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Stefano Chiarlone

Giancristiano Desiderio

Vincenzo Faccioli Pintozzi

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LA SCALATA DELL’INDIA

Rocco Buttiglione

Qual è il vero peso di New Delhi

risk

Il puzzle del terrore I maoisti, l’agenda strategica pakistana e la minaccia fondamentalista BAHUKUTUMBI RAMAN

Virgilio Ilari

Un gigante armato fino ai denti

Alessandro Marrone

Vuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale ANDREA NATIVI

Andrea Nativi

LA SCALATA DELL’INDIA

Michele Nones

Antonio Picasso

Un futuro da potenza RISK MARZO-APRILE 2011

Laura Quadarella

Giancarlo Elia Valori

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Tutti ne parlano, nessuno la conosce ENRICO SINGER

Sunil Khilnani

Andrea Tani

quaderni di geostrategia

Si fa presto a dire India

Maria Egizia Gattamorta

Enrico Singer

numero 61 anno XII euro 10,00

Luci e ombre del colosso asiatico sullo scacchiere internazionale GIANCARLO ELIA VALORI

Riccardo Gefter Wondrich

Bahukutumbi Raman

2011

marzo-aprile

Contraddizioni sociali, economiche e politiche non fermano il sogno di grandeur ANTONIO PICASSO

Tutte le occasioni perse dall’Italia Rocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0 Laura Quadarella

• quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia • bimestrale • quaderni di geostrategia •


Copertina RISK_61_dorso ok.qxp:Layout 1 03/05/11 08:51 Pagina 2


risk QUADERNI DI GEOSTRATEGIA


Master Image Programmes / Pavillon Noir

Photo : Milena Boniek

W E L O O K A F T E R T H E E A R T H B E AT Today, we can’t live without satellites. We don’t see them, but they are with us all the time : to predict the weather, to understand climate change, to stay in touch with the rest of the world, to support us in crises, to unlock the secrets of the Universe, to protect us from above. At Thales Alenia Space, we provide innovative satellite-based solutions, that bring a new dimension to your projects, to help you achieve your ambitions. w w w. t h a l e s a l e n i a s p a c e . c o m


risk

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quaderni di geostrategia

DOSSIER

S

O

M

M

A

SCACCHIERE

R

I

O

Si fa presto a dire India

Unione Europea

Enrico Singer

Alessandro Marrone

Un futuro da potenza

America Latina

Antonio Picasso

Riccardo Gefter Wondrich

Qual è il vero peso di New Delhi

Africa

Giancarlo Elia Valori - Vincenzo Faccioli Pintozzi

Maria Egizia Gattamorta

I limiti del miracolo indiano

pagine 64/67

Stefano Chiarlone

Il Nord, traino (e disperazione) del Sud Sunil Khilnani

LA STORIA Virgilio Ilari

Il puzzle del terrore

pagine 68/73

Bahukutumbi Raman

Un gigante armato fino ai denti Andrea Nativi

Il mercato della difesa (e l’Italia)

LIBRERIA

Alessandro Marrone

Giancristiano Desiderio Andrea Tani

pagine 5/49

pagine 74/79

Editoriali

• DIRETTORE Michele Nones

Michele Nones Stranamore

REDATTORE Pierre Chiartano

pagine 50/51

SCENARI

Tutte le occasioni perse dall’Italia Rocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0 Laura Quadarella pagine 52/63

COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani

REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni

Editore Filadelfia, società cooperativa di giornalisti, via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Redazione via della Panetteria, 10/-1 00187 Roma. Tel 06/6796559 Fax 06/6991529 email segreteria.risk@gmail.com Amministrazione Cinzia Rotondi Abbonamenti 40 euro l’anno Stampa Centro Rotoweb s.r.l. via Tazio Nuvolari, 3-16 00011 - Tivoli Terme (Rm) Distribuzione Parrini s.p.a. via Vitorchiano, 81 00189 Roma


LA SCALATA DELL’INDIA È opinione comune considerare l’India la potenza emergente di questi “Anni Dieci” del Terzo millennio. A onor del vero, New Delhi è un interlocutore fondamentale nelle dinamiche internazionali ben da prima. I rilevamenti statistici che le sono propri, ma soprattutto il contributo offerto dalla sua classe dirigente in materia di diritti umani ed emancipazione degli oppressi costituiscono un risultato che affonda le radici nella cultura millenaria del subcontinente. Si osservino i noti pilastri strutturali della grandeur indiana. I suoi 1,2 miliardi di abitanti, secondo il censimento del 2010, ne fanno la più grande democrazia al mondo. L’età media della società nazionale, intorno ai 26 anni, le permette di osservare il futuro da una prospettiva di cui i Paesi occidentali non dispongono. L’India sarà guidata da una classe dirigente giovanissima, capace quindi di condurla per un lungo periodo. A questi elementi si aggiungano l’arsenale nucleare, le ambizioni di soggetto forte su scala globale, non solo in Asia centro-meridionale, e il 10% di crescita annua della produttività nazionale. Come la Cina, infatti, anche l’India non ha mai sfiorato la recessione in questi anni in cui l’Occidente si fermava e rimane, sotto il profilo finanziario, fortemente dinamica. Eterna “seconda” tra le superpotenze emergenti, l’India ha però due grandi vantaggi sul suo riconosciuto “rivale” cinese: il primo è ovviamente la democrazia che consente di gestire in modo tollerante i conflitti sociali legati allo sviluppo; il secondo vantaggio è demografico, non avendo un controllo delle nascite l’India ha una forza lavoro più giovane e non conosce i problemi finanziari legati all’invecchiamento. Non solo: è in prima linea nel reggere l’urto del fondamentalismo islamico che vede in questa società pluralista e multi religiosa un avversario mortale da abbattere (e infatti l’eterogeneità del suo tessuto etnico-religioso è spesso visto come ventre molle per la stabilità politica interna). Non bisogna poi dimenticare che l’India, come potenza militare, è l’unica alleata degli Stati Uniti in grado di controbilanciare l’espansione militare cinese verso i mari del Sud, dall’oceano indiano al mare d’Arabia. E – non solo per questo – in questo campo ha grandi ambizioni di crescita.

Ne scrivono: Chiarlone, Faccioli Pintozzi, Khilnani, Marrone, Nativi, Picasso, Raman, Singer, Valori.


D

ossier

TUTTI NE PARLANO, NESSUNO LA CONOSCE DAVVERO. HA TANTE ANIME E UN OBIETTIVO: SFONDARE

SI FA PRESTO A DIRE INDIA DI •

C’ •

ENRICO SINGER

è un’antica storia indiana che racconta di cinque saggi che vogliono descrivere un elefante. I cinque saggi, però, sono ciechi e ognuno di loro tocca una parte dell’animale - una zanna, la proboscide, una gamba - e non riesce a coglierne l’insieme. «Se l’elefante è l’India, noi, che siamo i ciechi, faremmo meglio a rinunciare di capire come è fatta e, a maggior

ragione, di pretendere di descriverla come se fosse un solo corpo, sia pure mastodontico come quello di un pachiderma». Lo ha scritto Giancarlo De Cataldo – l’autore di Romanzo criminale – nel suo libro L’India, l’elefante e me: un racconto di viaggio che non ha le ambizioni scientifiche dei tanti saggi che sono stati pubblicati su questo Paese, diventato ormai protagonista dell’economia mondiale, ma che è riuscito a coglierne in pieno la vera caratteristica dominante: le contraddizioni. Il conflitto tra modernità e tradizione, tra un vitalismo contagioso e una spiritualità ascetica, tra Bollywood e gli intoccabili, tra le bidonvilles che circondano Mumbai e gli stabilimenti che sfornano le Tata. Si fa presto a dire Bric. L’amore per le sigle e per la sintesi che esse rappresentano, ci fa descrivere da qualche anno – l’espressione fu usata per la prima volta in un rapporto della Banca mondiale nel 2001 – Brasile, Russia, India e Cina come le potenze dominanti del Terzo Millennio, accomunate dalla globalizzazione e destinate a superare la vecchia Europa, il Giappone e la stessa America nei prossimi decenni a colpi di una crescita martellante e

dello sviluppo – più lento, questo – di un mercato interno che può contare sul 42 per cento della popolazione del globo. Anzi, adesso che il Bric è diventato Brics con l’ingresso del Sudafrica in questo nuovo circolo esclusivo, i numeri sono ancora più impressionanti. È tutto vero, ma la realtà è molto complessa. I dati economici, naturalmente, sono inconfutabili e dimostrano che il Bric, o il Brics, aumenta di giorno in giorno la sua potenza. Questo, però, non basta da solo a cancellare i tanti problemi che sono sull’altro piatto della bilancia: che si tratti del deficit democratico di Cina e Russia, o delle favelas di Rio de Janeiro. E in questo panorama l’India è davvero un caso a parte. Senza la pretesa di poter descrivere in poche pagine tutto l’elefante, è opportuno esaminare almeno i principali aspetti di un Paese che si è meritato il titolo di “subcontinente” tanto è vasto e popolato. Partendo proprio dalla sua storia recente, dall’indipendenza conquistata il 15 agosto del 1947, che ne ha fatto la più grande democrazia del mondo. Questa è la definizione che viene normalmente associata all’India che ha un miliardo e duecento 5


Risk

Se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India è l’ufficio del mondo che sforna ingegneri anglofoni a decine di migliaia l’anno, ma dove, però, oltre un terzo degli abitanti (il 37,2 per cento in media, il 42 nelle aree rurali) vive sotto la soglia della povertà con meno di un dollaro al giorno milioni di abitanti e un sistema politico che si basa sulla separazione dei poteri, l’autonomia della funzione giudiziaria, un pluripartitismo non di facciata e dove la stampa è libera. Sarebbe ingeneroso non riconoscerlo e non sottolinearlo, soprattutto perché è la differenza più significativa che la distingue dall’altro gigante del Bric, la Cina. Allo stesso tempo, tuttavia, sarebbe sbagliato ignorare che l’India è afflitta da una corruzione diffusa, da una conduzione spesso mafioso-clientelare della vita politica in molti dei suoi Stati e dalla sostanziale impunità di cui godono le azioni violente delle formazioni estremiste – tanto indù che musulmane – che prendono di mira in particolar modo i cristiani “colpevoli” di assistere i dalit, i fuori casta, ancora oggi vera base schiavistica del sistema piramidale sul quale è organizzata la società. È il lato oscuro della medaglia della conquista di un’indipendenza che è stata illuminata dall’azione non violenta del Mahatma (grande anima) Gandhi nella cui stessa parabola di vita, conclusa con l’assassinio per mano di un estremista indù, è racchiusa simbolicamente buona parte delle contraddizioni di questo straordinario Paese. A distanza di più di sessant’anni dall’indipendenza, oggi sono proprio le posizioni che 6

vorrebbero l’India solo ed esclusivamente indù a fare sempre più proseliti. Movimenti come il Bharatiya janata sono espressione di un’allarmante ondata estremista che cerca di imporre con la violenza la falsa equazione indiani uguale indù. L’egemonia indù all’interno del sistema politico indiano è sempre esistita, in ragione dei rapporti di forza tre le comunità, ma è stata a lungo depotenziata dal fatto che i primi protagonisti della vita repubblicana, da Nehru a Indira Gandhi, tutti espressione del Partito del Congresso, avevano una visione sostanzialmente laica della politica e riuscivano a tenere sotto controllo i fondamentalismi che, negli ultimi tempi, invece, si sono fatti più aggressivi anche in reazione alla parallela deriva radicale islamica nel vicino Pakistan, che – è bene ricordarlo – fu creato come Stato indipendente, contemporaneamente all’India, al momento della.fine dell’impero coloniale britannico, proprio per dividere la popolazione musulmana da quella indù. La partition del 1947 portò alla divisione tra India e Pakistan di due regioni importantissime, allora, a livello economico come il Punjab e il Bengala con un sanguinoso corollario di violenze religiose – e in questo clima maturò anche l’assassinio del Mahatma Gandhi – che adesso si stanno riproponendo e che rappresentano una delle più dolorose spine nel fianco del boom economico indiano. La violenza, del resto, è un male che si è ripresentato ciclicamente nella storia recente dell’India con l’assassinio del primo ministro Indira Gandhi che fu uccisa nel maggio del 1984 da estremisti sikh e poi, nel 1991, di suo figlio Rajiv, la cui vedova, l’italiana Sonia Gandhi, è oggi leader del Partito del Congresso. Intrecciata alla contraddizione politica c’è quella della sfera economica. Se la Cina è la fabbrica del mondo, l’India è l’ufficio del mondo che sforna ingegneri anglofoni a decine di migliaia l’anno, ma dove, però, oltre un terzo degli abitanti (il 37,2 per cento in media, il 42 nelle aree rurali) vive sotto la soglia della povertà con meno di un dollaro al giorno. E dove ci sono più telefonini – circa 600 milioni – che bagni nelle


dossier case: meno di 400 milioni secondo gli ultimi rilevamenti. C’è l’India che è diventata una potenza nucleare facendo esplodere già l’11 maggio 1974 tre ordigni sperimentali nella base di Pokaran, nel deserto di Rajasthan, e che ora va anche nello spazio e c’è l’India in cui ancora il 60 per cento degli abitanti trae il suo sostentamento dall’agricoltura. C’è l’India all’avanguardia nell’informatica e nella farmaceutica, con un sistema universitario capace di competere con i migliori atenei americani ed europei e c’è l’India dove il 35 per cento degli abitanti è analfabeta e dove strade e ferrovie sono ancora lontane dagli standard occidentali. L’India che, come gli altri Paesi del Bric, supera in percentuale di crescita quelli del G8 (quest’anno è previsto il 9,5 per cento) e l’India che, nella classifica stilata dall’Onu è ferma al 134° posto nell’indice dello sviluppo umano. La vera India è quella che Pierpaolo Pasolini, nell’ormai lontanissimo 1961, visitò con Elsa Morante e Alberto Moravia e definì «condannata a rimanere per sempre una terra di dannati», o è il Paese del riscatto che, con Ratan Tata, nel 2008, è riuscita a prendersi la rivincita anche sui conquistatori britannici acquistando i prestigiosi marchi Jaguar e Land Rover? È evidente che la risposta è che l’India è tutte e due le cose: il Paese disperato e affamato di madre Teresa di Calcutta e quello scintillante dei nuovi miliardari, come ha illustrato, appassionando anche il pubblico italiano, il film The millionaire che il regista di Trainspotting, Danny Boyle, ha costruito sulle vicende – fantastiche, ma non troppo – di Jamal Malik, un giovane che attraversa la sporcizia, l’illegalità e la disumanità di Mumbai e che si scontra con la malavita organizzata che sfrutta la sofferenza dei piccoli orfani per arricchirsi. Non è un caso che, appena qualche giorno fa, migliaia di persone hanno partecipato a una fiaccolata a New Delhi per ricordare una vittima vera di questa violenza: Moin Khan, un bambino di 10 anni che è stato ucciso dal suo “padrone” in un laboratorio tessile. Soltanto nella capitale sono almeno mezzo

milione i bambini costretti a chiedere l’elemosina o impiegati come domestici, sguatteri e operai nelle fabbriche. Una forza lavoro irregolare che, insieme ai dalit sottopagati, costituisce uno degli elementi – non secondari, anche se non decisivi – del boom economico indiano perché in fatto di lavoro in condizioni di sfruttamento, la palma spetta sempre alla Cina che, per alcune produzioni, usa addirittura l’opera forzata dei prigionieri dei laogai, i campi di concentramento in cui sono rinchiusi i dissidenti. A proposito di cinema, un’altra delle contraddizioni dell’India è rappresentata proprio da Bollywood. Nei decenni passati i film indiani, soprattutto quelli d’autore, raccontavano la rivolta contro i soprusi e la corruzione. Adesso le storie sono ambientate in belle case dove si fa sfoggio della nuova condizione sociale di chi ha fatto fortuna.

I personaggi del cinema in stile Bollywood –

termine coniato unendo Bombay e Hollywood – si muovono tra identità tradizionale e contaminazioni occidentali. I modelli proposti sono, però, quelli classici della società indiana: l’autorità paterna, la famiglia numerosa, il tempio, le cerimonie – soprattutto quelle di matrimonio – e le feste che occupano un posto importante nei copioni di queste pellicole a metà strada tra il musical e la soap opera. Anche il ruolo della donna, in questi film, riflette le contraddizioni di un Paese che è in mezzo al guado tra passato e futuro. Se da un lato l’emancipazione femminile ha portato molte donne ad occupare posizioni politiche e professionali di assoluto rilievo, sulla scia di Indira Ghandi e, oggi, di Sonia Ghandi, dall’altro ci sono ancora preoccupanti elementi di discriminazione. Gli “assassini per dote” – donne uccise dai familiari dello sposo perché la loro dote era considerata insufficiente – sono ormai un ricordo del passato, per quanto recente perché ancora nel 1980 erano stati quasi mille e adesso si contano nell’ordine delle decine. Ma la selezione prenatale che porta all’aborto nel caso in cui nel grembo della madre ci sia una fem7


Risk mina è molto diffusa. Anche se dal 1994 il governo ha cercato di correre ai ripari con una legge che punisce chi pratica gli aborti selettivi, soltanto un medico in tutta l’India è finito in carcere per queste reato. Le conseguenze degli aborti selettivi – al di là dell’offesa al rispetto della vita e della dignità umana – hanno effetti drammatici anche sull’equilibrio demografico. I censimenti indiani degli ultimi anni hanno rivelato che il numero delle bambine, rispetto al numero dei maschi, è in costante diminuzione con un rapporto fra i più bassi al mondo al pari della Cina che segue pratiche molto simili. È previsto che quest’anno ci sarà un’ulteriore diminuzione. Secondo l’Unicef, ogni giorno, in India, nascono settemila bambine in meno rispetto alla media mondiale. L’elenco delle contraddizioni potrebbe continuare a lungo. Anche una vicenda-modello come quella del microcredito inventato da Mohammad Yunus – che per la sua idea fu premiato con il Nobel per la Pace – ha avuto in qualche caso degli effetti perversi. In India i mini finanziamenti, i “prestiti a misura di povero” sono usciti dai confini del no profit per diventare un’impresa che vale quasi 5 miliardi di euro e ha 27 milioni di clienti, molti dei quali sono troppo indebitati e non riescono più a pagare le rate. Secondo gli esperti della Banca mondiale, almeno un quarto delle società indiane che si occupano di microfinanza rischiano la bancarotta. Nell’Andhra Pradesh, uno degli Stati più popolosi e poveri del

La classe media è formata soltanto da 56 milioni di persone, con un reddito compreso tra i 4.400 ed i 21.800 dollari l’anno, che sul miliardo e duecento milioni di abitanti sono una ristrettissima élite 8

subcontinente dove si concentra il 37 per cento delle attività di tutto il settore, sono saltati rimborsi pari a circa 90 miliardi di rupie (un milione e 450mila euro). Negli ultimi mesi almeno 75 persone si sono uccise perché non riuscivano più a pagare le rate dei prestiti. Le storie raccontate dagli stessi giornali indiani sono terribili. Lalitha Mursilmula, una studentessa di 16 anni, è stata avvicinata un giorno da un esattore di un’agenzia del microcredito che le ha detto che i suoi genitori erano indietro con le rate e che doveva trovare i soldi, prostituendosi se non aveva altro mezzo. Lei è tornata a casa e si è uccisa bevendo fertilizzante. Come un uomo, il marito di Sulthana Begum, che si è impiccato: vendeva banane guadagnando 6000 rupie (96 euro) al mese, ma aveva debiti per 5400 rupie al mese. Casi limite che riportano, però, il discorso al tema di fondo: lo sviluppo vertiginoso dell’economia indiana è uno dei grandi fenomeni del nuovo millennio, ma le sue ricadute sul tenore di vita della popolazione sono appena all’inizio. La scommessa dell’India sta proprio qui. La classe media è, per il momento, formata soltanto da 56 milioni di persone, con un reddito compreso tra i 4.400 ed i 21.800 dollari l’anno, che sul miliardo e duecento milioni di abitanti sono una ristrettissima élite ma che, in termini di mercato, rappresentano una realtà superiore a quella dell’Italia. Accanto a questa classe media, esistono 220 milioni di “aspiranti”, che guadagnano tra i 2.000 e i 4.400 dollari l’anno e che possono già permettersi beni di consumo come una motocicletta, un telefono cellulare, un televisore o un frigorifero. Tra classe media e aspiranti, è sorta quindi una schiera di consumatori che complessivamente conta 276 milioni di persone, una cifra non distante dalla popolazione totale degli Stati Uniti. Anche la divisione del Pil pro capite – che non equivale al reddito, ma è il parametro normalmente usato per valutare la ricchezza di un Paese - è significativa. In Italia è a quota 30.631 dollari, in India a 2.780. Già questi pochi dati dimostrano che il boom economico indiano



Risk poggia le sue basi più solide nella produzione per l’esportazione e nella realizzazione di servizi per aziende straniere. Uno studio pubblicato il 31 gennaio dalla società di consulenza A. T. Kearney pone l’India in prima posizione nella classifica dei Paesi più attraenti per i processi di delocalizzazione delle imprese. La classifica è calcolata su tre categorie di variabili – costi e struttura finanziaria, capitale umano, contesto imprenditoriale – e vede la Cina ben distanziata al secondo posto. La delocalizzazione in India riguarda in particolare i settori di alta tecnologia informatica e di biotecnologica, ai quali si affiancano le attività dei call center e dei centri di servizio delle aziende: chi, da Toronto o da San Francisco, telefona all’assistenza della Ibm, forse non lo sa, ma gli risponde un tecnico di Mumbai in perfetto inglese, anche perché questa è la seconda lingua ufficiale del Paese e rappresenta un ulteriore vantaggio nel confronto tra India e Cina. Ma molte aziende estere cominciano a guardare anche al mercato interno che è in costante espansione. Quindi ecco arrivare industrie meccaniche tedesche, cementiere svizzere, elettroniche di consumo giapponesi. La delocalizzazione. Nei wine-bar del Financial District di Manhattan circola da tempo una storiella. Un analista finanziario viene convocato dal responsabile della gestione delle risorse umane che gli annuncia che il suo stipendio d’ora in poi sarà di 25.000 rupie (circa 500 dollari) al mese. L'analista domanda stupefatto che cosa ci si può fare con 25.000 rupie a New York. E il resposabile gli risponde: «A New York, non so, ma a Bangalore ci si vive benissimo». Ma non c’è soltanto la delocalizzazione. Il boom si fonda anche su produzioni indiane. E se la crescita cinese deriva principalmente dal settore industriale manifatturiero, l’India ha puntato sulla tecnologia del sapere e sull’informatica. Così, mentre il Pil cinese è originato al 50,1 per cento dall’industria, quello indiano è costituito al 50,5 per cento dai servizi. Forse è anche la sua naturale vocazione all’astrazione e alla speculazione filosofica che ha 10

Se la crescita cinese deriva dal settore manifatturiero, l’India ha puntato su tecnologia e informatica. Così, mentre il Pil cinese è originato al 50,1 % dall’industria, quello indiano è costituito al 50,5 % dai servizi portato l’India ai primi posti nel campo della ricerca e dell’innovazione: dai programmi di software alle nanotecnologie. Questo non significa che il Paese non possa essere anche un forte competitore nella produzione di beni tradizionali nel campo metalmeccanico o in quello tessile, per il momento con un mix di esportazione e di vendita sul mercato interno in cui domina la prima voce. In prospettiva con un’inversione di tendenza che sarà proporzionale allo sviluppo del benessere. Le premesse ci sono. Le riforme che hanno liberalizzato l’economia indiana, avviando l’imponente crescita attuale, sono partite all’inizio degli Anni Novanta in coincidenza con l’ingresso nel Wto, l’Organizzazione mondiale del commercio. Paradossalmente, la più grande democrazia del mondo ha cominciato a destatalizzare la sua economia con un ritardo di oltre dieci anni rispetto alla Cina comunista. Ma, una volta avviato, il processo ha dato subito i suoi frutti e negli ultimi dieci anni il prodotto interno lordo ha avuto un tasso di sviluppo medio del 6 per cento annuo. Né sembra che il ciclo virtuoso debba interrompersi. Anzi, la previsione è che nel 2050 l’India – che oggi è l’ultima del Bric – sarà la terza economia mondiale dopo quelle della Cina e degli Stati Uniti. Una prospettiva che secondo molti analisti è persino troppo prudente nei tempi. Allora, davvero, sarà smentita la profezia di Pasolini sull’India condannata a rimanere per sempre una terra di dannati.


dossier LE CONTRADDIZIONI SOCIALI, ECONOMICHE E POLITICHE NON FERMANO IL SOGNO DI GRANDEUR

UN FUTURO DA POTENZA DI •

È

ANTONIO PICASSO

opinione comune considerare l’India la potenza emergente di questi “Anni Dieci” del Terzo millennio. A onor del vero, New Delhi è un interlocutore fondamentale nelle dinamiche internazionali ben da prima. I rilevamenti statistici che le sono propri, ma soprattutto il contributo offerto dalla sua classe dirigente in materia di diritti umani ed emancipazione •

degli oppressi costituiscono un risultato che affonda le radici nella cultura millenaria del subcontinente. Si osservino i noti pilastri strutturali della grandeur indiana. I suoi 1,2 miliardi di abitanti, secondo il censimento del 2010, ne fanno la più grande democrazia al mondo. L’età media della società nazionale, intorno ai 26 anni, le permette di osservare il futuro da una prospettiva di cui i Paesi occidentali non dispongono. L’India sarà guidata da una classe dirigente giovanissima, capace quindi di condurla per un lungo periodo. A questi elementi si aggiungano l’arsenale nucleare, le ambizioni di soggetto forte su scala globale, non solo in Asia centro-meridionale, e il 10% di crescita annua della produttività nazionale. Last but not least, l’eterogeneità del suo tessuto etnico-religioso, spesso visto come ventre molle per la stabilità politica interna. New Delhi, in realtà, si sta muovendo per confutare questa convinzione. Tuttavia, ci sono ancora molti elementi che non permettono alle istituzioni federali di controllare le espressioni di dissidenza etnica (Assam e Kashmir), politica (i maoisti) e religiosa (induismo contro Islam). All’inizio di aprile, si è tenuto a Sanyan, nella provincia cinese di Hainan, il summit del Bric (Brasile, Russia, India e Cina). All’incontro ha partecipato per la prima volta anche una rappresentan-

za del Sud Africa. Da cui la creazione del nuovo acronimo “Brics”. L’evento ha meritato l’esplicito plauso del primo ministro indiano, Manmohan Singh. «Di fronte alla lunga serie di criticità che il mondo sta affrontando, il Brics si conferma essere un tavolo di lavoro proficuo per tutti i governi che vi partecipano», ha detto Singh. «La fortuita presenza dei rappresentanti diplomatici dei cinque membri di questa organizzazione presso il Consiglio di sicurezza dell’Onu rappresenta un’opportunità, per ciascuno di noi, di definire una linea politica omogenea presso il Palazzo di vetro». Dal summit in sé e dalle dichiarazioni di Singh, emergono due elementi palesemente vantaggiosi per l’India. Il primo, circostanziale, è legato alla partecipazione del presidente sudafricano Jacob Zuma. New Delhi vanta un rapporto affermato con Johannesburg. Il debutto del Sud Africa sul proscenio internazionale apre all’India una strada ulteriore per la sua penetrazione nel resto del continente africano. Per inciso, si tratta di un’operazione in palese concorrenza con la Cina. Gli scambi commerciali tra quest’ultima e il Sud Africa, nel 2010, si arrivati a 16 miliardi di dollari. L’India si è assestata ai 10 miliardi. Entro quest’anno, però, mira ad aumentare di ulteriori 5 miliardi i suoi rapporti con Johannesburg. Il che conferma come la tanto disquisita entente cor11


Risk diale New Delhi-Pechino sia più un’alleanza di comodo, che merita di essere sfrondata dell’eccessiva sovrastruttura mediatica. In seconda istanza, Singh ha indicato nel Brics una forza multi governativa dalle idee chiare per come riavviare i motori della finanza globale ed eventualmente disposta ad affrontare il collasso dei regimi mediorientali, senza gli indugi mostrati dai governi occidentali. È evidente, insomma, che New Delhi ambisca a chiarire una volta per tutte la sua posizione in sede internazionale. Per questo, è forse riduttivo classificare l’India come una potenza emergente. Al limite il suo ruolo è quello di una sorella più piccola che ha raggiunto la maggiore età e che ora chiede di essere introdotta a tutti gli effetti nei salotti più esclusivi della comunità internazionale. L’assegnazione di un seggio permanente al Consiglio di Sicurezza farebbe al caso di Singh.

Democrazia o semi-democrazia?

