, per correggere gli squilibri commerciali sino-americani. Ha permesso, senza battere ciglio, che il primo ministro Wen gli impartisse quasi una lezione di libero mercato, criticando le misure protezionistiche Usa nei riguardi dei pneumatici cinesi. Ha accettato senza reagire il fatto che Wen criticasse il concetto stesso di G-2 e di Chimerica, affermando che avrebbe depotenziato il multilateralismo del G-20 e che il mondo, liberatosi dall’egemonia americana, non ha affatto bisogno di vederla sostituita da una sinoamericana. Di fatto, nel G-2 la Cina teme di trovarsi in posizione d’inferiorità, mentre nel G-20 può contare sulla presenza dell’Indonesia e della Corea del Sud - oltre che della Russia - che hanno grosso modo i suoi stessi interessi.

L’Asia Orientale va divisa

in due subregioni. Quella a Nord è dominata dai problemi della proliferazione nucleare della Corea del Nord, dalla divisone della penisola coreana e dal contenzioso territoriale fra la Cina ed il Giappone per le isole Senkaku, riaccesosi anche per lo sfruttamento delle risorse energetiche della loro piattaforma continentale. Quella a Sud gravita sul Mare Cinese Meridionale, vero e proprio Mediterraneo Asiatico, luogo di cooperazione, ma anche di tensioni fra la Cina ed i paesi dell’Asean. Le due subregioni sono collegate fra di loro da Taiwan. In passato, l’isola costituiva l’area più “calda” del sistema Asia-Pacifico. Una sua dichiarazione d’indipendenza o un tentativo di invasione cinese avrebbero fatto scoppiare un conflitto fra gli Usa e la Cina. Con la vittoria a Taipei del partito antisecessionista del Kuomintang le tensioni si sono attenuate. È così scomparso il principale motivo di contrasto fra Pechino e Washington, che ne ostacolava la collaborazione. Fino ad un decennio fa la regione era molto frammentata. L’unico fattore di aggregazione era costituito dagli Usa, che ne garantivano gli equilibri. A parte il Giappone e la


dossier Corea del Sud, legate a Washington da trattati formali di alleanza, le forze aeronavali ed anfibie americane svolgevano un ruolo di equilibrio anche a Sud - oltre che nello Stretto di Taiwan - intervenendo a favore degli Stati che si sentivano minacciati dall’aumento della potenza militare o da pressioni cinesi. Ciò avveniva fino a metà degli anni Novanta, prima dell’adozione da parte di Pechino della politica del peaceful rise. Da allora la situazione si è normalizzata. Gli scontri navali nel Mar Cinese Meridionale sono cessati, anche se la presenza navale cinese è aumentata. Permangono peraltro in tutta l’Asia sudorientale timori per la maggiore potenza militare e sospetti sui reali obiettivi di Pechino. Secondo taluni, la Cina perseguirebbe una politica di egemonia regionale, appoggiata anche dalla propaganda sui “valori asiatici” contrapposti a quelli occidentali del “Washington Consensus”. Essa è stata particolarmente vivace dopo la crisi economico-finanziaria asiatica del 1997-8 e gli interventi brutali effettuati dal Fmi, ispirati alla sua filosofia di fondo, che esista cioè un legame strutturale fra la crescita economica e quella della democrazia. Gli interventi del Fmi sono stati invece percepiti dai paesi dell’area - che hanno saputo collegare autoritarismo politico e sviluppo economico - come una specie di “rivoluzione colorata”, finalizzata al mutamento dei loro regimi politici. Si è così diffusa la convinzione che esista un “modello asiatico”, del tutto indipendente e competitivo con il “capitalismo liberale”, che Francis Fukuyama ha ritenuto l’unico esistente, nel saggio La fine della storia. Ciò ha portato ad una convergenza fra i paesi dell’Asia Orientale, che ha permesso la costituzione del gruppo “Asean più tre” (Cina, Giappone e Corea del Sud). Esso richiama per molti versi la “zona di co-prosperità asiatica”, obiettivo del Giappone prima del secondo conflitto mondiale. In tale contesto vanno collocati anche gli accordi fra Pechino, Tokio e Seul, per la creazione di un Fondo Monetario asiatico e l’adozione

di “diritti speciali di prelievo” (swap), che dovrebbero sostituire progressivamente il dollaro come moneta di riserva e di scambio prima regionale, poi mondiale. Gli East Asia Summit dell’Asean Plus Three sono stati considerati dagli Usa con notevole perplessità. Studiosi come Fred Bergsten hanno ipotizzato che il loro scopo sia quello di rompere l’unità dell’Apec (Asia-Pacific Economic Cooperation), strumento principale degli Usa per garantire la loro presenza e leadership sul Pacifico Occidentale e l’Asia Orientale. La crisi economica mondiale ha rafforzato le istituzioni dell’Asia Orientale, specie l’“Iniziativa di Chiang Mai” (che consiste nella parziale messa in comune delle riserve di cambio), decisa dopo la crisi finanziaria del 1997-8. Essa potrebbe portare, oltre alla creazione del fondo monetario asiatico - prima ricordato - a quella di un mercato obbligazionario regionale, che metterebbe il risparmio dell’Asia orientale al servizio della sua economia. Si tratta di un progetto simile a quello degli Eurobonds.

Gli Usa sono stati sempre consapevoli che la loro egemonia mondiale - espressa dalla teoria dell’unipolarismo - fosse un mito. Hanno sempre teso ad esercitare una leadership, ad essere, come afferma Richard Haass, uno “sceriffo riluttante”, non un “gendarme” del mondo. Come “sceriffo”, devono essere capaci di avvalersi a livello regionale di alleati in grado di diminuire i costi non solo economici e militari, ma anche politici dei loro interventi. Inoltre, superato il periodo - predominante negli anni Ottanta del Bashing Japan durante il quale diffuso era il timore che il regno del Sol Levante insidiasse la supremazia mondiale degli Usa, superandone il Pil, le preoccupazioni americane si sono concentrate sulla Cina, ritenuta un potenziale peer competitor degli Usa. Nella storia dei rapporti fra la Cina e gli Usa si sono alternati periodi di amicizia e di collaborazione con altri di tensione e di contrasto. Nel primo caso, Washington si opponeva a Tokio e sosteneva la 23


Risk

L’Asia Orientale va divisa in due sub-regioni. Quella a Nord è dominata dai problemi della proliferazione nucleare della Corea del Nord e dal contenzioso territoriale fra la Cina ed il Giappone per le isole Senkaku. Quella a Sud gravita sul Mare Cinese Meridionale, vero e proprio Mediterraneo Asiatico Cina, come avvenne nella Seconda Guerra Mondiale. Nell’altro, si alleava con il Giappone. Dalla rivoluzione Meji in poi si sono amplificati i contrasti fra la Cina ed il Giappone. Essi sono aumentati per i successi economici del Giappone e per la competizione fra Tokio e Pechino per il predominio sull’Asia Orientale. Gli Usa dovevano quindi scegliere, dato che non si può essere alleati con due paesi contrapposti fra di loro. Solo nel periodo della guerra fredda, l’esistenza dell’Urss consentì di ignorare la loro contrapposizione. Dopo il viaggio di Nixon e Kissinger a Pechino, nel 1972, la Cina era divenuta di fatto un alleato degli Usa. Svolse un ruolo geopolitico attivo e contribuì molto più del Giappone alla fine del confronto bipolare. Ma quest’ultimo rimaneva l’alleato sicuro di Washington nell’area. Dopo la fine della guerra fredda, si affermarono nel Dipartimento di Stato due dottrine contrapposte, che presero il nome dai Sottosegretari Armitage e Zoellick. La prima sostiene che il Giappone debba essere l’alleato privilegiato degli Usa in Asia Orientale e che la Cina vada contenuta su una linea 24

che si estenda fino all’Oceano Indiano. La seconda sostiene che la Cina debba essere trasformata in uno stakeholder responsabile del nuovo ordine mondiale. Secondo tale visione la fine dell’unipolarismo americano non genererà un sistema multipolare - fondato più sulla balance of power, che su istituzioni multilaterali - ma un sistema a-polare e caotico, contrario agli interessi sia americani sia cinesi di rilanciare la globalizzazione. Un accordo organico fra i due Paesi è divenuto peraltro possibile. Nella concezione di Zoellick esso consoliderebbe la supremazia degli Usa, consentendo di estendere la pax americana a tutto il XXI secolo. Uno stretto legame con Washington eviterebbe un duplice pericolo. Da un lato, quello che il regime cinese - la cui legittimità dipende dalla crescita economica - diventi aggressivo e nazionalista, cercando di ripristinare l’area d’influenza del “Celeste Impero” ed imporre una pax sinica sull’Asia Orientale; dall’altro, che la Shanghai Cooperation Organization, co-presieduta da Cina e Russia, si trasformi in un’alleanza antiamericana coprente gran parte dell’Eurasia. Come avveniva anche ai tempi di Bush, nella visita di Obama tali due soluzioni sono convissute, adattandosi pragmaticamente al contesto dei dialoghi tenuti e degli argomenti trattati. Questo ha fatto sì che i risultati della visita siano stati criticati in Usa sia da “destra” che da “sinistra”. Dalla prima, per non aver ottenuto un consolidamento del G-2. Dalla seconda per aver evitato di condannare le violazioni dei diritti umani in Cina ed il dumping sociale che rende tanto competitive le esportazioni cinesi. Certamente Obama non si proponeva grandi obiettivi. Legami troppo stretti con la Cina avrebbero potuto provocare reazioni sia in Giappone che in India. Forse si proponeva solo di attenuare l’opposizione cinese a nuove sanzioni contro l’Iran, nonché di rilanciare il “negoziato a sei” sul nucleare nord-coreano. Ma purtroppo, anche in questi settori, i risultati sono stati molto inferiori alle aspettative del presidente americano.


dossier

DA KABUL AL CLIMA: COSA OFFRE NUOVA DELHI E COSA È DISPOSTA A DARE LA CASA BIANCA

LA CHANCE INDIANA DI

M

NEENA SHENAI

anmohan Singh, il primo ministro indiano, è stato il primo leader straniero in visita di stato ufficiale alla Casa Bianca. Tra la pompa magna dei ricevimenti e le varie tappe della sua visita, i due leader hanno discusso del presente e del futuro della partnership strategica tra Stati Uniti ed India. Benché il presidente Obama si fosse già

• espresso chiaramente sull’importanza dei legami bilaterali con l’India, le priorità della sua Amministrazione restano quantomeno incerte. L’agenda estera di Obama è dominata dai conflitti in Iraq e Afghanistan e dalla lotta contro i cambiamenti climatici. Le ultime due questioni (Afghanistan e clima) rivestono anche per l’India una significativa importanza e si dimostrano un potenziale fertile terreno di cooperazione bilaterale. Tuttavia gli Stati Uniti e l’India si sono spesso trovati in disaccordo, e ancor oggi, dopo il vertice, persistono sostanziali differenze. La sfida di Obama consiste nell’assicurare che gli Stati Uniti operino a stretto contatto con l’India sui temi di interesse reciproco affinché le relazioni bilaterali si traducano in una solida e durevole partnership strategica. Senza tale sforzo, ogni buon proposito si trasformerebbe in un buco nell’acqua. Cominciamo dall’Afghanistan. L’India condivide il desiderio statunitense di un Afghanistan stabile e sicuro. Sebbene Nuova Delhi non sia coinvolta militarmente nella regione (per via delle rimostranze del Pakistan), le attuali e future attività indiane di ricostruzione in

Afghanistan rappresentano un elemento di fondamentale importanza per gli sforzi statunitensi. Infatti, una più stretta collaborazione con un’India democratica ed amica degli Stati Uniti - fiorente attore regionale e sempre più una potenza a livello globale - appare vitale al fine di assicurare la stabilità e l’equilibrio di potere nella regione. L’India ha già investito più di 1,3 miliardi di dollari nella cooperazione allo sviluppo di infrastrutture e di progetti civili in Afghanistan. Il governo indiano gode altresì di legami di lunga data con l’Afghanistan che rimontano a ben prima dell’ascesa dei talebani, coltiva strette relazioni con il presidente afghano Hamid Karzai e potrebbe fornire la necessaria assistenza per estirpare la corruzione e contenere l’estremismo islamico di matrice violenta. Mentre il Pakistan denota preoccupazione riguardo alle intenzioni indiane in Afghanistan, l’India non sembra avere interesse alcuno alla prospettiva di un Pakistan destabilizzato e, al contrario, cerca di contenere i talebani ed altri elementi terroristi e prevenire le loro incursioni nel Kashmir. Sostenendo gli sforzi del governo Karzai finalizzati ad isolare gli 25


Risk

Obama appare incline a riconoscere l’egemonia cinese in Asia del sud, una prospettiva a cui Nuova Delhi si oppone vibratamente. Ma il presidente dovrebbe astenersi dall’alterare alle fondamenta e così bruscamente la politica estera statunitense elementi estremisti in Afghanistan, le attività di investimento indiane di concerto con l’opera di controinsurrezione statunitense potrebbero evitare una potenziale re-talebanizzazione dell’Afghanistan, una sua trasformazione in sicuro nascondiglio per i terroristi ed un effetto di spillover del conflitto su ampia scala nella regione di confine con il Pakistan e nel Kashmir. Ecco perché gli Stati Uniti dovrebbero cercare di dissipare i timori pakistani e sostenere maggiormente a livello pubblico gli sforzi esperiti dall’India per la ricostruzione in Afghanistan. Dopo tutto, l’India si considera come detentrice - sono parole di Singh - «di quote vitali per assicurare pace, progresso e stabilità nella regione». Inoltre, l’impegno indiano in Afghanistan potrebbe servire a sostenere il suo spazio strategico in Asia e a controbilanciare la crescente influenza cinese nella regione. Sebbene non coinvolta militarmente, la Cina è attiva in Afghanistan quantomeno dal 2007, anno in cui siglò un contratto da 3,5 miliardi di dollari con il governo afghano per l’estrazione di rame presso Aynak, poco a sud di Kabul. Le attività cinesi in Afghanistan appaiono coerenti con la politica di Pechino volta al reperimento di risorse dall’estero al fine di sopperire alla propria crescente domanda 26

interna. In ogni caso, come è stato recentemente evidenziato dal settimanale The Economist i talebani hanno sondato le possibilità di ricevere sostegno dalla Shanghai Cooperation Organization (Sco), un’organizzazione di mutua sicurezza cinese che comprende la Federazione Russa ed altri ex stati sovietici dell’Asia centrale, contro le forze statunitensi in Afghanistan. Rapporti di tale natura rafforzano i timori delle diplomazie tanto statunitense quanto indiana circa le mire cinesi nella regione. Le attività di Pechino in Afghanistan non fanno altro che accentuare la necessità da parte indiana di asserire la propria presenza nel paese ed assistere gli Stati Uniti nei loro sforzi. Le relazioni sino-indiane sono scandite da una rivalità strategica. Nonostante la Cina sia il maggior partner commerciale dell’India, Pechino e Nuova Delhi continuano a sfiancarsi in dispute originatesi nel 1962 sulla linea di confine tra i due paesi. In aggiunta, l’India continua a nutrire sospetti sul sostegno cinese al Pakistan e sul suo accerchiamento economico e militare sia di nazioni limitrofe che delle rotte marittime, in conformità con la cosiddetta strategia del “Filo di Perle”.

La dottrina cinese

dell’amministrazione Obama sembra ignorare gli importanti contributi dell’India in Afghanistan e lascia aperto il dilemma riguardo a come gli Stati Uniti interpretino il ruolo dell’India in Asia. La dichiarazione congiunta Stati Uniti-Cina, rilasciata in seguito all’incontro tra il presidente Obama e il presidente Hu Jintao del mese scorso, sembra relegare gli interessi dell’India in Asia meridionale in posizione subordinata a quelli cinesi: «Le due parti salutano positivamente tutti gli sforzi miranti al conseguimento della pace, della stabilità e dello sviluppo in Asia meridionale. Essi sostengono gli sforzi dell’Afghanistan e del Pakistan nella lotta al terrorismo, per il mantenimento della stabilità interna e per il raggiungimento di uno sviluppo economico e sociale sostenibile, e sostengono il miglioramento e la crescita nelle


dossier relazioni tra India e Pakistan. Le due parti si dichiarano pronte a rafforzare le comunicazioni, il dialogo e la cooperazione su temi relativi all’Asia meridionale e ad operare congiuntamente al fine di promuovere la pace, la stabilità e lo sviluppo di questa regione». Con tali parole, Obama appare incline a riconoscere l’egemonia cinese in Asia del sud. Obama sembra voler concedere alla Cina un ruolo privilegiato nei rapporti indo-pakistani - una prospettiva a cui Nuova Delhi si oppone vibratamente e dare vita a un apparente dietro front nella politica statunitense. Le potenziali conseguenze di tale dichiarazione congiunta non dovrebbero essere ignorate. Essa segnala infatti un possibile cambiamento nei rapporti indo-statunitensi e potrebbe in ultima analisi comportare un ritiro degli Stati Uniti dal quadro di sicurezza asiatico. Se tale dichiarazione congiunta intende effettivamente ciò che molti pensano, essa non rappresenta di certo il modo migliore di srotolare il tappeto rosso ai piedi del Primo ministro Singh. Per il bene delle relazioni tra Stati Uniti ed India, egli dovrebbe pretendere chiarimenti sul significato della suddetta dichiarazione congiunta sino-statunitense. Inoltre, l’amministrazione Obama deve considerare con attenzione gli effetti dannosi che tale virata comporterebbe per gli sforzi statunitensi in Afghanistan e per le proprie relazioni con l’India. L’architettura dell’Asia si ritrova ad una giuntura cruciale: e Obama dovrebbe astenersi dall’alterare alle fondamenta e così bruscamente la politica estera statunitense e, a sua volta, dall’indebolire gli interessi strategici degli Stati Uniti nel continente.

C’è poi un altro fronte altrettanto caldo: il cambiamento climatico e le politiche energetiche. Gli Stati Uniti e l’India sono investiti di un ruolo cruciale e detengono reciproci interessi relativamente alle politiche atte a contenere il cambiamento climatico globale in quanto paesi rispettivamente al secondo e quarto posto tra i maggiori produttori mondiali di gas serra. Senza un impegno da parte di

entrambi gli stati, Copenaghen non aveva nemmeno la chance del debole accordo siglato. Nonostante presentino livelli di sviluppo enormemente diversi, entrambi i paesi denotano un atteggiamento ambiguo su come affrontare qualsiasi eventuale compromesso economico e politico associato ai tagli delle emissioni. Uno sguardo più attento allo stato dell’arte delle discussioni sul cambiamento climatico negli Stati Uniti ed in India si rivela illuminante: negli Usa, quantunque Obama abbia dichiarato pubblicamente che la lotta al cambiamento climatico sia una delle sue priorità, egli si è dimostrato incapace di assicurarsi il consenso dell’opinione pubblica. Nel giugno scorso, la Camera dei Rappresentanti ha approvato un disegno di legge atto a limitare le emissioni (il cosiddetto Cap and Trade), il quale langue però al Senato. È altamente improbabile che gli Stati Uniti addivengano ad un accordo multilaterale che non sancisca obblighi ambientali anche per i paesi in via di sviluppo, visto che questa era stata una della maggiori obiezioni alla ratifica del Protocollo di Kyoto. Il Cap and Trade varato dal Congresso ed il disegno di legge Kerry-Boxer al Senato individuano in termini precisi la questione e prevedono l’imposizione di tariffe doganali sui beni importati da paesi, quali India e Cina, con politiche atte a scongiurare un peggioramento climatico. L’India, nel frattempo, ha già riaffermato con forza la propria posizione. Il primo ministro Singh ha commentato circa la necessità di una politica globale sull’ambiente, chiarendo come siano i paesi sviluppati a dover farsi carico delle loro precedenti emissioni e che i paesi in via di sviluppo non dovrebbero essere costretti ad accettare tagli alle emissioni a spese della propria crescita economica e del proprio sviluppo. Inoltre, l’India ha attivamente sviluppato coalizioni con altri paesi in via di sviluppo al fine di assemblare un fronte unitario da opporre ai paesi sviluppati. L’aspetto che forse colpisce maggiormente è la firma da parte indiana di un memorandum d’intesa sulle politiche per il cambiamento climatico con la Cina. 27


Risk

Il parlamento indiano deve ancora approvare una legislazione che garantisca una protezione sulle responsabilità civili per le compagnie energetiche statunitensi, ma si spera che Washington e Nuova Dehli siglino un accordo entro il 2010 Le posizioni statunitense e indiana relative al climate change appaiono inconciliabili. In ogni caso, la cooperazione bilaterale sulle fonti di energia pulita potrebbe costituire un fondamentale passo in avanti per rimodellare tale questione. Meno del 50% delle abitazioni rurali indiane dispone di elettricità, e il fabbisogno energetico del paese è certamente destinato ad aumentare. Sebbene le discussioni riguardo al Civil Nuclear Agreement indostatunitense, siglato l’anno scorso, non si incentrasse esclusivamente sui benefici a livello ambientale dell’energia nucleare, il suo contributo all’accaparramento da parte dell’India di tecnologie a basse emissioni non dovrebbe essere sottovalutato. Nondimeno, l’accordo non ha ancora trovato applicazione. Il parlamento indiano deve ancora approvare una legislazione che garantisca una protezione sulle responsabilità civili per le compagnie energetiche statunitensi; permane il disaccordo sull’interpretazione di taluni regolamenti statunitensi; ed un accordo bilaterale sulla rilavorazione del combustibile nucleare utilizzato permane ancora in fase negoziale. Al di là del Civil Nuclear Agreement, si auspica che il Primo ministro indiano e il presidente Obama riescano a pervenire entro il 2010 ad un accordo sulle energie pulite e 28

sul cambiamento climatico e possano altresì annunciare la creazione di un centro di ricerca congiunto sulle energie alternative.

Sembra inoltre che siano

state intavolate discussioni su attività congiunte relativamente alle energie rinnovabili quali l’eolico ed il solare. Tali iniziative devono essere salutate positivamente e dovrebbero continuare ad essere perseguite da entrambi i paesi negli anni a venire. Una maggiore condivisione di tecnologia, missioni commerciali ed altre iniziative nel settore privato corroborano l’impegno di assistenza all’India affinché questa diventi “più verde” a prescindere dalle politiche finalizzate a contenere il cambiamento climatico. Di conseguenza, i negoziati sul cambiamento climatico non si sono tramutarsi in un conflitto tra Stati Uniti e India sullo scenario internazionale, la qual cosa ricalca i negoziati per le liberalizzazioni commerciali intavolati a Doha sotto l’egida del Wto. Stati Uniti e India devono cercare di evitare qualsiasi rottura nelle proprie relazioni bilaterali relativamente a tale questione. La partnership strategica indo-statunitense racchiude in sé tutte le premesse per diventare un’alleanza di grande valore per la politica estera degli Stati Uniti se vista per ciò che effettivamente è: e cioè una partnership strategica. L’amministrazione Obama deve valutare più attentamente il fatto che entrambi i paesi condividano un ruolo importante nella positiva risoluzione del conflitto in Afghanistan e negli sforzi globali sulle politiche atte a contenere il cambiamento climatico. E vi sono pochi dubbi sul fatto che le questioni sulle quali collimano gli interessi delle rispettive diplomazie aumenteranno nel corso del tempo, a patto che i rapporti evolvano in termini positivi. Il presidente Obama ha di fronte a sé un’eccezionale opportunità di modellare il futuro delle relazioni indo-statunitensi e realizzare le promesse fatte. Viceversa, lo scacchiere internazionale potrebbe diventare sempre meno chiaro e sicuro per l’intero Occidente.


dossier

È L’UOMO PIÙ PERICOLOSO DEL CONTINENTE, MA OBAMA SEMBRA SOTTOVALUTARLO

NON C’È L’AMERICA LATINA, SOLO CHÁVEZ DI •

L

ROGER F. NORIEGA

a drammatica prova di forza tra i paesi occidentali e l’Iran dopo le rivelazioni su uno stabilimento nucleare clandestino gestito dal regime iraniano radicale crea deboli speranze che gli Stati Uniti possano essere pronti a fare i duri con altri stati canaglia che minacciassero la sicurezza statunitense. Un esempio è rappresentato dal Venezuela di Hugo Chávez. Il

mese scorso alcune fonti hanno rivelato una cospirazione Caracas-Teheran per ricavare uranio in Venezuela, mettendo in moto una serie di impacciate storie di copertura e negazioni poco convincenti, che tendono a confermare le peggiori paure sulle intenzioni di Chávez. Il caso dell’uranio è solo la punta di un iceberg e l’intelligence e la comunità della difesa statunitensi sapevano di queste preoccupanti operazioni da anni. Il ruolo di sostegno del Venezuela al programma nucleare dell’Iran potrebbe infine costringere gli Stati Uniti e altri paesi ad affrontare la seria e crescente minaccia del regime di Chávez, e non sarebbe troppo presto. Nello scorso decennio, Chávez ha fornito sostegno economico, materiale e politico a un network mondiale di regimi antiamericani e organizzazioni criminali, dall’ Iran ai narcoterroristi in Colombia. Fornendo all’Iran uranio e benzina, contanti e armi ai guerriglieri, sostegno logistico e riciclaggio di soldi ai trafficanti di droga dalle Ande all’Africa e sostegno dei servizi segreti agli alleati radicali in tutto il mondo, Chávez sta intraprendendo una guerra asimmetrica usando il jolly della cocaina, della criminalità e del nucleare. I vene-

zuelani sono stati i primi a sottovalutare Chávez; ignorarono il violento colpo di stato che guidò nel 1992 e la sua retorica rivoluzionaria divisiva. Allora, gli osservatori internazionali dubitarono della sua possibilità di perseguire le sue ambizioni mondiali. Tuttavia, Chávez ha dimostrato di essere un autocrate, determinato, intelligente e crudele che ha manipolato il sentimento antiamericano per sfuggire a qualsiasi esame accurato per i suoi evidenti programmi distruttivi. Da quando nel 1998 è salito al potere con mezzi democratici, Chávez ha mantenuto l’offensiva diplomatica e ha tenuto i politici statunitensi distratti o passivi fuori equilibrio mentre costruiva alleanze con regimi di pari orientamento nelle Americhe e nel mondo. Sebbene il presidente Bush avesse riconosciuto personalmente la minaccia, la sua amministrazione non fu in grado (e negli ultimi mesi, non fu disponibile) di organizzare una risposta efficace tra i partner nella regione che erano restii a provocare il loro irascibile e ricco vicino e ad essere visti come esecutori degli ordini di Bush. In verità alcuni paesi latini prominenti hanno spianato la strada a Chávez sollecitando Washington affinché ignorasse le sue 29


Risk pagliacciate, affermando che esercitavano un certo dominio sul suo comportamento. Quelli che una volta furono potenti vicini sono stati colti con le mani nel sacco dato che l’uomo che un tempo allontanarono come grezzo smargiasso ha una influenza sproporzionata in Sudamerica. Per esempio, Chávez è riuscito a dirottare la diplomazia della regione; ha

Mentre il supporto del Venezuela all’Iran è preoccupante, nessuno dovrebbe sminuire la possibilità che Chávez abbia i mezzi e la motivazione per sviluppare un proprio programma nucleare che possa minacciare i suoi vicini prossimi e gli Stati Uniti soppresso i funzionari incapaci che hanno diretto la Organization of American States fino a ignorare le misure antidemocratiche del suo club di caudillos in Bolivia, Ecuador, Nicaragua e Honduras. Con la tolleranza degli Stati Uniti, ha mobilitato la regione per difendere il diritto della sua marionetta Honduregna Manuel Zelaya di manomettere la costituzione di quella nazione e permettere a Zelaya di ottenere il potere. I risultati di questa scellerata tolleranza sono oggi sotto i nostri occhi dopo il colpo di stato di Roberto Micheletti.

