risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA
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quaderni di geostrategia
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DOSSIER
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SCACCHIERE
Il Pakistan dopo Musharraf
Europa
Mario Arpino
Alessandro Marrone
Il sindacato del terrore
Africa
Luca La Bella
Egizia Gattamorta
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I
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Geopolitica del (buon) vicinato
Americhe
Carlo Jean
Riccardo Gefter Wondrich
Forze Armate: dimenticare l’India?
pagine 62/65
Andrea Nativi
Le illusioni americane Humayun Gauhar
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LA STORIA Virgilio Ilari
Il doppio volto di Islamabad
pagine 66/71
Alexandre Del Valle
Né democrazia né autocrazia Colloquio con Jonathan Paris di Luisa Arezzo
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pagine 5/45
LIBRERIA
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Mario Arpino Andrea Tani
Editoriali
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pagine 72/79
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Michele Nones Stranamore pagine 46/47
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SCENARI
DIRETTORE Andrea Nativi •
La strategia multipla di Gerusalemme Enrico Singer
La terza via di Barack Obama George Friedman
Quando l’Onu sembra funzionare Pierre Chiartano pagine 48/61
CAPOREDATTORE Luisa Arezzo COMITATO SCIENTIFICO Michele Nones (Presidente) Ferdinando Adornato Mario Arpino Enzo Benigni Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Carlo Finizio Pier Francesco Guarguaglini
Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Remo Pertica Luigi Ramponi Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa
RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gasparini, Gattamorta, Gefter Wondrich, Ottolenghi, Tani
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SCOMMESSA PAKISTAN Il Pakistan è un paese con identità multiple, il cui principale fattore unificante è l’islam. Ma anch’esso è diviso. Secondo i dati ufficiali l’80 per cento della popolazione è sunnita e il restante 20 per cento sciita. Al netto di qualche setta religiosa islamica, rilevante (è il caso degli Ismaeliti) sul piano politico-economico. La geopolitica, e quindi la politica estera di Islamabad, sono influenzate dalla sua storia e posizione geografica: per alcuni Medioriente, per altri Asia meridionale. Ambigue anche le sue frontiere, delimitate a nord-ovest da quella linea Durand - tracciata nel 1893 – sempre contestata dall’afghana Kabul. Per non parlare dei contenziosi (leggi Kashmir, ma non solo), con il nemico di sempre: l’India. Che a forza di rappresentare il pericolo Numero 1 impedisce alle Forze Armate di emanciparsi e addestrarsi alla controguerriglia contro i talebani. Che non perdono l’occasione di una strage per dimostrare come il pendolo del conflitto si sia spostato dall' Afghanistan al Pakistan. Gli analisti americani scomodano paragoni con la guerra in Vietnam e sostengono che il territorio pachistano è oggi quello che era allora la Cambogia. Una retrovia preziosa per i contendenti. Lo sottolineano per spiegare perché il Pentagono abbia dato vita alla famosa strategia Af-Pak e incrementato i raid nell'area tribale del Pakistan. Una regione che è il tradizionale letto caldo per neotalebani, qaedisti e una miriade di formazioni con interessi diversi. Il punto di fusione ideale dei militanti con figure pachistane (politici, 007) che li sostengono. Le incursioni, condotte con aerei senza pilota Predator e forze speciali, sono viste dagli estremisti come la prova della collusione tra Islamabad e Washington. Mentre la debole presidenza Zardari non è in grado di sostenere la partita e si barcamena fra l’aiuto agli Usa e il sostegno ai fondamentalisti. In un gioco delle parti ogni giorno più pericoloso. È questa la sfida che oggi l’Occidente sta cercando di vincere, consapevole che l’atomica pachistana potrebbe cadere nelle mani sbagliate. E che la fragilità del Pakistan, secondo stato islamico dopo l’Indonesia, deriva dal fatto che non ha radici storiche. Ne scrivono: Arezzo, Arpino, Del Valle, Gauhar, Jean, La Bella, Nativi e Paris
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DAL RISCHIO NUCLEARE ALL’ECONOMIA, DAI RAPPORTI CON LA NATO ALLO STRAPOTERE DELL’ISI
IL PAKISTAN DOPO MUSHARRAF DI
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MARIO ARPINO
a situazione interna del Pakistan è tutt’altro che migliorata dopo la rinuncia agli incarichi e il ritiro dalla politica attiva di Pervez Musharraf. Come era facilmente immaginabile – sebbene le stesse democrazie occidentali che a lungo lo avevano sostenuto, per il semplice fatto che era un militare “golpista” con la valigetta nucleare e potere quasi assoluto, ne avessero chiesto a
gran voce le dimissioni – dopo la sua uscita di scena lo Stato è precipitato nel caos. Forse il disastro sarebbe accaduto ugualmente, ma ora anche i democratici occidentali più ideologicamente coinvolti sono costretti ad ammettere che il vero disastro, tuttora in atto, è accaduto “dopo”. Eppure il generale, nel corso di una sua visita a Roma mentre era ancora in carica, un appello all’Occidente lo aveva lanciato: «…non premete troppo l’acceleratore su un’attuazione immediata di tutti i principi della prassi democratica. Questi verranno, ma in Pakistan in questo momento i tempi non sono ancora del tutto maturi». Forse le parole non erano esattamente queste, ma il significato sì, certamente inequivocabile. L’occasione era un incontro al Senato con il presidente Pera, presenti invitati e stampa internazionale. L’appello mi era parso quasi un’implorazione, ma l’Occidente è rimasto sordo, ermeticamente chiuso nei suoi intoccabili principi. E lo ha isolato.
governo, anche su pressione degli Stati Uniti, era tornato sui suoi passi, scatenando un’imponente offensiva militare per riappropriarsi dell’area. La valle ha importanza strategica, in quanto chi la presidia controlla anche la principale via di accesso, da Peshawar attraverso il Khyber Pass, dal Pakistan verso l’Afghanistan. L’Esercito regolare si è dichiarato in più occasioni vincitore – e, militarmente, con ogni probabilità è vero – in questa campagna in cui le forze del movimento Therik-i-Taliban Pakistan (Ttp, un’alleanza di circa tredici gruppi islamisti con basi all’interno dei confini) sono state ripetutamente battute, ma mai azzerate. Infatti, se i successi ci sono stati, nel medio termine gli obiettivi dell’offensiva si sono dimostrati effimeri, tanto che, come si è visto, le incursioni contro i convogli continuano e la valle non è affatto sicura, nonostante la permanenza delle truppe. Anzi, la vendetta per quello che i talebani considerano un tradimento dei patti continua tuttora con sanguinosi attacchi terroristiDopo un impressionante susseguirsi di stragi in ci in tutto il Paese, dimostrando che l’azione governatutto il Paese, seguito da uno sciagurato patto con tiva, sebbene abbia disorganizzato le forze degli estrescambio di poteri tra il presidente neo-eletto, Asif Ali misti del Ttp, non le ha indebolite in modo significatiZardari e le forze telebane che avevano imposto la vo. Secondo gli esperti, c’è poca speranza che la lotta legge coranica ed il blocco della valle dello Swat, il contro gli islamisti possa essere vinta in modo definiti5
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«l’Inter Service Intelligence (Isi) è ancora troppo potente per essere messo in riga dal governo in carica e troppo invadente perché un Capo di stato maggiore possa epurarlo...» (Ahmed Rashid) vo nel medio temine, seppure dovesse ristabilirsi – ma anche ciò è questionabile – un minimo di stabilità interna. Sebbene nel marzo 2009 si fosse attenuata la tensione per il braccio di ferro con il sistema giudiziario, che aveva da ultimo accentuato le pressioni per l’uscita di scena del presidente Musharraf, i motivi del contendere continuano a moltiplicarsi. All’origine c’è sempre l’antica lotta di potere tra Zardari, vedovo della Bhutto, e il filo-talebano per convenienza Nawaz Sharif, condotta senza esclusione di colpi tra i due principali partiti, il Pakistan People’s Party (Ppp) e la Pakistan Muslim League (Pml). Questo continuo dissidio, pregiudicando l’efficacia del governo, finisce per lasciar spazio alle minoranze islamiche integraliste, che hanno mano libera un po’ovunque nel Paese. La sicurezza interna è dunque destinata a rimanere il problema principale, assai più che i mai sopiti duelli con l’India, ma le condizioni attuali continuano a distoglierne l’attenzione del governo. Anche sotto il profilo economico, malgrado gli interventi mirati del fondo monetario Internazionale (Imf), le cose non vanno bene e per il 2010-2011 si prevede un ulteriore allargamento negativo della forbice import-export. La mancanza di liquidità porta il governo a ridurre i consumi interni, aumentando il costo dell’energia, e questo porterà ad un aggravamento della già precaria situazione sociale, a unico vantaggio del radicalismo islamista e di una sempre maggior invasività delle scuole coraniche. È un quadro desolante, difficile da comprendere se non si 6
approfondisce almeno un poco quello che è stato e che in parte ancora è il ruolo cruciale dell’Inter Service Intelligence (Isi), l’essenza e le origini di una lotta per il potere mai sopita, il ruolo dei militari e la sicurezza nucleare, le relazioni internazionali del Paese e l’interesse attuale della Nato e dell’Occidente. Con gli anni l’Isi si è trasformato da un servizio intelligence operativo militare in un’organizzazione pervasiva di tutte le altre attività dello Stato. Faceva comodo così, anche se era evidente che acquistando potere sfuggiva in misura sempre maggiore all’autorità e al controllo dei vari governi, militari o civili, succedutisi nel tempo. Musharraf, giovandosi del suo prestigio personale, aveva cercato di ridimensionarne in qualche modo i poteri, ma è abbastanza probabile che solo una parte del Servizio gli sia stata fedele. Un’altra parte consisteva sopra tutto in agenti di etnia pashtun operanti in Afghanistan e nelle aree tribali, ormai diventati “più talebani dei talebani”. Con Zardari, che non ha lo stesso carisma di Musharraf, la situazione è anche peggiorata, tanto che gli stessi Stati Uniti si sono visti costretti – sollevando comprensibili malumori – a canalizzare gli ingenti aiuti che continuano a fornire al Pakistan verso proprie organizzazioni sul territorio, invece che procedere alle assegnazioni attraverso le strutture governative. Sono stati proprio gli “aiuti”, a suo tempo, a far crescere il potere dell’Isi a dismisura, fino a portarlo fuori controllo. In questo la responsabilità non va ascritta né a Musharraf né a Zardari, che questa situazione l’anno ereditata. Il flusso di aiuti è, infatti, di origine assai datata. Durante gli anni Ottanta era l’Isi a gestire i miliardi provenienti dall’Occidente e dagli Stati arabi, in primis l’Arabia Saudita, per aiutare i mujaheddin che combattevano i sovietici. Con l’incoraggiamento e il supporto tecnico della Cia, interessata a tenere sotto controllo l’area, l’Isi gestiva così capitali considerevoli per infiltrare agenti ed aprire attività che consentissero non solo il controllo di ciò che accadeva in Afghanistan, ma anche in India e all’interno dei Servizi dei paesi confinanti. Nel paese, il controllo era ormai esteso alla politica estera, interna, economica, sociale e culturale dello stesso governo. La stessa Cia
dossier aveva fornito equipaggiamento e know how per un diretto controllo di tutti i sistemi telefonici all’interno e per l’estero. Il periodo d’oro per l’Isi è stato quello del regime militare del presidente Zia ul-Haq, fervente islamico, il quale, ossessionato dalla minaccia indiana, aveva deciso di crearsi una profondità strategica alle spalle, controllando l’Afghanistan. Così, in queste aree e all’interno del Paese, e fino alla morte di Zia nel 1988 in un “incidente” aereo, l’Isi era diventata la forza più potente in materia di politica interna ed estera del Paese. Continuò così anche dopo, durante le prime fasi del governo “civile” di Benazir Bhutto, che fu ripetutamente scavalcato sui temi politici ritenuti più critici per la sicurezza nazionale.
Mentre l’Isi cercava di mantenere la presa sulla politica nei confronti dell’Afghanistan, il governo Bhutto, cosa che si accentuò con il successivo governo di Nawaz Sharif, cominciava a strizzare l’occhio alle nuove forze talebane, che si riteneva potessero essere un utile alleato se si fossero impadronite dell’Afghanistan, consentendo al Pakistan di realizzare il miraggio della tanto agognata profondità strategica. Verso queste forze furono dirottati aiuti cospicui. Salvo la delusione, quando i talebani capirono che non avevano più bisogno del sostegno governativo pachistano, essendo loro sufficiente il controllo delle aree tribali pashtun e il supporto, condizionato e mascherato, di quella parte dell’Isi che, con la convivenza, aveva maggiormente assorbito la cultura islamista più radicale. A parte la parentesi Musharraf, il controllo centrale sull’Isi continua ad essere fonte di seri dubbi. C’è chi osserva – senza sbagliare di molto – che il Pakistan è vittima non solo di una erronea visione strategica regionale, ma anche dell’inaffidabilità dei suoi servizi segreti. I quali, secondo una valutazione di Ahmed Rashid, sono ancora troppo potenti per essere messi in riga dal governo e troppo invadenti perché un Capo di stato maggiore sia in grado di riformarli. La storia politica della Repubblica Islamica del Pakistan, dopo la fondazione nel 1947 da parte del “padre della Patria” Mohammed Alì Jinnah, vede alter-
narsi periodi di dittatura militare e di governi civili ispirati ai principi della democrazia parlamentare. I militari ritornarono al potere nel 1958 e lo tennero otre dieci anni. Dopo la guerra con l’India del 1971 il governo torna ad essere civile con l’elezione di Zulfiqar Ali Butto, padre di Benazir, ma dopo la sua esecuzione ritornano i militari con il già citato generale Zia ul-Haq, con il quale c’è un’espansione della legge islamica, un forte potenziamento dell’Isi e un prosperare delle mafie – la più potente quella dei trasporti – con ampio contrabbando di armi e droga con l’Afghanistan e l’attraversamento della linea Durand da parte di migliaia di profughi delle tribù pashtun d’oltre confine, che hanno fatto fiorire migliaia di scuole coraniche e introdotto sempre di più la legge islamica – la shari’a – in sovrapposizione alle leggi dello Stato. Dopo la morte di Zia, per dieci anni, a partire dal 1988, vediamo nuovamente governi civili, guidati alternativamente da Benazir Bhutto e da Nawaz Sharif, in eterna contrapposizione. Con Sharif, i talebani e gli estremisti islamici hanno cominciato a trovare sempre maggiori spazi a livello di istituzioni centrali e periferiche. Secondo i commentatori, fino all’avvento del generale Musharraf, che ha cercato di porre freni ed avviare riforme – anche sociali oltre che economiche – i governi centrali sono stati caratterizzati da personalismi e corruzione politica. Con Asif Ali Zardari, vedovo della Bhutto, siamo tornati ad un precario governo civile, insidiato dal vecchio concorrente Nawaz Sharif ed eternamente nel mirino della magistratura e dell’estremismo islamico. Ma anche Zardari, sul quale gli Stati Uniti hanno fatto forti pressioni perché intensifichi la lotta contro gli estremisti nella valle dello Swat e nel Waziristan del sud, in questo momento sta navigando in acque pericolose. Sospettato da sempre di corruzione, è tale la pressione di media, magistratura e alleati politici che a giudizio dei militari, che nel Paese continuano a contare, la sua rimozione non provocherebbe alcuna reazione, salvo forse nel Sindh, sua provincia di origine. Tra i vertici dell’esercito sembra corrente l’impressione che anche gli Americani, ottenuti tutti i risultati possibili nella repressione degli estremisti islamici 7
Risk e dei talebani “di casa”, non muoverebbero un dito in caso di una sua emarginazione. Ciò è confermato da un sondaggio condotto l’estate scorsa dall’International Republican Institute – organizzazione statunitense noprofit – secondo cui il 20 per cento dei pachistani è in favore di un nuovo governo militare, percentuale che sale al 65 per cento in casi di emergenza interna o di un dilagare eccessivo della corruzione. Solo il 25 per cento ritiene che le Forze Armate non abbiano diritto di interferire nella vita politica nazionale, mentre solo il 17 per cento dell’elettorato rimarrebbe ancora a favore di Zardari. Tra i membri dell’attuale governo, solo il primo ministro Yousuf Gillani ha visto crescere i consensi dal 19 al 33 per cento. Continuando con l’indagine, l’amara sorpresa è che si rischia di cadere dalla padella nella brace. Circa il 75 per cento degli intervistati, stanco degli attentati e della guerra combattuta nelle province su pressione americana, vorrebbe che ad avvicendare Ali Zardari fosse proprio Nawaz Sharif, molto criticato, ma ritenuto più incline ad iniziare trattative e compromessi con telebani ed estremisti.
Questa volatilità della situazione, rapidamente peggiorata con il ritiro di Musharraf, preoccupa per molti aspetti, non ultimo quello della sicurezza nucleare. Il Pakistan è indubbiamente potenza atomica, possedendo in proprio sia le testate sia i vettori. Il tutto è in funzione anti-India, con la quale il bilancio degli armamenti nucleari è sostanzialmente in pareggio. Sessanta testate ciascuno, secondo l’osservatorio Sipri di Stoccolma, ma l’India ha il vantaggio strategico di essere sette volte più grande, con una popolazione sette volte superiore. Sebbene il Pakistan, come l’India, non abbia mai firmato il trattato di non proliferazione, l’Occidente non ha mai avvertito né l’uno, né l’altra come minaccia diretta nei propri confronti. Le armi, tutto sommato, erano in mani sicure. Ora le cose potrebbero cambiare. Il debole Zardari, stretto da un lato dagli avvocati del perfido alleato-nemico Sharif e dall’altro dalle forze dell’integralismo, per sopravvivere potrebbe cambiare bandiera e arrivare a trattative che, come già successo, potrebbero consentire ai tale8
bani di mettere piede fuori dai loro santuari. Se dovesse subentrare nuovamente Nawaz Sharif, un certo numero di concessioni importanti sarebbero certe. Con Musharraf in sella cose del genere erano impensabili, anche se le anime candide nostrane e d’oltre oceano continueranno a parlarne male. I dubbi ci sono, e sono tanti. Il primo riguarda la oggettiva volontà e la reale possibilità di esercitare quel ruolo che la comunità internazionale – forse oggi inconfessatamente pentita – chiede a Zardari di confermare. Altri dubbi riguardano i suoi effettivi poteri, il suo rapporto con l’Esercito – cha a Musharraf era fedele – e alla posizione dello stesso Esercito e dell’Isi nei confronti dei talebani di casa. Il pensiero, o forse l’incubo, non può non tornare sulla sicurezza delle testate. Sembra che dopo l’11 settembre ci fossero dei piani, predisposti con la consulenza americana, per una disattivazione rapida delle armi nel caso corressero il rischio di cadere in mani irresponsabili. E ora? E se subentrerà davvero Sharif? Una delle prime azioni di Musharraf era stata quella di porre l’armamento sotto stretto controllo militare, sottraendolo ai giochi di potere dell’inaffidabile “padre della bomba islamica”, il chiacchierato ingegner Khan che, anzi, era stato posto sotto custodia agli arresti domiciliari. Ora Asif Zardari, che ricerca un minimo di popolarità, lo ha rimesso in libertà, con l’applauso degli islamisti. Per fortuna, sinora il triplo sistema di sicurezza, mutuato da quello in vigore in Occidente, non è stato toccato. Il controllo politico, la così detta National Command Authority, dovrebbe continuar a far capo al presidente, cioè allo stesso Zardari. Il controllo militare fa tutt’ora capo alla Divisione Piani Strategici dello Stato Maggiore, che a sua volta fa capo al Generale Kayani, comandante dell’Esercito e della Difesa. Il controllo tattico, in caso di impiego, viene delegato ai comandi operativi. Senza il consenso contemporaneo di queste tre chiavi distinte lungo la catena, il sistema non funziona e le testate rimangono inerti, quindi inutilizzabili. Ma, con il plaudente contributo di tutti i democratici dell’Occidente, ormai Musharraf se n’è andato. Al suo posto c’è uno spaventatissimo Zardari, per di più mutilato di una parte dei poteri e del carisma
dossier che aveva il generale. In ogni caso, grazie ai militari, al momento il nucleare sembrerebbe ancora al sicuro. Ma per quanto, se le premesse sono quelle che osserviamo ogni giorno? L’attacco dell’anno scorso al quartier generale delle Forze Armate a Rawalpindi, mai tentato prima, ha fatto suonare un preoccupante campanello d’allarme.
A parte il braccio di ferro con l’India per la questione del Kashmir, per l’attenuazione del quale l’Occidente, ma anche alcuni Paesi arabi sunniti, sta cercando di gettare acqua sul fuoco, le relazioni esterne del Pakistan hanno una tendenza positiva a tutto campo. Scontata è la collaborazione con la Cina, prevalentemente in ambito militare, ma anche per le tecnologie duali. Il Paese sa che per uscire dalla crisi economica, istituzionale ed esistenziale in cui si trova ha bisogno dell’aiuto di tutti, e si comporta di conseguenza. D’altro canto, tutti si rendono conto che il Pakistan, vero bastione tra civiltà e barbarie, non può e non deve essere lasciato cadere. Tanto più visto che è cooperativo e, nonostante una situazione interna assai travagliata, fa di tutto per aiutarsi anche da solo. All’interno, vi è consapevolezza di questa necessità. Anche per quanto riguarda le operazioni nella valle dello Swat e nel Sud Waziristan, vi sono indizi di atteggiamento positivo da parte della popolazione. Secondo un sondaggio abbastanza recente condotto da Gallup Pakistan, il 51 per cento degli intervistati appoggia l’offensiva governativa, anche se il 39 per cento è convinto che la guerra contro i talebani di casa sia un conflitto voluto dagli Americani. Resta però il fatto che, tra tutti, il 37 per cento è convinto che si tratti di un conflitto necessario, vitale per il Paese. Gli Stati Uniti, dal canto loro, continuano a chiedere a Islamabad più impegno, in cambio di una serie di incentivi nel campo dell’intelligence e della cooperazione civile e militare. Anche l’Italia, pochi lo sanno, nell’ambito dell’ultimo provvedimento per il rifinanziamento della missioni internazionali, ha stanziato una posta che va a beneficio di una missione civile in Pakistan. Dopo il boom degli investimenti in epoca Musharraf, con una crescita media annua del
Sebbene il Pakistan, come l’India, non abbia mai firmato il trattato di non proliferazione, l’Occidente non ha mai avvertito né l’uno né l’altro come una minaccia. Ora le cose potrebbero cambiare 17,7 per cento negli anni tra il 2003 e il 2007, nel 2008 c’è subito stata una contrazione del 6,5 per cento, con una previsione di lieve crescita – l’1,7 per cento – nel 2010. Incrementate invece del 24 per cento, da un anno all’altro, le rimesse dei pachistani all’estero. L’inflazione, salita dopo Musharraf al 23,3 per cento, tende ora a mantenersi attorno al 13 per cento. L’intero assetto macroeconomico pachistano sta ora stabilizzandosi, dopo varie trance di finanziamenti di emergenza da parte del Fondo Monetario Internazionale. Ma il pericolo di collasso persiste, per cui sono necessarie misure austere (aumenti del carburante, dell’elettricità, ecc.) per ridurre la domanda interna, mentre la forbice del deficit commerciale con l’estero si andrà allargando nel prossimo biennio a causa di una crescita dell’export definita “anemica”. La politica di assistenza da parte degli Stati Uniti ha creato aspettative anche nel settore civile, con 7,5 miliardi di dollari assegnati con una legge federale approvata alla fine dell’anno scorso. Ciò nonostante, la presenza degli Stati Uniti nel Sud asiatico continua ad essere percepita dai Pakistani come negativa, tesa soprattutto a rafforzare il partenariato con l’India, loro storico nemico.
L’interesse della Nato e dell’America per la salvezza del Pakistan è evidente. Le numerose visite, dalla Clinton a Petraeus, dal consigliere speciale di Obama per la sicurezza Jones al generale McChristall, comandante di teatro delle forse Isaf e Usa, ne sono puntuale 9
Risk conferma. Pur non volendo truppe straniere sul loro territorio e protestando formalmente per gli attacchi mirati dei Predator nelle aree tribali, i militari pachistani continuano a temere che il focus della politica Nato e Usa si concentri più sul versante afgano che su quello pachistano, facendo prima o poi venir meno i supporti di cui l’Esercito continua ad avere urgente bisogno. D’altro canto, la globalizzazione crescente ha accresciuto l’influenza della cultura occidentale, che trova terreno favorevole nei residui di abitudini britanniche importate al tempo della separazione dall’India. Ciò è vero sopra tutto tra la parte più ricca della popolazione, che ha più facile accesso ai prodotti occidentali, dai ristoranti ai beni di consumo. Negli anni di Musharraf, ma intelligentemente questo tuttora continua, il governo ha garantito numerosi incentivi alle compagnie statunitensi ed europee in grado di fornire un apporto tecnologico avanzato. Esenzioni fiscali per dieci anni, azzeramento dei dazi sugli elaboratori, finanziamenti per l’insediamento di società miste, agevolazioni per l’educazione tecnica all’Information Technology sono ormai prassi usuali nel mondo industriale pachistano, che spesso è in grado di fornire software e servizi a basso costo anche fuori dalla regione. Se solo fosse possibile far regredire l’estremismo islamico, che al momento sta invece avanzando, un Pakistan moderno, che già esiste senza venir meno alle proprie tradizioni, ha tutto il potenziale per diventare davvero un partner preferenziale dell’Occidente nell’Asia centrale. Il tormentone della storia politica più recente del Paese continuerà a basarsi ancora a lungo sulla tripla A, “Allah, Army e America”. Speriamo sia così, perché, nessuno arricci il naso, questo è davvero il caso più favorevole! 10
dossier
FONDAMENTALISTI, ISLAMISTI, MILITANTI TRIBALI: ECCO CHI SI MIMETIZZA SOTTO L’EGIDA DI AL QAEDA
IL SINDACATO DEL TERRORE DI
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LUCA LA BELLA
a decisione dell’Esercito pakistano di non proseguire l’offensiva contro i militanti fondamentalisti in Nord Waziristan, citando problemi logistici e mancanza di risorse, ha nuovamente concentrato l’attenzione dell’Occidente sulla questione dei rapporti tra enti e membri dell’establishment pakistano e militanza radicale. Dopo aver unilateralmente dichiarato conclusa l’operazione
contro i combattenti tribali Mehsud, spina dorsale del Tehrik-e-Taliban Pakistan (Ttp), Rawalpindi, sede del quartier generale delle Forze Armate, ha chiuso la campagna contro i militanti che era cominciata l’anno scorso con l’assalto alle roccaforti del Ttp nella valle di Swat e nei distretti circostanti. Questo sviluppo ha allarmato le capitali occidentali, Washington e Londra in primis, in quanto è evidente che si tratta di una decisione politica e non dettata dalla realtà sul campo. Il Sud Waziristan non è affatto “bonificato” dalla presenza del Ttp, i cui combattenti sono fuggiti nelle altre aree tribali, in particolare Nord Waziristan e Orakzai, da cui continuano ad attaccare i convogli Nato e Peshawar, né peraltro è migliorata la sicurezza nelle principali città del Paese: Islamabad, Karachi, Lahore e Multan. L’impronta della militanza sul territorio pakistano, inoltre, non è stata affatto cancellata, nonostante i successi, sbandierati da Rawalpindi, delle offensive a Swat e in Sud Waziristan. Se una parvenza di normalità sembra essere tornata a Swat, le operazioni in Sud Waziristan invece si sono concentrate sui Mehsud, trascurando completamente i
combattenti Wazir di Maulvi Nazir, i cui territori nella porzione occidentale dell’area ospitano dal 2001 talebani afghani e combattenti stranieri di alQaeda. A Mohmand e a Bajaur, l’Esercito pakistano ha sospeso le operazioni contro i militanti nel marzo dell’anno scorso, anche se, i combattenti del Ttp ed i loro alleati afghani e “stranieri” non sono mai stati cacciati dalle loro roccaforti. Nelle altre “agenzie” tribali di Orakzai, Kurram e Khyber le posizioni dei militanti sono in sostanza intatte, a fronte di operazioni estremamente limitate condotte dal Frontier Corps appoggiato dall’Aviazione. Al di fuori delle aree tribali i cosiddetti “settled districts” della North West Frontier Province più vicini alle Fata ovvero, Tank, Bannu, Hangu, Kohat, Karak, Lakki Marwat e Dera Ismail Khan rimangono sotto il controllo dei militanti. In particolare, Tank, al confine con il Sud Waziristan, resta una degli obiettivi preferiti per le incursioni dei militanti di Mehsud. Il distretto di Bannu, al confine con il Nord Waziristan, è da tempo identificato come bastione dei combattenti stranieri alleati di al-Qaeda. In particolare, a Jani 11
Risk Khel, nei pressi di Bannu, in una sessione congiunta della Shura Majlis (consiglio esecutivo) a cui avrebbero preso parte i vertici di al-Qaeda, i leader talebani avrebbero deciso di espandere il ruolo del gruppo nel “futuro” Emirato islamico afghano e avrebbero fondato una embrionica banca centrale, denominata Bayt al-Mahl (casa del denaro), per questo proposito. A fronte di queste comuni aspirazioni territoriali, risulta sempre più difficile distinguere al-Qaeda dalla militanza attiva nelle Fata e dai gruppi di insorgenza afghani. È per questa ragione che di pari passo con l’adozione di una strategia congiunta per Afghanistan e Pakistan, l’amministrazione Obama ha cominciato a parlare di al-Qaeda and Allied Movements (Aqam – alQaeda e movimenti alleati). Il Pakistan, dunque rimane un Paese seriamente minacciato dalla militanza radicale filo-talebana e filo-qaedista attiva sul suo territorio. Il Pakistan rappresenta, infatti, non solo il retroterra dell’insurrezione afghana, ma costituisce altresì un “bottino” ancora più ghiotto per il jihadismo globale di al-Qaeda e i militanti locali loro alleati, data l’importanza geo-strategica del Paese – dotato di arsenale nucleare (60-100 testate) e situato all’imboccatura del Golfo di Oman – e le sue proporzioni demografiche (quasi 180 milioni di abitanti). Senza contare poi che nell’immaginario collettivo dei jihadisti, l’annosa disputa con l’India sul Kashmir è seconda solo alla Palestina e, pertanto, conferisce alla lotta contro lo
Sebbene al Qaeda non faccia parte del disegno strategico che vede l’Isi manipolare il radicalismo islamico, esiste una nutrita corrente in seno all’intelligence che simpatizza con il jihad 12
Stato pakistano “asservito agli interessi degli infedeli” un valore propagandistico di enorme rilevanza. Pur dovendo fare i conti quasi quotidianamente con attacchi che più di una volta hanno colpito persino Rawalpindi, i leader militari del Pakistan perseverano nella politica di arbitraria distinzione dei militanti con cui è possibile dialogare da quelli oggetto di repressione militare. In termini spiccioli si tratta della continuazione della politica del “talebano buono-talebano cattivo” che ha condotto il Paese sull’orlo del baratro in cui si trova da dieci anni o quasi. Questa è resa possibile dai significativi sforzi profusi dall’Isi a partire dal 2007 nel riattivare vecchi rapporti con realtà militanti nelle Fata considerate fedeli, come il network di Jalaluddin Haqqani, e i comandanti locali Maulvi Nazir e Hafiz Gul Bahadur. Tuttavia, come dimostra l’incessante spirale di violenza che interessa ormai porzioni sempre più ampie del territorio pakistano, incluso il Punjab, sede dei centri di potere del Paese, questo approccio ha presto perso la sua efficacia e si è anzi dimostrato controproducente. Tutto ciò mentre la militanza talebana in Pakistan ha raggiunto livelli di radicalizzazione superiore rispetto a quella dei talebani afghani del Mullah Omar ed ha caratteristiche più omogenee, distinguendosi per la maggiore vicinanza ideologica e tattica agli ambienti del jihadismo globale che fanno capo ad al-Qaeda. A questo proposito bisogna ricordare l’attentato di fine anno contro la Fob Chapman nella provincia afghana di Paktika, “feudo degli Haqqani”: l’attentato è stato orchestrato da al Qaeda e coordinato da Siraj Haqqani per conto del Ttp, che l’ha rivendicato. È in questo senso che, nonostante la natura controversa e il pessimo ritorno d’immagine, gli Usa hanno intensificato i raid con i droni. L’irriducibilità di Mehsud e dei suoi e l’agglomerazione nelle Fata degli ambienti jihadisti sia pakistani sia globali rende la minaccia che si propaga dalle aree tribali pakistane troppo seria per non essere contrastata immediatamente a livello tat-
dossier tico. Dopo una relazione che storicamente ha visto l’Isi sfruttare per decenni gli equilibri tribali nelle Fata per favorire ingerenze pakistane nella vita politica dell’Afghanistan e per sfruttare la leva del fondamentalismo islamico contro l’India, oggi le Forze di Sicurezza pakistane si trovano a dover contenere le dannose conseguenze di queste politiche, che hanno finito per destabilizzare il Paese. La preoccupazione di Rawalpindi è che data la difficile situazione per le truppe internazionali in Afghanistan e la forza dell’insurrezione talebana in quel paese, il Pakistan – ufficialmente schierato con gli Usa – possa perdere ogni ascendente sui pashtun e quindi pregiudicare la propria influenza in Afghanistan.