L’India è una vera democrazia? Se si ponesse questa domanda a un attivista del National democratic front of bodoland (Ndfb), nello Stato nord-occidentale dell’Assam, la risposta sarebbe negativa. Uno medesimo risultato si raccoglierebbe in seno al poliedrico mondo dell’indipendentismo kashmiro. Lo stesso dicasi per i gruppi maoisti attivi nel Bengala occidentale. In tutti i casi, si ha a che fare con realtà politiche che New Delhi ha iscritto nella propria lista nera del terrorismo. Per quanto riguarda i maoisti, Singh ha attribuito la particolare etichetta di “peggior nemico dell’India”. E mentre nell’Assam la situazione sembra sotto controllo, il Kashmir resta l’area con la più alta densità militare di tutto il pianeta. Qui è dislocato quasi un milione di uomini agli ordini delle Forze armate indiane. Ancora nel 2004 nel Jammu-Kashmir, era stata calcolata la presenza di un soldato ogni otto abitanti. Peraltro, la sua vicinanza con il Pakistan – storico nemico dell’India – e la possibilità che si trasformi in un bacino di proselitismo da parte di al-Qaeda oppure dei talebani rendono il Kashmir indiano uno delle maggiori fonti di


dossier apprensione per il governo federale. Proprio sulla base di questa costante tensione, il governo Singh è stato accusato di adottare misure repressive in antitesi con la propria immagine di democrazia. Certo, della questione kashmira è necessario sottolineare la totale eccezionalità. Tuttavia, l’estrema durezza a cui fanno ricorso le truppe indiane, anche contro maoisti e combattenti dell’Ndfb, nasce spesso in risposta alle iniziative terroristiche di questi gruppi. Lo stesso va detto per quanto riguarda i gruppi fondamentalisti di ispirazione islamica, per esempio Lashkar-e-Toibe, uno dei gruppi forse responsabili dell’attentato di Mumbai nel novembre 2008. Superando queste criticità locali, l’establishment indiano resta vessato da due fenomeni a copertura nazionale: la corruzione e la tradizione castale. Entrambi appaiono una zavorra difficile da smaltire nel processo di sviluppo della democrazia nazionale. Nel 2010, la coalizione di maggioranza è stata investita dal più grosso scandalo di tangenti nella storia dell’India post-coloniale. L’inchiesta, avviata dalla magistratura di New Delhi, si è concentrata sulla svendita di concessioni governative per l’installazione di una rete wireless di seconda generazione (Second generation - 2g). Il dossier investigativo, conosciuto come “2g spectrum scam”, ha chiamato in causa le tre più importanti compagnie telefoniche del sub continente: Swan Telecom, Unitech Wireless e Releiance Telecom. A conti fatti, si è giunti a far luce su una perdita del Tesoro federale di 39 miliardi di dollari. Il ministro delle telecomunicazioni, Andimuthu Raja, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Successivamente, pur avendo ribadito sempre la propria innocenza, Raja è stato arrestato. Dalla vicenda è stato lambito lo stesso premier Singh, il quale, nel dicembre 2010, si è presentato ai magistrati sostenendo di «non aver nulla da nascondere». Per quanto il leader indiano non sembri dover tremare di fronte alla giustizia, è indubbio che il caso abbia messo a dura prova l’immagine del suo esecutivo. Il Partito del Congresso, infatti, è a capo della United

progressive alliance (Upa), una coalizione pluripartitica facile al disgregamento. Finora il carisma personale di Singh ha attutito i colpi. Ciononostante, è difficile prevedere quali altre personalità potrebbero essere coinvolte dal “2g spectrum scam”. Il fatto, inoltre, che Singh abbia ormai 79 anni e la sua salute sia malferma, da vent’anni vive con tre by-pass, non fa che preoccupare gli osservatori. Per quanto riguarda la successione infatti, non meno di sei mesi fa si parlava con certezza di Rahul Gandhi, figlio d’arte e appena 41enne, come del futuro premier indiano. L’ultimo rampollo della grande dinastia, in effetti, ha già ricevuto il placet materno per assumere incarichi di rilievo. Oggi, mentre Sonia Gandhi tiene saldamente nelle proprie mani la presidenza del partito, il figlio ne è segretario e siede in parlamento. Tuttavia, proprio questo atteggiamento da soft monarchy, frutto della tradizione castale, potrebbe mettere in crisi il fine arazzo intessuto dal premier Singh affinché l’immagine dell’India come democrazia a tutti gli effetti sia credibile. Inoltre proprio su Rahul pesa l’ombra dell’omosessualità. Una questione meramente privata e personale per gli occidentali, una potenziale fonte di scandalo in seno all’austera New Delhi. Da qui la formulazione di una rosa di tre papabili premier, nel caso il governo cadesse prima della scadenza biologica fissata nel 2014, termine della legislatura. Si tratta dell’attuale ministro dell’interno, Palaniappan Chidambaram, Digvijav Singh e Pranab Mukherjee, rispettivamente governatore dello Stato del Madhya Pradesh e titolare del dicastero delle finanze. Il primo ha ricevuto la benedizione di Singh e, al momento, gode del plauso di Washington. Per la segreteria del Congresso, però, è troppo tecnico e poco politico. In questo senso, l’India ha già vissuto la fase di un ottimo economista al potere, com’è appunto Singh. Adesso chiede un leader alla stregua di Indira e Rajiv Gandhi. Digvijav Singh a sua volta – nessuna parentela con il premier – è membro della famiglia reale del Raghogarh-Vijaypur, nel centro della penisola. È un rajput, uno dei maggiori gruppi 13


Risk

Le casta e la prevalenza di una vita agraria, in India, sono le due facce di una stessa medaglia. Entrambe incidono negativamente sul lento progresso sociale del Paese. Nel frattempo, le grandi aree urbane, tra cui Calcutta, Mumbai e Delhi, non possono essere adottate come esempi di sviluppo in contrasto con l’indigenza del mondo contadino

della casta induista Kshatriya (guerrieri), i cui rappresentanti ora sono molto frequenti nelle Forze armate. Tutor politico di Rahul avrebbe le carte in regola per assumere il controllo del Paese finché quest’ultimo si fa le ossa per esserne poi il vero leader. Ciononostante, mentre su Chidambaram pesa il fallimento della gestione della crisi maoista nel 2010, per Digvijav Singh torna difficile riscuotere consenso presso le sedi federate del nord del Paese. In tal caso, si inserirebbe Mukherjee. Il suo fianco debole sta nel mancare di appoggi significativi. Né Manmohan Singh né i Gandhi hanno espresso alcun giudizio sulla sua persona. È un silenzio che fa pensare all’indifferenza. I notisti indiani considerano questa congiuntura estremamente delicata. Se il governo riuscisse a superare il “2g spectrum scam” senza altri eccessivi scossoni, potrebbe anche terminare la legislatura. Nel 2014 però, è molto probabile che scatterebbe un meccanismo di alternanza che è proprio di tutte le democrazie moderne. Tuttavia, osservando le opzioni esterne alla tanto articolata coalizione dell’Upa, non si riscontra nulla di adegua-

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to per poter assumere la guida del potere. Non resterebbe quindi che un rimpasto di governo. La domanda è: Manmohan Singh è disposto a lasciare spazio ai suoi successori? Il discorso caste, invece, è altrettanto complesso. Sebbene la Costituzione le abbia formalmente abrogate da oltre sessant’anni, questa rigida distinzione sociale sembra persistere nelle aree più arretrate del Paese. Come esempio, è solo dell’inizio di aprile l’intervento della Corte suprema federale che ha chiesto di porre fine alle pratiche che promuovono il “delitti d’onore”. I Khap Panchayats, i consigli degli anziani che stabiliscono le regole nei villaggi in regioni come Haryana, Uttar Pradesh e Rajasthan, sono spesso visti come i primi istigatori di questi omicidi. Il loro impegno è concentrato nell’evitare che si creino rapporti di alcun tipo tra esponenti di caste o religioni differenti. Nel frattempo, ha suscitato profonda emozione la morte di Sawai Bhawani Singh, ultimo maharaja della città di Jaipur. Il 79enne ex monarca ed eroe di guerra nel conflitto contro il Pakistan nel 1971 era venerato ancora come una figura di alto lignaggio in tutto il Rajastan. Formalmente i titoli dinastici sono stati aboliti esattamente trent’anni fa. Tuttavia, si è trattato di una scelta che non ha scalfito le tradizioni del Paese. Come si vede, la morte di un principe oggi è ancora fonte di sgomento collettivo. Questa struttura di riti e usanze, pur nel suo splendore evocativo, costituisce un ostacolo difficile da espugnare in un Paese lanciato nel Terzo millennio, ma al tempo stesso abitato ancora al 70% da popolazione rurale. Le casta e la prevalenza di una vita agraria, in India, sono le due facce di una stessa medaglia. Entrambe incidono negativamente sul lento progresso sociale del Paese. Nel frattempo, le grandi aree urbane, tra cui Calcutta, Mumbai e Delhi, non possono essere adottate come esempi di sviluppo in contrapposizione con l’indigenza del mondo contadino. Anzi, le metropoli indiane sono l’espressione di un gigantismo post-moderno depauperato dei benefici che la vita cittadina può offrire. Povertà


dossier e integralismo, culturale e non solo religioso, procedono di pari passo e non permettono alla società indiana di svincolarsi a tutti gli effetti dalle sue tradizioni più anacronistiche. Questo non significa che l’India sia piegata sul proprio passato. Anzi. Incrociando i rilevamenti più aggiornati dei rapporti di McKinsey e della Deutsche Bank, emerge che il Paese vanta la più vasta middle class del mondo. Si tratta di 40 milioni di persone con un reddito racchiuso in un delta fra gli 11mila e i 21mila dollari annui e che risponde quindi agli standard di benessere secondo i parametri occidentali. Non si tratta di ricerche concentrate esclusivamente sul reddito. Per ottenere una radiografia completa della società indiana, si è fatta luce anche sul livello di istruzione e sulle opportunità di vita dei campioni. Associando questa fascia di borghesia con il valore dell’età media, 26 anni come già indicato, si giunge alla conclusione che la sicurezza politica dell’India non è conservata nelle mani dell’establishment attuale, bensì in quello futuro. In tal senso, risalgono le quotazioni in favore di Rahul Gandhi. Nato nel 1971, egli ha vissuto in prima persona la corsa del suo Paese nella globalizzazione.

Il dialogo interreligioso

Un altro luogo comune riferito all’India è il fatto di essere vista come la culla di un numero incalcolabile di confessioni religiose, etnie, idiomi e quindi culture. Da qui, l’accezione di subcontinente indiano. Il Paese è tradizionalmente legato all’induismo. Ma sarebbe errato escludere il contributo che esso ha offerto al buddhismo, all’Islam e perfino al cristianesimo. Altrettanto non si possono dimenticare jainismo e parsismo. Nei secoli, gli equilibri di questo mosaico si sono dimostrati spesso difficili da mantenere. L’India è stata attraversata da ventate di fanatismo di ogni tipologia. In questa congiuntura di inizio millennio, è il fondamentalismo islamico a rappresentare la sorgente delle maggiori preoccupazioni per il governo di New Delhi. L’attentato di Mumbai, nel novembre 2008, costituisce l’ultimo e più eclatante

esempio della presenza in India di gruppi terroristici votati al jihad. L’attacco, che ha causato la morte di 195 persone, è stato rivendicato dai mujaheddin del Deccan. Oggi, tuttavia, gravano ancora i sospetti sul gruppo di Lashkar-e-Toibe, come pure di al-Qaeda. L’avvenimento in sé dimostra che l’India è ormai un target precipuo agli occhi dei gruppi islamisti armati. Si ricorda che gli oltre 160 milioni di fedeli del Corano soggetti alla giurisdizione di New Delhi fanno dell’India il terzo Paese islamico del mondo. Sunniti, sciiti, ma anche la corrente sufi, come pure le altre importanti sette dell’Islam si sono radicate in India duranti i secoli. Oggi l’Islam indiano sta attraversando una fase di forti contraddizioni. Le degenerazioni terroristiche costituiscono solo una minima parte, sebbene la più eclatante, di questo complesso scenario. Il governo federale è impegnato in alcune iniziative volte al dialogo e alla messa in evidenza delle frange più moderate. In parallelo, non sempre accade lo stesso a livello locale. Le derive di fanatismo, infatti, non sono un’esclusiva della comunità musulmana. Nel novembre 2009, a un anno esatto dal massacro di Mumbai, l’università islamica di Deoband ha ufficialmente ripudiato la violenza come strumento di proselitismo per il Corano. Si è trattato di una presa di posizione inaspettata, in quanto molto spesso proprio questo ateneo viene indicato come una delle fonti di ispirazione ideologica della lotta talebana nel vicino Afghanistan. Il rifiuto di sintetizzare ed estremizzare i precetti del Profeta nel concetto di Jihad ha rappresentato una novità assoluta presso l’ortodossia sunnita dell’Asia centro-meridionale. Deoband è uno dei più prestigiosi centri di studio di tutto il mondo islamico. La sua università teologica, fondata nel 1867, è per numero di studenti e di pubblicazioni, seconda solo a quella del Cairo di alAzhar. Proprio dalla città indiana e dal suo ateneo si è sviluppato e ha preso il nome il movimento ultraortodosso dei deobandi, il quale grazie ai suoi studenti si è radicato in Pakistan, Afghanistan, parzialmente in India e in Bangladesh. Inoltre, in seguito ai 15


Risk legami storici con l’ex Impero britannico, una presenza deobandi è stata rilevata anche nel Regno Unito e in Sud Africa. Negli anni Novanta, la coincidenza di prospettive fra le idee deobandi e il wahabismo – la corrente religiosa che ispira il conservatorismo della monarchia saudita – ha portato entrambe le scuole di pensiero ad appoggiare il movimento talebano. Il puritanesimo dell’Islam indiano e il fondamentalismo saudita, di cui al-Qaeda è espressione, sono stati utilizzati come giustificazione ideologica da parte degli studenti armati afgani per combattere e annientare qualsiasi manifestazione giudicata takfir (empia), secondo la giurisprudenza islamica. Fino al 2009, l’ateneo di Deoband non si era mai espresso né in favore né prendendo le distanze dai talebani. Un silenzio, questo, che avrebbe minacciato di accostare impropriamente l’immagine del rettorato con un messaggio di violenza che non appartiene all’Islam più autentico. Al contrario, il sinodo islamico che si è tenuto proprio a Deoband, quasi un anno e mezzo fa, alla presenza del ministro Chidambaram, ha confutato l’ambiguità delle autorità religiose locali. «Tra l’Islam e il terrorismo c’è un mondo di differenza», ha detto Hakimuddin Qasimi, Segretario della Jamiat Ulema-e-Hind, la più influente organizzazione islamica indiana. È una presa di posizione volta a emarginare le derive jihadiste attive nel subcontinente indiano. Per il mondo mujaheda di questa area dell’Asia – i talebani e i gruppi qaedisti tra Afghanistan e Pakistan, ma anche alcune espressioni dell’indipendentismo kashmiro – Deoband ha sempre costituito un faro ideologico per il proprio attivismo. Sebbene, come detto, da parte dell’ateneo non sia mai giunto un endorsement esplicito. La “santa alleanza” fra l’ateneo religioso e il governo federale è molto simile a quella sottoscritta in passato tra l’Università di al-Azhar e il regime egiziano, ancora ai tempi di Hosni Mubarak. Le autorità così facendo demandano il controllo e l’indirizzo delle coscienze ai responsabili dell’orientamento culturale del Paese, o della singola comunità religiosa. 16

Tuttavia non si può escludere l’eventualità che New Delhi abbia strumentalizzato il movimento islamico nazionale anche per ragioni geopolitiche. La vicinanza di Pakistan e Bangladesh, entrambi a maggioranza musulmana e potenziali fonti di criticità. Il contrasto con Islamabad sta attraversando una nuova fase di tensione, che trova libero sfogo nella guerra in Afghanistan, nella crisi del Kashmir e soprattutto in una ripresa della corsa agli armamenti nucleari. Dopo gli attentati a Mumbai, le accuse reciproche tra l’India e il Pakistan, di sostenere i talebani e di finanziare il terrorismo di matrice islamica, si sono fatte ancora più accese. La cricket diplomacy, da poco avviata, non ha trasmesso ancora la sua energia positiva ai rispettivi governi. Recentemente il primo ministro pakistano, Yousaf Raza Gilani, ha dichiarato che «India e Pakistan non si possono permettere una nuova guerra». Segno, questo, che i venti di un conflitto si sono comunque sollevati. In tal senso, la crisi del Kashmir dell’estate 2010 ha innescato maggiori frizioni di quanto possa aver fatto l’Af-Pak war. Del resto, è questo il vero conflitto che anima i due Stati, non l’eventuale supporto concesso ai talebani da uno dei due. Da tutto questo, la convinzione a New Delhi di dover scommettere sulla questione religiosa. Non deve sorprendere, infatti, che l’India abbia deciso di ricorrere a uno stratagemma ideologico-culturale per far pesare unicamente sulle spalle del Pakistan le ragioni dell’instabilità dell’area. Smarcando l’ateneo di Deodand da eventuali connessioni con il fanatismo, la responsabilità morale di questa devianza ricadrebbe sulla sola Islamabad. La strategia avrebbe ragion d’essere se fosse supportata dalla necessaria concertazione tra le istituzioni federali e quelle locali. Queste ultime, al contrario, si sono dimostrate più volte inclini a fomentare l’odio tra hindu e musulmani. Recentemente Narendra Modi, governatore del Gujarat, Stato a ridosso del Pakistan e abitato da una comunità musulmana che costituisce il 9,1% della società, ha osservato che la popolazione hindu «ha tutto il diritto di esprimere la propria rabbia nei con-


fronti dell’Islam locale». La dichiarazione non è certo quel che il governo Singh si attende dai suoi gregari per risolvere alcune criticità interne del Paese.

Know how tecnologico, la carta vincente

Allo stato dell’arte, il Paese sta attraversando un cammino di sviluppo intrapreso ancora con la dichiarazione di indipendenza, nel 1947. Il contributo dato da Gandhi nel processo di autodeterminazione dei popoli non europei, sulla base di un principio di non violenza, permette all’India di vantare un peso culturale da protagonista nel corso della modernità e della post-modernità. Quando New Delhi volta le spalle e osserva il proprio passato può notare con giustificato orgoglio la sua firma nel lavoro di edificazione dell’uomo contemporaneo, sia a livello sociale, sia in termini scientifici e culturali. A titolo di esempio, il subcontinente indiano esporta il 75% della produzione mondiale di servizi It. Si tratta di un giro di affari intorno ai 100 miliardi di dollari, in cui le major del settore – dalla Ibm a Google – vi si sono tuffate senza tanti pregiudizi. Nella città di Bangalore, risiedono e lavorano circa 150mila ingegneri. Contro i 120mila impiegati nella Silicon Valley. Tutto questo non nasce dal nulla. New Delhi ha saputo sfruttare la tradizionale ascendenza della popolazione locale alle scienze esatte. Ha investito sull’immenso patrimonio di eccellenze intellettuali che, da secoli, scrivono la storia del subcontinente. Proprio per questo, il governo ha ben chiaro quali possano essere i due settori sui quali investire significativamente: l’industria aerospaziale e quella nucleare. Entrambi i comparti richiedono un know how ingegneristico che l’India non ha bisogno di importare. Si tratta di terreni in cui il Paese ha già maturato una propria esperienza. Le prime attività dell’Indian Space Research Organisation (Isro) risalgono al 1969. Oggi questa controllata statale può vantare un bilancio di 1,47 miliardi di dollari e partecipazioni in tutto il mondo. Nel luglio 2010, si è avuto il suo ultimo lancio di satelliti. Isro ha messo in orbita cinque moduli della serie “Cartosat” per il telerilevamento


Risk del territorio. Lo stesso si può dire del nucleare. Nel ramo civile del settore, attualmente l’India occupa il nono posto a livello mondiale. Il suo patrimonio “immobiliare” si articola in sei centrali, in cui sono attivi venti reattori. Tuttavia, si calcola che, entro il 2030, il Paese sarà il terzo importatore mondiale di idrocarburi. Questo impone a New Delhi di consolidare i rapporti con i Paesi ricchi di giacimenti petro-

L’India esporta il 75% della produzione mondiale di servizi It. Si tratta di un giro di affari intorno ai 100 miliardi di dollari, in cui le major - dalla Ibm a Google - vi si sono tuffate. A Bangalore, risiedono e lavorano circa 150mila ingegneri. Contro i 120mila impiegati nella Silicon Valley liferi, ma al tempo stesso definire una politica di risorse energetiche alternative. L’ok dato alla progettazione di altri 46 reattori è dettata da questi bisogni di lungo periodo. Per quanto riguarda il comparto militare, è recente la dichiarazione del ministro della difesa indiano, Pallam Raju, relativa alla necessità di formulare un piano di investimenti nel campo della ricerca aerospaziale, civile e militare, che abbia come termine temporale il 2034. Stima dell’intervento: 2-300 miliardi di dollari. Si tenga conto che, appena nel 2006, l’India era solo al 62esimo posto nella classifica delle spese da parte dei singoli governi nel settore della difesa. Oggi quel 2,5% di Pil indiano a disposizione della sicurezza nazionale per New Delhi deve subire una spinta propulsiva senza precedenti nella 18

storia del Paese e, soprattutto, senza eguali a livello internazionale. Ancora nel settembre 2008, è stato abrogato il divieto sul commercio di materiale atomico con l’India dai 45 paesi fornitori (Nuclear suppliers group, Nsg). In questo modo, la comunità internazionale ha di fatto legittimato l’accordo di cooperazione concluso tra Washington e New Delhi, del dicembre 2006. L’allora amministrazione Bush era riuscita ad attrarre sotto il proprio cappello strategico una potenza emergente destinata a unirsi al Giappone quale principale referente Usa in Asia. Dal suo canto, Singh ha riscosso un enorme successo politico scorgendo nell’intesa un valido modo per opporsi alla crescente minaccia strategica cinese. L’isolamento atomico indiano risaliva al 1974, dopo i test nucleari di Pokharan, in seguito ai quali proprio gli Stati Uniti avevano deciso di varare rigidissime sanzioni economiche contro il subcontinente. In più, la ritrosia della comunità internazionale ad approvare l’accordo indo-statunitense nasceva dal fatto che New Delhi non ha mai sottoscritto né il Trattato di non proliferazione nucleare del 1968, né il Comprehensive test ban treaty del 1996. Il primo vieta ai Paesi non in possesso di armi nucleari di produrne, perseguendo invece l’uso pacifico della tecnologia atomica. Il secondo mette al bando gli esperimenti nucleari. Tutto questo ha fatto sì che anche il Pakistan incrementasse il proprio arsenale. A febbraio, infatti, il ministero della difesa di Islamabad ha dichiarato di essere in possesso di un centinaio di testate nucleari. Il numero non è confermato. Tuttavia, se fosse vero, l’India sarebbe stata superata. I due sono tornati sulle precedenti posizioni di reciproca dissuasione, che li ha portati allo scontro diretto in passato. La cricket diplomacy e le dichiarazioni di Gilani e di Singh sembrerebbero andare in controtendenza con queste nuovi rischi. Ora la mossa tocca all’India. Al di là della crisi con Islamabad, New Delhi deve rendersi conto che la superiorità di una grande potenza contemporanea sta nel saper scagionare una guerra, prima ancora di doverla combattere.


dossier LUCI E OMBRE DEL COLOSSO ASIATICO SULLO SCACCHIERE INTERNAZIONALE

QUAL È IL VERO PESO DI NEW DELHI? COLLOQUIO CON GIANCARLO ELIA VALORI DI VINCENZO FACCIOLI PINTOZZI •

L’

economia indiana «potrebbe superare quella cinese entro il 2015, ma la sfida con Pechino si gioca anche nel campo della competitività e dello sviluppo settoriale. Non bisogna dimenticare i problemi etnici, come quello del Kashmir, e la struttura democratica dell’Unione. Insomma, una sfida a tutto campo per la quale l’Italia non si sta preparando come dovrebbe».

Giancarlo Elia Valori, presidente de La Centrale Finanziaria Generale Spa, è uno dei più attenti osservatori dello scacchiere mondiale. Il suo nome campeggia all’Università di Pechino e a quella di Gerusalemme, e i suoi contatti con l’establishment mondiale sono di primo livello. In questa conversazione con Risk analizza luci e ombre del colosso indiano e la sfida che pone non soltanto al continente asiatico, ma al mondo. Presidente, qual è l’attuale peso dell’India nello scacchiere internazionale? Sul piano strettamente strategico, Nuova Delhi si trova a sostenere il peso di una nuova alleanza nucleare Cina-Pakistan in reazione al legame Usa- India. C’è il concreto pericolo che il Jammue-kashmir diventi, agli occhi dell’India, un nuovo Tibet. Cina e India, peraltro, non sono competitori globali con le stesse chances. La Cina sta per sorpassare il Giappone come seconda economia globale, e entro il 2035 la Banca Mondiale prevede che Pechino diverrà, da “fabbrica globale”, mercato mondiale. E il progetto di passare da industria globale a basso tasso di valore aggiunto alla leading factory sul piano tecnologico, almeno, secondo Pechino, entro il 2020. Sul piano economico, è stato predetto che Nuova Delhi potrà sopravanzare Pechino, nel tasso annuo di crescita,

a partire dal 2013-2015, ma l’India è al 51° posto nel Global Competitiveness Report, mentre la Cina si pone al 27°. La Cina si sta sviluppando nel settore manifatturiero, ma Pechino si trova di fronte ad un progressivo invecchiamento della manodopera, e il divide cinese sul piano demografico dovrebbe invertirsi nel 2015. Quindi, più vecchi, meno giovani in fase attiva, con un calo del Pil previsto, per questi motivi, fino al 7,7% nel 2015 e del 6,7% nel 2020. L’India, intanto, sostiene in modo non inflattivo la propria domanda interna, per sostituire il calo delle esportazioni, sostiene inoltre le zone di export a maggiore rilievo tecnologico, ed evita una presenza massiccia nelle aree di estrazione delle risorse energetiche, almeno sul piano geopolitico e di alleanze bilaterali, in attesa che la Cina paghi il costo strategico della sua presenza nel Grande Medio Oriente e trasformi, con il leverage sul sistema finanziario occidentale in crisi, la sua economia da export based ad export commanding. Le variabili indiane sono quelle di attendere il passaggio strutturale della Cina da paese con sovrabbondanza di forza-lavoro a basso costo ad un’area con costi standard di produzione simili a quelli delle zone meno sviluppate della penisola europea del continente nord e sudamericano, per giocare le proprie 19


Risk carte di sviluppo sulle imbalances strutturali degli altri competitori. Come potrà sanare – o vincere – la sfida con l’altro gigante asiatico, la Cina? Sul piano delle Purchasing Power Parities (l’equilibrio a lungo termine misurato su un paniere di beni) l’India è la quarta economia del globo, secondo il Fondo Monetario Internazionale, mentre uno studio Citigroup del 2010 sostiene che Nuova Delhi comanderà, nel 2050, la più grande economia mondiale. Sempre in quell’anno, le agenzie internazionali prevedono che l’India avrà una popolazione di 1,66 miliardi di esseri umani in rapporto a quella cinese, all’epoca, di 1,3 miliardi di uomini. La classe media, quella che compra, dovrebbe essere, in India, secondo McKinsey, dai 50 milioni a ben 583 milioni di uomini e donne nel 2050, con un investimento verso i consumi indiano che potrà essere sostenuto ancora da un rapporto favorevole tra occupati giovani-anziani che in Cina inizia ad essere debole. Chi di demografia ferisce… Se quindi la Cina ha giocato il ruolo di grande sostitutore globale della forza-lavoro carente in Occidente, o troppo cara, l’India sarà, e in parte già lo è, lo hub mondiale dei servizi, con un outsourcing che rileva del 10% annuo di aumento degli investimenti nel territorio indiano. Quindi, è probabile che i vantaggi comparativi che hanno favorito il boom cinese, dalle “Quattro Modernizzazioni” di Zhou Enlai e Deng Xiaoping ad oggi, divengano favorevoli per l’India, che ha una manodopera a prezzi compatibili, con stock di ricambio della stessa più a lunga data, ha una possibilità di entrata nel mercato-mondo meno disagevole, e non mantiene, malgrado le posizioni di Pechino al riguardo, uno standing minaccioso nel quadrante dell’Est asiatico e in quello del Pacifico. Nuova Delhi farà con il lavoro a media qualificazione quello che Pechino ha fatto con la forzalavoro tradizionale dal 1979 ad oggi, sostituirà l’Occidente in crisi manipolando, più o meno efficacemente, le variabili geopolitiche e macroeco20

nomiche interne. Si tratta di vedere se la Cina non saprà contrastare questa operazione con qualche idea nuova. Magari l’apertura di “zone economiche aperte” per le tecnologie di medio livello, o un sostegno pubblico-privato per il sistema pensionistico, il che è già in programma a Pechino, oppure ancora una nuova politica del cambio che dreni risorse da Nuova Delhi e favorisca un mercato finanziario del compratore a Pechino. I capitalisti, diceva Schumpeter, sono sciacalli, non lupi. Quali sono i campi in cui Delhi dovrebbe migliorarsi, per affermarsi ancora di più? I fondamentali economici indiani sono sotto controllo. La spesa pubblica dovrebbe crescere alme-

Quarta economia del globo secondo il Fmi, mentre uno studio Citigroup del 2010 sostiene che Nuova Delhi comanderà, nel 2050, la più grande economia mondiale. Sempre in quell’anno, le agenzie internazionali prevedono che il paese avrà una popolazione di 1,66 miliardi di esseri umani in rapporto a quella cinese, all’epoca, di 1,3 miliardi no del 4% annuo tra oggi e il 2015, con una banca centrale indiana che controlla in mondo restrittivo la spesa pubblica. Sia la spesa pubblica che la crescita del Pil dovrebbero salire, secondo l’Economist Intelligence Unit, di circa l’8,6% annuo, in parallelo. I prezzi al consumatore finale dovrebbero calare, sempre secondo l’Eiu, del 5,2% rispetto ai livelli del 2010, per il periodo del 2015-2020. Tutti dati che già espongono cosa


dossier dovrebbe fare Nuova Delhi per migliorarsi. Sul piano geopolitico, l’India farà da punto di riferimento per tutto il sistema dal Golfo Persico fino all’Indocina, e avrà la scelta tra giocare questo rilievo strategico per gestire di fatto la Shangai Cooperation Organization con la Cina, od operare in proprio con un canale geopolitico tra il Vecchio Medio Oriente, l’Africa centro-meridionale (dove Nuova Delhi è storicamente presente) e la vecchia Europa. L’India, più che la Cina, non può non giocare su due tavoli: l’egemonia nell’Asia Centrale “dal mare”, connettendo quel quadrante con il Golfo Persico, e i diritti di passo sulla linea marittima e terrestre, a Nord, tra Europa e Asia Centrale. Una Via della Seta a direzioni spesso invertite. Ritiene possibile che la natura “democratica” dell’Unione possa espandersi nell’area? Per molti analisti, la democrazia è una “cultura civica”, e Samuel Huntington, con un bel coraggio intellettuale, propose il Pakistan nell’ambito delle democrazie orientali. Ma per l’India il gioco è più complesso: la sua tradizionale politica estera di “non esportazione dell’ideologia e di non intromissione negli affari di altri paesi”, come detto a suo tempo dai governi federali, la rende passibile di un effetto di irraggiamento più lento ma certamente più efficace di quello di altri paesi che gestiscono guerriglie “maoiste” nelle aree del kashmir o improbabili ossessioni jihadiste nelle minoranze islamiche fino a Mumbay. Se Nuova Delhi saprà esternalizzare gran parte del suo sistema produttivo, che pure necessita di forza-lavoro mediamente più addestrata di quella che occorre alla Cina, e saprà gestire questa operazione in termini politici, attivando in tale direzione la Saarc, South Asian Association for Regional Cooperation, che recentemente ha offerto il ruolo di membro all’Afghanistan, allora Nuova Delhi saprà utilizzare il forte grado di asimmetria e di integrazione possibile tra i suoi vicini. Naturalmente, come sempre accade, i punti di debolezza si sovrappon-