Inoltre, alcuni capi di stato latinoamericani e africani sono stati semplici puntelli in un conclave di fine settembre sull’Isola Margarita del Venezuela mentre Chávez e il suo amicone Gheddafi annunciavano i programmi per costruire legami più forti tra 30

Africa e America Latina. Oggi il governo statunitense e altri nella regione sembrano meno capaci o disponibili che mai a confrontarsi con Chávez, che salta sulle linee rosse coinvolgendo il crimine internazionale e il terrorismo, i radicali mediorientali e il genio del nucleare. Più a lungo aspettano, più profonda sarà la fossa della tigre che Chávez e i suoi alleati stanno scavando. Le ricchezze petrolifere del Venezuela hanno aiutato il paese a costruire legami col Medio Oriente molto prima che Chávez prendesse il potere. Ma non appena assunse la guida del paese, Chávez usò il coinvolgimento del Venezuela nell’Organizzazione dei paesi esportatori di petrolio per alimentare i suoi programmi antiamericani, raccomandando l’aumento del prezzo del petrolio e coltivando strette collaborazioni con radicali pericolosi come Saddam Hussein, Gheddafi e Mahmoud Ahmadinejad. Negli ultimi anni, ha trasformato il Venezuela in una piattaforma per le operazioni iraniane e la diplomazia dell’emisfero occidentale. Chávez ha impegnato lo stato venezuelano ad aiutare l’Iran a sviluppare tecnologie nucleari, a ottenere l’uranio, a evadere le sanzioni dell’Onu, a contrabbandare armi e munizioni, a realizzare una miriade di altri accordi nebulosi sotto il naso degli Stati Uniti. Nel settembre 2005, Chávez segnalò le sue simpatie quando il Venezuela era l’unico membro del Comitato dei Governatori dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica (Aiea) ad aver votato contro le sanzioni all’Iran per il suo programma illegale di arricchimento dell’uranio. Il mese successivo, Chávez dichiarò la sua intenzione di sviluppare tecnologia nucleare. Molti videro questo incoerente schema come una mossa per provocare una reazione esagerata da Washington, che invece mostrò moderazione. Negli anni a venire, Chávez ha dichiarato che il Venezuela è un “alleato strategico” dell’Iran. Ora sappiamo che i due stati canaglia cooperano da anni sulla tecnologia nucleare. Il 13 novembre 2008 nel corso di una cinque giorni di intense consultazioni a Caracas, i governi venezuelano e iraniano hanno ulteriormente


dossier formalizzato la loro collaborazione in un protocollo di intesa per “cooperare nel campo della tecnologia nucleare”. Jesse Chacón, un chavista noto per la sua spietatezza e non per il suo intelletto, venne eletto ministro delle scienze e della tecnologia per gestire questo compito politicamente delicato. Il Venezuela adesso sta fornendo materiale grezzo determinante per il programma nucleare rinnegato dell’Iran. Resoconti e conferme in questo senso hanno cominciato a comparire sui media a marzo 2006. Chávez li denunciò personalmente come “bugie” e parte di un “piano imperialista”. Al limite dell’ignoranza o peggio, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti ha supportato le smentite di Chávez con una sua propria confusione, dichiarando “siamo a conoscenza di rapporti su un eventuale sfruttamento da parte dell’Iran dell’uranio venezuelano, ma non vediamo alcuna attività commerciale di uranio in Venezuela”. Ma ecco i fatti: nell’ambito di un’inchiesta sui minerali in Guyana di quest’anno, la U308 Corp, una società canadese per l’esplorazione dell’uranio, ha registrato una considerevole fonte di uranio nel bacino Roraima che si estende sui confini tra la Guyana e Bolívar. Si dice che la zona sia paragonabile per area, età, e composizione ai più grandi giacimenti di uranio al mondo che si trovano nel Bacino Athabasca, nella parte settentrionale della provincia canadese di Saskatchewan. Le società iraniane e altre di matrice mediorientale ora gestiscono miniere, “un’industria di trattori”, una fabbrica di cemento vicino Bolivar; almeno due di questi stabilimenti hanno i propri porti sul fiume navigabile Orinoco attraverso i quali l’uranio o altra merce di contrabbando può essere trasportata verso l’Atlantico. Verso la fine di ottobre, proprio mentre si stava costringendo l’Iran ad ammettere l’esistenza dello stabilimento di Qom per il carburante nucleare, alcuni rapporti affidabili hanno portato nuovamente alla luce che il Venezuela stava rifornendo l’Iran di uranio. Col tentativo di minimizzare queste ultime rivelazioni sulle estrazioni di uranio dell’Iran, un altro seguace chavista, il ministro delle miniere Rodolfo Sanz, ha spie-

gato che l’Iran stava semplicemente conducendo un’indagine sulle ricchezze minerarie del Venezuela. Dopo alcuni giorni, tuttavia, Chacón ha rilasciato una smentita frenetica delle spiegazioni di Sanz. Il 25 settembre, Chacón ha rilasciato una terza storia di copertura, secondo la quale le esplorazioni di uranio erano condotte con il sostegno della Russia, ma i funzionari russi hanno distrutto questo alibi sostenendo di essere ancora “ben lontani” dall’intraprendere esplorazioni di questo tipo. Le smentite grottesche del regime di Chávez hanno solo confermato i fondamentali rapporti secondo cui il Venezuela sta rifornendo di uranio l’Iran, rendendo il paese complice in queste attività pericolose e illegali.

Inoltre, Chávez continua un massiccio potenziamento militare, rifornendosi principalmente in Russia. Mentre il supporto del Venezuela all’Iran è preoccupante, nessuno dovrebbe sminuire la possibilità che Chávez abbia i mezzi e la motivazione per sviluppare un proprio programma nucleare che possa minacciare i suoi vicini prossimi e gli Stati Uniti. «Gli accordi segreti tra Chávez e Ahmadinejad costituiscono una vera e propria joint-venture per produrre armi nucleari per gli arsenali di entrambe i paesi», postula il rispettato osservatore Carlos Alberto Montaner. «Questo spiegherebbe i continui viaggi di Hugo Chávez. L’obiettivo venezuelano non è vendere l’uranio ma di diventare potenza nucleare». Oltre agli investimenti in operazioni industriali, l’Iran ha creato diverse istituzioni finanziarie che possono essere usate per canalizzare il denaro da e verso il regime, con lo scopo di aggirare le sanzioni dell’Onu. L’Iran ha stabilito un “fondo binazionale di investimento e sviluppo” in Venezuela, a Caracas ha aperto filiali della Saderat Bank, un’istituzione commerciale iraniana, e ha incorporato una “Banca Internazionale di Sviluppo” che è completamente di proprietà della Saderat. Il noto procuratore distrettuale di Manatthan, Robert Morgenthau, ha denunciato questi legami finanziari l’8 settembre 2009, in un discorso a Washington. «Un appiglio nel sistema bancario 31


Risk venezuelano è un metodo perfetto per far fallire le sanzioni» ha dichiarato, spiegando che l’Iran potrebbe usare le sue relazioni con le istituzioni venezuelane per riciclare fondi attraverso ignare banche statunitensi. Oltre ad aiutare l’Iran nella resistenza alle sanzioni dell’Onu, la decisione di Chávez di vendere ai regimi più criticati fiumi di carburante, annunciata nel corso della sua visita del 6 e 7 settembre, smorzerà l’impatto di una misura che si considera possa aumentare la pressione sull’Iran. L’Iran dipende dalle importazioni per il 40 per cento del suo fabbisogno di carburante; accettando di fornirlo, il Venezuela ha lanciato un’ancora di sicurezza al regime di Ahmadinejad. Il Venezuela funge come trampolino per l’Iran verso le Americhe, evadendo quindi i tentativi di applicazione delle sanzioni statunitensi. Ad esempio un Boeing 747 della IranAir e un Airbus 340 della società venezuelana Con Viasa compiono viaggi settimanali da Caracas a Tehran, con scalo a Damasco. Inoltre, appena un mese dopo che il Dipartimento del Tesoro Statunitense per il Controllo dei Beni Esteri aveva individuato la Irisl, Islamic Republic of Iran Shipping Lines come un soggetto “nazionale a designazione speciale” per i controlli finanziari e le sanzioni, la Irisl ha annunciato la istituzione di una rotta diretta per il trasporto di container verso il Venezuela.

La malfamata “industria di trattori”, VenIran, è uno dei clienti della Irisl. Contribuire a spalleggiare il traffico di droga è un modo ingegnoso di pagare il network di clienti corrotti di Chávez e di attaccare i nemici che hanno osato sfidarlo – compresi i governi di Stati Uniti, Colombia e Messico. Il Venezuela si trova a cavallo delle rotte di transito tra la regione di produzione di cocaina (principalmente Bolivia e Colombia) e i mercati del Nord America e dell’Europa. Alla luce dei legami di lunga data con i gruppi narco-guerriglieri che intraprendono una guerra sanguinosa contro la Colombia (in special modo le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, o Farc), non sorprende che Chávez abbia 32

fornito loro un porto sicuro e sostegno politico da quando è al potere. Membri di alto profilo delle Farc hanno operato con impunità virtuale nel territorio venezuelano – anche sotto protezione statale – per molti anni. L’uso che i guerriglieri e i narcotrafficanti fanno del territorio venezuelano lungo le sue 3.500 chilometri di confine con la Colombia era stato considerato episodico. Proprio come il movimento di guerriglia colombiano, esistente da quarantadue anni, trasformato da movimento armato politico in narcocartello alla fine degli anni Novanta, l’alleanza del Venezuela con i guerriglieri è evoluta in complicità chiara e determinante nel traffico di stupefacenti e nel riciclaggio di fondi illeciti attraverso le istituzioni finanziarie venezuelane e le imprese governative. Secondo un documento del Gao che citava un documento dell’Ufficio della Politica Nazionale di Controllo della Droga, i flussi di cocaina attraverso il Venezuela sono quadruplicati tra il 2004 e il 2007. Non è una coincidenza che nel luglio 2005 il governo di Chávez abbia posto fine alle operazioni Drug Enforcement Administration e abbia rotto la cooperazione antidroga. A cominciare dalla fine del 2007, ha cominciato a negare i visti per gli Stati Uniti al personale antidroga. Mentre la Colombia ha preso il sopravvento nel conflitto con i guerriglieri negli ultimi cinque o sei anni, le operazioni di narcotraffico delle Farc sono state sgominate, così come lo è stata la complicità del Venezuela in queste attività criminali. Secondo un rapporto Gao del 2009: «alcuni ufficiali statunitensi dichiarano che funzionari del governo venezuelano hanno fornito sostegno materiale, in primo luogo alle Farc, che hanno contribuito a sostenere l’insurrezione colombiana e a minacciare i risultati ottenuti in sicurezza nella Colombia». Gli ufficiali statunitensi riportano che il governo venezuelano potrebbe aver fornito alle Farc almeno 300 milioni di dollari e armi. A luglio le autorità colombiane hanno rivelato che avevano catturato un deposito di armi contenente potenti missili anticarro di fattura svedese che, secondo i numeri seriali, furono originariamente venduti alla milizia venezuelana; il regime di


dossier Chávez ha smentito di aver fornito le armi ai guerriglieri. Il primo marzo 2008, le forze colombiane hanno catturato la “pistola fumante” sotto forma di file informatici delle Farc che documentano lo stretto ruolo svolto da molti funzionari venezuelani nelle attività di contrabbando delle Farc. (Questi file documentano anche un’alleanza virtuale tra i guerriglieri comunisti e Chávez che stava mirando alla sua presidenza.) Il ministero del Tesoro usò quelle informazioni per individuare narcodirigenti tra funzionari venezuelano, come gli ufficiali dell’ intelligence Hugo Armando Carvajal e Henry de Jesus Rangel Silva, e l’ex ministro degli interni e della giustizia Ramon Emilio Rodriguez Chacín, tra i collaboratori più fidati e operativi di Chávez. È interessante che Chávez stia promuovendo legami fra l’America Latina e l’Africa mentre il suo regime sta svolgendo un ruolo sempre maggiore nel narcotraffico, in particolar modo nei crescenti traffici dal Venezuela all’Africa occidentale. Secondo quanto riporta il Documento 2009 sulla Strategia di Controllo Internazionale sul Narcotraffico del Dipartimento di Stato. Mentre la maggioranza della droga che transita in Venezuela continua ad essere destinata direttamente agli Stati Uniti e all’Europa, una crescente percentuale ha cominciato a fluire verso l’Africa occidentale, proseguendo poi per l’Europa. Le droghe destinate all’Europa vengono consegnate direttamente a diversi paesi europei, specialmente alla Spagna, o vengono trasportate attraverso le acque costiere orientali del Venezuela e dei Caraibi all’Africa occidentale, in particolar modo alla Guinea e GuineaBissau. Oltre ai voli transatlantici che decollano dal Venezuela, anche i pescherecci vengono caricati di cocaina nell’isola Margarita o nei suoi pressi prima di intraprendere il viaggio attraverso l’Atlantico; il carico illegale viene trasferito a pescherecci più piccoli per essere poi trasportato in Europa o viene consegnato a cospiratori in diversi stati Africani deboli e corrotti. La cocaina intraprende la sua strada dall’Africa al mercato europeo in aerei privati o su “muli” che viaggiano sia per terra che su voli com-

merciali. Con il tentativo di sembrare imperturbati dalla retorica di Chávez, gli Stati Uniti e altri suoi vicini gli hanno permesso di mantenere l’iniziativa e di stabilire un pericoloso network, che potrebbe già rappresentare un’acuta minaccia per la stabilità e la sicurezza nelle Americhe. Spalleggiando il narcotraffico, Chávez è in grado di insidiare la sicurezza degli Stati Uniti, sostenere una guerra per procura contro la Colombia, destabilizzare il Messico, sovvertire la democrazia della regione, e sottoscrivere un network di collaboratori corrotti. La sua alleanza con l’Iran e il suo crescente ruolo nel narcotraffico transatlantico indicano che Chávez è “diventato mondiale” e ha attraversato la soglia rossa nucleare. Gli Stati Uniti non possono contare su più di una manciata di vicini nelle Americhe per affrontare questa minaccia tossica, dovrebbero muoversi immediatamente per stabilire legami economici e sulla sicurezza con la Colombia, l’unico attore della regione abbastanza motivato ad affrontare la minaccia di Chávez. L’apparato della sicurezza nazionale dell’amministrazione Obama dovrebbe inserire il Venezuela nel suo schermo radar e impegnare altri paesi responsabili forse nell’emisfero occidentale, ma sicuramente in Europa occidentale - in una sobria valutazione della sfida rappresentata da Chávez. Gli Stati Uniti dovrebbero sottoporre il ruolo del Venezuela nel programma nucleare iraniano all’attenzione dell’Onu e avvisare Chávez delle terribili conseguenze di questo gioco altamente pericoloso. Le agenzie antidroga e di sicurezza degli Stati Uniti dovrebbero raddoppiare la collaborazione con i governi europeo e africano disponibili a contrastare il crescente narcotraffico che ha origine dal Venezuela. Infine, il presidente Barack Obama dovrebbe usare il suo capitale politico per intraprendere un dialogo, non con Chávez, ma con il popolo venezuelano, per chiarire che il loro presidente ha reso il loro paese un reietto internazionale che rischia di provocare disastri per i quali potrebbe pagare un prezzo altissimo. In breve, Hugo Chávez dovrebbe ottenere l’attenzione che ha bramato e che merita così profondamente. 33


Risk

PRENDERE “DUE PICCIONI CON UNA FAVA” È LA STRATEGIA DI FOGGY BOTTOM. MA NON PAGA

ATTENZIONE ALLA TELA DELL’IRAN DANIELLE PLETKA •

L’

L’approccio dell’amministrazione Obama su due delle questioni più scottanti e pericolose della scena mondiale, il conflitto israelo-palestinese ed il programma nucleare iraniano, consiste nel legare le due problematiche in modo da pervenire ad una soluzione che le risolva entrambe. Tale strategia mira a fare ricorso alla politica dell’attuale

amministrazione nei riguardi dell’Iran al fine di esercitare pressioni sul governo guidato da Benjamin Netanyahu. Le sanzioni pianificate contro il settore energetico iraniano, nell’eventualità in cui Teheran non dovesse piegarsi ad un compromesso sull’arricchimento dell’uranio, non sono unicamente finalizzate a prevenire un’offensiva militare da parte israeliana ma costituiscono altresì un’occasione di negoziato in cambio di un sostanziale congelamento delle rimostranze sul tema degli insediamenti ebraici nella West Bank. «Il messaggio è: l’Iran rappresenta una minaccia all’esistenza di Israele; gli insediamenti no» ha affermato un funzionario impegnato nei round negoziali. Ma tale strategia comporta dei rischi. Qualsiasi mossa contro l’industria petrolifera e gassifera dell’Iran potrebbe finire per erodere alle fondamenta un consenso multilaterale conquistato a fatica, la qual cosa alienerebbe il sostegno di Russia e Cina ed impedirebbe al tempo stesso di infliggere ulteriori danni al regime iraniano. L’Iran porta avanti un aggressivo programma volto alla creazione di armamenti nucleari, e a parte alcune caparbie voci di dissenso, buona parte dell’amministrazione Obama deve piegarsi a tale realtà. Ufficialmente Washington si è rassegnata a perseguire una politica di contenimento che secondo alcuni diminuirà le capacità iraniane di proliferare, terrorizzare e 34

sfruttare la propria posizione di potenza nucleare. Ma sarebbe sbagliato ritenere che un Iran dotato di un arsenale nucleare possa essere contenuto. La teoria del contenimento riecheggia le dinamiche della Guerra fredda: il prezzo della rottura è troppo alto; al regime importa esclusivamente del proprio potere, e non dell’utilizzo di eventuali armamenti; il contenimento risulterà semplice poiché gli arabi hanno una così folle paura dell’Iran che faranno qualsiasi cosa in loro potere per aiutarci; il presidente Ahmadinejad non ha il dito sul pulsante. In realtà, tutte queste argomentazioni appaiono false o fuorvianti. Tra coloro che aspirano al nucleare e che forniscono sostegno alla galassia terrorista, il regime sciita di Teheran appare ben più abile dei propri omologhi sunniti. Da attenta studiosa della storia, la Repubblica Islamica sa perfettamente quanto la comunità internazionale abbia inflitto punizioni piuttosto miti ai trasgressori in materia di proliferazione nucleare. Teheran si considera molto probabilmente più simile all’India, una grande potenza i cui armamenti nucleari sono riconosciuti ed ora accettati, che non alla Corea del Nord, un regime privo di serie aspirazioni globali o di influenza. I dirigenti iraniani che invocano il ritiro dal Trattato di Non-Proliferazione lo fanno non perché vedono nell’Iran il nuovo regno eremita, bensì nella con-


dossier vinzione che la Persia non abbia più bisogno di essere limitata da potenze e da trattati miranti esclusivamente al mantenimento dello status quo. I fautori del contenimento e della deterrenza suggeriscono che l’Iran si ritroverà attorniato da un gruppo di nazioni “con le stesse idee”, decise ad alzare la posta della partita. Tale assurda nozione si fonda sulle deboli rassicurazioni provenienti dall’Europa e sulla constatazione dell’estrema riluttanza ad agire da parte dei paesi arabi. Ma chi si potrebbe mai arrogare il diritto di accusare gli stati arabi confinanti con l’Iran? Istigati da potenze geograficamente distanti a negare agli iraniani l’accesso agli istituti bancari ed agli insediamenti portuali, essi temono di essere messi alla porta dal prossimo leader mondiale che adocchierà un Premio Nobel per la Pace. Cosa ancor peggiore, la comune nozione di deterrenza mal si adatta al regime di Teheran. È probabilmente sbagliato asserire che l’attuale leadership iraniana sia di una “pasta” diversa rispetto a quella sovietica; dopo tutto, ci viene spesso ricordato come la dottrina della “mutua distruzione reciproca” funzionò con l’Unione Sovietica per mezzo secolo. Ma persino i falchi più bellicosi nutrono seri dubbi circa la risolutezza statunitense nel “cancellare totalmente” l’Iran nel caso di un attacco nucleare ai danni, supponiamo, di Israele - malgrado le minacce della Clinton, da candidata alla presidenza, di prendere in considerazione tale ipotesi. In molti vedono piuttosto le consuete esitazioni circa la “certezza”, le “provocazioni” ed una “escalation” come la molto più probabile retorica nel caso in cui un evento del genere dovesse avere luogo. E se è proprio Washington a pensarla così, perché mai gli iraniani dovrebbero fare diversamente? Molti inoltre commentano con toni sarcastici la tesi secondo cui un leader iraniano responsabile correrebbe il rischio di utilizzare o trasferire armi o tecnologia nucleari. Si dice che non sia Ahmadinejad (che in molti giudicano sufficientemente pazzo da utilizzare un’arma di quel tipo) colui a cui spetterà la decisione finale. Ma il regime appare in buona misura impenetrabile, e centri di potere mutevoli impediscono anche alle migliori agenzie di intelligence di garantire adeguati livelli di certezza riguardo il processo decisionale che sta dietro al programma di proliferazione nucleare di Teheran. Se le pre-

visioni dei vari servizi segreti occidentali circa la reazione iraniana alla politica di apertura di Obama costituiscono una qualche indicazione (sembra infatti che questi ultimi avessero predetto il disperato bisogno di dialogo da parte di Teheran), allora appare logico concludere che nessuno sappia quali e quante dita vi siano sul grilletto del nucleare iraniano. È possibile che l’Iran accumuli sufficiente materiale fissile per fabbricare una bomba e quindi scelga di non farne un’arma o di testarla. Ma qui non si parla di stati con programmi nucleari clandestini, in particolare di quelli che dispongono di avanzati sistemi di lancio e di testate. È altresì possibile che, quando avrà tra le mani tale arma, l’Iran non ne farà uso né cercherà di condividerne la tecnologia. Ma vi sono poche cose che l’Iran non abbia voglia di condividere e Teheran è certamente tentata dalla possibilità di utilizzare le proprie armi nucleari come scudo dietro cui ingaggiare operazioni in Libano, Iraq ed Israele. I sostenitori della politica del contenimento suggeriscono che in assenza di efficaci azioni diplomatiche o di sanzioni che producano sostanziali risultati, le uniche opzioni a disposizione degli Stati Uniti siano l’acquiescenza o un’azione militare. In privato, i funzionari dell’amministrazione Obama confessano di credere che un’offensiva israeliana ostacolerebbe il dibattito sulla politica da perseguire, in quanto la tolleranza di Tel Aviv per un Iran dotato del nucleare è significativamente più limitata di quella americana. Ma il fatto di subappaltare la sicurezza nazionale degli Stati Uniti ad Israele costituisce un’idea aberrante, ed è altresì logico supporre che un’azione israeliana determinerebbe un conflitto regionale su più ampia scala in cui gli Usa verrebbero giocoforza tirati in ballo. Esistono alcune buone soluzioni a disposizione dell’Amministrazione in grado di far recedere l’Iran dai propri propositi di proliferazione nucleare e di rilanciare il dialogo arabo-israeliano. Nondimeno, dopo un anno di falsi avvii e di iniziative che si sono rivelate dei buchi nell’acqua, l’amministrazione Obama dovrebbe essere indotta a ricercare soluzioni alternative. Non ci rimane che sperare che la nuova politica del Presidente non poggi sull’erronea considerazione secondo cui un Iran dotato di armi nucleari possa essere contenuto. 35




Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Il prezzo (necessario) della sicurezza

Nella riunione del Consiglio Supremo di Difesa che si è tenuta a metà novembre, presieduta da Presidente della Repubblica e a cui hanno partecipato il Presidente del Consiglio e i principali ministri, è stato affrontato anche il tema della riorganizzazione dello strumento militare italiano per renderlo compatibile con le risorse finanziarie disponibili. Il processo di riforma viene da anni continuamente rinviato dai governi e parlamenti che si sono succeduti sia per il suo costo politico sia per quello finanziario. Come tutte le ristrutturazioni in cui non è possibile “licenziare” il personale e nemmeno chiudere dall’oggi al domani le sedi, è infatti, inevitabile dover sostenere nella prima fase extra-costi volti a contenere le conseguenze sociali ed economiche dei tagli. Per realizzarlo è necessario definire un piano a medio-lungo termine e avere la volontà e la capacità di metterlo in pratica. Ma il nostro mondo politico non ci è mai riuscito. Così i problemi si sono via via aggravati. All’inizio di quest’anno si è ipotizzato un nuovo tentativo da attuarsi mediante una legge-delega che avrebbe potuto consentire una riorganizzazione complessiva, ma il suo probabile costo (una decina di miliardi di euro in pochi anni) lo ha fatto naufragare. Non si è, infatti, riusciti a predisporre un credibile piano triennale/quinquennale che definisse in dettaglio la necessaria riduzione delle dimensioni dello strumento militare e che conseguentemente potesse ottenere la condivisione del Governo e, in particolare, del Ministro dell’Economia e della Finanza su questa spesa straordinaria attraverso cui si sarebbe potuto finalmente riequilibrare in termini strutturali il bilancio della Difesa. Si è così arrivati alla recente decisione di procedere con una politica dei piccoli passi, seppure nel quadro di un intervento complessivo diluito in un decennio. Non è certo quella ideale, ma è per ora una scelta obbligata. La riforma verrà così portata avanti 38

con una serie di specifiche iniziative sia sull’organizzazione del vertice del ministero, sia su quella tecnicooperativa e tecnico-amministrativa (con particolare riferimento al procurement). Vi sono, però, due punti fermi: 1) le risorse per la difesa devono essere “stabilizzate” in modo da consentire una pianificazione della riorganizzazione; 2) non devono essere attuati interventi esterni sulla struttura del bilancio della Difesa in modo da consentirne una gestione flessibile. Gli ultimi tagli hanno, infatti, portato a due conseguenze nefaste: hanno ridotto le risorse disponibili per il funzionamento della macchina militare (addestramento in particolare) e hanno imposto un blocco del reclutamento che compromette l’alimentazione del personale da impiegare nelle missioni e rischia di minare il delicato sistema di parziale passaggio dei volontari dalle Forze Armate ai corpi di polizia. Il livello di risorse indispensabili è stimato intorno all’1,3% del Pil (compresi gli stanziamenti a carico del ministero dello Sviluppo Economico). Un terzo dovrà essere destinato agli investimenti in modo da assicurare il necessario previsto ammodernamento degli equipaggiamenti e, in particolare, l’acquisizione di quelli più necessari per continuare a svolgere adeguatamente le missioni internazionali a cui l’Italia partecipa al fine di contribuire al mantenimento della stabilità internazionale. In cifra assoluta e ai valori correnti sono necessari 4,2-4,5 miliardi di euro all’anno per gli investimenti, al cui interno dovrà essere assicurato anche il finanziamento dei programmi di ricerca e sviluppo. Il mantenimento delle nostre capacità tecnologiche e industriali su un mercato che sta diventando sempre più concorrenziale è infatti essenziale per tutelare un’importante risorsa del paese e per assicurare alle Forze Armate la disponibilità degli equipaggiamenti necessari, pur nel quadro di una progressiva interdipendenza a livello europeo.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Crisi o non crisi, l’Italia mantiene gli impegni militari internazionali

Sarà stato l’intervento del presidente Napolitano, sarà la “passione” per le missioni internazionali del ministro della Difesa La Russa, sarà per il pressing sul titolare degli Esteri, Frattini, ma pur in un contesto economico certo non favorevole, l’Italia si appresta a confermare nel 2010 l’impegno per le missioni militari internazionali. Certo non è stata una impresa facile, perché il titolare dell’Economia, Tremonti, avrebbe volentieri risparmiato qualcosa, anzi tutto il possibile. Ma grazie all’andamento superiore alle più rosee aspettative delle entrate tributarie legate allo “scudo”, l’Italia è intenzionata a confermare per il 2010 uno stanziamento di 1,5 miliardi di euro, quando le indicazioni della vigilia lasciavano intendere un taglio a 1,2 o addirittura a un miliardo. Non solo, si spera di abbandonare la pratica scriteriata che vedeva gli stanziamenti per le missioni spezzettati in decreti dal corto, cortissimo respiro: quest’anno tre decreti hanno coperto rispettivamente 6,4 e 2 mesi di attività rendendo difficile se non impossibile una decente programmazione e complicando il percorso burocratico da completare per ottenere la effettiva erogazione dei fondi, con il risultato che in molti casi la Difesa è stata costretta ad anticipare le somme, prelevandole ovunque possibile e creando nuove disfunzioni. Quest’anno si punta invece a due decreti, entrambi semestrali. Resta ancora da sciogliere il “nodo” dei fondi per la cooperazione, che sono una parte importante, fondamentale per consentire quel “comprehensive approach” che ormai tutti considerano indispensabile per affrontare le sfide della sicurezza e della ricostruzione. La esigenze è di circa 200 milioni di Euro/anno. Il ministero dell’Economia vorrebbe ottenerli diminuendo gli stanziamenti per la componente “militare”, la Difesa ovviamente è contraria, agli Esteri non fa differenza, purché alla fine i soldi arrivino. In effetti la cooperazione tra Esteri e

Difesa sulle missioni internazionali ha raggiunto il suo punto più alto, che ancora non è gran cosa, considerando che si procedeva su binari paralleli e come separati in casa, ma rappresenta un inizio. E sarebbe un peccato creare frizioni ed incomprensioni sugli aspetti monetari. C’è bisogno infatti di una vera integrazione. Il 2010 porterà anche un generale “riassestamento” delle missioni internazionali: l’Italia infatti fa tanto, tantissimo, impegnando mediamente 8.500 militari (ma si è arrivati a picchi di 12mila), spende anche parecchio, ma ottiene poco a livello politico e strategico. Anche perché si è coinvolti in troppe iniziative e quindi il “peso specifico” è normalmente limitato. Ma ora si intende cambiare. Ci sarà maggiore concentrazione di sforzi e risorse. Si comincerà con lo sfoltire la partecipazione in missioni minori che servono solo a mostrare bandiera, comunque costicchiano e producono poco o niente. L’Afghanistan diventerà teatro prioritario, dove si farà massa: rispetto ai 2.700 militari di metà dicembre si arriverà a quota 4mila, il picco massimo mai raggiunto e questo ci consentirà di mantenere il comando della regione Ovest e di acquistare un peso decisamente maggiore nei confronti degli Usa e all’interno della Nato. Ma ovviamente un potenziamento in Afghanistan è estremamente costoso, anche solo per evidenti motivi logistici. Ecco quindi che si cercherà di ridurre l’impegno su altri fronti. Per esempio dal Libano, dove probabilmente passeremo la responsabilità del comando della missione Unifil alla Spagna, potranno essere ritirati fino a 400 uomini. Quanto ai Balcani, la speranza è che la Nato riesca davvero a ridurre del 75% nel corso dell’anno la consistenza della sua Kfor, che ancora conta oltre 14mila uomini, dei quali 2mila italiani. Se tutto va bene, l’Italia potrebbe dimezzare il suo contributo. 39


IR l

apporto

DOVE VA LA NATO?

A CURA DEL COMITATO DIFESA DUEMILA ell’attuale contesto, in contiai confini e agli interessi strategici nua e rapida evoluzione sia nazionali. L’Italia dovrebbe inoltre sul campo che nel più essere pronta, di fronte a possibili generale quadro geopolitico, gli sebbene improbabili sviluppi impegni più significativi della negativi, a rafforzare in pochi giorNato sul terreno sono nei Balcani, dai ni la presenza dei militari italiani nelquali l’Alleanza sta uscendo, e soprattutl’area. In Afghanistan invece la situazioto in Afghanistan dal quale non si sa se, ne è molto più complessa e critica per Afghanistan, come, e quando la Nato ne uscirà. «Nei la Nato. Un autorevole esperto come sicurezza energetica, capacità militari, Balcani tutto può succedere…pure che Brzezinski nell’estate del 2009 ha deterrenza nucleare, Balcani. finisca bene», così recitava la copertina di affermato in maniera decisa e allarmaSi può affermare che la Nato ha un passato un recente numero di Risk nell’introdurta, prima sul New York Times e poi su glorioso, ma un futuro re l’intervista al generale Camporini, Foreign Affairs, che a Kabul è in gioco incerto. Sicuramente Capo di Stato Maggiore della Difesa. Di la credibilità della Nato: «the first order l’Alleanza continuerà ad esistere, e rimarrà certo la Nato ha svolto il suo compito nel of business for Nato members is to essenziale, per l’Europa fronteggiare i conflitti e l’instabilità define and pursue together a politicalregionale nei Balcani, e l’intenzione di ly acceptable outcome to its out-of ridurre la presenza alleata di circa il 60% in sei mesi, e addi- region military engagement in Afghanistan (…) Such a resorittura dell’85% rispetto a quella attuale nei prossimi due lution of Nato’s first campaign based on Article 5 is necesanni, dimostra che il suo ruolo più “hard” nella lunga crisi sary to sustain alliance credibility». La percezione balcanica ha dato i suoi frutti, e che ora è tempo di sviluppa- dell’Afghanistan come un test cruciale per la Nato si è andare attività “soft” attraverso attori internazionali più adeguati. ta diffondendo negli ultimi anni, avvalorata da alcuni circoIn tale ottica, l’Unione Europea su mandato dell’Onu sta li culturali americani, fra cui la Rand, che fin dal 2003 aveassumendo un ruolo sempre più importante tramite la mis- vano sostenuto che la missione afgana doveva essere consisione Pesd Eulex e i vari strumenti della politica estera derata una sorta di cartina di tornasole per l’Alleanza. Questa dell’Unione. Che poi i Balcani restino ancora a rischio è una stessa valutazione era contenuta anche nel Rapporto 2008 convinzione comune, anche se in un contesto globale sono del Comitato Difesa Duemila intitolato Cosa significa vinpercepiti come una preoccupazione minore. Non è un caso cere in Afghanistan?. Oggi tale consapevolezza comune esiche il generale Camporini affermi che proprio per questo ste su ambedue le sponde dell’Atlantico, e non a caso nella l’Italia dovrebbe viceversa mantenere alta la soglia di atten- dichiarazione finale del summit Nato di Strasburgo-Kehl il zione sull’evoluzione della situazione in un’area così vicina primo punto all’ordine del giorno era la missione Isaf in

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il rapporto Afghanistan che, partendo dal presupposto che la “nostra” sicurezza è strettamente legata alla sicurezza e alla stabilità del paese, viene definita la key priority dell’Alleanza. Certo, ormai si riconosce apertamente che una maggiore capacità e impegno del governo afgano è e sarà cruciale per compiere progressi nella stabilizzazione del paese contro la guerriglia talebana. Così come è opinione comune che un forte e costruttivo impegno dei paesi della regione sia anch’esso cruciale, tanto che la Nato punta esplicitamente a rafforzare la cooperazione con tutti i paesi confinanti dell’Afghanistan, in particolare il Pakistan. Tuttavia gli sviluppi in corso, compreso il deludente processo elettorale e il risentimento generato tra gli afgani dalle vittime civili dei bombardamenti alleati, non promettono affatto bene sulle sorti dell’operazione. Questa situazione è al centro dell’attenzione internazionale, particolarmente dopo le aspettative generate dall’elezione di Obama. Una di queste aspettative si è avverata: l’immagine degli Stati Uniti si è rapidamente risollevata dai bassissimi livelli cui l’aveva portata la precedente amministrazione repubblicana, anche grazie alla promessa di operare in politica estera in modo diverso, con una forte propensione a dialogare con gli altri paesi e a capirne le ragioni. Altre aspettative sono andate deluse: la priorità della politica estera di Obama era la crisi afghana, nella quale la Nato e gli Stati Uniti avrebbero dovuto concentrare tutti gli sforzi per uscirne a testa alta, e purtroppo alle promesse di cambiamento non sono seguiti fatti concreti. In particolare, in Afghanistan continuano le contraddizioni di una Nato che è sì entrata nell’ordine di idee di conquistare “cuori e menti” della popolazione locale, ma che in parte ancora opera in un modo che ostacola il raggiungimento di questo obiettivo, come nel caso delle vittime civili. Difficilmente un comune cittadino afgano, che ignora gran parte di ciò che avviene fuori dal suo paese, può percepire un cambiamento sostanziale nel comportamento della missione Isaf da quando Obama ha sostituito Bush. Nonostante il carisma e le intenzioni del nuovo presidente, è infatti mancata e ancora manca all’interno della Nato una reale e franca discussione su come procedere in Afghanistan. Da una parte si sostiene che sono necessarie più truppe, si concorda su questo impegno, ma poi pochi sono disponibili a fornirle. Dall’altra parte si parla della necessità di assistenza civi-

le ed economica all’Afghanistan, ma poi riesce difficile mettere insieme le risorse necessarie e definire un modo efficace per gestirle. Ci si trova dunque di fronte a una situazione complessa e in stallo, nella quale al momento non ha senso neanche definire una exit strategy. Se però l’Afghanistan viene visto come la cartina di tornasole della capacità della Nato di operare efficacemente nel nuovo contesto globale, è lecito porsi qualche domanda provocatoria in merito. Vale la pena di tenere la Nato impantanata in Afghanistan ancora molti anni correndo quindi il rischio, alla luce delle limitate risorse umane realmente disponibili, di non poter affrontare altre importanti crisi che si dovessero nel contempo verificare? È Obama stesso davvero deciso a concentrarsi su Kabul, fronteggiando la montante disaffezione degli americani per le guerre in Afghanistan e Iraq, quando è già molto impegnato sul fronte interno per la difficile realizzazione della riforma sanitaria? Come interpretare il fatto che alla sua prima commemorazione dell’11 settembre Obama abbia messo in soffitta quel United we stand (Uniti vinceremo, ndr.) con cui Bush ha coinvolto per anni gli americani nella “reazione rabbiosa” all’attentato, avviando e sviluppando le operazioni in Afghanistan, sostituendolo con un nuovo slogan United we serve che piuttosto indica come i nuovi nemici degli Stati Uniti siano emarginazione, solitudine e indifferenza, a sostegno della battaglia sulla sanità? Quale strategia adotterà Obama per l’Afghanistan, viste le recenti divisioni nella sua amministrazione sulla via da seguire? Tali domande potrebbero anche far pensare che, di fronte a una crisi globale che ha avuto e ha ancora un fortissimo impatto sociale su americani ed europei, forse è il caso di riflettere a mente fredda sulle priorità della missione Nato in Afghanistan. Ovviamente questo non significa per i paesi impegnati con le loro truppe nella missione Isaf, come ad esempio l’Italia, fare valutazioni unilaterali o addirittura pensare a un ritiro non concordato con gli alleati. Significa piuttosto che è, forse, maturo il momento per ridiscutere realisticamente insieme a tutti gli alleati, in primis gli Stati Uniti, se e come proseguire la missione in corso e se sono ancora validi e attuali gli obbiettivi che essa attualmente si pone. Fermo restando che, una volta concordato il modo di procedere, ogni ulteriore distinguo o reticenza nel mantenere quanto pattuito congiuntamente si tradurrebbe inevitabil41


Risk mente in una perdita di credibilità dell’Alleanza. Tali decisioni, che riguardano il presente e il futuro della Nato, vanno prese in un quadro politico internazionale che cambia continuamente, comportando geometrie variabili o meglio alleanze a fedeltà variabili. Ad esempio, la Russia gioca un ruolo sempre più importante grazie ai suoi rapporti bilaterali con i paesi dell’Unione Europea. Fin quando non si definisce una politica comune dell’Ue nei confronti di Mosca, non c’è da meravigliarsi se alcuni paesi, quali ad esempio Germania e Italia, si muovono autonomamente sulla base dei loro specifici interessi economici. In tale ottica non c’è da stupirsi per i diversi toni dei paesi europei membri della Nato durante la crisi in Caucaso del 2008, né delle posizioni italiane o tedesche nei confronti di Russia (e Turchia) contraddistinte da complessi e talora divergenti interessi in campo energetico e industriale, dimostrati anche dalla scelta tedesca di un compratore a capitale anche russo per Opel, anche se poi l’operazione non è proseguita. Insomma, non c’è da meravigliarsi che, fino a quando l’Ue non decollerà veramente, vengano allo scoperto fedeltà variabili con significative ripercussioni anche sulla coesione Nato. Andando oltre l’Europa, non si può non considerare come ormai l’attenzione strategica degli Stati Uniti si sia spostata sul Pacifico, dove emergono Cina e Giappone con la prima sempre più incamminata a diventare in futuro l’interlocutore principale dell’America. Né si può non prendere realisticamente atto della incapacità delle Nazioni Unite di governare una globalizzazione economica e tecnologica in continua accelerazione, con improvvisi contraccolpi che hanno degli impatti fortissimi sia sui paesi sviluppati che su quelli più poveri e meno protetti. È in questo contesto globalizzato e in continua evoluzione che la Nato deve discutere del suo ruolo, ripensando radicalmente il proprio Concetto Strategico.

tualità di una politica tedesca nazionalista o eccessivamente filo-russa, e un modo per aumentare il peso dell’Europa nel contesto internazionale. Bisogna inoltre considerare che l’Europa è stata in una certa misura “smilitarizzata” dalle due guerre mondiali e dai quarant’anni di protezione americana durante la Guerra Fredda. A parte la carenza di volontà politica dell’Europa in fatto di azioni militari, da anni cresce il divario tra le capacità militari europee e quelle americane, che a sua volta diminuisce l’interoperabilità tra le forze alleate. Insufficiente è anche la trasformazione delle forze armate europee da compiti di difesa territoriale a quelli di proiezione di potenza a grande distanza. Negli otto anni della presidenza Bush, gli Stati Uniti hanno aumentato di un terzo il loro bilancio della difesa, portandolo dal 3% del Pil americano nel 2000 al 4% del 2007, il che vuol dire circa il 45% delle spese militari mondiali. I membri europei della Nato, invece, hanno progressivamente diminuito il loro bilancio della difesa, passando in media dal 2,2% del Pil nel 2000 all’1,57% del 2007 (secondo i dati del Military Bilance del Iiss). Inoltre, a parte la Gran Bretagna il cui strumento militare è strutturato come corpo di spedizione oltremare, i paesi europei non sono in grado di impiegare all’estero più del 5-10% dei loro effettivi, mancando tra l’altro i necessari trasporti aerei e marittimi. Gli Stati Uniti hanno invece riorganizzato le loro forze armate, proponendo una sorta di “divisione funzionale del lavoro” con gli europei discussa al vertice Nato di Riga nel 2006. L’Europa avrebbe dovuto fornire soprattutto la componente soft per “vincere la pace”, mentre gli Stati Uniti si sarebbero concentrati su quella hard ad alta tecnologia per “vincere la guerra”. Tale divisione del lavoro non è stata praticabile, soprattutto per le preoccupazioni della Germania sul fatto che essa preludesse ad una “Nato globale” in cui l’Europa si sarebbe dovuta impegnare direttamente nelle iniziative militari americane nel mondo, anche in Asia sud-orientale. Non è stata Quattro opzioni per la Nato neppure praticabile una sorta di “divisione geografica del Si può affermare che la Nato ha un passato glorioso, ma un lavoro”, per cui l’Ue avrebbe dovuto mantenere la stabilità futuro incerto. Sicuramente l’Alleanza continuerà ad esiste- in Africa e gli Stati Uniti nelle altre regioni del mondo a parre e rimarrà essenziale per l’Europa. Infatti l’Ue non si tra- tire dal Medio Oriente. Il problema principale è che le divisformerà, almeno nel prossimo futuro, in un vero e proprio sioni europee impediscono una Pesc e Pesd efficaci. Ad stato confederale, mentre la Nato rappresenta un fattore uni- esempio, è netta la divergenza tra l’Europa orientale, più ficante per i paesi europei, una assicurazione contro l’even- Gran Bretagna, Svezia e Olanda, decisamente preoccupata 42


il rapporto dal ritorno geopolitico della Russia e favorevole all’espansione della Nato, anche a costo di un braccio di ferro con il Cremlino, e l’Europa centrale, Germania e Italia in primis, sensibile ai rapporti con la Russia e interessata ad essere ponte fra Washington e Mosca. Le divisioni europee e della scarsa coesione ed efficacia della politica estera dell’Ue inevitabilmente aumentano la dipendenza strategica dell’Europa dagli Stati Uniti. Allo stesso tempo, è probabile che l’importanza dell’Europa per quest’ultimi diminuirà ancora, soprattutto se Washington riuscirà ad accordarsi con Mosca, oppure con Pechino, sulle grandi questioni dell’agenda internazionale. Tale triangolo è reso più difficile dai contrasti di fondo esistenti fra la Russia e la Cina, nonostante ambedue facciano parte della Sco (Shanghai Cooperation Organization), dovuti alla competizione per il controllo delle risorse energetiche dell’Asia Centrale dove l’influenza cinese sta crescendo. A sua volta la Russia, nonostante gli sforzi di Putin e Medvedev, non ha più una forza paragonabile a quella che aveva l’Unione Sovietica. Per la cooperazione Nato-Ue esiste un altro problema di fondo, che va al di là degli aspetti tecnico-istituzionali già regolati dagli accordi “Berlin Plus” del 2003. Gli interventi militari dell’Ue preIL COMITATO DIFESA DUEMILA Il Comitato Difesa Duemila è stato costituito all’inizio del 2002 con lo scopo di contribuire ad un approfondimento del dibattito sui tremi della sicurezza e della difesa in un’ottica europea e transatlantica. Coordinato da Michele Nones, è composto da: Ferdinando Adornato, Mario Arpino, Vincenzo Camporini, Carlo Finizio, Carlo Jean, Andrea Nativi, Luigi Ramponi, Stefano Silvestri, Guido Venturoni. Segretario è Alessandro Marrone. L’obiettivo è quello di elaborare ogni anno un policy paper da sottoporre alle classi dirigenti del Paese allo scopo di creare un’occasione annuale di confronto, per l’analisi e la proposta di concetti strategici e operativi e del loro più opportuno inserimento in una più vasta cornice legislativa e politica del sistema Paese, specialmente nelle sue proiezioni oltre i confini nazionali. I temi affrontati dai precedenti paper sono: «Ci sentiamo in guerra?» (2002); «Una nuova alleanza strategica Europa-Stati Uniti» (2003); «La pace asimmetrica» (2004); «L’Occidente sotto attacco» (2005); «Un Mediterraneo più sicuro» (2006); «Quali missioni internazionali per le Forze Armate italiane?» (2007); Cosa significa vincere in Afghanistan? (2009).