Durante la sua visita in Pakistan il Segretario alla Difesa Gates ha evidenziato i grossi rischi associati alla politica dell’Esercito pakistano, affermando che i gruppi militanti rifugiatisi nelle Fata e nella Nwfp costituiscono oramai un “sindacato del terrore” sotto l’egida di al-Qaeda, intento a destabilizzare l’intera regione e in particolare a provocare una recrudescenza del mai sopito conflitto indo-pakistano. La commistione di gruppi militanti provenienti dai più remoti angoli del mondo islamico che si è venuta a creare nelle aree tribali a partire dal 2001 rende l’approccio selettivo adottato dai pakistani uno strumento alquanto inefficace per contrastare l’insurrezione nei territori pakistani abitati dai pashtun e per porre fine alla stagione di attentati che insanguina le città del Paese. La ventennale presenza di al Qaeda nelle Fata, anche se inframmezzata dal periodo sudanese (1991-96), è indicativa dell’attuale contesto della militanza. La natura del fenomeno qaedista non è mai stata asettica, autocontenuta e indipendente, in quanto sin dall’inizio il “database” dei mujaheddin, compilato negli anni Ottanta da Osama bin Laden e dal suo mentore di allora Abdullah Azzam, comprendeva elementi operativi di gruppi diversi, spesso in disaccordo sulla tattica, ma in piena sintonia strategica. Il posizionamento del gruppo di bin Laden come punta di
diamante del jihadismo globale, inestricabilmente legato a militanti provenienti da tutta la ummah, rende impossibile la sua neutralizzazione mediante l’uccisione di singoli operativi e ne amplifica l’influenza sugli ambienti radicali di tutto il mondo. Durante gli anni Novanta, in Sudan, al-Qaeda ha potenziato i suoi legami con altre realtà militanti, in primis la Jihad Islamica Egiziana di al-Zawahiri, e, in seguito all’11 settembre, ha potuto avvalersi di tutti i suoi storici contatti con le realtà militanti pakistane e regionali. Ciascuno dei principali gruppi militanti nelle aree tribali e nel vicino Balochistan, la Shura di Quetta, il Ttp, il network degli Haqqani, l’Hezb-e-Islami Gulbuddin di Hekmatyar e i gruppi kashmiri, sono alleati di alQaeda e cooperano in maniera sostanziale sia in Afghanistan sia in Pakistan. Sebbene al-Qaeda non faccia parte del disegno strategico che vede l’Isi manipolare il radicalismo islamico per acquisire profondità strategica in Afghanistan e Asia Centrale, esiste una nutrita corrente in seno alla comunità di intelligence e all’establishment militare del Paese che simpatizza con la causa del jihadismo e sponsorizza numerose realtà legate a Osama bin Laden e Zawahiri, inclusi i tre principali gruppi di insorgenza in Afghanistan: la Shura di Quetta, il network degli Haqqani e l’Hezb-e-Islami Gulbuddin di Hekmatyar. Dopotutto, il Mullah Omar, Jalaluddin Haqqani e Gulbuddin Hekmatyar hanno tutti avuto notori contatti con l’Isi, che li usava come proxy in Afghanistan. Fra i gruppi citati il principale “proxy” pakistano è il network Haqqani. La consistenza delle forze a disposizione del gruppo è difficile da accertare, con stime che vanno dai 4 ai 12 mila combattenti, mentre il baricentro delle operazioni del gruppo si è spostato dalla provincia di Paktia verso Kabul. Si ritiene ad ogni modo che il Network Haqqani sia stato il primo a introdurre la tecnica degli shahid (suicidi) in Afghanistan dopo il 2001. Inoltre, si fanno risalire al gruppo gli attentati più sofisticati in terra afghana fra cui, l’assalto all’Hotel Serena di Kabul 13
Risk (14/01/08), il tentato assassinio di Karzai alla parata militare (27/04/08), il citato attacco contro la Cia alla Fob Chapman e il recente assalto a Kabul del gennaio scorso. Il più clamoroso rimane però l’attacco del 7 luglio 2008 all’ambasciata indiana di Kabul, sul quale gravano pesanti accuse nei confronti dell’Isi, accusata da Raw, Nds (l’Amniyat afghana), Cia e MI6 di esserne il mandante. Infatti, le maggiori lamentele e i più pesanti sospetti di collusione tra Isi e insurrezione talebana si sollevano in relazione ai contatti che questa manterrebbe proprio con il network di Haqqani. Sono stati proprio i legami con l’Isi che hanno permesso agli Haqqani di stabilirsi non lontano da Miram Shah, capoluogo del Nord Waziristan, dove il gruppo gestisce un’amministrazione parallela completa di corti islamiche, uffici per la riscossione dei tributi, centri di reclutamento e forze di polizia. A partire dal 2005 si è verificata una proliferazione nell’area di compound fortificati, rifugi sicuri e campi di addestramento, sviluppo che ha portato al vertiginoso aumento dei raid Usa. Dalla seconda metà del 2008 fino a oggi la maggioranza dei raid con i droni ha colpito il Nord Waziristan. Sin dalla jihad anti-sovietica gli ambienti pashtun pakistani, di matrice islamica deobandi, hanno stabilito numerosi contatti con l’Islam wahabita (professato nelle aree del Golfo), ancor più intollerante e oscurantista rispetto alle pur conservatrici tradizioni locali. Queste interazioni con gli ambienti dell’estremismo sunnita, oramai decennali, agevolate dalla presenza in Pakistan di numerosi combattenti e ideologi stranieri affiliati ad al-Qaeda, hanno portato alla progressiva “wahabizzazione” della militanza autoctona. Esempio di questo fenomeno è Lashkar-e-Toiba (LeT), fondato da Hafiz Muhammad Saeed nella provincia afghana di Kunar nel 1990. Come alQaeda, e a differenza delle correnti principali dell’Islam pakistano, quali la barelwi, maggioritaria, sunnita e di orientamento sufi, e quella deobandi, radicale sunnita minoritaria, ma concentrata 14
nelle terre dei pashtun, il LeT pratica il Wahabismo. Conseguentemente, in linea con gli obiettivi di bin Laden e Zawahiri, il gruppo lotta per la costituzione di un califfato globale e gestisce essenzialmente un parastato all’interno del Pakistan, assumendo connotazioni che a volte lo rendono più simile a Hezbollah o Hamas che a un gruppo terroristico tradizionale. L’enorme struttura di Muridke, Quartier Generale del LeT, a pochi km a nordovest di Lahore, è essenzialmente una cittadella fortificata e indipendente dal resto del Punjab.
Il LeT è uno dei principali gruppi tramite i quali l’Isi istiga e incoraggia l’insurrezione nel Kashmir indiano e gli attacchi in India. Con l’assalto di Mumbai del novembre 2008, indiscutibilmente attribuito al gruppo, Lashkar-e-Toiba ha cominciato un processo di pubblico allontanamento dal governo pakistano, considerato apostata e “servo del Grande Satana”. Questo allontanamento ha coinciso con il graduale trasferimento di molti suoi operativi nelle aree tribali, anche se il gruppo rimane legato al Punjab. Oltre al LeT anche altri gruppi simili per orientamento, origini e attività sono stati storicamente utilizzati dall’Isi per fare pressioni sull’India, tra questi si annoverano Jaish-eMohammed, Harkat-ul-Jihad-al-Islami, Hizb-ulMujahideen e Harkat-ul-Mujahideen. Sul modello dell’assistenza militare fornita al regime talebano mediante l’integrazione delle sue milizie con la Brigata Araba 55 e l’addestramento fornito ai suoi miliziani nei campi afghani gestiti dal gruppo, alQaeda continua a giocare il ruolo di moltiplicatore di forza con il Lashkar al-Zil (esercito ombra). Questa unità paramilitare, che opera lungo il poroso confine afghano, è formata da sei nuclei operativi (definiti grossolanamente “brigate”) composte da militanti provenienti da tutti i gruppi attivi nelle aree tribali e fornisce assistenza tattica e shahid all’insurrezione talebana. Al Qaeda combatte dunque al fianco dei talebani da almeno dieci anni ed ha familiarità con il terreno
dossier delle arre tribali da perlomeno venti, ed è quindi logico ritenere che i legami fra militanti siano stati rafforzati dal loro condividere gli stessi rifugi sicuri nelle Fata. Se non altro, la fondazione dell’Emirato Islamico del Waziristan nel 2006, essenzialmente un regime talebano a livello embrionale, ha rappresentato il simbolo dell’aumento della cooperazione fra le varie realtà militanti, oltre che della protezione che i pashtun locali accordavano loro in cambio di denaro e addestramento. L’intelligence Usa ritiene infatti che al Qaeda abbia ricostituito la sua capacità di colpire non solo l’Occidente, ma anche Pakistan, India e i deboli Stati centrasiatici, grazie alla disponibilità di ampi spazi senza governo nelle aree tribali pakistane, che consentono al gruppo di addestrare operativi e shahid. Il focus sulle operazioni esterne, dirette contro gli interessi occidentali nella regione e nel mondo, coincide con il reclutamento di individui dal background islamico, ma con documenti occidentali. L’ondata di arresti di sospetti terroristi negli Usa nel corso del 2009 e la cellula sgominata dalla Polizia bavarese che reclutava in Germania volontari da inviare sui fronti della Jihad afghana – via Pakistan – indicherebbero un aumento dell’attività del gruppo in questo senso. Del resto, da tempo ogni complotto per attaccare l’Occidente, incluso quello contro gli aerei di linea in volo sopra l’Atlantico (“il complotto di Heathrow” del 2006), può essere ricollegato direttamente o indirettamente alle aree tribali pakistane. Al Qaeda e i loro alleati talebani hanno esteso la rete di campi di addestramento nelle Fata e nel nordovest. Nell’estate del 2008, secondo l’intelligence americana, si contavano 157 campi e 400 basi logistiche. I campi variano per dimensioni e “indirizzo” (ovvero forniscono competenze e specialità diverse), ma la maggioranza di essi ha natura mobile o temporanea, essendo i cieli delle Fata sorvolati sempre più frequentemente da Predator e Reaper a caccia di high value targets. Ad ogni modo, un certo numero di campi è da considerarsi permanente, (circa 25-50), essendo
Le basi logistiche tendono ad essere fisse lungo la linea Durand e forniscono supporto e depositi di armi a tutta la galassia di militanti che opera dal Baluchistan al Kashmir questi situati in zone impervie, protette da montagne scoscese e ben difendibili. La maggior parte dei campi permanenti si trova nel Sud e nel Nord Waziristan. In alcuni campi viene praticato l’addestramento delle reclute talebane per l’insorgenza afghana, in altri l’indottrinamento di shahid (spesso poco più che bambini) per attacchi contro i governi afghano e pakistano, altri ancora sono dedicati all’addestramento dei vari gruppi di area “kashmira” (Lashkar-e-Toiba, Jaish-e-Mohammed, Harkatul-Jihad-al-Islami, Hizb-ul-Mujahideen, Harkat-ulMujahideen), mentre altri sono utilizzati da alQaeda per attacchi contro gli interessi occidentali e per l’addestramento del Lashkar al-Zil e della Black Guard, il corpo scelto per la protezione dei maggiori esponenti del gruppo. Le basi logistiche tendono ad essere fisse lungo la linea Durand e forniscono supporto in termini di rifugi sicuri, veicoli e depositi di armi a tutta la galassia di militanti che opera dal Baluchistan al sud fino all’Azad Kashmir al nord. Questo sarebbe un ulteriore segno del grande livello di cooperazione e compenetrazione tra i vari gruppi, come del resto lo è il fatto che nell’escalation di raid con i droni accade frequentemente che operativi di al-Qaeda vengano uccisi in noti rifugi talebani. Nonostante la minaccia degli Uav, gli esponenti di al Qaeda e dei gruppi alleati continuano a godere dell’ospitalità (melmastia in pashto) di militanti talebani quali gli Haqqani (Nord Waziristan), Hakeemullah Mehsud o un suo succes15
Risk sore (Sud Waziristan), Mullah Nazir (porzione occidentale del Sud Waziristan), Hafiz Gul Bahadur (Nord Waziristan), Omar Khalid (Bajaur) e Faqir Mohammed (Mohmand). Detto questo, i militanti di Aqam non sono confinati alle Fata e alle aree di confine con l’Afghanistan, ma la loro presenza è forte in tutte le città del Paese, nel Punjab, dove sono radicati i gruppi kashmiri, ma anche a Karachi. Peraltro, verso la fine del 2009 sono venuti alla luce numerosi rapporti circa il trasferimento della Shura di Quetta dal Balochistan al principale porto e metropoli del Paese. Il presunto spostamento coincide con le discussioni circa un’espansione della campagna aerea al di fuori delle aree tribali, pertanto ad includere il Balochistan, noto rifugio dei comandanti talebani afghani.
Ad assistere nel “trasloco” la Shura talebana da Quetta a Karachi – considerata più sicura perché densamente popolata (oltre 15 milioni di persone) e sede di una nutrita comunità pashtun (circa 3,5 milioni ) - sarebbe stata l’Isi, nonostante le autorità pakistane abbiano sempre negato l’esistenza di una Shura talebana sul patrio suolo. La recente ripresa degli attacchi terroristici nella città e la cattura di esponenti eccellenti dell’insurrezione afghana come il Mullah Abdul Ghani Baradar, capo militare degli insorti, vice del Mullah Omar e padre fondatore del movimento talebano, avvalorano la tesi del “trasloco” e gettano ombre sulle smentite pakistane. Non è ancora chiaro se la cattura di Baradar e altri importanti esponenti dell’insurrezione afghana sia segno di un epocale cambio di strategia dell’establishment militare o semplicemente un tentativo di posizionare il Pakistan al centro dei negoziati fra talebani e governo Karzai nell’ottica di contenere la crescente influenza indiana in Afghanistan. Ad ogni modo resta il fatto che la politica estera e di sicurezza del Pakistan rimane estremamente ambigua e di difficile lettura per l’Occidente. 16
dossier
DAL KASHMIR ALL’INDIA, DALLA CINA ALL’IRAN E ALL’ASIA CENTRALE
GEOPOLITICA DEL (BUON) VICINATO DI
•
I
CARLO JEAN
l Pakistan è un paese con identità multiple, il cui principale fattore unificante è l’Islam. Ma anch’esso è diviso. Secondo i dati ufficiali (poiché la popolazione sciita è senz’altro superiore e molti “sunniti” sono in realtà cripto-sciiti, anche a causa di spostamenti di popolazioni quali gli hazara), l’80% della popolazione è sunnita; il 20% sciita. Rilevanti sul piano politico-economico sono le comunità
• Ismailite. Esistono, infine, piccole sette religiose islamiche – quale quella degli Zikri nel Makran – considerate, a seconda del momento politico, come eretiche e perseguitate ferocemente. A queste comunità islamiche vanno aggiunte comunità hindu, non numerose, ma influenti sul piano economico-finanziario, e comunità “parsi” (ossia zoroastriane), anche queste scarse, ma rilevanti sul piano politico-istituzionale e nell’ambito delle professioni. La geopolitica e, quindi, la politica estera del Pakistan sono influenzate dalla sua storia, geografia fisica ed umana e posizione geografica. La collocazione geopolitica del Paese è discussa. Per taluni, il Pakistan fa parte del Medio Oriente. Per altri, dell’Asia meridionale. Una prova di tale duplice appartenenza è data dalla sua partecipazione dal 1956 sia alla Cento (Patto di Baghdad) sia alla Seato (South East Asia Treaty Organization), con cui gli Usa intendevano prolungare dall’Europa all’Asia il contenimento del blocco comunista “Urss-Cina”. I confini pakistani sono artificiali sia ad Ovest che ad Est. A NordOvest lo separa dall’Afghanistan la “linea Durand”. Tracciata nel 1893 per separare con una zona cuscinetto l’impero zarista da quello britannico, essa ha diviso le tribù Pashtun (13 milioni in Afghanistan e 29 in Pakistan, abitanti non solo nella tradizionale area di frontiera, ma
anche a Karachi). Il confine è contestato da Kabul, che vorrebbe incorporare l’intero Pashtunistan. Ad Est, la ricca “regione dei cinque fiumi” (il Punjab) è divisa fra il Pakistan e l’India. Le popolazioni dalle due parti del confine sono state omogeneizzate sotto il profilo etnico e religioso nella tumultuosa prima fase dell’indipendenza. A Sud-Est c’è poi il Sind, anch’esso diviso artificiosamente fra i due Stati. Più che di pulizia etnica, fu consentito alle comunità hindu di emigrare in India ed a quelle musulmane di emigrare in Pakistan. Qui, hanno dato origine al partito dei Muhajirun, molto presente e influente a Karachi, per posti chiave e ricchezza. Il Pakistan non è una nazione storica. È una creazione ideologico-religiosa. Lo indica anche il suo nome, che si è venuto determinando nel XX secolo, quando i musulmani - che avevano dominato l’India ai tempi dell’Impero Mogol - si resero conto dell’enorme declino della loro importanza politica, sociale ed economica, avvenuto sotto il dominio britannico, che aveva favorito le popolazioni indù. Queste ultime si erano integrate molto meglio con i colonizzatori, fornendo la maggior parte dei componenti della burocrazia, dell’esercito e della polizia coloniali. I musulmani erano rimasti ancorati ad un’economia agraria (legata al latifondo) e mercantile. La rivalità fra indù e musulmani si 17
Risk
Al momento dell’indipendenza, concessa da Londra con l’Indipendence Act, il territorio indiano fu diviso in due grandi stati (Pakistan e Bangladesh da un lato, India dall’altro), secondo il criterio del “cuius rex eius religio” accentuò alla fine della colonizzazione britannica. La quasi totalità della popolazione indù fuggì dalle regioni entrate a far parte del Pakistan. Il deflusso dei musulmani dall’India fu consistente, ma non totale. In India vivono circa 150 milioni di musulmani, sparsi un po’ovunque sul suo territorio e divisi in percentuale pressoché analoga fra sciiti e sunniti. Nell’ideologia fondante del Pakistan si dava per scontato che l’Impero britannico delle Indie fosse costituito da due nazioni e non da una sola: i musulmani e gli indù, destinati inevitabilmente a separarsi all’atto dell’indipendenza da Londra. L’India britannica era composta da oltre 500 staterelli, la cosiddetta “India dei Principi”.
Al momento dell’indipendenza,
concessa da Londra con l’Indipendence Act, l’immenso territorio indiano fu diviso in due grandi stati (Pakistan e Bengala/Bangladesh da un lato, India dall’altro), secondo il criterio del cuius rex eius religio. E così è nato il contenzioso del Kashmir, regione di grande importanza strategica come chiave d’accesso al subcontinente indiano da un lato, alla Cina e all’Asia Centrale, dall’altro. La separazione continua ad essere una ferita aperta fra i due Paesi, specie per il Kashmir, regione a netta maggioranza musulmana, il cui Maharajah indiano optò per l’India. Solo nel 1971, al termine della terza guerra indo-pakistana (le prime due furono combattute nel 1947 e nel 1965 per il 18
Kashmir) – che si concluse con la secessione del Bangladesh (fino ad allora denominato Pakistan Orientale) - fu firmato un accordo fra i premier dei due Paesi – Bhutto e Indira Gandhi. Questo definiva una “linea di controllo” – di fatto di tregua. Fra l’altro, il Kashmir veniva diviso in due parti: una indiana a Sud ed una pakistana a Nord. In tale circostanza fu firmata anche un’intesa fra Pakistan ed India di non attaccare, in caso di scoppio di nuove ostilità, i rispettivi impianti nucleari. L’ostilità nei riguardi dell’India rappresenta la maggiore costante della politica estera del Pakistan. Ne ha sempre condizionato le alleanze, considerate da Islamabad essenziali per la propria sicurezza, data la superiorità militare ed economica indiana. In particolare, quella con la Cina, rivale geopolitico dell’India in tutta l’Asia meridionale, e quella con gli Usa. Mentre con la prima i rapporti sono stati sempre eccellenti, quelli con gli Usa hanno subito molti “alti e bassi”. Il Pakistan è stato, a seconda delle circostanze sia “l’alleato più alleato degli Usa in Asia”, come affermò il presidente Bush jr., sia il Paese alleato degli Usa che ha subito le maggiori sanzioni e pressioni politiche – in tema di democratizzazione, di tutela dei diritti umani, di lotta alla corruzione e alla droga, e soprattutto di proliferazione nucleare. Oltre all’esigenza di garantire la propria sicurezza esterna, il Pakistan ha teso ad esercitare un’influenza nella sua periferia settentrionale, cioè in Afghanistan, che gli avrebbe consentito una “profondità strategica” nei confronti dell’India e un accesso diretto all’Asia Centrale. Ha poi sempre cercato il sostegno del mondo islamico, attraverso la partecipazione attiva sia alla Organizzazione della Conferenza Islamica, sia all’Eco (Economic Cooperation Organization). Con quest’ultima, Pakistan, Iran e Turchia tendevano giustificare la loro presenza ed influenza nell’Asia Centrale, ricca di risorse naturali, considerate essenziali per il loro sviluppo anche dall’India e dalla Cina. Per la prima, l’accesso all’area può avvenire solo attraverso il territorio pakistano, mentre la seconda è avvantaggiata per la possibilità di contatti diretti tramite il Sinkiang. Inoltre, entrambe sono impegnate in Afghanistan. La Cina vi è presente soprattutto in campo minerario. L’India anche per motivi strategici. Non è
dossier escluso che nell’intera regione compresa fra il Pakistan ed il confine meridionale della Federazione Russa si sviluppi un nuovo “grande gioco”, simile a quello che ebbe luogo nel XIX secolo fra gli imperi zarista e britannico, prima che si alleassero contro la Germania. L’Islam, come detto, caratterizza l’identità del Paese. Quello pakistano è però un Islam particolare. L’influenza politica degli ulema e dei mullah varia a secondo delle regioni e, come avviene ovunque, essa è superiore nelle campagne rispetto alle città. È minore nel Sud-Ovest del Paese, soprattutto nel Sind, dove più forte è la borghesia e una parte consistente della popolazione è immigrata dall’India all’atto dell’indipendenza. A tale differenza se ne aggiungono altre due, entrambe cause di una potenziale frammentazione o, addirittura, implosione del Paese. La prima è rappresentata dal fatto che il Pakistan comprende due macro-regioni molto diverse fra di loro. Esse sono grosso modo separate dall’Indo. A Nord-Ovest del fiume – nelle province abitate dai Pashtun e dai Baluci – le strutture socio-economiche sono tribali, simili a quelle dell’Afghanistan. La loro aspra morfologia è dominata dalle montagne, che frammentano non solo il paesaggio, ma anche la società e ne rendono difficile il controllo da parte del governo. Vi abitano popolazioni per tradizione guerriere, che hanno sempre goduto – di diritto e di fatto - di larga autonomia anche al tempo dell’Impero delle Indie. Esse furono utilizzate dalla Gran Bretagna per la protezione dei confini coloniali. Nel Punjab (Lahore) e nel Sind (Karachi) sono prevalenti invece le città, le grandi famiglie legate al latifondo e/o imprenditoriali. Dominano le pianure. Il sistema di irrigazione è uno dei più avanzati. Lo era anche in passato, al tempo degli Achemenidi. Il Paese – a differenza dell’Asia Centrale, prevalentemente turcofona e turcicamente acculturata – è profondamente compenetrato della cultura persiana. Il “parsi” rappresentava la lingua franca dei vari apparati burocratici dei potentati locali, da Samarkanda ad Istanbul e dall’India dei Moghol al Tatarstan. Fino al 1838, il “parsi” fu la lingua colta, in molti casi utilizzata dalla stessa Compagnia delle Indie. Fu poi sostituito dall’inglese come lingua ufficiale a livello burocratico e giustizia. Con l’indipendenza, l’inglese continua a coesistere
con l’urdu. Il parsi resta comunque la lingua “colta” delle classi medio-alte. Il balucio e il pashtu (quest’ultima è la lingua parlata dalle tribù Pashtun sia in Pakistan che in Afghanistan) sono di origine indo-europea e, pertanto, fortemente affini al parsi.
Non stupisce, pertanto, ritrovare termini “iranici” anche nello stesso inno nazionale pakistano. L’influenza culturale persiana resta comunque abbastanza rilevante, come del resto avviene anche in alcune regioni dell’Afghanistan e dell’Asia Centrale dove, nei secoli passati, si è affiancata alla forza militare turco-mongola. Nella parte nord-occidentale del Pakistan – dove la campagna prevale sulla città - più forte è l’influenza della religione e più diffuso è il radicalismo. La dottrina “ufficiale” islamica del Pakistan si lega al pensiero di Mawdudi, controparte asiatica di el-Banna, fondatore della Fratellanza Islamica - uno dei principali teorici del jihad. La guerra fredda ha giocato contro il marxismo ateista sovietico la carta dell’Islam – con l’appoggio saudita – risvegliando gli estremismi e strumentalizzandoli in funzione anti-sovietica. Si è trattato di un gioco che – in fin dei conti – è costato la vita a Bhutto padre. Le Forze Armate erano ancora perfettamente secolarizzate, una struttura orizzontale che reclutava da tutte le fasce della popolazione. Dopo la morte di Butto e l’ascesa al potere di Zia ul-Haqq, questi ha cominciato – negli anni 1980 ad “infiltrare” nell’esercito elementi islamici. Ma l’islamizzazione è stata molto graduale e solo parziale, nonostante la presenza in Pakistan di oltre 20mila madrasse, di cui 7mila che sarebbero legate al jihadismo. Il potere che le Forze Armate hanno acquisito come “tutori” delle forze politiche rappresenta un’altra costante della politica pakistana. De jure, il Pakistan è un paese democratico – almeno per quanto si riferisce agli aspetti formali della democrazia (pluralismo politico, elezioni, indipendenza della magistratura e libertà di stampa). Ma le Forze Armate sono intervenute in politica con una serie di colpi di stato ed hanno spesso assunto dirette responsabilità di governo. Il modello a cui si sono ispirate non è quello della Turchia di Ataturk, in cui i militari si ritengono garanti del carattere secolare dello Stato, anche se hanno 19
Risk subito una “islamizzazione forzata” per rafforzare l’ideologico dell’attacco militare contro i Sovietici in Afghanistan. Quindi, sempre sulla base dell’ideologia fondante il Pakistan, ossia “l’unione nell’Islam”, quando le fazioni dei mujahedin e khalq hanno cominciato a combattersi furiosamente per spartirsi le spoglie della vittoria, sono intervenute per evitare la disgregazione del Paese.
Nella loro “furia ideologica” democratizzante, i neocons americani non hanno tenuto conto di tale realtà. Hanno contribuito con ciò alla destabilizzazione del Pakistan, prima effettuando pressioni sul presidente, Generale Pervez Musharraf, perché si dimettesse da comandante dell’esercito, poi causandone le dimissioni. Come spesso accade nella storia, le buone intenzioni provocano guai. L’allontanamento di Musharraf – nato ed educato nella secolare Turchia al culto delle Forze Armate - ha aumentato l’instabilità del Pakistan, soggetto ad una forte pressione da parte di indipendentismi tribali, fazioni radicali e aperta collusione col terrorismo di matrice islamica. Precedentemente quest’ultimo era sostanzialmente tenuto sotto il controllo dall’Isi, la potente e misteriosa intelligence militare. Esso lo aveva utilizzato sia per la questione afgana sia per addestrare “gruppi di militanza islamica” da indirizzare in vari teatri di guerra, quale il Kashmir. Gli Usa non hanno valutato completamente le difficoltà che l’esercito pakistano – depositario dell’unità del Paese e fautore di un islamismo modernizzante, quello appunto di Mawdudi – deve superare per combattere l’islamismo radicale. Gli aiuti militari e finanziari, dati dagli Americani alle Forze Armate pakistane, hanno indotto queste ultime a collaborare entro un certo grado alla stabilizzazione del Afghanistan. Persiste però una forte riluttanza a farlo, non solo per orgoglio nazionale e corporativo e per l’esistenza di un anti-americanismo diffuso, ma perché esiste un preciso distinguo fra talebani afgani e talebani pakistani. I primi avevano combattuto, addestrati e parzialmente finanziati dal Pakistan, contro l’Unione Sovietica per la liberazione del proprio Paese e del proprio popolo. I secondi , profondamente radicati nel sociale del Pakistan, hanno sempre 20
aspirato ad accrescere la propria autonomia dal governo centrale. La riluttanza a collaborare con gli Usa è iniziata in maniera palese nel 2001. Essa era stata tanto più forte da indurre allora il Vice Segretario di Stato Armitage a minacciare il Pakistan di un bombardamento “che lo avrebbe riportato all’età della pietra”, qualora non avesse collaborato con gli Usa nel combattere al-Qaeda e nel distruggere il regime talebano in Afghanistan, colpevole di dare rifugio ad Osama bin Laden e di non consegnarlo agli Usa. Musharraf non ebbe scelta, ma l’Esercito e larga parte della popolazione dissentirono apertamente. A questo si aggiunsero: le collusioni con le popolazioni afgane pashtun, le solidarietà intertribali transfrontaliere e il sempre minore controllo del centro sulle truppe dislocate nelle periferie. Di fronte a paghe incerte, queste erano infatti particolarmente sensibili sia ai proventi dei traffici illeciti che transitavano nella loro area, sia alle pressioni delle varie milizie di al-Qaeda, sia alle minacce di rappresaglie sui propri familiari e contributori. La fragilità del Pakistan – secondo Stato islamico del mondo, dopo l’Indonesia, ed unico in possesso di armi nucleari – deriva dal fatto che il Paese non ha radici storiche. Lo dimostra il suo nome, che sarebbe un acronimo derivante dalle iniziali delle varie regioni che lo costituiscono: Punjab, Afghania (come viene chiamata la regione abitata dai Pashtun), Kashmir, Indo, Sind e le ultime tre lettere di Baluchistan. Secondo altri, il suo nome significherebbe Paese dei Puri (pak= puro, Istan = paese). Le rivalità etnico-tribali sono molto intense, specie a NordEst dell’Indo. In tale area si registrano tendenze autonomiste e secessioniste. Il popolo balucio a occidente è diviso fra Pakistan, Iran ed Afghanistan. Soprattutto in Iran resiste al governo centrale, secondo Teheran con il supporto dei potenti servizi dell’intelligence militare pakistana. Tale interferenza ha contribuito a guastare i rapporti fra i due Paesi, già rivali in Afghanistan dopo il ritiro sovietico. Mentre Teheran aveva appoggiato l’Alleanza del Nord – di cui erano parte gli Hazara sciiti ed i Tagiki di etnia persiana – il Pakistan aveva creato e sostenuto il movimento talebano, appoggiato anche dall’Arabia Saudita, che considera l’Iran il suo principale nemico. Restano pagine ancora da chiarire sia l’uccisione a
dossier Mazar-al-Sharif nel 1998 dei componenti della missione diplomatica di Teheran, sia il recente attentato al Consolato iraniano a Quetta. Nel 2008, il Pakistan è stato accusato dall’Iran di avere ispirato gli attentati contro il Corpo delle Guardie della Rivoluzione Islamica. A sua volta, il secessionismo Pashtun è sostenuto più o meno direttamente dall’India. New Delhi si prende in tal modo una rivincita per il sostegno dato da Islamabad ai terroristi del Kashmir. La situazione rimane instabile e le contrapposizioni etniche e tribali, nonché il potere delle grandi famiglie del Sind e del Panjab, sono state all’origine di disordini e di colpi di Stato militari, oltre che di un’accentuata instabilità politica e di un limitato controllo civile sulle Forze Armate. Pongono il governo di Islamabad di fronte a scelte complesse, data la difficoltà di conciliare interessi contrapposti. Ad esempio, l’Islam tiene assieme il Paese, ma l’islamismo può disintegrarlo, contrapponendo campagna e città, Ovest contro Est; i talebani afgani e quelli pakistani. L’utilizzazione dei Pashtun per allargare a Nord lo spazio strategico pakistano alimenta il nazionalismo ed il secessionismo Pashtun, volti alla creazione di un Pashtunistan indipendente. Essi, oggi in netta regressione, forse per intese intervenute sulla divisione dei profitti del narcotraffico, sono comunque alimentati dal ricordo dell’impero afgano e dei progetti federativi fra Afghanistan e Pakistan, accarezzati, negli anni ’30, dallo stesso Zahir Shah, re dell’Afghanistan. Tra i due paesi domina ancora una forte contrapposizione. Karzai, che ha compiuto i suoi studi universitari in India, è nettamente contrario al Pakistan e, per quanto possibile – cioè per quanto gli consentono gli Usa – si appoggia all’India ed anche alla Cina, cui ha concesso diritti di sfruttamento minerario. In tal modo, potrebbe migliorare le proprie posizioni negoziali con Islamabad. La presenza indiana in Afghanistan alimenta i sospetti del Pakistan e ne continua a condizionare la politica. I rapporti fra il Pakistan e la Cina sono sempre stati molto stretti. Si sono rafforzati dopo la guerra indo-cinese sull’Himalaya nel 1962 e con l’entrata in completa crisi della Cento e della Seato, quindi dell’alleanza con gli Stati Uniti. Taluni studiosi, come Samuel Huntington,
La fragilità del Pakistan – secondo Stato islamico del mondo, dopo l’Indonesia, ed unico in possesso di armi nucleari – deriva dal fatto che il Paese non ha radici storiche hanno formulato l’ipotesi dell’esistenza di una segreta “alleanza confuciano-islamica” che legherebbe Cina, Pakistan ed Arabia Saudita. Pechino non solo ha aiutato Islamabad a costruirsi l’arma nucleare, ma ha venduto all’Arabia Saudita gli IRBM-CSS2, con gittata di 2.500 km, in grado di colpire l’intero Medio Oriente. Tale intesa strategica sarebbe volta a contrastare l’egemonia Usa in Asia Sud Occidentale e potrebbe svolgere un ruolo geopolitico rilevante in caso di tensioni di Pechino sia con Washington che con New Delhi e, soprattutto – almeno per Riyad – in caso del temuto riavvicinamento fra gli Usa e l’Iran.