Sul piano strettamente strategico, Nuova Delhi si trova a sostenere il peso di una nuova alleanza nucleare Cina-Pakistan in reazione al legame Usa-India. C’è il concreto pericolo che il Jammu-ekashmir diventi, agli occhi dell’India, un nuovo Tibet gono a quelli di forza, per l’India come per tanti altri Paesi. Nuova Delhi ha alcune priorità strategiche essenziali: la sicurezza dei confini, non solo a Nord, la stabilità interna, soprattutto interetnica e religiosa, il sostegno ad una crescita economica che non può non essere sostenuta da imbalances dell’estero, la sicurezza energetica e marittima, il libero accesso alle tecnologie evolute. Sarà su queste linee che si verificherà l’appeal dell’India nei confronti dei vicini e, anche, degli alleati lontani, come ora gli Usa e, in seguito, la stessa Ue. Quali sono, per l’Europa, i ricaschi economici dell’avanzata indiana? Sul piano del commercio globale, l’India è un ente di ancora scarso rilievo. Gli Investitori Esteri Diretti nell’area di Nuova Delhi sono ancora concentrati in pochi attori (15, per l’esattezza) e quindi gli effetti di contrasto dall’India verso l’Ue non sono, in ogni caso, rilevanti. Se la crisi attuale continua, con gli Usa che pagano a tempo rapido la loro “creazione di liquidità”, secondo i dettami di “Helicopter Ben” Bernanke, allora l’India potrebbe aumentare il deficit fiscale in sostituzione della crescita prevista e quindi generare una quota di inflazione sui beni e i servizi importati in Ue, che verrebbe a sommarsi a quella già presente sia come rilievo sul valore esterno dell’Euro per i vari paesi esportatori della Unione Europea che come 21


Risk

Nessun partner è più affidabile di un altro, sei tu che devi essere affidabile per te stesso e per i tuoi interlocutori. L’India ha un rilievo particolare per la sua finanza hawala, del tutto informale, che spesso sfugge anche al controllo governativo, mentre Pechino ha ancora a che fare con tutte le reti informali prima finanziarie e poi anche produttive che si sono inserite nel processo delle “Quattro Modernizzazioni”

elemento di aggravamento della crisi da dollaro in fase di avvio. Allora, l’India potrebbe acquisire in fase di crisi settori ancora profittevoli nel sistema produttivo europeo e porli sotto la rete dei propri controlli finanziari, politici e di mercato. Esattamente come ha fatto la Cina dopo la seconda grande crisi petrolifera, con l’apertura di Pechino, sia pure lenta e complessa, ai “diavoli occidentali”. Ritiene Delhi un partner più affidabile di Pechino? No. Nessun partner è più affidabile di un altro, sei tu che devi essere affidabile per te stesso e per i tuoi interlocutori. L’India ha un rilievo particolare per la sua finanza hawala, del tutto informale, che spesso sfugge anche al controllo governativo, mentre Pechino ha ancora a che fare con tutte le reti informali prima finanziarie e poi anche produttive che si sono inserite nel processo delle

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“Quattro Modernizzazioni”. In entrambi i casi il governo centrale conta davvero, e conosce le diverse declinazioni che lo stesso verbo politico riceve nelle immense regioni periferiche del loro dominio. E sa gestire sia le differenze che le affinità. Lo stile politico indiano, per certi aspetti, è più aperto alle richieste dello straniero all’inizio, ma sa selezionare dopo le richieste, mentre i cinesi fanno, di solito, il contrario. Ma, in entrambi i casi, si tratta di classi dirigenti capaci, efficienti, informate, potenti e sicure. Secondo lei, l’attuale congiuntura economico-politica del nostro Paese sta facendo abbastanza per garantirsi legami con le economie emergenti? Detto brutalmente, no. Secondo i dati Ice, Istituto per il Commercio Estero, le esportazioni e l’import verso e dall’India dell’Italia hanno avuto un saldo negativo, per il 2009, ultimo dato censito, di -169.130 mld di Euro. Con la Cina, sempre per le stesse fonti ufficiali, e nello stesso periodo preso in esame per l’India, c’è un saldo negativo tra import e export per l’Italia, verso Pechino, di - 48,3 %, con un ulteriore saldo negativo per il 2010, nel quale si raggiunge il -53,6%. Ovvero, importiamo più che esportare, il che rende difficile l’impostazione di politiche industriali sia in Cina che in India. Se aumenta il costo unitario del prodotto italiano che fa concorrenza al prodotto del Paese emergente, e se l’Italia non sa proteggere ferocemente i suoi marchi e le sue tecnologie di punta, allora la produzione di beni e servizi in concorrenza con quelli italiani diventa difficile, soprattutto in una fase in cui le classi politiche non riescono a tutelare il brand nazionale e quindi deprezzano, di fatto, i beni e i servizi in fase di export. Inoltre, se impostiamo la protezione non tariffaria dei nostri prodotti a maggiore valore aggiunto con le semplici zone regionali, o i famosi “distretti”, non riusciremo a far fronte all’aggressività nuova del mercato-mondo.



Risk PER CRESCERE DAVVERO IL GOVERNO DEVE PUNTARE SU INFRASTRUTTURE, OCCUPAZIONE E RIFORME

I LIMITI DEL MIRACOLO INDIANO DI •

I

STEFANO CHIARLONE

l percorso di sviluppo economico dell’India moderna, può essere suddiviso in due periodi, del tutto contrapposti che sono alla base del modello economico del paese. Il primo periodo (1947-1980, cosiddetto “Hindu growth rate period”) è stato guidato da una politica economica che ha seguito un approccio pianificato e centralizzato, basato su Piani quinquennali finalizzati

all’autosufficienza e al controllo pubblico delle industrie ad alta intensità di capitale di importanza strategica (tra cui l’intero settore delle infrastrutture). Questo approccio assoggettava il settore privato a un elaborato sistema di licenze, a dazi proibitivi e ad altri vincoli sull’allocazione e l’utilizzo della valuta estera, per garantire che i capitali (scarsi) venissero investiti in coerenza con le priorità di politica economica. L’adozione di queste strategie, dopo una crescita elevata nel primo decennio (del 4,3 per cento sino al 1964) grazie all’intenso utilizzo di fattori produttivi, ha generato una serie di inefficienze che sono emerse col tempo: fra 1965 e 1980 il tasso di crescita è diminuito al 2,9 per cento annuo. Solo negli anni Settanta iniziò a diffondersi la consapevolezza che l’andamento dell’economia non sarebbe migliorato senza qualche forma di liberalizzazione. Negli anni Ottanta furono introdotte le prime misure di liberalizzazione delle importazioni (soprattutto di beni capitali e intermedi), di promozione delle esportazioni e di riduzione degli obblighi di licenza che, con l’eliminazione di altri vincoli, permisero alle imprese di perseguire diversificazioni produttive. Allo stesso tempo, ebbe inizio un lento e parziale processo di riduzione dei settori riservati alle imprese pubbliche o a quelle piccole. Queste misure favorirono gli investimenti necessari per l’ammoder24

namento industriale e terziario e spinsero la crescita al 5,6 per cento medio annuo (cosiddetto “Bharatiya Growth Rate”). Le politiche di quegli anni furono anche caratterizzate da eccessi fiscali e monetari che portarono l’India sull’orlo della crisi. Negli anni Novanta il passo delle riforme accelerò, sulla spinta dei programmi di stabilizzazione cui il paese dovette sottoporsi sotto l’egida del Fondo Monetario Internazionale (Fmi), in seguito alla crisi del 1991. Vi fu un cambio di approccio da una filosofia nella quale era necessaria una licenza per ogni attività economica, salvo esenzioni; a una - diametralmente opposta - secondo la quale era consentita ogni attività, salvo quelle espressamente vietate. In altre parole, il governo procedette alla profonda deregolamentazione del settore industriale, inclusi lo smantellamento del sistema di licenze necessarie per investire nell’industria (con l’eccezione di pochi settori ritenuti di particolare importanza), la drastica riduzione dei monopoli pubblici (limitati a pochissimi settori) e una profonda liberalizzazione di molte branche dei servizi. Parte del programma di riforme si basava su un regime molto più favorevole all’apertura internazionale, grazie alla riduzione dei limiti all’import-export, alla svalutazione reale del cambio del 1991, al passaggio della Rupia


alla fluttuazione e alla significativa apertura agli Investimenti Diretti Esteri (Ide). Dal 1996 in poi, inoltre, l’attenzione della politica industriale indiana si iniziò a focalizzare altresì sullo sviluppo delle infrastrutture, anche per mezzo di forme di partenariato pubblico-privato per sopperire alla scarsità di capitali. L’insieme delle riforme ha posto le basi per una crescita molto elevata: dal 1993 al 2000 il tasso di crescita medio annuo è stato del 6,2 per cento; mentre dal 2003, la crescita si è mantenuta oltre l’8 per cento. L’economia indiana ha mostrato un significativo grado di resistenza alla crisi del 2008. Dalla metà del 2009 il ritmo di crescita è ritornato

colarità strutturali che meritano attenzione nonostante i successi macroeconomici. In primo luogo, essa si basa soprattutto sui servizi (oltre il 50 per cento del Pil). Il settore industriale è piccolo (circa il 30% del valore aggiunto) e meno competitivo. Il resto del Pil viene generato da un’agricoltura arretrata e di sussistenza, le cui performance sono estremamente suscettibili all’andamento delle piogge. Sebbene la crescita dei servizi sia comune ai processi di modernizzazione di molti paesi, in India vi sono caratteristiche inconsuete. In primo luogo, il declino dell’agricoltura si è tradotto prevalentemente in un aumento del peso dei servizi e non dell’industria. In secondo luogo, questa evoluzione non ha avuto corrispondenza nell’occupazione: nel 2006 l’agricoltura continuava a impiegare (o sotto-impiegare) oltre il 50 per cento della forza lavoro indiana, i servizi circa un quarto e l’industria un quinto. Lo scarso peso dell’industria ha impedito di offrire alla forza lavoro meno qualificata, adeguate opportunità. È un tema di estremo rilievo, poiché la quota di partecipazione alla forza lavoro della popolazione, in India, è limitata. La rigidità della legislazione sul lavoro e l’insufficienza delle infrastrutture hanno giocato un ruolo non secondario nel ridurre la partecipazione alla forza lavoro e nel mantenere eccessiva l’occupazione (e sottooccupazione) agricola rispetto al peso dell’agricoltura nel Pil indiano (inferiore al 17 per cento). Accrescere la partecipazione alla forza lavoro è cruciale per una maggiore diffusione del benessere e riduzione della povertà e richiede un maggiore sviluppo dell’industria. L’integrazione economica internazionale indiana, a sua volta, mostra un ritardo rispetto alla Cina, sia nell’import-export, sia negli Ide. Esso è, in parte, collegato al fatto che il percorso di riforme e liberaa superare il 9%, grazie soprattutto agli investi- lizzazione è iniziato più tardi; ma anche alle lentezze menti in infrastrutture, insieme a quelli delle burocratiche e alla scarsa dotazione infrastrutturale imprese stimolati dai vincoli di offerta, e ai consu- che hanno reso poco attrattiva l’India per le imprese mi privati, che dovrebbero beneficiare delle ten- straniere e rallentato la crescita di quelle domestiche. Le esportazioni indiane, per esempio, sono costituite denze all'urbanizzazione. L’economia indiana, oggi, mostra una serie di parti- da prodotti manufatti in misura pari solo al 33 per

L’economia indiana, oggi, mostra una serie di particolarità strutturali che meritano attenzione nonostante i successi macro-economici. In primo luogo, essa si basa soprattutto sui servizi (oltre il 50 per cento del Pil). Il resto viene generato da un’agricoltura arretrata e di sussistenza, le cui performance sono estremamente suscettibili all’andamento delle piogge

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Risk

Il completamento delle riforme economiche, la competitività futura dell’economia indiana, la sua crescita economica e il suo grado di inclusività sociale richiedono un investimento significativo in infrastrutture, che deve essere posto al centro delle priorità di politica economica finalizzate alla stabilizzazione dell’economia cento, mentre oltre la metà è costituita da servizi. Per ciò che riguarda la specializzazione manifatturiera, tuttora, come negli anni ’80 e ’90, i tre quarti delle esportazioni indiane sono costituiti dai settori tessile, alimentare, chimico e della gioielleria, mentre la produzione di apparecchiature elettriche e non elettriche rappresenta circa il 10 per cento del totale. Circa il 50 per cento delle esportazioni indiane dipende fortemente da produzioni ad uso intensivo di manodopera non qualificata. Tra le principali produzioni tecnologiche troviamo il settore chimico (e la sua filiera, inclusa la farmaceutica) e, meno importante, la produzione di apparecchiature non elettriche. I suddetti settori rappresentano poco più del 20 per cento delle esportazioni totali, contro oltre il 40 per cento della Cina. Da questi dati sembra che lo sviluppo tecnologico dell’India sia inferiore a quello della Cina. Ma, la minore partecipazione dell’India alla disintegrazione internazionale della produzione suggerisce che le esportazioni indiane di prodotti tecnologici si collegano prevalentemente all’attività di imprese domestiche e meno a quella delle multinazionali stranie26

re, a differenza di quanto avviene in Cina. Infatti, i beni intermedi rappresentano la quota principale delle importazioni cinesi, cioè oltre il 50 per cento, un peso molto superiore ai circa 2/5 dell’India. I beni capitali, invece, rappresentano un quinto delle importazioni cinesi, sempre superiore rispetto al poco più del 10% dell’India. Infine, la debolezza indiana nei settori ad alta tecnologia è controbilanciata dalla sua forza nel terziario avanzato: le esportazioni indiane di servizi, infatti, sono superiori all’1,5% del totale mondiale e consistono soprattutto di servizi business (software, finanza, telecomunicazioni, comunicazioni, e consulenza legale, medica e diagnostica), in questo caso anche grazie alle attività di outsourcing di imprese straniere. Alla luce di queste considerazioni, il ruolo dell’India nella divisione internazionale del lavoro appare diverso da quello delle altre economie emergenti dell’Asia: invece di seguire un modello basato sull’esportazione di produzioni manifatturiere intensive in forza lavoro poco qualificata e assemblate per conto di multinazionali straniere, in India si è sviluppato particolarmente il settore terziario, prevalentemente avanzato. Questa situazione, oltre che alla bontà del modello di sviluppo del settore tecnologico terziario indiano, potrebbe essere collegata – in ottica negativa – ai ritardi infrastrutturali del paese, al peso residuo della burocrazia e alla mancanza di interventi incisivi sul mercato del lavoro e al residuo favore verso le piccole imprese che, da un lato, rendono tuttora difficile per l’India divenire paese destinatario di attività di delocalizzazione produttiva, e dall’altro danneggiano le grandi imprese indiane. Secondo il Fmi (si veda il rapporto ex Articolo 4 del 2006), per esempio, il sistema tariffario costituisce una tassazione implicita delle esportazioni e l’insufficienza della rete infrastrutturale e l’eccessiva regolamentazione energetica comportano una significativa difficoltà di accesso ai mercati internazionali e generano una significativa perdita di competitività. Questa debolezza fa sorgere di dubbi circa la soste-


dossier nibilità della crescita indiana, in quanto essa sembra essere stata incapace, di garantire una propagazione diffusa dei benefici della crescita ai vari strati della popolazione. Il persistente elevato peso della popolazione in povertà mostra che l’India ha bisogno di garantire opportunità occupazionali diffuse nelle diverse aree geografiche del paese e per persone con diversi livelli educativi. La modernizzazione della infrastrutture fisiche e immateriali (incluso il completamento delle riforme) sembra cruciale per mantenere un tasso di crescita elevato e allargare la diffusione del benessere alle fasce più povere. Come è evidente da quanto discusso, il percorso di riforme dell’economia indiana ha lasciato irrisolti una serie di nodi strutturali. Fra gli aspetti che richiedono particolare attenzione per scioglierli, un ruolo primario lo rivestono gli investimenti in infrastrutture e le politiche di contorno che li rendano sostenibili. Le autorità indiane hanno sottolineato che infrastrutture e investimenti in capitale umano sono cruciali per raggiungere il loro obiettivo di crescita del 9-10 per cento annuo del Pil nel medio termine. Secondo il Fmi (si veda il rapporto ex Articolo 4 del 2011), il dodicesimo Piano Quinquennale dovrebbe prevedere investimenti infrastrutturali superiori a mille miliardi di dollari, una cifra che porterebbe il loro peso al 9 per cento del Pil. Raggiungere questo obiettivo richiede la mobilitazione di tutte le risorse disponibili; pubbliche, private e straniere. Nell'undicesimo Piano Quinquennale, il settore privato ha contribuito per circa il 30% al finanziamento delle infrastrutture. Si prevede che nel dodicesimo piano il contributo privato dovrà essere intorno al 50%, facendo di quello indiano uno dei programmi di partenariato pubblico-privato più ambiziosi del mondo. La semplificazione delle procedure di acquisto dei terreni, delle problematiche di governance e della burocrazia sono cruciali per incentivare la partecipazione del settore privato, insieme al completamento dell’ammodernamento del sistema finanziario.

Il completamento del risanamento del bilancio pubblico è necessario per liberare le risorse necessarie a finanziare gli investimenti in aree in cui la partecipazione privata non sarà disponibile, come le infrastrutture urbane e la distribuzione di energia. Il governo ha disposto una tabella di marcia ambiziosa per ridurre il debito pubblico e deficit e la forte crescita dovrebbe agevolare il raggiungimento degli obiettivi. Nonostante l’atteso aumento del risparmio nazionale, collegato a favorevoli trend demografici ed economici, si prevede un maggior ricorso al risparmio estero che richiede una particolare attenzione al disavanzo delle partite correnti. La combinazione di una forte domanda interna e di una crescita globale debole sta allargando il disavanzo delle partite correnti indiane e accrescendo i flussi di capitale in entrata. Sinora il disavanzo delle partite correnti è stato finanziato principalmente da Ide. Esso dovrebbe ridursi nel medio periodo grazie alla crescita delle esportazioni collegata ai potenziali guadagni di produttività anche favoriti dall’investimento in infrastrutture. Tuttavia, il potenziale rischio di una inversione di flussi di capitali richiede vigilanza. Finora, la rupia si è apprezzata solo in misura modesta, per cui un ulteriore contenuto apprezzamento non sarebbe dirompente per l'economia. Nel tempo, tuttavia, aumentare la profondità dei mercati finanziari nazionali, per esempio delle obbligazioni societarie, e una ulteriore liberalizzazione degli Ide, insieme al miglioramento del modello di intermediazione del risparmio interno, dovrebbero aumentare la capacità di assorbimento sostenibile di flussi di capitali stranieri. In conclusione, il completamento delle riforme economiche, la competitività futura dell’economia indiana, la sua crescita economica e il suo grado di inclusività sociale richiedono un investimento significativo in infrastrutture, che deve essere posto al centro delle priorità di politica economica finalizzate alla stabilizzazione dell’economia. L’articolo è scritto a titolo puramente personale e non impegna in alcun modo UniCredit.

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Risk IL CENSIMENTO 2011 È CHIARO: CRESCE SOLO IL SETTENTRIONE. E LA POLITICA ARRANCA

IL NORD, TRAINO (E DISPERAZIONE) DEL SUD DI •

S

SUNIL KHILNANI

econdo quanto rivela WikiLeaks, quando l’ambasciatore statunitense Timothy Roemer riferì a Washington una riflessione del ministro dell’Interno dell’Unione Indiana P. Chidambaram secondo cui la crescita generale dell’India, guidata dagli stati meridionali ed occidentali, fosse rallentata dagli stati del Nord, non stava di certo trasmettendo un segreto

di stato. Tuttavia, in modo prevedibile e sconsiderato, i partiti politici, in special modo quelli del nord quali il Partito Samajwadi, risposero con litanie sulla minaccia all’unità e all’integrità nazionale – da parte di un ministro che ha semplicemente detto il vero. Le differenze tra il nord ed il sud rappresentano un fatto lampante ed intrinseco dell’India contemporanea, evidente nei livelli di crescita economica, qualità della governance e tenore di vita, ed ora ulteriormente confermati dai risultati del censimento 2011 sullo squilibrio demografico tra le varie regioni. In effetti, l’Unione Indiana ha intrapreso percorsi tra loro differenti – e, al di là della più familiare contrapposizione Bharat/India, è proprio la discrepanza nord/sud che potrebbe rivelarsi foriera di conseguenze inaspettate. Da quando, nel 1991, presero il via le liberalizzazioni, la crescita decennale media della popolazione nell’Uttar Pradesh (UP) e nel Bihar – due stati che da soli rappresentano più di un quarto della popolazione indiana – è stata di circa il 25%. D’altro canto, in stati quali Andhra Pradesh, Tamil Nadu e Kerala – che costituiscono circa il 16% della popolazione totale – le cifre si attestavano a circa la metà delle precedenti. Più nello specifico, tra il 2001 ed il 2011, il Kerala, regione che vanta alcuni tra i migliori indicatori umani, è cresciuto di una percentuale appe28

na al di sotto del 5%, mentre il Bihar ha registrato una crescita di oltre il 25%. Le buone notizie contenute nei dati del censimento del 2011 sono che per la prima volta si è registrata una diminuzione nei tassi di crescita della popolazione degli stati settentrionali. Tale livellamento, che ebbe inizio negli stati meridionali, si sta ora estendendo ad altre zone del paese – sebbene la definitiva stabilizzazione della popolazione sia ancora lontana. «La strada verso una popolazione stazionaria entro il 2060», segnala l’analisi di previsione del censimento, «è lunga ed ardua, e richiederebbe sforzi ingenti». Rimane il fatto che la popolazione dell’India continua ancora a crescere a tassi più alti nel nord: tassi che sono ben al di sopra di quelli degli stati meridionali, ed anche al di sopra della media nazionale. Perché dovrebbe importare la disparità tra nord e sud? Dopo tutto, la diffusione del mercato e la crescita economica aggregata del paese fungono sotto molti aspetti da elemento di integrazione dell’economia nazionale. Gli stati meridionali ed i più prosperosi stati settentrionali dipendono dall’immigrazione della forza lavoro così come da risorse e materie prime che provengono dalle aree meno sviluppate del paese – per lo più i grandi stati settentrionali e centrali. In una recente, appassionata difesa dell’util-


dossier ità del nord più povero e con tassi di crescita inferiori nel quadro del più generale funzionamento dell’economia indiana, il sociologo Dipankar Gupta ha dichiarato: «Che si parli di materie prime o di manodopera prima, è il grigio nord che conferisce al sud quel suo colore acceso». Ciò è assolutamente vero. Ma la disparità nord-sud si fa maggiormente complicata e meno vicendevolmente benefica quando si va oltre i fattori economici e funzionali, e si inizia a prendere in considerazione le conseguenze politiche dello squilibrio demografico dell’India – in particolare, ciò che esso implica per la legittimazione continua del nostro sistema di rappresentanza politica. In una democrazia, il voto di ogni singolo è uguale; e nel sistema elettorale in stile Westminster che abbiamo adottato, i 543 rappresentanti eletti alla Lok Sabha rappresentano collegi territoriali, ognuno dei quali racchiude al suo interno presumibilmente una quota di elettori all’incirca uguale a quella delle altre circoscrizioni. È tale distribuzione che consente ad ogni voto, in ogni luogo del paese dove esso venga espresso, di contare equamente. Sulla base del censimento 2011, ogni parlamentare dovrebbe rappresentare circa 2,2 milioni di indiani: sebbene straordinariamente grande per gli standard della maggior parte delle democrazie, questa dovrebbe essere l’estensione media dei nostri collegi elettorali dato l’attuale numero di seggi in Parlamento. Ma la cartina demografica dell’India e la sua cartografia democratica non si sovrappongono più – al contrario, si stanno sempre più allontanando l’una dall’altra. Se prendiamo in esame semplicemente le cifre aggregate a livello statale, le discrepanze sono facilmente rintracciabili. Ad esempio l’Uttar Pradesh: con una popolazione di 200 milioni, dispone di 80 seggi nella Lok Sabha, il che significa all’incirca un rappresentante in parlamento ogni 2,5 milioni di abitanti. Il Kerala, con una popolazione di 33 milioni, dispone 20 seggi nella Lok Sabha: all’incirca un parlamentare ogni 1,65 milioni di abitanti, 29


mentre nel Tamil Nady la media raggiunge 1,84 milioni (naturalmente, le dimensioni reali delle circoscrizioni si discostano da queste cifre medie, fornite al solo scopo illustrativo). A partire dalle elezioni delle assemblee statali nel 2008, siamo stati testimoni dell’introduzione di nuove delimitazioni alle circoscrizioni per le assemblee statali, con l’obiettivo di ridefinire il bilanciamento tra i votanti ed i loro rappresentanti – in particolare, per correggere lo squilibrio nelle aree urbane, che sono cresciute in modo sproporzionatamente rapido dal punto di vista della popolazione ma che non hanno ottenuto maggior voce di rappresentanza. Il processo di definizione di nuove circoscrizioni genera sempre e dovunque sospetti e diffidenza. È stato oggetto di una delle vecchie arti dell’imbroglio democratico, la suddivisione dei collegi a vantaggio dell’uno o dell’altro, ed è un processo in cui vi saranno sempre dei perdenti. Tuttavia, l’esercizio di delimitazione del 2008-09 venne abilmente gestito dalla Commissione Elettorale: un processo portato avanti con molta discrezione, e che non generò critiche eccessive – un esempio della capacità dell’India di porre in essere riforme furtivamente. La lezione che dovremmo apprendere è che tali delicati cambiamenti possono essere meglio realizzati in forma graduale e progressiva, mettendo in conto un costante e moderato lavoro di revisione sia delle unità quanto dell’ampiezza della rappresentanza elettorale. Di fronte ai massicci cambiamenti sociali che il censimento delinea per noi tutti, una tale revisione delle nostre istituzioni – e cioè ricostruirle mentre le viviamo – deve essere radicata nella nostra cultura popolare. Essa incoraggerà un più forte progresso democratico della nostra forma di governo, invece dell’approccio convulsivo e reattivo al quale appare incline. La Costituzione riconosce la necessità di una regolare revisione dell’ampiezza delle unità di rappresentanza dell’India alla luce dei dati del censimento. Tale revisione, se posta in essere, consentirebbe altresì di introdurre una certa prevedibilità razionale al modo in cui i governi


dossier definiscono il rapporto tra i numeri e la distribuzione della cittadinanza ed i propri rappresentanti eletti. Tuttavia, sin dagli anni ’70, il Parlamento ha mantenuto in sospeso tale spirito di revisione, più per codardia che per prudenza. Timoroso di un confronto tra nord e sud circa la ridefinizione dei seggi, più di recente – nel 2002 – ha deciso di non portare a compimento nessuna azione di riforma sino al primo esercizio di censimento dopo il 2026: il che implica a tutti gli effetti non prima della pubblicazione dei dati del censimento del 2031. Questo è un classico caso in cui si preferisce mettere la testa sotto la sabbia, se mai ve ne sia stato uno. Anche con qualche riduzione delle divergenze tra i tassi di crescita della popolazione del nord e del sud, la sproporzione nella rappresentanza politica continuerà ad aumentare – ed il divario si amplierà nei prossimi trent’anni. I ritardi non fanno altro che accumulare le difficoltà che alla in ultima analisi avranno bisogno di essere sbrogliate, e renderanno più probabili soluzioni disgregatrici e conflittuali. Interrogandosi su come dare forma istituzionale al crescente divario nord-sud, molteplici soluzioni appaiono possibili. La meno fantasiosa consisterebbe semplicemente nel ribilanciare la rappresentanza nazionale a favore del nord, mantenendo al tempo stesso l’attuale quota di seggi in Parlamento. Questa appare come l’opzione che più minaccia di creare divisioni, in quanto implicherebbe la sostanziale rinuncia da parte degli stati del sud ad una quota di seggi. Maggiore efficacia potrebbe avere l’aumento del numero totale di seggi parlamentari (così come il numero dei distretti è stato aumentato di quasi 50 nell’ultimo decennio) – da 543 a, diciamo, 649 o anche più. Un’altra possibilità sarebbe quella di rafforzare l’identità originaria del Rajya Sabha: il quale, come il senato statunitense, doveva fungere da arena per garantire eguale rappresentanza agli interessi degli stati, a prescindere dalla loro dimensione – una funzione che ha virtualmente cessato di ricoprire. Più radicale, ma forse più efficace tra tutte, appare l’opzione

della frantumazione dei nostri stati di dimensioni mostruose in unità più piccole, amministrativamente realizzabili e politicamente più legittime (abbiamo realmente bisogno di un Uttar Pradesh più popoloso del Brasile?). Questo dovrà essere un imperativo imprescindibile negli anni a venire – e dovremmo utilizzare l’opportunità che ci si presenta allo scopo di creare più circoscrizioni elettorali, con dimensioni più consone e distribuite in maniera più omogenea. Ognuna di queste soluzioni comporterebbe problemi e dilemmi. L’incremento del numero sia dei parlamentari che degli stati accentuerà inevitabilmente il coordinamento ed i problemi di azione collettiva già affrontati del governo. Ma quando la legittimità del sistema democratico è in gioco, affiora la necessità di reinventare in anticipo piuttosto che lottare retroattivamente per preservare. Quest’anno, un altro paese con un massiccio squilibrio tra nord e sud festeggia il 150° anniversario della propria unificazione. La perdurante incapacità dell’Italia di risolvere i problemi del Mezzogiorno – quella linea d’ombra nella penisola italiana che è servita da barriera per le opportunità e la crescita del sud – può in un certo qual modo aiutare a spiegare la politica disfunzionale di quel paese, e ha indotto alcuni tra gli storici del paese di più recente formazione a sostenere che l’Italia non avrebbe dovuto essere unificata. Anche l’Unione Indiana è stata spesso teatro di simili argomentazioni – le quali avrebbero però bisogno di una costante ed attiva confutazione. Il censimento rappresenta un esercizio straordinario per produrre una fotografia dell’India come un tutt’uno unificato – anche se ci mette in guardia contro le sue disparate parti. Mentre giungono i risultati, il Censimento del 2011 conterrà molti risultati. Un risultato molto chiaro è che l’architettura istituzionale della nostra democrazia rappresentativa non riflette semplicemente l’espansione demografica incontrollata della nostra cittadinanza – ed è necessario che si allinei, prima piuttosto che poi. 31


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dossier

I MAOISTI E L’AGENDA STRATEGICA PAKISTANA

IL PUZZLE DEL TERRORE DI •

I

BAHUKUTUMBI RAMAN

l terrorismo in India è endemico. Fin dalla sua indipendenza il Paese ha dovuto confrontarsi con periodiche esplosioni di fenomeni legati sia al terrorismo che a rivolte di carattere politico, sociale e religioso. La radice di questi fenomeni ha avuto sempre origini diverse: sentimenti legati al separatismo etnico, nel Nordest del Paese; motivi religiosi, nel caso

dei movimenti secessionisti nel Punjab, prima del 1995, e nelle regioni del Jammu e del Kashmir fin dal 1989; grande povertà e senso di sfruttamento è la percezione che ha mosso le rivolte nelle aree tribali dell’India centrale; la sensazione di subire continue ingiustizie è stata poi la molla che ha scatenato episodicamente la comunità musulmana, portandola a compiere atti terroristici sotto la sigla di un gruppo che si faceva chiamare Indian Mujahideen. E proprio la convinzione che lo Stato non reagisse con sufficiente determinazione contro questo tipo di violenze – che godessero o meno dell’appoggio del Pakistan – scatenava poi la reazione rabbiosa della maggioranza indù. Molti dei fenomeni terroristici che andremo a descrivere hanno poggiato su differenti basi ideologiche: la convinzione che le tribù e la gente negli Stati del Nordest come il Nagland, il Mizoram, il Manipur e l’Assam fossero etnicamente diversi dalle altre popolazioni dell’India; oppure che la diversa religione professata (quella dei Sikh nel caso del Punjab e quella islamica in alcuni segmenti della popolazione del Jammu e Kashmir) desse il diritto di godere di uno status particolare rispetto alla maggioranza della popolazione indiana che è indù; la convinzione che solo l’ideologia marxista/maoista potesse porre fine allo stato d’estrema povertà e di sfruttamento, da parte del resto della popolazione,

degli appartenenti alle classi tribali dell’India centrale; ancora, la convinzione di alcune parti della popolazione indù che l’intervento statale contro il terrorismo islamico – percepito come insufficiente – li autorizzasse all’autodifesa, spingendoli ad atti di ritorsione contro la popolazione musulmana.