suppongono, come precondizione giuridicamente vincolante, un mandato Onu. Per gli Stati Uniti, invece, tale mandato costituisce semplicemente una questione di opportunità politica. Comparando infatti la National Security Strategy (Nss) americana del 2002 e la European Security Strategy (Ess) del 2003, emerge una divergenza di fondo tra i due approcci. Sebbene i due documenti contengano analisi simili quanto alle minacce da affrontare, la Ess condiziona il proprio intervento alla presenza di un processo multilaterale di un mandato della comunità internazionale tramite l’Onu, mentre la Nss prevede l’uso unilaterale e preventivo della forza quando necessario per difendere l’interesse nazionale in pericolo. Tra l’altro, va notato che neanche durante la campagna elettorale per le presidenziali Obama ha negato l’impostazione della Nss emanata dalla amministrazione Bush. Nonostante la sua retorica a favore del multilateralismo, Obama non intende porre limitazioni alla sovranità americana, soprattutto perché gli europei sono renitenti ad un deciso impegno militare ed intendono il multilateralismo più come un modo per controllare gli Stati Uniti che come uno strumento di cooperazione con gli americani. Lo si vede in Afghanistan, dove l’azione occidentale - con il surge di 21mila soldati statunitensi attuato nella primavera del 2009 - si sta “americanizzando” e dove la Nato agisce più come una coalizione ad hoc che come un’alleanza permanente. In definitiva, il problema della coesione della Nato non sta solo nelle capacità militari o nella volontà politica. È anche una questione di cultura strategica e di disponibilità ad usare la forza per conseguire obiettivi politici. Prima del summit Nato di Strasburgo-Kehl, alcuni ritenevano che fra l’Europa e gli Stati Uniti si stesse realizzando una convergenza di valori e di cultura strategica. Per riprendere le espressioni di Robert Kagan, gli europei sarebbero divenuti più “marziani” e gli americani più “venusiani”, e un maggiore consenso si sarebbe creato sull’uso della forza militare e sulla strategia dell’Alleanza. Il processo sarebbe stato facilitato dalla personalità di Obama, che era il presidente che gli europei avrebbero eletto alla Casa Bianca se avessero potuto votare. Questo processo non si è verificato. Infatti, il summit di Strasburgo-Kehl non ha affrontato nessuno dei principali problemi della ristrutturazione dell’Alleanza e del suo adeguamento alle nuove esigenze di sicurezza, lasciando piut43


Risk tosto il campo a un’atmosfera di celebrazione dell’entrata dell’Alleanza nella sua “terza età”. Dietro gli inviti al dialogo multilaterale Obama rimane un realista, e si aspetta quindi ben poco dagli europei. Infatti, l’Europa era stata appena menzionata nei suoi discorsi elettorali, tanto celebrati dagli europei, e la sua percezione della scarsa rilevanza dell’Europa è stata certamente rafforzata dalla sua prima visita da presidente sul Vecchio Continente. Applausi e sorrisi hanno mascherato le divisioni tra gli europei e soprattutto il loro rifiuto di sostenere gli Stati Uniti in Afghanistan sia economicamente sia militarmente, se non con rinforzi di entità così modesta da essere imbarazzanti. Di fatto, la politica della “mano tesa” non è stata in grado di ripristinare la leadership degli Stati Uniti nei confronti degli alleati europei, che peraltro la chiedono affinché le apparenze multilaterali vengano salvate e non siano richiesti sforzi ed oneri. In questo modo, gli stati europei rischiano di dimostrarsi partner inaffidabili nei momenti di crisi in cui è necessaria una assunzione di responsabilità, spingendo gli Stati Uniti o a cercare nuovi partner o a fare da soli. Nel secondo caso, il multilateralismo sbandierato da Obama e la liturgia della solidarietà atlantica diventerebbero solo una “foglia di fico” per mascherare l’unilateralismo a cui gli Stati Uniti saranno costretti, forse loro malgrado, dall’inerzia dell’Europa. Un’Europa colpita dagli effetti della crisi economica e dal declino demografico in misura inferiore alla Russia, ma maggiore rispetto agli Stati Uniti, diventa sempre meno rilevante per Washington rispetto alla Cina e in generale al sistema Asia-Pacifico. In questo quadro, accantonate le ipotesi di convergenza e di divisione funzionale o geografica del lavoro tra Nato e Pesd, vi sono sul tavolo diverse configurazioni future dell’Alleanza. L’opzione prescelta determinerà funzioni e utilità della Nato e costituirà il punto centrale del nuovo Concetto Strategico. Concetto che, data l’incertezza dell’avvenire e la rapidità dei mutamenti geopolitici in atto, dovrebbe consentire l’adozione di decisioni pragmatiche ad hoc, prese sotto la pressione delle circostanze, da parte dei membri che vorranno intervenire. Da “rigida”, la Nato dovrebbe cioè divenire più “flessibile”, generando coalizioni a geometria variabile. È quanto, peraltro, sta già avvenendo in Afghanistan, dove i mandati dei vari contingenti nazionali sono molto diversi quanto a cave44

at sulle operazioni di combattimento. Tre sembrano essere le opzioni possibili. La prima è quella della “Nato globale”, strumento militare di una sorta di “Lega delle Democrazie”. Questa Nato dovrebbe avere una strategia comprehensive, includente cioè sia l’hard che il soft power. Dovrebbe estendere la propria area di responsabilità a tutto il mondo e includere al suo interno democrazie asiatiche alleate degli Stati Uniti quali Giappone, Corea del Sud, Australia, India, ecc, modificando quindi l’art. 10 del Trattato di Washington che oggi limita la possibilità di membership agli Stati europei. In definitiva, la Nato dovrebbe trasformarsi in uno strumento globale di risoluzione dei conflitti, di prevenzione e di risposta alle crisi, in teoria messo a disposizione della comunità internazionale, ma in pratica guidato dalla leadership americana che in cambio proteggerebbe l’Europa e continuerebbe a svolgere la sua funzione di “integratore europeo”. In questa ottica, il Consiglio Atlantico diventerebbe un sostituto più che un competitore del Consiglio di Sicurezza. Tale opzione è contrastata soprattutto dalla Germania, dalla Francia e, con maggiore cautela, dall’Italia. La costituzione di una Lega delle Democrazie rappresenterebbe una continuazione delle politiche “rivoluzionarie” di Clinton e Bush, fondate sull’eccezionalità, l’indispensabilità ed il “destino manifesto” degli Stati Uniti. Allo stesso tempo, la creazione di una Lega delle Democrazie porterebbe inevitabilmente alla formazione di un blocco contrapposto delle “autocrazie”, che vedrebbero minacciati i loro regimi, spingendo ad esempio la Sco (Shanghai Cooperation Organization) a trasformarsi in alleanza dell’Eurasia. La seconda opzione è quella “minimalista”, opposta, quasi specularmente, alla precedente. La Nato dovrebbe ridimensionare il proprio ruolo alla sola difesa diretta degli stati membri, cioè al core business della difesa comune della regione euro-atlantica. Dovrebbe lasciar cadere le “divagazioni” sulla sicurezza energetica, cibernetica, ecc. che rischiano di indebolirne la caratterizzazione militare. Non si parlerebbe più di allargamento globale: nell’Alleanza potrebbe, tutt’al più, entrare la Svezia, ma non l’Ucraina e la Georgia. In generale, gli allargamenti andrebbero subordinati all’accertamento dell’effettiva possibilità di difendere i nuovi membri: la “ragione militare” dovrebbe cioè prevalere su quella “politica”, che finora invece aveva presieduto l’espansione dell’Alleanza, come dimostrato con


il rapporto grande evidenza dall’ingresso degli stati baltici. La cooperazione fra Nato e Pesd rimarrebbe nel “limbo” in cui oggi si trova, anche per le già menzionate difficoltà di quest’ultima e per la divergenza di cultura strategica tra le due sponde dell’Atlantico. Coloro che sono contrari a questa opzione sostengono che essa rischia di trasformare l’Alleanza in un innocuo club di “gentiluomini democratici”, non più rilevante sulla scena internazionale. In questo quadro l’Europa, abbandonate le utopie di essere d’esempio al mondo e di rimanere una potenza civile post-moderna quando la “guerra” è ritornata nella “storia”, potrà continuare ad essere grazie alla Nato e quindi al legame con gli Stati Uniti unita e in pace, una “potenza tranquilla”, anch’essa come l’Alleanza sempre meno rilevante nel mondo. La terza opzione è intermedia fra le due precedenti. La Nato rimarrebbe un’Alleanza regionale, che manterrebbe però la “porta aperta” anche all’Ucraina ed alla Georgia. Gli impegni militari esterni al perimetro degli stati membri sarebbero un’eccezione, come d’altronde lo era stato quello in Kosovo in cui l’Alleanza intervenne senza il placet del Consiglio di Sicurezza. La Nato dovrebbe interessarsi soprattutto di peace-building e counter-insurgency, e in questa ottica la collaborazione europea diverrebbe indispensabile per gli Stati Uniti al fine di poter disporre delle risorse civili necessarie per la stabilizzazione dei nuovi regimi. Le decisioni d’intervento andrebbero però prese caso per caso, configurando quindi una Nato a geometria variabile o a più velocità in linea con i trend manifestatisi in Afghanistan. Il nuovo concetto strategico dovrebbe tenere in ogni caso conto degli eventi che non esistevano quando nel 1999 fu adottato quello attuale: il lancio della Pesd, gli attacchi dell’11 settembre e il ritorno geopolitico della Russia. Una Nato del genere, non “globale”, rischierebbe forse di perdere parte della sua rilevanza, agli occhi degli Stati Uniti, tuttavia manterrebbe un importante ruolo di integrazione dell’Europa e di stabilizzazione dei mutamenti geopolitici avvenuti con il collasso dell’Urss. In particolare, servirebbe a proteggere i nuovi membri dell’Europa orientale da eventuali pressioni da parte di un Cremlino tornato più assertivo rispetto agli anni ’90, ribadendo il committment della Nato sull’Art. 5, cioè il principio della sicurezza collettiva garantita a tutti i membri dell’Alleanza. Principio che oggi membri dell’Alleanza

La natura multi-bilaterale dell’Alleanza è un fattore di potenziale indebolimento della sua coerenza politica, della sua solidarietà interna e della sua efficacia. Una possibile soluzione a questo dilemma è nella progressiva crescita di una politica comune europea di difesa e sicurezza come Polonia e Repubblica Ceca percepiscono come messo in dubbio dall’abbandono da parte di Obama dello scudo anti-missile in Europa Orientale in seguito alle pressioni della Russia. Una quarta opzione è teoricamente possibile, benché molto improbabile poiché priva di sostegno all’interno dell’Alleanza: fare della Nato il braccio esecutivo dell’Onu. Il fatto che nel mondo post-Guerra Fredda i compiti dell’Alleanza abbiano incluso missioni fuori dall’area transatlantica e operazioni di peace-keeping, ha di fatto avvicinato la funzione dell’Alleanza agli scopi indicati dal Capitolo settimo della Statuto delle Nazioni Unite. Anche in Afghanistan la Nato agisce su mandato del Consiglio di Sicurezza per pacificare e stabilizzare l’area: un “precedente” significativo in quanto l’Onu per la prima volta non impiega coalizioni ad hoc ma una forza militare pre-organizzata, permanente, con capacità operativa consolidata ed una capacità d’intervento pressoché immediata. Sulla base di questo precedente, il futuro dell’Alleanza potrebbe tendere ad un consolidamento della sua funzione di strumento militare di intervento su mandato del Consiglio di Sicurezza, sostituendo quella capacità di cogenza dell’Onu sempre sognata e mai realizzata. Tale visione di prospettiva implicherebbe lo sviluppo di capacità Nato non solo di peace-keeping e peace-enforcing, ma anche di nation-building, di counter-insurgency e di aiuto umanitario, migliorando il carattere expeditionary delle truppe alleate e la loro interope45


Risk rabilità. In tale ottica, la Nato allargherebbe anche la sua cia militare concreta ai confini sempre più dilatati membership alla Russia e a democrazie poste fuori dall’area dell’Alleanza, è naturale pensare di ampliare i compiti della transatlantica come Giappone, Australia, India, ecc. Nato in fatto di sicurezza. Ad esempio, sono già sul tappeto proposte perché la Nato includa tra i propri compiti il tema Sicurezza energetica della “sicurezza energetica”. Stati Uniti, Gran Bretagna e i Una indicazione sulla futura ragion d’essere della Nato verrà membri dell’Europa orientale insistono perché nell’elaboradal nuovo Concetto Strategico, che prenderà il posto delle zione del nuovo Concetto Strategico, il tema trovi spazio edizioni elaborate nel 1991 e nel 1999 ormai non più all’al- proprio nel quadro di una più ampia interpretazione tezza dei tempi. Il mandato per la preparazione del nuovo dell’Articolo 5. Già nell’ambito di un seminario tenuto a Concetto Strategico era stato assegnato al Segretario Kiev nel settembre 2004 si era discusso sulle misure che la Generale lo scorso aprile, con l’obiettivo di arrivare alla sua Nato avrebbe dovuto valutare nel caso di grave danneggiaapprovazione entro il 2010, ed il dibattito è in corso in seno mento del “sistema energetico” di un paese alleato come all’Alleanza. L’intero processo è ovviamente condizionato conseguenza di azione terroristica, ma l’idea di impegnarla da quanto sta accadendo sul campo, con un’operazione in in missioni militari in difesa degli approvvigionamenti aveva Afghanistan che, se fallisse, rischierebbe di essere il canto sollevato un certo numero di obiezioni. Diversi europei, in del cigno della Nato. La discussione finora ha glissato su un particolare, avevano fatto sapere di prediligere la via diploargomento fondamentale, la decisa revisione dei meccani- matica, piuttosto che affrontare nuove avventure militari smi di funzionamento della Nato, sempre più imbrigliata dal magari nell’Asia centrale o meridionale. Le discussioni in vincolo dell’unanimità e da un’espansione che ne riduce sia ambito Nato, che in ogni caso dimostrano l’esistenza della l’omogeneità politica che quella tecnica-operativa. Ormai questione, hanno una duplice natura. La prima è di carattere non è scorretto parlare di una Alleanza a più velocità, e pur- militare, focalizzata sull’esigenza di condurre una pianificatroppo sembra che la discussione sul Concetto Strategico zione tattica e logistica che consenta di assicurare, anche nel non scioglierà questi nodi gordiani. La conservazione da caso di attacco o taglio alle linee di rifornimento, stabilità e parte della Nato di una sua valenza e ruolo effettivo sul piano sicurezza agli stati membri e capacità operativa all’Alleanza. internazionale dipende dalla volontà di evitare di trasformar- Le opzioni in questo caso sono di carattere militare, e quinla in un doppione dell’Onu e dell’Osce, quest’ultima di fatto di almeno la fase di planning è d’obbligo. La seconda natugià irrilevante e sopravvissuta a se stessa. La ragion d’essere ra del problema focalizza invece le discussioni sul carattere della Nato consiste infatti nella sua mission legata a difesa e politico della minaccia, traendo origine dalla disputa tra sicurezza, basata sulla clausola di mutua difesa espressa l’Ucraina e la compagnia energetica russa Gazprom, connell’Articolo 5 del Trattato di Washington. La rilevanza di trollata dal Cremlino, iniziata nel gennaio 2006 e continuata tale clausola è oggi oggetto di discussione e reinterpretazio- fino ad ora. Già nel febbraio 2006 il segretario generale della ne. Appare ovvio, infatti, come i nuovi membri siano stati Nato decideva di porre l’argomento in agenda, ma il tema, accolti un po’ troppo precipitosamente, avendo essi aderito anche a causa della sua duplice natura, non ha sinora perprincipalmente perché attratti dal presupposto, in verità non messo di raggiungere il consenso sul ruolo che l’Alleanza scontato, di un intervento militare collettivo in caso di debba svolgere, se lo debba effettivamente svolgere e, in aggressione. L’Articolo 5 non è in realtà passato di moda, alternativa, “chi” invece lo dovrebbe svolgere. L’allusione soprattutto se ne verrà accolta una nozione estensiva, sia alle ritrosie dell’Ue è evidente. Al vertice di Riga del novempure non così ampia da ricomprendere, ad esempio, anche bre 2006, dove per la prima volta si scrive in un documento l’eventualità di attacchi terroristici “tradizionali”. Anzi, se si ufficiale Nato che quello della sicurezza energetica è un considera un orizzonte a 10, 20 anni, l’Articolo 5 potrebbe argomento che effettivamente preoccupa, si dà mandato alla tornare d’attualità anche solo nella sua interpretazione più stessa Alleanza di esplorare le specificità del proprio ruolo in limitativa e ortodossa. Certo è che, in assenza di una minac- materia. In particolare si afferma che «gli interessi di sicurez46


il rapporto za dell’Alleanza potrebbero essere compromessi dall’interruzione del flusso delle risorse vitali. Uno sforzo internazionale coordinato per valutare i rischi alle infrastrutture energetiche e promuovere la loro sicurezza va quindi condiviso. Il Consiglio permanente si confronterà quindi sui rischi immediati, al fine di comprendere e definire dove la Nato possa aggiungere valore per salvaguardare la sicurezza degli interessi alleati e, su richiesta, fornire assistenza agli sforzi nazionali e internazionali». Non è molto, e il poco che c’è non brilla certo per chiarezza. Ma tre anni di discussioni e di duelli al fioretto con la “controparte” europea non hanno prodotto granché, se al successivo summit di Bucarest nel 2008 era stato confermato lo stesso approccio, più o meno con le stesse frasi del comunicato di Riga. In altre parole, non vengono prese in considerazione operazioni militari per la tutela dell’energia, ma piuttosto un ruolo che faccia premio su quello militare attraverso contributi alla difesa civile. La discussione sul nuovo Concetto Strategico a questo punto dovrebbe includere, in riferimento alla sicurezza energetica, la ricerca di una linea d’azione comune tra Ue e Nato, magari coinvolgendo anche la Russia. Altrimenti, si rischia che la variabilità incontrollata dei prezzi e delle disponibilità delle cosiddette commodities raggiunga valori in grado di provocare varianti nel sistema delle alleanze, nelle strategie e nei comportamenti degli Stati. In altre parole, la variabile energia condiziona l’evolversi delle alleanze “a fedeltà variabili” accennate nel primo capitolo. Secondo alcuni, stiamo entrando in un nuovo assetto geopolitico globale post-Yalta, dove i vincitori saranno i paesi che esportano energia e i perdenti coloro che la importano. Ma tra gli esportatori i veri vincitori, sia sotto il profilo politico che economico, sono quelli energeticamente autosufficienti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, che possono così continuare a prosperare e influenzare il sistema economico globale. Viceversa, i veri perdenti sono coloro che non esportano energia, non la producono per sé, sono costretti ad importarla e sono allo stesso tempo dotati di un’economia largamente industrializzata con alti consumi energetici. Paesi insomma come l’Italia e molti membri dell’Ue, come la Corea del Sud e il Giappone, come diverranno gradualmente la Cina e l’India se continueranno la loro espansione industriale. In questo quadro la Russia economicamente si

salva e prospera, perché è autosufficiente e può continuare a esportare petrolio e gas naturale accumulando ricchezza. Di conseguenza, quella parte dell’Europa che è russo-dipendente dal punto di vista energetico rischia di diventarlo anche politicamente. Gli Stati Uniti producono energia, e se lo decidessero potrebbero anche essere autosufficienti. L’Iran invece, al contrario dei paesi arabi del Golfo, non è autosufficiente, è costretto a importare petrolio raffinato, ma deve continuare a esportare il grezzo non avendo diversificato la propria economia. In altre parole l’Iran è sul filo del rasoio, e se continua la sua industrializzazione finisce nel gruppo dei perdenti costretti a importare energia. Sono questi i pezzi principali di un puzzle energetico che dimostra in prospettiva la rilevanza geopolitica dell’energia, e fa apparire quindi fuori luogo il buonismo europeo. Capacità militari e deterrenza nucleare Nell’elaborazione del nuovo Concetto Strategico, la Nato dovrebbe anche affrontare problemi concreti proprio nel suo core business, in particolare lo sviluppo di capacità effettivamente impiegabili per fronteggiare reali esigenze militari e di sicurezza. Dovrebbe anche dotarsi di una organizzazione operativa e di comando che sia meno costosa, elefantiaca e burocratizzata, che possa quindi rispondere alle nuove sfide. Prima ancora di discutere su quali capacità servono, occorre cioè una riforma profonda della struttura organizzativa, considerato che l’operazione di “snellimento” procede troppo lentamente ed è controbilanciata dalla spinta a “trovare un posto a tavola” per i nuovi entrati o per il “figliol prodigo”, la Francia ritornata nella organizzazione militare integrata. I paesi membri della Nato continuano a competere per ottenere comandi ed incarichi, ma quando ci si sposta da questo gioco di potere alla più concreta tematica della pianificazione, creazione e sostegno delle forze, tutti fanno rapidamente un passo indietro. Questo fenomeno tocca direttamente un altro tema critico: quello del burden sharing. Per lustri, il “leit motiv” delle critiche americane agli alleati europei è stata l’accusa di spendere poco e male. È anche vero che gli Stati Uniti sono stati spesso maestri nel sopravvalutare l’importanza delle proprie scelte e priorità negli investimenti militari, negando il valore di quelle altrui, salvo poi fare qualche marcia indietro alla prova dei fatti. A pre47


