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Mario Arpino
Vincenzo Camporini
Pierre Chiartano
Giancristiano Desiderio
Mattia Ferraresi
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AFGHANISTAN, LE OMBRE DEL RITIRO
Luisa Arezzo
2011
maggio-giugno
numero 62 anno XII euro 10,00
quaderni di geostrategia
registrazione Tribunale di Roma n.283 del 23 giugno 2000 sped. in abb. post. 70% Roma
La lunga estate di Kabul Gli Usa si preparano all’exit strategy. Tutti i rischi di una scelta difficile MARIO ARPINO
risk
Si può abbandonare Karzai al proprio destino? Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi STEFANO SILVESTRI
Maria Egizia Gattamorta
Le tre scelte di Obama Small, medium o large: Washington sta decidendo la “taglia” della ritirata MATTIA FERRARESI
Riccardo Gefter Wondrich
AFGHANISTAN LE OMBRE DEL RITIRO
Frederick W. Kagan
Kimberly Kagan
Virgilio Ilari
Alessandro Marrone
Michele Nones
Ahmed Rashid
Abdel Hussein Shaaban
Stefano Silvestri
RISK MAGGIO-GIUGNO 2011
Andrea Nativi
Bin Laden è morto ma al Qaeda no Se prima non si neutralizzano i terroristi sarà un disastro FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN
Tripoli-Bengasi è l’ora di un accordo Vincenzo Camporini
Stato palestinese illusione ottica Pierre Chiartano
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quaderni di geostrategia
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DOSSIER
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SCACCHIERE
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La lunga estate dell’Afghanistan
Unione Europea
Mario Arpino
Alessandro Marrone
Si può abbandonare Kabul?
America Latina
Stefano Silvestri
Riccardo Gefter Wondrich
Le tre scelte di Obama
Africa
Mattia Ferraresi
Maria Egizia Gattamorta
Bin Laden è morto, ma al Qaeda no
pagine 64/67
Frederick W. Kagan, Kimberly Kagan
Ana, una corsa contro il tempo Alessandro Marrone
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LA STORIA Virgilio Ilari
Dieci proposte per la pace
pagine 68/73
Ahmed Rashid
Do you remember Bagdad? Andrea Nativi
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L’enigma iracheno
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LIBRERIA
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Abdel Hussein Shaaban
Mario Arpino Giancristiano Desiderio
pagine 5/51
pagine 74/79
Editoriali
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• DIRETTORE Michele Nones
Michele Nones Stranamore
REDATTORE Pierre Chiartano
pagine 52/53
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SCENARI
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Tripoli-Bengasi, l’ora del compromesso colloquio con Vincenzo Camporini
Stato palestinese, illusione ottica Pierre Chiartano pagine 54/63
COMITATO SCIENTIFICO Ferdinando Adornato Luisa Arezzo Mario Arpino Enzo Benigni Gianni Botondi Vincenzo Camporini Amedeo Caporaletti Giulio Fraticelli Pier Francesco Guarguaglini Virgilio Ilari Carlo Jean Alessandro Minuto Rizzo Andrea Nativi Remo Pertica Luigi Ramponi Ferdinando Sanfelice di Monforte Stefano Silvestri Guido Venturoni Giorgio Zappa RUBRICHE Arpino, Incisa di Camerana, Ilari, J. Smith, Gattamorta, Gefter Wondrich, Marrone, Ottolenghi, Tani
REGISTRAZIONE TRIBUNALE DI ROMA N. 283 DEL 23 GIUGNO 2000 Impresa beneficiaria, per questa testata, dei contributi di cui alla legge n. 250/90 e successive modifiche e integrazioni
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AFGHANISTAN, LE OMBRE DEL RITIRO Barack Obama lo aveva detto all’Accademia di West Point due anni fa: «l'inizio del trasferimento delle truppe Usa fuori dall'Afghanistan comincerà nel luglio del 2011». A dispetto del parere contrario dei suoi generali a capo delle operazioni nel Paese, il poi “silurato” generale McChrystal e il “genio” del surge (che presto assumerà il posto di comando alla Cia) David Petraeus. Ma adesso che la fatidica data è arrivata, ancora non si capisce la portata di questa exit strategy. L’apettativa generale è quella di una significativa riduzione delle truppe impegnate in Afghanistan: di quelle Usa in primo luogo, ma anche degli alleati poi, che certo non vorranno restare con il cerino in mano. In realtà Barack Obama, sino ad oggi, ha enormemente accresciuto la presenza americana sul campo: dai 33.700 soldati che vi aveva