Quest’ultimo avrebbe riflessi molto positivi sulla stabilizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan, necessaria agli Usa per diminuire gli impegni militari nella regione. Il transito per l’Iran consentirebbe a Washington di disporre di una via di rifornimento per le loro forze in Afghanistan alternativa a quella pakistana ed anche a quella russa, sempre più è sottoposta a pesanti condizionamenti da Mosca. Inoltre, con il gas naturale (di cui l’Iran dispone delle seconde riserve mondiali), gli Usa potrebbero “spuntare” l’arma energetica che la Russia può brandire nei confronti dell’Europa occidentale. Il Pakistan è importante per la Cina non solo come alleato contro l’India, ma anche perché - attraverso il grandioso asse stradale (in futuro anche ferroviario) dell’Himalaya – consente a Pechino di raggiungere il Mare Arabico, dove ha costruito in Balucistan il porto di Gwadar. In tal modo, potrebbe svincolare parzialmente il suo traffico dagli stretti della Malacca e dall’Oceano Indiano, controllati dalle Marine americana ed indiana. La Cina ha quin21
Risk di interesse all’estensione dell’influenza pakistana in Afghanistan, Paese recentemente rivelatosi ricco di materie prime. Vi sta effettuando consistenti investimenti per costruire le infrastrutture necessarie ad utilizzarle. In particolare, ha acquisito i diritti di estrazione di quella che diventerà la più grande miniera di rame del mondo, ad Aynak, 40 km a Sud di Kabul, ed anche in un grande giacimento di minerali di ferro ad Ovest di Kabul. Ciò contribuisce certamente allo sviluppo ed alla stabilizzazione dell’Afghanistan, ma è quasi paradossale che la penetrazione economica cinese sia protetta dalle truppe Nato ed Usa. In realtà – contrastando i talebani – esse fanno in Afghanistan più gli interessi della Russia, dell’Iran e dell’India che i propri.
Le contrapposizioni con l’India costituiscono il perno di tutta la politica estera e di sicurezza pakistana. Il rancore fra i due Paesi è profondo, non solo per il Kashmir e per la serie di attentati terroristici che l’India ritiene ispirati dal Pakistan, ma anche per il sostegno indiano alla secessione del Pakistan Orientale (Bangladesh), per la volontà di rivalsa degli indù alla dura occupazione dei Mogol ed, infine, perché tradizionalmente l’Afghanistan si è rivolto all’India per contenere l’influenza pakistana sul Paese. Il governo Karzai ha accentuato le tendenze filo-indiane della politica afgana, anche perché i suoi protettori americani hanno stretto accordi di collaborazione con New Delhi, nel verosimile tentativo di equilibrare la superiorità cinese in Eurasia. In particolare, l’India ha impiegato in Afghanistan reparti paramilitari dell’Organizzazione delle Strade di Frontiera (protette da unità delle sue truppe himalayane) per costruire un raccordo fra l’“anello stradale circolare afgano”ed il Mare Arabico. L’affitto da parte indiana di una base aerea in Tagikistan ha accresciuto i sospetti pakistani che l’India intenda circondare il loro Paese, contrastandone l’accesso alle ricchezze naturali dell’Asia Centrale. L’India cerca di limitare l’influenza pakistana in Afghanistan e di consolidare la propria presenza, avvalendosi anche del supporto dell’Iran e delle Russia. È stato il Paese che, dopo gli Usa, ha contribuito con maggiori somme alla ricostruzione dell’Afghanistan. 22
Nonostante le rivalità esistenti, India e Pakistan condividono diversi interessi. In particolare, il transito sul territorio pakistano è essenziale all’India per accedere alle risorse energetiche dell’Iran (gasdotto Ipi: Iran-PakistanIndia) ed a quelle dell’Asia Centrale. Le royalties di cui godrebbe il Pakistan sarebbero una manna per le sue disastrate finanze. I rapporti tra Pakistan ed Iran non sono mai stati buoni dopo la rivoluzione khomeinista ed il sorgere di tensioni fra Teheran ed i Sauditi, finanziatori del Pakistan, anche dopo il ritiro sovietico dall’Afghanistan. Prima, i rapporti fra i due paesi erano migliorati, in quanto entrambi sostenevano i mujaheddin anti-sovietici, appartenenti a diverse fazioni contrapposte fra di loro, ma in quel momento alleate. Il Pakistan sostenne l’Iraq nella sua guerra sanguinosa con l’Iran, anche se fece poi parte nel 1990-91 della coalizione anti-irachena per la liberazione del Kuwait. D’altro canto, l’India ha tradizionalmente avuto ottime relazioni con l’Iran. Gli fornisce quasi un terzo della benzina che consuma e che non riesce a produrre per mancanza di raffinerie. Con Teheran, New Delhi ha poi sostenuto l’Alleanza del Nord, che contrastò in Afghanistan i talebani, sostenuti invece dal Pakistan. A parte i rapporti a livello ufficiale, tra l’Iran ed il Pakistan esistono legami derivati dalla comune eredità culturale e linguistica, nonché la cooperazione in Asia Centrale nell’ambito dell’Eco. Esiste, però, la possibilità di un miglioramento dei rapporti almeno economici con il gasdotto Ipi, denominato anche “dell’amicizia”, per il quale entrambi i Paesi hanno un rilevante interesse. L’influenza che l’Iran ha in Afghanistan, soprattutto nelle regioni di Herat, nel Massiccio Centrale con gli Hazara, e con i Tagiki, lo rendono molto importante per una stabilizzazione dell’Afghanistan. Essa richiede quindi un approccio regionale. Tuttavia, la differenza di interessi e di rappresentazioni geopolitiche degli Stati confinanti, potrebbe determinare nuove tensioni e problemi. Non è da escludere però che un approccio esclusivamente regionale possa determinare l’implosione dell’Afghanistan e la separazione delle sue etnie costituenti, date le rivalità fra i vari Stati che confinano con esso ed i loro legami con le diverse componenti della complessa società afgana.
dossier
PERCHÉ L’ISTITUZIONE PIÙ PRESTIGIOSA E AMATA DAL PAESE È SOTTO ATTACCO
FORZE ARMATE: DIMENTICARE L’INDIA? DI
•
N
ANDREA NATIVI
on ci riescono. Ci provano da un po’ di tempo, ma è difficile guardare alla realtà in modo oggettivo se per anni, anzi per decenni, gli ufficiali pachistani sono stati formati, addestrati, equipaggiati per un’unica missione: prepararsi per il nuovo conflitto con il nemico di sempre, l’India. Sia pure combattuto a bassa intensità, magari non dichiarato, come
• accade tra i ghiacciai del Kashmir, il conflitto con Delhi non si è mai davvero fermato. E quando non erano i militari a combattere, ci pensavano i movimenti di guerriglia islamici più o meno ispirati o sostenuti dai servizi di Islamabad, oppure i gruppi terroristici. Da tempo invece gli Stati Uniti premono in ogni modo sul governo Pakistano affinché si dimentichi dell’India (che, tra l’altro, è un ottimo alleato di Washington in funzione anti-cinese) e concentri piuttosto le sue forze armate nella lotta contro i talebani e le varie emanazioni di al Qaeda. E naturalmente sarebbe auspicabile che le operazioni non fossero condotte solo contro quei talebani e guerriglieri che hanno messo il Pakistan e le sue istituzioni nel mirino, ma anche contro i talebani afgani ed accoliti che vanno e vengono lungo i 2.200 km di confine tra i due paesi ed hanno in Pakistan i propri santuari, campi di addestramento, basi operative, retrovie logistiche, sostegno finanziario. Ma ottenere un simile impegno è tanto più difficile dal momento che il Pakistan ed in particolare l’Isi ha a suo tempo sostenuto apertamente, anche militarmente, l’avanzata dei talebani verso Kabul, nel loro tentativo di acquisire il pieno controllo del Paese. Senza dimenticare che il confronto con l’India si gioca anche in Afghanistan, dove Delhi
sta cercando di acquisire posizioni, anche ricorrendo alla leva degli aiuti finanziari e creando una presenza diplomatica, politica, economica che preoccupa non poco Islamabad. Alla quale in fondo non dispiace avere nei talebani afgani una carta “indiretta” da giocare in chiave anti-indiana e in qualche misura anche antiKarzai. Certo dal 2001 le cose sono cambiate, ma tuttora nei comandi delle Forze Armate pachistane la preoccupazione principale rimane la sfida con l’India, cosa che comporta la dislocazione del nerbo dei reparti pachistani ai confini orientali ed una politica di procurement militare finalizzata a costruire un deterrente nucleare, missilistico e convenzionale in grado di scoraggiare ogni velleità di avventurismo militare indiano. Il che richiede forti investimenti per mantenere un equilibrio (squilibrato in realtà) in campo nucleare, per continuare a sviluppare un arsenale missilistico articolato, con un braccio sempre più lungo e una maggiore diversificazione, nonché per equipaggiare le forze convenzionali con armamenti relativamente sofisticati, supplendo con l’addestramento alla superiorità numerica del nemico ed alla sua maggiore disponibilità di risorse finanziarie. A complicare ulteriormente il quadro ci sono poi altri fattori: innanzitutto lo stato disastroso in 23
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Nei comandi delle Forze Armate la preoccupazione rimane la sfida con l’India, cosa che comporta la dislocazione del nerbo dei reparti ai confini orientali ed una politica di procurement militare finalizzata a costruire un deterrente nucleare, missilistico e convenzionale in grado di scoraggiare ogni velleità indiana cui versa l’economia pachistana, dipendente sempre di più dai prestiti concessi dall’Imf, mentre l’aiuto finanziario da parte dei “fratelli islamici”, compresi i Paesi del Golfo, è diminuito quando non si è totalmente arrestato. E senza soldi è difficile acquistare armamenti sofisticati: a vendere a condizioni di favore, prezzi d’affezione e termini di pagamento estremamente lunghi è solo la Cina, la quale però non è e non sarà ancora per molto tempo in grado di vendere sistemi tecnologicamente all’altezza di quelli che l’India può comprare negli Usa, in Europa, in Russia o in Israele. In realtà il Pakistan un partner generoso per quanto riguarda l’assistenza militare lo ha: sono proprio gli Stati Uniti, che ai tempi dell’occupazione sovietica dell’Afghanistan avevano fornito armi anche sofisticate, come i caccia F16, avevano in seguito sospeso ogni cooperazione, per poi rivedere le proprie posizioni dopo essersi impantanati in Afghanistan. Gli Usa infatti hanno offerto a Islamabad aiuti per 11 miliardi di dollari ed ora hanno approvato un pacchetto di assistenza finanziaria, nel quadro di una “partnership strategica” che consentirà di contare sulla non disprezzabile cifra di 1,5 miliardi di dollari per un decennio, oltre a consistenti aiuti per lo sviluppo economico. Ma c’è un ma: gli Usa non hanno 24
alcuna intenzione di consentire al Pakistan di usare questi quattrini per nessun altro scopo che non sia la lotta ai terroristi, l’addestramento e l’equipaggiamento delle forze destinate a questo scopo e l’acquisizione di armi e materiali impiegabili per operazioni di controguerriglia. Quindi niente aerei da combattimento, ma piuttosto elicotteri, apparati per comunicazione, sistemi per la visione notturna, protezioni antiproiettile e così via. Per di più, visto che in passato i pachistani sono stati un po’ troppo disinvolti nell’utilizzo di questi fondi, il Congresso non solo ha imposto al Pentagono la massima attenzione sull’impiego del denaro, ma anche richiesto che il trasferimento effettivo dei dollari avvenga a fronte di risultati concreti nella lotta al terrorismo. Queste condizioni hanno ovviamente offeso moltissimo i pachistani e, se possibile, deteriorato ulteriormente rapporti che, mediamente, non sono affatto idilliaci, con una serie di recriminazioni incrociate. Che hanno un fondamento, da entrambe le parti. Il fatto è che gli americani hanno un disperato bisogno di evitare che il Pakistan “imploda”, con le devastanti conseguenze strategiche che ne deriverebbero, a partire dal collasso dell’Afghanistan, per arrivare ad una destabilizzazione della regione e a scenari apocalittici, compreso un conflitto nucleare con l’India, per non parlare del controllo delle testate nucleari di Islamabad. Anche ammettendo che il Pakistan resti a galla, gli Usa hanno bisogno di mantenere aperte le vitali linee di rifornimento che attraverso il Paese portano ogni giorno in Afghanistan gran parte di ciò che serve alle armate Nato e statunitensi, ma anche alle forze di sicurezza afgane di funzionare e combattere i talebani. Si sono cercate alternative, anche a costo di pietire l’aiuto di Mosca, ma con l’avvio della surge non si può rinunciare ai rifornimenti che arrivano attraverso il Pakistan. Visto il rapporto di “dipendenza reciproca” nessuna delle due parti può tirare troppo la corda. Gli Usa ad esempio hanno accettato, obtorto collo, di tenere la propria presenza militare ne Paese a livelli estremamente bassi, almeno per quanto riguarda il personale in uniforme. Anche gli specialisti in controguerriglia che cercando di formare i quadri pachistani, in base al concet-
dossier to di “addestrare gli addestratori” vengono ammessi con il contagocce. E a ragione, visto che ad inizio 2010 tre di questi istruttori sono stati uccisi dai guerriglieri che non perdono poi occasione per accusare il governo di essere “servo” degli infedeli di Washington. I militari Pakistani comunque tollerano a fatica le incursioni americane nella zona tribale (Fata), che, per quanto oggettivamente sempre più efficaci (anche grazie alla attività dell’intelligence americana, che diffida di quella pachistana - e viceversa - e quindi condivide solo parzialmente le informazioni che riesce a raccogliere) continuano comunque a provocare troppe vittime civili. Washington colpisce essenzialmente dal cielo, con missioni hunter-killer, o in misura crescente, di attacco mirato, condotte da velivoli senza pilota Predator e Reaper. Attività che sono aumentate per intensità ed efficacia con la presidenza Obama e che sono destinati a crescere ancora, visto che il Pentagono (e la Cia) stanno cercando di aumentare il numero di velivoli impiegati e le loro capacità. Se i raid celesti sono segreti per modo di dire, si parla molto meno delle incursioni condotte dai paramilitari della Cia, da membri delle Forze Speciali e in qualche misura da contractor oltreconfine. Del resto queste operazioni sono l’unico modo che gli Usa hanno per colpire il nemico nei suoi santuari, perché per ora l’Esercito e le forze di sicurezza pachistane si sono ben guardate dal condurre operazioni anti-talebani afgani/ nei distretti più caldi a ridosso del confine, a partire dal Nord Waziristan. Ulteriore problema per i generali pachistani è il quadro politico interno a dir poco “instabile”, caratterizzato dal confronto sempre più teso tra la “strana coppia” di ex avversari politici, il presidente Asif Ali Zardari ed il primo ministro Yousuf Raza Gillani e i relativi sostenitori. Il passaggio del controllo dell’arsenale nucleare dal primo al secondo, imposto a Zardari come prezzo per evitare ulteriori guai giudiziari, non è stato certo indolore e ha allarmato non poco i militari, che non hanno il “contrappeso” di un governo forte e rispettato. Inutile dire che qualche analista teme che prima o poi i generali possano essere tentati di riportare ordine e tranquillità in Pakistan, con uno di quei colpi di stato che hanno
segnato regolarmente la storia del Paese. Per ora comunque i militari, oltre ad avere altro a cui pensare per via delle operazioni controguerriglia e dei riassetti che questa comporta, sono anche prostrati dalle conseguenze dell’ultima fase della gestione del potere da parte dell’ex presidente e capo delle Forze Armate Pervez Musharraf e della difficile transizione che lo ha portato a farsi da parte. Diciamo pure che il morale è basso. E a questo si aggiunge il vero choc che ha colpito molti quadri a causa degli attacchi terroristici che i militari sono costretti a subire. Le Forze Armate, l’istituzione più prestigiosa, rispettata ed amata del Pakistan (malgrado le prassi golpiste) sono sotto attacco quotidiano sia da parte di terroristi stranieri, ma soprattutto di guerriglieri autoctoni. Una situazione del genere, in cui i militari fuori servizio quasi si nascondono e non indossano la divisa qualche anno fa sarebbe stata semplicemente impensabile. E il prezzo pagato nelle operazioni controguerriglie e gli attacchi dei terroristi è pesantissimo, quasi 2mila morti dal 2002 e migliaia di feriti.
Tutte queste considerazioni spiegano perché le Forze Armate pachistane non si stiano adattando più di tanto alle necessità delle operazioni controguerriglia. Tanti ufficiali continuano a ragionare in termini di operazioni convenzionali condotte su vasta scala da forze corazzate, motorizzate e di fanteria contro un nemico tradizionale e molti sono convinti che una unità di fanteria bene addestrata e guidata possa tranquillamente affrontare la guerriglia sul suo terreno. Ma così non è. E infatti i comandanti più avveduti e quelli che hanno avuto una esperienza diretta della lotta alla guerriglia, a partire dal Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Ashfaq Pervez Kayani, che nel sistema pakistano è l’uomo forte e “conta” più del Capo di Stato Maggiore della Difesa, hanno compreso che occorreva cambiare. E si sono resi conto che manca la mentalità, l’addestramento e l’equipaggiamento. Semplicemente non ci sono abbastanza uomini, considerando l’estensione dei teatri operativi. Ecco spiegato perché si fa tanto ricorso ai reparti paramilitari, ai ranger. L’Esercito sta potenziando la componente Forze Speciali, che è 25
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Il Pakistan ha forze armate interamente professionali e volontari, per un totale di quasi 900mila uomini, contando anche dipendenti civili e formazioni paramilitari e dedica alla Difesa circa 3,9 miliardi di dollari all’anno. Poco meno del 3,5% del Pil quella più utile in contesti di questo tipo, mentre i reparti di fanteria stanno imparando a impiegare unità a livello compagnia e ad utilizzare una combinazione di intelligence, mobilità, potenza di fuoco (fornita da artiglieria, elicotteri ed aeri da combattimento e in qualche misura anche dai carri armati) per aver ragione di un avversario sicuramente coriaceo. Il Pakistan sta anche imparando a sfruttare i velivoli senza pilota, in particolare i Falco della società italiana Selex Galileo per ottenere intelligence, sorvegliare l’area operativa e individuare e designare i bersagli. Il ministero della Difesa ha recentemente ordinato negli Usa una serie di velivoli senza pilota Shadow e sta sviluppando localmente un velivolo tattico. Del resto il Pakistan ha una dimostrazione quasi quotidiana di quanto siano efficaci i velivoli senza pilota per combattere guerriglia e terroristi. In ogni caso la carenza di uomini e soldi, oltre a considerazioni politiche, impongono ai generali pakistani di procedere un passo alla volta, anche perché quando una zona, un distretto, una provincia viene “liberata” dai talebani è necessario mantenervi truppe per consolidare successi che sono molto meno facili di quanto Islamabad racconti, richiedono sforzi prolungati, sanguinosi, anche perché spesso a far le spese della violenza dei combattimenti è la popolazione civile, frequentemente è costretta ad abbandonare le proprie case anche per mesi, creando immensi problemi, se non il rischio di vere e proprie crisi umanitarie. Ovviamente il 26
Pakistan ha iniziato a combattere la minaccia interna talebana partendo dalle aree più interne, la valle di Swat e la North West Frontier Province (Nwfp) per muovere verso la Fata vera e propria, il che è esattamente il contrario di quello che avrebbero desiderato gli “amici” americani. Americani che obtorto collo stanno anche approvando il piano che prevede di creare forze di autodifesa locali, Iashkars, distribuendo armi leggere alle tribù e gruppi “amici” e cercando di creare una resistenza locale ai talebani. Un gioco molto rischioso. In ogni caso prima di vedere le truppe pakistane entrare in forze nel Nord Waziristan ci vorrà ancora parecchio tempo, determinazione, sangue e soldi. E anche un po’ di fortuna.
L’elemento strategicamente
più delicato del potenziale militare di Islamabad è rappresentato dall’arsenale nucleare e dai relativi sistemi di “consegna”, essenzialmente missili balistici e prossimamente missili da crociera. Le bombe potrebbero in realtà anche essere affidate ai cacciabombardieri, ma sono i missili a garantire le maggiori probabilità di successo, senza contare che un aereo è comunque affidato ad un pilota relativamente giovane, il missile offre una maggiore…sicurezza. Peraltro lo sviluppo delle testate per missili è molto più complesso di quello di “semplici” bombe a gravità. Il Pakistan ha anche definito una dottrina di impiego per le sue armi atomiche ed ha costituito una National Command Authority (Nca) responsabile per la decisione critica di attivare e impiegare i vettori nucleari. La forza missilistica è già molto sviluppata, come accennato per molti aspetti è superiore a quella indiana, essendo basata sia su ordigni con propulsione a solidi sia su missili con propulsione a liquidi. La relativa tecnologia (e anche diversi missili, almeno inizialmente) sono stati forniti principalmente dalla Cina e dalla Corea del Nord, ma oggi il Pakistan fa da se, e con discreti risultati. La famiglia dei missili Ghauri a propulsione liquida è frutto del Krl (Kahn Research Laboratory) ed ha matrice coreana, mentre i missili Shaheen sono frutto dell’Ndc, National Development Complex e hanno base cinese. Il comando delle Forze
dossier Strategiche dell’Esercito ha almeno 10 Ghauri I da 1.500 km e 24 Shaheen I da 750 km, nonché il Ghaznavi da 300 km. Poi ci sono il Ghauri II che potrebbe arrivare a sfiorare i 2.000 km e lo Shaheen II da 2.500, nonché una vasta gamma di missili tattici con gittata fino a 200 km. La novità è rappresentata dal missile da crociera Babur, lanciato da terra e da cui potrebbe in futuro derivare una versione lanciabile da unità di superficie e forse anche da sottomarini. Il Pakistan ha forze armate interamente professionali e volontari, per un totale di quasi 900mila uomini, contando anche i dipendenti civili e le formazioni paramilitari, e dedica alla Difesa circa 3,9 miliardi di dollari all’anno, che rappresentano poco meno del 3,5% del Pil. La spesa militare ha quindi un peso significativo nel bilancio statale. L’industria nazionale degli armamenti sta sviluppando gradualmente discrete capacità, almeno per quanto concerne il supporto, la manutenzione e l’aggiornamento dei materiali e dei mezzi in servizio e sempre più riesce a sviluppare prodotti “autoctoni”, magari con assistenza esterna cinese. La Forza Armata più importante è l’Esercito, che risente ancora, alla lontana, di una impostazione di stampo britannico, retaggio del passato coloniale: basta guardare la foggia delle uniformi, le mostrine, il classico “stick” degli ufficiali. Un po’come accade in India. Ma ormai si tratta più di forma che di sostanza. Il personale ammonta a quasi 550mila uomini e l’organizzazione è quella tradizionale di una forza convenzionale, con 9 comandi di Corpo d’Armata dai quali dipendono complessivamente 2 Divisioni Corazzate, 17 Divisioni di Fanteria (altre due sono state formate e sono ormai operative) e ancora 2 Divisioni di Artiglieria, alle quali si aggiungono diverse formazioni indipendenti a livello di Brigata (tra le quali 7 corazzate) e un Gruppo di Forze Speciali, che comprende anche unità canti-terrorismo. L’Esercito ha in corso una riorganizzazione “convenzionale”, volta ad aumentare il numero dei soldati disponibili per impiego operativo, recuperando personale dalle unità territoriali, logistiche, addestrative. L’equipaggiamento è discreto e comprende oltre 300 carri da battaglia Al Khalid, 320 T-80UD ucraini, 1.200
Type 59/Al Zarzar e altri 450 carri di progetto cinese che vengono progressivamente rimpiazzati dai nuovi carri sviluppati localmente. I mezzi da trasporto della fanteria sono 800 M-113 americani. L’artiglieria comprende un mix di pezzi cinesi ed americani, spiccano i semoventi statunitensi M-109 ottenuti di seconda mano. L’aviazione dell’esercito, estremamente impegnata, comprende un mix di velivoli americani (gli elicotteri da combattimento Cobra e quelli da trasporto UH-1 ed B-412), francesi (elicotteri leggeri Alouette e da trasporto Puma) e russi (Mi-17). Tutti questi velivoli sono indispensabili per contrastare la guerriglia in un terreno difficile ed è previsto quindi un massiccio potenziamento, a partire da una ventina di AH-1Z da combattimento americani. L’Esercito ha anche una discreta difesa contraerea, comprendente sistemi di artiglieria e missilistici, per lo più di produzione cinese, ai quali si aggiungono missili leggeri svedesi, americani e gli Anza prodotti localmente.
Un ruolo crescente hanno le forze paramilitari e di frontiera, che stanno aumentando consistenza ed addestramento e che includono una Guardia Nazionale di 185mila uomini, un Corpo do Frontiera di 80mila uomini, su due gruppi e i Rangers, altri 30mila uomini su due gruppi. C’è infine una Guardia Costiera di 2.100 uomini. L’Aeronautica, a dispetto dei numeri e della qualità dei velivoli a disposizione, è sicuramente agguerrita, con piloti bene addestrati che sanno sfruttare al meglio ciò che il Paese riesce a fornirgli. La punta di lancia è rappresentata dai cacciabombardieri F-16 statunitensi, 44 di prima generazione (aggiornati recentemente), 14 F-16 di seconda mano statunitensi, da aggiornare, ai quali si stanno aggiungendo 18 F-16 di ultima generazione, con una opzione per altrettanti. A questi velivoli si aggiunge una quantità significativa (oltre 150) di Mirage III e 5 acquistati direttamente o di seconda mano, 160 caccia cinesi/pakistani F-7 e 48 aerei da attacco A-5, nonché un quantitativo crescente di cacciabombardiere JF-17 cinesi, che potrebbero diventare 150-250, anche in versioni con armi ed elettronica occidentale. I primi 50 caccia saranno in linea 27
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Il governo sta dedicano discrete risorse allo sviluppo di un’industria nazionale della Difesa, che già ha acquisito una certa capacità nella realizzazione di armi leggere, munizioni, artiglierie, missili leggeri controcarro e antiaerei e che ora è impegnata in programmi più ambiziosi entro il 2012. Il Pakistan sta anche discutendo l’acquisizione del più moderno caccia J-10. L’industria italiana, con Selex Galileo ha aggiornato buona parte dei caccia pakistani con nuovi radar e sistemi elettronici. L’Aeronautica sta anche acquistando in Svezia 6 velivoli da sorveglianza radar e comando e controllo Saab 2000 AW&C, che consentono un significativo miglioramento delle capacità operative, ai quali si dovrebbero aggiungere altri 4 aerei radar, di produzione cinese. Per quanto riguarda gli altri settori, la flotta velivoli da trasporto è limitata ed invecchiata e con materiali eterogenei (dai C-130 statunitensi ai CN-235 europei. Per l’addestramento ci sono una quarantina di velivoli a getto cinesi K-8 che sostituiscono i vecchi T-37 ed addestratori basici prodotti localmente. Per la difesa contraerei il Pakistan sta acquistando il sistema italiano Spada 2000, che sostituirà le batterie Crotale francesi. La Marina è un po’ la cenerentola tra le forze armate di Islambad, tuttavia ha in corso un significativo programma di potenziamento già presente in significative nicchie di eccellenza, ad esempio nella componente subacquea. La Marina allinea appena 24mila uomini, comprendendo nel totale anche 3.200 marines e l’aviazione navale. Le unità di superficie più significative sono le 28
fregate classe Tariq, ottenute ammodernando unità di seconda mano britanniche, che ormai sono davvero logorate. Per rimpiazzarle il Pakistan si è rivolto alla Cina, che ha consegnato già nel 2008 la prima di una serie di 4 fregate lanciamissili F-22P. Ma la Marina vorrebbe acquistare una seconda serie di fregate, ancora 4 unità, più potenti e sofisticate ed anche in questo caso potrebbero essere la Cina ad aggiudicarsi la sommessa. Ci sono poi quattro unità leggere missilistiche da attacco costruite localmente sulla base di un progetto cinese, 3 cacciamine di progetto francese, vedette e pattugliatori. L’arma più potente della Marina è costituita dai sottomarini: 2 battelli classe Agosta francesi, e i tre Agosta 90B, che vengono equipaggiati con un sistema di propulsione indipendente dall’aria. La Marina sta anche finalizzando un ordine per tre unità tedesche Type 214, che potrebbero essere consegnate dal 2015 se il conteranno sarà firmato quest’anno. L’aviazione navale si basa su 2 vecchiotti velivoli da pattugliamento Atlantic, ai quali si stanno affiancando 10 P-3C di seconda mano statunitensi, mentre rimangono in linea anche gli F-27. Per quanto riguarda gli elicotteri, sono Alouette III, anche di seconda mano francesi, Sea King e Lynx mentre con le nuove fregate arrivano gli Z-9 cinesi.
Il Pakistan sta dedicano discrete
risorse allo sviluppo di un’industria nazionale della Difesa, che già ha acquisito una certa capacità nella realizzazione di armi leggere, munizioni, artiglierie, missili leggeri controcarro e antiaerei etc. e che ora è impegnata in programmi più ambiziosi, come quello del carro da battaglia. Sviluppi sono in corso anche in campo aeronautico, con la produzione di aerei leggeri, Uav e la produzione su licenza dei caccia cinesi, nonché l’aggiornamento dei velivoli da combattimento più anziani. Ma anche in questo campo le capacità pakistane sono largamente inferiori a quelle indiane, però sono anche più “concrete”. L’intento strategico è quello di ottenere una sostanziale autonomia almeno per quanto riguarda i settori prioritari e tecnologicamente accessibili.
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L’OPINIONE DELL’INTELLETTUALE PAKISTANO E GHOST WRITER DI MUSHARRAF SULLA STRATEGIA USA
LE ILLUSIONI AMERICANE DI •
L
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HUMAYUN GAUHAR
a strategia americana per l’Afghanistan avrebbe dovuto articolarsi in cinque fasi: liberare, resistere, ricostruire, trasferire e ritirarsi. In tal modo, Washington avrebbe potuto mantenere una qualche influenza nel Paese come nei progetti iniziali e avrebbe potuto utilizzarlo quale privilegiato luogo di sorveglianza e base da cui condurre operazioni, così come per monitorare
l’accesso a eventuali rotte dei gasdotti. Diamo un’occhiata alla “pagella” degli Stati Uniti. Liberare: tutto ciò che l’America ha ottenuto è stato un cambio di regime mediante la deposizione della dittatura talebana e l’aver messo in fuga al Qaeda. Tutto qui. Il nuovo regime si è rivelato inefficace, a voler essere buoni. Gli Stati Uniti non sono stati in grado di neutralizzare né i talebani né al Qaeda, né tantomeno di eliminare o catturare i loro capi, il Mullah Omar ed Osama bin Laden, sebbene alcune fonti americane asseriscano che il secondo sia stato ucciso a Tora Bora il 13 dicembre 2001; la qual cosa non appare affatto improbabile, anche se non esistono al riguardo prove certe. In ogni caso, vivo o morto, sia bin Laden che al Qaeda sono stati innalzati a metafore, e poco importa che lo sceicco saudita sia ancora tra noi o quale sia lo stato di salute dell’organizzazione jihadista. Al di là di tali considerazioni, è tardi ormai per completare questa prima fase della missione. Sembra comunque che al Qaeda abbia veramente spostato, o stia per spostare, la propria base operativa nello Yemen, il che implica maggiori problemi per l’Arabia Saudita, in misura simile a quelli che la contiguità con l’Afghanistan ha causato al Pakistan. Resistere: tutto ciò di cui
l’America gode è un debole controllo su Kabul e su certe aree pashtun nel sud del Paese in cui i soldati statunitensi rimangono per lo più rintanati nelle proprie basi militari. Certo, hanno mantenuto rapporti di collaborazione con la minoranza non pashtun facente parte dell’Alleanza del Nord, per lo più a nord dell’Hindu Kush. La linea ufficiale vuole i talebani controllare il 25% dell’Afghanistan meridionale, ma la loro presa sul territorio è in realtà più grande, in quanto dispongono di un’efficace forza di guerriglia mobile che non ha bisogno di basi stabili. Ricostruire: dato che l’America ha palesemente fallito nel mantenere il controllo di buona parte dell’Afghanistan, difficilmente potrà avviare un’opera di ricostruzione. L’amministrazione statunitense potrà anche aver speso somme ingenti, ma non ha ricostruito un bel nulla. Il fatto di aver delegato buona parte della ricostruzione all’India complica le cose, in quanto a) aliena il vitale sostegno del Pakistan, senza il quale le forze statunitensi e della Nato non possono uscire indenni dall’Afghanistan e b) l’India è meno interessata alla ricostruzione e più all’esercizio di una maggiore influenza nel Paese rispetto al Pakistan (e, di riflesso, rispetto alla Cina) dopo il ritiro della coalizio29
Risk ne guidata da Washington. Ciò, invece di determinare stabilità, non farà altro che destabilizzare ulteriormente la regione. Trasferire: solo a ricostruzione completata il potere potrà essere trasferito ad un governo afghano accettabile, efficace e preferibilmente rappresentativo. Tutto ciò che esiste ora consiste in un esecutivo guidato da un tirapiedi dei pashtun installato come presidente dopo una dubbiosa elezione, mentre il potere effettivo sul governo centrale risiede ancora nell’America ed ancor più potere risiede nei talebani delle regioni meridionali dell’Afghanistan. Un tale governo non può portare nient’altro che dolore. Il suo unico “successo” è che il fratello del tirapiedi è diventato il più grande trafficante di eroina del mondo!