Risk scindere da questo aspetto, una nuova accezione del “burden sharing” non può che portare a discutere quale è il contributo effettivo alla sicurezza collettiva fornito da ciascuno stato membro. Troppo spesso si è sottaciuto che la politica delle “porte aperte” ha portato nella Nato paesi che si sono dimostrati assoluti “consumatori” di sicurezza prodotta da altri, e che non sono disponibili a investimenti adeguati nelle loro forze armate per contribuire alla sicurezza collettiva. Anzi, appena superato l’esame di ammissione al club atlantico, alcuni paesi si sono affrettati a tagliare i bilanci militari, ben contenti che qualcun altro se ne facesse carico, preferendo così delegare alla solidarietà alleata il soddisfacimento dei propri bisogni. Questo è accaduto anche nel caso di paesi che hanno ancora aperti contenziosi con i propri vicini, che automaticamente coinvolgono quindi l’intera Alleanza. Alcuni nuovi membri hanno persino chiesto alla Nato non solo di difendere, ma anche di sorvegliare e pattugliare i propri spazi aerei, per anni, senza offrire quasi nulla in cambio. La Nato, pertanto, dovrebbe stabilire livelli minimi di contribuzione che un eventuale nuovo membro deve soddisfare e sottoscrivere prima di essere preso in considerazione, e che gli attuali membri devono rispettare per evitare che la loro stessa membership venga in qualche modo messa in discussione. In questa ottica, occorrerebbe anche una discussione aperta, non ideologizzata, su quale possa essere il ruolo dei contractor e quanto si possa far uso della esternalizzazione per alcuni servizi in caso di operazioni militari, consentendo così ai paesi membri che non vogliono mandare mezzi e uomini in teatro di contribuire almeno a livello finanziario pagando la suddetta esternalizzazione. Infine, la Nato dovrebbe anche determinare criteri base di interoperabilità tra le forze e impedire che si verifichino nuovi costosi sprechi e duplicazioni, come ad esempio sta avvenendo in campo terrestre con la pletora di programmi “Soldato futuro”, tutti rigorosamente condotti a livello nazionale e quindi destinati a creare problemi non indifferenti di coordinamento operativo ed intelligence. Il punto cruciale è l’effettiva messa a disposizione delle capacità militari necessarie. La Nato ha più volte compilato diligentemente liste di capacità che i paesi membri avrebbero dovuto sviluppare. In genere liste stilate a Washington e sottoscritte senza troppo dibattito dagli alleati europei, per poi rimanere in larga misura lettera 48

morta. A volte tale inadempienza si è rivelata fortunata, come nel caso dell’obiettivo delle forze piccole e “leggere” e della corsa all’hi-tech esasperato ma poco finalizzato, tipici della prima amministrazione Bush. Infatti, forze “magre” e supertecnologiche, proiettabili in pochi giorni ovunque nel mondo senza bisogno di basi avanzate, si sono dimostrate finora fallimentari. Al contrario, uno dei campi dove la Nato ha fatto enormi passi avanti è stato quello dell’armamento di precisione, mentre grandi progressi sono stati compiuti con la riscoperta delle capacità Cbrn (Chemical Biological Radiological Nuclear). Tuttavia l’Alleanza non è riuscita a dotarsi di altre capacità cruciali, a partire da quelle di trasporto strategico, mentre l’appesantimento progressivo delle forze rende ora impossibile quello che già sarebbe stato difficile anni fa. Servono ovviamente basi avanzate, galleggianti, fisse, magari temporanee, ma vicine alle possibili zone operative. La Nato, e non solo i singoli paesi, dovrebbe cercare di preparare queste basi avanzate se vuole operare fuori dall’area transatlantica. La Nato dovrebbe anche dotarsi di effettive capacità di counter-insurgency piuttosto che concentrarsi su un futuribile assetto di forze ipertecnologiche, considerate le difficoltà attuali in Afghanistan nel fronteggiare guerriglieri tanto numerosi e coriacei quanto privi mezzi militari tecnicamente avanzati. La Nato dovrebbe certamente essere in grado di condurre operazioni full spectrum, ma senza fissarsi soltanto sulle operazioni di guerra ad alta intensità e breve durata. Considerato il caso afgano, e in una certa misura quello balcanico, operazioni di lunga durata e bassa intensità sono e saranno anzi le più probabili. Per condurre questo genere di operazioni occorrerà anche rivedere l’equilibrio quantità-qualità oggi spostato troppo sulla qualità. In altre parole, bisogna riflettere se abbia senso acquistare pochi mezzi estremamente costosi perché ipertecnologici o sistemi più economici e quindi acquistabili ed operabili da tutti e in buon numero. Ad esempio, non è possibile che la Nato sia costretta ad elemosinare elicotteri Mi-8 o Mi-17 dai nuovi soci dell’Est per far fronte alla mancanza di assetti ad ala rotante. Altro capitolo spinoso è quello delle capacità “comuni”, campo dove fino ad oggi la Nato ha predicato molto e realizzato poco: la forza Aew, il programma-dimezzato Ags, quattro aerei da trasporto strategico in pool, la rate di difesa aerea, e basta. Questo settore deve


il rapporto crescere, perché il pooling o meglio ancora l’acquisto e gestione congiunta di sistemi d’arma è il solo modo per ottenere quello che serve alla Nato. Ad esempio, la difesa antimissile è una delle capacità che non può essere conseguita a livello nazionale, se non dagli Stati Uniti. La decisione di Obama di convertire l’elemento europeo dello scudo americano antimissile, rinunciando agli intercettori bistadio contro missili Icbm per adottare più piccoli, ma forse più utili missili SM-3 basati a terra, oltre a favorire una distensione con Mosca, ripropone il tema della difesa antimissile a livello Nato. Infatti, lo scudo ridimensionato idealmente potrebbe diventare assetto Nato o Nato-connesso. Tanto più che gli stessi missili saranno imbarcati su unità navali statunitensi, ma presto anche europee - e a questo proposito è lecito chiedersi cosa farà l’Italia - considerata la continua situazione di stallo del programma Meads, del quale, in ogni caso, è prevista l’acquisizione di solo poche unità. In conclusione, le considerazioni sulle capacità militari convenzionali, sul burden sharing e sui costi dovrebbero portare al rilancio della specializzazione nazionale, con la sottoscrizione da parte di ciascun membro di almeno qualche capacità specifica di qualità accettabile, abbandonando la pratica delle capacità “di carta”, promesse, dichiarate, ma di fatto inesistenti. In quest’ottica, va anche considerata la questione nucleare. La credibilità dissuasiva dell’Alleanza rimane essenziale, anche in questo quadro mutato di rischi e minacce. Essa dovrà necessariamente poggiare in modo crescente sulle capacità convenzionali alleate, ma lo spettro dei rischi e delle minacce non consente di sottovalutare o dimenticare la dimensione nucleare, che tanto fu importante e centrale negli anni della Guerra Fredda. Oggi, a parte le forze nucleari nazionali americane, britanniche e francesi (che rimangono comunque scollegate dalla Nato, malgrado il reingresso a pieno titolo della Francia nell’Organizzazione), le uniche forze nucleari alleate presenti in Europa sono poche centinaia di testate (probabilmente circa 200, altri dicono circa 400) montate su bombe d’aereo. Tali sistemi d’arma hanno però crescenti problemi di credibilità e di logica d’impiego, sia perché sono profondamente mutati gli scenari strategici, sia perché sono collegate a vettori aerei e non missilistici, sia perché sono vulnerabili ad attacchi di sorpresa. La loro prontezza operativa, che negli anni Ottanta

veniva misurata in termini di minuti, è stata progressivamente ridotta, a partire dal 1995, ed è ora misurata in termini di mesi. Non stupisce quindi che aumentino le spinte volte a ritirare dall’Europa questi ordigni. Una tale richiesta è ad esempio contenuta nel programma di governo approvato dalla nuova coalizione democristiano-liberale tedesca. Opinioni in questo senso sono frequentemente espresse anche negli Stati Uniti, a volte collegando una tale mossa alla conclusione di un nuovo accordo di controllo degli

Nel dibattito euro-atlantico ci si riferisce sempre più frequentemente a “rischi” piuttosto che a “minacce”, essendo i primi, per natura, molto meno prevedibili, visibili e quantificabili delle seconde. Allo stesso tempo, l’Italia è un “paese soglia” che, per restare nel gruppo di testa europeo, deve impegnarsi con decisione armamenti nucleari tra Washington e Mosca. In questo senso si era espresso anche, alcuni anni or sono, il generale James L. Jones, attuale Consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente Obama. Di fatto, le armi nucleari “tattiche” americane presenti in Europa sembrano avviarsi verso una inevitabile obsolescenza strategica e tecnica che provocherà inevitabilmente, a più o meno breve termine, il loro ritiro. Esso sembra stia silenziosamente avvenendo già ora, con la progressiva chiusura, accorpamento e riduzione di alcuni dei siti di stoccaggio delle armi, il cui numero viene stimato in continua riduzione. Come si riorganizzerà, in tal caso, la dissuasione alleata? Due sono i problemi principali. Il primo, più tradizionale, consiste nel garantire la credibilità della extended deterrence americana a copertura degli alleati non nucleari europei, 49


Risk anche in assenza del cosiddetto “grilletto nucleare” assicurato tradizionalmente da queste armi nucleari “tattiche”. Il secondo, forse anche più importante, come garantire una dissuasione efficace delle nuove minacce “eccentriche” provocate dalle proliferazione nucleare (e missilistica) e dalla minaccia di armi di distruzione di massa in mano ad organizzazioni criminali o terroristiche. Così ad esempio, un contemporaneo rapido ritiro delle armi nucleari americane dal territorio di un paese particolarmente esposto a tali minacce “asimmetriche”, come la Turchia, e lo sviluppo di una capacità nucleare militare in Iran, ed eventualmente anche in altri paesi del Medio Oriente, creerebbe un grave vuoto strategico e potrebbe portare ad una ulteriore frammentazione dell’Alleanza. Considerazioni simili valgono anche per l’Italia. Una risposta parziale a tale problema dipenderà probabilmente anche dalla capacità di sostenere efficacemente una politica comune di non proliferazione, controllo degli armamenti e disarmo. Tuttavia, perché essa sia pienamente credibile, è necessario che venga accompagnata da una riformulazione e riaffermazione della strategia dissuasiva alleata, sia sul piano dottrinale che delle capacità effettivamente rese disponibili. Conclusioni Come evidenziato nei precedenti capitoli, nel contesto strategico attuale domina l’incertezza e i mutamenti accadono rapidamente. Non a caso nel dibattito euro-atlantico ci si riferisce sempre più frequentemente a “rischi” piuttosto che a “minacce”, essendo i primi, per natura, molto meno prevedibili, visibili e quantificabili delle seconde. Allo stesso tempo, l’Italia è un “paese soglia” tra i paesi di maggiore rilievo internazionale che, per restare nel gruppo di testa europeo ed occidentale, deve impegnarsi con decisione sul piano internazionale. Infatti, un ripiegamento sul piano degli impegni internazionali avrebbe più effetti negativi che positivi, in particolare sulla capacità italiana di difendere gli interessi nazionali nei fori internazionali che contano. Atlantismo ed Europeismo costituiscono dal secondo dopoguerra le linee guida fondamentali della politica estera italiana. Oggi, seguire queste due direttrici tradizionali significa adoperarsi in ambito euro-atlantico perché Nato e Ue/Pesd si rafforzino vicendevolmente. Più che ad una divisione dei 50

ruoli, che resterebbe largamente teorica e potrebbe creare continui conflitti di competenza e turf wars tra le due organizzazioni, è necessario lavorare sull’ipotesi di un crescente contributo dell’Ue alle missioni di stabilizzazione e di pace, ottenendo in cambio una crescente accettazione del quadro di riferimento multilaterale della Nato, da parte degli Stati Uniti, per la gestione delle crisi di interesse comune. Di fatto è possibile che, da un punto di vista funzionale, conflitti a più alta intensità e operazioni di controguerriglia vedano soprattutto una leadership americana e Nato, mentre operazioni di peace-enforcing, peace-keeping, e state-building vedano un maggiore impegno ed una leadership europea, ma eccezioni restano sempre possibili, ad esempio in Africa o là dove condizioni politiche particolari potrebbero sconsigliare un eccessiva presenza americana. Un approccio del genere comporterebbe diversi vantaggi per l’Europa e per l’Italia in particolare. In primo luogo, contribuirebbe a porre termine ad una sterile contrapposizione tra Ue e Nato, che tra l’altro non risulta molto sensata visto che due dozzine di paesi europei sono membri di entrambe le organizzazioni. In secondo luogo, rafforzerebbe la rispettiva efficacia delle due organizzazioni, alimentando tra le altre cose una crescita del contributo europeo alle operazioni comuni come richiesto dagli americani. La terza conseguenza positiva sarebbe il risparmio di risorse nazionali grazie al rifiuto di inutili duplicazioni di assetti. Infine, l’Italia vedrebbe accresciuto il suo peso sia nella Nato che nell’Ue essendo membro attivo di entrambi i frameworks, vis-à-vis altri paesi euro-atlantici attivi in uno solo o in nessuno dei due. Perché questo si realizzi, tuttavia, sarà necessario affrontare con decisione il problema della progressiva perdita di coesione e di solidarietà che affligge l’Alleanza Atlantica da quando l’evoluzione del quadro della minaccia ha traformato le fondamenta stesse del consenso transatlantico sulla cui base era stato concepito il Trattato di Washington del 1949. Il complesso dibattito in corso sulla definizione di un nuovo “concetto strategico” dell’Alleanza dovrà quindi abbandonare la facile retorica di una “continuità” che è ormai più apparenza che sostanza, per concentrarsi sulla individuazione di quei ruoli e di quei compiti che potranno effettivamente essere svolti dall’Organizzazione e che corrispondano ad un forte consenso tra gli alleati (in particolare tra europei ed americani). Un tema


il rapporto molto discusso, collegato all’evoluzione della Nato, è quello della sicurezza energetica. L’Italia, come del resto l’insieme dei paesi dell’Unione Europea, dipendono per la loro energia, in misura crescente, dalle importazioni in provenienza per lo più dal Nord Africa, dal Medio Oriente e dalla Russia. Queste ultime in particolare sono state oggetto di valutazioni diverse, tra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei, ponendo sul tavolo il problema del ruolo e dell’influenza della Russia in Europa, oggi ed in prospettiva. La dipendenza può e deve essere affrontata nel medio periodo attraverso la diversificazione sia delle fonti di energia, ad esempio con lo sviluppo in Italia del nucleare, sia dei fornitori di energia affiancando a partner tradizionali come la Russia e la Libia altri paesi dell’Asia Centrale, del Caucaso e del Medio Oriente. È però evidente come la questione della dipendenza dalle importazioni energetiche (che del resto riguarda sempre più anche gli Stati Uniti) oltre ad essere un potenziale fattore di vulnerabilità dei nostri paesi, può facilmente elevarsi a livello di difficile contenzioso politico-strategico ed economico e provocare gravi frammentazioni del consenso alleato. Per l’Italia, fare i conti con la dipendenza energetica in ambito Nato vuol dire anche evitare che la sicurezza energetica sia affrontata in termini di contrapposizione politicomilitare. Un tale approccio infatti, oltre ad essere molto poco efficace in termini di garanzia della sicurezza energetica complessiva, potrebbe facilmente inasprire i rapporti tra Mosca e i paesi europei, e metterebbe l’Italia ed altri alleati in una posizione difficilmente sostenibile, fragilizzandone la sicurezza energetica senza chiare contropartite. Lo stesso mantenimento del consenso transatlantico, quindi, suggerisce la necessità di puntare (anche grazie ai nuovi strumenti garantiti dal Trattato di Lisbona) ad una più coerente ed efficace politica comune della Ue per la sicurezza energetica, con tre obiettivi: stabilire una cornice legale internazionale con la Russia per evitare interruzioni improvvise di forniture energetica, usate e usabili da parte del Cremlino anche come arma politica; rafforzare l’interdipendenza della rete energetica europea e quindi la sua capacità di supplire a improvvise sospensioni di approvvigionamenti esterni; sostenere la diversificazione delle fonti energetiche, dal nucleare alle energie rinnovabili, e dei fornitori di energia, contribuendo ai fondi per le relative infrastrutture. Riguardo

al rapporto con la Russia, occorre ricalibrare la politica alleata nei confronti della più importante potenza regionale ai confini della Nato. In primo luogo, occorre riaffermare che non sono tollerati ricatti o intimidazioni da parte russa contro i paesi dell’Europa orientale membri dell’Alleanza, i quali anzi vanno rassicurati sulla indivisibilità della sicurezza collettiva. Altrettanto chiaramente va ribadito che un ulteriore espansione della Nato verso est, ad esempio includendo Ucraina e Georgia, non può essere soggetta a veti russi. Allo stesso tempo però l’adesione di tali paesi deve essere attentamente valutata, alla luce sia della loro capacità di contribuire alla sicurezza collettiva che della effettiva volontà politica ucraina o georgiana, e del relativo sostegno popolare, all’ingresso nell’Alleanza. In quest’ottica, piuttosto che affrontare prematuramente la questione della membership di Kiev e Tbilisi è più utile ed opportuno sviluppare con i due paesi delle partnership rafforzate, estese e calibrate sulle rispettive realtà nazionali. L’Italia e i paesi membri dovrebbero inoltre lavorare per rilanciare il partenariato NatoRussia iniziato con l’accordo di Pratica di Mare. Un tema su cui la cooperazione pan-europea è possibile, oltre che necessaria, è il Trattato sulle Forze Convenzionali in Europa, al momento in una sorta di limbo giuridico e che andrebbe invece sottoscritto e implementato da tutte le parti in causa per fornire una solida base giuridica alla sicurezza europea. Per la Nato la questione non è una priorità come l’Afghanistan, ma per la Russia è importante anche perché costituisce un formale riconoscimento del suo rango di grande potenza. L’Italia ha un interesse strategico nell’avanzamento della cooperazione Nato-Russia non solo per il generale beneficio per la sicurezza europea, ma anche a causa della sua attuale situazione di dipendenza energetica dalla Federazione Russa. Allo stesso tempo però è interesse dell’Italia non apparire agli occhi degli Alleati, in primis degli Stati Uniti, come un partner inaffidabile quando si tratta dei rapporti con Mosca proprio a causa della suddetta dipendenze energetica. Perciò, l’Italia dovrebbe lavorare ad un approccio Nato verso la Federazione Russa che contempli sia una mano tesa su determinate questioni sia una ferma opposizione su altre. In altre parole, saper dire dei “no” quando è necessario aumenterebbe la credibilità dell’Italia e in generale della Nato, e accrescerebbe l’importanza e il 51



il rapporto valore dei “si” detti su altri temi. In merito all’estensione della membership Nato al di fuori dell’Europa, discussa nel secondo capitolo, occorre essere coscienti che essa richiederebbe una modifica dell’Art.10 del Trattato di Washington. Ciò appare non solo improbabile ma anche pericoloso, poiché aprirebbe una complessa serie di ratifiche e difficilmente potrebbe limitarsi al solo Art.10. L’allargamento di cui si discute riguarderebbe democrazie come l’Australia, il Giappone, l’India, la Nuova Zelanda, ma includere questi paesi significa anche importare altri problemi nella agenda Nato. La Nuova Zelanda ad esempio è già uscita di fatto dall’Anzus (Australia New Zealand United States Security Treaty) a causa dei contrasti con gli Stati Uniti sulla questione della possibile presenza di armamenti nucleari sulle navi americane nel Pacifico. L’Australia o il Giappone porrebbero altri problemi di estensione dell’area di riferimento del Patto Atlantico al Sud Est Asiatico, nonché di rapporti con la Cina. Inoltre il Giappone, secondo la lettura prevalente che i giapponesi danno della loro Costituzione, non potrebbe collaborare ad una difesa “collettiva”. Insomma, una Nato globale comporta una serie di problemi di cui l’Alleanza farebbe volentieri a meno. Non a caso, la Dichiarazione del Consiglio Nato sulla sicurezza atlantica dell’aprile 2009 afferma in proposito: «Nato’s door will remain open to all European democracies which share the values of our Alliance, which are willing and able to assume the responsibilities and obligations of membership, and whose inclusion can contribute to common security and stability». L’Italia dovrebbe continuare a sostenere pienamente questa impostazione, sia per i motivi precedentemente enunciati sia per uno specifico interesse nazionale. Infatti, con il passaggio in corso dal G8 al G20, la Nato rimane di fatto l’unico rilevante framework internazionale in cui sono presenti gli Stati Uniti, i paesi europei tra cui l’Italia, e quasi nessun altro: è perciò interesse dell’Italia mantenerlo tale, per intrattenere stretti rapporti con gli Stati Uniti godendo di un peso specifico apprezzabile considerato il suo impegno militare nelle missioni alleate, ed esercitandovi il suo ruolo senza la concorrenza altri grandi paesi come India, Giappone e Australia. Tuttavia, è vero che il raggio di azione della Nato va in qualche modo ampliato al di fuori dall’area transatlantica, perché se il mandato resta confinato alla

difesa dell’Europa l’Alleanza diventa progressivamente irrilevante sul piano internazionale. Per raggiungere questo obiettivo, e per ovviare al bisogno di basi avanzate o di contributi militari, economici o politici da parte di paesi alleati posti al di fuori dell’area transatlantica, la Nato dovrebbe rafforzare le partnership, sulla base di quelle attuali, con i paesi del Nord Africa, del Medio Oriente, dell’Asia, oltre ovviamente che con la Russia. Questo sembra essere il modo più efficace per avere caso per caso aiuti concreti in termini di finanziamenti, mezzi, truppe, personale civile, località per basi avanzate temporanee, diritto di transito aereo o terrestre, ecc. Inoltre, in questi paesi o regioni l’Italia ha interessi nazionali di sicurezza, economici o di altra natura, e attraverso la partnership Nato può rafforzare la sua influenza in loco. Tuttavia bisogna considerare che un tale sviluppo tende a far somigliare l’Alleanza piuttosto ad una coalizione: in altri termini, più ci si allontana dal “core” dei paesi coperti dagli Artt. 5 e 6 del Trattato di Washington, più si diluisce la solidarietà e si va verso formule di coalitions of the willing, che è poi grosso modo quello che sembra avvenire anche in Afghanistan. Ora, perché tali coalizioni funzionino e non riversino sulla Alleanza la loro variabilità politica e strategica, sarebbe necessario che esistesse un hard core Nato fortemente coerente e solidale, di dimensioni e natura transatlantica. Quanto al rapporto con l’Onu, il Trattato di Washington contiene già molti riferimenti alla Carta delle Nazioni Unite, e la Nato trae buona parte della sua legittimità dalla Carta stessa. Il che non significa che l’Alleanza non possa “interpretarla”, come è avvenuto con l’intervento in Kosovo del 1999 non autorizzato dal Consiglio di Sicurezza, ma certamente non può né ignorarla né sostituirla. Viceversa, la Nato può anche agire come braccio armato del Consiglio di Sicurezza, con reciproco beneficio, ma solo a condizione di poter scegliere autonomamente quando e dove farlo. L’operazione attualmente più importante per la Nato è di certo quella in Afghanistan, che si è trasformato progressivamente in un test cruciale senza che l’Alleanza abbia mai seriamente discusso quali erano i suoi obiettivi. La Nato si è così impegnata in una guerra antiguerriglia, unita ad una guerra antidroga, ad operazioni di state-building nel paese e ad operazioni per la stabilità regionale in Pakistan, senza però avervi dedicato le necessarie risorse. 53


Risk Anche l’Amministrazione Obama è indecisa su quale strategia adottare, e la cosa grave è che non sembra esservi una vera discussione congiunta, nella Nato e negli Stati Uniti, su ciò che si vuole o si deve fare in Afghanistan, mentre questa dovrebbe essere la premessa necessaria per il proseguimento degli sforzi alleati. Invece il quadro sembra essere formato da alleati europei incerti e poco disposti ad impegnarsi maggiormente nel teatro, e da americani impegnati in un ripensamento della strategia completamente autonomo. In tale contesto, l’Italia dovrebbe promuovere una proposta europea in ambito Nato, anche a partire dalla proposta del G8 di Trieste, che rispecchi sia la sensibilità e l’approccio italiano ed europeo alla missione, sia le risorse che l’Italia e l’Europa possono effettivamente mettere a disposizione. In questo modo, l’Italia contribuirebbe costruttivamente allo sforzo per non far fallire la missione alleata in Afghanistan, e nel fare ciò guadagnerebbe credibilità come membro attivo dell’Alleanza. Parallelamente alla definizione di una strategia condivisa, l’Italia dovrebbe completare la rimozione dei caveat che limitano l’efficacia del proprio contingente dispiegato sul terreno, e fornire mezzi e risorse adeguate per le operazioni in corso. Al contrario, un disimpegno unilaterale dell’Italia dall’Afghanistan non dovrebbe essere preso assolutamente in considerazione. Fare la propria parte nella missione contribuisce nella misura del possibile alla riuscita della stessa, e conferma e rafforza la affidabilità e la credibilità dell’Italia all’interno dell’Alleanza. Al contrario dell’Afghanistan, le missioni Nato nei Balcani sembrano essere riuscite nell’intento di pacificare la regione, e ora è in corso il passaggio di consegne all’Ue per la stabilizzazione dell’area. Si possono perciò considerare i Balcani un buon esempio di cooperazione tra Nato-Ue, da cui prendere spunto per il futuro. Sebbene la regione sia oggi considerata una preoccupazione minore da parte di Nato e Stati Uniti, l’Italia dovrebbe mantenere alta l’attenzione sui Balcani per evitare che un’area vicina e strategica per gli interessi italiani ricada in una situazione di conflitto, se necessario rafforzando e chiedendo alla Nato di rafforzare la presenza militare tempestivamente in caso di crisi. Venendo alle capacità militari dell’Alleanza, l’Italia in primo luogo dovrebbe fare la sua parte migliorando la capacità expeditionary e l’interoperabilità delle proprie forze armate. Al tempo stesso, l’Italia 54

dovrebbe lavorare in ambito Nato perché anche i partner europei lavorino in tal senso, perché se l’Europa non mette in campo risorse all’altezza della situazione diventa meno importante per gli Stati Uniti, che già stanno spostando la loro attenzione sulle potenze asiatiche. L’Italia dovrebbe inoltre lavorare sui requirements e le linee guida per il procurement Nato, affinché esso sia coerente con le minacce da affrontare, ad esempio rimediando alla scarsità di elicotteri e di mezzi per il trasporto strategico; sia condiviso e quindi implementato, evitando che ad accelerazione Americane ipertecnologiche e poco utili corrisponda l’inerzia europea; sia sostenibile per le nostre forze armate italiane e vantaggioso per l’industria nazionale, punti su cui ogni paese membro difende il proprio interesse nazionale. In generale, lo sviluppo delle capacità militari europee nella Nato dovrebbe anche essere armonizzato con i programmi in ambito Ue e gli sviluppi relativi al mercato interno. Infine, visto che i paesi dell’Europa orientale usufruiscono della sicurezza Nato, l’Italia dovrebbe fare pressione affinché facciano la loro parte quanto a investimenti in capacità militari. Alla luce della svolta di Obama sulla difesa antimissile, ovvero l’abbandono del piano di Bush a favore di intercettori a brevemedio raggio, posti su navi o su basi temporanee a coprire il fianco sud-est dell’Europa, si apre una opportunità per l’Italia. Infatti, il governo italiano dovrebbe cogliere l’occasione per promuovere un piano Nato di difesa anti-missile sui presupposti illustrati da Obama, anche mettendo a disposizione navi e basi italiane per gli intercettori. In questo modo, l’Italia contribuirebbe alla salvaguardia della sicurezza Europea dalla minaccia missilistica attraverso uno strumento che non irriterebbe inutilmente la Russia. Inoltre, in considerazione dell’impegno a mettere a disposizione le proprie basi, che presenta in ogni caso un certo rischio apprezzabile seppure non paragonabile al caso degli Euromissili negli anni ’80, l’Italia avrebbe un maggiore potere negoziale su altri tavoli in ambito Nato o altrove. Ad esempio, in merito al negoziato con l’Iran l’Italia potrebbe efficacemente sostenere che ospitando intercettori Nato contro la minaccia missilistica iraniana ha tutto il diritto di partecipare al negoziato “5+1”, che dovrebbe quindi diventare “5+2”. L’istallazione di sistemi di difesa anti-missile Nato in Italia tra l’altro incontrerebbe meno resistenza che in passa-


il rapporto to nell’opinione pubblica interna, grazie alla popolarità di cui gode Obama. A proposito di Obama e degli Stati Uniti, occorre considerare che la Nato rimane un framework sostanzialmente intergovernativo, quindi il rapporto bilaterale con il paese leader è fondamentale per ognuno degli alleati inclusa l’Italia. Si tratta qui di riconoscere un problema che di fatto, nella attuale situazione internazionale, costituisce un fattore di debolezza dell’Alleanza, tanto più grave perché non più moderato dall’esistenza di una precisa ed univoca minaccia prevalente sull’insieme degli alleati, come negli anni della Guerra Fredda. Oggi, la natura multi-bilaterale dell’Alleanza è un fattore di potenziale grave indebolimento della sua coerenza politica, della sua solidarietà interna e in ultima analisi della sua efficacia. Una possibile soluzione di questo dilemma è nella progressiva crescita di una politica comune europea di difesa e sicurezza, all’interno dell’Alleanza o pienamente compatibile con essa, che trasformi la natura multi-bilaterale di questa struttura in una realtà più multilaterale euro-americana. Non sarà però un processo né facile né rapido. Nel frattempo bisognerà accettare il fatto che, anche in un mondo multipolare, in cui gli Stati Uniti non fossero più egemoni solitari, quello americano resterebbe comunque per lungo tempo il polo più forte e importante. Soprattutto, l’Italia orbita più vicino al polo americano che a quello asiatico, è cioè sull’Atlantico che ha legami e interessi più importanti. Di conseguenza, l’Italia, pur restando fortemente impegnata sul piano europeo, dovrebbe costruire un rapporto bilaterale forte con la nuova amministrazione americana, e l’impegno italiano nella Nato, dai Balcani all’Afghanistan a una futura difesa antimissile, servirebbe anche a perseguire questo obiettivo strategico. D’altronde anche Londra, Parigi e Berlino puntano sul rispettivo rapporto bilaterale con Washington, basti pensare che ad annunciare pubblicamente il ballottaggio presidenziale in Afghanistan erano presenti, a fianco a Karzai a Kabul gli emissari di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia e non quello dell’Ue. Date queste regole del gioco e questi giocatori, anche l’Italia dovrebbe giocare la sua partita con determinazione. In questo senso, l’auspicabile impegno italiano per una strategia europea per l’Afghanistan, e per una efficace cooperazione Nato-Ue, è complementare e non