trovato ai quasi centomila attuali che, calcolando anche i “contractors” impiegati, arrivano a circa il doppio. Tuttavia, per riuscire a ridurre questi numeri in maniera significativa, è necessaria un’efficace gestione della transizione, per evitare che un parziale ritiro si trasformi in una rotta o comunque ci costringa in una situazione peggiore dell’attuale. Quello che al momento sembra più probabile è che il Presidente cominci con il riportare a casa i 30mila soldati “straordinari” inviati due anni fa. Due mesi dopo che le forze speciali statunitensi hanno ucciso in Pakistan il leader di al Qaeda bin Laden, e con le pressioni sul budget che salgono sul fronte interno, a Washington sta infatti aumentando il sostegno a un'azione decisa per ridimensionare il ruolo Usa nel Paese. E per non finire sulla graticola, prima di decidere, la Casa Bianca ha detto di voler attendere le raccomandazioni del generale David Petraeus. Resta la netta sensazione, come scrive il generale Arpino nel pezzo introduttivo di questo dossier, che il piano per la transizione ci sia, la strategia anche, ma che tutto derivi più da ciò che effettivamente si desidera piuttosto che da un realistico calcolo in termini di fattibilità sul terreno. Tutto si può fare, ma certamente il prezzo da pagare è alto. Lo è in termini etici, ovvero di rinuncia ad alcuni principi che all’inizio hanno giustificato l’intervento, ma anche in termini operativi per il mancato raggiungimento di alcuni scopi. E si ha la percezione che un ritiro possa davvero compromettere quanto conquistato finora.
Ne scrivono: Arpino, Ferraresi, F. Kagan, K. Kagan, Marrone, Nativi, Rashid, Shaaban, Silvestri
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LE FORZE USA SI PREPARANO A LASCIARE IL PAESE. E ADESSO COSA SUCCEDERÀ?
LA LUNGA ESTATE DELL’AFGHANISTAN DI
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MARIO ARPINO
ll’estate 2011 ormai ci siamo e, secondo quanto riaffermato in tutte le sedi, in Afghanistan dovrebbe cominciare il lento ritiro delle forze combattenti della Coalizione – segnatamente degli americani e degli inglesi – mentre in Iraq le forze statunitensi dovrebbero completare il ripiegamento già iniziato l’anno scorso. Secondo i piani, anche gli Alleati, tra i
quali l’Italia, cominceranno a diminuire il loro impegno militare, che dovrebbe esaurirsi – fatte salve alcune limitate cooperazioni per l’addestramento – entro il 2014. C’è un gran fermento, ed è importante che la pianificazione venga percorsa con metodo e pazienza, senza la fretta e le fughe in avanti di chi sente avvicinarsi problemi elettorali o naviga in ristrettezze finanziarie senza precedenti. Pur tuttavia, i Governi e le organizzazioni internazionali ne parlano con parsimonia, anche perché i problemi Libia e Medioriente occupano da tempo gran parte dell’attenzione e della cronaca. Persino sul “dopo” ci si esprime poco e con molte riserve, pur se il disegno del trasferimento di ogni responsabilità al governo afgano sembrerebbe ormai tracciato, almeno a grandi linee. I dubbi tuttavia ci sono, e riguardano la fattibilità di quelli che, altrimenti, potrebbero rimanere solo dei buoni propositi. Sebbene i meccanismi non siano ancora del tutto chiari, con l’avvicinarsi dell’estate cominciano a fiorire gli annunci. Ha dato il via Barack Obama, che, nel suo secondo indirizzo al mondo arabo e musulmano, il 19 maggio ha affermato che «…per
reagire al cambiamento riaffermando i nostri valori abbiamo già fatto molto, facendo rientrare centinaia di soldati che erano in Iraq e togliendo lo slancio ai talebani in Afghanistan. A luglio anche i nostri ragazzi ancora in quel paese torneranno a casa. Abbiamo poi dato il colpo di grazia uccidendo Osama bin Laden, il leader di al Qaeda…». Il presidente Giorgio Napolitano, nel suo intervento al Nato Defense College in occasione del 60° anniversario dalla fondazione, il 20 maggio ha ricordato che la riduzione delle truppe Nato a Kabul sarà progressiva e di guardare con fiducia al processo di transizione. «… Gli afgani prenderanno sempre di più la responsabilità della propria sicurezza. Abbiamo fatto sforzi enormi in Afghanistan, abbiamo tutti versato sangue. Ora non dovremo abbandonare questo Paese una volta che il nostro impegno militare sarà terminato».