L’ombra di Islamabad e Pechino

Il problema è stato ulteriormente complicato dai tentativi, fatti in passato dalla Cina, di utilizzare per la propria agenda strategica i terroristi/ribelli di tendenze marxiste-maoiste e da quelli del Pakistan di fare altrettanto, con i gruppi jihadisti di varia matrice, sia nel Jammu e Kashmir (J&K) che in altre zone del Paese. La Cina e il Pakistan condividono la stessa agenda strategica sull’India: mantenere il Paese debole e instabile. Islamabad ha un ulteriore obiettivo da raggiungere: creare divisioni tra musulmani e indù e annettere lo Stato del J&K, a maggioranza islamica, specie in alcune zone della valle del Kashmir. Ma mentre l’appoggio cinese ai ribelli/terroristi marxisti-maoisti è cessato nel 1979, il supporto pakistano al terrorismo islamico è continuato in molte parti del Paese. La politica di Islambad, come abbiamo già sottolineato, vorrebbe forzare lo status quo in J&K e creare una polarizzazione dei rapporti tra indù e musulmani in altre parti del Paese, per ral33


Risk potuto affrontare il problema della mancanza di sviluppo economico. Delhi da parte sua ha incontrato serie difficoltà nella gestione di questo tipo di movimenti radicali di origine rurale, per la mancanza di una strategia coerente. Nel tempo ha creato delle numerose e sempre meglio equipaggiate formazioni paramilitari che potessero affrontare sia i fenomeni d’insorgenza che quelli terroristici. Ma non è stato in grado di commutare in consenso la grande rabbia delle popolazioni sfruttate. Potremmo dire con termini più attuali che il governo abbia fallito nell’operazione di conquista dei cuori e delle menti di quelle popolazioni tribali. Una strategia più lineare avrebbe affrontato simultaneamente sia il problema che riguardava la sicurezza sia quello legato allo sviluppo economico. Non ci può essere sicurezza senza sviluppo. E non può esistere crescita economica senza sicurezza. Come assicurare entrambi – un I maoisti delle aree tribali livello di sicurezza e benessere migliori – è una Di tutti i fenomeni terroristici che il governo di domanda a cui non è stata data una risposta soddiDelhi ha dovuto affrontare e controllare, forse il più sfacente. Nel frattempo questi fenomeni violenti non ostico e persistente è stato quello di stampo maoista. solo continuano, ma stanno aumentando. Parliamo dei gruppi che hanno imperversato nelle regioni centrali del Paese. Proprio in quelle zone che L’infezione jihadista non hanno beneficiato del rapido sviluppo economi- L’altra minaccia più importante e più vicina, in ordico che ha investito il resto dell’India. In effetti in ne a livello di pericolo, è senz’altro quella posta dal queste aree lo Stato non è riuscito a sconfiggere il terrorismo jihadista. Parliamo di elementi locali persistente degrado economico, lo sfruttamento cui come di pakistani appartenenti a diverse organizzaerano soggette le popolazioni tribali e l’ingiustizia zioni con base nel vicino Paese musulmano, nate sociale. La conseguenza diretta è stata la continua durante le operazioni ispirate e sostenute dagli amealimentazione dei fenomeni di ribellione e terroristi- ricani per la guerra afghana antisovietica. Parliamo ci da parte di questa fascia di popolazione locale. In dei Mujiahideen addestrati dal triumvirato di servizi pratica gli ideologi delle organizzazioni di stampo d’intelligence statunitense, pakistano e saudita per comunista non hanno fatto altro che sfruttare la combattere le truppe sovietiche in Asia centrale negli situazione, utilizzando delle istanze reali per gestire anni Ottanta. Dopo il ritiro delle truppe di Mosca e governare una rivolta contadina di carattere maoi- dall’Afghanistan, nel 1988, l’Inter-Service intellista. Lo scopo naturalmente era di ottenere potere gence pakistana continuò ad addestrarli, motivarli, politico. Il risultato perverso, da un punto di vista finanziarli, armarli e coordinarli, dirottando l’attenpolitico e culturale, è stato che questa gente si è con- zione di questi gruppi verso l’India, per metterli al vinta che fino a quando non fosse riuscita a compie- servizio della propria agenda strategica. Inizialmente re un passaggio “rivoluzionario”, cioè la sollevazio- Islamabad ha utilizzato queste formazioni nel J&K, ne della popolazione contadina, non avrebbe mai dove continuano ad operare, ma dal 1993 sono stati lentare la crescita economica indiana. L’obiettivo dichiarato nel Kashmir è dimostrato dalla continua fibrillazione che dal 1989 è spesso sfociata in rivolte e che, di recente, sta dando segnali di un’ulteriore crescita. E nel resto delle regioni indiane è alimentato da episodiche azioni terroristiche, per tenere accesa la fiamma delle divisioni religiose. Ma la volontà di frenare lo sviluppo economico del Paese – obiettivo non poco ambizioso – ha portato alla pianificazione di tre iniziative che potremmo definire di terrorismo di massa che miravano alla strage: è successo a Mumbai, la capitale economica dell’India. Episodi avvenuti nel marzo del 1993, nel luglio del 2006 e a novembre del 2008 e che hanno provocato ognuno più di cento morti. Non sono stati gli unici atti terroristici sponsorizzati da Islamabad a Mumbai, ma quelli che hanno fatto scorrere più sangue.

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dossier utilizzati anche in altre aree dell’India. Le agenzie della sicurezza di Delhi sono state capaci di affrontare la minaccia causata da questi gruppi jihadisti – sia di origine locale che quelli pakistani – molto meglio di quanto non avessero fatto contro le organizzazioni maoiste. Il motivo è che queste formazioni radicali di stampo religioso non sono riuscite a conquistare quel consenso che invece erano riuscite a fare le formazioni comuniste. Mentre la violenza nel J&K è paragonabile a quella provocata dalle rivolte maoiste dell’India centrale degli anni Novanta, l’attività terroristica degli jihadisti nel resto dell’India può essere considerata sporadica e senza un reale sostegno popolare. Il fallimento degli islamisti nel conquistare un seguito popolare sul territorio è bene illustrato dai risultati delle urne nelle ultime elezioni (quelle del 2009 che hanno portato alla vittoria Sonia Gandhi, ndr) in J&K e nel resto del Paese. Esito che ha reso chiaro come il tentativo degli estremisti islamici di dividere le comunità musulmane da quelle indù e di far deragliare il progresso economico del Paese sia fallito. L’India è infatti riuscita a mantenere un tasso di crescita del Pil intorno al sette per cento annuo, nonostante la spregiudicata politica del vicino di utilizzare il radicalismo religioso per creare problemi a Delhi. Un altro fattore che evidenzia il fallimento del fondamentalismo di marca pakistana è costituito anche dall’assenza di seguito che nell’ambiente del radicalismo religioso hanno avuto le organizzazioni legate ad Al Qaeda. La Base non è riuscita a mettere radici nelle comunità islamiche dell’India e neanche nelle regioni del Kashmir o in altre aree del Paese. E parliamo della terza comunità musulmana a livello mondiale, dopo quella dell’Indonesia e del Pakistan che ha rifiutato totalmente l’ideologia promossa dagli accoliti di bin Laden.

Lotta al terrorismo

La strategia antiterrorismo di New Delhi, come dicevamo, è stata molto più lineare nella lotta contro il radicalismo islamico che nel confronto con la guerriglia maoista. L’esercito ha il comando e la

La Cina e il Pakistan condividono la stessa agenda strategica sull’India: mantenere il Paese debole e instabile. Islamabad ha un ulteriore obiettivo da raggiungere: creare divisioni tra musulmani e indù e annettere lo Stato del Jammu e Kashmir a maggioranza islamica, specie in alcune zone della valle kashmira responsabilità di condurre le operazioni contro il terrorismo jihadista nello Stato di Jammu e Kashmir, mentre la polizia gestisce la guerra al terrore nel resto del Paese. Un elemento fondamentale di questo successo è stato l’atteggiamento della politica e della società civile che, avendo ben compreso come il problema avesse radici nel livello d’integrazione dei musulmani indiani, ha agito di conseguenza. Si è così evitato di alimentare il senso di alienazione di alcuni settori della comunità islamica. La maggior facilità d’accesso ad un moderno sistema scolastico ha fatto la gran differenza tra gli islamici indiani e quelli pakistani, perché ha tenuto molti giovani indiani lontano dalle madrasse. Parliamo d’istituzioni educative spesso tenute aperte grazie a un flusso di finanziamenti che provengono da Paesi come l’Arabia Saudita e il Kuwait. L’attacco del 26 novembre 2008 a Mumbai da parte di un gruppo di terroristi venuti dal mare e appartenenti all’organizzazione pakistana Lashkar-e-Toiba (Let) ha messo a nudo alcune fragilità della struttura dell’antiterrorismo di New Delhi. Inadeguate capacità nella raccolta preventiva d’informazioni per il lavoro d’intelligence, scar35


Per affrontare sia il terrorismo che la guerriglia la pazienza è un’arma vincente e l’eccesso di reazione è sempre controproducente. Lasciateci continuare sulla strada dell’efficienza. Sapremo essere fermi, ma non inflessibili, com’è accaduto con il Pakistan sa attitudine nella protezione fisica di infrastrutture sensibili e un meccanismo di reazione generale inadeguato, sono alcuni degli aspetti emersi. Palanappian Chidambaram fu nominato ministro degli Interni appena dopo l’attentato del 26/11. Da quel momento avviò una forte politica di rinnovamento della macchina della sicurezza, lavorando molto sul coordinamento fra le varie branche delle agenzie, ma non solo. Anche il migliore coordinamento tra le strutture indiane e quelle statunitensi ha portato ad un netto miglioramento dei risultati per l’India. Anche se le pressioni politiche di Washington su Islamabad, affinché rinunciasse all’utilizzo del terrorismo per la propria agenda strategica, non ha ancora prodotto i risultati sperati. Ma ha reso, almeno apparentemente, le agenzie pakistane molto più caute e attente nel pianificare operazioni contro l’India.

L’alleato americano

Un risultato dell’azione americana su Islamabad è stato che, dall’evento del 26/11 – fatta esclusione per due attentati di media intensità a Pune (febbraio 2010, tra le nove vittime anche un’italiana) e Benares (dicembre 2010, esplosione davanti a un tempio indù) – non ci sono state più azioni violente

di una certa importanza degli jihadisti. E il successo del lavoro delle agenzie indiane si è potuto vedere bene nel regolare svolgimento di due eventi sportivi di grande rilievo: i giochi del Commonwealth dell’ottobre 2010 a New Delhi e la Coppa del mondo di cricket che è stata giocata in strutture sparse in tutto il Paese, da febbraio a marzo di quest’anno. È importante sottolineare che qualsiasi campagna antiterrorismo non potrà sortire gli effetti sperati senza un coinvolgimento diretto del Pakistan. Cioè finché Islamabad non deciderà di smettere di utilizzare il radicalismo religioso come un arma strategica contro lo Stato indiano. Non ci sono indicazioni sul cambio d’atteggiamento e sulle tattiche da parte delle autorità pakistane a questo proposito, eccetto che per l’ovvia cautela a seguito delle rivelazioni, fatte grazie al lavoro d’intelligence indiano e statunitense, sul coinvolgimento dell’Isi nell’operazione terroristica di Mumbai. Serve una politica mista d’incentivi e disincentivi, studiati per essere utilizzati in parallelo e singolarmente da Washington e Delhi. Un esempio d’incentivo è l’azione perseguita dal nostro primo ministro, Manmohan Singh, per incrementare le relazioni intergovernative con il Pakistan. Nonostante un’opinione pubblica indiana ancora fortemente influenzata dal coinvolgimento dei servizi d’intelligence dello Stato vicino negli attentati nella capitale economica del Paese. Anche il costante e consistente flusso di finanziamenti e aiuti militari dall’America verso Islamabad, nonostante le prove evidenti del ruolo svolto dall’Isi, sono da considerare come incentivi per spingere il governo pakistano ad abbandonare l’uso del terrorismo. Mentre gli incentivi sono stati molti, i disincentivi – sia da parte indiana che statunitense – sono stati veramente pochi. Sia l’esercito che l’Isi continuano a pensare di poterla fare franca con le covert operation terroristiche sia in India che in Afghanistan. Hanno calcolato, in maniera più giusta che errata, che il ruolo svolto dal popoloso Stato islamico, nel garantire la sicurezza interna degli Stati Uniti, avrebbe


dossier scoraggiato il governo di Washington nell’applicazione concreta di politiche disincentivanti e avrebbe spinto gli americani a premere affinché anche Delhi li seguisse sulla medesima strada.

Quale strategia?

È una situazione che lascia l’India davanti a uno sgradevole dilemma. Dovrebbe varare una propria politica di disincentivi, non tenendo conto della preoccupazioni e delle preferenze americane? E se lo facesse, sarebbe efficace in vista del sempre maggior coinvolgimento militare e d’intelligence degli americani in Pakistan? E se l’India dovesse imbarcarsi in una politica autonoma di disincentivi, quanto questo danneggerebbe le iniziative di pace e la politica d’apertura del primo ministro? Sarebbe opportuno continuare a esercitare l’arte della pazienza, per poter dare agli incentivi la possibilità di essere efficaci? Queste sono domande che vengono continuamente dibattute dagli analisti e dai responsabili politici indiani, senza che siano mai state trovate le risposte giuste. In India l’approccio più comune è quello di essere ipercritici rispetto al proprio Paese e tendenzialmente pessimisti rispetto alla soluzione dei problemi. Critichiamo sempre la nostra condotta e quella della nostra polizia. Ci battiamo continuamente il petto per i nostri cosiddetti fallimenti. Tendiamo a dimenticare che la nostra tabella di marcia nella lotta contro il terrorismo e la guerriglia non è affatto male. Abbiamo avuto degli ottimi risultati nel Nagaland, nel Mizoran, nel Tripura, nel Punjab e nel Tamil Nadu. E non ci stiamo comportando male nella lotta allo jihadismo sia nel J&K che nelle altre parti del Paese. Abbiamo registrato successi contro la guerriglia maoista nell’Andhra Pradesh e un po’ meno in altre zone. Terroristi e insorgenti, da parte loro, hanno ottenuto qualche “successo”. Come nel giugno del 1985, quando fecero esplodere una bomba a bordo in volo dell’Air India (un Boeing 747 intitolato all’imperatore Kanishka). Oppure le tre azioni di terrore di massa avvenute a

Mumbai e il massacro da parte dei maoisti di 76 poliziotti a Dantewada, tanto per citarne alcuni. Ma fin dal 1947, quando l’india divenne indipendente, nessuna politica terroristica ha mai ottenuto dei successi strategici. Alla fine lo Stato indiano e i propri apparati di sicurezza hanno prevalso, nonostante alcune battute d’arresto dal punto di vista tattico. Non hanno mai permesso che prevalesse il senso di “stanchezza” nei ranghi dello Stato, ma che ciò avvenisse tra le fila dei terroristi. Non abbiamo mai ceduto a richieste illegittime di carattere strategico da parte delle organizzazioni del terrore e dei gruppi ribelli, anche quando abbiamo ceduto, da un punto di vista tattico, ad alcune richieste, come nel caso del dirottamento aereo a Kandahar nel dicembre del 1999. Questo è un risultato unico di cui l’India e i suoi cittadini posono andare orgogliosi. Permetteteci di criticare da ogni punto di vista le nostre forze di sicurezza, la polizia e la classe politica, perché molto hanno di cui rispondere. Ma non dobbiamo lasciare che lo spirito critico si trasformi in disfattismo. Questo è ciò che il Pakistan e le organizzazioni a esso legate vorrebbero. Uno Stato “ideale” non avrebbe permesso che al proprio interno potessero nascere fenomeni per la disarticolazione del Paese. Ma una volta apparsi sulla scena questi movimenti violenti hanno impegnato gli apparati di sicurezza per un tempo molto lungo. Un’analisi su questi fenomeni a livello mondiale sottolinea come il tempo medio per fare fronte a queste minacce sia di 15-20 anni. Anche in India è servito lo stesso tempo. Per affrontare sia il terrorismo che la guerriglia la pazienza è un’arma vincente e l’eccesso di reazione è sempre controproducente. Lasciateci continuare dunque sulla strada dell’efficienza. Sapremo essere fermi, ma non inflessibili, com’è accaduto con il Pakistan. Pur mantenendo il contatto con gli umori dei nostri cittadini, alimentati anche dalla rabbia, saremo pazienti sia con il terrorismo che con Islamabad, ma non devono esserci dubbi sul fatto che alla fine a vincere sarà l’India. 37



dossier VUOLE TENERE TESTA A PAKISTAN E CINA, MA ASPIRA A DIVENTARE POTENZA REGIONALE

UN GIGANTE ARMATO FINO AI DENTI DI •

S

ANDREA NATIVI

e si parla con un generale pakistano in termini di minaccia strategica, invariabilmente indicherà l’India e non i talebani come il pericolo più grave e imminente. Se fate la stessa domanda ad un parigrado indiano, punterà il dito sulla Cina. I due colossi demografici asiatici hanno molto in comune, anche le mire egemoniche e si “marcano” stretti. Ed è l’India

ovviamente ad essere più preoccupata, mentre a Pechino non va certo giù la strategia di “contenimento” e alleanze in chiave anti-cinese che gli Usa stanno creando nella regione, nella quale l’India ha un ruolo speciale, come conferma la disponibilità statunitense a vendere a Delhi le più avanzate tecnologie militari. Ma le ambizioni dell’India vanno ben al di là dell’acquisizione del meglio che si può trovare nel mercato della difesa. Delhi vuole infatti acquisire gradualmente una indipendenza strategica nella produzione di armamenti e non solo per soddisfare le esigenze nazionali, ma anche per conquistare una fetta crescente del mercato export. L’obiettivo sbandierato è quello di arrivare ad una capacità di soddisfare almeno il 70% delle proprie esigenze militari con prodotti e tecnologie realizzati localmente. Peraltro questo sforzo ha prodotto finora risultati solo parzialmente positivi, a causa di inefficienze strutturali e di aspettative e pretese eccessive, che hanno afflitto moltissimi dei programmi autarchici. Inoltre la normativa protezionistica indiana non favorisce la competizione interna e, pur richiedendo spesso trasferimenti massicci di tecnologie come condizione per scegliere un prodotto straniero, non consente poi ai gruppi industriali stranieri di realizzare joint venture con aziende locali, se

non relegando il partner estero ad un ruolo di minoranza, che non consente di “proteggere” né le tecnologie né gli investimenti e rende quindi problematica la cooperazione. E proprio per questo l’India continua ad acquistare all’estero, sistemi off the shelf, oppure ottimizzati per le sue esigenze e cercando comunque di diversificare i fornitori, si da non avere una dipendenza strategica da nessuno. Peraltro il modo indiano di “fare la spesa” è piuttosto curioso, nel senso che come in tanti Paesi le gare sono spesso interminabili e quando si pensa di essere arrivati alla fine… ecco che tutto può essere cancellato e si deve ricominciare da capo. Un giochetto che costa tanti soldi agli aspiranti venditori. Tra l’altro il tema della spesa militare è sempre politicamente molto “caldo” e viene regolarmente utilizzato da partiti di governo ed opposizione come arma di scontro, con accuse incrociate di corruzione e di distorsione delle gare. Tutto questo poi porta a mettere all’indice questo o quel fornitore per lungo tempo, anche per anni in qualche caso. E poi l’India non sempre acquista in modo razionale, frequentemente finisce per affastellare una serie di sistemi differenti che svolgono più o meno la stessa funzione, con conseguenze estremamente negative sull’efficienza, sull’addestramento, sui 39


Risk costi di supporto logistico. Diversificare è positivo, ma va fatto cum grano salis. Peraltro i soldi non mancano e quindi fino ad un certo punto gli “errori” si possono perdonare, così come le normative bizantine e le procedure complicate e lunghissime. Tutti i maggiori produttori di sistemi di difesa considerano l’India come uno dei mercati più importanti e, supportati dai relativi governi, si danno battaglia senza esclusione di colpi per conquistare la fetta di una torta che rima-

L’India continua a dedicare significative risorse alla spesa militare, anche grazie ad una economia in continua espansione. Il bilancio per il 2011 prevede un incremento del 12 per cento rispetto a quello dell’anno precedente e porta la spesa militare a 36,5 miliardi di dollari ne comunque immensa. L’India infatti continua a dedicare significative risorse alla spesa militare, grazie anche ad una economia in continua espansione. Il bilancio per il 2011 prevede un incremento del 12% rispetto a quello dell’anno precedente e porta la spesa militare a 36,5 miliardi di dollari. Peraltro va anche tenuto conto che in India l’inflazione galoppa ad oltre il 9% all’anno (13% tendenziale), quindi buona parte degli aumenti è eroso dalla inflazione, e quella “militare” poi è anche più elevata di quella ufficiale. Ecco perché il ministero della Difesa ha chiesto di portare la spesa militare al 3-3,5% del Pil, il che 40

significherebbe… un raddoppio rispetto ai livelli attuali, perché proprio perché il Pil indiano continua ad aumentare (crescita dell’economia nel 2010 è del 9,7%) la pur elevata spesa militare oggi è pari ad appena l’1,83% del Pil. In teoria l’India potrebbe quindi spendere qualcosa di più senza che si possa sostenere che il Paese ha avviato una corsa agli armamenti, però è improbabile che le richieste dei militari siano accolte. Perché l’India delle contraddizioni deve anche conciliare le aspirazioni di grandeur e la competizione con la Cina con i gravi problemi economici domestici e una situazione di sicurezza interna tutt’altro che… serena: le forze di polizia infatti si trovano a fronteggiare non solo fenomeni terroristici, ma anche vere e proprie guerriglie (ben nota quella di ispirazione maoista) e non è il caso di gettare benzina sul fuoco aumentando il malcontento nei confronti delle autorità centrali. Il tasso di povertà è infatti al 25% e il Pil pro capite è di 3.300 dollari (contro i 7.500 dollari della Cina). Peraltro non è che i generali indiani possano lamentarsi troppo, potendo contare su stanziamenti crescenti, che vengono poi scanditi da piani finanziari quinquennali della difesa: si sta concludendo l’11° Piano e il 12° porterà un ulteriore balzo in avanti nelle capacità militari del paese. La pianificazione corrente prevede una spesa di 30 miliardi di dollari per acquisizione di sistemi d’arma tra il 2007 e il 2017, con altri 50 miliardi di dollari di investimenti messi in bilancio fino al 2022, quando si concluderà il 13° Piano quinquennale. Oltre ai soldi l’India ha anche una potenza demografica tutt’altro che trascurabile: la popolazione è di quasi 1,2 miliardi di abitanti (contro 1,3 miliardi per la Cina), pertanto gli 1,2 milioni di uomini sotto le armi sono perfettamente sostenibili. E si tratta di una forza composta esclusivamente da professionisti e volontari. Al personale direttamente dipendente dalle Forze Armate si aggiungono poi consistenti forze paramilitari e di confine, compresi reparti di elite, come le Special


dossier Frontier Force, il cui personale è interamente qualificato all’aviolancio, che contano decine di migliaia di uomini. L’India è una potenza nucleare ed ha creato una propria dottrina specifica (che per certi aspetti richiama quella statunitense), con una ben definita catena di comando che ha al vertice la Nuclear Command Authority e quindi le autorità civili. In particolare è il Primo Ministro che guida il Concilio Politico che può autorizzare l’impiego delle armi. L’esecuzione di questi ordini è diretta da una serie di centri di comando, ridondanti, che sono diventati operativi già dal 2003. L’India è impegnata a non impiegare armi nucleari se non in risposta ad un attacco nucleare (o condotto con armi di distruzione di massa), ma in caso di attacco procederà ad una “risposta massiccia” e devastante. Per ora l’India non ha costituito una forza nucleare “interforze” perciò i vettori e le testate sono distribuiti tra le diverse forze armate. L’Esercito, che è la forza armata più importante, controlla i missili balistici a gittata intermedia Agni III da 3.500 km, affiancati dagli Agni II ed I. Tutti i vettori sono montati su lanciatori mobili trasportati su treni e speciali veicoli per aumentare la capacità di sopravvivenza. L’India sta anche lavorando allo sviluppo di un missile balistico intercontinentale con una gittata di 10.000 km. Altri missili balistici a gittata inferiore sono i Prithvi, ma questi dovrebbero essere impiegati solo per missioni convenzionali. Altre armi nucleari sono affidate ai velivoli dell’aeronautica, ma si tratta per ora di bombe a gravità, in futuro però ci saranno anche missili da crociera. Perché l’India intende sviluppare l’intera “triade” di vettori nucleari, basati quindi a terra, su velivoli e su unità navali, in modo da assicurare la sopravvivenza di almeno una parte del deterrente anche in caso di attacco massiccio. In campo navale l’obiettivo è quello di realizzare un sottomarino a propulsione nucleare (Ssbn) capace di trasportare e lanciare missili balistici, i Sakariga, con una

gittata di circa 700 km. Un primo battello è stato varato nel 2009 e dovrebbe diventare operativo nel 2015, con la capacità di portare 4 missili. Sono previste altre due unità, mentre una seconda classe di Ssbn comprendente 6 unità più sofisticate è prevista a medio termine. E parallelamente allo sviluppo del deterrente nucleare, l’India sta anche costruendo la propria versione di “scudo antimissile”, che comprenderà un sistema di allarme lancio missili e poi una serie di sistemi di intercettazione in grado di colpire i missili balistici nemici prima che possano “recapitare” il loro carico. Si tratta di un sistema stratificato, con diversi tipi di intercettore, che ha l’obiettivo di poter contrastare per lo meno missili balistici a medio raggio, il che vuol dire non solo le armi pakistane, ma anche una parte di quelle cinesi. La Cina per ora non ha capacità concrete di difesa antimissile, ma in compenso ha un arsenale nucleare molto più consistente. Però l’India oltre alla “lancia” avrà anche lo “scudo”, qualcosa che solo gli Usa, Israele ed in parte la Russia possono eguagliare.