Stiamo entrando in un nuovo assetto geopolitico globale post-Yalta, dove i vincitori saranno i paesi che esportano energia e i perdenti coloro che la importano. Ma tra gli esportatori i veri vincitori, sono quelli energeticamente autosufficienti, come l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi sostitutivo dell’impegno per il rapporto bilaterale con gli Stati Uniti. I punti appena delineati dovrebbero essere discussi nell’ambito del dibattito sul nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza. Un altro punto da includere nell’agenda Nato è la protezione delle rotte commerciali marittime, particolarmente l’asse Mediterraneo-Mar RossoOceano Indiano dove l’Italia ha interessi economici e di sicurezza minacciati dalla pirateria. Occorrerebbe anche riflettere sull’inclusione della cyberwarfare tra le minacce considerate dall’Alleanza, poiché il cyber spazio sembra essere in prospettiva un’importante dimensione della sicurezza Alleata. In quest’ottica, il dilemma se aggiornare o riscrivere l’attuale Concetto Strategico è mal posto. Considerato infatti che una revisione dell’Art 5 non è realistica, il punto cruciale è se Stati Uniti ed Europa riescono a trovare un accordo sulla valutazione delle minacce e sulla strategia per affrontarle in un contesto strategico mutato e in cambiamento. Altro punto cruciale è l’articolazione di un nuovo accordo transatlantico basato sul fatto che gli Stati Uniti passino realmente da un approccio unilaterale ad uno multilaterale, e al tempo stesso gli europei mettano a disposizione risorse e volontà politica affinché tale multilateralismo sia efficace. Solo risolvendo questi due punti nodali, il nuovo Concetto Strategico potrà mettere in condizione la Nato di essere all’altezza delle sfide attuali e di continuare a preservare la sicurezza dell’Occidente. 55


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Economia, politica, cultura scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

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lo scacchiere

Unione Europea /tra carneadi e novità

istituzionali, la lezione di van rompuy e Ashton Bruxelles: ecco tutte le nuove regole del gioco DI ALESSANDRO MARRONE

Carneade, chi era costui? Questo avrebbero pensato Obama, Medvedev e Hu Jintao dei nuovi vertici dell’Unione Europea se avessero letto Manzoni. La fine del 2009 non ha certo visto l’emergere di nuovi alfieri sullo scacchiere europeo, tuttavia sarebbe riduttivo considerare l’assetto venuto fuori dal Trattato di Lisbona solo come un ricambio di pedine sulle caselle blu dell’Ue. La nomina del premier belga Van Rompuy a presidente del Consiglio Europeo, e soprattutto quella del Commissario britannico al commercio Catherine Ashton ad Alto Rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza (Ar), hanno deluso quanti auspicavano la scelta di leader esperti e conosciuti a livello internazionale per i vertici dell’Unione. Basti pensare che il predecessore della Ashton alla guida della Politica europea di sicurezza e 58

difesa (Pesd), peraltro con poteri assai minori di quelli dell’Ar, era il segretario uscente della Nato Javier Solana, per far risaltare l’incongruenza del curriculum della Ashton con il ruolo che andrà a ricoprire. La delusione sembra essere stata minore per la scelta di Van Rompuy, che è sembrata a molti tutto sommato in linea con il profilo del presidente del Consiglio che deve essere prima di tutto un abile chair in grado di mediare tra i 27 paesi membri. Dalle due nomine si possono trarre alcune lezioni, che danno anche un’indicazione sulle prospettive future dell’Ue o almeno della sua politica estera e di sicurezza. In primo luogo, è evidente che le nomine rispondono alla volontà dei principali governi europei di avere dei vertici dell’Unione di basso profilo, più inclini alla mediazione che alla leadership. Non è tanto un fatto di personalità, quanto il portato di una realtà spesso ignorata dagli euro-entusiasti: l’Ue è costituita da stati nazionali, disposti a cooperare quando serve, pronti a competere quando necessario, attenti a rinunciare a quote di sovranità nella misura in cui ciò è funzionale a un interesse comune e nazionale, come nel caso dell’Euro. In quest’ottica, appare naturale che Francia e Germania si accordino sul nome di un mediatore belga per presiedere un Consiglio


scacchiere

Europeo nel quale di fatto e di diritto, vedi il voto ponderato e le regole della maggioranza qualificata, alcuni stati pesano più di altri. Un mediatore peraltro affiancato da un Segretario Generale francese, Pierre de Boissieu. Tale realtà di fondo è mitigata dal ruolo della Commissione, del Parlamento Europeo, della Corte di Giustizia, dalla Banca Centrale Europea e delle altre istituzioni e agenzie che, in base ai Trattati, hanno competenza e autorità su importanti politiche dal mercato interno alla politica monetaria. La stessa realtà è invece poco o nulla intaccata in settori come la politica estera, di sicurezza e difesa, dove gli stati europei, in particolare quelli più grandi, sono stati bene attenti a mantenere le regole del gioco in un ambito puramente intergovernativo. Le nomine ai vertici dell’Ue hanno riconfermato questo stato di cose, lasciando presagire che rimarrà tale anche nel prossimo futuro nonostante i desiderata di federalisti e neo-funzionalisti. In altre parole, quando a maggio Obama sarà in Europa per il vertice bilaterale Usa-Ue, dopo aver incontrato la nuova trojka Van Rompuy-Barroso-Ashton dovrà fare un salto anche a Berlino, Londra, Parigi e Roma per sapere quanti saranno i soldati europei inviati in Afghanistan, e più in generale la posizione dei principali paesi del Vecchio Continente sulle priorità della sua agenda di politica estera. Niente di nuovo sotto il sole dunque? Non proprio. Le novità nell’evoluzione dell’Unione infatti non sembrano risiedere nelle persone scelte per rappresentarla, quando nelle potenzialità del Trattato di Lisbona finalmente entrato in vigore. In un’ottica di lungo periodo, un’ottica cioè che tiene ben presente come fino al 1992 l’integrazione

europea non comprendesse la politica estera e di sicurezza, il trattato fa importanti passi in avanti. Riguardo a questi due ambiti infatti molti commentatori hanno sottolineato l’importanza di innovazioni quali la personalità giuridica dell’Unione che supera la divisione in pilastri, le cooperazioni strutturate permanenti nel settore della difesa, la presidenza stabile del Consiglio Europeo, il “doppio cappello” dell’Alto Rappresentante che è anche vice-presidente della Commissione, l’istituzione del Servizio Europeo per l’Azione Esterna, l’inserimento nel Trattato dell’Agenzia Europea di Difesa, l’ampliamento delle missioni militari oltre quelle definite a Petersberg, la clausola di mutua assistenza e di solidarietà tra gli stati membri in caso rispettivamente di attacco militare e terrorista. Tutte queste novità rappresentano altrettante potenzialità per un migliore funzionamento dell’Unione e per un maggiore coordinamento, cooperazione e integrazione tra gli stati membri quanto a politica estera, di sicurezza e difesa. In quanto potenzialità, il loro tradursi in realtà dipenderà dalla volontà politica dei governi europei e dalla capacità dei nuovi vertici dell’Unione di essere qualcosa di più che semplici mediatori. 59


Risk

Africa/ la piaga dell’aids decima il continente Solo nel 2008 2 milioni di morti e 33 milioni di contagiati DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

uove speranze e nuovi timori sono emersi dalla pubblicazione del rapporto 2009 Aids epidemic update di Unaids (il programma della Nazioni Unite su Hiv/Aids) e Oms. Per quanto il numero dei sieropositivi sia aumentato da 29 milioni nel 2001 a 33 milioni nel 2008, l’informazione e la prevenzione - almeno nei paesi industrializzati - hanno permesso di frenare l’espandersi dell’epidemia, l’accesso alle cure ha poi reso possibili dei tempi più lunghi di sopravvivenza. Quello che lascia riflettere è che su questi 33 milioni di persone che vivono con il virus dell’Hiv, oltre 22 milioni sono in Africa sub-sahariana; su 2,7 milioni di nuovi infetti, circa 1,9 milioni sono nel “continente maledetto”; dei 2 milioni di decessi dovuti all’Aids nel 2008, orientativamente 1,4 milioni si sono registrati nella vasta regione al di sotto del Sahara. Se è vero che tali dati diminuiscono di gran lunga nella regione maghrebina, l’Africa resta il continente dei tristi primati e questo collegato all’Aids è uno dei più gravi, perché mette a serio rischio il suo futuro, prendendo di mira in particolare le giovani generazioni ed il genere femminile. Questi sono i due “gruppi vulnerabili”, danneggiati direttamente e indirettamente. I dati sono agghiaccianti: nell’area in esame, 390 mila bambini sono stati contagiati nell’anno di riferimento (cifra pari al 91% della stima mondiale riguardante i minori di 15 anni), più di 14 milioni di essi hanno perduto uno o entrambi i genitori; le giovani donne tra i 15 ed i 19 anni sono colpite il doppio o il quadruplo (a seconda dei paesi) rispetto ai ragazzi della stessa età, ma se si estende il range dell’esame fino a 24 anni nella regione australe dove risultano esposte a rischio tre volte in più dei loro coetanei; le divorziate o le vedove dimostrano un tasso di infezione più alto delle single o delle maritate, in Tanzania il 27% delle vedove (1 su 4) vive con il virus dell’Hiv, rispetto al 2% delle nubili o al 6% delle sposate. Non si pensi tuttavia che quella dell’Aids sia una piaga a senso unico, perché ad essa non riescono a sottrarsi neanche gli uomini. Per loro si

N

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potrebbero ricordare i costi delle prestazioni omosessuali oppure lo stile di vita nelle prigioni o ancora gli scambi di siringhe non sterilizzate, sia per uso di droghe che per la pratica dei tatuaggi. Preoccupante poi il dato che riguarda i contagi nelle Forze armate nazionali, parte essenziale della sicurezza di uno Stato. I dati più allarmanti si registrano sicuramente nella regione australe, dove Swaziland, Botswana, Lesotho e Sud Africa hanno il più alto numero di sieropositivi. Sarebbero oltre 5,7 milioni i soggetti colpiti da Hiv nella patria di Nelson Mandela, si parla di tassi pari al 24%25% per i paesi confinanti. Segnali positivi pervengono dalle aree orientali dove le cifre si sono stabilizzate e in alcuni casi sono in diminuzione. In Uganda, ad esempio, hanno avuto successo non solo le terapie mediche ma anche le campagne politiche che hanno proposto lo slogan dell’Abc (Abstinence, Being faithfull, Condom). Per frenare quest’emergenza silenziosa che sta decimando le risorse umane, sarebbero opportune politiche sanitarie chiare, capaci di mettere a sistema fondi nazionali e internazionali, pronti a coinvolgere le industrie farmaceutiche locali e non. Sarebbe auspicabile un approccio globale, che renda corresponsabili altri soggetti: la stampa, la scuola, i capi delle comunità locali, le organizzazioni non governative, il mondo della ricerca. Linee governative efficienti senza adeguati fondi internazionali sarebbero scarsamente produttive, come d’altra parte non porterebbero a nessun risultato soddisfacente investimenti di miliardi di dollari devoluti dai grandi organismi internazionali senza una presa di coscienza delle leadership africane. Come le cause della malattia sono complesse, altrettanto devono esserlo le risposte. È necessario un mix composto di soluzioni pragmatiche di breve periodo e di risposte a lungo termine. Sarebbe ingiusto negare i segnali positivi degli ultimi anni: c’è l’impegno finanziario dell’Onu e delle agenzie specializzate, del G8, dei grandi attori internazionali e anche i governi africani più restii ad impegnarsi iniziano a dare riscontri positivi. Il primo passo è stato compiuto ma il percorso è lungo.


scacchiere

America latina/in bilico tutte le alleanze usa Sempre più confusa la politica emisferica dell’amministrazione Obama DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

e diverse vie d’uscita dalla crisi politica in Honduras, l’accordo per l’utilizzo delle basi militari colombiane da parte delle Forze Armate statunitensi e le recenti prese di posizione di Brasile, Venezuela, Bolivia nei confronti del governo iraniano di Ahmadinejad rappresentano i principali teatri su cui si stanno giocando le relazioni tra l’Amministrazione Obama e i governi dell’America Latina. Durante i primi mesi dell’anno, Obama aveva cercato di segnare una discontinuità rispetto al suo predecessore. Il messaggio è stato chiaro: laddove sono in gioco interessi strategici Usa, l’Amministrazione è pronta ad assumersi tutte le responsabilità. È questo il caso del narcotraffico e della violenza in Messico, Colombia e nei Paesi centroamericani. Quando le questioni hanno minore importanza, la Casa Bianca mantiene un atteggiamento di dialogo e ascolto, articolando le relazioni con sub-gruppi di Paesi anziché in via bilaterale. In coerenza con questa logica, fin da subito Obama ha coltivato la relazione strategica con il presidente messicano Calderón, mentre flirtava con il presidente brasiliano Lula per accreditarsi in America meridionale. Anche le aperture unilaterali nei confronti di Cuba sulle rimesse e i viaggi dei familiari erano un gesto unilaterale di buona volontà. Nel frattempo, tuttavia, la crisi economica assorbiva gran parte delle risorse politiche e finanziarie, e l’opposizione repubblicana bloccava la nomina del nuovo Segretario di Stato Aggiunto per gli affari emisferici - Arturo Valenzuela - e quella dell’ambasciatore a Brasilia - Thomas Shannon -, rendendo così difficile per la Casa Bianca impostare una politica continentale rinnovata. Il primo vero test è stato la crisi scoppiata in Honduras il 28 giugno scorso. In quell’occasione, Obama e Hillary Clinton hanno optato per allinearsi con i governi regionali e l’Organizzazione degli Stati Americani (Oea), condannando il golpe e chiedendo l’immediato ritorno al potere di Manuel Zelaya. Ciò che è successo dopo è cosa nota: Micheletti ha resistito ma

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Zelaya è rientrato a Tegucigalpa il 21 settembre con l’appoggio del governo brasiliano e si è rifugiato nell’ambasciata del Brasile. Per il governo Lula si trattava di un’occasione importante per misurare la propria influenza al di fuori dei confini dell’America meridionale. Ne è seguita però una situazione di stallo, sbloccata solamente con l’invio di una missione statunitense. Falliti i tentativi di ristabilire lo status quo antecedente il golpe, la regione si è divisa tra i governi che hanno riconosciuto il voto honduregno - Stati Uniti, Colombia, Perù, Costa Rica, Panama e quelli che invece hanno difeso ad oltranza le posizioni di Zelaya, con Venezuela e Brasile in testa. Altri eventi aumentano la distanza dell’Amministrazione dal Brasile e altri attori sudamericani. Il primo riguarda la questione delle basi militari colombiane e il loro utilizzo da parte delle Forze Armate Usa in operazioni antinarcotici. In questo caso, il Brasile è stato, con il Venezuela di Chávez, tra i più accesi critici dell’accordo. Poi Lula ha ospitato Ahmadinejad, riconoscendo il diritto dell’Iran a sviluppare un programma nucleare. Infine, mentre invoca sanzioni contro l’Honduras, Lula è tra i più attivi promotori della richiesta di eliminare le sanzioni contro Cuba. Questi fatti confermano una certa radicalizzazione della politica estera brasiliana. Per alcuni si tratta di una strategia per ottenere un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza Onu. È però probabile che inizino a pesare anche ragioni di politica interna. La candidata del governo Dilma Rousseff è infatti in affanno nella corsa alle elezioni dell’ottobre 2010 rispetto a José Serra, governatore dello Stato di San Paolo. Proprio mentre sul fronte economico il gigante sudamericano ha imboccato con decisione la strada della ripresa, parrebbe che il governo Lula stia cercando di garantire il voto della sinistra più radicale alla Rousseff. È in quest’ottica che si collocano le frizioni con l’Amministrazione Obama. Se questa tendenza dovesse confermarsi nel 2010, non sarà facile per il governo statunitense realizzare la promessa di una nuova era nelle relazioni emisferiche. 61


La storia

B

DA “EXODUS” A “LEBANON”: QUANDO IL CINEMA FA LA PACE

a’aria, di Giuseppe Tornatore, è stato il grande sconfitto alla 66a edizione del Festival internazionale del cinema di Venezia. L’11 settembre scorso la giuria, presieduta dal regista taiwanese Ang Lee (1954), vincitore delle edizioni 2005 e 2007 con Brokeback Mountain (sul rapporto omosessuale tra due cowboy) e Lussuria (sulla resistenza antigiapponese a Shanghai), ha infatti assegnato il Leone d’Oro a Lebanon, primo film israeliano ad ottenere l’ambito riconoscimento, che il regista Samuel Maoz (1962) ha dedicato «alle migliaia di persone di tutto il mondo tornate dalla guerra sane e salve, ma pugnalate nell’anima». Basato sulla lacerante esperienza personale del regista, coscritto ferito nell’invasione israeliana del Libano del giugno 1982, il film analizza le reazioni psicologiche dell’equipaggio di un carro armato intrappolato, insieme ad un plotone di paracadutisti, in un villaggio bombardato e sotto il fuoco dei siriani. “Graficamente violento” e “sbalorditivo” secondo 62

di Virgilio Ilari

il New York Times, definito dalla rivista Variety «il più audace e il miglior» film israeliano sul Libano, è girato interamente dall’interno del carro; gli scorci esterni sono unicamente quelli visibili dal mirino di puntamento e dai continui scanning e ingrandimenti effettuati dal pilota. L’effetto voluto da Maoz è di «mettere il pubblico nel carro armato»; fargli provare la sensazione claustrofobica e angosciosa dei carristi, costretti ad obbedire ad un ufficiale e a un falangista che si affacciano a tratti nel loro campo visivo, a chiamare “fumogeni” i proiettili al fosforo e ad uccidere sconosciuti che gridano in una lingua ignota; esperienze vissute in prima persona e costate al regista vent’anni di dolorosa rielaborazione costellata di incubi e rimorsi. Primo film di Maoz, già cameraman e poi regista di documentari, Lebanon aveva già vinto il premio cinematografico nazionale israeliano (Ophir) per 10 categorie su 11. Tuttavia, pur avendo ricevuto un finanziamento dalla Film Foundation North Rhine-Westphalia, era stato rifiutato dai festival cinematografici di Berlino e di


storia

Cannes; secondo Maoz l’ammissione a Venezia Per meglio marcare la sua distanza da queste posiaveva contrariato settori influenti del suo paese, zioni pregiudizialmente anti-israeliane (accusate di preoccupati che il film potesse antisemitismo da parte del cencompromettere l’immagine e tro Simon Wiesenthal e ridicoDopo la guerra di Gaza, il morale dei militari, sopratlizzate con l’epiteto sarcastico la soluzione al conflitto tutto dopo le polemiche interdi “Pallywood”), Maoz ha ne e internazionali seguite alle dichiarato di ritenere che israelo-palestinese operazioni dell’estate 2006 Lebanon non avrebbe vinto il è il tangram su cui contro Hezbollah in Libano e Leone d’Oro se nella giuria ci si confrontano le cancellerie del gennaio 2009 contro fosse stata Jane Fonda. del mondo. Ma la politica Hamas nella striscia di Gaza. D’altra parte non c’è forse mai si fa anche con una Pur rivendicando il messaggio stato un conflitto di cui sia così pacifista del film, Maoz ha difficile e perfino pericoloso pellicola e da “Valzer peraltro deplorato la protesta, occuparsi come quello arabocon Bashir ” a “Munich” sottoscritta negli stessi giorni israeliano. Non c’è cautela, il grande schermo cerca da più di 50 attori, registi e criprudenza e sforzo personale di di arrivare là dove tici cinematografici (tra cui equilibrio e obiettività che non arrivano i governi Ken Loach, Jane Fonda e metta al riparo da critiche e Naomi Klein) contro la deciaccuse anche violente e intimisione del 34° Festival internadatorie dei “cani da guardia” zionale di Toronto di ospitare 10 documentari di filo-palestinesi o filo-israeliani che spulciano sisteregisti israeliani (programma City to City), bollati maticamente i media per “decrittare” (dal titolo di come «propaganda di un regime segregazionista». un documentario francese del 2003, di Jacques 63


Risk Tarnero e Philippe Bensoussan) le implicazioni ideologiche e politiche del linguaggio usato dai media, facendo il processo alle intenzioni, supponendo retropensieri e non tollerando equidistanze. L’edizione inglese di Wikipedia (e in particolare il WikiProject Israel-Palestine Collaboration) ha dedicato a questo problema una splendida e amplissima voce, intitolata “Media coverage of the Arab-Israeli conflict”, la cui versione cartacea, in corpo 9 e senza spazi, occupa 18 pagine. Costruita come un minitrattato di retorica applicata al modo di riferire la cronaca di un conflitto non solo da parte della stampa, ma anche dei nuovi media (in particolare Internet, Facebook, Youtube, Twitter, Myspace, Digg ecc.), la voce analizza con esempi concreti sollevati dai watchdog groups filoisraeliani e filo palestinesi 11 tipi di “distorsioni” (bias) mediatiche, perpetrate mediante “dizione” (eufemismi o locuzioni emotive), “omissioni”, relazioni “selettive” o “decontestualizzate”, “risalto tipografico”, “esagerazioni” o “deliberate falsificazioni”, ovvero determinate da “errore fattuale”, “mancanza di verifica”, “autocensura”, “pregiudizio ideologico”, “relativismo etico” o pretesa “equidistanza” (false compromise, middle ground, moral equivalence). Riferisce inoltre le prese di posizione ufficiali delle Nazioni Unite (2005), degli Stati Uniti (2006) e di organizzazioni non governative (Committee to Protect Journalists, Freedom House e Reporters Without Borders) sulla libertà di stampa in Israele e nei territori palestinesi, e infine i tre documentari finora usciti su tale argomento, due filo-