Uno degli errori più grandi di Washington consiste nel non aver dato ascolto al Pakistan e nell’aver permesso all’Alleanza del Nord di esercitare un potere troppo forte all’interno del governo Karzai, un aspetto che ha portato quasi a inimicarsi la maggioranza pashtun Ritirarsi: qui affrontiamo il quesito più interessante, la cui risposta ci fornirà l’assunto fondamentale. L’America vuole realmente ritirarsi dall’Afghanistan? E cosa intende con ritiro? Ritengo che con “ritiro” gli Stati Uniti intendano qualcuno che giunga a togliere loro le castagne dal fuoco, e cioè il Pakistan o l’Arabia Saudita. Ciononostante, una tale strategia potrebbe essere destinata al fallimento se ci si ostinerà nel voler includere tanto l’India quanto l’Iran 30
nella partita. Washington vuole sicuramente ritirare le proprie truppe combattenti e mantenere di stanza solo una piccola forza d’intervento, come avvenne in Germania, ma vuole comunque abbracciare l’Afghanistan nella propria sfera di influenza. L’America non vuole lasciarsi scappare l’Afghanistan e di riflesso la sua base regionale dalla quale portare a termine operazioni di monitoraggio, intelligence ed intervento; né vuole perdere il controllo delle rotte petrolifere. Quale altro luogo al mondo potrebbe garantire loro un’installazione militare meglio situata? Dall’Afghanistan possono monitorare la Cina e da lì creare scompigli, come di recente è avvenuto nello Xinjiang e anche in Russia. Essi possono altresì monitorare e sono in grado di dispiegare in tempi rapidi le proprie truppe in Asia meridionale e centrale, in Iran e nel Medio Oriente. L‘unico luogo di migliore ubicazione sarebbe il Pakistan stesso, con tre porti di grandi dimensioni, svariate basi aeree con annesse piste ed infrastrutture di maggiore qualità, in special modo strade ed autostrade. Ma il Pakistan non è l’Afghanistan ed il tramutarlo in una tale base per operazioni di monitoraggio, intelligence e per il rapido dispiegamento delle truppe costituirebbe un’impresa più grande di quanto gli Stati Uniti abbiano finora immaginato, a meno che, naturalmente, il Pakistan acconsenta, la qual cosa non appare al momento nel novero delle possibilità. Tutto dipende dal livello di insofferenza e dalla quantità di denaro offerta. Così, nel tentativo di trovare una soluzione al marasma afghano dobbiamo iniziare a tenere a mente cinque punti: Gli Stati Uniti desiderano ritirare le proprie truppe combattenti dall’Afghanistan, per mantenervi di stanza solo un piccolo contingente. Washington vuole conservare una base nel Paese.. Gli Stati Uniti vogliono espellere al Qaeda dal Paese a tutti i costi, senza compromesso alcuno. I due obiettivi di cui sopra dipenderanno dalla nuova leadership che sostituirà quella di Karzai. Dovrà determinare una rappresentanza proporzionalmente equa, significativa ed efficace della minoranza facente parte dell’Alleanza del Nord, in modo da poter
risultare credibile. Uno degli errori più grandi di Washington consiste nel non aver dato ascolto al Pakistan e nell’aver permesso all’Alleanza del Nord di esercitare un potere troppo forte all’interno del governo Karzai, un aspetto che ha portato quasi a inimicarsi la maggioranza pashtun. Da dove emergerà una tale leadership? Ciò introduce direttamente il secondo obiettivo statunitense: cacciare al Qaeda dall’Afghanistan. Non è semplice. La posizione del mullah Omar si dimostrò inflessibile prima dell’invasione da parte degli Stati Uniti; ora non si sarà di certo ammorbidita. Si dovrà pensare a come emarginarlo e ci si dovrà assicurare che la leadership del movimento talebano non cada in mani altrettanto inflessibili.
Più facile a dirsi che a farsi, certamente non fino a quando il mullah Omar sarà vivo ed in grado di nuocere. Supponendo che il Pakistan e l’Arabia Saudita riescano a realizzare quanto menzionato qui sopra, solo le truppe dei loro eserciti dovranno essere inviate in Afghanistan, non solo per il mantenimento
della pace ma altresì per impegnarsi in operazioni atte a garantire un adeguato livello di sicurezza, di protezione e a svolgere anche compiti di polizia, qualora si rivelasse necessario. Un arrivo di truppe iraniane suonerebbe come uno sgarbo nei riguardi dell’Alleanza del Nord e comporterebbe la dipartita dell’Arabia Saudita. Un invio di truppe dall’India determinerebbe il pressoché immediato ritiro del Pakistan, e senza quest’ultimo non vi può essere soluzione. Dobbiamo ricordare che gli Stati Uniti, la Nato, Karzai, l’India e l’Iran sono parte del problema. Il Pakistan, l’Arabia Saudita ed i talebani rappresentano parte della soluzione. Fintanto che le forze congiunte Stati Uniti-Nato rimarranno in Afghanistan il Paese non si avvierà sulla strada della stabilizzazione, né lo farà l’intera regione, dal Medio Oriente al Bangladesh. E la militanza non se andrà di certo dal Pakistan. Se tutto ciò non dovesse avere luogo, l’unica opzione a disposizione degli Stati Uniti nel breve periodo sarà darsela a gambe e si salvi chi può. E probabilmente sarà questo ciò che avverrà. 31
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IL PESO DELL’ISLAMISMO RADICALE NELLA SOCIETÀ PAKISTANA
IL DOPPIO VOLTO DI ISLAMABAD DI •
L
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ALEXANDRE DEL VALLE
a Repubblica Islamica del Pakistan, con più di 180 milioni di abitanti, è la sesta maggior popolazione mondiale e potrebbe diventare la terza nazione più popolosa del pianeta entro il 2050. Stato musulmano creato in nome dell’identità islamica e per i musulmani, il Pakistan, “paese dei Puri”, è il secondo stato a maggioranza musulmana del mondo, subito dopo l’Indonesia, ed è
un membro importante dell’ Organizzazione della Conferenza islamica (Oci) e del Congresso del Mondo Islamico (Mu’tamar al-Alam al-Islami), di cui è cofondatore. Il Pakistan è l’unico (per il momento) stato islamico ad avere la bomba nucleare (“la bomba dell’Islam”), ed è stato coinvolto nella proliferazione nucleare a beneficio di altri stati, fra cui l’Iran. La maggior parte dei pakistani appartiene al rito musulmano sunnita, con una minoranza di musulmani sciiti perseguitati, come del resto le altre minoranze nonmusulmane di questo stato islamico che applica una concezione abbastanza ortodossa della Shari’a. Infatti, il Pakistan, pur pretendendo di essere uno stato inizialmente edificato su una concezione secolarista dell’identità musulmana e del nazionalismo, in nome di una forte tradizione militare ispirata dal kemalismo turco, è uno dei paesi islamici che è stato più reislamizzato nel mondo dagli anni Settanta. Secondo me, la ragione dell’islamizzazione progressiva negli ultimi quarant’anni delle istituzioni pakistane e della vita politica da 40 anni deriva dal fatto che l’Islam non è solo una religione nazionale, ma rappresenta la legittimazione suprema del potere politico e dell’identità pakistana: l’unica ragion d’essere. Infatti, il “paese 32
dei puri” è diventato dagli anni Settanta in poi uno stato ideologico-islamico, in cui l’élite al potere ha sempre più spesso usato il richiamo all’islam per prevenire la frammentazione etnica del paese, per giustificare gli squilibri sociali ed etno-confessionali interni e per contrastare le rivendicazioni territoriali afgane e indiane (rivali o nemici vicini). Per meglio capire come questo Stato in parte costruito da un esercito d’ispirazione laico-kemalista sia diventato il padrino dei talebani afgani e il paese delle madrasse più fanatiche (e la zona rifugio di al Qaeda), bisogna tornare al contesto della sua creazione. Il subcontinente indiano è stato per cinque secoli e mezzo sottomesso all’egemonia islamica, essendo la dinastia musulmana più celebre - quella dei Moghul – rimasta al comando dell’India dal 1226 al 1857, data in cui il potere effettivo passò nelle mani dei colonizzatori britannici. Il Pakistan non è nato all’origine come uno Stato nazionale etnico che ha ottenuto la sua indipendenza combattendo gli invasori inglesi. Ma è nato dalla scissione dall’ex-Unione indiana, che era in maggioranza indù (più dell’80%), e dunque pagana, composta di “mushrikin” (associatori), considerati dall’Islam peggiori dei cristiani e degli ebrei e al pote-
dossier re dei quali nessun musulmano può obbedire. Fra i precursori della creazione del Pakistan, Stato creato per e dai Musulmani in nome dell’islam, menzioniamo lo scrittore e filosofo Muhamad Iqbal, (18731939): che argomentava che una nazione separata per i musulmani era essenziale in un subcontinente altrimenti dominato dagli indù. La causa trovò anche una guida in Muhammad Ali Jinnah (1876-1948), il futuro “Padre della nazione”, che riuscì a convincere i colonizzatori britannici a dividere la regione in due parti: il Pakistan, a maggioranza islamica (diviso in Pakistan e Bangladesh), il paese dei musulmani, e l’India pluralista, a maggioranza indù. La rottura tra gli indiani anti-colonialisti non-musulmani e i musulmani, futuri “pakistani”, accadde quando il Partito del Congresso indiano, fondato nel 1885 e che appoggiava l’indipendenza di un’India “laica”(secolare) e pluri confessionale, si rivelò incapace di contenere il separatismo islamico e fece sua, nel 1946, l’idea di una divisione dell’Impero tra India e Pakistan. Nel 1947, l’Unione indiana fu quindi amputata di due regioni originariamente indù, islamizzate durante la dominazione turco-moghul e che si sono separate nel 1947 in nome dell’identità musulmana: il Pakistan occidentale (attuale Pakistan) e il Pakistan orientale (Bangladesh), anche lui musulmano. Il Pakistan è quindi nato per un motivo puramente “teo-politico”: separare i “fedeli” musulmani, dagli infedeli nonmusulmani, in nome di una “identità islamica” separata. Fu in questo contesto di “rifiuto del potere” infedele o “barbaro” (come dicono gli islamisti radicali di Houkum al-Jahili), cioè non-islamico, che i musulmani del continente indiano crearono le prime grandi organizzazioni islamiche radicali indo-pakistane violentemente anti-induiste e separatiste, come la giammaat-i-islami. Quest’ultima fu fondata nel 1941 da Abu Ala Mawdudi, uno dei più influenti pensatori islamisti contemporanei. Questa politica teologica, confessionalista e religiosamente «separatista », cioè che rifiuta la convivenza col potere degli «infedeli », avrà un influsso enorme sul pensiero islamista sunnita in tutti i paesi musulmani, in Europa fra le comuni-
tà islamiche integraliste, e sopratutto nelle zone vicine come l’Afghanistan o il Kashmir indiano popolato da una maggioranza di musulmani, dove l’islamismo pakistano incontrerà spesso gli interessi strategici dello Stato pakistano che saprà strumentalizzare l’integralismo islamismo in funzione irrendentista ed eversiva per aumentare la sua “profondità” geostrategica nella regione. Però questa strumentalizzazione dell’islamismo e la stessa natura intrinsecamente islamica della legitimità dello Stato pakistano avrà il principale effetto di esacerbare gli scontri interreligiosi fino a un punto di non ritorno.
Ricordiamo che ben un terzo della popolazione dell’attuale Pakistan è composta non di autoctoni pakistani, ma di “immigrati”, i Muhajirun (gli emigrati musulmani indiani che hanno lasciato l’India induista per andare a vivere nel neonato Pakistan del 1947, per godere di uno stato islamico e fuggire le leggi “infedeli” o il “potere” barbaro-tiranno” (“Hukum alJahili” o “taghout”). Perchè l’identità islamica, esistenziale nel caso pakistano più che per gli altri paesi musulmani, eccetto l’Arabia Saudita, rimane l’unica legittimazione e giustificazione politica-ideologica di questo primo Stato della storia moderna creato in nome dell’Islam. Lo stesso Fouad Ajami riconosce che «lo stato voluto da Jinnah resistette per trent’anni» e che dopo cadde nella trappola della legittimazione islamica, la quale vinse il secolarismo e impose progressivamente una reislamizzazione generale della società, manifestatasi in diverse forme ma di fatto iscritta nella logica costituzionale e storica delle cose. È anche vero che Muhammad Ali Jinnah, il fondatore del Pakistan, fu all’inizio un uomo secolare. Ed è vero che come tutte le realtà geopolitiche e umane, i parametri sono molteplici e la realtà complessa. Ma pur essendo ideato inizialmente da un islamista secolare come Jinnah o sotto l’influsso del pensiero nazionalista e militare del secolarismo kemalista, il Pakistan è nato come lo Stato dei “puri”, cioè dei puri musulmani rispetto ai non-puri induisti-infedeli. Lo stesso Jinnah era già vecchio e molto malato alla nascita uffi33
Risk indebolire l’India, il suo nemico tradizionale, di garantirsi una profondità strategica in Afghanistan e di “salvare l’onore” aiutando gli irridentisti islamici più radicali e fanatici nel Kashmir “perso” e governato dagli “infedeli” indiani. Ecco come che si spiega l’alleanza decisiva con i movimenti islamici radicali che fu costituita dal dittatore islamo-militare Zia-ulHaq negli anni Settanta – Ottanta, fin dal suo Colpo di stato contro Zulfikar Ali Bhutto. Infatti, per legittimare la sua dittatura e mobilitare nuove truppe nell’ambito della sua strategia di alleanza con l’Occidente contro i sovietici in Afghanistan durante la guerra fredda, Ul-Haq, durante i suoi undici anni di dittatura, impose la shari’a. Contribuendo ad islamizzare legalmente e costituzionalmente il “Paese dei Puri” e realizzando il paradosso, oggi osservabile sia ciale del Pakistan nel 1947, e non potè decidere del- qui che in altri paesi, che spinge i militari secolarizzal’evoluzione ulteriore di un Stato incapace di arrestare ti ad allearsi con i movimenti islamici più radicali in la sua escalation islamica. Questa radice teologico- funzione anti-democratica, anti-sovietica, e per neuconfessionale islamica spiega perchè la storia del tralizzare l’opposizione interna. Quindi, a partire degli Pakistan è in continua evoluzione (o involuzione) anni Settanta, l’islam politico radicale iniziò a conquiverso un’islamizzazione più intensa e radicale, che si stare lo Stato pakistano da dentro, nei ministeri, nei spinge sempre più verso la Shari’a e l’intolleranza nei servizi segreti e nei discorsi politici. L’islamismo policonfronti delle minoranze e dei non-musulmani (scii- tico si infiltrò con sucesso nelle istituzioni secolari e ti, cristiani, atei, “apostati” castigati con la pena di riusci ad ottenere il diritto di fanatizzare intere generamorte per legge, ecc). zioni tramite le scuole islamiche, le predicazioni e le madrasse. L’islamismo integralista, secondo una lettuIn uno studio intitolato Storia e sfide dell’isla- ra sempre meno aperta e più intollerante dell’islam, mismo pakistano, il ricercatore Mohamed Fadhel divenne il fondamento identitario, giuridico, politico e Troudi, ha spiegato benissimo le basi storiche e socio- teocratico più “indigenista”, più “post-coloniale”, più logiche dei movimenti islamici radicali in Pakistan: “legittimo” e coerente di fronte ai due mali rappresenuno «Stato costruito intrinsecamente sulla strumenta- tati dal vicino indiano infedele e dall’ideogia perversa lizzazione dell’Islam politico, la cui conseguenza è dell’ex-colonizzatore. Fu in nome di questa identità l’aumento del potere dei movimenti islamici e la radi- intrinsecamente islamica che Zia ul-Haq (che è il calizzazione dell’intera società». Osserva poi che «il padre di un importante leader islamico ultra-radicale), paese si definisce uno Stato ideologico molto più che conquistò il potere nel 1977, e fu in questo contesto di uno stato-nazione». Per Mohamed Fadhel Troudi, reislamizzazione generale della società e della politianche se lo Stato pakistano non è inizialmente religio- ca, che il protettore dei futuri terroristi salafiti di al so sul piano teocratico-costituzionale, i suoi obiettivi Qaeda (Jihad anti-sovietico durante la guerra fredda) strategici e la sua legittimazione “islamica” lo hanno mandò alla forca il suo predecessore, Zulfikar Ali spinto ad allearsi sempre, sia all’interno che all’ester- Bhutto. Fu lo stesso Zia ul-Haq che durante i dieci no, con il fondamentalismo islamico allo scopo di anni terribili del suo regime, organizzò la reislamizza-
Due le grandi organizzazioni islamiche che operano nel Paese: il movimento Tabligh ideologicamente vicino ai Deobandi-talebani e al Qaeda. E il movimento della “Jama’at-islami”, che è l’equivalente (in attivismo, idee e mete) dei Fratelli musulmani in Egitto
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dossier zione della società, fece costruire migliaia di nuove “madrasse” gestite dagli imam più radicali , oggi strutturalmente e teologicamente legati ai talebani e al Qaeda. È in questo contesto che il Pakistan sottomesso alla legge islamica è diventato, progressivamente, uno dei “5 poli della “rislamizazione radicale” nel mondo. Ricordiamo che se nel 1947 esistevano in Pakistan 250 scuole religiose, nel 1988, erano già più di 12mila e oggi dieci volte di più. Durante questi anni di reislamizzazione, l’ex-generale Zia ed i suoi successori (fra cui anche la simpatica e non cosi moderata Benazir Bhutto, assassinata nell’attentato di Rawalpindi il 27 dicembre 2007 e rivendicato dell’organizzazione di Osama bin Laden), non smisero mai di manipolare il jihad come strumento di “resistenza all’Unione Sovietica” in Afghanistan e poi come strumento di controllo e di destabilizzazione dell’Afghanistan vicino o del Kashmir sotto dominio indiano. Sotto una patina di garbo panislamico, il Pakistan è diventato sempre più dittatoriale preparando il terreno per l’arrivo dei Mullah e degli Cheikh più fanatici, e quindi anche dei talebani la cui popolarità in molte zone afghane, ma anche pakistane, non è in discussione. Negli anni Novanta, il sostegno ufficiale apportato agli islamisti talebani dal Pakistan, allora governato dallo stesso Partito del Popolo Pakistano (Ppp) di Benazir Bhutto (poi ammazzata nel 2007 da quelli che aveva aiutato prima), sembrò sorprendente, ma bisogna capire bene che malgrado le apparenze femminili rassicuranti dell’ex Primo Ministro pakistano, il “paese dei puri” è sempre stato un regime militare di tendenze fondamentaliste, uno Stato governato dalla Shari’a e fondato sull’unica legittimazione teologica e confessionale dell’Islam. E che l’alleato islamico ha dato a Benazir una sorta di protezione (momentanea) di fronte all’opposizione islamica, mentre aiutava il Pakistan a penetrare o controllare meglio alcune forze eversive in Kashmir e in Afghanistan. Questo processo di reislamizzazione o di “corsa alla legittimità islamica” interna ed esterna, da allora non si è più fermato fino a diventare un vero “carcere interiore”, una trappola ideologica che obbligò, perfino i leader per-
sonalmente più secolari, a giocare comunque la carta dell’unica via legittima della Nazione dei puri: l’islamismo. Questo processo neo-fondamentalista e oscurantista si è verificato anche sotto il potere di Benazir Bhutto, che giocò totalmente – contro i suoi rivali politici - la carta dei talebani all’esterno e di alcuni gruppi islamici all’interno. Questa strumentalizzazone dell’islamismo politico radicale crebbe sotto tutti i governi, anche quelli più anti-islamici, e anche dopo l’11 settembre e dopo l’intervento americano-occidentale in Afghanistan nel 2001 e il rifugio consecutivo di al Qaeda e dei talebani afghani in Pakistan in zona pashtun. Questo paradigma islamico radicale, pur essendo problematico, è rimasto in auge fino all’arrivo al potere dell’attuale presidente Zardari, costretto a lottare concretamente per la prima volta contro al Qaeda e i talebani nelle zone pashtun, dopo che questi sono riusciti a colpire in parecchie occasioni, dal 2001 in poi, il potere pakistano e il paese su tutti i fronti: dirigenti (Bhutto), simboli (Moschea rossa) e legittimità (islam). È vero che nell’ambito della nuova strategia implementata da Barack Obama in Pakistan e Afghanistan (la cosiddetta strategia Af-Pak) per la prima volta i regimi afghano e pakistano hanno partecipato, assieme alle truppe americano-occidentali, ad operazioni ambiziose e forti mirando a colpire direttamente in zona pashtun i salafiti jihadisti e i talebani laddove lo Stato pakistano non aveva mai osato penetrare militarmente prima in nome di una tradizione tribale che vietava alle forze dell’ordine di intervenire in queste zone.
Possiamo distinguere due grandi organizzazioni islamiche che operano nella società pakistana: primo, il movimento Tabligh che è vicino ideologicamente ai Deobandi-talebani ed il movimento di al Qaeda. Secondo, il movimento chiamato la “Jama’atislami”, che è l’equivalente (in attivismo, idee, mete, ecc) dei Fratelli musulmani in Egitto e il cui ideologo è il Pakistano Abul A’la Al-Mawdudi (1903-1979), autore di una delle più importanti teorie politiche dell’islam e grande ispiratore della dottrina rivoluziona35
Risk Pakistan resta, con l’Arabia Saudita, uno degli epicentri del totalitarismo islamico nel mondo, anche se determinati uomini politici pakistani come l’ex capo di Stato e generale, Pervez Musharraf, furono costretto dagli Usa, dopo l’operazione Libertà immutabile, ad “abbandonare” in parte i suoi ex protetti talebani e a reprimere con severità un certo numero di organizzazioni islamiste filo-talebane legate ai guerriglieri terroristi islamisti del Kashmir, dove si sono rifugiati molti talebani e membri di al Qaeda. Comunque sia, le Fondato nel 1867, il seminario (dar al’ulum) di analisi dei servizi di informazione occidentali, così Deobandi, dal nome di una città situata a cinquanta come quelle russe e indiane, convergono nel sottolichilometri a nord di Dehli, è il movimento islamico neare il doppio gioco persistente di Islamabad che, integralista più potente in Pakistan, nel sub continente dopo aver sistemato i talebani, continua a sostenere in indiano e in Afghanistan. Nato dalla scuola giuridica Kashmir il terrorismo islamista contro l’India, spesso hanafita, che sta contagiando anche l’Occidente, con la complicità dell’Isi, grazie a due organizzazioni soprattutto Gran Bretagna e Stati Uniti, merita di esse- che figurano sulla lista dei gruppi terroristi vicini ad al re conosciuto, tanto più che l’islam deobandi ispira Qaeda redatta da Washington: il Laskar-i-Taiba e il anche i talebani. La scuola Deobandi pretendeva Geish-i-Muhammad. Il problema principale dei presiall’inizio di “ripulire” l’islam dalle pratiche indù (con- denti pakistani è che in nome dell’anima islamica del siderate pagane) e di aiutare i musulmani a resistere paese, pur combattendo l’islamismo radicale in casa, all’occidentalizzazione. Esaltando un modo di vita devono spesso salvare il loro potere e farsi perdonare puritano, il movimento Deobandi ha oggi l’obiettivo “l’abbandono dei talebani” (o l’appoggio alle guerre centrale di dare ai suoi allievi delle risorse intellettuali americane nelle zone pashtun) attraverso un sostegno per rinforzare l’identità islamica. La soluzione dei pro- al processo di rislamizzazone della società e concesblemi della vita quotidiana e della coesistenza con gli sioni date alle madrasse e ad alcune associazioni foninfedeli per loro risiede nella stretta applicazione delle damentaliste. Lasciando mano libera agli islamisti del ingiunzioni dei testi sacri dell’islam (Corano e hadith, Kashmir e nelle zone tribali da dove sono partiti gli fonti della Shari’a). Questo spiega perché gli ulema attentati di Karachi del 2002 (e tanti altri successivi), deobandi sono grandi “produttori” di fatwa (ne hanno il potere pakistano ha trovato il modo per sbarazzarsi emesse centinaia di migliaia), che usano per indirizza- degli ingombranti talebani e sostenitori di bin Laden, re le politiche del loro credo integralista contro le leggi accolti in massa in Pakistan fino al dicembre 2001. del “potere infedele” dominanti (hukum gahili). È in Tutto questo dimostra come il Pakistan, coanimatore e virtù di queste fatwa, fondate sulle usanze del secolo fondatore con l’Arabia Saudita della maggior parte VIII, che le donne afgane, sotto il regime dei talebani, delle grandi strutture mondiali di reislamizzazione non potevano farsi curare da medici o chirurghi fondamentalista, abbia per molto tempo condotto un maschi, né studiare. Così come gli uomini che non doppio gioco di fronte all’Occidente. allevavano almeno un volatile erano condannabili alla La maggior parte delle organizzazioni islamiche sunprigione e talvolta a morte, proprio come quelli che nite anti-occidentali di tipo terrorista o rivoluzionario tentennavano a portare la barba. Alleato degli Stati sono infatti legate alle strutture islamiche pakistane Uniti per diversi decenni, soprattutto durante la guerra internazionali: talebani, gruppi armati del Kashmir, fredda, come delle monarchie petrolifere del Golfo, il “neo-wahhabiti” del Caucaso (Daghestan, Cecenia) e ria dell’egiziano dissidente dei Fratelli musulmani Sayyid Qutb. Occorre ricordare che il Pakistan è stato la culla del movimento dei talebani, che è prosperato nelle famose madrasse che costellano tutto il paese, in gran parte sostenuto dai servizi segreti pakistani, l’Isi (Inter-Services Intelligence). Il mullah Omar stesso, “emiro” supremo dei talebani afghani rifugiato nel Nord Pakistan in zona pashtun, è uscito da una di queste scuole religiose: la “haqqania”.
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dossier della valle di Fergana (Asia centrale), ribelli islamisti turcofoni dello Xinjiang cinese, ecc. Ovunque si evolvano, dall’Afghanistan al Kosovo, passando per la Cecenia e il Daghestan, i membri di questa nuova “internazionale salafita” diffondono col sangue il “paradigma indo-pakistano” istaurato durante la guerra fredda, quando sotto Zia ul-Haq il Pakistan divenne base d’addestramento e indottrinamento per molti futuri jihadisti e combattenti islamici adesso in azione in tutte le zone del mondo.È bene ricordare che in Pakistan una madrassa e una moschea su quattro sono controllate dai movimenti islamici direttamente legati ai Deobandi o ai loro emuli talebani, influenzate per di più dal wahhabismo saudita: Gamiat Ulema-i-Islami, madrassa di Sami ul-Haq (figlio del ex-ditattore generale islamista Zia), di Fazlur Rehman, dello scià Ahmed Noorani, ecc. Dal 1955 queste madrasse hanno formato più di ventimila stranieri arrivati da tutto il mondo (Africa, Asia centrale, Afghanistan, mondo arabo), con la benedizione dei servizi segreti militari pakistani, l’Isi, e del denaro saudita o kuwaitiano. Insomma, i legami tra l’esercito pakistano, in particolare l’Isi, e gli estremisti islamici non sono mai stati cancellatii, neppure nel contesto attuale della lotta contro al Qaeda, come si è ben visto nella Valle di Swat.
Ricordiamo i fatti: il 16 febbraio 2009, il presidente pakistano Asif Ali Zardari autorizza l’istituzione dei tribunali islamici e della Shari’a nella sua versione più fanatica, nella valle di Swat in cambio di un “cessate-il-fuoco” con i talebani. Principato indipendente fino al 1969, la valle è una zona montuosa a nord di Peshawar, popolata da 1,2 milioni di abitanti. Dal 1994, il movimento guidato da Maulana Sufi Muhammad, il Nifaz Tehreek-e-Shariat Muhammadi (Tnsm), è impegnato nella lotta armata ed esige l’applicazione della Shari’a, in cambio della rinuncia alla guerra santa e al terrore. Fu in questo contesto che il governo falsamente moderato e veramente prigioniero dell’islam politico guidato da Benazir Bhutto aveva già accettato l’applicazione della legge islamica nella
Il problema principale dei presidenti pakistani è che in nome dell’anima islamica del paese, pur combattendo l’islamismo radicale in casa, devono spesso salvare il loro potere e farsi perdonare “l’abbandono dei talebani” sostenendo le madrasse e le moschee regione Malakand. Ma allora la Corte Suprema aveva sostenuto che la legge pakistana dovesse prevalere. Dal 2009, quest’ultimo ostacolo costituzionale è saltato. E ciò che rimaneva del secolarismo residuale in Pakistan è stato sacrificato sull’altare della lotta contro il terrore dei talebani (e con l’appoggio degli stessi), che godono di una leggitimità popolare in molte zone, e che hanno saputo ribaltare contro le autorità pakistane la stessa e unica legittimità islamica del regime. Di fatto i dirigenti pakistani - anche i più impegnati nella lotta contro il terrore - non hanno altre alternative che accompagnare o appoggiare l’islamismo politico e la rislamizzazone radicale della società, in cambio di una tregua che sarà necessariamnete rotta, perchè gli stessi talebani “moderati” che firmano accordi con gli americani o i regimi pakistani o afghani nell’ambito della guerra contro i talebani “duri”, non perdonano ai “traditori” musulmani e ai “crociati” anglosassoni i bombardamenti e l’occupazione del Dar al Islam (dimora dell’Islam). In questo contesto, il presidente pakistano Zardari è stato semplicemente uno dei tanti ex-secolaristi e militaristi a scendere a patti con gli zeloti islamici totalitari, in nome di una pace islamica, pur combattentdo altri islamisti più radicali e i terroristi. Ma questi patti per gli islamisti radicali sono degli accordi (tregue, Hudna) momentanei, destinati a 37
riprendere forze prima di rilanciare la lotta del Jihad. Così come è una realtà che oggi il potere e l’influsso dei talebani e di tante altre sette radicali che controllano migliaia di madrasse è tale che nessun leader pakistano è riuscito o ha osato combattere veramente e frontalmente la realtà islamista alla base: cioè facendo tacere e mettendo fuori gioco gli Imam, i Mullah, gli sceicchi ed emiri che ogni giorno fanatizzano nelle moschee e nelle madrasse i giovani combattenti e i kamikaze. Ormai, la zona Af-Pak (Pakistan-Afghanistan) è la più pericolosa del mondo. Le regioni tribali pashtun del Pakistan accolgono e continuano a protteggere i talebani e i militanti di al Qaeda prottetti dalle leggi tribali pashtun di “ospitalità” e di solidarietà di fronte agli infedeli e ai non-pashtun. A partire da questa zona, in grado di influenzare l’intero Pakistan grazie a moschee e madrasse, è possibile che i talebani e al Qaeda riescano a prendere il controllo del paese e dell’atomica, trasformata ormai da bomba dell’islam a bomba dell’islam radicale. Ex rifugio sicu38
ro di bin Laden (probabilmente ancora lì), l’area pashtun del Waziristan è stata teatro di una vasta offensiva militare.
In risposta i talebani hanno intensificato la strategia degli attentati suicidi, come quello dello scorso capodanno costato la vita a 90 civili impegnati a vedere una partita. È questo è solo l’inizio, visto che in due anni e mezzo gli attentati suicidi hanno già ucciso 2.800 persone. La strategia di cooperazione pakistano-afghana (Af-Pak) e occidentale per condurre operazioni in grande scala potrà vincere tutto questo? Alcuni lo credono. Ma in verità, è tutta una questione di legittimità. Nel lungo periodo sarà più difficile “vincere la pace” che la guerra. Perchè la vera posta in gioco sarà la possibilità di distruggere le radici del Male totalitario, radici ideologiche, culturali e religiose, che fanno finta di cooperare col potere o con i soldati occidentali mentre invece sono i veri burratinai dei terroristi islamici.
dossier
TRE TESI E DUE SCENARI: ECCO COME CAMBIERÀ LA REGIONE SECONDO L’ESPERTO MEDIORIENTALE
NÉ DEMOCRAZIA NÉ AUTOCRAZIA COLLOQUIO CON JONATHAN •
T
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PARIS DI LUISA AREZZO
entiamo un esercizio di stile e proviamo ad immaginare il Pakistan fra vent’anni. L’ipotesi più ottimista? «Leggiamola con le lenti dell’economia. Nel 2030 il “paese dei Puri” supererà l’Indonesia e diventerà il quinto paese più popoloso del mondo e quello con più musulmani. Il temporaneo aumento del numero di giovani garantirà un vero e proprio “baby boom” e
in prospettiva questi giovani, se formati e impiegati, potrebbero fornire all’economia pakistana un dividendo in termini demografici ben superiore a quello di Cina ed India, fra 4 lustri sicuramente alle prese con gravi problemi a carattere pensionistico. Il Pakistan avrà l’opportunità di fare leva sul mercato e sui consumi nazionali per attirare le multinazionali e creare economie di scala competitive in industrie come quella alimentare, automobilistica, elettronica e ingegneristica e per il mercato delle esportazioni. La pace con l’India potrebbe trasformare il Pakistan in un paese di transito per l’energia e in un hub geografico per un eventuale boom sud-asiatico». Non male, no? Peccato ci sia un “ma” a ciondolare come spada di Damocle su questa teoria, ed è il suo opposto, ovvero l’ipotesi pessimistica, che Jonathan Paris, analista del Medioriente e movimenti islamci, editorialista di grido del Finacial Times e Foreign Affairs, più una lunga lista di Tv, dalla Cnn a Fox News, e che ha appena pubblicato il libro Planet Pakistan, reputa francamente più plausibile. «Guardando all’economia in termini pessimistici,
si registrerà un perdurante deficit di leadership e di gestione pubblica, una perdita di credibilità sui mercati finanziari a causa dell’instabilità politica, e la necessità di un periodo straordinariamente lungo di crescita sostenuta necessario al Pakistan per iniziare a combattere la povertà, la disoccupazione e il sottosviluppo. La mancanza di investimenti nel settore dell’istruzione renderà difficoltoso per il paese emulare l’India nel diventare un hub di alta tecnologia, e la violenza crescente non consentirà al turismo di essere una valida alternativa nel breve periodo. Nell’affrontare le future sfide poste dal cambiamento, non è certo di aiuto il fatto che la popolazione stia crescendo ad un tasso che supera il 2.7 percento e che l’aumento dei giovani – demograficamente parlando - non dia segnali di diminuzione nel breve periodo». La mancanza di stabilità politica nel Pakistan è cronica: mai nella sua storia un governo civile è stato in grado di completare il proprio mandato. E il governo di Zardari è in questo momento sotto attacco da parte della Corte Suprema guidata da quello stesso Istikhar Chaudri con cui due anni fa, 39
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In futuro assisteremo all’invocazione della Shari’a, alla marginalizzazione degli Ahmedi e dei Cristiani, a maggiori dimostrazioni pubbliche di devozione ed a pressioni da parte dei partiti religiosi per rifiutare un’aperta collaborazione con gli Stati Uniti da alleato, “costrinse” alle dimissioni il generale Musharraf. «La caduta del governo Zaradari è molto possibile, ma a mio giudizio sono tre gli scenari realizzabili, soprattutto per quanto attiene all’evoluzione della relazione fra civili e militari: 1) un maggiore predominio dei militari, 2) la continuazione dello status quo o 3) il consolidamento democratico. È probabile che i militari vogliano perpetuare lo status quo e trovare modalità che gli consentano di esercitare la loro influenza senza arrivare ad un colpo di stato. Con ogni probabilità, in questo momento, l’opinione pubblica faticherebbe ad appoggiare una presa di potere dei militari e l’attuale comandante dell’esercito preferisce restare dietro le quinte. Ma anche se i civili continuassero a ricoprire l’incarico di Presidente e Primo Ministro, è improbabile che il Pakistan assista allo sviluppo di istituzioni democratiche sostenibili che vadano oltre i feudi familiari alla base dei due principali partiti, il Ppp dei Zardari-Bhutto e il Pml-N degli Sharif. È più probabile che il Pakistan continui ad essere un misto di autocrazia e democrazia, proprio ciò che, Aristotele definiva una costituzione mista. Dato che, in più di 20 anni, i due principali partiti politici non hanno generato alcuna nuova leadership, si potrebbe immaginare 40
che venga alla ribalta un futuro leader populista carismatico, proveniente da un nuovo partito urbano che raccolga il sostegno di massa dei lavoratori poveri che si riversano nelle città, grazie all’uso accorto dei mezzi di comunicazione scarsamente regolamentati che elaborino un messaggio nazionalistico, anti-americano ed incentrato sull’addossare la responsabilità al mondo esterno. Il fatto che un tale leader carismatico non sia venuto alla ribalta dall’ascesa di Zulfikar Bhutto, registratasi quasi 40 anni fa, suggerisce un interessante paradosso della politica pakistana: non essendo ancora in grado di diventare un paese del tutto democratico, il Pakistan è sorprendentemente resistente all’impulso totalitario. Tuttavia, c’è sempre una prima volta». Eccome se c’è, e Islamabad ci ha abituati a mosse sorprendenti. In tutta questa lettura, manca ancora, però, un elemento fondamentale: la deriva islamista del Pakistan. «Le fortune dei partiti religiosi nell’arena politica continueranno fra alti e bassi, ma non arriveranno mai ad una vera e propria presa di potere del governo e tanto meno dello Stato. Al contrario, è più probabile che i partiti religiosi esercitino più pressioni sulla tradizione relativamente liberal del sistema giuridico pakistano tramite la loro influenza sulla futura politica di coalizione (in special modo in un governo di Nawaz Sharif).