Per quanto riguarda le forze convenzionali,

l’India attribuisce la massima priorità all’esercito, il che del resto è legato a ragioni geografiche, alla estensione del territorio (3,3 milioni di chilometri quadrati), ai confini condivisi con il Pakistan e con la Cina. Tradizionalmente l’India conta sulla forza dei numeri, e quindi l’esercito ha poco meno di 1 milione di uomini, ai quali poi vanno aggiunti in caso di mobilitazione i riservisti, ben 300.000 nella riserva di rapido richiamo ed altri 300.000 in quella di seconda linea, senza contare altri 40.000 uomini dipendenti dall’Esercito Territoriale. Una massa immensa di personale. Ma anche considerando che le retribuzioni dei militari indiani sono… ragionevoli, mantenere un numero così elevato di militari sotto le armi, volontari e professionisti, erode sostanzialmente l’ammontare delle risorse disponibili per l’ammodernamento e il pro41


Risk gresso tecnologico. Perché tutti questi soldati devono essere non solo stipendiati, ma anche equipaggiati, alloggiati ed addestrati. Ora è vero che l’India riesce a dedicare all’investimento una quota che sfiora il 40% degli stanziamenti per la Difesa, una percentuale persino più elevata di quella considerata teoricamente ottimale nella ripartizione delle risorse tra operazioni/funzionamento, personale ed investimento. Tuttavia, anche considerando che la stessa Cina sta procedendo ad abbandonare la vecchia concezione “dell’esercito di popolo”, si sta facendo strada la consapevolezza che una riduzione del personale e dei reparti consente di aumentare il tasso di capitalizzazione, l’investimento pro capite e quindi di ottenere un “prodotto” superiore in termini di capacità operative ed efficienza. Ecco quindi il piano volto a procedere ad un taglio sostanziale degli effettivi, che potrebbe arrivare al 20-25% del totale, per accelerare la modernizzazione. Un’operazione che verrà condotta gradualmente, intervenendo sui reclutamenti e sul turn-over. Ad oggi però l’esercito ha ancora una struttura relativamente tradizionale, con 5 Comandi Regionali dai quali dipendono 12 Corpi d’Armata, che controllano 3 divisioni corazzate, 22 di fanteria, 10 da montagna, 13 brigate indipendenti, più brigate di artiglieria, difesa aera e genio. Oltre alla riduzione degli organici l’esercito sta anche conducendo una ristrutturazione dei reparti, per aumentarne mobilità, potenza di fuoco e livello di prontezza operativa. Ad esempio 4 divisioni di fanteria hanno ora una nuova struttura, secondo il concetto Rapid, che ha portato ad includere una brigata di fanteria meccanizzata. Inoltre sarà costituita una forza strategica di intervento rapido che potrà contare su ben 30.000 uomini. Ed è anche in corso la costituzione di un Comando per le Operazioni Speciali, che diventerà un ente parzialmente indipendente, un po’ come accade negli Stati Uniti, dove ormai le Forze Speciali sono diventate un’organizzazione largamente autonoma e interforze. 42

Per ora il nuovo comando ha lo stesso rango dei comandi regionali, ma si tratta di una soluzione non definitiva. Per quanto riguarda i materiali… c’è di tutto, di più, ma non sempre di grande qualità, proprio a causa dei problemi di procurement, che portano a privilegiare i progetti nazionali anche quando questi sono afflitti da ritardi e problemi tecnici. Basta pensare al “parco” carri da battaglia, che comprende quasi 1.700 carri della famiglia T-72, che avrebbero dovuto essere affiancati e sostituiti dall’ Arjun nazionale, il quale è entrato in servizio con anni di ritardo. Nel frattempo il Pakistan ha otte-

Visto che in Asia un po’ tutti stanno acquistando armi e armamenti ed hanno ambizioni di crescita… lo scenario che si va a delineare con un orizzonte di medio termine non è propriamente molto pacifico. Chi compra armi pensa di doverle impiegare. E non è un caso se per gli Usa il Pacific Rim è diventato il teatro strategico militare più importante nuto oltre 300 T-80 ucraini, ben superiori ai T-72. Si è dovuto correre ai ripari, acquistando in Russia 300 T-90S che continuano ad essere prodotti localmente, per arrivare ad un totale di almeno 1.000 unità. E intanto l’esercito è stato “costretto” a dire che però l’Arjun migliorato non è poi tanto male e pertanto ne acquisterà un congruo quantitativo. Un altro esempio dei “pasticci” indiani è rappre-


sentato dal settore delle artiglierie, dove c’è una incredibile pluralità di tipi e modelli e le gare si trascinano, dopo che anni fa uno “scandalo” colpì l’acquisizione di ottimi obici svedesi. Ora sembra che sia la volta buona per acquistare un moderno pezzo d’artiglieria leggero da 155 mm… e un pezzo a lunga gittata sempre da 155 mm, anche semovente, ma mai dire mai. Per quanto riguarda la difesa contraerei i prodotti russi costituiscono il grosso delle capacità, con sistemi spalleggiabili, mobili di vario tipo. Si sta introducendo anche un nuovo sistema “locale” l’Akash, del quale si dicono meraviglie. Ma chissà se sarà vero. Problemi analoghi anche per l’aviazione dell’esercito, con le gare per selezionare un nuovo elicottero leggero protrattesi per anni, poi giunte ad aggiudicazione, cancellate e riavviate. E con l’esercito che deve dirsi contento intanto dell’elicottero nazionale Dhruv, affibbiato anche all’aeronautica. L’India ha grandi ambizioni in campo navale, che aumentano a mano a mano che la Cina conferma di voler costruire una potente marina d’alto mare con gruppi da battaglia basati su portaerei e su un numero crescente di sottomarini a propulsione nucleare e convenzionale. L’India è una nazione la cui economia dipende dai traffici marittimi e dalla libertà di navigazione e quindi ha bisogno crescente di una marina di primo rango. Le forze navali contano su 55.000 uomini compresi 6.000 uomini dell’aviazione navale e un migliaio di Marines (e il potenziamento della componente anfibia è una delle priorità, mentre si sta costituendo una forza anti-terrorismo con 1.000 uomini e 80 unità veloci da intercettazione), ai quali si aggiungono 15.000 uomini nella Guardia Costiera. Il personale civile comprende quasi 40.000 uomini e questo spiega chi si occupa di far funzionare e mantenere in servizio buona parte dei mezzi navali. Gli ambiziosi piani della marina prevedono nel lungo termine la costituzione di due gruppi navali basati su portaerei, un totale di 125 unità di superficie e una flotta subacquea che non deve contare


Risk meno di 24 battelli. Si tratta di un programma davvero colossale… e potrebbe essere ancora ampliato. Intanto la marina si prepara a ricevere, dopo interminabili liti con i cantieri russi e ritardi immensi la portaerei Vikramaditya, ottenuta per conversione di una vecchia portaerei media russa, cosa che consentirà di mandare in pensione una decrepita portaerei ex Royal Navy. Poi è in costruzione una portaerei media da 38.000 tonnellate, realizzata localmente (con contributo di Fincantieri) che dovrebbe essere pronta per il 2015 e alla quale seguiranno altre due unità. Le portaerei ovviamente vanno scortate e quindi servono cacciatorpediniere lanciamissili. Oggi ci sono 3 Delhi e 5 unità di derivazione russa. I piani prevedono 3 Delhi migliorati e poi altre 4 unità di nuova generazione. Sono russe anche le fregate più moderne, le Talwar, delle quali sono previste altre 3 unità in aggiunta alle 3 già in servizio, mentre si procede alla costruzione delle unità Progetto 17 di design locale, 3 unità, con altre 3 migliorate già in progettazione. Si potranno così mandare in pensione una decina di unità ormai superate. Il nucleo principale della flotta comprende una consistente forza di sottomarini con 4 unità di produzione tedesca e 10 battelli tipo Kilo di produzione russa, ai quali si aggiungeranno 6 nuovi Scorpene francesi. Altri 12 battelli sono in programma. Tra l’altro va segnalata l’abilità di Parigi, che è riuscita a vendere sottomarini sia all’India sia al Pakistan. L’India poi vuole costruire sottomarini nucleari d’attacco ed intanto ha noleggiato per 10 anni un battello russo classe Akula II. Da segnalare che tra le unità per supporto logistico ci sono due rifornitori di squadra realizzati da Fincantieri. La Marina tradizionalmente ha fatto affidamento su progetti, tecnologie ed armamenti russi, ma da tempo è in corso una diversificazione e così le navi indiane sono spesso dei “patchwork” di sistemi, apparati e scafi realizzati da diversi fornitori e/o prodotti localmente. E non sempre queste inte44

grazioni danno i risultati sperati. L’aviazione navale indiana conoscerà una forte espansione dal momento che dovrà fornire i velivoli per ben tre portaerei. I velivoli prescelti sono i MiG-29 russi, almeno per il momento, poi si spera di poter utilizzare la versione navale del caccia leggero nazionale Tejas. La maggior parte dei velivoli è di produzione russa, ma la situazione sta cambiando, a partire dall’acquisizione di 8 modernissimi velivoli da pattugliamento statunitensi P-8 Poseidon ai quali si affiancheranno velivoli da pattugliamento medio. Se la marina crescerà molto e in fretta, l’aeronautica è già molto consistente, con ben 150.000

Le capacità militari che sta costruendo non sono certo esclusivamente difensive, ma in larga misura sono finalizzate alla proiezione di potenza. Basta guardare ai programmi navali ed aeronautici e alle iniziative dell’esercito relative a forze di intervento rapido uomini e centinaia di aerei da combattimento, ma cambierà volto, perché buona parte delle linee di volo è o sarà ammodernata e potenziata. L’obiettivo è quello di schierare per il 2022 una forza da combattimento comprendente una quarantina di squadroni e tra 700 ed 800 jet. Il che secondo i pianificatori indiani è appena sufficiente, visto che l’aeronautica si dovrà confrontare con i 1.500-2.000 aerei da combattimento discretamente moderni che Cina e Pakistan potranno mettere in campo per quell’epoca. Una stima della


dossier minaccia probabilmente troppo pessimistica, ma che giustifica i programmi di potenziamento. Anche in questo caso gli investimenti saranno astronomici, perché oltre a introdurre in servizio velivoli di ultima generazione e ad aumentare la consistenza complessiva di reparti e organici occorre mettere ordine in un guazzabuglio di modelli che comprende oltre una trentina di tipi tra aerei ed elicotteri, molti dei quali sono ormai superati e logorati. Si tratta di un incubo logistico, che comporta costi di funzionamento altissimi e una bassa efficienza. A questo si aggiunge un sistema di formazione ed addestramento dei piloti a dir poco carente, che spiega gli altissimi tassi di incidenti, con perdita di velivoli costosi e di costosi… equipaggi. Oggi molti squadroni dell’aeronautica sono al di sotto della forza prevista perché… mancano gli aerei. I caccia MiG-21 non ammodernati andranno tutti fuori servizio entro la fine del 2011 o nel 2012. Gli aerei più moderni in servizio sono i Su-30 di produzione russa e costruiti su licenza. In tutto diventeranno 250-270. L’aeronautica poi prevede di modernizzare altri tipi di aerei da combattimento: i vecchi Jaguar britannici, i Mirage 2000 francesi, i MiG-29 e i MiG-27 russi da attacco. Tutto questo per guadagnare tempo mentre entrano in servizio i primi caccia leggeri Lca prodotti localmente (dall’avvio del programma alla prima capacità operativa sono passati 28 anni…) che dovrebbero diventare 150 e in attesa che venga scelto un nuovo caccia multiruolo, definito Mmrca da acquistare in 126 (che diventeranno 200) esemplari. Più in avanti arriverà la versione “indiana” nel nuovo caccia pesante russo T-50, con una previsione di 250-300 esemplari. Intanto l’India acquista velivoli radar russi ed aerei da trasporto statunitensi (sia i grandi C-17 da trasporto strategico sia i C-130J da trasporto tattico e in futuro anche aerei più piccoli, come gli italiani C-27J). Ammodernamento anche per la linea velivoli da addestramento, con gli Hawk britannici prodotti localmente, mentre, al solito, i velivoli realizzati

localmente per l’addestramento basico sono in ritardo o inadeguati. Il rinnovamento riguarda anche le linee elicotteristiche, tradizionalmente appannaggio dei produttori russi, che ora rischiano di essere scalzati dall’Italia (che ha ottenuto un primo successo con l’AW-101 per trasporto Vip e personale), dagli Stati Uniti e dal produttore europeo Eurocopter. Diverse gare sono in corso. Tutta da modernizzare anche la difesa aerea: i sistemi missilistici russi sono in larga misura superati. La Russia cerca di difendere le proprie posizioni sul mercato indiano, dove un tempo era il primo fornitore, visto che si aggiudicava il 70% dei contratti, in termini di valore. Ma questa quota è ormai un sogno lontano. Mosca rimane un partner e un venditore strategico, ma non è più il dominus. Lo conferma proprio il programma di ammodernamento dei sistemi contraerei: una prima risposta è venuta con l’acquisizione di sistemi israeliani e a questi è seguita l’introduzione di batterie di sistemi Akash realizzati in India. In conclusione il gigante asiatico è “costretto” ad armarsi fino ai denti per tenere testa a Pakistan e Cina, ma ha a sua volta l’aspirazione di diventare potenza regionale. Le capacità militari che sta costruendo non sono certo esclusivamente difensive, ma in larga misura sono finalizzate alla proiezione di potenza, basta guardare ai programmi navali ed aeronautici e alle iniziative dell’esercito relative a forze di intervento rapido. E visto che in Asia un po’ tutti stanno acquistando armi e armamenti ed hanno ambizioni di crescita… lo scenario che si va a delineare con un orizzonte di medio termine non è propriamente molto pacifico. Chi compra armi pensa di doverle impiegare. E non è un caso se per gli Usa il Pacific Rim è diventato il teatro strategico-militare più importante. Washington spera che Delhi diventi uno dei suoi partner principali nella regione. E all’India una collaborazione (con rispetto reciproco) con gli Usa non dispiace, a dispetto della relazione che gli Usa mantengono con il Pakistan. 45


il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…

…questo lo fa solo liberal Tutti i giorni in edicola Edizioni de L’Indipendente s.r.l. via della Panetteria, 10 • 00187 Roma Abbonamenti 06.69924088 • fax 06.69921938 Semestrale 65 euro • Annuale 130 euro


dossier NEL 2010 L’INDIA È DIVENTATO IL PRIMO IMPORTATORE DI SISTEMI D’ARMA AL MONDO

IL MERCATO DELLA DIFESA (E L’ITALIA) DI •

L’

ALESSANDRO MARRONE

onda lunga della crescita economica e politica indiana si avverte anche nel settore della difesa. L’India ha avviato infatti grandi programmi di ammodernamento delle proprie forze armate che comportano significativi investimenti in diversi campi, spesso su piattaforme e sistemi ad alto contenuto tecnologico. Le dimensioni quantitative e qualitative della

modernizzazione militare fanno dell’India un mercato potenziale molto importante per le maggiori industrie della difesa, incluse quelle italiane. Nel 2010 l’India è diventato il primo importatore di sistemi d’arma al mondo, superando la Cina. Il sorpasso è avvenuto anche grazie al fatto che Pechino sta investendo massicciamente sullo sviluppo di una industria nazionale della difesa che permetta l’affrancamento dalle forniture estere. Nel frattempo il trend del procurement militare indiano è in costante espansione. Forte di un tasso annuo di crescita del Pil tra il 7% e il 9%, il bilancio della difesa indiano in dieci anni è aumentato del 250% passando dai 13,9 miliardi di dollari del 1999 ai 38,3 miliardi del 2009 (3,1% del Pil). Considerando che l’India acquista in media il 70% dei propri sistemi d’arma all’estero, è evidente l’ampiezza del mercato potenziale per industrie straniere. Un mercato tradizionalmente appannaggio dell’industria della difesa sovietica, per decenni interessata a sostenere militarmente l’India, tanto quanto la Cina lo è stata rispetto al Pakistan. La fine della Guerra Fredda, la globalizzazione e i nuovi legami economici mondiali hanno cambiato, ma non del tutto, questo quadro. Finita l’epoca dei paesi “non allineati”, i rapporti tra India e Stati Uniti sono migliorati costantemente, con importanti risvolti ad esempio nel campo

del nucleare civile. Nel campo della difesa e della cooperazione militare l’India ha mostrato interesse verso paesi occidentali come Francia, Gran Bretagna, Italia e Israele con cui sono stati avviati contatti a vari livelli, mentre c’è stato uno sforzo politico-diplomatico indiano per migliorare i rapporti con la Cina e il Pakistan. Per quanto riguarda l’Italia, gruppi di lavoro bilaterali tra alti funzionari dei rispettivi ministeri della Difesa sono regolarmente attivi sin dal 2001, mentre i contatti politici si sono intensificati con la visita in India nel 2007 dell’allora presidente del Consiglio Prodi e del ministro della Difesa Parisi. Negli ultimi anni una delegazione politica e militare italiana, a livello di Sottosegretario alla Difesa e di Direttore Nazionale Armamenti o Capo di Stato Maggiore, è sempre stata presente al salone annuale DefExpo indiano, mentre frequenti sono le visite di ufficiali indiani in Italia, ad esempio quella sulla nave Cavour. Al tempo stesso la tradizionale cooperazione nella difesa tra India e Russia è rimasta molto forte, come dimostra il varo ufficiale del primo sottomarino a propulsione nucleare indiano Arihant nel luglio 2009: tecnici e ufficiali russi hanno lavorato per anni nei cantieri navali indiani, costruiti negli anni ’70 anch’essi con l’assistenza sovietica. Non a caso, nel 2009 l’India ha acquistato in leasing dalla Russia un sottomarino di classe Akula II per addestrarvi gli 47


Risk equipaggi che ruoteranno sull’Arihant. Gran parte dei sistemi d’arma indiani di derivazione sovietica sono diventati però obsoleti, e, nell’effettuare una necessaria quanto massiccia opera di modernizzazione, l’India guarda sempre di più alle industrie della difesa europee e nord americane. Il governo indiano, come quello cinese, brasiliano o di altri paesi emergenti, non punta all’acquisizione sic et simpliciter di sistemi d’arma prodotti all’estero, ma piuttosto alla produzione su licenza sul territorio nazionale e/o allo sviluppo congiunto di ciò che si va ad acquistare. Ciò implica significativi offset, che nel caso dell’India vanno da un minimo stabilito per legge del 30% a casi del 50%, con le relative ricadute occupazionali e soprattutto un trasferimento di tecnologia da parte delle industrie straniere verso quelli indiane. A questo fine si realizzano anche joint venture ad hoc tra le imprese locali e quelle estere, ad esempio AgustaWestland e Tata hanno dato vita alla società Indian Corporate Ltd. In questo modo il governo indiano nel breve periodo punta ad alimentare la crescita economica nazionale anche tramite l’industria della difesa, e nel lungo periodo lavora per sviluppare una capacità industriale autonoma. La Cina è molto più avanti su questa strada, ma l’India possiede già ottime capacità civili nel settore dei servizi e dell’alta tecnologia, che continuano ad attrarre la delocalizzazione di grandi imprese americane, che possono contribuire anche all’industria nazionale della difesa. Per quanto riguarda i grandi gruppi occidentali, cooperazioni del genere in un certo senso rappresentano un’arma a doppio taglio, in quanto, sebbene redditizie nel breve periodo, pongono le condizioni per la crescita di futuri competitori industriali. Tuttavia la cooperazione con i paesi emergenti in funzione dell’export e della penetrazione commerciale rimane una strada obbligata per le industrie europee, anche alla luce della stagnazione e delle possibili riduzioni dei bilanci della difesa del Vecchio Continente al fine di ridurre deficit e debito pubblico. Senza una forte presenza in mercati come quello indiano non vi sarebbero, infatti, i numeri necessari, in termini di acquisti e 48

produzione, per mantenere capacità tecnico-industriali indispensabili alle esigenze degli stessi paesi di origine, nonché di realizzare economie di scala che permettano di frenare l’aumento dei costi di produzione di prodotti tecnologicamente sempre più avanzati. La soluzione è, quindi, quella di mantenere un vantaggio tecnologico nei confronti di questi nuovi potenziali competitori. Questa situazione riguarda anche l’industria italiana della difesa. Basti pensare che nell’ultimo quinquennio Finmeccanica ha ricevuto in media 250 milioni di euro di ordinativi l’anno dall’India, cifra che si pensa raddoppierà entro il 2014. Le principali aziende italiane attive da più tempo in India sono Selex Communications, Alenia e Agusta Westland. La prima è presente sul mercato indiano da 15 anni, in alcuni casi in collaborazione con la Hindustan Aeronautics Ltd (Hal) di Bangalore, fornendo sistemi ricetrasmittenti e sistemi di navigazione sia alla Marina che all’Aeronautica. Selex S.I. ha venduto, in passato, sistemi di comando e controllo alla Marina e sistemi di controllo del traffico aereo, cedendo anche licenze di produzione per sistemi radar. Nel campo civile, Alenia Aeronautica ha fornito diversi velivoli Atr-42 alla Indian Airlines ed è oggi in gara con il C-27J per fornire velivoli da trasporto tattico all’Aeronautica e alla polizia frontaliera, che hanno urgente bisogno di sostituire gli Antonov sovietici ancora in uso. Ma il requisito più importante è certamente quello dell’Aeronautica indiana per 126 caccia multiruolo, con una spesa prevista di oltre 10 miliardi di dollari, per il quale sono in corsa il Rafale, il Jas-39 Gripen, il Mig35, F-16 ed F-18, e l’Eurofighter con la partecipazione di Alenia. Per questa gara, l’offset richiesto dal governo indiano ammonta al 50% dell’investimento. In occasione del salone Aero India 2011 i rappresentanti del consorzio Eurofighter e dei quattro paesi partner (Germania, Gran Bretagna, Spagna, e Italia, rappresentata dal Sottosegretario alla difesa Crosetto) hanno incontrato la controparte indiana per spiegare la proposta di partnership strategica con l’India che scaturirebbe dall’acquisto del velivolo europeo: trasferimento di tec-


nologia e quota di produzione da svolgere in India sono, infatti, fattori importanti per la scelta da parte del governo indiano. Nel settore elicotteristico la presenza di Agusta risale alla produzione su licenza dei SeaKing negli anni ’70. A febbraio 2010 AgustaWestland ha firmato un contratto da 560 milioni di euro per la fornitura di dodici elicotteri AW101 destinati al trasporto delle massime cariche dello stato. AgustaWestland è in corsa per diverse gare bandite dalle Forze Armate indiane, ad esempio per elicotteri antisom, Light Observation Helicopters, e per la modernizzazione della flotta di elicotteri SeaKing in dotazione alla Marina. Anche per soddisfare le condizioni in fatto di offset e trasferimento tecnologico, nel 2010 AgustaWestland ha formato con Tata la joint venture Indian Corporate Ltd. La joint venture è stata incaricata dell’assemblaggio finale in India dell’elicottero monomotore AW119, destinato al mercato indiano e mondiale. Negli ultimi cinque anni l’azienda ha venduto in India oltre 50 elicotteri, un terzo dei quali AW139. Altra impresa italiana molto attiva in India è Avio, che ha fornito sistemi di automazione di guida autopilota alla Marina Indiana. Inoltre, insieme alla Hal, Avio produrrà una parte del sistema propulsivo della nuova portaerei progettata dalla Marina indiana, di architettura simile alla Cavour. Anche Elettronica è in gara per la fornitura di sistemi Elint terrestri per Esercito e Aeronautica, mentre è in trattativa per formare una joint venture con l’indiana Alpha Design Technologies. Nel campo navale Fincantieri, che ha recentemente aperto un ufficio di rappresentanza a New Delhi, ha costruito due rifornitrici di squadra per la Marina indiana, una nei cantieri liguri e una in quelli indiani. È ora in gara per diversi appalti sia per la Marina che per la Guardia Costiera indiane. Anche Mbda, Iveco, Oto Melara, Selex Galileo e altre imprese italiane si sono mostrate interessate al mercato indiano. Nel complesso, quindi, sul mercato indiano vi sono importanti opportunità per l’industria dell’aerospazio, sicurezza e difesa che meritano una attenzione crescente da parte del sistema-paese Italia.


Risk

GLI

EDITORIALI/MICHELE

NONES

Troppi Don Abbondio in questo Paese

Dopo il boom degli scorsi anni, e particolarmente del 2009, le esportazioni militari italiane sono tornate su valori più fisiologici: le autorizzazioni, esclusi i programmi intergovernativi, sono infatti ammontate a 2910 miliardi di euro contro i 4910 del 2009 (ma erano state 3046 milioni nel 2008). Questo risultato è comunque positivo, soprattutto tenendo conto della crisi economica internazionale, e consente alla nostra industria di guardare con moderato ottimismo al futuro. Sullo sfondo restano, però, due “macigni”: il primo, più importante, è l’incubo del 2013 quando le previste risorse finanziarie assegnate alla Difesa non saranno più in grado di far fronte al costo dei programmi avviati e al supporto logistico degli equipaggiamenti in servizio, nemmeno contando sulle risorse aggiuntive provenienti dal ministero dello Sviluppo Economico (intorno al 50% degli investimenti fatti dalla Difesa: un’altra anomalia italiana, come rilevato due anni fa dal ministro della Difesa); il secondo è un sistema di controllo delle esportazioni rimasto alla “guerra fredda”. Qualcuno potrebbe sostenere che, visti i successi dell’industria italiana sui mercati internazionali, quest’ultimo non è evidentemente un ostacolo. La verità è, invece, che lo è, anche se non insormontabile, e che lo diventerà sempre più in futuro. I suoi limiti emergono soprattutto in due campi, quello dei programmi intergovernativi e quello del supporto logistico. Per quanto riguarda il primo, il sottoporre i programmi intergovernativi (finanziati dai Governi e destinati alle rispettive Forze Armate) ai controlli sull’export è una vera e propria follia: soldi e tempo delle Amministrazioni coinvolte e delle imprese gettati al vento. Fino ad ora si è ricorsi ad una soluzione di emergenza, individuata nelle maglie della legge, considerando esportazioni “temporanee” le attività di trasferimento di parti e componenti nell’ambito dei singoli programmi. Adottata provvisoriamente nel 1996-98 per far fronte all’emergenza dei programmi EFA e NH 90, ingestibili con le normali procedure, questa soluzione è diventata definitiva (come al solito nel nostro paese) ed è stata estesa a ben 21 programmi intergovernativi. Il tentativo di sanare il pregresso e delineare una soluzione definitiva fatto con la 50

riforma proposta dal Governo D’Alema nel 2000 è naufragato e le modifiche introdotte nel 2003, con la ratifica dell’Accordo Quadro/LoI, non hanno trovato applicazione. Il ministero degli Esteri ha, infatti, fino ad ora ritenuto che fossero applicabili solo in condizioni di reciprocità con gli altri paesi partecipanti, mentre, invece, a livello europeo i nostri partner utilizzano la Licenza Globale di Progetto autonomamente. Per altro la legge limita, in ogni caso, questa possibilità ai paesi Ue e Nato, escludendo altri potenziali partner di provata affidabilità come potrebbero essere Australia, Giappone, Svizzera. Per quanto riguarda il secondo campo, quello del supporto logistico, i problemi si allargheranno man mano che gli equipaggiamenti italiani saranno consegnati. Con la normativa attuale i tempi di autorizzazione sono incompatibili con la complessità tecnologica che richiede un’attenta manutenzione e sostituzione di parti, con la tendenza delle Forze Armate di non dotarsi di inutili e rapidamente invecchiati magazzini di parti di ricambio, con la richiesta di un tempestivo intervento. Anche in questo caso, non si capisce perché non si possa supportare direttamente un cliente già autorizzato, salvo controllare a posteriori che l’impresa lo abbia fatto correttamente e mandando in galera senza attenuanti eventuali colpevoli e sanzionando pesantemente l’impresa. Con questi sistemi negli altri paesi il controllo funziona e non si vede perché non debba avvenire anche in Italia. A questi ed altri problemi il Governo ha cercato di porre rimedio approvando lo scorso 17 settembre un Ddl delega di riforma del nostro sistema di controllo dell’export, anche al fine di ottemperare gli obblighi derivanti dalla Direttiva europea 2009/43 in materia di scambi intracomunitari. Ma, come diceva don Abbondio, se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare: sono bastati tre mesi, con l’aggiunta di una strategia parlamentare da dilettanti e l’inevitabile reazione dell’opposizione, per fare marcia indietro. Già il 22 dicembre la “grande riforma”, inserita nella Legge Comunitaria, è stata ridotta ai minimi termini, senza nemmeno avere il vantaggio di una rapida approvazione. Ma, evidentemente, altre sono le riforme che stanno a cuore a Governo e maggioranza.


editoriali

GLI

EDITORIALI/STRANAMORE

Il “meltdown” della difesa giapponese (e i problemi Usa) Ci siamo giocati il Giappone! Anche se in pochi ci hanno prestato attenzione nel contesto della catastrofe che ha colpito la potenza asiatica con una combinazione di terremoti, tsunami e tragedia atomica, quanto è accaduto avrà profonde ripercussioni sugli equilibri militari e le politiche di sicurezza nel continente asiatico e nell’area del Pacifico per almeno un lustro o forse più. Di colpo gli Stati Uniti hanno perso uno degli alleati più importanti nella partita a scacchi che vede Washington contrapporsi alla Cina. Gli Stati Uniti infatti da tempo considerano il Pacific Rim come il teatro strategico e militare principale, però i loro interessi globali impediscono di concentrare tutte le risorse e le capacità militari in questa area. Per “contenere” la crescita e l’espansionismo cinese si punta quindi anche su una rete di alleanze e cooperazioni rafforzate, che aveva il suo fulcro nel Giappone. Solo che Tokyo ora è fuori gioco. Quello che preoccupa non è tanto il danno diretto e immediato alle capacità militari giapponesi, che pure non è trascurabile, perché terremoto e tsunami hanno distrutto una notevole quantità di mezzi pregiati (compresi una ventina di aerei da combattimento F2 ed elicotteri) e danneggiato o raso al suolo una serie di importanti infrastrutture, quanto l’impatto sulla economia e sulle politiche del governo giapponese. Intendiamoci, non è che i miliardi di dollari di materiali e capacità perdute siano uno scherzo, ma nel giro di qualche anno potrebbero essere sostituite e poi per fortuna l’epicentro del disastro è relativamente circoscritto. Quindi il grosso del potenziale militare è stato risparmiato. E anche il settore industriale aerospaziale-difesa non ha subito danni di rilievo. Ma oggi il Giappone ha ben altro a cui pensare che a investire nel potenziamento militare e nell’assumere responsabilità nel campo della difesa che vadano al di là della sicurezza diretta del Paese. Il Giappone ha subito

colpi durissimi e anche se non vi sono dubbi sulla capacità di recupero e di ricostruire, di certo l’investimento nella difesa subirà più che un rallentamento una vera battuta d’arresto. Già l’attuale compagine governativa aveva rivisto al ribasso le ambizioni in questo campo, i programmi di ammodernamento e la spesa per la difesa (che viaggiava intorno ai 50 miliardi di dollari all’anno, quindi circa un decimo di quella statunitense “core”) . Ora davvero si pensa ad altro. E presto sarà annunciato che molti dei progetti già approvati saranno rinviati, ridimensionati o cancellati. Ma c’è di più, l’aver perso una porzione non trascurabile del potenziale energetico nucleare e la necessità di rivedere la sicurezza degli impianti sopravvissuti porterà il Giappone a dipendere ancor più che in passato dall’importazione di idrocarburi per soddisfare il proprio fabbisogno energetico. Il che vuol dire maggiore vulnerabilità strategica e dipendenza dalla sicurezza delle linee di comunicazione marittima (Sloc). Il Giappone in qualche misura esce temporaneamente di scena e più che contribuire alla sicurezza deve essere protetto e naturalmente guarda alla storica collaborazione strategica con gli Usa per fronteggiare questa nuova situazione. Un bel guaio per il Pentagono, dove infatti c’è una viva preoccupazione. Non a caso gli Usa hanno mobilitato tutte le forze disponibili per prestare assistenza tecnica ed umanitaria al prezioso partner, proprio per rassicurarlo ed acquistare nuove benemerenze. Gesti importanti che non saranno dimenticati. Però questo non toglie che a Pechino… si stiano sfregando le mani tra cinici sorrisi. Gli Usa hanno subito un colpo gravissimo e per la Cina si apre una finestra di opportunità e la possibilità di colmare un indiscutibile vuoto di potere e di potenza. E per approfittarne c’è anche un arco temporale significativo. Proprio come piace alla Cina. 51