La transizione comincia davvero? A queste dichiarazioni fanno eco il 23 e il 24 maggio quelle del segretario Generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, il quale, incontrandosi 5
Risk con il presidente Karzai a Kabul, ha spezzato un’altra lancia in favore delle condizioni necessarie per la transizione, invitando «…chi ancora sta seguendo la strada della violenza a collaborare e porsi su quella della pace… Nessuna illusione per coloro che minacciano il futuro dell’Afghanistan, perché la Nato è e rimarrà impegnata per questo». Una luce anche per l’impegno italiano il giorno successivo a Herat, quando afferma, alla presenza dell’ambasciatore americano, del Generale Petraeus, del Rappresentante Speciale del Segretario Generale dell’Onu e del governatore della provincia, che «…la situazione nell’area appare molto migliorata e quindi la transizione qui potrà cominciare molto presto». Ma era il 24 maggio, e probabilmente Rasmussen non avrebbe pronunciato queste parole se solo avesse potuto immaginare che una settimana dopo, il 30 maggio, un commando di quattro uomini-bomba avrebbe fatto irruzione nella sede del Prt (team provinciale di ricostruzione), distruggendola tra morti e feriti, anche italiani. Analogo attacco in altri due punti della città, ma i Prt sono anche simboli, fiori all’occhiello della Nato, elementi cardine su cui poggia una buona parte della strategia per la transizione. D’altra parte, già il 22 marzo di quest’anno lo stesso presidente Karzai, nel quadro di un incontro con Rasmussen in occasione del Capodanno afgano, aveva annunciato l’imminente inizio della transizione in sette distretti e provincie (guardare la cartina), riferendosi a Bamiyan, la città di Herat, la provincia di Kabul (con l’eccezione di Surobi), Lashkar Gah (Helmand), Mazar-eSharif (Balkh) e Mehtar Lam (Laghman). L’annuncio, ovviamente, segue mesi di consultazioni e di pianificazione tra Governo e Isaf. La transizione, secondo quanto affermato da Karzai, dovrà percorrere un processo di quattro fasi in ciascuna delle aree, riguardanti la sicurezza, la governance, lo sviluppo e il ruolo della legge. Naturalmente il progresso in ciascuna fase sarà dettato dalle condizioni sul terreno, man mano che le 6
forze di sicurezza afgane (esercito e polizia) si dimostreranno in grado di assolvere crescenti responsabilità. Potrebbero essere necessari 18 mesi per ciascuna area. In questi sette settori le operazioni Isaf evolveranno verso la quarta fase (transizione), che prevede non più un ruolo di combattimento, ma di cooperazione e addestramento, mentre proprio su queste si concentreranno anche i Team Provinciali di Ricostruzione. In tutte le altre aree le operazioni Isaf rimarranno in fase tre (stabilizzazione), fino a quando un apposito comitato con-
È evidente come la linea di pensiero americana stia andando verso una soluzione minimale, purché rapida, che lasci alle autorità locali la responsabilità della forma di governo, accentrata o decentralizzata. A patto che si prendano le distanze da al Qaeda giunto Governo/Isaf non individuerà, nel secondo semestre 2011, altre aree o distretti pronti a iniziare il processo. Qualche precisazione sul rientro l’ha fornita Robert Gates il 5 giugno scorso, durante un giro di commiato nel sud dell’Afghanistan, dove ha sede la maggior parte dei 30 mila americani di rinforzo a suo tempo inviati per il surge. A precise domande che i soldati gli hanno formulato in ciascuna delle aree visitate, ha risposto che il livello delle forze combattenti non è al momento destinato a diminuire. Il rientro, ha asserito, comincerà da quelle forze logistiche attualmente nel Paese
dossier «…per costruire aree abitative, piste di atterraggio e opere di ingegneria». C’è chi ha notato in queste parole una sorta di contraddizione con l’intendimento di Obama, della Nato e dell’Onu di compensare la diminuzione dello sforzo operativo con un incremento delle attività civili.