In futuro è probabile che si assista all’invocazione della Shari’a, all’ulteriore marginalizzazione degli Ahmedi e dei Cristiani, a maggiori dimostrazioni pubbliche di devozione e religiosità ed a pressioni da parte dei partiti religiosi – ivi comprese manifestazioni di piazza – per rifiutare un’aperta collaborazione con gli Stati Uniti. È interessante notare che, nonostante il sostegno ai gruppi ed ai partiti islamisti, Nazaw Sharif può vantare buoni risultati nella lotta alla violenza settaria nei confronti degli sciiti e in passato ha operato un giro di vite per opporsi agli attacchi dei
dossier gruppi estremisti sunniti». Ma io parlavo soprattutto dei movimenti islamici radicali.... «Per quanto riguarda gli islamisti radicali, al Qaeda resta un outsider in Pakistan in quanto ha una presenza relativamente esigua, per lo più in seno a Fata (le aree tribali di amministrazione federale, ndr.) e forse a Karachi. Alcuni esperti ritengono che la maggior parte degli affiliati qaedisti siano stati reclutati nelle strutture o nelle case di Jamaat-eIslami a partire dal 2001, il che ha un senso dato il legame potenziale in termini di classe sociale ed ideologia, sebbene non in termini di violenza. In quanto ai gruppi di etnia Pashtun che si trovano al di fuori del Punjab, i talebani pakistani non rappresentano una minaccia per lo Stato quanto i militanti punjabi che si trovano nel cuore del Punjab pakistano. Il Punjab è anche la regione principale dalla quale provengono i soldati e gli ufficiali reclutati nell’esercito». Sta suggerendo che c’è un rischio di talebanizzazione dell’Esercito? «Per l’esercito, e per il Pakistan in generale, il pericolo non è la talebanizzazione, ma l’islamizzazione dei militanti di stanza in Punjab e dei loro alleati. Gruppi islamisti che si dichiarano, in linea di principio, “apolitici” quali Tablighi Jamaat e, separatamente, le reti di madrasse dei Deobandi e di Ahl-e-Hadith, nonché le organizzazioni di welfare islamiche. Che sono ben posizionate per continuare a svolgere un ruolo significativo nell’elaborazione delle opinioni degli abitanti delle zone rurali e dei lavoratori poveri di recente urbanizzazione, che hanno lasciato i loro villaggi per riversarsi nelle città, promuovendo indirettamente l’estremismo e fornendo rifugio e copertura ai gruppi radicali. Tablighi Jamaat e i Deobandi hanno consentito il reclutamento da parte dei militanti durante le loro adunate e nessun Deobandi pakistano ha condannato i recenti attacchi-bomba suicidi, mentre i Deobandi indiani lo hanno fatto. Anche Jamiat Ulema-e-Islam ed i Jamaat si sono ben guardati dal criticare gli attacchi sferrati contro le moschee ed i civili per paura di aggressioni
fisiche nei loro confronti da parte dei militanti. In breve, la tendenza dell’Islamismo è quella di un aumento del potere soft senza un’aperta presa di potere islamista». Per Jonathan Paris, dunque, il nazionalismo Pashtun è più debole che in passato, ed un movimento per un Pashtunistan su entrambi i lati del confine afghano-pakistano non minaccia l’integrità territoriale e la stabilità interna del Pakistan. «Esatto. E non bisogna dimenticare che il governo provinciale della Northwest Frontier Province (Nwfp), ove si concentrano i Pashtun pakistani, dipende economicamente da Islamabad per più del 90% del suo bilancio d’esercizio. Non vuole diventare parte di un Pashtunistan con i fratelli oltre il confine afghano che registrano un tenore di vita più basso. Ma ciò non significa che l’etno-nazionalismo Pashtun sia destinato a scomparire. Esso chiederà maggiore autonomia provinciale per la Nwfp ed un maggior utilizzo della lingua Pashto nelle scuole.
Più in generale, si è colpiti dagli antagonismi fra i Mohajir urbanizzati, che provengono dall’India e si sono insediati principalmente a Karachi, ed i Pashtun che sono anch’essi emigrati a Karachi, nonché fra i Beluci ed i Pashtun in Belucistan. La centralità del Punjab per l’esercito limita la sua capacità di contribuire all’opera di costruzione della nazione fra questi gruppi così disparati, ma l’esercito riesce a sfruttare gli antagonismi fra Mohajir, Pashtun e Beluci per ritagliarsi un ruolo indispensabile quale garante della pace ed impedisce pertanto a questi gruppi etnolinguistici distinti, di staccarsi e separarsi». Uno dei motivi per cui l’esercito pakistano è così preoccupato degli attacchi transfrontalieri Usa a Quetta e in altre aree del Belucistan è la precarietà dei ribelli in quella regione: «per la precisione, il sostegno Pashtun all’esercito in Belucistan, che è così vitale per il tentativo dell’esercito di contenere la ribellione dei Beluci, svanirebbe qualora il partner dell’esercito pakistano, ovvero gli Stati 41
il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…
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dossier Uniti, dovessero colpire i talebani afghani di etnia Pashtun a Quetta». Che probabilità ci sono che i talebani pakistani adottino la narrativa Pashtun fra i Pashtun nella Nwfp, in Belucistan, a Karachi ed altrove? «I Pashtun laici stanno combattendo sulle montagne contro lo slancio islamico in seno alla società Pashtun. I talebani sono stati capaci di modificare il dibattito sull’identità Pashtun, rendendolo più religioso e meno concentrato sulle rivendicazioni nazionaliste tradizionali, quali l’autonomia provinciale. Uno dei pericoli di una maggiore influenza americana nelle aree Pashtun sul lato afghano della Linea Durand è che consentirà ai talebani pakistani di porsi in modo più convincente quali difensori dei diritti dei Pashtun». Linea chiara la sua, che presuppone un futuro possibile per i talebani, giusto? «Sono almeno sei le strategie specifiche che i talebani hanno utilizzato e continueranno ad utilizzare quale base per la loro espansione alla frontiera. Il vantaggio per i talebani è che basta che vadano in porto solo due o tre di queste strategie per fargli guadagnare terreno. Le campagne di Swat e del Waziristan del Sud mostrano che l’esercito può portare avanti una politica di contenimento “forzato”. Tuttavia, Islamabad tende a non essere all’altezza delle aspettative in tema di ricostruzione civile e si ha la sensazione che i talebani pakistani stiano aspettando il momento giusto per ritornare quando l’esercito avrà perso interesse. Probabilmente una guerra di logoramento favorisce i talebani in quanto i continui attacchi-bomba suicidi fiaccano il morale.
Quanti di questi attacchi Peshawar e le altre città pakistane potranno sopportare prima di cedere ai Talebani pakistani? Già si dice che giovani ufficiali stiano criticando le campagne contro di loro. Detto questo, è probabile che nei prossimi anni la maggior parte delle avanzate talebane alla frontiera si realizzino grazie ad una serie di rese del governo, negoziate per salvare la faccia, piut-
tosto che a causa di un crollo immediato dell’autorità di governo». A metà di questa nostra conversazione, la distanza marcata con l’ipotesi ottimistica è diventata enorme. E non abbiamo ancora preso in considerazione i rapporti di vicinato con il nemico di sempre: l’India. «Le prospettive di un solido processo di pace che trasformi nemici storici in partner non sono affatto propizie. Eppure vi sono avvisaglie di un nuovo modo di pensare in
Piuttosto che aspettare il ritiro Usa/Nato per altri 18 mesi e cercare successivamente di plasmare un’eventuale strategia regionale senza gli Stati Uniti, il Pakistan potrebbe operare insieme alla Nato ora per elaborare una strategia regionale India caratterizzato da una crescente consapevolezza che l’insuccesso di un paese vicino impedirà all’India di conseguire lo status di potenza mondiale. Il Kashmir, l’attacco di Mumbai del novembre 2008, la penuria di risorse idriche ed energetiche, il modo in cui il Pakistan percepisce il ruolo dell’India in Afghanistan e la sfiducia reciproca fra i loro servizi segreti e di sicurezza costituiscono tutti fattori critici di una possibile escalation, nonché punti all’ordine del giorno di eventuali negoziati. Calcoli errati ed insuccessi dei servizi di intelligence in tutte le crisi precedenti e l’idea prevalente in alcuni analisti sud-asiatici in base alla quale un Pakistan minacciato potrebbe causare una nuova escalation e sfociare in una crisi futura dalle conseguenza imprevedibili non 43
Risk sono affatto elementi rassicuranti. Il fatto positivo è che un numero sempre maggiore di pakistani sta iniziando a comprendere che per il Pakistan il pericolo non proviene da un’invasione dell’esercito indiano, ma dai loro stessi problemi interni. Un recente studio del British Council ha rilevato che è quintuplicato il numero di giovani pakistani che si definiscono musulmani piuttosto che Pakistani e che altrettanti vogliono la Shari’a come democrazia. Per il Pakistan, questo studio riconferma la necessità di ridistribuire i fondi dalla difesa ai settori che sono scarsamente finanziati, quali l’istruzione e la sanità, ed al settore dell’occupazione per le giovani generazioni. È nell’interesse stesso dell’India impegnarsi con il Pakistan direttamente piuttosto che lasciare agli Stati Uniti il compito più oneroso, in particolar modo in un momento in cui questi ultimi hanno surclassato l’India stessa in quanto a impopolarità nell’opinione pubblica pakistana. Il Primo Ministro indiano comprende il problema, ma ha difficoltà ad ottenere il consenso necessario in seno alla leadership del Congresso». Consenso che invece non è in discussione quando si parla di un altro vicino: la Cina. «Nessun paese ha svolto un ruolo più centrale di quello della Cina con riferimento alla politica estera e agli interessi
Sono almeno sei le strategie che i talebani hanno utilizzato e continueranno ad utilizzare quale base per la loro espansione alla frontiera. Il vantaggio per loro è che gli basta che vadano in porto solo due o tre di questi piani per fargli guadagnare terreno 44
di sicurezza del Pakistan. A differenza degli Stati Uniti, le cui relazioni con il Pakistan sono state di natura episodica e pesantemente condizionate, quelle con la Cina sono state coerenti, prevedibili e, fino a tempi recenti, senza alcun tipo di condizionalità.
Le relazioni sino-pakistane
vengono descritte come buone per tutte le stagioni, a differenza di quelle con gli Stati Uniti che sono percepite come relazioni con un paese amico, ma soltanto nei momenti favorevoli e particolarmente propizi. Una tensione nuova in questa relazione è costituita dalla crescente preoccupazione della Cina per le proteste degli Uighuri e per la radicalizzazione islamista nello Xinjiang, che attualmente contraddistingue la visione che la Cina ha della militanza esportata dal Pakistan. Dati i crescenti rapporti della Cina con l’India, le perduranti strette relazioni con il Pakistan e gli investimenti in espansione in Afghanistan e i relativi legami politici con questo paese, è probabile che, nel prossimo decennio, la Cina venga alla ribalta come paese dotato di notevole influenza sui principali paesi dell’Asia meridionale. Man mano che la Cina si dimostra sempre più capace di onorare le sue responsabilità in quanto potenza globale, potrebbe essere in grado di persuadere il Pakistan, suo alleato, a conseguire intese regionali che portino alla stabilità dell’area. La Cina vuole stabilità nella regione afghano-pakistana considerati i pericoli che può causare a questo paese un Pakistan che esporta estremismo nelle provincie cinesi. Al contempo, la Cina è in una situazione di disagio con gli Stati Uniti nel proprio “cortile”». Questa non è una considerazione da poco, visti i legami che sembrano diventare sempre più stretti fra Usa e Pakistan, basti pensare ai recenti arresti di leader quaedisti e ovviamente alla nuova strategia Usa Af-Pak che di fatto stabilisce la consapevolezza di un unico grande problema formato dai due paesi. «Entrambe le parti riconoscono la necessi-
dossier tà di modificare questo atteggiamento ondivago ed intermittente da paese amico solo nei momenti buoni tramutandolo in qualcosa di più permanente. Non è soltanto un problema di consultare il Pakistan sulle decisioni di grande importanza, ma anche di dare effettivamente a questo paese un ruolo effettivo nell’attuazione di una strategia regionale. Ad esempio, piuttosto che aspettare il ritiro Stati Uniti/Nato per altri 18 mesi e cercare successivamente di plasmare un’eventuale strategia regionale senza gli Stati Uniti, il Pakistan potrebbe operare insieme alla Nato ora per elaborare una strategia regionale. Una possibile opzione per iniziare a farlo è valutare se l’Inter-Services Intelligence (Isi) pakistano possa svolgere un ruolo nel contribuire ad una soluzione politica in Afghanistan. La difficoltà sta nel fatto che il Pakistan ha un interesse di sicurezza immediato nell’espandere l’influenza dei talebani afghani in Afghanistan. I pakistani sono del tutto consapevoli che la strategia di Obama potrebbe assumere la forma di uno scenario base light per il 2011 con la possibile diminuzione delle truppe Usa/Nato senza una netta sconfitta dei talebani. (E a dirla tutta, Paris è convinto che il ritiro nel 2012 sia impossibile, a meno di non voler suonare il “tutti a casa” prima di aver raggiunto un risultato…). Una possibilità che per gran parte dell’Esercito reputa un salvataggio, se i talebani non dovessero essere sconfitti».
Potranno infatti Holbrooke,
Petraeus, Mullin, McChrystal ed altre figure dell’Amministrazione americana persuadere il Pakistan a fungere da diverso tipo di ponte fra Usa, Nato e talebani afghani, simile al ruolo che il Pakistan svolse nello sviluppo del rapporto degli Stati Uniti con la Cina nei primi anni Settanta del secolo scorso? «Sembra più probabile che i talebani afghani non saranno mai del tutto sconfitti o vincenti e che ciò che si verificherà in Afghanistan sarà una divisione de facto del paese con un governo centrale
puramente nominale a Kabul, il che non è necessariamente negativo in quanto i talebani afghani non prevarranno sull’Afghanistan come accadde alla fine degli anni Novanta del secolo scorso. Al contrario, saranno contenuti in modo naturale dalla dinamica interna dell’equilibrio di potere in seno all’Afghanistan (ovvero combattendo l’Alleanza del Nord e gli altri gruppi, ndr.), lasciando il Pakistan relativamente immune dalle loro incursioni. Non è chiaro quale sarà l’impatto del ritiro finale della Nato di fronte ad una divisione de facto dell’Afghanistan sui talebani pakistani. Riducendo la pressione della Nato sull’esercito pakistano al fine di combattere i talebani pakistani, potrebbe venirsi a creare un modus vivendi stabile fra i talebani pakistani e l’esercito oppure quest’ultimo potrebbe decidere di operare un giro di vite nei confronti di quest’ultimi, che i cugini afghani non potranno aiutare, man mano che si preoccupano sempre più del conflitto intra-tribaleetnico in seno all’Afghanistan. Nel breve periodo, i pakistani sono preoccupati di un’espansione del conflitto ben oltre le operazioni contro i talebani pakistani a seguito della pressione americana di andare a caccia di rifugi e covi talebani-afghani in Pakistan. Il governo di Islamabad percepisce i “suoi” talebani in modo differente da quelli afgani, che non sono considerati nemici del Pakistan. Le relazioni fra Stati Uniti e Pakistan progrediranno soltanto se potranno essere risolti gli obiettivi divergenti delle due parti. La pressione americana sull’esercito pakistano al fine di espandere il conflitto o altrimenti rassegnarsi agli attacchi diretti americani contro i leader talebani afghani in Baluchistan può scatenare divergenze e dissenso in seno alla società pakistana e, in particolar modo, in seno al suo esercito portando alla grave destabilizzazione del paese. La principale preoccupazione degli Stati Uniti è e sarà quella di impedire la frammentazione del paese e dell’esercito che, nella peggiore delle ipotesi, minaccerebbe la sicurezza del programma nucleare pakistano». 45
Risk
GLI
EDITORIALI/MICHELE
NONES
Il bilancio per la Difesa scende sotto la linea del Piave In occasione della sua audizione presso le commissioni Difesa di Camera e Senato riunite, il ministro della Difesa La Russa ha presentato, lo scorso 20 gennaio, alcune sue valutazioni e proposte per la riorganizzazione del ministero della Difesa, anche sulla base di quanto discusso durante i lavori della Commissione di alta consulenza per la ridefinizione del sistema di difesa e sicurezza nazionale, da lui istituita e presieduta nella prima metà dello scorso anno. Uno degli aspetti su cui sembra opportuno concentrare l’attenzione è quello delle spese per la difesa. Il Ministro ha detto chiaramente che per la “Funzione difesa” (escludendo quindi Carabinieri, pensioni provvisorie ed attività varie) l’obiettivo è quello di mantenere l’attuale 0,86% del Pil (escludendo le missioni internazionali). A questo va aggiunto il finanziamento dei programmi di acquisizione a carico del ministero dello Sviluppo Economico che, per la prima volta nella storia, si sostiene ufficialmente essere stato concepito dal «legislatore in anni passati, non vicinissimi a noi, per “depistare” l’esame delle risorse destinate alle Forze Armate, attribuendo al ministero delle Attività Produttive la parte degli investimenti che in tutti gli altri paesi del mondo è attribuita al ministero della Difesa». Ma, al di là dell’evidenziazione di questa anomalia italiana, l’elemento più rilevante è nel riconoscimento che complessivamente la spesa per la “Funzione difesa” potrà contare su circa lo 0,90-0,95% del Pil. La difesa deve, quindi, svegliarsi dal sogno dell’1,5% del Pil in cui si è cullata ed è stata cullata dai vertici politici di tutte le maggioranze in questo decennio. Si sta oggi avverando il peggiore incubo dei pianificatori: siamo e staremo ben lontani persino dall’1% del Pil considerato da tutti la “linea del Piave” (anche ricordando che il gen. MacArthur lo impose ai giapponesi, dopo la Seconda Guerra Mondiale, come vincolo costituzionale per impedire ogni successivo riarmo). Giustamente il Ministro ha precisato che sarà, però, necessario compensare questo sacrificio con una certezza della pianificazione finanziaria (che eviti le oscillazioni e i colpi di mano 46
nelle manovre di bilancio) e una maggiore flessibilità nella gestione delle risorse (che non consenta più le ricorrenti interferenze dei responsabili dei conti pubblici nelle scelte riguardanti le Forze Armate). Questa nuova impostazione finanziaria toglie adesso ogni alibi a quanti fino ad ora hanno ritenuto che si potesse evitare un drastico ridimensionamento dello strumento militare. Con meno dell’1% del Pil si devono per prima cosa ridurre le ambizioni di poter avere uno strumento militare autonomo e completo e, secondariamente, di poter avere l’attuale livello quantitativo. In passato si sosteneva che non si poteva scendere sotto gli attuali 190mila uomini, ma con queste risorse bisognerebbe probabilmente scendere a due terzi. Per costruire uno strumento moderno ed altamente efficace, il Ministro ha indicato la necessità di puntare da una parte sull’ammodernamento degli equipaggiamenti e, dall’altra, sull’addestramento degli uomini e sulla manutenzione dei mezzi. Agli investimenti della Difesa dovrebbero andare risorse pari a circa lo 0,45% del Pil (compresi i fondi dell’Mse), quindi circa il 50% delle spese. Al suo interno deve collocarsi una quota per la ricerca pari allo 0,05% del Pil: non molto se confrontato con l’obiettivo del 2% deciso dai Ministri europei della difesa in ambito Eda, ma più di quanto venga assicurato ora. Quanto alle spese di funzionamento, il Ministro ha ricordato che oggi ammontano a solo 1.760 milioni e che ben 1.600 sono assorbite da quelle ineludibili. Per addestramento e manutenzione restano solo le briciole e questo «è un tema particolarmente critico». Si profila, quindi, una rivoluzione copernicana: basti pensare che oggi il personale assorbe circa il 65% delle spese per la funzione difesa, il funzionamento il 13% e l’investimento il 22%. Dimezzare la quota del personale comporta una drastica riduzione numerica e una nuova struttura piramidale sul piano dell’età e del grado, con una base molto più larga e un vertice molto più stretto. Il dubbio è se per finanziare questa trasformazione epocale basterà spalmarne i costi su un lungo periodo o se, invece, serviranno anche misure straordinarie.
editoriali
GLI
EDITORIALI/STRANAMORE
Il Green Paper ed il futuro della Difesa Inglese Le decisioni saranno rinviate al dopo elezioni, quando un nuovo governo dovrà procedere a una dolorosa Strategic Defense Review, ma il Green Paper sulla difesa, pubblicato dal ministero della Difesa britannico lo scorso febbraio, mette comunque sul piatto la dura realtà: vista la situazione economica disastrosa (si parla tanto di Grecia, Spagna e Portogallo…ma Londra non sta poi tanto meglio) occorrerà compiere scelte dolorose, semplicemente perché il bilancio della Difesa non è sufficiente per effettuare operazioni reali su vasta scala in più teatri operativi, (a partire dall’Afghanistan, dove combattono 10mila uomini), continuare la preparazione e il supporto delle forze, del personale e dei mezzi che devono essere inviati in azione o rientrano dopo un turno al fronte, mentre si devono anche effettuare gli investimenti per acquisire nuovi sistemi d’arma e le tecnologie per mantenere allo stato dell’arte lo strumento militare. In pratica oggi quasi tutti i soldi disponibili sono impiegati per soddisfare i requisiti operativi urgenti, cioè le richieste dei comandanti impegnati in combattimento. E malgrado la priorità assegnata a queste esigenze, non tutte possono essere soddisfatte al meglio o tempestivamente, mentre tutti i grandi programmi di acquisizione di nuovi sistemi e tecnologie subiscono ritardi, vengono diluiti, congelati, ridotti o cancellati. Il documento ha stimolato un grande dibattito, che coinvolge le forze politiche, i media, la pubblica opinione e la politica di difesa e le scelte strategiche che ne conseguono saranno uno degli elementi caldi della campagna elettorale. Perché la Gran Bretagna è perfettamente conscia delle conseguenze che deriverebbero da una riduzione sostanziale delle capacità militari al servizio degli interessi nazionali, in termini di “ranking” internazionale e di capacità di influenza strategica. Gli stessi vertici militari britannici discutono, si confrontano (litigano) apertamente
su questioni che avranno conseguenze cruciali sul futuro delle rispettive Forze Armate. Una delle prime questioni riguarda il rinnovamento del deterrente strategico nucleare, oggi basato su quattro sottomarini a propulsione nucleare che difficilmente potranno andare oltre il 2025. Infiniti studi stanno esaminando le possibili alternative. Ma quasi tutti ritengono che sia indispensabile non solo conservare una capacità nucleare, ma anche una capacità davvero operativa. Una seconda considerazione riguarda il livello di “indipendenza” militare che la Gran Bretagna potrà ancora permettersi. E con sano pragmatismo ora si cerca quello che fino a pochi anni fa sarebbe stato un tabù inviolabile: un avvicinamento se non una vera alleanza strategica e militare con la Francia. Londra è anche consapevole che la macchina militare deve diventare più efficiente ed integrata. Ed ecco che si considera apertamente la possibilità di rinunciare a forze armate indipendenti, per creare un “unicum”, una sola forza armata integrata responsabile per tutti i ruoli e le missioni, in terra, mare e cielo. Anche le alternative meno drastiche non sono meno coraggiose: c’è chi propone di privare la Royal Navy della sua componente anfibia, spostando i Marines all’Esercito. Ma c’è chi ha anche proposto di sciogliere l’Aeronautica e trasferire i suoi mezzi e competenze ad Esercito e Marina o di rinunciare ad una forza di aerei d’attacco per puntare su sistemi di sorveglianza ed intelligence, lasciando ai partner i compiti aerei offensivi e creando piuttosto nuove capacità controguerriglia. Alcuni, ottimisti, sperano che alla fine il nuovo governo, quale esso sia, deciderà che la Difesa è troppo importante per essere penalizzata pesantemente e sposterà su altri settori della spesa pubblica gli inevitabili tagli e ridimensionamenti. Ma è solo una speranza, piuttosto remota. 47
S
cenari
ISRAELE
LA STRATEGIA MULTIPLA DI GERUSALEMME DI
ENRICO SINGER
all’alto di un punto di osserin una fascia profonda 40 chilomevazione sulla collina di tri, fino al fiume Litani. Si organizMetulla, il capitano Eliezer zano, ricevono nuovi missili e Rubinstein indica una cava di pietra a nuove armi di ogni tipo che partoqualche centinaio di metri di distanno dall’Iran e che passano per la za. In mezzo c’è un prato che è attraSiria proprio alle spalle di questo versato dal confine tra Israele e punto, all’incrocio delle tre frontieLibano: due barriere di filo spinato e re dove le alture del Golan s’interdue strade in terra battuta che corrono secano con le pendici del monte parallele. Da questa parte ci sono le Hermon ancora innevato. La autoblindo color sabbia di Tsahal, minacciosa santa alleanza tra l’Iran dall’altra quelle dipinte di bianco e la Siria per distruggere Israele che dell’Unifil, la forza dell’Onu che, in Mahmoud Ahmadinejad ha lanciaterritorio libanese, presidia tutta la to durante la sua visita di fine febfrontiera dalla fine del conflitto del braio a Damasco, vista da qui, 2006. Ma sulla cava di pietra sventoprende subito i contorni concreti di lano ancora le bandiere gialle e verdi un possibile, nuovo campo di batdi Hezbollah accanto a quelle biantaglia. Dove qualcosa si sta già In attesa della pace che e rosse del Paese dei cedri. Da lì, muovendo, dove ognuno si sta preche non ha più una road da quella cava, partivano i razzi conparando. Quando Ahmadinejad – map definita, il Paese si attrezza ad andare avanti tro il kibbuz di Metulla. Anche quelli che ha incontrato oltre a Bashir al realizzando le condizioni che arrivavano fino a Kyriat Shmona, di vita e di sicurezza migliori Assad, anche il capo di Hezbollah, la città martire dove ogni scuola ha Hassan Nasrallah, e quello di possibili. Con un obiettivo chiaro: non farsi cancellare un sotterraneo e ogni casa un rifugio. Hamas, Khaled Mashal, che vive dalle carte geografiche. Adesso la situazione sembra calma e in Siria – ha parlato di “guerra defii fiori sui rami degli alberi di mele e nitiva” non pronunciava soltanto di ciliegie aumentano una strana sensazione di sereni- slogan. Si riferiva ai 40mila missili che i miliziani del tà. Ma basta che scenda la notte perché lo scenario Partito di Dio hanno nei loro depositi e che potrebbecambi. Il capitano Eliezer Rubinstein racconta che i ro usare per riaprire proprio qui un focolaio bellico che miliziani del Partito di Dio, nonostante le pattuglie attiri tutta l’attenzione internazionale e la distolga daldell’Unifil, si muovono da padroni nel Sud del Libano l’imminente dibattito sulle sanzioni all’Iran per il suo
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scenari programma nucleare. Il capitano Rubinstein ha accompagnato per un giorno, nel Nord d’Israele, una delegazione parlamentare italiana che, con alcuni giornalisti al seguito, ha passato una settimana nel Paese subito dopo la visita di Berlusconi a Gerusalemme. E che ha potuto verificare quanto sia alta la tensione. Anche le altre tappe del viaggio, più a Sud, nei territori che sono già sotto l’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese o in quelli “contestati” degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, o lungo i 725 chilometri del cosidetto “sbarramento difensivo”, che a tratti è un muro di cemento e a tratti è una barriera elettronica, hanno confermato, sia pure in condizioni diverse, la stessa impressione. Il processo di pace tra israeliani e palestinesi è bloccato perché, ormai, è il livello stesso dello scontro che è cambiato sotto la spinta del fondamentalismo islamico che ha trasformato quella che un tempo era la lotta nazionale dei palestinesi per ottenere un loro Stato, nella lotta senza quartiere all’esistenza stessa di Israele. Che non ammette negoziati, che non prevede la pace. La Road Map immaginata e fissata per arrivare alla soluzione dei due popoli, due Stati non ha senso agli occhi di chi, come Hamas, non fa più rivendicazioni territoriali, ma ha proclamato il jihad contro lo Stato ebraico dichiarando apertamente che il suo unico, vero obiettivo è la distruzione del nemico, la sua “cancellazione dalle carte geografiche”, per usare la formula ormai tristemente famosa di Ahmadinejad e della guida suprema della Repubblica islamica, l’ayatollah Ali Kamenei. Appena pochi giorni fa questo salto del livello di scontro lo ha spiegato con parole molto semplici anche Mosab Hassan Yousef, il figlio di uno dei fondatori di Hamas che è stato per anni un agente dello Shin Bet, il servizio di sicurezza interno israeliano, e che ha permesso di evitare molti attentati suicidi e di arrestare numerosi terroristi. Yousef, che vive in California dal 2007 e si è convertito al cristianesimo, ha detto al quotidiano Haaretz: «Quelli di Hamas non possono fare la pace con gli israeliani perché va contro quanto dice il loro Dio: la pace con gli infedeli è impossibile, è possibile soltanto una tregua da sfruttare per prerarare una
nuova battaglia fino a quella decisiva». Ecco, la chiave per capire quello che sta succedendo adesso in Medio Oriente è proprio qui. E non tutti in Occidente sembrano averlo compreso. Oggi i primi a non avere alcun interesse alla nascita di uno Stato palestinese sono i fondamentalisti di Hamas e il loro grande sponsor: il regime islamico di Teheran, che a sua volta gioca su due tavoli. Impugnando la bandiera della guerra totale contro Israele, mira anche a conquistare il primato nel mondo musulmano ai danni del suo avversario di sempre, l’Arabia Saudita, e a imporre così il credo sciita su quello sunnita finora dominante. Pensare che la pace si allontani perché Israele non vuole smantellare un insediamento o non vuole restituire un pezzo di territorio - come ha già fatto a Gaza e in gran parte della Cisgiordania - è davvero ingenuo.
In realtà, con la Guerra dei sei giorni, da un punto di vista geostrategico, Israele aveva conquistato un tesoro territoriale che gli avrebbe dovuto consentire, nel tempo, di assicurarsi il diritto all’esistenza, alla pace e al riconoscimento da parte di quegli stessi Paesi arabi che – non dimentichiamolo – l’attaccarono nel 1967, come già avevano fatto nel 1948 ancora prima della proclamazione dello Stato ebraico. Con gli accordi di Camp David – e con la restituzione del Sinai all’Egitto – la pace con il Cairo è stata raggiunta. Con la restituzione del Golan potrebbe essere possibile la pace con la Siria. E un canale di trattativa era stato tentato anche attraverso la mediazione, fallita, della Turchia che ha coinciso con il riavvicinamento di Damasco a Teheran. Con la Cisgiordania e Gaza da passare sotto la sovranità palestinese e con le intese da raggiungere a tappe secondo gli accordi di Oslo, si poteva chiudere anche il capitolo più spinoso del conflitto. Ma tutto questo è stato in parte possibile fino a quando il conflitto è rimasto uno scontro – per quanto violento e sanguinoso – tra Stati e popoli che rivendicano una loro dimensione statale e che, alla fine, riescono a trovare un accordo in base a concessioni territoriali e reciproco riconoscimento perché questo è il loro obiettivo. E perché è vero che la pace si fa tra 49
Risk nemici. Ma è indispensabile che, almeno, ognuno sia pronto a riconoscere l’altro. Di esempi ne abbiamo avuti anche vicini a noi. Per l’Alsazia e la Lorena sono scoppiate due guerre mondiali, eppure – anzi, in buona parte proprio per evitare nuovi conflitti – quella che sembrava una pace impossibile ha dato vita all’Unione Europea che ha scelto per il suo Parlamento, non a caso, Strasburgo, città di confine, mezza francese, mezza tedesca. Ma in Medio Oriente al punto in cui il fondamentalismo islamico, sotto la regia dell’Iran, ha spostato il conflitto, oggi è davvero un’utopia sperare in soluzioni di questo tipo.