S

cenari

LIBIA

N

TUTTE LE OCCASIONI PERSE DALL’ITALIA DI

ROCCO BUTTIGLIONE

essuno poteva prevedere Mediterraneo. E così abbiamo quello che sta succedendo perso molte grandi occasioni, e in Nord Africa. Non è vero. per di più da quando queste crisi In molti l’avevamo previsto. Poteva che potevamo prevenire e guidare essere difficile capire esattamente sono scoppiate, siamo rimasti quando e come si sarebbe accesa la intrappolati dalle vecchie visioni e miccia che ora ha incendiato la non siamo stati pronti ad essere sponda sud del Mediterraneo, ma protagonisti nella fase nuova. non era impossibile prevedere che la L’esempio della Libia e del comDal voltafaccia situazione stava cambiando. Il proportamento del nostro governo in con Gheddafi alla gresso tecnologico, l’avanzare delquella crisi è il più eclatante. malagestione degli l’età di vecchi dittatori che a volte La politica estera è qualcosa che immigrati. L’Italia non sta facendo hanno anche avviato un processo di interpella il Paese e non solo la una gran figura, riforme, ma poi lo hanno interrotto maggioranza di governo. Anche le né in Libia, né in timorosi di perdere il potere e di non forze politiche di opposizione Nordafrica e nemmeno nel mondo. Perché poter assicurare una successione che dovrebbero quindi comportarsi non ha una politica era patentemente difficile. Lo sviresponsabilmente in questo ambiestera e nemmeno luppo economico prima e la crisi to stando attenti agli interessi della difesa poi, i semi di democrazia arrivati in nazionali prima che alle beghe vari modi da quelle parti, e allo stesso tempo le interne. Noi lo abbiamo fatto, lo facciamo da semreazioni timorose alla modernizzazione che hanno pre, ad esempio in ogni occasione in cui si è favorito lo sviluppo anche del fondamentalismo. discusso di missioni all’estero, nonostante siamo Quell’area era in fermento da tempo, ed era chiaro stati all’opposizione tanto di Prodi quanto di che non avrebbe potuto continuare a rimanere la Berlusconi. Ma è difficile poter contribuire stessa. Era chiaro, se si fosse guardato da quelle responsabilmente alla politica estera nazionale parti: ma in troppi non hanno voluto guardare. Non quando questa politica estera non esiste. Ed è il ha voluto una parte rilevante del mondo politico caso degli ultimi anni. C’è un elemento plastico italiano, non hanno voluto neanche molte grandi che dimostra quanto affermo: delle questioni nazioni europee e quindi l’Unione europea - e que- mediterranee in questo governo se ne è occupato sta è una responsabilità anche dell’Italia, perché è più il ministero degli Interni che quello degli il nostro compito quello di tirare l’Unione verso il Esteri. Perché tutto si è incentrato esclusivamente 52


scenari sul timore dell’immigrazione clandestina – peraltro compiendo il grave errore di dare risalto propagandistico al problema dei barconi quando invece la stragrande maggioranza dei migranti clandestini arrivano via terra o col visto turistico. Il primo difetto della politica estera italiana è stato non avere previsto la crisi dei sistemi di governo autoritari dell’Africa del nord. Era prevedibile quella crisi? Nel 2004 io ebbi modo di formulare un programma per il Mediterraneo nel corso dei lavori preparatori per la mia candidatura a vicepresidente della Commissione europea. Partivo dalla presa d’atto del fallimento del cosiddetto processo di Barcellona, che avrebbe dovuto organizzare per l’Europa un’area di vicinato e prosperità condivisa nel Mediterraneo. Gli anni Novanta avevano visto una spinta significativa verso la modernizzazione nel Mediterraneo. Mubarak, Ben Alì e lo stesso Gheddafi hanno promosso in quegli anni un cambiamento benefico per i loro popoli. In Tunisia per esempio non solo è cresciuto il turismo ma si sono verificati significativi processi di delocalizzazione manifatturiera accompagnati dalla crescita di una significativa classe imprenditoriale. Si è ampliato di molto l’accesso all’istruzione, anche universitaria. Questa spinta si è però progressivamente rallentata fino a fermarsi del tutto. Per mantenersi al potere i regimi hanno incrementato la corruzione e la repressione. Già verso la metà del decennio passato era chiaro che non era più possibile andare avanti così. Bisognava rimettere in movimento il processo di modernizzazione. Per fare questo era necessaria una forte iniziativa europea. Io chiesi allora una conferenza dei Paesi rivieraschi con lo scopo di mettere a punto: a) un sistema di aiuti umanitari per i profughi che invadevano (e invadono) Libia e Tunisia provenendo dall’Africa sub sahariana; b) la creazione di campi di accoglienza che potessero dove fosse possibile distinguere i profughi dagli immigrati economici, dando ai profughi la protezione diplomatica a cui hanno diritto e mettendo

gli (aspiranti) immigrati economici in contatto con il nostro sistema delle imprese in modo da far venire in Europa solo quelli già provvisti di un contratto di lavoro; c) un accordo per il rimpatrio al Paese di provenienza degli immigrati clandestini; d) un accordo per l’abolizione delle dogane e la creazione di una zona di libero scambio dell’Africa del Nord in modo di creare un mercato unico e quindi la convenienza ad investire; e) un sistema di infrastrutture basato su una ferrovia ed un’autostrada a grande capacità da Marrakech fino al Cairo intervallato opportunamente da porti, aeroporti ed interporti; f) un sistema di sostegno per orientare verso questi Paesi almeno una parte delle delocalizzazioni del nostro sistema industriale verso i Paesi a più basso costo del lavoro; g) una crescita massiccia della cooperazione interuniversitaria; h) un incremento del dialogo culturale ed interreligioso in modo da favorire la comprensione reciproca e l’affratellamento dei popoli. Sono tutte cose che non si sono fatte e che rimangono ancora da fare. Se si fossero fatte quando era tempo probabilmente sarebbe stato possibile costruire forme di transizione meno traumatiche dai regimi autoritari verso la democrazia. Sarebbe stato compito dei Paesi mediterranei dell’Unione europea dare impulso a una politica mediterranea dell’Unione e trascinarla, per così dire, verso il Mediterraneo. Non lo hanno fatto. La Spagna si è concentrata su una sua priorità, il Marocco, e in quell’ambito limitato ha fatto anche bene, come si vede dal fatto che quel Paese vive una evoluzione democratica lenta ma senza scosse. La Francia ha lanciato l’Unione Mediterranea sulla base, in gran parte, delle stesse considerazioni che ho appena svolto. Lo ha fatto troppo tardi e lo ha fatto con la pretesa di esercitare in questa Unione Mediterranea una egemonia unica ed incontrastata. I risultati non ci sono stati. E l’Italia? L’Italia ha scelto un approccio angustamente bilaterale ed ha puntato tutte le sue carte sull’accordo con la Libia. Per di più questo accor53


Risk do lo ha negoziato con la preoccupazione ossessiva di un approccio meramente poliziesco al problema della immigrazione. Non ci si è preoccupati nemmeno di chiedere ala Libia di aderire alla Convenzione di Ginevra sulla protezione internazionale dei rifugiati. Se la Libia desse ai rifugiati la protezione internazionale a cui essi hanno diritto noi potremmo con tranquilla coscienza respingere i barconi che vengono verso le nostre coste. Saremmo sicuri che essi non contengono rifugiati (che potrebbero avere in Libia l’assistenza cui hanno diritto) ma solo immigrati clandestini. Non si è visto che il potere di Gheddafi era già instabile e che ci saremmo trovati di lì a poco davanti ad uno scontro violento fra il dittatore ed il suo popolo. All’inizio di questo scontro ci siamo trovati di fatto dalla parte del dittatore. Questo ci ha costretto ad un necessario ma scomodo voltafaccia che certo non ha giovato al nostro prestigio internazionale. Inoltre dopo un brevissimo rallentamento del flusso dei barconi, Gheddafi è crollato ed il fronte dell’immigrazione si è riaperto in modo molto più catastrofico e torrenziale. Si sono trovate soluzioni di emergenza invece di fare riforme strutturali ed organiche. Le soluzioni temporanee, però, durano quanto durano, e poi si esauriscono. Avremmo avuto bisogno di una politica europea per lo sviluppo del Mediterraneo. Dentro una simile politica puoi anche ottenere un accordo vero contro l’immigrazione clandestina. Hanno preferito l’accordo unilaterale con la Libia, e con un tiranno il cui ciclo politico già visibilmente si andava esaurendo. È per questo che noi dell’Udc, ed io in prima persona, ci siamo battuti strenuamente e da soli contro quel Trattato di amicizia Italia-Libia che come prevedibile sta causando molti più problemi di quanti ne abbia risolti. Il Trattato è stato un esempio di trattative internazionali condotte dal ministro degli Interni con la preoccupazione assorbente, anzi ossessiva, della immigrazione clandestina (cui si aggiunge in quel caso quella del petrolio). Celebrato a suo tempo 54

come un trionfo quel trattato si è rivelato alla fine essere un disastro. È lecito il dubbio che, se a condurre la trattativa fosse stato il ministero degli Esteri, forse i risultati sarebbero stati diversi e meno dannosi. Forse il trattato non vi sarebbe stato per niente. Una cosa infatti è comprare petrolio da un dittatore. Cosa diversa è legittimarlo come amico dell’Italia e benefattore dell’umanità. Se si vuole chiudere il contenzioso fra Italia e Libia è bene non farlo con un tiranno la cui base di potere già si va chiaramente sgretolando, come era probabilmente chiaro agli esperti del ministero degli Esteri ma non poteva essere noto agli esperti del ministero degli Interni. Per lo meno gli Esteri avrebbero chiesto che la Libia aderisse alla Convenzione Internazionale sulla protezione dei profughi e richiedenti asilo. Questo avrebbe consentito di procedere ai respingimenti in mare senza violare il diritto internazionale perché coloro che hanno titolo per chiedere l’asilo avrebbero potuto farlo in Libia. Possiamo noi appaltare alla Lega la conduzione della nostra politica estera nel Mediterraneo? Possiamo dare l’impressione che non ci interessa nulla della libertà del mondo arabo, della dignità delle persone, dello sviluppo economico e civile, infine della pace nel Mediterraneo, e che l’unica cosa di cui ci importa è il respingimento delle barche di disperati che solcano il Mediterraneo? Vediamo di affrontare realisticamente il problema. Prima di tutto è bene dire che il problema dell’immigrazione clandestina non coincide con quello delle barche dei disperati. Il 90% degli immigrati arriva in Italia con un regolare visto turistico e rimangono dopo la fine del visto. Anche se affondassimo in mare a cannonate tutte le barche dei disperati non risolveremmo il problema della immigrazione clandestina e non allevieremmo se non in misura assolutamente marginale il disagio delle nostre popolazioni. L’enfasi posta dalla Lega su questa parte assolutamente minoritaria della immigrazione tradisce un evidente intento propa-


scenari gandistico. Vengono in mente le osservazioni di un poliziotto/filosofo dei tempi del Terrore della Rivoluzione Francese. Questi dice che nulla allevia le sofferenze dei disgraziati come la visione del supplizio di altri ancora più disgraziati e ritenuti responsabili delle proprie sventure. Si può accettare che la finalità primaria della politica della immigrazione sia il dare questa gratificazione psicologica ad una parte dell’elettorato della Lega? Si può accettare che la finalità principale della politica estera italiana nel Mediterraneo sia dare questa soddisfazione alle moderne tricoteuses (le donne che salutavano giubilando il funzionamento della ghigliottina)? Se vogliamo parlare seriamente di politiche contro l’immigrazione clandestina dobbiamo inquadrare queste politiche all’interno di un serio progetto di politica estera mediterranea e di una precisa visione dei diritti dell’uomo e del cittadino. La soluzione del problema non sta in un gesto di forza ma in un complesso processo negoziale. Il primo negoziato il Governo deve condurlo con la Magistratura italiana in modo di garantire procedure di espulsione e rimpatrio rapido e rispettose dei diritti umani. Questo chiama in causa: a) la responsabilità del Governo che deve garantire procedure costituzionalmente corrette; b) la Magistratura che deve dare la necessaria cooperazione superando un atteggiamento pregiudizialmente contrario alle espulsioni che sussiste in una sua parte; c) la collaborazione delle ambasciate e delle autorità consolari dei Paesi di provenienza per la identificazione degli immigrati illegali e la esecuzione delle misure di espulsione. Con questo ultimo punto usciamo dal negoziato con la Magistratura ed entriamo in quello con i Paesi di provenienza della emigrazione. Senza la loro collaborazione non ci sono soluzioni umane al problema. Collaborare, però, costa denaro e costa anche popolarità politica nei propri Paesi. L’emigrazione è comunque un alleggerimento della pressione sociale che deriva da masse giova-

nili disoccupate e prive di prospettive. Una politica di semplice repressione, evidentemente non genera consenso ed è difficilmente sostenibile. Occorrono dunque accordi bilaterali che prevedano il rimborso dei costi dei rimpatri e delle politiche di contrasto all’immigrazione clandestina e aprano canali di immigrazione legale commisurata alla domanda del mercato del lavoro italiano. Questi accordi vanno comunque inseriti in una visione politica più ampia. L’Italia, cercando prima di tutto il consenso degli altri Paesi mediterranei dell’Unione, deve stimolare una politica comune dell’Unione Europea nel mediterraneo.

Abbiamo scoperto che il Mediterraneo è un mare nel quale dal punto di vista militare siamo deboli e disorganizzati. E che abbiamo bisogno di più Europa. Ha sbagliato il governo italiano non comprendendo quanto il contesto europeo fosse necessario per difendere gli essenziali interessi nostrani nel Mare Nostrum Come talvolta accade nell’Unione Europea, molti anni fa a Barcellona si è tracciato un itinerario, si sono dette tutte le cose giuste ma poi di queste non se ne è fatta quasi nessuna. Da lì bisogna ripartire. C’è bisogno di una Conferenza del Mediterraneo con la partecipazione di tutti i Paesi rivieraschi per stabilire come lottare insieme contro l’immigrazione clandestina e come aprire i canali della 55


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scenari immigrazione legale. È necessario costruire un mercato comune dell’Africa Settentrionale con un piano di infrastrutturazione di quei Paesi. Bisogna associarli strettamente alla Unione Europea in un’area di prosperità condivisa del Mediterraneo. Dentro questa politica può trovare una soluzione anche il problema della emigrazione clandestina, che non si può risolvere facendo la faccia feroce contro i disperati. Chi non vuole vedere oltre il proprio naso non va da nessuna parte ed alla fine finisce anche con lo sbattere il naso. E ora il risultato è che rischiamo di perdere terreno anche con la Libia. Non basta che si cerchi di non parlare più della crisi a due passi da casa nostra perché questa crisi non esista più e non abbia conseguenze. C’era chi temeva che il nostro voltafaccia con Gheddafi ci avrebbe pregiudicato i rapporti futuri se il regime fosse sopravvissuto, e il governo lo ha detto spesso. Chi temeva invece che la nostra amicizia con Gheddafi e la nostra tiepidezza con i ribelli avrebbe compromesso i rapporti con la nuova Libia. Ora c’è il rischio che l’atteggiamento tentennante del governo italiano riesca persino a farci avere gli effetti negativi delle due problematiche combinate. Adesso se vogliamo guidare gli sviluppi futuri nel Mediterraneo sarà bene mettere mano rapidamente alle cose che non si sono fatte. La guida delle ribellioni in Nord Africa oggi è nelle mani di uomini giovani che chiedono libertà ed un benessere paragonabile a quello degli occidentali. Non si tratta di pericolosi terroristi di al-Qaeda. I terroristi però ci sono, si rifugiano nell’ombra e aspettano la loro ora. Se in Libia i ribelli verranno sconfitti allora gli integralisti islamici prenderanno la guida della ribellione. Sono abituati alla lotta clandestina, sono organizzati ed armati mentre gli studenti democratici saranno facilmente spazzati via dalla repressione, se Gheddafi dovesse prevalere. In Nord Africa l’estremismo islamico può affermarsi solo insinuandosi nelle pieghe della modernizzazione interrotta o fallita. Per

questo è essenziale che il processo di modernizzazione venga rimesso in movimento. Oggi i giovani manifestano per il pane e per la democrazia. Non chiedono una repubblica islamica. Se non troveranno né pane né democrazia allora verrà il tempo degli integralisti. Oggi gli estremisti non sono alla guida del movimento né in Tunisia né in Egitto. Se tuttavia i nuovi governi non saranno in grado di aprire una fase nuova di modernizzazione, di crescita economica e di sviluppo allora verrà di nuovo il tempo degli estremisti. Che questo non avvenga è in gran parte responsabilità dell’Italia, se, questa volta, l’Italia sarà capace di trascinare l’Europa in una vera e seria politica mediterranea. Bisogna coinvolgere tutta l’Unione in un progetto mediterraneo. In questa vicenda libica e mediterranea è drammaticamente evidente la mancanza dell’Europa. Non c’è stata una politica mediterranea dell’Europa. Non c’è stata una politica condivisa per l’immigrazione. Non vi è stata neppure una comune politica per la difesa. Abbiamo scoperto comunque che il Mediterraneo è un mare nel quale dal punto di vista militare siamo deboli e disorganizzati. Anche in questo abbiamo bisogno di più Europa. Ha sbagliato il governo italiano non comprendendo quanto il contesto europeo fosse necessario per difendere gli essenziali interessi italiani nel Mediterraneo. Ha però anche sbagliato tutta l’Europa, contenta che nessuno la mettesse di fronte alle sue responsabilità nel Mediterraneo e riluttante a darsi un profilo di politica estera. Speriamo che tutti, Italia ed Europa, impariamo la lezione amara di questi giorni. Se abbiamo fatto una analisi senza abbellimenti dei nostri errori lo abbiamo fatto non per sterili fini di politica interna ma per far crescere il proposito di non più ripeterli. L'Italia è il paese più minacciato e anche quello che può trarre il massimo vantaggio dal successo di una politica europea verso l’Africa del Nord. Per questo dobbiamo essere noi a prendere l’iniziativa. 57


Risk

S

cenari

MONDO

N

AL QAEDA, L’ORA DEL TERRORISMO 2.0 DI

LAURA QUADARELLA

ei quasi dieci anni cellule più o meno grandi. Sempre con l’obiettipassati dagli attacvo del jihad, ma operano chi alle torri gemelin realtà autonomamenle Al Qaeda ha dimostrato te. Ed è soprattutto nei una incredibile capacità di due anelli più esterni che adattamento, modificando si rileva uno degli elestruttura e modalità operatimenti più significativi ve, e sviluppando tecniche La Jihad sbarca su Internet con “Inspire”, che si sono sviluppati: la che permettono al terrorismo la rivista online per diventare terroristi presenza dei cosiddetti islamico mediante internet di (qaedisti) che recluta i musulmani fondamentalisti home reclutare ed addestrare terroche vivono in Occidente e addestra all’attentato da casa. L’idea è venuta grown, che vivono in risti direttamente in occidenall’Imam yemenita con cittadinanza Occidente da anni, se te. Si tratta di un utilizzo americana, Anwar al-Awlaki, attualmente non addirittura dalla della rete che si affianca al rifugiato nelle aree tribali del Paese arabo. E infatti l’ultimo numero nascita, e che facilmente, temuto cyber terrorism, e più parla delle rivolte… in generale alla sicurezza dopo brevi soggiorni nei cibernetica che costituisce campi di addestramento oggi uno dei maggiori campi cui sono chiamati a di Al Qaeda o addirittura utilizzando semplici confrontarsi i Paesi occidentali, a partire dai loro manuali scaricabili da siti internet, si trasformano organismi di informazione per la sicurezza, ed in self made terrorist. Vanno alla ricerca del martianche in tale ambito l’estremismo islamico sta rio per colpire a casa propria l’infedele – nel cui assumendo un ruolo sempre più centrale. Come Paese non sono riusciti a integrarsi – e quella socienoto Al Qaeda è diventato un fenomeno a più stra- tà moderna ed aperta che va islamizzata. ti, o meglio a cerchi concentrici. Intorno al nucleo La capacità di reclutare, addestrare ed impiegare gli centrale, il cosiddetto Al Qaeda Core, che continua home grown terrorist in attacchi che, facendo uso ad essere l’organizzazione con sede tra Afghanistan delle modalità operative sviluppate dal terrorismo e Pakistan direttamente controllata ancor’oggi da nel secolo scorso, vengono condotti a termine in un Bin Laden e dagli altri leader storici, gravitano certo senso “dall’interno”, è la minaccia più immel’anello dei gruppi terroristici affiliati, ufficialmen- diata che l’Occidente si trova a dover fronteggiare. te riconosciuti da Al Qaeda Core. Poi c’è quello Ancorché gli home grown terrorist sono spesso dei “esterno” composto da gruppi islamici minori e da self started, soggetti di imprevedibile attivazione, 58


scenari che generalmente operano in modo autonomo, proprio usando tali individui Al Qaeda ha in realtà continuato a condurre a termine attacchi coordinati. Azioni dirette specialmente contro i trasporti delle capitali europee. E ha pianificato, utilizzando il mezzo aereo, complotti che, seppur fortunatamente falliti o scoperti, hanno tenuto costante il livello di paura e d’insicurezza. Una strategia che di volta in volta ha costretto ad adottare nuove misure di sicurezza, che hanno sensibilmente modificato i nostri comportamenti. È in questo discorso che il ruolo di internet diviene dunque centrale: infatti, malgrado gli sforzi intrapresi, sia a livello nazionale che internazionale, (si pensi all’inclusione degli attacchi informatici nel nuovo Concetto Strategico dell’Alleanza Atlantica) il web continua ad essere un canale di comunicazione in cui tendenzialmente chiunque, correndo rischi relativamente bassi, può rapidamente diffondere informazioni e contenuti di qualsiasi genere. Risulta ad esempio quanto mai pericolosa la diffusione di riviste online che hanno al contempo il duplice scopo di diffondere i messaggi di Al Qaeda, far proseliti e di addestrare i possibili nuovi terroristi, fornendo loro idee e rudimenti su tecniche operative. In particolare, oltre ai numerosi siti in lingua araba inneggianti alla lotta santa ed al grande numero di gruppi islamici presenti nei maggiori social network, meritano attenzione riviste che iniziano a rivolgersi direttamente ai musulmani che vivono in occidente. Tra di esse troviamo Inspire, il magazine in lingua inglese pubblicato a partire dall’estate 2010 da Al Qaeda in the Arabian Peninsula, che è oggi insieme ad Al Qaeda in the Islamic Magreb la maggiore organizzazione affiliata ad Al Qaeda Core. Scopo dichiarato è quello di promuovere la nascita di nuovi terroristi direttamente nei Paesi occidentali, soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, e da qui il nome della rivista, che come spiegato nel primo numero deriva da un versetto del Corano nel quale Allah comanderebbe a Maometto And inspire the believers to fight. Il primo numero della rivista è

uscito a luglio, con la dicitura Summer, ne sono poi seguiti tre ad ottobre, gennaio e marzo, rispettivamente Fall, Winter e Spring, e un’edizione speciale a novembre, un vero Special Issue sulla cosiddetta Operation Hemorrhage, ovvero l’invio di pacchi bomba in aerei cargo effettuato in autunno e, stando alla rivista, da loro realizzato e rivendicato. Leggendo gli articoli si rimane innanzitutto colpiti per i deliranti messaggi propagandistici , che intrisi di versetti coranici e di altri riferimenti ad Allah e Maometto, presentano una visione della realtà distorta e condita da richiami profetici. Il terrorismo è rappresentato come guerra santa, che altro non sarebbe se non la giustificata risposta di ogni buon musulmano alle atrocità subite dai propri fratelli. È operato un continuo e fin troppo evidente indottrinamento contro gli occidentali, visti come il nemico, il male assoluto, il tiranno che porta morte e distruzione nei loro Paesi. Un nemico che si comporta in modo blasfemo, non rispettando né Allah né il suo Profeta, e calpestando diritti come quello delle donne di velarsi integralmente. Un nemico che è tale soprattutto perché è alleato d’Israele, che soffoca il popolo palestinese. Un nemico che è definito apostata e che in quanto tale va cacciato dalle terre musulmane. Fino a quando non si realizzerà pienamente questo obiettivo avrà ragion d’essere il jihad, che è un dovere di ogni buon musulmano e va combattuto direttamente in Occidente. Affinché anche gli americani e tutti i loro alleati sionisti provino ciò che i musulmani subiscono quotidianamente nelle loro terre. Sono spiegati e lodati gli attacchi condotti da Al Qaeda; attacchi che appaiono talvolta come azioni contro il nemico, altre volte come azioni a difesa e garanzia delle popolazioni islamiche, raffigurate come vittime in diverse aree geografiche. Vi sono inoltre traduzioni in inglese di messaggi dei leader di Al Qaeda e interviste inedite anche a sedicenti terroristi operanti in Occidente, che si definiscono orgogliosi del loro «tradimento». Come in ogni rivista non mancano poi rubriche su quelle che potremmo definire le «notizie dal mondo», le «lette59


Risk re dei lettori» e gli «approfondimenti storici», con articoli ed interventi che colpiscono per l’apparente naturalezza con cui presentano una realtà distorta e sono esaltate le azioni terroriste. Continue sono le preghiere, a volte generiche, altre specifiche con nominativi e foto, per gli “eroi” martiri del jihad e per tutti quei prigionieri che sono detenuti nelle carceri occidentali. Se quelle analizzate sinora sono, seppur gravi e potenzialmente pericolose, azioni di pura propaganda e proselitismo, a destare preoccupazione per la possibile immediata facile messa in pratica da parte di qualsiasi fanatico sono soprattutto istruzioni pratiche e semplici, volte a guidare chiunque passo dopo passo verso la realizzazione di attacchi terroristi in occidente. È infatti presente in ogni numero della rivista una sezione con tale scopo, che si chiama Open Source Jihad ed è esplicitamente definita come una fonte da cui trarre manuali che consentono di addestrarsi per la jihad da casa, senza dover partecipare a corsi di addestramento che comportano rischiosi viaggi. L’articolo principale di tale sezione contenuto nel primo numero è un manuale su come costruire una bomba a casa utilizzando materie prime semplici da trovare, e contiene, accompagnati da pratiche illustrazioni, tutti i passaggi che si devono operare fino alla realizzazione della bomba. Nell’articolo, che si intitola Make a bomb in the kitchen of your Mom ed è firmato da “The AQ Chef”, si insegna a costruire bombe artigianali collegate ad un timer ed i cui effetti sono potenziati dall’utilizzo di chiodi, partendo da “ingredienti” molto semplici: basti ad esempio pensare che fa parte dell’innesco il filo con le lucine dell’albero di Natale, mentre la polvere esplosiva è ricavata dai fiammiferi, che, tra l’altro, come è specificato nell’articolo, non destano sospetti né sono individuabili dai cani addestrati per il riconoscimento degli esplosivi, ma consentono comunque di uccidere decine di persone dopo appena un paio di giorni di esperienza/preparazione. Ancor più preoccupanti per la facilità di realizzazione sono i suggerimenti contenuti nell’artico60

lo del numero di ottobre, che invita ad utilizzare fuoristrada, possibilmente 4 x 4 perché più potenti, per falciare pedoni nemici di Allah: si spiega come scegliere con cura gli obiettivi ed i tempi, preferendo isole pedonali nell’ora di maggior affollamento, se possibile di portare con se un’arma da usare contro chi tenta di fermare la corsa del veicolo, e si fa presente che si tratta di un tipo di operazione che difficilmente ha un esito finale diverso dal martirio. Segue poi un articolo con consigli sia pratici che psicologici da seguire nella fasi di preparazione e realizzazione di operazioni terroriste, con specifiche indicazioni in base alle caratteristiche ed ai rischi. Nel numero uscito nel gennaio di questo anno lo Chef di Al Qaeda insegna invece come maneggiare un kalashnikov e, soprattutto, con indicazioni che conducono ad una preparazione onestamente piuttosto discutibile: come distruggere un palazzo provocando un’esplosione, dopo aver accuratamente saturato di gas un appartamento situato in uno dei punti la cui distruzione provocherebbe secondo l’autore dell’articolo l’inevitabile collasso dell’intero edificio. Nella pubblicazione di marzo, che come vedremo a breve ha un taglio decisamente più “politico” e si concentra pertanto su altre tematiche, la rubrica Open Source Jihad continua semplicemente con quello che viene letteralmente definito «l’addestramento con il Kalashnikov». Sempre dal punto di vista operativo, sono infine sempre presenti sofisticate istruzioni per la sicurezza nello scambio di informazioni, contenute in un’apposita rubrica: accurate spiegazioni su come utilizzare alcuni software, creare una chiave, e procedere poi a criptare e decriptare messaggi da inviare e ricevere, metodo da utilizzare anche per inviare eventuali contributi alla rivista. Inspire e l’Operation Hemorrhage: i pacchi bomba sugli aerei cargo. A novembre è stato diffuso un numero speciale di Inspire con il preciso scopo di rivendicare quella che viene chiamata Operation Hemorrhage, che altro non sarebbe se non l’invio di pacchi bomba effettuato lo scorso autunno. Stando alla rivista, i due pacchi esplosivi ritrovati a Londra


scenari e Dubai su altrettanti aerei cargo, farebbero parte di una vera e propria operazione, pianificata da Al Qaeda nella Penisola arabica nei mesi precedenti. A tale operazione non sarebbero riconducibili solo questi pacchi, entrambi partiti dalla capitale yemenita, ma anche un altro presente sul volo cargo caduto a Dubai ad inizio settembre subito dopo il decollo, schianto che Al Qaeda rivendica, ma che come noto è stato ufficialmente attribuito ad un incidente. Scopo dichiarato è dunque rivendicare gli attacchi,