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israeliani (il francese Décryptage del 2003 e Pallywood: According to Palestinian Sources…, realizzato nel 2005 dal professor Richard Landes della Boston University) e uno filo palestinese (Peace, Propaganda and the Promised Land, del 2004). Completa la voce un censimento dei 20 “watchdog groups” (7 filopalestinesi, uno “non affiliato” e 12 filoisraeliani), senza contare organizzazioni come la Jewish Internet Defense Force (Jidf) e Internet Haganah, che contrastano in modo più specifico la propaganda antisemita, negazionista e islamista e l’apologia del terrorismo. La voce di Wikipedia rappresenta indubbiamente un contributo importante, non solo alla cooperazione israelo-palestinese nel processo di peace-building, ma anche più in generale alla riflessione critica sul carattere fondamentalmente retorico dei conflitti. Ma se ne può trarre anche una lezione più strettamente storico-militare nel campo della guerra psicologica; cioè che non tutti i media sono ugualmente vulnerabili al fuoco d’interdizione dei watchdog. Quella che lo è di meno è la cinematografia, la forma letteraria più moderna ed efficace, che Mussolini definiva “l’arma più forte”. E, paradossalmente, proprio i successi politico-militari ottenu-


storia ti da Israele negli ultimi anni, sembrano aver incoraggiato la cinematografia israeliana a dare voce, con tutta l’efficacia dell’arte, a sentimenti di stanchezza per la guerra e di pietà e rimorso per la sorte dei palestinesi; sentimenti che certo non inficiano il patriottismo e la determinazione di difendersi, ma che offrono davvero un’occasione alla pace. Il successo internazionale di Lebanon segue quello di Valzer con Bashir, un altro film dedicato da un reduce (Ari Folman, 1962) alla campagna libanese del 1982; un documentario animato sul complesso di colpa per il massacro dei campi palestinesi di Sabra e Shatila compiuto dagli alleati falangisti, premiato al festival di Cannes del 2008, vincitore del Golden Globe per il miglior film straniero e nominato all’Oscar per il miglior film straniero nel 2009. Pochi mesi dopo, proprio mentre iniziava l’operazione “piombo fuso” nella striscia di Gaza, veniva proiettato Il giardino dei limoni (Lemon tree) di Eran Riklis (1954), la cui eroina è una vedova palestinese determinata a non permettere l’esproprio del suo giardino per costruirvi i nuovi uffici del ministero della difesa israeliano. E contemporaneamente a Lebanon è stato presentato in anteprima nazionale

al 27° Festival di Torino e trasmesso su Rai3 il 24 settembre in edizione ridotta il documentario Piombo fuso. Cast Lead, girato in inglese e arabo durante l’offensiva israeliana nella striscia di Gaza da Stefano Savona (1969), un ebreo palermitano che vive a Parigi, prodotto da Roberto Ruini e Fausto Rizzi per Pulsemedia di Reggio Emilia, è premio speciale della Giuria Ciné Cinéma Cineasti del Presente al 62º Festival di Locarno. Sull’edizione inglese di Wikipedia si trovano le schede di 25 film e ben 44 documentari sul conflitto israelo-palestinese oppure sul Tsahal, le forze di difesa israeliane, prodotti dal 1955 a oggi, circa un terzo dei quali vincitori di premi internazionali. Il lettore interessato può trovarle riunite in ordine cronologico in un Pdf intitolato “From Exodous to Lebanon: cinema in the israelo-palestinian conflict” nel sito www.scribd.com (dove può trovare anche la versione in Pdf della citata voce “Media coverage of the Arab-Israeli conflict”). Solo diciannove risalgono al periodo 1955-2001. Di questi 11 sono film: i primi sono tre americani, tra cui il famosissimo Exodous di Preminger, sull’epopea israeliana del 1948. Un altro americano (1999) riguarda la strage di Monaco. I film israeliani dichiaratamente patriottici sono paradossalmente solo tre, uno del 1977 sul raid di Entebbe e due del 2000 sulle guerre arabo-isareliane (Time of Favor e Kippur), bilanciati pure da una parodia del 1976 del primo film epico americano sulla guerra del 1948. Un altro è una riflessione ecumenica su Betlemme (1995) e due, pure israeliani, sono apolo-

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storia ghi sulla convivenza israelo-palestinese: uno del 1984 (Beyond the Walls) ambientato in un carcere e uno del 1991 (Cup Final) in cui si immagina che un soldato israeliano rapito e il suo carceriere palestinese simpatizzino accomunati dall’ammirazione per la nazionale di calcio italiana e il mitico Paolo Rossi (giuro, non me lo sono inventato!). I documentari di questo periodo sono solo otto: cinque (tre americani, uno israeliano e uno israelo-palestinese) sono di intonazione pacifista, ma tre sono violente denunce anti-israeliane. Due di questi sono americani: uno del 1984 sul “ghetto” di Gaza - col titolo in caratteri gotici! - e uno del 1998 sulla “catastrofe” palestinese del 1948. Il più duro è però proprio un documentario israeliano del 2000 che accusa un funzionario di polizia di aver assassinato a freddo 13 arabi israeliani. A partire da questo momento i filmati, e soprattutto i documentari, si moltiplicano, balzando a otto nel 2002, nove nel 2003, sette nel 2004, sei nel 2005 e nove nel 2006, per poi scendere a tre nel 2007, quattro nel 2008 e almeno tre nel 2009. Cambia anche l’enfasi, perché la stragrande maggioranza degli interventi (14 film e 36 documentari, di cui solo 5 palestinesi, contro 25 israeliani, 12 americani, 3 canadesi e 5 europei) non riguarda più in generale il conflitto arabo-israeliano, ma quello israelopalestinese. Di conseguenza si assiste ad un netto spostamento delle simpatie, perché ad essere percepito come il villain (Golia) non sono più gli Stati Arabi ma Israele, e la damsel in distress (Davide) non è più Tsahal, ma il popolo palestinese. Non che manchino, soprattutto all’inizio del decennio, interventi

(anche stranieri) a favore di Israele: ma solo cinque (1999, 2002, 2005 e due del 2006) toccano un argomento forte, e cioè la violenza terrorista e la fabbrica dei kamikaze, mentre altri cinque (tutti del 2003) sono poco efficaci sotto l’aspetto retorico, perché in gran parte difensivi, giocati sul “negazionismo” o il ridimensionamento dei torti israeliani (ad esempio la strage di Jenin) e la denuncia puntigliosa delle falsità tendenziose della propaganda palestinese recepita dai media occidentali e soprattutto americani. A parte un documentario americano del 2007 di denuncia del risorgente antisemitismo, il resto degli interventi non ostili a Israele o alla guerra sono satire (come West Bank Story del 2005, parodia di West Side Story), commedie (Zohan del 2008) e una legittimazione del servizio militare in chiave omoerotica (Yossi & Jagger, del 2002). Altri 14 documentari (due americani, dieci israeliani, uno inglese e uno olandese) e 4 film (l’americano David & Fatima e gli israeliani La sposa siriana, Beaufort e Lebanon) sono di intonazione pacifista, mentre 18 tra film e documentari sono filo palestinesi o anti-israeliani. Questi ultimi includono tutti i 5 palestinesi, ma anche 4 israeliani (tra cui i film Lemon tree e Valzer con Bashir e una storia critica del sionismo, Nadia’s Friends), 2 italiani (Piombo Fuso e il film Private di Saverio Costanzo, del 2004), uno canadese, uno inglese (Death in Gaza, incompiuto dall’autore, James Miller, ucciso da un carro armato israeliano nel 2004) e 5 americani, tra cui il celebre Munich di Steven Spielberg (2005), sulla rappresaglia israeliana contro i terroristi palestinesi autori della strage alle olimpiadi di Monaco del 1972. 67


la libreria


libreria

L’OTTO SETTEMBRE DELLA MARINA IN BILICO TRA ETICA E RAGION DI STATO di Mario Arpino ianni Riotta, che ha scritto una bella prefazione a questa ricerca-testimonianza sull’otto settembre della Regia Marina, è convinto che la condanna globale del fascismo abbia portato «…a offuscare l’impegno e le storie dei nostri militari, poi irrisi da una certa cialtronaggine anglosassone e dal luogo comune nazionale», che ha fatto di ogni erba un fascio. Siamo ormai in molti, credo, a condividere questa analisi. Non tutto ciò che è successo a cavallo dell’otto settembre è “materiale storico” da cui prendere le distanze. Per ciascuna delle Armi ci sono decine di eventi che andrebbero incorniciati come dimostrazione etica e di valore militare. Basti ricordare, per il Regio Esercito, la resistenza opposta a porta San Paolo, a Cefalonia o alla caserma Italia di Tarvisio, per la Regia Marina la sofferta ma determinata decisione dell’Ammiraglio Bergamini, per la Regia Aeronautica il sacrificio del 5° Stormo del Maggiore Cenni a Crotone ed in Puglia, ancora impegnato a contrastare lo sbarco alleato in Calabria quando, lui ignaro, a Cassibile, il generale Castellano aveva già firmato “l’armistizio breve”. Per i carabinieri, ricordo personalmente il feroce eccidio operato dai partigiani comunisti a Malga Bala, sul confine orientale. Quanti, tra i denigratori nostrani, conoscono questi episodi? Episodi di valore e coraggio morale continuati poi nel prosieguo della guerra, da ambo le parti e a prescindere dalla scelta operata. Ma illustrare valore e coraggio non è lo scopo che Rapalino e Schivardi si erano proposti, anche se questo tipo di episodi trova nel libro assai spesso collocazione probatoria. Si evidenzia che lo “sbandamento” della Regia Marina - o, meglio, della sua componente imbarcata - in effetti fu inferiore e diverso da ciò

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PATRIZIO RAPALINO E GIUSEPPE SCHIVARDI Tutti a bordo! I marinai d’Italia l’8 settembre 1943 tra etica e ragion di Stato Mursia editore • luglio 2009 pp. 347 • euro 18,00 Gli autori, comandanti in servizio attivo, si propongono di fornire al lettore nuovi temi di riflessione sulla storia della marina italiana. Per comprendere il comportamento della flotta italiana l’8 settembre 1943 occorre chiedersi qual era la vera funzione delle forze navali da battaglia, e a cosa servivano le moderne corazzate. Sulla base di fonti e testimonianze in parte inedite, viene messa in luce l’esistenza della dissonanza tra «ragion di Stato» ed etica militare.

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Risk che inizialmente accadde nella altre due forze armate. Lo studio di Rapalino e Schivardi, ufficiali superiori tuttora in servizio, si incentra sopra tutto su questo, e analizza le scelte degli uomini allora al vertice delle nostre forze navali, la motivazione e la cultura peculiare dei marinai e degli ufficiali, l’ambiente operativo tutto particolare, che in mare e a bordo non ammette deroghe. Lo stesso raccolto isolamento dell’ambiente-nave ha fatto si, secondo gli Autori, che le scelte degli equipaggi, nolenti o volenti, altro non potevano essere che quelle dei comandanti. Si apprendono così dati sinora poco conosciuti. Il comando centralizzato di Santa Rosa aveva, come ancora ha, un capillare sistema di comunicazioni, che ha consentito di disseminare l’ordine di “salvare la flotta italiana” a ciascuna Unità, dall’Atlantico al Mediterraneo. In Marina nessuno, a parte alcuni reparti a terra e negli arsenali, è rimasto senza ordini e laddove il comandante - come nella gran parte dei casi è accaduto - ha deciso di ottemperare, gli equipaggi lo hanno seguito. Ci sono stati, certo, momenti critici, come ammutinamenti poi rientrati, decisioni di autoaffondamento o altri casi estremi, come il suicidio dell’eroico comandante Carlo Fecia di Cossato. Ma alla fine, l’ordine è stato, pur con tormento, nella maggioranza dei casi eseguito. Su 169 Unità 118 furono consegnate agli alleati, 39 si autoaffondarono e solo 12 caddero nelle mani dei tedeschi. Nessuno dei comandanti, si immagina, sarà stato felice di ottemperare a quell’ordine, come nessuno, probabilmente, era convinto che consegnarsi al nemico fosse la soluzione più onorevole. Ma hanno ubbidito, e lo hanno fatto. I grandi Ammiragli, nel dare quell’ordine, avevano ubbidito alla nuova “ragion di Stato”. I comandanti, sempre ubbidendo, hanno invece soffocato un’etica militare che avrebbe fatto loro preferire la battaglia. Ma etica e ragione di stato, come si può ancora oggi osservare, troppo spesso non coincidono. A proposito di etica, gli Autori dedicano parecchio spazio al concetto di onore, inteso come virtù militare. Nulla di più appropriato trattandosi di un “otto 70

settembre” in cui l’onore ha avuto tanti significati quante ne sono state le interpretazioni. Tutte genuine, ma ciascuna di esse ha portato a comportamenti diversi. Onore, allora, era rimanere fedeli alla propria Unità, ciascuna di esse aveva la bandiera nazionale, o al proprio reparto, o al giuramento prestato, al Re o al Duce, al proprio Comandante e agli ordini da esso impartiti. Ma la percezione dell’onore poteva anche essere diversa, quando il soggetto che doveva decidere era pervaso a sua volta dalla sensazione di essere stato tradito. Non c’è quindi da stupirsi se, contestualizzando e rapportandosi ai tempi, lo stesso sentimento ha spesso spinto gli individui verso direzioni opposte. Molti militari, per esempio, hanno pensato che proprio il concetto di onore impedisse loro di obbedire a ordini che da un giorno all’altro, dopo un proclama del capo del governo che affermava che “la guerra continua”, trasformavano il nemico in alleato. Molti militari transitati nelle file delle forze armate repubblicane erano orgogliosi di portare sulla manica dell’uniforme, con il gladio al posto delle stellette, la scritta “per l’onore d’Italia”. Anche la Marina, per i motivi cui abbiamo già accennato in minor misura di Esercito e Aeronautica, non fu esente da questo fenomeno. Ma l’onore è qualcosa che qualifica i rapporti tra individui, non quelli tra gli Stati. È difficile, quindi, giudicare a posteriori chi ha fatto bene o ha fatto male: dipende dalla prospettiva. «Un conto - dicono gli Autori - è il sistema di valori su cui si basa la convivenza civile, per cui un individuo con un alto senso dell’onore è considerato rispettabile, affidabile e credibile. Un altro conto sono i rapporti tra gli Stati, che si basano sul conseguimento degli interessi nazionali». Ma gli spunti interessanti di questo libro sono molti altri, e li lasciamo scoprire al lettore. Altrettanti sono i tabù che gli Autori osano infrangere, e ne citiamo solo alcuni, che nella storiografia classica della nostra Marina sono stati sinora introvabili. Come dice Gianni Riotta in prefazione, fanno giustizia di tanti luoghi comuni, che invece nella letteratura precedente trovano ampi spazi. Per fare solo qualche


libreria esempio, si smitizza la questione che sarebbe stata sopratutto la mancanza del radar a minare la nostra vittoria nel Mediterraneo, o l’accusa che sarebbe stata la mancanza di coraggio, o la carenza di combustibile, a impedire un più attivo impiego bellico della flotta delle grandi corazzate, rimaste nei porti per buona parte del conflitto, mentre il naviglio più leggero ed i sommergibili andavano verso l’olocausto. Con il coraggio inimmaginabile di chi compie il proprio dovere pur sapendo che la sorte è segnata. Fu il concetto della fleet in being, caro ai grandi Ammiragli degli anni Trenta che continuavano a misurare il prestigio nazionale in un continuo raffronto con le dimensioni delle navi francesi, che pregiudicò l’impiego in battaglia delle navi contro la flotta inglese. Salvare le grandi navi, per essi, significava salvaguardare il prestigio non solo della Regia Marina, ma della Nazione, e al momento dell’armistizio questa concezione ebbe un suo ruolo sulla decisione di “trasferirsi” a Malta e consegnarsi agli Inglesi. Però il gesto, evidentemente, non è stato poi inteso da tutti allo stesso modo, se l’11 settembre a

Malta i marinai inglesi della Warspite accoglievano, è vero, l’Ammiraglio Da Zara con un picchetto, ma senza presentare le armi. E nemmeno il trattato di pace del 1947 trovò il modo di premiarlo. La struttura del libro è articolata in ben ventidue capitoli e nove appendici, con un corredo di note e di bibliografia veramente notevoli e di grande pregio. Una vera miniera per chi volesse approfondire la conoscenza, lo stile, il comportamento e la storia della nostra Marina Militare. Ma tutto è già reperibile ricercando nel testo, che va letto tutto e bene, oltre che per l’interesse che desta, almeno per tre altri motivi. Per quanto ben strutturato, il libro non è un modello di organicità, per cui le notizie ci sono tutte, ma vanno scovate. Le novità, a volte le sorprese derivanti da una ricerca approfondita in Italia e all’estero, possono inaspettatamente rivelarsi in ciascuna delle 347 pagine, e sorprendere il lettore all’improvviso. Vanno guardate con attenzione anche le appendici: ce n’è una, la quarta, dove viene proposta una scala di livelli dell’onore in mare che può essere considerata una vera e propria chiave di lettura.

I CONQUISTADORES DEL SECONDO MONDO

Finita la fase di massima espansione dell'impero americano, Cina, Ue e Usa cercano di imporre il proprio modello di sviluppo di Andrea Tani l tema dell’ordine mondiale post-americano non è certamente nuovo. Sono molti e molto autorevoli i saggi pubblicati di recente che trattano del declino della ex Iperpotenza e della contemporanea ascesa asiatica ed europea. I tre imperi risulta uno dei più approfonditi, godibili ed esaustivi, anche perché va direttamente alla radice dei problemi con una conoscenza dei fatti del mondo veramente stupefacente se si considera che l’autore ha soli trentadue anni. Parag Khanna, un sorprendente giovanotto indiano inserito da Esquire nella lista dei 75 personaggi

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più influenti del mondo (nonché da Wired nell’elenco dei quindici globalizzati più emergenti) ha studiato in Germania, Emirati Arabi e Stati Uniti finendo per diventare una specie di «ragazzo prodigio della saggistica geopolitica internazionale», come scrive il New York Times . È stato frequentatore di Davos (sette volte prima dei trent’anni), consulente dell’Us Special Forces Command in Iraq ed esperto di affari internazionali della squadra elettorale di Obama. Oggi è direttore della Global Governance Initiative presso la New America Foundation. Per scrivere questo suo primo libro Khanna ha esplorato in un quinquennio quarantacinque paesi 71


Risk dei quattro continenti, per poi descriverli e metterli in relazione fra di loro in modo veramente innovativo e avvincente. La lettura delle note di questo moderno Marco Polo è affascinante per chiunque abbia curiosità del mondo e indispensabile per tutti coloro che hanno a che fare con i paesi descritti, a qualunque titolo. Se dovesse continuare così staremmo assistendo alla nascita di un vero astro dell’accademia e della divulgazione colta, un novello Paul Kennedy equipaggiato con un poderoso motore di ricerca informatico. La tesi di fondo del lavoro è che nel mondo di oggi si stanno delineando tre “Imperi” intesi in senso allo stesso tempo aulico e post-moderno (o metastorico), senza alcun accento coloniale o neocolonialista, ovvero Stati Uniti, Unione Europea e Repubblica Polare Cinese. Essi non trovano corrispondenza con altrettante civiltà di supporto o identità etno-culturali e religiose - l’ Occidente transatlantico, l’asse sinico, la galassia araba, il Latin America, il mondo indù - come sosteneva Samuel Huntington. A contare sulla scena internazionale sono i grandi centri di potenza economica, finanziaria, demografica, militare e mediatica. Una prima conseguenza che ci riguarda è che il mondo occidentale transatlantico non può essere considerato un’entità monolitica. Europa e America sono entità distinte i cui interessi e modi di intendere il mondo divergono spesso. Sull’unicità della Cina, non vi possono essere equivoci. L’unico dubbio - irrisolto dall’autore - è dove si collochi il Giappone, un attore di primo piano non facilmente incasellabile. Questi tre Grandi competono fra loro in quello che l’autore definisce un global geopolitical marketplace e già questa enunciazione esprime la natura della competizione, che non ha i consueti connotati bellici del passato ma è di un tipo tutt’affatto diverso. I tre vengono definiti da Khanna frenemies, amici-nemici, un termine che non si può attribuire a chi è mortalmente ostile, come tutto sommato erano gli avversari delle 72

contrapposizioni all’ultimo sangue del mal tempo andato. Anche se tutti e tre i possiedono e padroneggiano i consueti attributi bellici del comando (armi nucleari in testa), la forza militare non è più l’elemento chiave della loro supremazia. Lo è la forza economica, istituzionale e culturale in senso lato, l’autorevolezza e la percezione di solidità, l’abilità nell’irradiare miti e riti nonchè la capacità di attrazione verso il resto del pianeta, soprattutto verso i paesi del “Secondo Mondo” - termine da intendersi in modo diverso dalla tradizionale accezione della Guerra Fredda. Questi ultimi sono i veri protagonisti del saggio (non a caso il suo titolo originale inglese era “The second world - Empires and influence in the new global order”). La disamina della loro situazione e condizione costituisce il motivo portante e la ragion d’essere del lavoro. Si tratta di un centinaio di stati caratterizzati contemporaneamente «dallo sviluppo tumultuoso delle loro capitali e dal sottosviluppo delle loro periferie», secondo un mix variabile ma qualitativamente reiterato, nazioni che in parte aspirano a entrare nell’elite globale e in parte «rischiano di essere risucchiate nel girone dei dannati della terra». Khanna ha girato e studiato le principali e le decisive fra esse. Ci racconta fatti e misfatti dei resti dell’Impero Sovietico (Russia, Ucraina, Caucaso,‘Stan dell’Asia Centrale) e dell’ex-Iugoslavia, dell’America Latina ormai affrancata dalla Dottrina Monroe, della galassia araba e dei marcantoni dell’Asia-Pacifico. Il risultato è un suggestivo e approfondito carnet di viaggio geopolitico - ma anche culturale e antropologico - che consente di cogliere l’essenziale delle questioni che riguardano gli attori cruciali della scena internazionale, evidenziando le interrelazioni fra essi e i tre supergrandi che conducono la danza - o forse cercano di seguirla, non è chiaro. Dietro di loro c’è il Terzo Mondo che arranca malamente fra regresso e sviluppo e costituisce


libreria un problema per sé stesso e per tutti coloro che con esso hanno a che fare. È fuori dal Risiko planetario, a meno dei pochi fortunati e intraprendenti che riescono a fuoriuscire dal ghetto. Ma sono uno sparuto manipolo: è più facile che il salto all’ingiù - siano costretti a farlo i declinanti fra i paesi del Secondo Mondo, per il quali l’arretramento è sempre in agguato. Secondo Khanna il potere reale di quest’ultimo è analogo quello dei consumatori, che condizionano i produttori e ne determinano le strategie ma non fino a sostituirsi ad essi. La maggioranza dei membri del Secondo Mondo cerca di mantenere rapporti profittevoli con tutti i tre gli Imperatori, e spesso ci riesce. Le tre clientele che si determinano sono flessibili, sempre più a geometria variabile. Alcuni degli stati più importanti, ma non necessariamente più stabili o vicini a passare in serie A, come la Russia e l’India - la posizione secondaria dei quali nella scala gerarchica di potenza di Khanna può stupire molti, almeno finché non leggono le giustificazioni dell’autore: «La Russia chissà se sopravviverà» e «l’India è allo stesso tempo una superpotenza e una superdebolezza, entrambe eternamente irrilevanti» sono in grado di far pendere il risultato della competizione in una direzione piuttosto che in’altra. Riveste quindi un’importanza primaria la loro lusinga o cooptazione. Per conseguire l’una o l’altra le tre nuove superpotenze adoperano strategie differenti. Gli Stati Uniti adottano

un modello di “coalizione”, protettivo e militarmente pregnante, su una base preferibilmente bilaterale e con chi è disposto ad adottare gli stilemi tangibili o almeno virtuali della democrazia rappresentativa e del libero mercato. La Cina ipnotizza le sue prede mediante un metodo che Khanna definisce “consultivo”, offrendo concretezze infrastrutturali, sostegno diplomatico e supporti finanziari, senza interferenze politiche, condizionamenti ideologici e pretese moraleggianti. L’autore mostra comprensione e anche ammirazione per quello che cerca di fare la Repubblica Popolare, la quale non si può permettere quella democrazia che gli altri pretendono da lei perché è un lusso per ricchi, e la Cina non lo è. Per un certo verso è sempre un paese con grandi squilibri - quattro paesi in uno, come afferma Khanna, non tutti in via di sviluppo - a cavallo fra il Secondo e il Terzo Mondo che occupa il rango che occupa solo per l’immensità dei suoi numeri e la crescente efficienza con la quale li fa fruttare la sua elite, il Pcc, che Khanna definisce «la più potente monarchia della storia cinese». Il vero limite del magnetismo della Cina è che le sue iniziative non riescono a rappresentare un autentico stimolo al progresso delle società verso le quali si rivolgono, offrendo solo un piano quinquennale suppletivo, o forse due, come dimostra il divenire della stretta alleanza di Pechino con le dittature più arretrate del pianeta, dal Sudan allo Zimbawe al Myanmar. Come spiega

PARAG KHANNA I tre Imperi nuovi equilibri globali del XXI secolo Fazi editore pp. 609 • euro 18,00 Nessuna teoria è riuscita a spiegare finora le complesse dinamiche che stanno regolando la politica internazionale in questo inizio di XXI secolo. Ma Parag Khanna - giovane esperto di geopolitica, incluso dalla rivista americana "Esquire" tra le settantacinque persone più influenti della terra - avanza un'ipotesi originale per spiegare i nuovi equilibri globali. Finita ormai la fase di massima espansione dell'impero americano, Cina, Usa e Unione Europea sono da tempo impegnati in una lotta senza quartiere per imporre il proprio modello di sviluppo e il proprio stile di vita nel cosidetto "Secondo Mondo": regioni strategiche nell'Europa dell'Est, in Asia Centrale, America Latina, Medio ed Estremo Oriente. È proprio in questi stati, perennemente in bilico fra il tentativo di emergere e la paura di sprofondare nuovamente in una realtà da Terzo Mondo, che si consuma la sfida tra le tre superpotenze. Parag Khanna - vero globetrotter, che per realizzare questo libro ha visitato personalmente le aree più critiche del pianeta: dall'Ucraina all'Iraq, dal Myanmar al Pakistan, dal Tibet all'Afghanistan - ci regala un vivido affresco della vita ai margini dell'Impero e dei giochi di potere in atto.