Le ultime scelte del governo
di Benyamin Netanyahu dimostrano che Israele ha elaborato e sta seguendo una specie di “multipurpose strategy” per affrontare il nuovo livello del conflitto. Una strategia multipla che combina, con grande spregiudicatezza, l’azione della diplomazia a quella dei servizi segreti e delle forze armate. “L’assassinio mirato” dell’emissario di Hamas e di Hezbollah a Dubai, Mahmoud al Mabhouh, è un caso esemplare: a prima vista può sembrare una mossa che contrasta con le missioni diplomatiche compiute a Mosca e a Pechino alla ricerca di una mediazione per costruire un fronte comune all’Onu sulle nuove sanzioni all’Iran. Come la presentazione, molto mediatizzata, del nuovo aereo-drone in grado di volare per 24 ore e di arrivare fin sopra i siti nucleari della Repubblica islamica. In realtà sono tutte tessere di un unico mosaico. Per comprendere quello che sta succedendo – e quello che, a breve scadenza, potrebbe accadere – è opportuno esaminare i capitoli di questa strategia multipla uno per uno. Partiamo dal fronte della diplomazia. Il ministro israeliano della Difesa, Ehud Barak, è appena stato in missione negli Usa dove ha discusso della minaccia nucleare iraniana con il segretario alla Difesa di Barack Obama, Robert Gates, e con il capo degli stati maggiori riuniti, ammiraglio Richard Mullen che, a sua volta, era stato in Israele meno di un mese fa. A Washington e a New York con il segretario generale dell’Onu, Ban Kimoon, Ehud Barak ha discusso anche della possibile
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ripresa dei negoziati con l’Anp di Abu Mazen che, alcune fonti molto bene informate, ipotizzano come “possibili” per la fine di marzo, anche in forma indiretta. Sempre sul fronte diplomatico, il vicepremier Moshe Yaalon ha guidato una delegazione in Cina. Con lui c’era anche il governatore della Banca d’Israele, Stanley Fischer. La questione delle sanzioni all’Iran era stata già affrontata dal premier Netanyahu a Mosca con il presidente Dmitri Medvedev e con Vladimir Putin. Secondo Israele per bloccare i progetti nucleari iraniani è necessario che la comunità internazionale decida al più presto delle “sanzioni paralizzanti”, per usare la formula di Netanyahu. Mentre la posizione della Russia si è avvicinata a quella di Israele e del fronte occidentale, è proprio la Cina che rimane la più dura oppositrice nei confronti di reali sanzioni verso Teheran. Per difendere i suoi interessi economici – il petrolio iraniano è preziosa linfa per la rampante industria cinese – e perché, nonostante tutti gli ammiccamenti alle aperture di Obama, Pechino rimane il principale competitor degli Usa. E l’Europa? Come al solito è divisa con Francia e Spagna che, in questo momento, giocano a smarcarsi dalla linea della fermezza che Washington e Gerusalemme cercano di cementare. Anche le critiche all’azione dei servizi segreti israeliani a Dubai e la lettera che i ministri degli Esteri, Bernard Kouchner e Miguel Angel Moratinos, hanno scritto chiedendo che lo Stato palestinese deve “comunque” essere riconosciuto entro 18 mesi, dimostrano che Parigi e Madrid vogliono aprire una specie di fronte interno alla Ue che potrebbe finire col favorire Teheran al momento del dibattito sulle sanzioni in sede Onu. Questi tentennamenti europei preoccupano Gerusalemme. Per tentare una ricucitura, la baronessa Ashton – da gennaio nuovo Alto rappresentante per la politica estera dell’Unione europea – ha scelto proprio Israele per la sua prima missione ed è stata a Gerusalemme il 17 marzo su invito del ministro israeliano, Avigdor Lieberman. Per quanto riguarda le sanzioni all’Iran, la posizione israeliana è molto chiara. Gerusalemme non può tollerare che un regime come quello degli ayatollah, che dichiara in ogni occasione
scenari la sua volontà di distruggere Israele, possa arrivare a dotarsi della bomba atomica. I progetti nucleari iraniani – che prevedono l’arricchimento dell’uranio in proprio fino ai livelli necessari per costruire anche ordigni atomici – devono essere fermati e per questo Benjamin Netanyahu ha chiesto che le nuove sanzioni contemplino l’embargo immediato per il settore energetico iraniano, suggerendo anche di scavalcare il Consiglio di Sicurezza dell’Onu se questo non dovesse essere d’accordo per il veto della Cina. In pratica, Netanyahu ha gia lanciato un appello ai Paesi occidentali perché applichino l’embargo energetico contro l’Iran anche se la possibile opposizione di Pechino dovesse paralizzare il Consiglio di Sicurezza. Ricevendo una delegazione di leader delle comunità israelitiche mondiali, Netanyahu ha detto che, “se la comunità internazionale è seria quando parla di fermare l’Iran, allora quello che ci vuole non sono sanzioni annacquate, ma efficaci: sanzioni che limitino le importazioni e le esportazioni di petrolio dell’Iran. Potrebbe non bastare, ma almeno saremmo certi di averci provato. E se questa opzione non dovesse passare al Consiglio di Sicurezza, allora andrebbe fatta a prescindere da chi è d’accordo, ma immediatamente”. Quelle tre parole – “potrebbe non bastare” – che Benjamin Netanyahu ha lasciato volutamente cadere nel suo appello per le sanzioni efficaci contro l’Iran introducono l’altro capitolo della strategia multipla adottata da Gerusalemme. Il capitolo della risposta militare. L’esibizione del nuovissimo super-drone capace di volare per 24 ore e di arrivare in ogni angolo del territorio della Repubblica islamica – veleggiando silenzioso e invisibile a 12mila metri d’altezza – è un segnale molto preciso. L’Heron Tp, detto anche Heron 2 o Eitan è il più grande aereo senza pilota mai costruito. L’hanno realizzato i ricercatori delle Israel Aerospace Industries e l’aviazione militare lo ha presentato domenica 21 febbraio. Arma micidiale. Grande come un Boeing 737, con un’apertura alare di 26 metri, questo drone oltre all’intercettazione e all’oscuramento delle comunicazioni del nemico, può realizzare un vero e proprio attacco missilistico su un
obiettivo. Come dire che Israele è ormai in grado di colpire tutti i tre siti nucleari iraniani in assoluta sicurezza. La presentazione dell’Heron Tp fa parte del più generale risiko degli armamenti che è in corso nella regione in cui, finora, ha giocato un ruolo molto attivo la Russia che è tradizionale fornitore di Iran e Siria. Proprio durante la visita di Netanyahu a Mosca, però, il Cremlino ha preso una decisione importante, per quanto poco sottolineata dalla stampa. Alexander Fomine, vicedirettore della Cooperazione tecnicomilitare, ha annunciato che la fornitura di missili all’Iran è “sospesa a tempo indeterminato” per motivi “tecnici”. Il sistema terra-aria S-300 che la Russia ha in parte già fornito al regime degli ayatollah è considerato indispensabile per difendere i siti del programma nucleare. Il blocco delle forniture ufficiali avviene dopo lo stop imposto alle consegne illegali quando gli agenti dei servizi segreti israeliani intercettarono un carico di armi per l’Iran dalla Russia. Ma nel risiko della armi nemmeno l’Iran sta con le mani in mano. La televisione di Teheran ha appena mostrato il varo del primo cacciatorpediniere di fabbricazione iraniana. Armato di siluri, il Jumaran (lungo 94 metri e con una stazza di 1500 tonnellate) è in grado di tenere sotto il controllo dei suoi radar fino a 100 bersagli nello stesso momento e si è già unito alle forze navali dell’Iran nelle acque meridionali del Golfo Persico.
La lotta senza quartiere al terrorismo, infine, è parte integrante della strategia multipla adottata da Israele di fronte alla minaccia del fondamentalismo islamista. E in questo delicato capitolo, l’assassinio mirato di Mahmoud al Mabhouh merita un discorso a parte. Non tanto per i clamorosi contorni dell’operazione del Mossad (che, naturalmente, non riconosce il suo coinvolgimento), quanto per le polemiche suscitate in Europa che hanno – è inutile nasconderlo – profondamente deluso gli israeliani. In realtà c’è una buona dose d’ipocrisia nel protestare perché gli uomini del commando che ha ucciso Mabhouh nell’albergo che aveva eletto a sua base operativa erano entrati a Dubai con passaporti europei. Come se gli 51
agenti di qualsiasi servizio segreto d’Europa o del resto del mondo viaggiassero con i loro veri documenti d’identità. E l’ipocrisia è ancora maggiore se si pensa che gli stessi Paesi europei sono impegnati nella guerra al terrorismo in Afghanistan dove, purtroppo, a volte vengono scambiati per convogli di terroristi talebani – e vengono distrutti a colpi di razzi – i pulmini di famiglie di civili in fuga dalle zone calde dei combattimenti. Con drammatici bilanci di vittime. Che Mahmoud al Mabhouh fosse un terrorista, almeno, non c’è dubbio. Aveva ucciso due soldati israeliani dopo averli rapiti e la sua nuova attività, a Dubai, era quella di tenere i rapporti tra Hamas, Hezbollah e l’Iran per alimentare il traffico di armi alle milizie dei fondamentalisti.
Quello che a Gerusalemme la gente comune, come i politici, considerano una contraddizione è la critica a qualsiasi livello delle “azioni di autodifesa”. Quando Israele ha attaccato nella Striscia di Gaza per smentellare le basi da dove Hamas sparava i missili Kassam, è stata accusata di avere colpito indiscriminatamente e di avere ucciso anche persone inermi. Adesso che ha colpito un terrorista con il metodo dell’“assassinio mirato” è criticata lo stesso. Come è avvenuto anche per la barriera di sicurezza, il “muro” costruito per evitare le infiltrazioni dei kamikaze e i tiri dei cecchini contro le strade. Uno sbarramento che, nonostante tutte le polemiche, sta funzionando perché ha ridotto del 90 per centro le azioni terroristiche in territorio israeliano. E che, nel bene e nel male, è una specie di monumento a quella “strategia multipla” di Gerusalemme che, in attesa della pace che non ha più una Road Map definita, si attrezza ad andare avanti realizzando le condizioni di vita e di sicurezza migliori possibili. Con un obiettivo chiaro in mente: non farsi cancellare dalle carte geografiche. 52
scenari
IRAN
LA TERZA VIA DI BARACK OBAMA DI
GEORGE FRIEDMAN
a ben vedere, non sembra altro qualcosa di più di un’imche un palliativo atto a mostrare pressione. Apparentemenmuscoli e nessuna sostanza. I te gli Usa sembrano oscilcinesi hanno già fatto sapere che lare fra due scelte: accettare che non parteciperanno a nessun l’Iran si doti dell’arma nucleare o embargo petrolifero. Pechino riceintraprendere un’azione militare ve l’11 percento del suo petrolio che prevenga questa possibilità. dall’Iran e ha già detto che contiIn verità, c’è anche una terza via: nuerà a fornirgli la benzina. La che Washington ridefinisca in toto posizione di Mosca è che la il suo approccio alla questione Russia potrebbe considerare le iraniana. Non avendo conferme Gli Stati Uniti oscillano sanzioni cammin facendo, ma non certe e basandoci solo su percefra due scelte: accettare zioni e voci che circolano nel ha specificato né come né quando. un Iran atomico o attaccare nostro ambiente, chiamiamolo un D’altronde, i russi sono più che Teheran. Ma Foggy Bottom esercizio di teoria geopolitica e sa che c’è anche una terza via: contenti di vedere come (e quanridefinire “in toto” cominciamo con due scelte chiato!) gli Stati Uniti si siano impanl’approccio di Washington ramente forti. L’uso della diplotanati in Medioriente, e certo non alla questione iraniana. Ecco come mazia al posto dell’opzione milifremono dalla voglia di levargli le tare e la messa in campo di una castagne dal fuoco. È altresì chiapolitica siffatto diversa nei confronti di ro che senza Mosca e Pechino qualsiasi embargo Ahmadinejad. non rappresenterebbe una perdita significativa per L’approccio diplomatico vede la creazione di Teheran. Stando così le cose, l’approccio diplomaun’ampia coalizione, finalizzata ad imporre tico sembra destinato a fallire. all’Iran quelle che sono state chiamate sanzioni L’opzione militare ha i suoi (ovvi) rischi. Primo, il restrittive. Sanzioni che per risultare efficaci devo- suo successo dipende dalla qualità delle informano essere tanto gravose da costringere il destinata- zioni fornite dal sistema di intelligence: errori di rio a cambiare atteggiamento. Nel caso di Teheran, questa natura non sarebbero più accettati. l’unica in grado di raggiungere l’obiettivo è il bloc- Secondo, c’è bisogno di efficaci attacchi aerei. co delle sue esportazioni di greggio e importazioni Terzo, si richiedono stime preventive dei danni di di benzina. L’Iran esporta il 35 per cento del petro- guerra che assicurino il successo dell’attacco. lio che consuma. Non è certo che l’embargo possa Quarto: sono necessari raid successivi che distrugessere paralizzante ma sicuramente può fare la dif- gano ciò che è rimasto funzionante. Quinto, gli ferenza. Perché ogni altro tipologia di “punizione”, attacchi devono portare a qualcosa in più di un
È
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Risk semplice ritorno al programma nucleare iraniano di pochi mesi: se il rischio di un Iran atomico è grande abbastanza da giustificare i rischi della guerra, ciò che ne consegue deve essere decisivo. Ogni voce di questo processo può essere potenzialmente un fallimento. E data la molteplicità di questi punti
l’Iraq, non le armi nucleari, è il contenzioso cruciale tra l’Iran e gli Stati Uniti. Teheran mira al completo ritiro delle truppe statunitensi dalla regione per poter assumere il ruolo di potenza militare dominante nel Golfo Persico al loro posto – che ne includono altri non menzionati – il fallimento non è una semplice opzione ma può essere realisticamente possibile. E ancora: anche se gli attacchi avessero successo, l’interrogativo, rispetto a cosa potrebbe accadere il giorno dopo, rimane. L’Iran presenta i suoi contro. Ha a sua disposizione un’efficace organizzazione terroristica, Hezbollah. Che in Iraq possiede un’influenza sufficiente a destabilizzare il paese e costringere gli Stati Uniti a mantenere forze necessarie altrove. Possiede inoltre la facoltà di utilizzare mine e missili per cercare di chiudere temporaneamente lo Stretto di Hormuz e le rotte navali del Golfo Persico – innalzando il costo mondiale del petrolio proprio mentre la global economy sta lottando per stabilizzarsi. Possiamo dunque dire cha la posizione dell’Iran in merito al suo programma nucleare è orientata dalla consapevolezza che, in caso di attacco militare, le controindicazioni comporterebbero rischi complessi e inaccettabili. Ecco perché il regime islamico è 54
convinto che gli Usa non solo non faranno la guerra, ma impediranno ad Israele di reagire. Ricapitolando: gli Stati Uniti possono accettare un Iran dotato dell’atomica o correre il rischio di sferrare un attacco che potrebbe fallire; oppure imporre un rinvio al programma nucleare dell’Iran e dare risposte estremamente dolorose qualora continuasse. Qualora nessuna di queste opzioni fosse perseguibile, è evidente che gli Usa dovranno trovarne una terza e ridefinire il problema iraniano. Perché fino a quando l’Iran sarà percepito solo in base al suo programma nucleare, gli Stati Uniti saranno in una posizione scomoda. Lavorare per “riaggiustare” la barra include la speranza di una sollevazione contro l’attuale regime. Non voglio ripetermi, ma credo fermamente che le dimostrazioni dell’Onda Verde non siano un seria minaccia per il regime. Teheran le ha abilmente represse e anche se dovessero continuare o prevalere, non produrrebbero un qualche regime più accomodante verso gli Stati Uniti. L’idea di attendere una rivoluzione è più utile come giustificazione all’inazione – accettando un Iran nuclearizzato - che come alternativa strategica. In questo momento, l’Iran è la più potente forza militare nella regione del Golfo persico. A meno che gli Stati Uniti non dispongano di considerevoli forze militari nella regione, non c’è capacità militare in grado di fermare il regime. La Turchia è più forte dell’Iran, ma è lontana dal Golfo persico e al momento concentrata su altre faccende, inoltre non è disposta a intraprendere azioni militari contro l’Iran – per lo meno non per un lungo periodo. E questo significa solo una cosa: che gli Usa non possono ritirarsi dall’Iraq. Baghdad è troppo debole per ostacolare l’Iran nella Penisola Arabica, e non bisogna dimenticare che il governo iracheno ha, al suo interno, elementi favorevoli all’Iran. Storicamente, la stabilità della regione è dipesa dall’equilibrio del potere iracheno-iraniano. Quando nel 1990 questo ebbe a vacillare il risultato fu l’invasione di Saddam in Kuwait. E nel 1991 gli Usa
scenari scelsero di non intervenire in Iraq per evitare di far saltare completamente tale equilibrio e creare un vuoto di potere nella regione. La loro strategia, fino a quel momento, era ristabilire nel più veloce tempo possibile il giusto bilanciamento, dato che l’alternativa era dislocare consistenti truppe statunitensi nella regione. La decisione di invadere l’Iraq nel 2003 presupponeva che una volta distrutto il regime baathista, gli Stati Uniti avrebbero rapidamente creato un forte governo iracheno in grado di bilanciare l’Iran. Il grave errore di questo ragionamento fu non capire che il nuovo governo iracheno si sarebbe riempito di sciiti, molti dei quali guardavano all’Iran come ad un potere amico. Piuttosto che controbilanciare l’Iran, l’Iraq era pronto a diventare un satellite iraniano. Conscio di questo, Teheran incoraggiò l’invasione americana, e quando Washington comprese che Bagdad rischiava di entrare stabilmente nell’orbita iraniana, non ebbe altra scelta che quella di un’estesa occupazione dell’Iraq, un’insidia che le amministrazioni Bush e Obama avrebbero dovuto evitare. Risulta difficile definire l’influenza dell’Iran in Iraq in questo momento. Ma una cosa è certa: non è ancora in grado di imporre un regime filo Teheran in Iraq, ma è perfettamente in grado di bloccare – grazie alla sua influenza nell’area - la creazione di qualsiasi governo iracheno forte e destabilizzare il paese per impedirgli di diventare un contrappeso al suo poetere. A ben vedere, Ahmadinejad sta esattamente perseguendo questo obiettivo.
Eccoci allora arrivati al punto: l’Iraq, non le armi nucleari, è il contenzioso cruciale tra l’Iran e gli Stati Uniti. Teheran mira al completo ritiro delle truppe statunitensi dalla regione per poter assumere il ruolo di potenza militare dominante nel Golfo Persico al loro posto. Gli Stati Uniti vogliono allontanarsi da Baghdad per fronteggiare le sfide in Afghanistan – dove c’è bisogno anche della cooperazione iraniana - e altrove. L’impiego di forze in
Iraq, per un periodo prolungato e mentre si combatte in Afghanistan, lascia gli Stati Uniti esposti ai pericoli globali. Gli avvenimenti riguardanti la Cina o la Russia – come la guerra in Georgia del 2008 vedrebbero gli Stati Uniti senza un’opposizione. L’alternativa potrebbe essere il ritiro dall’Afghanistan o un impiego massiccio di forze armate statunitensi. La prima ipotesi non si verificherà molto presto, la seconda è economicamente irrealizzabile. Tuttavia, gli Usa possono trovare una strada per controbilanciare l’Iran senza ricorrere a uno spiegamento di forze illimitate in Iraq e senza aspettare il risorgere del potere iracheno, dato che l’Iran non permetterà alla seconda ipotesi di verificarsi. La questione nucleare è semplicemente un tassello di questo epocale dilemma geopolitico, in quanto aggiunge un ulteriore elemento al cassetto degli attrezzi iraniano. Non è l’unica questione aperta. Gli Stati Uniti hanno un’interessante tattica, nel ridefinire i problemi, che include la creazione straordinaria di alleanze con nemici mortali, sia ideologicamente che geopoliticamente, al fine di raggiungere obiettivi strategici. Basti pensare all’alleanza di Franklin Delano Roosevelt con la Russia stalinista per bloccare la Germania nazista. Il presidente propugnò quest’alleanza nonostante la massiccia opposizione politica, non solo degli isolazionisti ma anche di istituzioni come la Chiesa cattolica romana che considerava i sovietici alla stregua di un simbolo del male. E che dire della decisione presa da Nixon di allinearsi a quella stessa Cina che aveva rifornito di armi il Vietnam del nord e che stava massacrando le truppe Usa? D’altra parte Mao – che disse di non temere una guerra nucleare dato che la Cina avrebbe potuto assorbire centinaia di milioni di morti - era considerato, con ragione, piuttosto pazzo. Tuttavia, Nixon, figura di anticomunista e anticinese già forte nella politica americana, capì che un’alleanza (a dispetto dei vincoli formali del trattato, era pur sempre un’alleanza) con la Cina si rivelava essenziale per controbilanciare l’Unione Sovietica, in un momento in cui il potere america55
Risk no in Vietnam era fiaccato. Roosevelt e Nixon non avrebbero fronteggiato situazioni strategicamente impossibili se non si fossero preparati a ridefinire drasticamente l’equazione strategica e ad accettare l’esigenza di alleanze con quei paesi che erano stati, precedentemente, considerati delle minacce strategiche e morali. La storia americana è piena di alleanze opportuniste concepite per risolvere impossibili dilemmi strategici. I casi di Stalin e Mao rappresentano delle alleanze sbalorditive, con i nemici di ieri, stipulate per bloccare una terza forza vista come più pericolosa. Si dice che Ahmadinejad sia pazzo. È stato anche detto anche di Mao e Stalin, in entrambi i casi con molte giustificazioni. Ahmadinejad ha detto cose strane e lanciato numerose minacce. Quando, però, Roosevelt ignorava ciò che Stalin diceva e Nixon faceva altrettanto con Mao, entrambi scoprirono che le azioni di Stalin e di Mao erano molto più razionali e prevedibili della loro retorica. Allo stesso modo, esiste una differenza marcata tra ciò che gli iraniani dicono e fanno.
Consideriamo gli interessi americani. Primo, si deve mantenere il flusso di petrolio attraverso lo Stretto di Hormuz. Gli Stati Uniti non possono tollerare interruzioni e ciò limita i rischi che possono correre. Secondo, bisogna cercare di allontanare qualsiasi potenza dal controllo totale del petrolio nel Golfo Persico poiché, altrimenti, si darebbe a quel paese una forza di eccessiva durata all’interno del sistema globale. Terzo, mentre gli Stati Uniti sono impegnati in una guerra agli elementi sunniti del mondo musulmano, devono ridurre le forze implicate in quella stessa guerra. Quarto, bisogna trattare direttamente il problema iraniano. L’Europa arriverà fino alle sanzioni ma non oltre, mentre i russi e i cinesi non andranno nemmeno così oltre. Quinto, si deve impedire un attacco israeliano all’Iran per le stesse ragioni per cui bisogna evitare l’idea stessa di attacco, considerato che il giorno dopo un qualsiasi attacco israeliano, toccherebbe agli Stati Uniti affrontare la situazione. 56
Ora consideriamo l’interesse iraniano. Primo, si deve garantire la sopravvivenza del regime. Gli Stati Uniti sono percepiti come pericolosi e imprevedibili. In meno di 10 anni Teheran si è ritrovato con le truppe americane su entrambi i suoi confini, sia ad est che ad ovest. Secondo, si deve assicurare che l’Iraq non rappresenti mai più una minaccia per l’Iran. Terzo, è necessario aumentare la propria autorità all’interno del mondo musulmano contro i sunniti che, considerati dei rivali e spesso una minaccia. Infine analizziamo i punti in comune. Gli Stati Uniti sono in guerra contro alcuni (non tutti) i sunniti. Questi sono anche dei nemici dell’Iran. L’Iran non vuole le truppe statunitensi lungo i suoi confini. In effetti, nemmeno gli Stati Uniti lo vogliono. Quello che non vogliono è un’interruzione del flusso di petrolio attraverso Hormuz. L’Iran preferisce di gran lunga trarre profitto da quei flussi piuttosto che interromperli. Alla fine, gli iraniani considerano gli Stati Uniti come l’unica minaccia all’esistenza dell’Iran stesso. Se l’Iran riesce a risolvere il problema americano, la sopravvivenza del suo regime è assicurata. Gli Stati Uniti capiscono, o dovrebbero farlo, che ripristinare il contrappeso iracheno nei confronti dell’Iran non è una scelta: o le forze statunitensi in Iraq o l’accettazione del ruolo incontrastato dell’Iran. Pertanto, come esercizio di teoria geopolitica, consideriamo quanto segue. Le attuali alternative di Washington sono inaccettabili. Per ridefinire la questione così come ormai si è sclerotizzata dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003, esistono tre aree di reciproco interesse. Primo, entrambe le potenze hanno seri contenziosi con l’Islam sunnita. Secondo, ambedue le potenze vogliono vedere una riduzione delle forze armate nella regione. Terzo, i due paesi sono interessati ad assicurare il flusso di petrolio, uno per utilizzarlo e l’altro per trarne profitto e aumentare il proprio potere regionale. Il problema strategico è sicuramente la potenza ira-
scenari niana nel Golfo Persico. Vale la pena di considerare in questo caso il modello cinese. La Cina si avvalse di una retorica bellicosa prima e dopo le visite di Nixon e di Kissinger; ma avendolo fatto a fini interni, ciò non implicò una maggiore assunzione di rischio nella sua politica estera. Il rapporto della Cina con gli Stati Uniti era di importanza fondamentale. Pechino comprese pienamente il valore di questa relazione e al posto di continuare a prendersela con l’imperialismo (cosa che avrebbe potuto fare), decise di non minare questo interesse fondamentale. Il rischio maggiore della terza strategia è che l’Iran oltrepassi i limiti e cerchi di occupare i paesi produttori di petrolio del Golfo Persico. Ipotesi “allettante” che però porterebbe a un rapido intervento americano. Tenendo poi conto del fatto che gli Usa non sembrano avere alcuna intenzione di mettere un freno all’influenza indiretta del regime di Teheran tramite la sua partecipazione finanziaria ai progetti regionali che puntano a ruoli più significativi della shari’a negli stati arabi. Il perché è presto detto: i limiti posti da Washington al potere iraniano sono prontamente definiti e rafforzati quando vengono superati. I maggiori sconfitti dalla terza strategia, nella penisola araba, sarebbero sicuramente i sunniti. Che, Iraq a parte, sono incapaci di difendersi e, in una logica di lungo periodo, ininfluenti per gli americani. Fino a quando il petrolio scorre e nessuna singola forza controlla direttamente l’intera regione, gli Stati Uniti non hanno una posta in gioco nella suddetta questione. Anche Israele si allerterebbe parecchio. Perché considera la continua ostilità americana-iraniana come un dono e vuole che gli Stati Uniti eliminino la minaccia nucleare nell’area. Cancellare questa minaccia, però, non è, dati i rischi, un’opzione e la scelta è tra un Iran atomico al di fuori de rapporti strutturati con gli Stati Uniti o dentro. La scelta che Israele potrebbe volere, cioè un conflitto Usa–Iran, è improbabile. Israele non può più guidare la strategia americana come può fare l’Arabia Saudita.
Dal punto di vista americano, un accordo con l’Iran avrebbe il vantaggio di risolvere un problema sempre più spinoso. E nel lungo periodo, potrebbe rivelarsi contenitivo. La Turchia è molto più potente dell’Iran e sta uscendo dalla sua conchiglia centenaria. Le sue relazioni con gli Stati Uniti sono delicate. Gli Usa farebbero infuriare i turchi raggiungendo un simile accordo e li forzerebbero a diventare intensamente più attivi. Tanto da permettergli di emergere come il contrappeso dell’Iran in Iraq. La rabbia della Turchia nei confronti degli Stati Uniti farebbe gli interessi di questi ultimi. La posizione iraniana in Iraq sarebbe temporanea e gli Stati Uniti potrebbero non rimangiarsi la parola data nell’eventualità in cui la Turchia decidesse di eliminare l’influenza iraniana dall’Iraq.