Una politica per la transizione A questo punto occorre qualche precisazione dei termini. La Transition, in Dari e in Pashtu si dice Intequal, altro non è che il processo attraverso il quale la responsabilità per la sicurezza dell’Afghanistan transiterà gradualmente dall’Isaf al Governo afgano. Sul sito della Nato, che sull’Afghanistan mostra invero un certo ottimismo, forse troppo, si ricorda che alla conferenza di Kabul del luglio 2010 il presidente Karzai aveva pubblicamente espresso il suo desiderio di vedere le proprie forze di sicurezza in grado di assumere ogni responsabilità territoriale nell’intero Paese entro il 2014, e la Nato aveva applaudito e sostenuto questo proposito. Al summit di Lisbona del novembre 2010, i Capi di Stato e di Governo riconoscevano che i progressi compiuti consentivano l’avvio di una transition irreversibile già nel 2011, dopo una decisione congiunta tra Nato e Governo. Veniva costituita una commissione detta Joint Afghan-Nato Intequal Board (Janib), che già il 24 febbraio arrivava ad una prima conclusione sulle sette aree più idonee per l’inizio del processo, delle quali si è già in precedenza fatta menzione. Successivamente, al vertice di Bruxelles dell’11 marzo scorso i ministri della Difesa della Nato e dei paesi rappresentati nell’Isaf convenivano sulle conclusioni dello Janib. Si tratta di fatto di una luce verde per il governo Karzai, cui spetta dare l’effettivo avvio al processo. Questo vertice è stato una pietra miliare, perché ha costituito un impegno comune chiaro ed importante che, almeno teoricamente, dovrebbe evitare tentazioni di altri ritiri anticipati dalla Coalizione. Per completare il quadro di “come vorremmo che le cose andassero”,
occorre qualche precisazione anche sulla strategia. Questa, di matrice americana e comunque fatta propria sia da Karzai che dalla Coalizione, non sempre si dimostra chiaramente intelligibile, essendo – come lo sono tutti i compromessi - largamente interpretabile. Hillary Clinton, cui spetta spesso l’ingrato compito di convertire le affascinanti utopie di Barack Obama in qualcosa di concretamente fattibile, alla fine dello scorso febbraio si è espressa in modo inequivocabile sulla politica americana per l’Af-Pak. Lo ha fatto in un discorso presso l’Asia Society di New York, una fondazione Rokfeller che si propone di diffondere nel mondo le problematiche che riguardano l’Asia centrale e il lontano Oriente. A New York è più ascoltata e ritenuta più credibile della voce del Palazzo di Vetro. L’occasione, per la Clinton, era venuta dalla commemorazione della scomparsa, avvenuta lo scorso dicembre, dell’ambasciatore Richard C. Holbrooke, proprio in un momento in cui deteneva il delicato incarico di inviato speciale per il Pakistan e l’Afghanistan.