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libreria l’autore «La Cina è un partner che può aiutare le nazioni africane (e non solo) tanto ad uscire dal Terzo Mondo quanto a rimanerci». L’Unione Europea, la preferita di Khanna («L’impero più benevole e meglio riuscito nella storia poiché educa, invece di dominare»), ammalia e convince i suoi tanti pretendenti con un approccio consensuale che ha avuto uno straordinario successo, consentendo l’unica vera espansione territoriale e demografica di una costruzione politica nell’ultimo mezzo secolo. Il suo prossimo capitolo sarà l’area che va dal Caucaso all’Ucraina, e la Russia non potrà farci nulla. La tesi è discutibile, almeno fino a quando Mosca conserverà migliaia di testate nucleari, il controllo di un terzo dei flussi energetici al Vecchio Continente e una classe di governo abile e spietata che ha fatto della revanche un’ideologia, oltre che una prassi politica. La sola ideologia che governa le strategie dei Supergrandi non è il capitalismo, la democrazia o l’autoritarismo, ma il “successo”, che bacia non tanto coloro che sono più forti o sagaci ma sopratutto i più flessibili e capaci di adattarsi alle circostanze. E quindi la strabocchevole ma rigida presenza militare americana nei due emisferi finisce per non corrispondere più ad una dominazione globale. Mentre un tempo l’egemonia e gli spazi vitali venivano disegnati dalla punta delle baionette, oggi sono oggetto di compravendite. I muscolarismi marziali comportano più oneri che ritorni tanto più quanto ci si allontani dai propri interessi essenziali (AfPak docet). Sempre meno nazioni al mondo dipendono oggi dalla protezione americana e questo comporta conseguenze facilmente schematizzabili, come ad esempio: «Oggi si nota facilmente come l’America sia sempre meno amata e temuta, l’Europa sempre meno temuta e più amata e la Cina, infine, sempre più amata e sempre più temuta». La semplificazione di Khanna è un po’ eccessiva, soprattutto per quanto riguarda la Cina, ma certamente efficace. Il maggiore asset che gli Stati Uniti pos-

sono derivare dal loro imperiale passato - che Khanna dà già per archiviato, forse un tantino prematuramente - è il soft power e la capacità di attrazione che essi emanavano, oltre alla continua attitudine a inventare e reinventarsi. I primi due sembrano tuttavia appannaggio dell’Unione Europea; in quanto all’invenzione e al reinventarsi, la Cina sta dimostrando una creatività che le frutta dividendi geopolitici sempre più corposi, mentre gli Stati Uniti si stanno sclerotizzando e per certi versi diventando una caricatura di se stessi («una superpotenza palestrata in cerca di un cervello», come recita il New York Times nella sua recensione). Se è Alzheimer o solo un invecchiamento fisiologico lo diranno i prossimi anni.

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Risk U S C I T I

• MASTROLIA NUNZIANTE Chi comanda a Pechino? Il potere, il consenso, la sfida all'Occidente Castelvecchi Aumentano gli interrogativi, per gli analisti di geopolitica, riguardo alla Cina, paese il cui ruolo pesa sempre di più negli equilibri strategici del pianeta. Ma la Cina non è una realtà immobile, i suoi regimi e le sue classi dirigenti sono mutevoli, i leader si avvicendano, anche se al fondo la Repubblica Popolare continua a essere governata da logiche radicate nella tradizione. Per capirne la realta, l’analisi della leadership politica è vitale. Questo libro aiuta a comprendere chi sono gli uomini chiave della Cina di oggi, la sua nomenclatura, il loro modo di pensare e agire. E soprattutto ad analizzare le possibili reazioni di questo ceto dirigente, nel momento in cui emergeranno nuovi bisogni di democrazia e libertà civile. Uno sguardo sullo scontro prossimo venturo tra le nuove spinte verso la partecipazione politica e la tradizione autocratica del Paese. • KHANNA PARAG I tre imperi. Nuovi equilibri globali nel XXI secolo Fazi Secondo la rivista americana Esquire, Parag Khanna non è solo un giovane esperto di geopolitica, ma anche una delle settantacinque persone più influenti della Terra. L’autore traccia una nuova e originale teoria per spiegare l’attuale assestamento, naturalmente provvisorio, degli equilibri planetari. La fase di massima espansione dell’impero americano è esaurita e ora 76

N E L

M O N D O

l’Occidente, insieme con la Cina, è proteso ad affermare il proprio modello di sviluppo e il proprio stile di vita nel cosiddetto. “Secondo Mondo”: regioni strategiche nell’Europa dell’Est, in Asia centrale. America Latina, Medio ed Estremo Oriente. È infatti su questo scacchiere che si giocano i destini del mondo. Vincerà in questo Risiko chi riuscirà a controllare le risorse energetiche e naturali, nonché i governi locali di queste aree. • PAOLA CARIDI Hamas. Che cos'è e cosa vuole il movimento radicale palestinese Feltrinelli Quali sono i motivi in virtù dei quali Hamas, il movimento islamista che ha segnato la sua vita e la sua attività con clamorosi e feroci attentati terroristici si è fatto strada e ha guadagnato consenso in una società tendenzialmente laica come quella palestinese? Nonostante l’isolamento da parte della comunità occidentale Hamas rimane una realtà attiva e in alcune aree dominante, come a Gaza. Hamas è passato attraverso il terrorismo e gli attentati suicidi, ha sfidato, secondo l’autore, l’autorità di Yasser Arafat, ed è sopravvissuto all’eliminazione fisica di gran parte dei suoi dirigenti. Nel 2006 è arrivato al governo dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) eletta dalla maggioranza dei palestinesi. Paola Caridi, giornalista, si chiede in questo libro quali sono le ragioni della sua vittoria elettorale e risponde provocatoriamente, affermando che Hamas non è un movimento terrorista, bensì un

a cura di Beniamino Irdi

movimento politico che ha fatto largo uso del terrorismo. • MOÏSI DOMINIQUE Geopolitica delle emozioni. Le culture della paura, dell'umiliazione e della speranza Garzanti L’autore di questo saggio abbandona la tradizionale analisi ideologico - economica per virare, sulla scia delle teorie di Samuel Huntington, verso la tesi secondo cui non saranno nel prossimo futuro i conflitti economici a generare tensioni, bensì gli scontri culturali. All’indomani dell’11 Settembre questi si sono radicalizzati. A plasmare il mondo contemporaneo sono la paura, l’umiliazione e la speranza. Se, secondo l’autore, gli Stati Uniti e l’Europa sono segnati dal timore di perdere la propria identità, il mondo islamico, reclama e recrimina, sentendosi vittima di profonde ingiustizie. In questo quadro è l’Asia, sostiene Dominique, l’outsider fuori dalle dinamiche “emotive”, in grado di bilanciare la paura dell’Occidente da un lato, e le pulsioni di odio del mondo musulmano dall’altro. • DACLON CORRADO Geopolitica dell'ambiente. Sostenibilità, conflitti e cambiamenti globali Franco Angeli Quello di Corrado è uno sguardo geopolitico concentrato sulla gestione strategica delle risorse ambientali. In questo saggio scompaiono i fronti militari tradizionalmente intesi, per far posto a nuovi scenari più sofisticati e diversi. La tesi di Corrado è che si

è passati da una geopolitica degli spazi a una geopolitica dei flussi in cui giocano nuove variabili come la globalizzazione, l’informatica, la finanza internazionale. Non è più il territorio al centro della questione strategica e non è più il territorio l’obiettivo delle forze militari impiegate sui diversi teatri. Le armi servono oggi a garantire stabilità e protezione ai flussi economici, energetici, informativi. Sono queste, oltre a quelle naturali, le vere risorse di cui assicurarsi il controlo. • ANGELO D'ORSI 1989. Del come la storia è cambiata, ma in peggio Ponte alle Grazie Quello di D’Orsi è un libro amaro, o almeno un libro che offre una prospettiva controcorrente, per certi versi inquietante e non facile da contraddire. La caduta del Muro di Berlino, questa è la tesi, ha tradito le sue promesse. Il crollo del simbolo dell’oppressione non ha, come ci si aspettava, generato pace e giustizia, libertà e benessere. Il benessere che la storia sembrava promettere è mancato e la finanza globale è stata capace di generare una crisi economica di proporzioni planetarie. La stessa democrazia conosce oggi nuove difficoltà, svuotata dalle menzogne dei politici e dal silenzio di intellettuali asserviti. In queste pagine, Angelo d'Orsi ripercorre con rigore ma anche con una visione funesta della realtà, gli aspetti di una sconfitta della storia. Una storia che ha tradito le speranze dei giovani che scavalcarono e distrussero il muro di Berlino.


riviste L A

R I V I S T A

STEFANO CAVAZZA GUSTAVO CORNI Vent’anni dopo: il muro di Berlino Ricerche di Storia Politica (Il Mulino) Terzo volume - 2009 Sull’onda del Mauerfall 2009, il ventennale della caduta del muro, esce in Italia una nuova edizione della rivista di studi storico-politici pubblicata dal Mulino. I curatori della pubblicazione hanno dedicato il numero a una monografia sul tema. Il muro come simbolo della vittoria della democrazia occidentale sui regimi orientali e del fallimento di una dittatura politica che per evitare la fuga ad ovest aveva dovuto erigere una barriera sorvegliata dalla polizia – i famigerati vopos – con regole di ingaggio feroci. Anche una storia di uomini – aggiungiamo – che per tanti anni Rainer Hildebrandt aveva descritto nei suoi articoli sul quotidiano berlinese Tagespiel. «Dopo il 1989 il muro di Berlino è diventato oggetto di rimembranza – alimentando un commercio delle sue rovine e della sua immagine – e in una certa misura d’oblio, vista la rapida

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trasformazione urbanistica della città di Berlino che rende difficile rintracciare la collocazione di quella divisione. La memoria del Muro non è però in alcun modo cancellabile dalla storia europea e tedesca. Per le generazioni del dopoguerra esso è stato il simbolo della divisione del mondo in due campi contrapposti. La famosa cortina di ferro denunciata da Churchill nel discorso di Fulton nel 1946, trovava in esso la sua materializzazione. Nell’immaginario collettivo dell’Occidente, guerra fredda e muro di Berlino sono stati per molto tempo sinonimi, alimentando filoni letterari e cinematografici in cui il muro diventava il teatro di prammatica per innumerevoli spystory (…) D’altro canto, non si può negare che il regime comunista nella Repubblica Democratica sia riuscito, seppure a fatica e in modo instabile, a garantirsi un qualche livello di legittimazione e di consenso. Questi erano dovuti senza dubbio anche alla diffusa consapevolezza fra i cittadini di dover far fronte a una situazione (la divisione) destinata a durare molto a lungo». Negli interventi di questa monografia si affrontano cinque aspetti fondamentali della storia del vallo tra Oriente e Occidente, nel cuore della Germania comunista. Il primo riguarda le fughe, il secondo la lotta del regime per impedirle, poi la divisione politica fra le due Germanie, quindi l’impatto economico della separazione. Infine «il muro ha rappresen-

R I V I S T E tato anche un nodo centrale nel processo di distensione e nella realizzazione della Ostpolitik. La politica ad ovest ha dovuto da un lato stigmatizzarlo, dall’altro è stata costretta ad assumerlo come un dato la politica messa in atto dal regime comunista costruzione proprio al fine di poterlo superare». Ricerche di Storia Politica ha voluto offrire ai suoi lettori il punto su alcuni di questi aspetti giovandosi di ricerche fondate su materiali archivistici di prima mano; materiali resi disponibili (caso unico fra gli ex- paesi comunisti) da una legislazione archivistica particolarmente trasparente.

MARK SCHMITT The American Prospect Changing the Tone November 2009 Quando Atene piange Sparta non ride. Se a livello di conflittualità, odio e acrimonia nel dibattito politico in Italia ci stiamo interrogando, la situazione oltre Atlantico non sembra migliore. Una delle promesse della campagna elettorale di Barack Obama era proprio questa: abbassare

a cura di Pierre Chiartano

la temperatura del confronto politico. Un obiettivo fallito – ma non a ragione – per la rivista di area liberale, nata nel 1990, come risposta all’onda lunga del conservatorismo che arrivava dagli anni Ottanta di Reagan. L’articolo è firmato da uno dei redattori capi del magazine. Si sa che è rischioso fare delle promesse che non dipendono solo dal tuo comportamento. Per impedire che Obama riesca nel suo intento è sufficiente che i conservatori alzino appena il livello della polemica politica. Niente di più facile. L’analisi è che l’America non sta certo attraversando il periodo degli anni Sessanta, dove le divisioni sembravano dovessero spaccare il Paese. Oggi, è forse l’opposizione al calor bianco agli anni di Bush, da parte di una minoranza, a far gridare l’allarme al repubblicano Michele Bachmann: «stiamo perdendo il nostro Paese». Una paura forse sovrastimata, rispetto alla media del sentimento che pervade i rep. Da sinistra, invece, molti sono contenti della promessa non mantenuta dal presidente, perché convinti che non la si dovesse proprio fare. Per loro basterebbe guardare all’impeachment “farsa” di Clinton, al riconteggio dei voti alle presidenziali del Duemila e alla politica da “asso piglia tutto” condotta da Bush junior, per capire che con la destra la porta aperta e la voce soffusa non servono a nulla. «Sono nemici» con cui non si potrebbe e dovrebbe dialoga77


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re. Un destra con una bandiera nei media, tenuta alta da Fox News. In questo contesto, afferma la sinistra democratica, per far passare una politica sociale in Parlamento, servono i metodi «rudi» di Bush e una battaglia politica senza “cortesie”. A questa minoranza appartiene circa il 18 per cento degli americani. Gli altri invece ci credono alla promessa di Obama. La miglior maggioranza democratica conquistata dai tempi di Lyndon B. Johnson, dovrebbe servire a non permettere che il tono del confronto politico sia dettato da questa enclave di arrabbiati.

JULIA IOFFE Mr Fix-It Foreign Policy December 2009 La maratona televisiva di Putin, nonostante fosse prefabbricata ad arte, senza la presenza di giornalisti e con una scelta oculata tra le due milioni di domande arrivate via telefono, sms e mail, è stata tutt’altro che una passeggiata. Quattro ore per rispondere a 80 domande, 78

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con argomenti che avrebbero messo chiunque a dura prova, non fossero stati conosciuti in anticipo. Ma Vladimir zar Putin, spiega l’autore dell’articolo, deve mantenere continuamente il suo personalissimo contatto con i cittadini russi. Un lavoro che è nelle sue corde. Pensioni, disoccupazione, sanità e servizi sociali sono argomenti non facili da trattare, quando l’interlocutore è una popolazione per lo più stremata. Quale strumento migliore, allora, che una trasmissione che è una via di mezzo tra i discorsi al caminetto, di roosveltiana memoria e l’Oprah Winfrey show? La voce rassicurante, le battute di spirito, le promesse sono lo strumento che Volodja sa usare meglio di tutti. Soprattutto con quella straordinaria capacità di Putin di diventare lo specchio del proprio interlocutore. Deve marcare la differenza col tecnocrate, ben educato e distante Dmitry Medvedev. Essere lui l’ultima carta, l’asso di denari, per il cittadino che non è riuscito a risolvere un problema, come tradizione russa vuole: o attraverso la rete di relazioni personali, oppure distribuendo mazzette a qualche funzionario d’apparato. Un metodo molto diffuso. Quando fallisce, rimane solo il grande salto, l’ordalia davanti al grande padre della nazione che bypassa ogni problema. Riflette, promette, ordina, fa tremare il malcapitato governatore che viene citato in diretta tv. Arriva come un’inquietante minaccia per i pro-

R I V I S T E consoli del Cremlino: «è ora di occuparci di questo problema, se non è stato fatto fino ad ora». «Sono malato di diabete e non trovo i medicinali per potermi curare» afferma un cittadino di una provincia dell’ancora sterminata confederazione di Stati indipendenti. Vladimir chiede, s’informa: interverrà. Da quando si è rotto il rapporto diretto tra i russi e gli amministratori locali, con la nomina dei governatori da parte del Cremlino, è lui, Volodja, il cordone ombelicale tra politica e Paese reale. Nella trasmissione tv che da otto anni apre una finestra tra potere e russi, dedicata al presidente, nessuno si chiede perché non ci sia Medvedev al posto di Putin. Il suo ruolo di ultima istanza, ultima speranza per i bisogni primari del suo popolo «chiamerò direttamente il Ceo della Shukoi perché ti assuma» promette Vladimir rivolto a un giovane ingegnere, è l’esatto contrario di ciò che tenta di fare Dmitry. Combattere la corruzione endemica in un Paese dove inefficienza e lassismo ne sono il logico presupposto. L’apparizione mediatica è una pantomima teatrale «ma con enormi ricadute politiche» spiega Evgeny Gontmakher, già membro dell’esecutivo di Mosca. «Il colpo di telefono serve» appaga la parte non razionale del bisogno perenne di istituzioni che in Russia mancano. Ma non risolve i problemi alla base. E la frustrazione monta, perché alla risposta di Putin non è ammessa replica .

MICHAEL RUBIN Syria's path to islamist terror The Middle East Quarterly Winter 2010 Sia l’amministrazione Obama che il Congresso hanno riaperto la strada verso Damasco, nella speranza di far ripartire il processo di pace in Medioriente. L’autore dell’articolo, oggi uno studioso dell’American Enterprise, mette invece in guardia gli Stati Uniti e il wishful thinking che ha pervaso la Casa Bianca, rispetto all’affidabilità di un leader come Bashar Assad e di un Paese come la Siria. E spiega perché l’interesse strategico siriano sia legato al radicalismo islamico. Un’affermazione che Rubin ammette crei da subito dei dubbi, vista la forte avversità passata tra il regime Alawita e la Fratellanza musulmana. Ma occorre andare oltre le apparenze. Il terrorismo è fondamentale per la politica estera di Damasco che mal digerisce anche le interferenze di Parigi. Le radici del cambiamento di rotta emergono con fatica dalla vicenda Hariri, che aveva trasformato il Paese in un pariah internazionale, col ritiro dell’ambasciatore Usa Margaret Scobey. I legami delle forze armate siriane rimaste per


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oltre 15 anni in Libano e i rapporti dei servizi segreti di Damasco con una vasta rete di supporter nella terra dei cedri, rimangono un dato di fondo per tutta la vicenda. Su questo si innesta la nuova politica di Washington. Per capirla basterebbe citare un passaggio di Obama «non parlare con gli avversari non ci rende più duri, solo più arroganti» che riprendeva spesso durante la campagna elettorale. Oltre ad un’apertura verso quelle dittature che fossero state intenzionate a cambiare registro. Assad accettò l’offerta di Obama. E il 7 marzo del 2009 il dipartimento di Stato inviò Jeffery D. Feltman in missione a Damasco per aprire un dialogo col ministro degli Esteri siriano. Poi il 24 giugno ci fu la nomina del nuovo ambasciatore e giusto un mese dopo l’annuncio che gli Usa avrebbero allentato le sanzioni contro il Paese. Così, appena due anni dopo l’assassinio del premier libanese Rafik Hariri, i senatori democratici Arlen Specter, Bill Nelson, John Kerry e Christopher Dodd erano in giro per la Siria a promuovere un nuovo coinvolgimento politico. Poi è arrivata anche la presidente della Camera Nancy Pelosi, in visita al presidente Assad, ad affermare che «la via di Damasco è un via di pace». Obiettivo per tutti: sganciare la Siria dall’influenza di Teheran. Molti analisti e diplomatici avevano sperato in un cambiamento nel Duemila, col passaggio di poteri al giovane ed educato

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nelle università occidentali Bashir. Oggi, vediamo che la Siria è sempre uno Stato di polizia in casa e uno sponsor del terrorismo all’estero, che non riconosce l’esistenza d’Israele e che contrasta gli interessi Usa in Medioriente. C’è chi in America è ancora convinto che Damasco sia la chiave per mille problemi, dall’Iran alla Palestina, passando per Hezbollah e Hamas. Insomma l’errore, per Rubin, sta nel percepire la Siria ancora come uno Stato secolare, mentre invece incoraggia i legami col radicalismo islamico e con Al Qaeda. Non sono più solo l’Arabia Saudita e ricchi Paesi del Golfo ad aiutare l’estremismo, ma anche il giovane Assad ha cominciato un gioco molto pericoloso, che contrasta gli interessi Usa a breve e la stabilità della Siria sul lungo periodo.

ED BLANCHE Iran's vanishing scientists The Middle East December 2009 La Umra è una forma di pellegrinaggio alla Mecca meno conosciuta. Oseremmo dire minore, praticata da

R I V I S T E molti sciiti. Ogni anno quasi un milione di iraniani escono dal loro Paese per attendere a questa forma devozionale. Non è raro che qualcuno non torni, che colga l’occasione per scomparire, magari per sfuggire al controllo occhiuto dei mullah e delle Guardie della rivoluzione. Ma la storia di cui tratta l’articolo si occupa di un pellegrino particolare. Si chiama Sharam Amiri, è un fisico che il 31 maggio di quest’anno ha preso un volo da Teheran a La Mecca. Tre giorni dopo lasciava la stanza del suo hotel per non farvi più ritorno. Svanito come nebbia la sole. È opinione comune degli organi di stampa che possa aver pensato di passare dalla parte di Washington o che possa essere stato rapito dagli americani, con l’aiuto di un servizio segreto straniero. Ma per motivi che ancora non si comprendono, Teheran ha dato notizia della sua scomparsa solo quattro mesi dopo. Probabilmente quando il Vevak, l’intelligence iraniana, ha perso ogni speranza di poterlo ritrovare. Agli inizi di ottobre il ministro degli Esteri iraniano, Manouchehr Mottaki, prese una strana iniziativa, inusuale rispetto alla liturgia politica sciita. Denunciò nella sede delle Nazioni Unite la scomparsa dello scienziato e di altri cittadini iraniani dal dicembre 2007. Mottaki fece riferimento «all’arresto» di Amiri, ma senza dare

ulteriori particolari. E tanto per sottolineare la delicatezza del caso, le autorità di Teheran non lo identificarono subito come uno scienziato nucleare, ma semplicemente come «un pellegrino iraniano». Un devoto scomparso nella folla dei fedeli. Almeno altre quattro sparizioni misteriose di persone legate al regime sciita sono avvenute nei Paesi del Golfo, a Dubai e in Georgia, negli ultimi mesi. E qualche ammissione da parte americana, almeno sulla vicenda georgiana, ci sono state ultimamente. E riguardano più che uno scienziato, un personaggio legato al traffico d’armi Amir Hossein Ardebili. Episodi che farebbero parte di una guerra segreta che Usa e Israele avrebbero ingaggiato, da quando la vicenda nucleare iraniana ha incrociato il nuovo confronto con Mosca. Una lotta tra diplomazie e servizi segreti che è riuscita ad esfiltrare un ex ministro della Difesa iraniano come Ali Reza Asgari. È probabile che si tratti di defezioni. Amiri lavorava alla Malek Ashtar University nella capitale – controllata dai Guardiani della rivoluzione – che l’Onu aveva identificato come una struttura del programma nucleare. Un centro dedicato alla progettazione dei vettori missilistici su cui montare le testate atomiche. Poi i primi di ottobre le accuse di Mottaki contro Arabia Saudita e Stati Uniti. 79


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del numero

MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa JOHN R. BOLTON: già ambasciatore americano presso le Nazioni Unite MARCELLO FOA: inviato a Mosca per Il Giornale EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina OSCAR GIANNINO: direttore di Libero Mercato VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano BENIAMINO IRDI: ricercatore CARLO JEAN: presidente del Centro Studi di geopolitica economica, docente di Studi Strategici presso l’Università Guido Carli di Roma ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai nell’Area Sicurezza e Difesa. ROGER F. NORIEGA: ambasciatore, già consigliere diplomatico presso la Segreteria di Stato per l’America Latina e ambasciatore Usa presso l’Organizzazione degli Stati Americani durante la presidenza di George W. Bush DANIELLE PLETKA: vicepresidente dell’American Enterprise Institute di Washington NEENA SHENAI: giornalista e ufficio stampa del Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti ANDREA TANI: analista militare, scrittore

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