In definitiva, lo shock più grande derivante da una tale manovra risulterebbe, da ambedue i lati, quello politico. L’accordo Usa -sovietico sconvolse profondamente gli americani meno i sovietici, in quanto il patto di Stalin con Hitler li aveva già sbalorditi. L’intesa Nixon-Mao sconcertò tutte le parti. Essa era totalmente impensabile al tempo ma, una volta che le persone, da ambo i lati, ebbero modo di rifletterci e adeguarsi, si rivelò gestibile. Una tale manovra, lo sanno tutti, sarebbe particolarmente difficile per il presidente Barack Obama: di fatto sarebbe interpretata come un altro esempio di debolezza piuttosto che come una spietata e astuta mossa. Un attacco militare accrescerebbe la sua posizione politica, mentre un piano apparentemente cinico lo distruggerebbe. Ahmadinejad, di contro, potrebbe “vendere” un tale accordo nel suo paese molto più facilmente. In ogni caso, le scelte sul piatto sono: un Iran nuclearizzato, estesi attacchi aerei e tutto ciò che ne consegue o qualcosa di diverso. La linea fin qui delineata è ciò che potrebbe assomigliare a qualcosa di diverso e come tale potrebbe meglio adattarsi alla tradizione strategica americana. Come in molti, a Foggy Bottom, cominciano a pensare. 57
Risk
LIBANO
QUANDO L’ONU SEMBRA FUNZIONARE DI
PIERRE CHIARTANO
na oltre la Blue Line. Sorvegliatisun’altura da cui si può simo dai militari di Tsahal, con filo vedere Naharyya, cittadina spinato, bunker e campi minati. sulla costa israeliana della «Qui la guerra del 2006 ha fatto 42 Galilea e con la pianura ben coltivittime, di questi 5 erano combatvata alle spalle verso Shelomi, ed tenti di Hezbollah. Intorno ad Elion. Un fazzoletto di terra boniAytaroun si è combattuto molto e ficato da mine e cluster bomb, disle truppe israeliane non sono riuseminate in tutta la zona. OP 1-31 scite ad entrare nel paese. Ben 205 è uno dei ventidue posti d’osservaedifici sono stati rasi al suolo. zione delle Nazioni Unite lungo la Settecento case sono state parzialBlue Line che divide il Libano da Israele. «Non è un confine, ma una Ecco perché la missione Unifil mente distrutte» afferma a Risk il guidata (fino al 28 gennaio sindaco di Aytarun, che si trova linea convenzionale, scelta per la scorso) dal generale Graziano cessazione delle ostilità» spiega a ha garantito una stabilizazione proprio a ridosso del confine oriendell’area e gettato tale della Blue Line. Si chiama Risk il colonnello Carmelo Abisso, le basi per una possibile pace. Salim Mourad ed è un hardliner di portavoce del comandante del O meglio: di una non guerra Hezbollah. Ricordiamo che lì viciSector West di Unifil 2, il generale no c’è Bint Jebil – la cosiddetta Luigi Francavilla. Una linea che corre lungo i 122 chilometri da capo Naqoura sul capitale di Hezbolland – dove Tsahal perse ben 12 mare, fino nei pressi delle Sheeba farm, zona conte- corazzati Merkava, grazie anche all’uso dei missili sa della Siria poco prima delle alture del Golan. Lì, antitank di fabbricazione russa Cornet. Dall’altro all’altro capo del confine, dal villaggio cristiano di lato ci sono i baschi blu guidati per tre anni, fino al Marjayoun, in territorio libanese, si vedono le pen- 28 gennaio, dal generale Claudio Graziano che ha dici innevate del Marmaroun. Il mandato di Unifil garantito un perfetto coordinamento tra Lebanes copre un’area che si estende per 40 chilometri da armed forces (Laf) baschi blu e Israele. Grazie anche sud a nord e per 64 chilometri da ovest a est. Il pae- all’idea di utilizzare un ciclo periodico d’incontri - la saggio è solcato dal cosiddetto technical fence, una cosiddetta Tripartita – che si svolgono presso «1-32 sorta di muro di Berlino che separa lo Stato ebraico Alfa» una base sul mare, dove c’è una villa con dopdal Libano di Hezbollah. A tratti vedi comparire pio ingresso: da nord e da sud. In quel luogo sul condalla cima di una collina una selva di antenne con fine si discute e si decidono le procedure per mantecui Israele ascolta, controlla e vigila su di una tregua nere la pace in quella martoriata regione. Con modasospesa tra pace e guerra. Corre come una sorta di lità e atmosfere che tanto ricordano altri tempi, profonda ferita nella terra rossa e tra gli ulivi, appe- quando il mondo era diviso in blocchi. Verso occi-
È
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scenari dente a soli 3 chilometri dalla costa e dal quartier generale di Unifil 2 a Naqoura, c’è invece il posto d’osservazione 1-31, una fredda denominazione numerica per ciò che gli uomini del reggimento Savoia cavalleria chiamano “Fort Apache”. Un plotone di 32 uomini, alcuni mezzi blindati, come il Centauro e il Puma, presidiano quella che nelle speranze di tutti dovrebbe rimanere una fortezza Bastiani sulle alture della Galilea. Proprio di fronte al Golfo di Haifa. Per raggiungere l’Observation post dell’Onu, ci vogliono poco meno di 20 minuti su e giù per quelle alte colline. Dai quattrocento metri dell’Op tocchi con un dito Israele e i villaggi di Hanita e Idmith, poi più a ovest sulla costa ci sono le campagne dove sono caduti gli ultimi razzi, l’11 settembre del 2009. Probabilmente lanciati da elementi usciti da un campo palestinese di Tiro, vere zone extraterritoriali incistate in territorio libanese. E dove non entrano né i soldati Unifil e neanche l’esercito libanese. Ci sono forze di sicurezza interne a campi gestite principalmente da Fatah e Hamas. Fuori Hezbollah e Laf controllano entrate e uscite. Quei razzi sono stati lanciati da postazioni nascoste nel fitto fogliame di un bananeto ad Al Qulaylah, vicino la costa a metà strada tra Tiro e Naqoura. Fonti bene informate spiegano che quei lanci avrebbero provocato un regolamento di conti tra Hamas ed Hezbollah, quest’ultimo infastidito dall’iniziativa palestinese. Nonostante l’intensa attività Crlo, acronimo che indica le operazioni per contrastare proprio il lancio di razzi, «sono zone molto difficili da controllare» continua Abisso, che è anche addetto alla pubblica informazione dell’Aerobrigata Friuli, responsabile di far rispettare la risoluzione 1701 per uno dei settori a sud del fiume Litani. In risposta a quell’attacco, il sistema di difesa automatico israeliano aveva sparato una salva di nove colpi di cannone, tutti caduti lontano da persone e abitazioni. A Unifil ci spiegano che Tsahal avvisa sempre qualche minuto prima di effettuare la cosiddetta retaliation. L’impressione è che tra le parti ci sia un forte senso di responsabilità nel mantenere la situazione sotto
controllo. Ricordiamo che il mandato della 1701 prevede che la United Nation Iinterim Force fornisca assistenza umanitaria alla popolazione civile, facilitando il rientro degli sfollati; protegga i civili dalla minaccia di violenze fisiche; assicuri che l’area d’operazione non venga utilizzata per attività ostili; garantisca la sicurezza e la libertà di movimento al personale Onu e delle organizzazioni umanitarie. E mantenga l’area tra il Litani e la Blue Line libera da armi non autorizzate. Qui cominciano alcune dolenti note. Le continue violazioni da parte dell’aeronautica di Gerusalemme dello spazio aereo del Libano meridionale sarebbero motivate dal timore che le milizie di Hezbollah stiano continuando ad armarsi e dalla necessità di effettuare voli di sorveglianza elettronica tipo sigint e telint. Il generale Luigi Francavilla, comandante del settore Ovest di Unifil, ha risposto a Risk durante un briefing nella base di Tibnin: «non ho elementi per affermare il contrario». Fonti d’intelligence inoltre ritengono che le milizie sciite abbiano spostato i depositi poco più a nord del Litani, in modo che in caso di necessità sia agevole recuperarle. Osservando le strette e scoscese pendici di quella valle si intuisce il perché sia stato quello il limite scelto dall’avanzamento delle truppe israeliane durante l’invasione del 2006. Complicato avanzare oltre su di un terreno difficile, e soprattutto quella posizione garantisce il vitale controllo della maggiore riserva d’acqua della regione. Il coordinamento con i 10mila uomini della Laf funziona, voci bene informate però fanno notare come anche queste ultime siano state fortemente infiltrate da elementi del partito di Dio. Almeno nei quadri bassi e intermedi della gerarchia militare. Una situazione che potrebbe essere legata a una volontà di Nasrallah di boicottare gli sforzi del governo di Beirut di muoversi in autonomia. Oggi, però il coinvolgimento di Hezbollah nel governo libanese potrebbe aver fatto cambiare atteggiamento agli sciiti, ma in Libano la calma è sempre e solo apparente. Sindaci e moukhtar – una specie di pubblico ufficiale – che abbiamo incontrato, di Amal, di 59
Risk Hezbollah oppure Maroniti, si sono sempre dichiarati più interessati a risollevare le difficili condizioni di vita della popolazione che a giocare un ruolo sul tavolo della politica. Il sud del Libano è una regione depressa economicamente, con una rete stradale disastrosa, per fare pochi chilometri a volte servono ore. Mancano acqua ed energia elettrica e nonostante lo splendido lavoro delle unità Cimic (cooperazione civile e militare) del contingente italiano e delle forze Unifil 2, i libanesi che hanno caparbiamente deciso di restare in questa regione non vivono in condizioni ottimali. E ogni villaggio conta i suoi morti, i suoi miliziani di Hezbollah e quelli dell’esercito del sud, Al Janoub, del generale Antoine Lahad, scappati in Israele dopo il ritiro del Duemila. Il puzzle libanese è complesso, in un Paese passato dalla dominazione dei mamelucchi, a quella degli ottomani e poi dei francesi, ma l’approccio dei militari italiani ancora una volta ha saputo mediare con la popolazione libanese, nel difficile rapporto tra bisogni e dignità, tra paura e voglia di ricominciare. E un ruolo positivo lo ha giocato anche il Force commander della missione Unifil in carica fino al 28 gennaio. L’Italia lascia il vertice della missione Onu in Libano. Claudio Graziano, generale di corpo d’armata è stato per tre anni in una posizione delicata. All’interno di una polveriera mediorientale, dove si sono fronteggiati uno degli eserciti più efficienti al mondo e le agguerrite milizie sciite di Hezbollah. Graziano lascia il posto al generale di divisione spagnolo, Alberto Asarta. La cronaca del disastro aereo accaduto poco a largo di Beirut, con più di novanta vittime, ha condito la vigilia del passaggio di consegne. Le unità di Maritime, la componente navale di Unifil, sono state infatti utilizzate per le attività di ricerca e soccorso. Missione navale che ha praticamente sigillato il tratto di mare di fronte alle coste libanesi. Un’area di 5mila miglia quadrate come conferma a Risk il contrammiraglio Paolo Sandalli a bordo della fregata Zeffiro a largo di Beirut. «Dei 450 mercantili sospetti segnalati e poi controllati dalle autorità libanesi, nessuno trasportava armi» spiega Sandalli. Nella sede del comando di missione 60
nella base di Naqoura, Graziano risponde a Risk sugli esiti dell’intervento dei baschi blu a sud del fiume Litani. Nel 2008, molti analisti ritenevano che il 2010 potesse diventare un anno a rischio per la stabilità e la pace in Libano. Il continuo afflusso d’armi all’esercito di Hezbollah e il clima della regione facevano prevedere il peggio. Poi l’estate scorsa ci sono state le elezioni presidenziali con i partiti sciiti – Amal ed Hezbollah – che hanno segnato il passo. Non solo, ma Saad Hariri ha voluto coinvolgere gli uomini di Nasrallah nelle responsabilità di governo. Quindi da una parte abbiamo avuto un coinvolgimento internazionale, con la missione del Palazzo di Vetro, dall’altro una politica di assimilazione attuata dalla coalizione 14 marzo che ha vinto le elezioni. Anche se qualcuno afferma che Hezbollah abbia voluto perdere, siglando un accordo sottobanco con l’attuale premier.
Il generale Claudio Graziano, Force commander di Unfil uscente, ha una spiegazione per il clima diverso che si respira a Naqoura. Una temperatura delle tensioni che, solo un anno fa, facevano prevedere un 2010 di fuoco per questa sfortunata regione. E spiega a Risk: «Ho verificato con le parti il gradimento dell’azione di Unifil, che ha svolto non solo una funzione di peacekeeping, ma anche di stabilizzazione. Per avere effetto la forza dispiegata deve essere credibile ed è ciò che è stato fatto, anche se l’attività di prevenzione, come nel caso del lancio dei razzi è molto difficile. Prevenire è più difficile che intervenire, perché prevede una presenza capillare sul territorio. Unifil però non può diventare ostaggio di se stessa, nonostante ci sia apprezzamento per il lavoro che abbiamo fatto e svolgiamo. Ma Unifil non può stare qui in eterno, la componente politica si dovrà attivare per trovare una soluzione. In Medioriente la parola pace è un concetto complicato. Forse è meglio parlare di non-guerra. I media possono influenzare molto l’opinione pubblica, ma la retorica negativa non ha trovato riscontri sul terreno, per ora. Ho avuto sul terreno riscontro del-
scenari l’assoluta mancanza di volontà di riaccendere un conflitto, anzi tutti vogliono che ci sia la pace. Dopo tre anni e mezzo, per la prima volta, le municipalità funzionano di nuovo. Anche il problema del villaggio di Gahjar, diviso a metà dalla Blue Line, verrà risolto. Certo posso parlare solo di ciò che succede a sud del Litani, Non conosco la situazione nel resto del Paese».
Il vertice tripartito è una idea di Graziano che sembra aver dato dei risultati molto positivi. «Ha funzionato anche durante l’operazione Cast Lead a Gaza. Hanno capito l’importanza di mantenere aperto il dialogo anche in quei frangenti. Alla volte non si concludeva nulla, altre volte molto. Ricordo il caso di un cittadino israeliani entrato in Libano. Su indicazione di Gerusalemme fu poi fermato dalle forze libanesi e restituito agli israeliano. Stiamo lavorando affinché la cessazione delle ostilità si trasformi in un cessate-ilfuoco. La nostra azione è stata mirata anche a creare fiducia tra le parti. Per questo abbiamo costituito la procedura tripartita. Incontri mensili, dove libanesi e israeliani parlano per risolvere problemi che sorgono. Con Unifil in mezzo a fare da mediatore. Tra i risultati di questi colloqui anche la marcatura della Blue Line con dei barili che richiede un processo di confidence bulding. La forza del tripartito è questa: non si parla di massimi sistemi, ma di questioni pratiche. Ad esempio, permettere al contadino libanese di poter andare a lavorare nel campo che si trova a sud della linea, con l’autorizzazione israeliana, è importante. Gli incidenti terrestri sono diminuiti, andando scemando negli ultimi tre anni. C’è ancora molto da fare, serve liberare la zona dalle armi, ci sono stati lanci di razzi e minacce. In maniera da creare i presupposti per quel progresso politico che non è nelle nostre mani». 61
lo scacchiere
Unione europea /Il fronte di Kabul visto da
Londra (in primis) e dagli altri attori della Ue Gli accordi presi alla Conferenza sull’Afghanistan avranno successo? DI ALESSANDRO MARRONE
a recente conferenza di Londra sull’Afghanistan ha mostrato lo scacchiere europeo impegnato in una tripla partita: con la guerriglia a Kabul per stabilizzare il paese, con l’alleato americano per far valere le proprie ragioni, e con gli elettori europei per avere il loro consenso sulla guerra. Sull’Afghanistan, l’Europa ha generalmente avuto un atteggiamento “reattivo” rispetto agli Usa, soprattutto perché la necessità della guerra è molto meno sentita da chi non ha subito l’11 Settembre. Anche l’amministrazione Obama, che abbonda di retorica multilateralista, a marzo 2009 ha annunciato la sua prima “nuova strategia” per l’Afghanistan, e poi a dicembre la seconda “nuova strategia” con il discorso di West Point, senza includere gli europei nella loro elaborazione. L’unica parziale eccezione è stata la Gran Bretagna, più in contatto con la riflessione americana in virtù di diversi motivi, incluso il fatto che quello britannico è stato l’unico contingente europeo stabilmente sopra la soglia del 10% degli effettivi Isaf. Non è quindi un caso che la conferenza volta ad articolare e realiz-
L
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zare la strategia in Afghanistan si sia svolta a Londra. Essa ha segnato, sullo scacchiere europeo, un serio tentativo dei paesi del Vecchio Continente di muovere le loro (poche) pedine in modo un po’ più coordinato ed efficace. Infatti, l’idea stessa di una conferenza era stata avanzata congiuntamente da Brown, Merkel e Sarkozy, e il governo britannico ha guidato lo sforzo europeo nel definirne l’agenda. Quanto al risultato, va valutato con cautela visto che un’altra conferenza a Londra nel 2006 aveva posto ambiziosi obiettivi poi mancati in Afghanistan. In questo caso, per lo meno si sono approfondite le linee guida fissate da Obama a West Point. In particolare, si è avviato ufficialmente un piano di riconciliazione con i militanti e i capi locali della guerriglia talebana meno motivati ideologicamente, che potrebbero abbandonare le armi in cambio di aiuti economici diretti per i quali sono stati previsti 500 milioni di dollari. L’opzione della riconciliazione è da anni sostenuta in Gran Bretagna, all’inizio contro la forte opposizione degli americani, ed ora sembra aver ottenuto un consenso generale. Anche l’impegno sulla ricostruzione economica e sociale, con una maggiore responsabilizzazione delle istituzioni afgane, è in linea con il tradizionale argomento europeo per cui non ci può essere sicurezza senza sviluppo, ma era già stata fatta propria dal comandante Idaf McChrystal sulla base dell’esperienza di Petraeus in Iraq. Infine, il fatto che a Londra fossero presenti 70 paesi, inclusi i vicini dell’Afghanistan con l’eccezione dell’Iran, e molte
scacchiere
organizzazioni internazionali, è un esempio di approccio regionale e processo multilaterale a lungo chiesti dall’Europa. Se è vero che gli europei possono riconoscersi maggiormente nella nuova strategia, resta da vedere quanto siano in grado di contribuire alla sua realizzazione. Di fronte all’ultimo surge di 30mila rinforzi americani, solo Gran Bretagna, Italia e Georgia hanno risposto con l’invio di mille soldati, e la Polonia con 600, mentre gli altri paesi europei hanno aumentato i loro contingenti in misura marginale se non nulla. Anche nell’ambito non strettamente legato alle operazioni di combattimento, dove tradizionalmente l’impegno europeo è maggiore, le risorse impiegate sono inferiori al necessario ed anche agli impegni presi: in una recente audizione al Parlamento Europeo, il capo della missione di polizia Ue in Afghanistan ha affermato che a tre anni dal lancio di Eupol il personale effettivamente dispiegato rimane ben al di sotto dei 400 membri previsti. Tutto questo mentre gli americani triplicano (da 300 a 900) i tecnici impegnati per lo sviluppo agricolo. Oltre al problema delle risorse, rimane quello del coordinamento tra gli europei. Ad esempio, dopo il discorso di West Point i singoli governi hanno deciso in ordine sparso se inviare ulteriori rinforzi, quanti e quando. Anche qui fa parzialmente eccezione la Gran Bretagna, attiva più che reattiva, che aveva annunciato l’invio di altri 500 soldati in Afghanistan prima del discorso di Obama, nel tentativo di spingere la Casa Bianca verso un aumento dello sforzo militare e civile. Quello che non fa eccezione è il mancato coordinamento in Europa, nonostante siano europei il Segretario Generale della Nato (il danese Rasmussen), il nuovo Senior Civilian Representative (Scr) della Nato (l’inglese Sedwill), il capo uscente della missione Onu (il norvegese Eide), e ovviamente i rappresentanti a Kabul della Commissione Europea e dell’Ue. Anche in questo campo la conferenza di Londra ha segnato qualche progresso, ad esempio con la decisione di coordinare i Prt nazionali tramite il Scr. Tuttavia rimane il fatto che
alla folta schiera di rappresentanti e coordinatori europei non sembra essere corrisposto un reale coordinamento tra i governi europei, ognuno dei quali è più attento all’agenda politica interna che a quella della comunità internazionale o dell’Afghanistan. Atteggiamento in parte naturale, e non diverso da quello dell’amministrazione Obama che ha fissato l’inizio del ritiro da Kabul in tempo per la campagna elettorale per le presidenziali del 2012, ma non in linea con i lunghi tempi necessari per un’efficace campagna di contro-guerriglia. Proprio la questione del ritiro getta un’altra ombra sullo scacchiere europeo. A febbraio il governo di coalizione olandese si è dimesso per i contrasti tra i cristiano-democratici, decisi a seguire la nuova strategia e tenere duro almeno fino al 2011, e i laburisti fermi sulla linea del “tutti a casa” entro il 2010. Che l’opinione pubblica europea fosse sempre più insofferente verso la guerra in Afghanistan era un fatto noto, ma questa è la prima volta (eccetto il caso Prodi nel 2007) che un governo europeo cade su Kabul. Un segnale importante, che potrebbe precludere ad una pressione crescente sui governi per ritirare le truppe. Pressione che proprio la conferenza di Londra voleva arrestare, o perlomeno attenuare, in due modi: esponendo all’opinione pubblica un obiettivo raggiungibile ed una strategia chiara, condivisa, nuova e con buone possibilità di successo; indicando una prospettiva futura di graduale disimpegno occidentale, man mano che il governo afgano prenderà le redini del paese. Se la conferenza di Londra avrà successo sullo scacchiere europeo, oltre che su quello afgano, è tutto da vedere. 63
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Africa/ Welcome to Nollywood
Il successo della cinematografia nigeriana varca i confini continentali DI
MARIA EGIZIA GATTAMORTA
iving in Bondage (1992), Osuofia in London (2003), The figurine (2009) sono solo alcuni dei prodotti della fiorente industria cinematografica nigeriana. Dopo Hollywood e Bollywood, sempre più con insistenza si parla tra gli addetti ai lavori del fenomeno Nollywood. Basata a Lagos, nel quartiere di Surulele, quella che è definita la “settima arte” permette un giro d’affari tra i 250-300 milioni di dollari, impiega oltre 250mila persone, si basa su piccole compagnie indipendenti, produce oltre 2mila film ogni anno e si presenta come un fenomeno culturale di rilievo dell’ultimo ventennio. Varie le caratteristiche che permettono grande successo alle pellicole nigeriane. La trama, il basso costo di produzione, la ricchezza della lingua, la modalità dell’offerta dei prodotti sono elementi vincenti che attirano un pubblico di tutte le età. Pubblico, certamente locale, sempre più regionale e in prospettiva, internazionale. Che siano tragicommedie, storie d’amore o di magia, film polizieschi tra sparatorie e gang di quartieri e poveri, le trame nollywoodiane riportano sempre la saggezza popolare, hanno una vivacità narrativa interessante e delineano un profilo della società africana. C’è sempre un messaggio nel sottofondo: la difficoltà di dialogo tra un nord musulmano e un sud cristiano, la lotta contro la corruzione, l’impegno civile per l’affermazione della democrazia, lo scontro tra la tradizione e la modernità. Ogni elemento riflette quella lotta interna tipica di una società proiettata nel futuro, in via di riappacificazione con se stessa e con il passato. I costi non prevedono effetti speciali o grandi compensi per gli attori protagonisti, né viaggi o grandiose location. Fare un film può costare tra i 90mila e i 150mila euro e una star
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può guadagnare fino a 10mila euro. cifre irrisorie se confrontate ai budget milionari della cinematografia americana ed europea! Anche la pubblicità è minima per lanciare gli attori locali, ma Nkem Owoh e Emeka Ike non hanno avuto difficoltà a divenire le stelle del cinema nigeriano, amate dal pubblico e seguite dai tabloid locali. Certamente giova alla diffusione delle pellicole la ricchezza della lingua utilizzata. L’inglese in questo settore non domina ma è affiancato dalla lingua Yoruba, Hausa, Igbo e Fulani. Le numerose etnie (circa 250) permettono una grande ricchezza espressiva e offrono stimoli non indifferenti ad un paese di 150 milioni di abitanti. Il buon risultato è indubbiamente garantito anche dal modo in cui viene offerto il prodotto: la chiusura delle sale cinematografiche e le difficoltà della distribuzione sono state superate lavorando in vhs, dvd e video-cd. Il cinema - per lo più domestico e digitale - deve combattere la povertà locale, il mercato nero e il fenomeno della pirateria. Il successo nigeriano - raggiunto anche grazie alla diffusione di documentari specifici come quello di Welcome to Nollywood di Jamie Meltzer, Mission Nollywood di Dorothee Wenner, Nollywood Babylon di Ben Addelman e Samir Malla - ha permesso negli ultimi anni di raggiungere Kenya, Uganda e Ghana. La conquista del mercato africano è uno degli obiettivi del ministero dell’Informazione e della Cultura di Abuja. Che si chiami Nollywood o meno, anche questa è Africa e potrebbe offrire una nuova chiave di lettura di un continente che ha bisogno di farsi conoscere al di là di guerre, carestie e pandemie…ma più che altro necessita di “rileggere” il proprio quotidiano e costruire il proprio futuro.
scacchiere
Americhe/Chavez e la retorica del baseball Fra svalutazione, inflazione, crisi energetica e criminalità, il paese va alle elezioni DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
er definire graficamente la situazione interna in Venezuela, alcuni commentatori locali stanno ricorrendo al gergo dello sport nazionale, il baseball. Il presidente Chávez sarebbe un battitore al terzo strike, dove gli strike sono la svalutazione della moneta e l’inflazione, la crisi energetica e i razionamenti di acqua e luce, la criminalità e l’insicurezza. Tre fronti che poco hanno a che fare con i pilastri neo-socialisti del progetto bolivariano o con le cospirazioni esterne tante volte evocate. Tre conseguenze, piuttosto, di una gestione inefficace nella sfera economica e in quella civile, al punto che ci si chiede se riuscirà Chávez a restare al governo nei tre anni che mancano alle presidenziali del 2012 e a conservare un capitale politico sufficiente per puntare a un terzo mandato. Molto dipenderà dalla capacità dell’opposizione di restare unita e di esprimere una leadership in grado di raccogliere i consensi che il presidente sta lasciando sul campo, in un contesto di crescente frustrazione e malessere sociale. In questo senso, le elezioni parlamentari del prossimo settembre saranno un test fondamentale per misurare le chances di un cambiamento democratico dall’interno del paese. La rivoluzione bolivariana sta affrontando oggi la sua terza crisi, dopo lo sciopero generale del 2003 e le proteste di piazza che seguirono la chiusura di RcTv nel 2007 e portarono poi alla bocciatura del referendum sulla riforma costituzionale. Questa volta la crisi è di natura fiscale e colpisce al cuore il modello economico instaurato negli ultimi anni attorno ai proventi del settore petrolifero. Per non dover tagliare la spesa pubblica, nel gennaio scorso il governo ha svalutato la moneta nazionale del 64 percento. Il risultato è un aumento delle entrate della società petrolifera nazionale Pdvsa e
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quindi dello Stato. Per diversificare l’economia e finanziare la politica di sostituzione delle importazioni, il governo ha ordinato alla Banca Centrale di mettere a disposizione sette miliardi di dollari di riserve. In un anno elettorale, queste risorse serviranno da copertura per aumenti salariali e programmi sociali di varia natura. Il rovescio della medaglia è la crescita dell’inflazione, già attorno al 2530 percento annuo, con una forte pressione sul cambio parallelo e illegale. Collegata alla crisi economica è la situazione energetica. In questo caso alla cattiva gestione e agli scarsi investimenti nel settore si è aggiunta una siccità particolarmente prolungata, che ha provocato la caduta della produzione di energia idroelettrica. Il governo ha dichiarato lo stato di emergenza elettrica nazionale, annunciando l’acquisto di generatori elettrici dagli Usa e di energia dalla Colombia. È partito quindi un piano di razionamento del consumo di acqua e luce. Per l’opposizione, l’intero sistema potrebbe collassare già in aprile. Un anno più tardi subì la prima sconfitta elettorale al referendum indetto per approvare una serie di riforme in senso socialista alla “Costituzione più perfetta del mondo”. Perse per pochi voti, ma con un’astensione del 37 percento degli aventi diritto. Rispetto all’anno precedente, la perdita netta fu di quasi tre milioni di preferenze. A questi dati si aggrappano le speranze elettorali dell’opposizione per il futuro. Oggi il governo ha il totale controllo di tutti i pubblici poteri, e un’impennata del prezzo internazionale del petrolio darebbe nuova linfa al processo socialista in atto. D’altro canto, il cammino verso le prossime elezioni è lastricato di tali difficoltà sul fronte economico che potrebbero anche aprirsi nuovi scenari, se l’opposizione riuscirà a giocare bene le sue carte. 65
La storia
RUBEN BEN TORAH L’EBREO MODENESE CHE COMANDAVA I GUERRIERI SIKH di Virgilio Ilari on 23 milioni di fedeli, la religione Sikh è per numero la quinta del mondo. La Comunità italiana ne conta 70mila, ed è, alla pari con quella thailandese, al sesto posto dopo le comunità indiana, inglese, statunitense, canadese e malese. Per un caso curioso, uno dei più importanti Gurdwara (tempio) della comunità italiana si trova a Novellara (Re), 45 km in linea d’aria a Ovest di Finale Emilia (Mo), patria di uno degli ultimi generali dell’Impero Sikh, che, tra l’altro, fu pure il primo generale ebreo d’Europa. Gli ebrei furono ammessi nell’esercito austriaco nel 1788 e nel francese nel 1791 e assoggettati alla coscrizione nel 1803 in Austria e nel 1806 in Francia, sia pure con discriminazioni legali e con proteste o vessazioni da parte dei commilitoni cattolici. È dunque verosimile che Rubino Ventura, ossia Ruben ben Torah, sia stato arruolato nell’esercito italico di Napoleone, ma certo esagerò la sua carriera militare, raccontando di aver raggiunto il grado di colonnello, di essere cavaliere della legion d’onore e di aver combattuto a Wagram (1809), nella campagna di
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Russia e a Waterloo. Queste affermazioni apparivano dubbie già alle persone che lo incontrarono nel Punjab, le quali lo ritenevano nato nel 1792; in realtà (come dicono i suoi biografi finalesi del 1882 e 1993) nacque nel 1794, una classe che fu chiamata alle armi con due anni di anticipo il 20 febbraio 1813. Qualche ambiguità la sparse pure sulla sua fede, dicendo di chiamarsi “JeanBaptiste”, contraendo un matrimonio cattolico e raccontando ad una missionaria inglese di avere un pronipote monaco domenicano e segretario particolare di Pio IX, tanto da indurre Chris Grey, storico dei 75 ufficiali europei e americani che servirono nell’esercito sikh, a dubitare delle fonti che lo dicevano ebreo (C. Grey, European Adventurers of Northern India 1785-1849, Government printing, Lahore, 1929; rist. Asian Educational Services, New Delhi – Madras 1993, pp. 93-116). Quel che è certo è che il Ducato di Modena, assegnato alla restaurazione all’ultrareazionario arciduca Francesco d’Austria-Este (1779-1846) era non solo poco propizio agli ebrei, nuovamente rinchiusi nei ghetti aboliti da Napoleone, ma pure, tra gli Stati italiani, certamente il meno gentile coi reduci napoleonici. Molti emigravano in cerca di fortuna
e, secondo l’anonimo biografo del 1883 Ventura lo fece L’unica cosa certa è che a Teheran incontrò Jean François nel 1817, a seguito di un diverbio con un poliziotto duca- Allard (1785-1839), un provenzale (di Saint Tropez) che le. Giunto via Trieste a dal 1803 al 1815 e da soldato semCostantinopoli, fu per qualche plice a capitano aveva servito nel Classe 1794, arruolato tempo mediatore di noli marittimi, 23e dragons all’Armée de Naples, nell’esercito italico prima di andarsene a Teheran via nei cacciatori a cavallo napoletani di Napoleone, gran fanfarone, Bagdad. Secondo la versione in Spagna, nei dragoni della guarRubino Ventura arriva recepita dai biografi sarebbe stato dia imperiale, nello stato maggiore assunto come colonnello per del maresciallo Brune e infine nei a Lahore il 10 marzo 1822 addestrare la fanteria persiana, ma corazzieri a Waterloo, arruolandosi via Kandahar, Kabul, la gelosia dei consiglieri inglesi poi nell’esercito egiziano. Secondo Peshawar e Attock l’avrebbe costretto a dimettersi. In Hugel fu Ventura a convincere per addestrare un piccolo realtà il principe Abbas Mirza Allard che in Persia non c’era futunucleo di forze regolari, aveva da tempo riorganizzato ro: e secondo un altro viaggiatore l’esercito con istruttori britannici e francese, Fontanier, fu l’ambasciadomare le tribù pathans nel 1821-23 era impegnato in una tore russo a Teheran a suggerire e sottomettere la regione campagna vittoriosa in Mesopotaloro di andare a cercare fortuna nel afgana di Peshawar mia contro l’Impero Ottomano. Punjab, probabilmente nell’intento Sembra perciò più credibile la di usarli come spie. Sorto nel 1707 testimonianza del barone Karl Alexander Hugel secondo dalle ceneri dell’impero Moghul, quello dei Sikh si estenil quale a Teheran Ventura avrebbe trascorso dieci mesi in deva ad Est del passo Khyber, tra l’Afghanistan, il vana attesa di un impiego qualsiasi presso la corte. Kashmir e il Sindh. Distribuiti in dodici baronie di varia 67
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Da sinistra: Sepoys dell’East India Company; il mausoleo di Anarkaly; la locandina de “L’uomo che voleva essere re” con Sean Connery e Michael Caine, forse ispirato a Rubino Ventura; il colonnello Gardner, uno dei capi di Ranjt Singh; il ritratto di Jean Francoise Allard e, infine, Rubino Ventura. Nella pagina seguente un devoto sikh di fronte al “Tempio d’oro” in India, luogo sacro della comunità
estensione (Misl), con un’assemblea federale (Sarbat Khalsa) e una poderosa cavalleria feudale di centomila guerrieri (Fauj-i-jaghirdari), riuniti nel 1799 da Ranjit Singh (1780-1839) sotto l’autorità di un imperatore (maharaja) e in una capitale (Lahore), i Sikh dominavano saldamente una popolazione composta per un decimo di indù e per otto decimi da musulmani. Il trattato anglosikh del 1809 limitava l’espansione meridionale del Punjab Raja al fiume Sutlej, dalla cui sponda indiana, a Ludhiana, un residente britannico monitorava l’ultima potenza indigena non ancora assoggettata alla Compagnia delle Indie Orientali. “Ulur” e “Wuntoors” (Allard e Ventura) arrivarono a Lahore il 10 marzo 1822, via Kandahar, Kabul, Peshawar e Attock. Che li avessero mandati i russi, al maharajah non passò mai per la mente: sospettava invece che i due, sedicenti ferengi (francesi) e musahib (compagni) di Napoleone, fossero agenti segreti inglesi. Ma i due assomigliavano piuttosto alla coppia di sergenti impersonati da Sean Connery e Michael Caine nel celebre film del 1975 tratto dal racconto di Rudyard Kipling L’Uomo che volle farsi Re. Ancora nel 1827 Ventura confessava al dottor Murray che la gente del posto non li considerava né ferengi né sahib (gentlemen), ma semplici Gorahs (mercenari bianchi). Secondo Sir Henry Montgomery Lawrence (1806-1857), primo residente inglese a Lahore e caduto eroicamente a Lucknow durante la grande rivolta dei sepoys, Allard e Ventura si pagarono il viaggio a Lahore mendicando nei bazar e facendo i muezzin. Grey non ci crede, osservando che i due 68
arrivarono con molti servitori, affittarono una buona residenza e si presentarono dal maharajah con una robusta mazzetta di 100 rupie. Ma dai resoconti del cronista che registrano minuziosamente la laboriosa trattativa di tre mesi con cui si fecero assumere dal maharajah, quest’ultimo sembra Pinocchio alle prese col Gatto e la Volpe. Alla fine spuntarono uno stipendio mensile di 500 rupie per addestrare all’europea un piccolo nucleo di forze regolari che prese il nome di “Brigata Francese” o “truppe reali” (Francese Campo, Fauji-i-Khas, Fauji-i-ain). Dodici mesi dopo, durante la battaglia di Nowshera, grazie alla loro disciplina i dragoni di Allard guadarono l’Indo con tre sole perdite mentre la cavalleria irregolare fu travolta dalla corrente. Si distinse pure la brigata di fanteria comandata da Ventura e composta da due battaglioni di sikh e uno di gurkha (Ghoorkha Poltan) con uniformi, armamento e addestramento simili a quelli dei sepoys inglesi. Negli anni seguenti gli emolumenti di Ventura furono gradualmente decuplicati e la sua brigata partecipò, sempre sotto il comando superiore di un generale sikh, a numerose spedizioni per domare ribellioni delle tribù pathans e del fanatico Syed Ahmad Ghazi e sottomettere la regione afghana di Peshawar, distinguendosi nella presa di varie colline fortificate nella valle di Kangra (Kotla, Srikot, Terah, Riah, Pulhar) e nella successiva raccolta di contribuzioni. Proprio la sua abilità nell’accrescere i ricavi delle imposte valse a Ventura la nomina a governatore della provincia di Derajat (183235) e poi del Kashmir (1835-37). Pur sospettando che trattenesse per sé una quota consistente delle imposte, il
storia
maharajah chiudeva un occhio vedendo che le rendite delle province triplicavano e la città di Multan prosperava. Ventura faceva inoltre eseguire numerosi scavi archeologici mandando i reperti alla Società Asiatica del Bengala a Calcutta. Quando occorreva Ventura era capace di durezza (come far tagliare il naso e bruciare la faccia a sei sfortunati disertori); ma era un angelo a paragone del suo collega “Abu Tabela”, l’efferato governatore di Wazirabad (1827-34) e poi di Peshawar (1834-1843) che al colto lettore richiama subito l’eccellente biografia dedicatagli nel 2002 da Stefano Malatesta (Il napoletano che domò gli afghani, Neri Pozza). Più famoso di Ventura, Paolo Crescenzo Martino Avitabile (1791-1850) di Agerola era stato tenente dell’artiglieria napoletana sotto Murat. Abbandonata a causa di un naufragio l’idea iniziale di andare in America, Avitabile era finito a Costantinopoli e di qui nel 1820 era entrato al servizio persiano, ottenendo il grado di colonnello. Scaduto l’ingaggio, nel 1827 era passato lui pure al servizio sikh assieme all’artigliere francese Claude Auguste Court (1793-1880), che tra l’altro raccolse una splendida collezione di monete locali poi finita al British Museum. Nel 1837 Ventura ottenne un incarico diplomatico a Parigi e a Londra, ma le notizie sulla cattiva salute del maharajah e sull’intervento inglese in Afghanistan lo convinsero a rientrare in anticipo. Col trattato tripartito di Simla del 25 giugno 1838 il maharajah aveva accettato di unirsi agl’inglesi per rimettere sul trono di Kabul il vecchio emiro Shujah Shah Durrani spodestato nel 1809, lo stesso uomo al quale Ranjit Singh aveva poi estorto il celeberrimo diamante Koh-i-Nor. Nell’aprile 1839, mentre l’Armata inglese dell’Indo si riuniva a Quetta, Ventura prese a Peshawar il comando di 6mila soldati del Punjab e 4mila
mercenari gurkha di Shujah Shah. A richiedere che il comando fosse assegnato a Ventura era stato l’agente diplomatico inglese a Ludhiana, colonnello Sir Claude Martin Wade (1794-1861), il quale lo riteneva il più capace degli ufficiali europei e l’unico in grado di mantenere la disciplina delle truppe. Queste recalcitravano all’idea di dover combattere al fianco degl’inglesi, e, non appena l’esercito si mise in marcia, proprio il battaglione scelto, il Ghoorkha Poltan, si ammutinò. Ventura li fronteggiò coi cavalieri irregolari sikh, ma non poté impedire che, a bandiere spiegate e a suon di banda, i verdi fucilieri se ne tornassero a Peshawar. Alla morte di Ranjit, avvenuta il 20 giugno 1839, il contingente sikh fu richiamato a Lahore. Mentre il potere centrale si disfaceva nelle lotte di successione, il 7 agosto gl’inglesi occuparono Kabul, l’11 novembre uccisero l’usurpatore e il 1° gennaio 1840 sciolsero l’Armata dell’Indo. Tra giugno e dicembre 1840 Ventura sottomise i distretti ribelli di Kulu e Mandi espugnando 200 fortini e il grande campo trincerato di Kumlagarh, e nel 1841 fu ricompensato col titolo di conte di Mandi. Intanto il grosso dell’esercito sikh combatteva in Tibet contro i cinesi. Il 2 novembre scoppiò la rivolta afghana, il 6 gennaio 1842 il generale Elphinstone abbandonò Kabul con 4.330 militari e 12.000 civili e il 13 la colonna fu interamente sterminata a Jagdalak. Avitabile fu tra quelli che ne trassero profitto, fornendo alle forze britanniche inviate a vendicare Elphinstone non solo il massimo sostegno logistico ma pure un prestito personale di un milione di rupie, mettendo così al sicuro il suo bottino, riciclato e convertito in un solido credito da riscuotere in Europa, dove fece definitivamente ritorno nel 1843. Le cose erano meno facili per Ventura, sia perché il suo patrimonio era soprattutto immobiliare, sia per69
storia ché era maggiormente coinvolto nelle lotte di potere grazie al suo stretto rapporto col capo dell’esercito Sher Singh. Costui fu assassinato il 15 settembre 1843 e Ventura ne approfittò per congedarsi. Dovette però restare un anno a Simla per sistemare le rendite dei feudi (jaghirs) ricevuti dal maharajah e solo nell’ottobre 1844 poté partire per l’Europa. Si risparmiò così la prima guerra anglo-sikh (1845-46), eroicamente combattuta dal regime di “democrazia militare” (Panchayat) che aveva assunto il ruolo della Khalsa ma costata al Punjab il Kashmir e tutte le terre fertili tra io fiumi Beas e Sutlej. Ricevuto alla corte francese col titolo di conte di Mandy e insignito della Legion d’onore (côte LH/2685/67 intestata a “Ventura de Mandy”), Ventura donò al re Luigi Filippo un set di monete d’oro della Battriana trafugate dagli stupa (santuari) buddisti del Khyber Pass che provavano il passaggio di Alessandro Magno. Tuttavia, avendo perso molto denaro in cattive speculazioni, Ventura decise di tornare nel Punjab. Arrivò tuttavia nel momento peggiore, mentre era in pieno svolgimento la seconda e ultima guerra anglo-sikh (1848-1849). La sua ricomparsa fu vista con sospetto dalle autorità inglesi, perché durante una sua visita a Londra aveva espresso giudizi non lusinghieri sul residente inglese e in una lettera indirizzata ai sirdars aveva comunicato loro alcune espressioni circa l’autodeterminazione che erano state incautamente pronunciate in sua presenza da un funzionario del Foreign Office. Di conseguenza le sue offerte di consulenza per l’assedio di Multan furono seccamente respinte e gli fu detto esplicitamente che in quel momento la sua presenza era indesiderabile. Comunque, per toglierselo dai piedi, il governo inglese gli accordò una liquidazione di 20mila sterline, più un vitalizio di altre 300 annue per l’esproprio della casa e del jaghir intestato alla figlia. Ottenne pure 15mila rupie di arretrati dal morente governo sikh. Tornato a Parigi, vi morì il 3 aprile 1858 senz’aver mai più rivisto l’Italia, e secondo lo storico Flaminio Servi, dopo aver ricevuto il battesimo. Nel 1825 Ventura si era sposato a Ludhiana con rito cattolico officiato da un missionario fatto venire da Lucknow, ricevendo dal maharajah e dai sirdars fastosi regali di nozze del valore di 40mila rupie. Benché figlia di un ufficiale
francese al servizio della begum, la sposa era considerata armena perché tale era sua madre, e la citata missionaria inglese la menziona acidamente solo per dire che nonostante ciò era appena più scura di una spagnola: sospettava pure che fosse una convertita, dal momento che era “piuttosto vaga circa l’osservanza cattolica”. Il matrimonio non fu felice: Ventura la tradiva, nel 1835 si separarono e nel 1837 le tolse pure la figlia, portandola con sé in Europa per collocarla in un buon collegio. Alla moglie lasciò nel 1844 solo un vitalizio di 350 rupie, cessato alla morte del marito. La ragazza sposò invece un nobile francese e negli anni Venti del Novecento i discendenti fecero dei passi presso il governo britannico per rivendicare supposte ricchezze lasciate da Madame Ventura, che, secondo Chris era invece morta in estrema indigenza (nel 1870). All’arrivo a Lahore, Allard e Ventura erano stati alloggiati nella casa ottagonale di un sirdar, che era stata in precedenza una polveriera e prima ancora la tomba di Anarkali (“Melograno”), arsa viva per ordine del marito geloso, l’imperatore moghul Akbar. Una volta sposati i due avventurieri si erano trasferiti in nuove residenze, ma Ventura si era tenuto la tomba per sistemarvi il gineceo (zenana) della moglie. La sua nuova casa era a poca distanza, e si faceva notare dai visitatori per un atrio affrescato e una sala da pranzo rivestita di specchi. L’affresco, eseguito da pittori locali, rappresentava le imprese belliche di Allard e Ventura. In un diario di viaggio pubblicato nel 1845, William Barr ironizzava sulla grossolana fattura e la mancanza di prospettiva: le figure sovrastavano le fondamenta, la cavalleria caricava in cielo e i cannoni erano voltati dalla parte sbagliata per permettere ai serventi di caricarli. Nel 1849 la casa di Ventura fu requisita per il residente britannico ed è ancor oggi sede del segretariato del Punjab. La zenana di madame Ventura divenne invece chiesa cristiana e poi sede dell’Archivio di stato. Secondo lo studioso Mohammed Ahsan Quraishi durante il soggiorno di Allard e Ventura sarebbe stata distrutta una delle iscrizioni persiane che adornavano la tomba e che recitava «L’uomo o la donna innocente assassinato senza pietà e morto dopo grandi sofferenze è un martire agli occhi di Dio». 71
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QUEL MILIONE DI MORTI “DIMENTICATO” DA FRANCIA E USA di Mario Arpino lla fine della seconda guerra mondiale, oltre quattro milioni di soldati tedeschi furono tenuti prigionieri all’aperto, in campi recintati da filo spinato e senza alcuna protezione, con poco cibo e poca acqua, o niente del tutto. Questo accadde in Germania ad opera degli Americani nella zona da essi occupata e durò per molti mesi dopo la fine delle ostilità. L’esercito francese, che ricevette circa 630mila prigionieri dagli americani per servirsene come mano d’opera in riparazione dei danni di guerra, fece loro patire la fame e li maltrattò a tal punto che non è esagerato calcolare una cifra di 250mila morti causati dalle pessime condizioni in cui questi uomini furono tenuti. Per quanto riguarda i campi americani, non è azzardato supporre il decesso di 750mila prigionieri. Per la maggior parte si trattava di soldati della Wehrmacht arresi dopo l’8 maggio 1945, ma fra loro c’erano anche donne, bambini e anziani. Queste morti furono catalogate come “altre perdite”. Gli americani governavano in Germania circa 200 campi maggiori, mentre i francesi presidiavano in Francia e nel settore tedesco loro assegnato circa 160 campi. Per scrivere questo libro, ultimato in prima stesura e pubblicato alla fine degli anni Ottanta, ma poi revisionato ed aggiornato in una seconda edizione, James Bacque ha intervistato centinaia di ex prigionieri, guardie ed ufficiali. Sono disponibili così migliaia di testimonianze e di documenti tratti dagli archivi di Parigi, Londra, Coblenza, Washington e Ottawa. Sapevamo che il XX secolo, il “secolo breve” di Hobsbawm, nel solo periodo tra il 1914 e la caduta dell’impero sovietico, tra guerre, rivoluzioni, deportazioni di massa e pulizia etnica aveva provocato cento milioni di morti, meritandosi dallo storico William Golding l’ambito titolo di “secolo più violento nella storia dell’umanità”.