In ogni numero della rivista c’è una sezione che si chiama Open Source Jihad ed è esplicitamente definita come una fonte da cui trarre manuali che consentono di prepararsi alla jihad da casa, senza dover partecipare a corsi di addestramento rischiosi e lontani compreso quello condotto a termine con successo nel mese di settembre. E spiegare l’operazione in ogni minimo dettaglio, sia per avvalorare l’attendibilità della rivendicazione, sia per rendere l’attacco autonomamente riproducibile anche da cellule terroriste presenti in Occidente, cui d’altronde si rivolge la rivista. E far così scattare la seconda fase dell’operazione. La prima, quella di settembre-ottobre, sarebbe costata appena tre mesi di tempo complessivo di preparazione e 2.400 dollari: costo delle stampanti Hp, il toner, le cui cartucce erano state sostituite con esplosivo plastico (il tetra nitrato di pentrite,

già utilizzando in altri attacchi di Aqap), e dei cellulari Nokia utilizzati come detonatori e accuratamente nascosti al posto dei circuiti elettrici delle stampanti. Anche questa volta non mancano chiaramente foto e didascalie che spiegano i passaggi principali, compresi quelli della trasformazione delle stampanti in bombe non individuabili da nessun controllo. Il pacco bomba così confezionato non desterebbe infatti sospetti né ai macchinari degli aeroporti, né ad un eventuale controllo manuale, laddove è sottolineato che per l’innesco non si usa metallo che desterebbe sospetti al metal detector, l’esplosivo si confonderebbe con il toner e non verrebbe pertanto rilevato né dall’olfatto dei cani né dai rilevatori di esplosivo, ai raggi x si vedrebbero materiali organici, non organici e metallici come in qualsiasi stampante, e ad una eventuale ispezione del pacco non risulterebbe nulla di anomalo. Proprio la scarsa possibilità che i pacchi venissero fermati ai controlli potrebbe essere alla base di alcuni elementi che a dir la verità suscitano perplessità sui reali obiettivi degli attentatori. Come noto, i pacchi vennero scoperti lungo il loro viaggio verso gli Stati Uniti (sembra anche grazie alle rivelazioni di un ex terrorista) dopo aver effettuato più voli intermedi, sia con aerei cargo che di linea, ed aver conseguentemente superato vari controlli. Ma risulta difficile credere sia che per far saltare una sinagoga in una città statunitense si spediscano pacchi bomba dallo Yemen, anziché utilizzare cellule terroriste operanti direttamente in America, sia che per far esplodere degli aerei si utilizzino pacchi bomba aventi Sana’a come provenienza e delle sinagoghe statunitensi come destinazione ultima: praticamente pacchi su cui mancava solo la scritta «bomba». Ci si può allora chiedere perché spedire pacchi con tali modalità: se l’obiettivo non erano né le sinagoghe né gli aerei, qual’era lo scopo dei terroristi? Verosimilmente si è trattato di un diversivo o una prova, ed in entrambi i casi l’obiettivo sembrerebbe purtroppo raggiunto, visto che pacchi così confezionati non hanno destato sospetti neanche se spediti dallo Yemen e diretti 61


Risk

Nell’ultimo numero di “Inspire” Si analizzano le situazioni interne sia di quei Paesi i cui regimi sono già caduti (Tunisia ed Egitto, relativamente al quale Al Qaeda getta più di un ponte verso i Fratelli Musulmani), o sono comunque in uno stato di scontro armato in atto (Libia), sia di quelli in cui sinora le rivolte sono state più o meno controllate o represse verso quello che a chiunque sembrerebbe un chiaro possibile obiettivo terrorista. Ecco dunque raggiunto il vero obiettivo: causare, indipendentemente dalla riuscita dell’attacco, un ingente danno economico all’industria multimilionaria del commercio aereo e costringere l’Occidente ad inasprire un sistema di controlli che si è manifestato troppo vulnerabile. Merita un approfondimento anche il quinto numero della rivista, diffuso a fine marzo con delle novità che non possono che far riflettere. A cambiare non sono né la grafica né lo stile, così da escludere possa trattarsi di una mano diversa, ma il contenuto: non sembra tanto una rivista volta a far proseliti in Occidente ed ad addestrarli al jihad da casa, quanto una presa di posizione politica sugli avvenimenti che stanno sconvolgendo la gran parte dei Paesi arabi, facendo crollare, insieme ai loro apparati di potere, presidenti che governavano da decenni. È come se Al Qaeda avesse deciso di scendere in campo, di approfittare del cambiamento e del presumibile vuoto di potere. Per impossessarsi di terre e uomini a lungo legati all’Occidente e, cosa non 62

secondaria, di screditare agli occhi dei musulmani residenti in Europa e negli Usa l’immediato appoggio alle rivolte apertamente manifestato dai leader occidentali. Appoggio che da sostegno politico è divenuto in Libia “intervento umanitario”. In quest’ultimo numero della rivista, che contiene tra l’altro una lunghissima valutazione effettuata da alZawahiri, numero due di Al Qaeda, sulle ripercussioni che tali stravolgimenti avranno nel breve e nel lungo periodo. Si analizzano le situazioni interne sia di quei Paesi i cui regimi sono già caduti (Tunisia ed Egitto, relativamente al quale Al Qaeda getta più di un ponte verso i Fratelli Musulmani), o sono comunque in uno stato di scontro armato in atto (Libia), sia di quelli in cui in realtà sinora le rivolte sono state più o meno controllate o represse (si pensi ad esempio allo Yemen, il cui presidente Saleh sarebbe, secondo la rivista, il prossimo leader a cadere). In tale contesto si prende posizione anche sulla successione al potere di quei leader arabi caduti grazie alle rivolte. In Egitto, ad esempio, cacciando Mubarak non si sarebbe fatto altro che terminare il lavoro iniziato trenta anni prima con l’assassinio di Sadat, accusato di essere un amico di Israele e un persecutore dei musulmani. Ma a destare interesse è soprattutto il quadro di insieme che viene fornito delle rivolte, delle reazioni occidentali (statunitensi in primis) e dei futuri rapporti di forza che si instaureranno dopo la caduta di regimi definiti «amici dell’America». Secondo la rivista proprio grazie ad essi l’America ha potuto per anni concentrarsi in Afghanistan, Pakistan ed Irak sulla «lotta al terrorismo», lasciando spesso a tali regimi il «lavoro sporco». Nell’editoriale, che sembra rivolgersi ai musulmani in Occidente, se non addirittura all’Occidente stesso, è spiegato come a differenza di quanto si , le rivolte nel Medioriente e Nordafrica non siano assolutamente un male per Al Qaeda, che crede nel popolo e lo sostiene nelle rivoluzioni contro i tiranni anche quando sono pacifiche: Al Qaeda infatti appoggia le rivoluzioni dei popoli indipendentemente dall’uso della forza, che nella filosofia dell’orga-


nizzazione è lecito, ma non necessario. Sono inoltre duramente criticati i Paesi occidentali ed il suo falso appoggio alle legittime richieste dei popoli contro gli “amici dell’occidente”, amici che l’America avrebbe prontamente scaricato con il solo scopo di accattivarsi le masse. Infine è lungamente ripetuto che cacciati tali leader il tema della Palestina ornerà finalmente centrale e l’ummah, la comunità dei fedeli musulmani, potrà finalmente cantare “Here we start and in al-Aqsa we’ll meet”, con tutto quello che il rimando alla moschea di Gerusalemme come noto comporta. Al di là di specifici numeri ed articoli e delle riflessioni che su di essi si possono fare, da questa analisi rileva come Al Qaeda, che da anni usa internet per farsi pubblicità, come incredibile e gratuita cassa di risonanza, riesce oggi online anche a reclutare ed addestrare nuovi terroristi direttamente in occidente, e forse ora anche a “far politica”, o così almeno sembrerebbe orientarsi con l’ultimo numero. E’ dunque l’uso che il terrorismo islamico sta facendo della rete la nuova sfida che dobbiamo affrontare: si tratta di una minaccia difficile da individuare e contrastare, che va combattuta anche sul piano della prevenzione, muovendo su un doppio binario. Attraverso queste riviste jihadiste, Al Qaeda sta infatti utilizzando internet per contrastare ideologicamente l’azione di religiosi e giuristi musulmani moderati che lavorano per combattere le idee estremiste, e allo stesso tempo per addestrare nuovi terroristi direttamente in occidente. Analogamente si deve quindi lavorare tanto per eliminare le ragioni di fondo che portano alcuni giovani musulmani che vivono in occidente ad abbracciare la causa dell’estremismo islamico, quanto sul piano del controllo e del monitoraggio delle fasce di popolazione in cui più facile è la nascita del fondamentalismo e del mondo della rete, controllo che non può non completarsi con un continuo ed incessante scambio di informazioni tra gli apparati di intelligence sia dei Paesi occidentali che di quegli Stati in cui maggiore è la presenza del fondamentalismo.


lo scacchiere

S

Unione europea /se la politica estera

della ue viene messa sotto esame

Dalla Russia agli Usa e alla Cina: ecco la pagella dello Ecfr DI ALESSANDRO MARRONE

i può dare un voto alla politica estera dell’Ue scevro da polemiche e umori politici contingenti? In un periodo in cui l’utilità dell’Unione è oggetto di dibattito in Italia e in altri paesi membri, soprattutto riguardo a Libia e immigrazione clandestina, cercare una valutazione di insieme della politica estera europea può essere molto utile. Uno studio recentemente presentato in Italia dallo European Council of Foreign Relations (Ecfr) dà i voti, per l’anno 2010, alla performance in politica estera delle istituzioni europee e degli stati membri dell’Ue.

Considerare non solo le istituzioni di Bruxelles ma anche e soprattutto i paesi membri vuol dire prendere realisticamente atto che la politica estera europea dipende in gran parte dai governi nazionali, in particolare di un ristretto gruppo di capitali, e che il ruolo delle istituzioni Ue può essere importante su alcuni dossier ma marginale se non nullo su molti altri. Le “materie d’esame” per l’Europa considerate dallo studio Ecfr sono sei: rapporti con la Russia, gli Stati Uniti, la Cina; politiche nel vicinato, nella gestione delle crisi e sulle questioni multilaterali. Per quanto riguarda lo scacchiere europeo, i rapporti con Russia, con Stati Uniti e i paesi del vicinato rappresentano un triangolo imprescindibile.

Secondo lo studio,

nel 2010 in ambito Ue si sono ridotte le distanze tra il campo più desideroso di cooperare con Mosca e quello più preoccupato di contenerne l’influenza e l’assertività. Tale convergenza è dovuta soprattutto al cambiamento della posizione polacca dopo le elezioni presidenziali e al ruolo della Germania nel promuovere un dialogo di sicurezza Ue-Mosca. La maggiore unità di intenti non ha però portato risultati significativi, considerando che la firma del trattato Start II e l’appoggio russo alle sanzioni contro l’Iran – entrambi, in

64


scacchiere misura diversa, importanti per e benvenuti dagli europei – sono dovuti alla politica americana verso la Russia piuttosto che a quella europea. Riguardo agli Stati Uniti, essendo il rapporto transatlantico prevalentemente basato sulla cooperazione in tutti i settori, la questione è quanto l’Europa sia riuscita a farsi ascoltare dall’amministrazione Obama sui dossier in cui i suoi interessi erano in gioco. Poco. Anche perché gli stessi paesi europei in molti casi non riescono a formulare interessi comuni e quando lo fanno raramente sono in grado di difenderli di fronte alle priorità americane. L’Iran è un esempio positivo nella misura in cui l’Europa ha formulato una posizione comune e ha investito risorse politiche e materiali per cooperare in modo più equilibrato con gli Usa, sebbene i risultati della politica occidentale siano molto dubbi. Il braccio di ferro del Parlamento Europeo con gli Stati Uniti sulla protezione della privacy dei cittadini europei nella cooperazione antiterrorismo – l’accordo “Swift” - è un altro esempio del genere. In tutti gli altri casi, dalla difesa missilistica dell’Europa al conflitto arabo-israeliano all’Afghanistan, gli europei hanno avuto scarsa o nulla influenza sulla leadership americana.

Rispetto al vicinato europeo, i risultati

ottenuti nel 2010 presentano luci e ombre. La prospettiva di integrazione europea continua a essere uno strumento fondamentale per imporre un miglioramento della stabilità, sicurezza e governance nei Balcani occidentali, sebbene rischi di non essere sufficiente in Bosnia. Meno forte è l’influenza dell’Ue sulle repubbliche ex Sovietiche parte dell’Eastern Partnership, che possono trattare al rialzo con Mosca e Bruxelles per massi-

mizzare l’interesse dei vicini rispetto ad esempio alla sicurezza energetica, senza contare che la Russia molto più in grado di imporre la propria agenda. Rispetto alla Turchia, l’Europa non solo vede la diminuire la propria influenza ma non è nemmeno d’accordo su quali siano gli obiettivi strategici di fondo nel rapporto con Ankara, divisa tra il fronte crescente del no all’ingresso turco nell’Unione e i fautori dell’allargamento. Il quadro complessivo vede emergere un trend che sembra caratterizzare anche il 2011. Le istituzioni europee riescono a formulare – insieme agli stati membri – e a mettere in atto una politica estera efficace in alcuni settori in cui le loro competenze legali-istituzionali sono forti e definite, e dove possono sfruttare la forza dell’Europa in quanto aggregato: ad esempio nell’imporre riforme e stabilità nei Balcani occidentali promettendo una prossima integrazione, o nell’ottenere condizioni più equilibrate dagli Stati Uniti bloccando l’accordo Swift. Negli altri campi, la partita si gioca tra le principali capitali europee, e una politica estera europea esiste ed è efficace solo nella misura in cui si negozia una posizione comune in grado di soddisfare a sufficienza i principali interessi nazionali in gioco. In questo secondo caso, le istituzioni Ue potrebbero svolgere un importante ruolo di mediazione e costruzione del consenso intra-europeo, ruolo che è mancato e continua purtroppo a mancare. 65


Risk

America Latina/Perù, le ragioni del voto

I

Il 5 giugno 22 milioni di cittadini dovranno eleggere il presidente DI

RICCARDO GEFTER WONDRICH

l Perù è il paese economicamente più dinamico dell’America latina. Dal 2006 al 2010 il Pil è cresciuto in media del 7,2% ogni anno. Il sistema bancario si è rafforzato e il settore estrattivo ha tratto grande beneficio dagli alti prezzi internazionali delle materie prime. Il presidente Alan García ha seguito l’esempio del Cile puntando con decisione sull’apertura commerciale. Il suo governo ha sottoscritto un trattato bilaterale di libero scambio con gli Stati Uniti e uno con la Cina e recentemente ha promosso un progetto per integrare il mercato dei capitali di Lima con quelli di Santiago e di Bogotà per attrarre investimenti esteri e offrire un’alternativa regionale alla borsa di San Paolo. Nonostante i successi macroeconomici e commerciali, tuttavia, la maggioranza della popolazione non pare soddisfatta, e al primo turno delle elezioni presidenziali del 10 aprile ha espresso il proprio desiderio di cambiamento. Il più votato è stato infatti il candidato nazionalista pro-indios Ollanta Humala, ex militare, nessuna esperienza di governo, negli anni scorsi vicino alle posizioni di Hugo Chávez e fino a pochi mesi favorevole a espropriare le compagnie straniere del settore minerario e del gas e a ricusare il trattato commerciale con gli Stati Uniti. La seconda arrivata è la conservatrice Keiko Fujimori, 35 anni, figlia dell’ex-presidente Alberto Fujimori, in carcere con una condanna a venticinque anni per violazione dei diritti umani. Sarà tra loro due che il 5 giugno ventidue milioni di peruviani dovranno eleggere chi guiderà il paese nel prossimo quinquennio. Le ragioni di questo voto sono sostanzialmente due. La prima è aritmetica: la frammentazione del voto centrista tra l’ex ministro delle finanze Pedro Pablo Kuczynsky terzo con il 18,5% dei voti - l’ex presidente Alejandro Toledo - quarto con il 15,6% - e l’ex sindaco di Lima Luis Castañeda -10% - ha finito per premiare Humala e Keiko Fujimori, rispettivamente con il 31,7% e il 23,5% dei suffragi. 66

La seconda è socio-politica: il voto ha reso evidente la fragilità del sistema politico peruviano e i problemi dei regimi presidenzialisti latinoamericani. La crescita economica non basta a migliorare la cattiva opinione che la gente ha dei partiti tradizionali, del Parlamento e del sistema giudiziario. Solo la presidenza della repubblica riesce a salvarsi, ma ciò si deve al carattere messianico del leader che stabilisce un rapporto diretto con il popolo e rappresenta lui stesso la nazione. La prova più evidente della crisi del sistema politico tradizionale è che il partito al governo - l’Apra- non è riuscito a presentare un candidato, e ha sofferto una vera debacle al Congresso, dove frana da 36 a 4 seggi su un totale di 130. Se la povertà in termini assoluti è scesa negli ultimi anni, la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi è rimasta costante o addirittura è aumentata, e il voto indigeno e delle classi più povere si è orientato su Humala. Questi ha fatto tesoro degli errori passati, quando era percepito come un secondo Hugo Chávez, e questa volta ha accuratamente costruito la propria immagine pubblica insieme a un’equipe di esperti di marketing politico di Lula, vero marchio di successo per i candidati di tutta la regione. La sterzata verso posizioni più socialdemocratiche gli ha fatto recuperare dieci punti percentuali nell’ultimo mese, garantendogli i favori del pronostico al ballottaggio. Keiko Fujimori ha toccato altri tasti, promettendo più sicurezza interna e facendo leva sul pragmatismo e l’efficienza che molti Peruviani ancora riconoscono a suo padre. Anche nel suo caso l’inesperienza politica e una vibrante vena populista sollevano apprensioni. Alla fine vincerà chi conquisterà più voti a Lima. La capitale conta con un terzo di tutta la popolazione del Perù. Qui è concentrato il grosso dell’elettorato di centro, quello che probabilmente andrà a votare sperando che il vincitore non inverta la rotta della nave.


scacchiere

Africa/è tempo di una primavera africana?

È

I Paesi a Sud del Sahara sono in fibrillazione. Ma questo non basta DI

MARIA EGIZIA GATTAMORTA

possibile ripetere l’esperienza della “primavera araba” che si è realizzata in Nord Africa negli ultimi quattro mesi anche nella vasta area a sud del Sahara? Le condizioni che hanno generato i movimenti di piazza in Egitto ed in Tunisia sono presenti anche nell’area occidentale o australe del continente africano? Sono domande non indifferenti che inducono a riflettere sulle potenzialità di alcuni eventi registrati ultimamente in Angola, Benin, Burkina Faso, Cameroon, Djibouti , Etiopia e Swaziland ma soprattutto sulle prospettive per lo sviluppo della democrazia e della libertà in questi paesi. È difficile dare una risposta univoca. Indubbiamente i disordini di febbraio-marzo nelle piazze di Douala, Mbabane, Addis Abeba dimostrano la grande volontà di cambiamento proveniente dal basso ma allo stesso tempo denotano anche l’incapacità delle opposizioni di coagulare le forze e di consolidare la protesta. Di fronte ad un potere validato nel tempo, che non esita a far utilizzare dalla polizia misure violente di repressione, incarcerazione preventiva, lacrimogeni per disperdere la folla, sarebbe fondamentale per i partiti di opposizione utilizzare una strategia diversa, convergente ad unum, strategia che però - sfortunatamente - ancora stenta a manifestarsi. Non solo. Per far vincere la reazione e provocare l’alternanza al di sotto del Sahara, mancano soprattutto dei fattori strutturali, quali un alto tasso di alfabetizzazione delle masse giovanili, l’accesso ad internet ed una classe media sviluppata. Mantenere una popolazione nell’ignoranza, non facilitarle l’accesso alla formazione secondaria né tantomeno all’università, tenerla scollegata dal resto mondo, impedire la creazione di un ceto abbiente, permette alla leadership che è al potere (in alcuni casi da un trentennio o da un ventennio) di continuare a restare salda nei suoi privilegi. D’altra parte le opzioni sono poche: come è possibile mandare un figlio a scuola, quando servono braccia per il lavoro nei campi? Come accedere alla

“rete” quando ci sono dei problemi per avere l’energia elettrica nelle case sia nelle periferie urbane che nelle zone rurali? Le folle che hanno animato le proteste di Tunisi e del Cairo erano di fatto composte da giovani universitari, da ragazzi che utilizzavano i mezzi informatici (twitter o facebook) per organizzare i raduni, da titolari di piccole imprese familiari che rivendicavano il diritto ad un lavoro e che reclamavano la libertà di scegliere rappresentanti nazionali sulla base di proposte non legate esclusivamente al partito unico o - comunque - predominante. Sotto questo punto di vista, c’è una differenza difficilmente colmabile nel breve periodo tra il Nord Africa e le aree sottostanti. Serve tempo (almeno un decennio) e solidarietà interna oltre che regionale per far sviluppare quelli che oggi appaiono come elementi in nuce. In tal senso, può essere interessante notare quanto accade nel regno dello Swaziland. Migliaia di persone hanno manifestato a metà marzo per esprimere il loro malumore contro le scelte del giovane re Mswati III, orientate a tagli salariali e nuove tasse sui beni di consumo. A sostegno dei dimostranti si è schierato il potente Congresso of South African Trade Unions (meglio noto come Cosatu) , che si è impegnato a supportare i lavoratori ed i poveri, in nome di un sentimento di fratellanza e del sostegno garantito dallo Swaziland negli anni dell’apartheid. Fa ben sperare la denuncia popolare che si sta realizzando proprio in questi giorni in una delle ultime monarchie assolute nel mondo. È difficile dire come potrà evolvere la situazione: le proteste continuano parallelamente alle operazioni di polizia ma di certo è affiorato per la prima volta un malessere sociale rigenerante. È tale malessere che esprime una denuncia del sistema ed una volontà di cambiamento. Il messaggio che se ne deduce è chiaro. Pazienza, coraggio, volontà di imitazione, sostegno da parte di partner collaudati: sono queste le variabili necessarie per riprodurre un processo dinamico e dare vita alla “nuova primavera africana”. 67


La storia

L’

Gabriel de Luetz barone d’Aramon entrato a Tripoli con Solimano

ultimo giorno di naja, giusto trentanove anni fa, feci una deambulatio sacra attorno alla caserma, come piaculum di malinconia per la tanto desiderata liberazione. Ho ripetuto il rito apotropaico il 30 ottobre scorso per i due chiostri dell’Unicatt (quello delle Vergini essendomi precluso) e poi per la Pinacoteca del Castello Sforzesco... Quanno, ‘n mezzo a tutte quelle tele / nun incoccio er pizzetto de Vittorio Emanuele? Certo senza bretelle rosse: ma in nera zimarra, colletto bianco e catena d’oro, era proprio preciso ar collega che ha ereditato il corso ex-mio di storia delle istituzioni militari. Beh, Parsi è un po’ più bello, ma lui lo conoscono tutti, mentre Gabriel de Luetz signore e barone d’Aramon e di Valabregues ritratto da Tiziano Vecellio, è proprio roba da topi di biblioteca o storici dell’arte. Pensavo io: invece ho scoperto che ha un fan club su facebook. Io, burino troglodita, non ne sapevo proprio niente e se non fosse stato per l’impressionante somiglianza col giovane collega di sicuro non ci 68

di Virgilio Ilari

avrei proprio fatto caso, neppure per via di quel misterioso fascio di frecce che Tiziano gli ha messo nella destra. È proprio vero, impara l’arte e mettila da parte: chi ci pensava allora che mi sarebbe tornato in mente leggendo le cronache di marzo-aprile? Di questo Gabriel non è che si sappia poi granché. Alcuni lo dicono guascone, altri provenzale (Aramon era a tre leghe da Nîmes): nel 1526, alla morte del padre, era ancora minorenne; il 15 agosto 1540 già abbastanza grande da essere condannato a bando e confisca dal prevosto della gendarmeria per violenze contro i vassalli. A quell’epoca c’era ancora l’Europa, e i sans papier provenzali se ne andavano in Italia a cercare fortuna. Del resto era ormai mezzo secolo che lo facevano, o per conto loro o col re alla loro testa: in una di quelle che l’anonimo autore di uno dei tantissimi poemi bellici italiani del Cinquecento (pubblicati da Rolando Bussi, Guerre in ottava rima, nel 1988) aveva definito «le horrende guerre de Italia» del 1494-1559. Otto secondo l’edizione inglese di Wikipedia, undici secondo l’edizione francese, ma in ogni modo quelle che


Nicolas de Fer, Veduta di Tripoli, ante 1705

Philippe de Commynes (1447-1511) aveva chiamato se di Mirandola e per verificare la fattibilità di un les gloires et les fumées d’Italie abbellirono la storia piano per sorprendere Cremona presentato da Giulio di Francia di una serie di epici Cesare Gonzaga. Nel 1542, Ambasciatore fiaschi, collezionati sulla pelle quann’ariscoppiò a guera e il di svizzeri e turchi da Carlo governo veneziano decise di di Francia a VIII, Luigi XII, Francesco I ed Costantinopoli, ritratto sputtanarlo, Pellicier fu richiaEnrico II. E culminati infine mato in Francia, dove fu arrestada Tiziano Vecellio, nella Riforma Tridentina, nelle to con l’imputazione di essere accompagnò il Grande guerre civili francesi, nell’itastato troppo tollerante coi riforSultano nelle imprese lianizzazione della Francia mati; per cavarsela, dovette (Caterina e Maria de Medici, di conquista, dandogli cambiare registro trasformandoCardinale Mazzarino) e nella consigli sull’artiglieria si in duro persecutore. Tuttavia, gloria barocca dell’Italia ispada usare. Per lanciarsi se i lanzichenecchi luterani aveno-cattolica (e buttala via). vano saccheggiato Roma in dopo contro Andrea Bandito dunque da Aramon, nome del Re Cattolico, pure il Doria ed entrare, da Luetz fu accolto dall’ambaCristianissimo riscopriva gli sciatore francese a Venezia, lui ugonotti quando i giri di valzer vincitore, nell’odierna pure provenzale (era vescovo della Curia Romana la riportacapitale di Libia… di Montpellier). Arrivato nel vano fra i suoi nemici. Massimo 1539, Guillaume Pellicier (1490-1568) faceva spio- artefice dell’apertura ecumenica ai protestanti era il naggio e operazioni coperte e impiegò Gabriel per vescovo di Valence Jean de Montluc (1502-1579), il reclutare mercenari attraverso la guarnigione france- quale si era attirato le ire di Roma con la proposta di 69


Risk

Lettera cifrata di Gabriel d'Aramon, con parziale decifratura, al Museo di Ecouen

un concilio di riunificazione. E si era spinto ancor più oltre, giustificando sul piano teologico l’alleanza di Francesco I con Solimano III il Magnifico avviata nel 1525. A Venezia, nel gennaio 1541, era sbarcato, malato per una procellosa traversata, il rinnegato Antonio Rincon, secondo ambasciatore francese a Costantinopoli. Il suo assassinio, nel luglio dello stesso anno, mentre stava tornando da Solimano con nuove istruzioni, fu il casus belli per la decima guerra d’Italia (1542-46). Di nuovo fece vela Hayreddin Barbarossa (1478-1546), il grande ammiraglio ottomano al quale soprattutto dobbiamo le mille torri che ancora ornano le nostre coste, che nel 1516 aveva strappato Algeri agli spagnoli e nel 1538 aveva distrutto la flotta imperiale a Prevesa, assicurando per i successivi 33 anni, fino a Lepanto, il dominio turco del Mediterraneo. Di nuovo mal contrastato dal Cav. Andrea Doria (1466-1560), 70

Barbarossa conquistò Nizza e svernò a Tolone, la cui cattedrale fu trasformata in moschea. Gli dette una mano, con 5 galee, “capitan Paulin” poi barone de La Garde (1498-1578), terzo ambasciatore francese in Turchia, nonché esecutore del massacro dei valdesi di Merindol, ordinato da Francesco l nel 1545 per lavarsi la coscienza con sangue di eretico. Fatta la pace nel giugno 1546, in dicembre il re scelse Aramon come suo quarto ambasciatore a Costantinopoli, e lo fece accompagnare dal citato Jean de Monluc e da una schiera di scienziati non meno famosi e qualificati dei savants che seguirono Bonaparte in Egitto nel 1798 e di quelli che Bernard-Henri Lévy sta mobilitando per la Cirenaica. Il più famoso era Guillaume Postel (1510-81), linguista, astronomo, cabalista, diplomatico e amico di Ignazio di Loyola: ma c’erano pure il naturalista Pierre Belon (1517-64), il traduttore


storia

Lettera di Francesco I di Francia al Drogman Janus Bey del 28 dicembre 1546, controfirmata dal segretario di stato Claude de l'Aubepine