Hillary Clinton e l’Af-Pak Secondo la Clinton, era stato proprio Holbrooke – il negoziatore che a Dayton aveva posto fine al conflitto bosniaco - l’architetto della nuova strategia per l’Af-Pak. L’ultima, quella che avrebbe consentito un dignitoso disimpegno militare degli Stati Uniti e della Nato – Hillary in effetti non si è espressa proprio negli stessi termini, ma la sostanza è questa – ad iniziare dal 2011 per terminare nel 2014. Tutto ampiamente preannunciato e, forse anche “espropriato” in termini di idee al generale Petraeus. Come noto questa strategia, condivisa in ambito Nato, si basa su una stretta cooperazione – parallela o concomitante – delle attività civili con quelle militari. Ancora più esplicita, la Clinton ha precisato che l’Amministrazione prevede di conseguire l’obiettivo attraverso l’incremento di tre azioni concorrenti: l’offensiva militare contro al Qaeda e i talebani, una campagna civile per dar maggiore forza ai gov7
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La “transition”, in Dari e in Pashtu si dice “intequal”, altro non è che il processo attraverso il quale la responsabilità per la sicurezza dell’Afghanistan transiterà gradualmente dall’Isaf al governo afgano
to poi il dito sul Pakistan esortandolo a intraprendere «passi decisivi» per impedire che i talebani afghani continuino a perpetuare gli attacchi avvalendosi di retrovie in territorio pachistano. In realtà, la Clinton non ha detto nulla di nuovo, ma lo ha fatto da un podio molto ascoltato e con inusuale fermezza. È evidente come la linea di pensiero americana stia andando verso una soluzione minimale, purchè rapida, che lasci alle autorità locali la responsabilità della forma di governo, accentrata o decentralizzata, a patto che si prendano le distanze da al Qaeda. La quale, con gli sviluppi nello Yemen, in Somalia e nell’Africa occidentale potrebbe forse essere, dopo la morte di bin Laden, meno interessata a mantenere proprie basi in Asia centrale. Il successore di Holbrooke è l’ex ambasciatore in Pakistan e in Turchia Marc Grossman, in pensione dal 2005, che aveva anche ricoperto l’incarico di Sottosegretario di Stato per gli affari politici. Assieme al predecessore, era stato uno degli artefici di Dayton. Nel passargli le consegne, Hillary Clinton gli ha ricordato che Holbrooke era convinto che «…un migliore futuro potesse effettivamente essere possibile per Pakistan, Afghanistan e per l’intera regione». In guerre come questa, aveva una volta osservato, «…c’è sempre una finestra aperta per chi sta al freddo e vuole rientrare in casa…. Se loro vorranno accettare i nostri limiti (rifiutare al Qaeda, ndr), un posto per loro ci deve sicuramente essere». «Queste – ha ribadito la Clinton – sono le sue parole, e questa è anche la strategia degli Stati Uniti». Proprio la presenza di Marc Grossman per tutto il periodo della transizione potrebbe essere determinante, come garante delle intenzioni americane e trait d’union tra militari e civili. Intenzioni di cui i pachistani, che a seconda dei punti di vista possono essere considerati parte della soluzione o parte del problema, sembrano assolutamente non fidarsi.