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JAMES BACQUE Gli altri lager. I prigionieri tedeschi nei campi alleati in Europa dopo la seconda guerra mondiale Mursia Editore pagine 392 • euro 19,00 L’Autore, studioso e storico canadese, ha scritto libri sulla seconda guerra mondiale in cui si è occupato, in particolare, di ricerche sulla sorte dei civili tedeschi dopo il termine delle operazioni militari. Il titolo originale è “Other Losses”, tradotto dall’ inglese da Fulvio Bernardinis per la prima edizione e da Maddalena Mendolicchio per gli aggiornamenti.
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Risk Non sapevamo, però, che a questo impressionante totale avessero generosamente contribuito – con un milione di morti tra soldati e civili tedeschi nei campi di concentramento – i simpatici francesi e i buoni americani. In un tempo record, misurato solo in alcuni mesi dopo la fine delle seconda guerra mondiale in Europa. A dir la verità, non lo sa quasi nessuno, perché in questo dopoguerra i governi hanno fatto di tutto – non volendo turbare i nuovi equilibri – per annacquare le tracce di ogni misfatto, assecondando così l’eccellente lavoro già fatto in questo senso dai responsabili politici ed operativi all’epoca dei fatti. Ma, come dice il proverbio, il diavolo fa le pentole e non i coperchi. Ci sono poi in giro per il mondo certe categorie di rompiscatole, gli storici e i ricercatori, che con tenacia, certosina pazienza e maniacale perseveranza riescono a scoperchiare anche le pentole chiuse, quelle che il diavolo aveva trascurato. A questa categoria appartiene il canadese James Bacque, autore di questo libro-ricerca. Il processo di rimozione, si dirà, è avvenuto un po’da per tutto. Anche in Italia, per esempio, degli infoibamenti a nord est si è sempre evitato di parlare, per non dispiacere ai comunisti di casa o a quelli di Tito. Però chi è nato là, come il sottoscritto, se lo ricordava e lo sapeva, meravigliandosi del silenzio che ormai copriva quelle atrocità. Né si è mai parlato molto di Coltano, i campi dove gli americani hanno tenuto in prigionia i soldati della Repubblica Sociale, e pochi ormai sanno dell’esistenza dei nostri campi di concentramento di Fossoli, vicino a Carpi, dove abbiamo a lungo custodito i prigionieri del Commonwealh, evacuati dopo il 1943 per far posto ad alcune migliaia di ebrei italiani in transito per Auschwitz, Bergen Belsen e Buchenwald. O dei campi per ebrei realizzati in Calabria. D’altra parte, anche nel 1918, dopo Vittorio Veneto, ci eravamo “dimenticati” dei tremila ufficiali fatti prigionieri dai tedeschi e dagli austriaci nel caos di Caporetto, a lungo rinchiusi in un lager nei pressi di Hannover. Indicati dalla regia propaganda come vili disfattisti responsabili di una sconfitta, nell’esultanza della vittoria era comodo dimenticarli. Nulla di nuovo sotto il sole, quindi. Ma approfondire la storia dei quattro milioni di prigionieri tedeschi in mano 74
americana e francese ha dell’incredibile. Qui non si tratta di rimozione, ma di eliminazione strisciante, pianificata, nascosta dalle menzogne degli atti ufficiali, alle quali le massime autorità nazionali, consapevoli, fingevano di credere. Da ricerche approfondite anche attraverso controlli incrociati sulla documentazione reperita, risulta all’Autore che la maggior parte dei decessi sono stati causati intenzionalmente – quasi come un’orribile punizione per i misfatti del nazismo – dall’incuria e dall’arroganza degli ufficiali francesi e americani, se si considera che le risorse per provvedere erano disponibili, ma non utilizzate. Vi sono puntuali testimonianze di operatori delle organizzazioni assistenziali e della Croce Rossa secondo le quali, specie nei campi gestiti dagli americani, l’esercito rifiutava l’autorizzazione all’ingresso di quanti cercassero di portare soccorso. Nei campi gestiti da inglesi e canadesi risulta che le condizioni di vita dei prigionieri tedeschi fossero decisamente migliori, tanto che i decessi avvenivano sopra tutto nei contingenti appena trasferiti dai campi americani e francesi. Inglesi e canadesi quindi erano necessariamente consapevoli di ciò che avveniva nei campi dei due alleati, ma solo il governo canadese ha tentato qualche protesta. Oggi, può apparire incredibile che americani e francesi si siano macchiati di crimini così atroci, in totale spregio della convenzione di Ginevra, contro soldati di un esercito che si era arreso. Ma, nostro malgrado, la meticolosità della ricerca lascia poco adito ai dubbi. Il lavoro è ben strutturato, agevole da percorrere, e il testo ha una chiarezza che spesso nelle traduzioni è inusuale. Si articola in una prefazione ed una doppia introduzione, in quanto i nuovi elementi presenti nell’ultima edizione – scaturiti da un approfondimento della ricerca – necessitano di una nota metodologica supplementare. Dopo un’utile cronologia degli avvenimenti e un glossario per acronimi e abbreviazioni, entrambi intelligentemente inseriti prima del testo, la stesura della ricerca si snoda in modo logico attraverso dodici capitoli ed un epilogo. Va letto tutto, perché il libro è una fonte inesauribile di notizie e testimonianze inedite che, se non fosse per il rigore del procedimento, lascerebbe incredulo ogni lettore benpensante. Non siamo infatti abituati a
libreria considerare americani e francesi capaci di simili crimini. Li ritenevamo appannaggio delle SS, dei commissari politici dell’Armata sovietica e dei Khmer rossi di Pol Pot. Ma la guerra riesce a trarre fuori tutto il peggio di cui il genere umano è capace, trasforma gli individui e uccide sentimenti come la solidarietà e la pietà. Se andassimo a scavare, probabilmente anche il mito degli “italiani, brava gente” ne uscirebbe considerevolmente ridimensionato. Perciò, accettiamo ciò che leggiamo con tranquillità, senza meravigliarci più di tanto. Le appendici, che sono dieci, prendono molto spazio – un terzo del libro – e di fatto ne costituiscono la seconda parte. Si tratta di numerose tabelle, rapporti e stralci di elenchi, ma non solo. Alcune di queste Appendici sono veri e propri studi comparati, dove si mette a raffronto il materiale ufficiale, se ne individuano le innumerevo-
li discrepanze, si mettono in luce gli espedienti – come la denominazione di Disarmed Enemy Forces di un gran numero di soldati tedeschi custoditi nei campi americani nel nord- ovest europeo – che, evitando la qualifica di prigionieri di guerra, consentivano di eludere la Convenzione di Ginevra e i controlli della Croce Rossa internazionale. Il libro è poi arricchito da una cinquantina di pagine di note, riferite sia ai capitoli che alle appendici. Sono necessarie ed è bene leggerle, perché la ricerca è complessa e il loro inserimento nel testo avrebbe certamente complicato le cose. Questa fatica di James Barque è un lavoro completo, reso agevole da un’articolazione felice e da un’intelligente metodologia di ricerca. Per i più sarà anche scioccante, perché infrange molti miti consolidati sulla saggezza e l’indole dei popoli.
RUSSIA: DEMOCRAZIA EUROPEA O POTENZA GLOBALE? La lunga marcia di Putin per riaffermare il protagonismo di Mosca nel mondo e uscire fuori dall’impasse economica che attanglia il Paese di Andrea Tani ibro interessante, agile, sintetico, utile per specialisti – anche perché riassume con dovizia di particolari tutto quello che è successo attorno all’argomento dal ‘91 in poi (ad esempio esplicitando bene tutte le innumerevoli sigle e acronimi che costellano le relazioni Russia/ Nato/Europa) - e godibile per lettore ordinario. Tratta di come la Russia contemporanea, «entità statale ritagliata nel 1991 per differenza dal tessuto dell’Impero sovietico», come esordiscono gli autori, sta facendo di tutto per riaffermare il suo tradizionale ruolo da protagonista nel concerto delle nazioni, un concerto che è molto mutato da quando la sua vicenda storica si è sviluppata. Le tesi del Professor Vitale e del Colonnello Romeo sono nel complesso empatiche e ben disposte nei confronti dei Russi e della
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loro attuale dirigenza. Tutto sommato Putin e compagni starebbero pilotando con una certa abilità il Paese fuori della disastrosa situazione nella quale si è trovato dopo il crollo dell’impero russo storico – l’Urss non era ormai che quello, a parte l’ideologia, negli ultimi tempi piuttosto declinante e impopolare – e devono fronteggiare un atteggiamento occidentale surrettiziamente aggressivo, al di là delle declamazioni di principio sui diritti umani, la mancanza di democrazia autentica, le restrizioni alla libertà di stampa, il revanscismo eccetera. Esempi di tale aggressività sarebbero l’allargamento ad est della Nato (contrariamente a quanto promesso anche formalmente a Gorbaciov all’indomani della caduta del Muro), la guerra alla Serbia, protegée di Mosca, con successiva concessione dell’indipendenza al Kosovo contro il parere del Cremlino di allora, l’inglobamento nella Ue 75
Risk delle Repubbliche Baltiche dove vivono milioni di etnici russi, l’incoraggiamento tangibile di molti paesi Nato alle rivoluzioni “colorate”che hanno portato al potere dirigenze marcatamente antirusse in repubbliche ex sovietiche come la Georgia e l’Ucraina, l’appoggio all’iniziativa militare georgiana del 2008 contro l’Ossezia del sud, la politica molto restrittiva dei visti europei che penalizzano in particolare gli abitanti di Kaliningrad (un’enclave baltica russa residuo della seconda guerra mondiale), il protezionismo agricolo della Ue, che danneggia fortemente l’agricoltura della Russia meridionale, la costruzioni di gasdotti dal Centroasia che bypassino la Federazione, e, last but not least, la ventilata installazione dei missili antimissili ai bordi della Federazione, con il corollario di radar molto potenti basati nella Repubblica Ceca che potevano sorvegliare tutto lo spazio aereo della Russia europea. Quest’ultima misura è stata revocata dalla nuova presidenza americana, ma tutto il resto rimane. I Russi sostengono che le loro recenti iniziative nei confronti dell’Ovest – congelamento di trattati militari di mutuo disarmo, pressioni energetiche, riarmo (peraltro più annunciato che altro), fornitura di armamenti a paesi antipatizzanti degli Stati Uniti, votazioni polemiche nel Consiglio di Sicurezza Onu, ambiguità sull’Iran – sono di carattere difensivo, come protezione dall’invadenza occidentale, soprattutto americana, e monito a cambiare atteggiamento. La posizione è chiaramente strumentale, per sostenere le proprie strategie internazionali, ma non è certo irragionevole o campata in aria. Occorre precisare che il libro, nonostante sia uscito da poco, non è riuscito a trattare della recente virata del Presidente Obama sul tema – il famoso “reset” fra la dirigenza washingtoniana e quella moscovita - che potrebbe modificare in meglio la situazione dei rapporti fra Occidente e Russia. Questo particolare mette in luce una 76
caratteristica costante della editoria italiana, ovvero la lentezza con la quale pubblica i suoi prodotti. Se tale lentezza è accettabile per romanzi, saggi filosofici o sociali, libri umoristici, di cucina e di viaggio, non lo è per i libri che trattano dell’attualità in genere e di quella legata alle relazioni internazionali in particolare, oggi in rapidissima evoluzione. Per queste pubblicazioni occorrerebbe un’attenzione specifica, come succede ad esempio nel mondo anglosassone, dove si trovano nei grandi libri di attualità fatti e notizie di poche settimane o al massimo di qualche mese prima. Per quanto riguarda i rapporti dell’Europa con la Russia, che non cambiano con la stessa subitaneità con la quale mutano quelli fra Washington e Mosca ad ogni cambio di Amministrazione a Washington (o, in prossimità di elezioni, di orientamento dell’elettorato) gli autori sostengono l’esistenza di due Europe alquanto divaricate. La prima è fortemente critica e sospettosa nei confronti di Mosca, per ragioni storiche e di prossimità geografica. Comprende le Repubbliche Baltiche e in genere tutti i paesi dell’est già appartenenti al Patto di Varsavia con, in aggiunta, il Regno Unito, per motivi che risalgono alle rivalità secolari fra i rispettivi imperi e che oggi si collegano, per gli inglesi, al loro stretto rapporto con gli Stati Uniti. La seconda Europa è invece conciliativa, aperta alle ragioni geopolitiche di Mosca e alla necessità di farla rientrare nel concerto occidentale (accordi di Pratica di Roma del 2004), oltre che sommamente interessata al suo gas. Germania e Italia sono capofila di questa linea, con la Francia in posizione defilata (non ha bisogno dell’energia della Federazione russa, ma è attenta alle sue ragioni e tradizionalmente filoslava). L’Italia, in particolare, sta facendo da battistrada in questo approccio, con iniziative importanti del governo Berlusconi che hanno contribuito a porre il nostro Paese nella seconda
libreria posizione in Europa, dietro la Germania, nell’import-export con la Federazione, un risultato di tutto rilievo. Le posizioni di Washington ondeggiano fra tentazioni “maramaldesche” e la consapevolezza dell’importanza della Russia sulla scena mondiale e della opportunità di non destabilizzarla. Le conseguenze di un crollo della Federazione, tutt’altro che inverosimile per le fragilità interne, la demografia calante e le crescenti pressioni cinese da est, musulmana da sud e Atlantica da ovest, sarebbero devastanti per il mondo intero e in particolare per l’Europa. Ne trarrebbe vantaggio solo la Cina, e non sembra il caso che Pechino aumenti il suo già imponente gradiente di potenza. Una notazione che tiene conto di un’ esperienza dello scrivente. Nel conteso dell’ ampia apertura italiana nei confronti della Russia – esemplare o un po’ azzardata, solo i fatti lo dimostreranno al di là di ogni dubbio - l’industria nostrana collabora con quella russa in molte aree strategiche, dai trasporti all’aviazione commerciale, all’automotive fino alla – molto recentemente - tecnologia militare, con importanti iniziative di Finmeccanica e di Elettronica, quest’ultima società che realizza sistemi di difesa elettronica di grande delicatezza strategica e complessità tecnologica. Questo dimostra come sia cambiato il mondo e come entro certi limiti sia possibile considerare i Russi non più come eterni competitori
strategici o - peggio ancora - dei nemici in questo o quello scacchiere ma tutto sommato come dei sodali, se non degli alleati, appartenenti alla stessa matrice di civiltà europea, con obbiettivi di fondo comuni. L’esperienza citata, per non parlare della possibile vendita da parte della Francia di quattro unità da assalto anfibio classe Mistral alla Marina Russa, costituisce un esempio non scontato delle buone relazioni che l’Occidente può stabilire con Mosca anche su dossier strategici molto delicati (purché ci sia buona volontà e, per quanto possibile, chiarezza da ambo le parti), e della possibilità di evitare errori di prospettiva nel valutare comportamenti che hanno una loro logica storica e non necessariamente sono sintomi di aggressività. Tutto sommato la Russia è stata sempre invasa da altri e non ha mai invaso nessuno di iniziativa, ma solo nel corso di controffensive a seguito di azioni belliche altrui - dai Mongoli a Napoleone, a Guglielmo II, a Hitler. Le invasioni di Ungheria e Cecoslovacchia del ’56 e ’68 erano “fatti di famiglia” del movimento comunista internazionale, o al massimo tentativi di evitare rivoluzioni “colorate” ante litteram, più che occupazioni tradizionali, anche se era difficile che i cecoslovacchi e gli ungheresi cogliessero la sottigliezza. Dalla caduta del Muro in poi non c’è stata certo un’invasione tradizionale da occidente, ma una serie continua di tentativi di penetrazione politica, ideologica, econo-
ALESSANDRO VITALE E GIUSEPPE ROMEO La Russia postimperiale, Tentazione di potenza Rubbettino pagine 256 • euro 19 La Russia contemporanea, entità statale ritagliata “per differenza”, “ex negativo”, nel 1991 dal tessuto dell’Impero sovietico, sta cercando con ogni evidenza di riaffermare un suo ruolo significativo nella politica internazionale del nuovo millennio. La Russian global resurgence si manifesta con una politica estera assertiva, condotta dalla classe politica in gran parte in continuità con la lunga storia imperiale precedente e con in più l’odierno rifiuto di vedersi relegata a guida di una mera potenza regionale di rango internazionale “minore”. La sospensione fra un’identità imperiale perduta e una statuale-nazionale difficile da acquisire e da consolidare, provoca imponenti tensioni potenzialmente disgregatrici per lo Stato territoriale, sottoposto anche a forze d’attrazione esterne e crea costanti difficoltà di controllo politico. La risposta adottata da una classe politicoburocratica piena erede del sistema precedente è quella dell’accentramento, del mantenimento a qualsiasi costo dell’integrità, possibilmente “potenziata”, di uno Stato “casuale” (perché mai configuratosi nei termini attuali), cercando la legittimazione all’interno con il recupero dell’identità imperiale e l’uso ossessivo della figura di un nemico esterno minaccioso per quella integrità e per le enormi ricchezze naturali del Paese.
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Risk mica e culturale. Le rudezze verso ovest di Putin e compagni possono essere anche interpretate come un equivalente post Guerra Fredda delle controffensive di cui sopra. E a proposito di Putin, figura emblematica e rappresentativa del suo Paese di oggi come nessun altro leader è mai stato, in Russia e fuori, il libro mette in evidenza, anche se non esplicitamente, l’inevitabilità storica e geopolitica dell’autoritarismo che egli impersona con convinzione. Tale inevitabilità deriva dall’impossibilità di tenere insieme un Paese del genere – sconfinato, insicuro, sottopopolato da una miriade di etnie e in crisi demografica, circondato da potentati se non ostili non certo simpatizzanti, non riparato da alcuna barriera naturale - se non con mezzi militari verso l’esterno e di sicurezza verso l’interno. Senza di essi il Paese – che è ancora una nazione-impero multinazionale, pur se meno disomogenea che nel passato – non sopravviverebbe, almeno nel mondo di oggi. E’ il caso di non dare per scontato che un’ipotesi del genere sia irrealistica. Dopo la dissoluzione dell’Urss l’impero russo ha perso metà della popolazione e un quarto del territorio. Potrebbe continuare a lasciare pezzi per strada, o frantumarsi del tutto. Il popolo russo ne è tanto consapevole da appoggiare in modo incondizionato la sua attuale dirigenza, plaudendo a quel pugno di ferro che tanto fa inorridire gli occidentali Ultimo, ma non meno importante, un cenno sui rapporti della Russia con i paesi asiatici, non molto trattati nel saggio e piuttosto cruciali dato che la labilità della Federazione si accentua man mano che si va verso oriente. Le più concrete minacce territoriali che la riguardano vengono infatti dai colossi demografici ivi stanziati. Ad esempio, al di là della molto pubblicizzata, ma poco radicata militanza comune nella Sco (Shangai Cooperation Organization), fra Russia e Cina sussiste una rivalità di fondo e una dissonanza di interessi e di status che non sono total78
mente sopiti dal comune desiderio di ridimensionare la penetrazione degli USA in Asia Centrale. Basta comparare i sette milioni di abitanti della Siberia orientale, ricchissima di ogni minerale conosciuto, con le centinaia - sempre di milioni - stanziati dalla parte cinese di una delle frontiere più estese e meno presidiabili del mondo (la maggioranza ad est del confine, alcuni – non si sa bene quanti - tracimati ad ovest) per farsene un’idea. Gli Stati Uniti non confinano né con l’uno né con l’altro gigante e per quanto cerchino di influenzare a proprio favore l’orbe terracqueo e quindi anche l’Asia, i loro argomenti, lungo l’Ussuri, sono piuttosto trascurabili. La Russia è stata per anni il maggior fornitore militare della Repubblica Popolare e quest’ultima il suo cliente più importante, ma da pochi anni le forniture si sono radicalmente ridotte (il saggio lo mette giustamente in luce) perché la Cina fa sempre più da sola, avendo diligentemente copiato e migliorato tutto quello che egli veniva venduto. Il potere di condizionamento che Mosca un tempo poteva esercitare su Pechino modulando opportunamente la logistica e i pezzi di ricambio delle sue forniture è quasi un ricordo del passato. Viceversa, lo sbilancio demografico è sempre lì, e semmai è cresciuto. Uno dei tentativi di ridurlo era legato al popolamento e allo sviluppo della Siberia, per il quale la Russia postcomunista contava molto sull’ardore delle proprie giovani coppie, alquanto in calo per la precarietà delle prospettive complessive di vita nella Federazione, e sul Giappone. Quest’ultimo sta attendendo da tempo la restituzione delle isole Kurili, occupate dai sovietici alla fine della Seconda Guerra Mondiale e rimaste, assieme a Kaliningrad, gli unici lembi di territorio delle potenze dell’Asse in mano Alleata, segnatamente russa. Tutto il resto è stato restituito o è a carico alle repubbliche indipendenti Csi. Per Kaliningrad (ex Koenisberg e dintorni) la
libreria Germania non se la prende particolarmente a cuore, nonostante sia la patria di Kant, avendo con Mosca relazioni, tresche ed interessi che sconsigliano revanscismi. Oltretutto i Tedeschi soffrono del complesso del “popolo imperdonabile” e cercano di fare di tutto per non richiamare quelle lontane vicende. Il Giappone no, non ha alcun rimorso e non ritiene di doversi fare perdonare alcunché. Ha solo perso una guerra “giusta” ed è disposto a sopportarne le conseguenze territoriali, ovvero non rivendicare l’impero perduto, la Manciuria, la Corea, la Cina settentrionale (e ci mancherebbe). Ma il territorio nazionale, lo Yamato, è un’altra cosa: Okinawa gli Americani l’hanno restituita alla sovranità nipponica, anche se solo nel 1972, e Tokio si aspetterebbe, anzi pretende analogo trattamento per le Kurili. I governanti russi non ci sentono, per ragioni strategiche locali e per non dare un altro colpo alla loro vacillante autostima, e di conseguenza i nipponici rifiutano nettamente di prendere persino in considerazione quello che per loro sarebbe anche un buon affare e un modo per rafforzare un nemico dei loro nemici. “Che la Siberia se la sviluppino da soli, questi arroganti “grossi nasi” (per i sinici gli indoeuropei in genere) morti di fame”!!... Anche il versante più meridionale dell’Asia, nei confronti del quale l’Urss vantava a suo tempo una posizione di tutto rispetto, ovvero la solida alleanza con l’India, è ormai un amarcord. Delhi acquista ancora armi e soprattutto mezzi russi, ma si sta allontanando da Mosca ad una velocità ancora maggiore di quanto non faccia Pechino. E’ un Paese sempre più occidentale, rivaleggia con gli Stati Uniti non solo su qual’è la democrazia più bella del reame ma su chi dovrà in futuro gestire l’inglese e il suo divenire etimologico; produce servizi, Tac, scenografie cinematografiche, discipline antistress e gigabytes per tutti quelli che contano (che non sono i Russi).
Compra ancora da questi ultimi perché i loro prodotti militari costano poco e sono affidabili (più o meno), ma poi li equipaggia con sensori, armi e elettronica occidentale. Tutto sommato, quindi, la comprensione verso la “Tentazione di potenza” russa, che l’Occidente è bene che mantenga per le ragioni che sappiamo, non può discostarsi molto da quella che i parenti di un vegliardo hanno di solito nei confronti delle sue avances verso la badante (magari ucraina). La tentazione ci può essere, ma in quanto alla potenza….
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del numero
MARIO ARPINO: generale, già Capo di Stato Maggiore della Difesa PIERRE CHIARTANO: giornalista di liberal ALEXANDRE DEL VALLE: saggista, giornalista, geopolitico, autore di Rossi, Neri, Verdi: l’alleanza degli estremismi opposti contro l’Occidente GEORGE FRIEDMAN: esperto di scienze politiche americane, ha fondato Stratfor, “gigante” dell’analisi intelligence. È autore di molti libri. EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo HUMAYUN GAUHAR: giornalista e scrittore, direttore di Blue Chip, mensile specializzato in business ed economia RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina VIRGILIO ILARI: docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano CARLO JEAN: presidente del Centro Studi di geopolitica economica, docente di Studi Strategici presso l’Università Guido Carli di Roma LUCA LA BELLA: analista Ce.S.I per l’Asia ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai nell’Area Sicurezza e Difesa JONATHAN PARIS: esperto di Medioriente e movimenti islamici, è commentatore per i canali Tv: Cnn, Bbc, Sky News, Fox News. Scrive per Foreign Affairs e il Financial Times ENRICO SINGER: giornalista, esperto di affari europei ANDREA TANI: analista militare, scrittore
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