Pierre Gilles (1490-1555), il topografo Nicolas de saggio di Aramon per Venezia, e non al primo del Nicolay (1517-83) e l’esploratore André de Thévet 1541-42 come dicono le didascalie della Pinacoteca, (1516-90), autore di un rapporto scientifico. Il segre- che (salvo prova contraria) riterrei più probabile tario Jean Chesneau ne redasse invece il diario, pub- datare il ritratto di Tiziano, dove sono dipinti in blicato da Charles de caratteri maiuscoli il nome del Baschi nelle Pièces fugitipersonaggio e l’incarico di ves pour servir à l’histoire “imbasator di Re de Francia a de France (1759, I, pp. 1Costantinopoli” (anche se in 136) e poi nel 1887 a Parigi teoria potrebbero essere e Francoforte. Il passaggio aggiunte posteriori). Quanto della comitiva per Venezia al fascio di frecce, Simon lasciò traccia nella dedica Abrahams lo ritiene un’allead Aramon della prima goria dei pennelli e una firma traduzione italiana del del pittore, essendo convinto Attacco di Tripoli da parte degli Ottomani Corano, stampata appunto che every painter paints hima Venezia nel 1547 da Andrea Arrivabene (il quale self. A me richiama piuttosto il celebre dictum “conspacciò come traduzione diretta dall’arabo una vul- tro i propri nemici ogni tipo di legno è buono a far gata dal latino). Ed è appunto a questo secondo pas- frecce” pronunciato nel 1540 per giustificare l’em71


Risk ro Francesco II. La prima operazione fu condotta contro Tripoli da Dragut (Turghut Reis, 1485-1565) già luogotenente di Barbarossa a Prevesa, il quale aveva base a Tajura, 20 chilometri ad Est del castello difeso da 30 cavalieri di Malta con 620 mercenari calabresi e siciliani. Il 9 agosto 1551 tre batterie con 36 pezzi pesanti apersero il fuoco da terra, mentre Tiziano Vecellio, Ritratto di Gabriel de Luetz (1547). Tripoli Milano, Castello Sforzesco, Pinacoteca. nella mappa di Piri Reis arrivava Aramon con la sua pia alleanza con la Mezzaluna dal maresciallo di squadretta di 2 galere e 1 galeotta. Secondo il rapFrancia Blaise de Montluc (1502-1577), fratello porto fatto poi a re Enrico, intimò a Dragut di del vescovo Jean, compagno di viaggio di sospendere l’attacco, perché l’Ordine di San Aramon. Giovanni non era in guerra con la Francia e inoltre Quanto alla missione diplomatica, Aramon l’inau- i cavalieri del presidio erano tutti francesi, minacgurò accompagnando Solimano nella sua seconda ciando in caso contrario di tornar subito a vittoriosa campagna (1547-48) contro lo Scià safa- Costantinopoli per informare il Sultano. Le 100 wide Tahmasp I (ovviamente alleato di Carlo V, galere di Dragut però glielo impedirono e il 15, secondo il principio “il nemico del mio nemico dopo sei giorni di bombardamento, i mercenari si ...”), e dandogli consigli circa l’uso dell’artiglieria ammutinarono e apersero le porte. Per tutto ringranell’assedio di Van. Intanto, nel Mediterraneo, la ziamento Dragut li fece schiavi (e magari quelli morte di Barbarossa aveva indebolito il potere con gusti particolari andarono pure a stare navale ottomano e l’8 settembre 1550 Andrea meglio), mentre liberò i francesi. Aramon parteciDoria conquistò Mahdya, l’antica capitale della pò al banchetto della vittoria e il gran maestro Tunisia a Sud-Est di Biserta, rafforzando così la dell’Ordine (lo spagnolo Juan de Omedes y difesa avanzata delle Isole e delle coste italiane Coscon) fece processare e degradare il comandanche giù contava sulle basi di Tunisi e Tripoli. te del castello (il francese Gaspard de Vallier): tutL’impresa innescò l’undicesima e ultima delle tavia il comandante militare dell’Ordine, Nicolas guerre italiane, cominciata con un patto militare Durand de Villegaignon (1510-1571), difese de tra Solimano e il nuovo re di Francia Enrico II, per Vallier e accusò Omedes di doppiezza. Mise poi in attaccare le coste italiane e conquistare la frontie- sicurezza Malta e respinse il successivo attacco di ra naturale del Reno. A tacitare i dubbi di coscien- Dragut su Gozo. Nel 1552 Dragut e Aramon si za provvide un’Apologie, faicte par un serviteur spinsero nel Medio Tirreno per collegarsi con le du Roy, contre les calomnies des Impériaulx: sur 25 galere di Paulin de La Garde provenienti da la descente du Turc, scritta nel 1551 da Pierre Marsiglia. Il 5 agosto Dragut sconfisse sotto Ponza Danès (1497-1579), ambasciatore francese al le 40 galee genovesi di Andrea Doria catturandone Concilio di Trento e precettore del Delfino, il futu- 7, e il otto giorni dopo entrò a Maiorca. Mancò tut72


storia tavia l’appuntamento con Paulin, arrivato a Napoli za turca contagiò i protestanti. Qualcuno la conuna settimana dopo che Dragut era ripartito per dannava, come fece nel 1587 l’ugonotto François Chio. Le due flotte svernarono lì e nell’estate del de la Noue (1531-91); ma in generale si ricordava1553 razziarono le coste siciliane e napoletane e no i distinguo di Lutero nell’opuscolo del 1528 l’isola d’Elba, imbarcarono nella Maremma sene- sulla guerra contro i turchi, si lodava la tolleranza se le truppe francesi provenienti da Parma e strap- religiosa del Sultano e si sottolineavano le affinità parono la Corsica ai genovesi, per ingerenza uma- tra Islam (considerato storicamente la più antica nitaria a favore degli insorti corsi capitanati da “riforma” del Cristianesimo) e Fede evangelica Sampieru di Bastelica. Sostituito da Michel de rispetto alla prostituzione idolatrica operata dai Codignac, Aramon tornò a casa nel 1553, ma pare papisti: libero esame delle Scritture; iconoclastia e sia morto poco dopo senza aver potuto recuperare concezione contrattuale e non sacramentale del le sue rendite feudali. Con lettere del 5 giugno matrimonio. Nel 1575-76 solo l’arrivo in Aragona 1556 Enrico II le donò come TFR del vincitore di Lepanto, don alla vecchia amante Diane de Giovanni d’Austria, sventò il proPoitiers duchessa di Valentinois getto di una sollevazione dei mori(1499-1566) ma le autorità locali scos appoggiata dagli ugonotti fecero orecchio da mercante e probearnesi e dalle flotte ottomana e crastinarono la consegna agli eredi algerina. Gli inglesi badarono invefino al 1595. Quanto alla guerra, ce più al sodo, stabilendo nel 1585 fu decisa il 10 agosto 1557 a San la prima società commerciale Quintino in Piccardia dalle truppe (Barbary Company o Moroccan spagnole di Fiandra comandate da Company). E ora scusatemi. Sono Emanuele Filiberto I di Savoia atteso alla Farnesina per consegnare (1528-80). L’anno seguente vi fu al Comitato di crisi l’esplosivo un ultimo guizzo navale francodocumento che consentirà al nostro ottomano, con l’invasione delle Paese di battere sul tempo la conDragut Baleari e la presa di Reggio, dove correnza posizionandoci esattamen6.000 calabresi furono fatti schiavi e deportati a te dalla parte dell’utilizz... pardon, del vincitore Tripoli, eretta in pascialato sotto Dragut. Inseguito finale. O volete sapé, eh? E vabbé, va: so’ le dai creditori ed espulso da Costantinopoli, Centurie di Nostradamus (1503-1566), e precisaCodignac sbarcò a Venezia e passò al servizio di mente la Quartina V, 14: Saturno, Mars in Leo, Carlo V. La pace di Cateau Cambrésis restituì la Spagna occupata, / per capo libico in conflitto Corsica ai Genovesi e lasciò Tripoli a Dragut. Nel entrato, / vicino a Malta Infanta catturata, / scetfebbraio 1560 una squadra di 50 galere imperiali tro romano dal gallo spezzato. Chiaro no? Mentre tentò invano di riprendere Tripoli: prive di acqua, la Nato, su mandato di Bruti Liberati, è distratta a le truppe furono ritirate all’isola di Gerba in bloccare la minorenne Ruby per impedirle il riconTunisia, dove dal 9 al 14 maggio furono annienta- giungimento familiare con lo zio, esule a Malta, le te. Le sorti del Mediterraneo mutarono poi con la Amazzoni di Gheddafi esfiltrano indisturbate sui resistenza di Malta all’attacco del 1565 e con la pescherecci tunisini e si arroccano a Gibilterra, vittoria cristiana di Lepanto nel 1571, anche se nel chiave della Spagna. Intanto il Cardinal Bertone, furibondo, rompe caritatevolmente il pastorale 1573 Tunisi fu espugnata dagli Ottomani. Calmatisi i re di Francia, la passione per l’allean- sulla zucca di Sarkozy. 73


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libreria

CONFLITTI E TEATRI DI CRISI: IL MAPPAMONDO DI MARGELLETTI

S

di Giancristiano Desiderio

e avete un mappamondo a portata di mano potete fare un piccolo esperimento. Provate a far girare il globo e fermatelo a caso ad occhi chiusi. Controllate in che punto della Terra avete messo le mani. In Cina? In Sudamerica? In Medio Oriente? Nei Balcani? In qualunque regione, Stato o popolo sia caduta la vostra scelta casuale, è molto probabile che lì ci sia una guerra o un conflitto interno o una situazione di instabilità. Non solo perché lo «stato di natura» del mondo è più vicino alla guerra che alla pace, ma anche perché il mondo di ieri diviso in blocchi e raffreddato dalla guerra fredda non è il mondo di oggi frammentato in aree e tessere di un puzzle in cui regna sovrano il disordine e la «guerra perpetua». Così per orientarvi nel caos internazionale di un mondo reso più piccolo dalla tecnologia e più illusorio dalla comunicazione, un mondo che si dice cambiato dopo l’11 settembre, ma che in realtà è mutato con il crollo di uno dei due blocchi imperiali – e non bisogna neanche specificare quale – avete bisogno di un altro mappamondo che vi faccia da bussola nel disordine mondiale. Per vostra e nostra fortuna questo speciale mappamondo esiste. Lo ha scritto Andrea Margelletti e s’intitola Un mondo in bilico. Atlante politico dei rischi e dei conflitti. I lettori conoscono Andrea Margelletti e il suo lavoro come presidente del Centro studi internazionali o Cesi. Si attendono molto dal suo giudizio e dalla sua esperienza. Non resteranno delusi, grazie alle sue analisi

ANDREA MARGELLETTI

Un mondo in bilico atlante politico dei rischi e dei conflitti eurilink pagine 180 • euro 28

Vent’anni fa qualcuno disse che la storia era finita. Il responso dell’oggi è questo: la storia è finita solo per un giorno, solo per un attimo. La storia continua a svolgersi sotto i nostri occhi, parallelamente alle nostre vite. Più che un manuale storicistico o di relazioni internazionali, un mondo in bilico si presenta come una mappa che intende guidare il lettore attraverso i maggiori conflitti e teatri di crisi che ancora oggi affliggono il pianeta.

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Risk e alla capacità che ha di fornire una mappa geopolitica del «nuovo mondo». Tuttavia, il mappamondo di Margelletti non è un testo solo per addetti ai lavori. Tutt’altro. Per come è pensato e formato il libro è un utile strumento di conoscenza ed orientamento non solo per politici e diplomatici e giornalisti, ma anche per imprenditori, viaggiatori istruiti e turisti per caso. Muoversi all’avventura è bello e avventuroso, ma viaggiare avendo dei punti di riferimento non solo è più prudente, ma può rendere più apprezzabile lo spirito di avventura. L’Atlante geografico e politico di Margelletti ha questo aspetto didattico fin dalla suddivisione in regioni della Terra: Medioriente, Africa, Asia, Caucaso e Asia centrale, Sudamerica e Balcani. «Per ciascuna regione è stato delineato un quadro generale con le dinamiche geopolitiche principali e gli sviluppi tendenziali. Ogni regione – spiega l’autore nella prefazione – è stata poi suddivisa in scenari di crisi, presentati in forma di schede in maniera tale che il lettore ne potesse avere un’idea storico-politica precisa. In definitiva, questo «Mondo in bilico» voleva far luce su scenari che sono apparentemente lontani da casa nostra, ma che, dopo l’11 settembre, sono divenuti parte della nostra quotidianità. Non un libro di storia, dunque, ma una «mappa per orientarsi in un mondo sempre più insicuro». Proviamo a girare un po’ il mondo seguendo la mappa di Margelletti. Che cosa sta accadendo in Africa? In un editoriale sul Corriere della Sera intitolato Il calderone Mediterraneo Giovanni Sartori ha sostenuto la tesi delle «insurrezioni di giovani attizzati dalla tecnologia, dai telefonini, dalla televisione e soprattutto da internet». Ciò che sta accadendo al di là del Mediterraneo ci riguarda molto da vicino perché il «mare di mezzo» porta con facilità da quest’altra parte i risultati delle insurrezioni. Ciò che accade al di là del Mediterraneo, infatti, non è una o più «rivoluzioni», ma più 76

generiche ribellioni che essendo prive di un progetto politico difficilmente approderanno a qualcosa di costruttivo e stabile. L’unico progetto che è in piedi e che si allarga e organizza è quello della minaccia terroristica di Al-Qaeda. Nelle delineare il «quadro africano» Margelletti si sofferma proprio su questo aspetto della organizzazione terroristica: «negli ultimi anni, al-Qaeda si sta rafforzando sempre più nel continente africano utilizzando il nuovo marchio Aqmi, al-Qaeda nel Maghreb islamico. Il gruppo sembra aver consolidato la propria adesione al jihadismo internazionale, intensificando le proprie azioni terroristiche sul territorio algerino e dimostrando di essere la prima organizzazione della rete jihadista operante nella regione nordafricana e oltre. Ormai del tutto “commissariato” da al-Qaeda, Aqmi è attualmente operativo nella regione berbera della Cabilia, nell’Algeria meridionale e, in misura sempre più crescente, verso sud, nel Sahel. L’organizzazione, infatti, ha dimostrato di poter colpire anche altri Paesi. In Mauritania, per esempio, diversi attentati suicidi, primi episodi simili avvenuti fuori dal territorio algerino, sono stati rivendicati da gruppi locali affiliati ad al-Qaeda. Ma non sono mancati casi che hanno coinvolto il Mali, il Niger, il Sahara Occidentale, la Nigeria». Ciò che accade in Africa e in particolare nei Paesi che si affacciano nel Mediterraneo le «insurrezioni» o «ribellioni» o «rivoluzioni» non sempre ci mostrano tutto il loro volto. L’interesse del mondo occidentale ed europeo è determinato dalla necessità. In questa terra di nessuno, sancta sanctorum di tutte le attività illecite dell’Africa subsahariana, si addestrano e si indottrinano terroristi. Gli Stati Uniti, in particolare, non vogliono farsi sorprendere: «è quindi un aspetto da non sottovalutare il ruolo degli Usa nella questione. Nel progetto di collaborazione militare in atto nella regione, infatti, Washington dovrebbe svolgere una funzione di primo piano, di concerto con la Trans-Sahara


libreria counter-terrorismi initiative, nel cui ambito gli Stati Uniti forniscono supporto ai governi della regione. L’obiettivo principale che gli Usa vogliono raggiungere è prevenire la reale possibilità che al-Qaeda possa stabilire proprie basi permanenti nello stesso Sahara. In questa ottica, lo Us Army’s Africa command (Africom), con sede in Germania, fornisce supporto militare a 10 Paesi della regione trans-sahariana, attraverso l’operazione Enduring Freedom-Trans Sahara (Oef-Ts). Quest’ultima traduce l’intervento americano nell’area a favore dei membri del programma Trans Sahara Counter terrorism partnership (Tsctp), sia sotto il profilo della cooperazione in generale sia nell’ambito delle attività anti-terrorismo. Nello specifico, l’intesa riguarda gli Usa e 11 Stati africani: Algeria, Burkina Faso, Ciad, Libia, Mali, Mauritania, Marocco, Niger, Nigeria, Senegal e Tunisia». Cambiamo area geografica, ma restiamo in zona mediterranea. Il capitolo che riguarda il Medioriente non può non aprirsi con quella che l’autore chiama «il padre di tutti i conflitti: Israele e Palestina». Il nodo mediorientale è qui. Lo sanno bene tutti: il governo di Gerusalemme, i palestinesi, Washington, gli amici e i nemici di Israele. Il presidente Obama – presidente con tanto di Premio Nobel per la Pace – ha speso molte delle sue energie per venire a capo della storica questione, ma al momento non si è giunti a risultati diversi dal passato. Quando sembrava che la missione del vicepresidente Biden arrivasse a qualcosa di concreto, ecco il colpo di scena della costruzione di 1.600 nuove abitazioni a Gerusalemme Est che, nell’ottica americana, va a mettere a rischio le possibilità di un nuovo dialogo. Qui Margelletti rivela un retroscena: «il Presidente Obama è andato su tutte le furie a causa dell’annuncio e ha passato circa novanta minuti in collegamento con il suo vice per stabilire una linea comune con cui Biden avrebbe poi affrontato l’incontro con Netanyahu, il quale ha

aspettato per tutto il tempo alla cena organizzata in onore del suo ospite. Successivamente, il segretario di Stato, Hillary Clinton, ha trasmesso al premier israeliano le “forti obiezioni” degli Stati Uniti al progetto, dicendo esplicitamente che Washington lo ha considerato un segnale profondamente negativo da parte di Israele rispetto alle relazioni bilaterali fra i due Paesi, mentre David Axelrod, consigliere del presidente Obama, ha definito il trattamento riservato a Biden un “insulto”. Si è così giunti ad uno dei momenti di maggior freddezza delle relazioni tra Stati Uniti e l’alleato israeliano». Il conflitto israelo-palestinese è un po’ lo specchio del «mondo in bilico» disegnato dalle analisi geopolitiche di Margelletti. Se prima il mondo, ossia il mondo deciso e diviso a Yalta e che vive fino al 1989, era diviso ma paradossalmente unito dal suo stesso bipolarismo internazionale, il mondo di oggi, invece, è in una situazione opposta: è unito nella globalizzazione e contemporaneamente diviso. Se prima la linea di demarcazione passava tra Est e Ovest, ora il confine divisorio sembra essere tra Nord e Sud. La guerra fredda stabilizzava il mondo, mentre la Pace Calda lo rende instabile. «La fine dell’Unione Sovietica – scrive l’autore – ha ingenerato conseguenze negative sugli ...stan country, così denominate le repubbliche ex-sovietiche dell’Asia, nel senso che la distruzione delle industrie produttive, il crollo degli scambi commerciali, l’istituzione di sistemi amministrativi fino ad allora inesistenti, hanno provocato un dissesto economico e conseguentemente condizioni idonee e spazi operativi per l’estremismo religioso e per l’opposizione ai regimi locali». In generale, quella dell’Asia centrale era e resta una zona d’interesse vitale per la Federazione Russa, tanto quanto lo era per il colosso sovietico. Mosca lo considera il «proprio giardino di casa», sentendosi in diritto e in dovere di intervenire. 77


Risk

QUANDO LE MARINE ANDAVANO IN GUERRA Dalla Royal Navy alla Teikoku Kaigun giapponese. Con un encomio particolare per la Regia Marina italiana di Andrea Tani

Nessun libro scritto sulla Seconda guerra mondiale si è mai occupato di analizzare in modo coerente e confrontabile tutte le principali Marine che combatterono sui Sette Mari, che poi sono state anch’esse sette: Marine Nationale, Kriegesmarine, Royal Navy, Regia Marina, Teikoku Kaigun (Marina Imperiale Nipponica), Us Navy e Voenno-Morskoj Flot Sssr (marina dell’Urss). Le analisi in realtà ci sono, ma sono molto settoriali. Questa lacuna, è stata oggi magnificamente colmata da un nuovo libro scritto a sette mani da un gruppo di specialisti e pubblicato dal prestigioso Us Naval institute di Annapolis. Il risultato è un lavoro asciutto ed essenziale, ma omnicomprensivo. Spiega come le varie Marine erano organizzate, come si addestravano, come si preparavano a combattere una guerra che tutte vedevano approssimarsi e come l’hanno effettivamente combattuta. Ogni Marina è descritta in un capitolo separato, diviso in quattro parti. La prima descrive il contesto storico e quello fattuale antecedente la Seconda guerra mondiale, con le missioni che la forza armata era chiamata a perseguire e la relativa pianificazione. La seconda tratta di organizzazione, struttura di comando e dottrine adottate per le varie branche operative: guerra di superficie, aviazione navale, guerra antisommergibile, componente subacquea, operazioni anfibie, protezione del traffico e comunicazioni. La terza parte si occupa del materiale: navi, aeromobili, armi, infrastrutture, basi, rifornimenti e retroterra industriale. La sezione finale comprende un sommario che ricapitola, creando delle relazioni col contesto geostrategico, le alleanze, il comportamento e il rendimento effettivo della specifica Marina. Insieme ai parametri per così dire “ponderabili” – numeri, dimensioni, tonnellaggi, armamenti, riserve, perdite, nuove costruzioni – sono trattati anche gli “imponderabili” che a volte fanno la differenza, 78

come le tradizioni, il morale, l’aggressività, la leadership dei comandi, la tenuta degli equipaggi e il contesto politico e socio-culturale del paese di appartenenza. Vediamo per sommi capi, nell’ordine alfabetico adottato dal libro, le principali conclusioni alle quali gli autori sono pervenuti: Francia, Marine Nazionale. Allo scoppio del conflitto era una forza potente, articolata e ben guidata per quello che si era preparata a fare, ovvero la guerra contro l’Asse, in pratica mai combattuta. Ebbe troppi nemici estemporanei – oltre a tedeschi e italiani, ci furono inglesi e americani e persino tailandesi – per poter tentare un bilancio completo. Sul piano tecnico risultò una forza armata solida, tradizionale e ben costruita, anche se non priva di gravi punti deboli. Ha costituito uno dei pilastri più solidi delle istituzioni francesi in un momento nel quale la Patria si disfaceva, assicurando alla Francia eternelle una dignità che aveva perso. Germania, Kriegesmarine. Anche questo saggio avvalora il noto assunto che la guerra navale della Marina germanica fu troppo subordinata a quella terrestre e ad una conduzione eccessivamente ideologica del conflitto imposta da Hitler. Ottima qualitativamente sul piano tecnico, la Kriegesmarine lo fu meno su quello della dottrina. Combatté fino alla fine e con notevoli successi operativi una guerra che non poteva che perdere – visto lo squilibrio di forze – in cui antepose sempre la tecnica e la tattica rispetto alla strategia. Data la potenza del sistema industriale tedesco e le sue tradizioni la Kriegesmarine raggiunse spesso il vertice, ma solo dove i suoi requisiti operativi lo richiedevano: guerra subacquea e di mine, protezione passiva delle proprie navi, operazioni costiere offensive e anche aggressività degli equipaggi (a pari merito con gli omologhi giapponesi). Gran Bretagna, Royal Navy. La Marina di Sua Maestà, si trovò a fronteggiare su tutti i mari e gli oceani del mondo più nemici potenziali ed effettivi di


libreria qualsiasi altra, e forse questo “affollamento” la colse di sorpresa. È stata la numero uno per quanto riguarda l’ampiezza e la differenziazione dei teatri operativi praticati – che andavano dal Polo Nord a quello Sud, passando per oceani gelidi, temperati e tropicali, nonché mari chiusi di ogni risma. La Royal Navy combatté la sua guerra soverchiata dalla geopolitica e dall’immensità degli innumerevoli compiti da gestire. Lo ha fatto con coraggio e tenacia, a testa alta, sempre all’altezza delle sue tradizioni. Italia, Regia Marina. La Marina nazionale esce nel complesso a testa alta da questo libro. Ha svolto bene e con successo i compiti imposti dalla situazione nonostante le condizioni (e anche un certo complesso) di inferiorità rispetto al nemico. Uno dei risultati del saggio consiste proprio nella generale rivalutazione della Marina italiana da parte della comunità internazionale degli storici navali. Si tratta di un argomento che tutti i recensori anglosassoni hanno sottolineato con una certa sincera sorpresa e una giusta dose di autocritica. Il comportamento della flotta italiana rappresentò la conferma più eloquente della valenza geopolitica dell’Arma navale nei momenti cruciali per il proprio Paese. Alla Regia Marina va ascritto l’assoluto primato in quelle che oggi si chiamano «forze speciali» e nella coerenza della strategia navale perseguita rispetto agli obiettivi nazionali, costi quello che costi. Giappone, Teikoku Kaigun. Una Marina che, come scrivono gli autori «ha trattato la grande tattica come strategia e la

strategia come la condotta della guerra», fallendo peraltro in entrambe. Molto più capace e guerriera delle altre Marine, quella giapponese ha tuttavia servito il proprio Paese meno bene di molte di loro, anche di quelle meno battagliere, ma più consapevoli di se stesse e del mondo che le circondava. Stati Uniti, Us Navy. Oltre ad essere la più potente fra le Sette Marine – dal 1944 era la più grossa di tutte le altre combinate – la Us Navy fu complessivamente la più brava, competente, sagace e innovativa. Nessuna altra riuscì a raggiungere i suoi traguardi, e non solo per indisponibilità di mezzi ma anche per rigidità dottrinale e culturale. Ha primeggiato in modernità, flessibilità nell’adattarsi alle circostanze e capacità di combattere e di vincere una guerra quasi da sola, realizzando un modello insuperato di forza armata «totale». Urss, Voenno-Morskoj Flot Sssr. Marina quantitativamente rilevante, ma di qualità scarsa e troppo condizionata da una mentalità terrestre dei quadri strategici e dalle consuete falle del sistema staliniano (epurazioni, promozioni affrettate, doppio comando diviso coi commissari politici). Fece nel complesso del suo meglio, con risultati sufficienti in alcuni settori, come la guerra anfibia in concorso con la battaglia terrestre principale e l’integrazione fra campi minati e artiglieria costiera, una interessante applicazione di coastal warfare ante litteram. Ma non poteva che essere una forza del tutto secondaria, a dispetto del suo nome altisonante, e così fu.

VINCENT O’HARA, DAVID DICKINSON E RICHARD WORTH

On Seas Contested the seven great navies of the second World War Us Naval Institute Pres pagine 352 • $ 39,95

Lavoro asciutto ed essenziale, ma omnicomprensivo e straordinariamente illuminante, che esamina a fondo - grazie all’impegno di un gruppo di specialisti, fra i più rinomati esperti del settore- le varie Marine (il periodo è quello della Seconda guerra mondiale) da differenti prospettive. Spiega come erano organizzate, come si addestravano i loro equipaggi, come si sono preparate a combattere una guerra che tutte vedevano approssimarsi – era certa, l’unico dubbio riguardava il quando – e come l’hanno effettivamente combattuta quando l’ora è arrivata. Insieme ai parametri per così dire “ponderabili” – numeri, dimensioni, tonnellaggi, armamenti, riserve, perdite, nuove costruzioni, etc.- sono estesamente trattati anche gli “imponderabili” che a volte fanno la differenza, come le tradizioni, il morale, l’aggressività, la leadership dei comandi, la tenuta degli equipaggi e il contesto politico e socio-culturale del paese di appartenenza.

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F I R M E

del numero

ROCCO BUTTIGLIONE: vicepresidente della Camera dei Deputati e presidente dell’Udc STEFANO CHIARLONE: lavora nella Divisione Cib di UniCredit. Ha scritto il volume L’Economia dell’India (Carocci, 2008). Già economista presso UniCredit, l’Onu e l’Università Bocconi GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti

VINCENZO FACCIOLI PINTOZZI: giornalista, caporedattore di liberal

RICCARDO GEFTER WONDRICH: ricercatore del CeMiSs per l’America Latina

MARIA EGIZIA GATTAMORTA: ricercatrice del CeMiSs per l’Africa e il Mediterraneo SUNIL KHILNANI: director-designate dell’India Institute presso il King’s College di Londra VIRGILIO ILARI: storico militare

ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali nell’Area Sicurezza e Difesa ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista

ANTONIO PICASSO: giornalista e scrittore. Autore de Il Medio Oriente Cristiano

LAURA QUADARELLA: dottore di ricerca in Diritto internazionale e autore di una monografia e numerosi articoli sul terrorismo internazionale

BAHUKUTUMBI RAMAN: già membro della Segreteria di Gabinetto del primo Ministro e capo della sezione antiterrorismo dell’intelligence estera indiana, è oggi direttore dell’Insitute for topical studies di Chennai ENRICO SINGER: giornalista, esperto di Affari Europei ANDREA TANI: analista militare, scrittore

GIANCARLO ELIA VALORI: presidente de La centrale Finanziaria Generale Spa 80


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Copertina RISK_61_dorso ok.qxp:Layout 1 03/05/11 08:51 Pagina 1

Stefano Chiarlone

Giancristiano Desiderio

Vincenzo Faccioli Pintozzi

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LA SCALATA DELL’INDIA

Rocco Buttiglione

Qual è il vero peso di New Delhi

risk

Il puzzle del terrore I maoisti, l’agenda strategica pakistana e la minaccia fondamentalista BAHUKUTUMBI RAMAN

Virgilio Ilari

Un gigante armato fino ai denti

Alessandro Marrone

Vuole tenere testa alla Cina e punta a diventare leader regionale ANDREA NATIVI

Andrea Nativi

LA SCALATA DELL’INDIA

Michele Nones

Antonio Picasso

Un futuro da potenza RISK MARZO-APRILE 2011

Laura Quadarella

Giancarlo Elia Valori

registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma

Tutti ne parlano, nessuno la conosce ENRICO SINGER

Sunil Khilnani

Andrea Tani

quaderni di geostrategia

Si fa presto a dire India

Maria Egizia Gattamorta

Enrico Singer

numero 61 anno XII euro 10,00

Luci e ombre del colosso asiatico sullo scacchiere internazionale GIANCARLO ELIA VALORI

Riccardo Gefter Wondrich

Bahukutumbi Raman

2011

marzo-aprile

Contraddizioni sociali, economiche e politiche non fermano il sogno di grandeur ANTONIO PICASSO

Tutte le occasioni perse dall’Italia Rocco Buttiglione

Al Qaeda, l’ora del terrorismo 2.0 Laura Quadarella

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