erni pachistano e afghano e un’intensificazione della pressione diplomatica per terminare la guerra e assicurare un futuro alla regione. Il passaggio più forte è stato il messaggio – ma è meglio chiamarlo ultimatum – ai talebani: «… rompendo i legami con al Qaeda, deponendo le armi e aderendo alla costituzione, rientrerete a pieno titolo nella società afgana. Potete anche rifiutare l’offerta, ma allora sappiate che dovrete continuare a confrontarvi con le conseguenze di rimanere legati al nemico della comunità internazionale». In un altro passaggio, la Segretario di Stato si era dichiarata convinta che con il procedere della «transizione» si stia rinforzando il governo, e ciò renderà «maggiormente fattibile» una riconciliazione politica e civile. Ha anche ribadito l’intenzione dell’Amministrazione di cominciare il ritiro delle truppe in luglio di quest’anno, ma, si badi bene, «…subordinatamente all’andamento delle condizioni sul terreno». Ha poi escluso che questo prolungato impegno possa essere confuso con un desiderio degli Stati Uniti di occupare militarmente l’Afghanistan contro la volontà del suo popolo, del quale conosce bene e «…rispetta l’orgogliosa storia di resistenza contro ogni forza straniera», assicurando di non desiderare nell’area la presenza di basi militari che possano avvertirsi come minaccia agli afghani o ai loro vicini. In un passaggio successivo, ha lamentato la «storica manUna voce dal Pakistan canza di fiducia» tra Pakistan e Afghanistan, che Humayun Gauhar, un editorialista considerato necessitano di maggiore collaborazione. Ha punta- ancora molto vicino a Pervez Musharraf e quindi 8
Risk assai critico sul comportamento del presidente Zardari e del premier Gilani, è infatti convinto, come larga parte dei suoi concittadini, che gli americani non si allontaneranno mai dall’area, anche se cercheranno di sgomberare quanto prima dalle zone calde dell’Afghanistan. In un recentissimo editoriale sul proprio sito (omonimo) ne spiega anche le ragioni, tutte plausibili. Non se ne andranno del tutto dall’Afghanistan, perché è strategico per loro controllare, magari attraverso un governo amico, le vie di comunicazione, le risorse minerarie, le future pipelines e i gasdotti. Le reali intenzioni verso il Pakistan sarebbero, secondo Gauhar, un certo grado di controllo degli impianti e degli armamenti nucleari, con il pretesto che “non devono cadere nelle mani sbagliate”; indebolire e monitorizzare l’influenza cinese nella regione; evitare di porre del tutto fine al terrorismo, per giustificare la continuità di una presenza nell’area e una permanente interferenza negli affari pachistani. Morto bin Laden, sostiene Gauhar, il prossimo pretesto per restare sarà la cattura o l’uccisione di Mullah Omar. E dopo di lui di alZawahiri, e poi chissà di chi altro ancora. Tutto è discutibile, ma tutto è anche meritevole di attenta riflessione.
Tra il dire e il fare… Il piano per la transizione c’è, la strategia anche, ma si ha la netta impressione che tutto derivi più da ciò che effettivamente si desidera, piuttosto che da un realistico calcolo in termini di fattibilità sul terreno. Tutto si può fare, ma certamente il prezzo da pagare è alto. Lo è in termini etici, ovvero di rinuncia ad alcuni principi che all’inizio hanno giustificato l’intervento, oppure di mancato raggiungimento di alcuni scopi. Tutto sembra ancora incerto, tranne il numero dei caduti e dei feriti della Coalizione. Solo quelli, purtroppo, sono certi. Ad esempio, siamo proprio sicuri che il grande melting pot della popolazione afgana abbia davvero tra i suoi obiettivi uno stato unitario e 10
Il piano per la transizione c’è, la strategia anche, ma si ha la netta impressione che tutto derivi più da ciò che effettivamente si desidera, che da un realistico calcolo in termini di fattibilità sul terreno. Tutto si può fare, ma certamente il prezzo da pagare è alto democratico? Qualche dubbio c’è, e perciò i piani e le strategie sembrano avere più il sapore di un contentino consolatorio o di una prematura premessa al desiderio di disengagement obamiano e occidentale. Anche la risoluzione del Consiglio di Sicurezza 1974 del 22 marzo, la più recente in cui l’Onu si occupi di Afghanistan, non dà affatto la percezione di essere una manifestazione di ottimismo. La parola va allora alle teste d’uovo, che analizzando ogni elemento cercano di trovare comunque qualcosa di pratico, magari non ottimale, ma che alla fine consenta una soluzione. D’altra parte, che il problema non fosse solo militare lo si era già capito, sin da quando erano abortite le prime strategie. Infatti, specie negli Stati Uniti, che dopo le defezioni già in atto o annunciate temono di restare prima o poi con il classico cerino tra le dita, da un po’ di tempo stanno fiorendo nuove opzioni politico-strutturali finalizzate ad un disimpegno indolore. In altre parole, ad un ritiro dopo aver comunque dichiarato vittoria. Non dimentichiamo che, se l’Iraq era la guerra di Bush, quella in Afghanistan è dichiaratamente la guerra di Obama. Tutte le nuove opzioni che si vanno via via formando appaiono originate dal dubbio che la formula di struttura scaturita dalla conferenza di Berlino – sistema democratico con governo forte-
dossier mente centralizzato – a prescindere dai talebani, che continueranno ad opporsi sempre a tutto - non sia né la più adatta né la più gradita, almeno agli afgani che “contano”. Agli altri, probabilmente, non interessa più di tanto.
Alcune opzioni realistiche Ad esempio, come ci informa Stefano Silvestri su AffarInternazionali online, l’ex ambasciatore Usa in India, Robert Blakvill, sta proponendo di lasciare di fatto al loro destino, unificandole sotto un governo talebano, le due aree pachistane e afgane di etnia pashtun a cavallo della linea Durand, procedendo con l’attuale forma di centralizzazione a controllare da Kabul – attraverso governatori designati a livello centrale - le altre province e stringendo un patto di ferro con gli stessi talebani perché si oppongano a nuove infiltrazioni di al Qaeda. L’enclave sarebbe sorvegliata a vista, da un lato, dalle forze regolari afgane e, dall’altro, da quelle pachistane. Soluzione che a nostro avviso è difficilmente percorribile, perché attraverso una separazione effettiva dei due paesi toglierebbe di fatto al Pakistan quella “profondità strategica” nei confronti dell’India che è parte sostanziale della propria dottrina di sicurezza e difesa. Un altro gruppo di studio - come ci spiega la rivista Usa Foreign Affaire - prevede allora varie soluzioni di natura diversa, che tuttavia non alterano, almeno apparentemente, le due integrità territoriali. Si spazia dalla formula in cui Kabul, pur continuando a nominare i governatori, concede alle province un certo numero di autonomie, come le tasse locali, l’esercizio della giustizia su base tradizionale per alcuni reati minori e la tolleranza di un’aliquota di armati per i clan di una certa importanza, salvaguardando così, almeno in una certa misura, la percezione di una decentralizzazione amministrativa. Ma in alcune province ciò potrebbe ancora non essere sufficiente per l’accettazione di quell’aliquota di potere che rimane ben salda in sede centrale, per cui si potrebbe tentare di andare
oltre con una forma di “democrazia decentralizzata”. In questo caso, i governatori, anziché essere nominati da Kabul, verrebbero eletti dai consigli provinciali ed avrebbero così maggior contatto e confidenza con le varie shure dei villaggi e delle campagne, il cui orizzonte visuale non può certo arrivare a comprendere ciò che succede a Kabul. In questo caso, è evidente, sarebbe necessario accettare di buon grado alcuni compromessi, perché a livello locale le priorità non saranno certo concentrate sulle scuole laiche, su forme non tradizionali del diritto e sull’emancipazione delle donne. In cambio, il governo centrale manterrebbe per sé politica estera e capacità di intervento verso i più riottosi, qualora il patto di mantenere “fuori” al Qaeda non venisse in toto o in parte rispettato. In fondo, agli americani e all’Occidente è questo che interessa, e si fa anche strada la convinzione che se non ci fosse stato l’11 settembre e se l’Afghanistan dei talebani non avesse ospitato e protetto i campi di al Qaeda, a nessuno sarebbe mai venuto in mente di venir a “spendere” tante giovani vite tra queste montagne. Ma se l’isolamento di al Qaeda è rimasto il vero problema reale, visto che ormai a risolvere gli altri – facendo buon viso a cattiva sorte – abbiamo deciso di rinunciare, allora i nostri gruppi di studio hanno pronta una terza soluzione, applicabile in tempi brevi e, in ogni caso, compatibili con le tempistiche indicate da Barack Obama. È una soluzione che potremmo chiamare “mista” tra le due precedenti, dove Kabul si limita a delegare la maggior parte dei poteri a governatori eletti localmente, a chiudere un occhio su alcuni loro vizietti, a sorvolare sulle prepotenze dei talebani, a mantenere le sue prerogative in politica estera ed a riservarsi il diritto di intervenire militarmente in caso di superamento di una “linea rossa” rappresentata dal divieto di ospitare al Qaeda. Che è come dire «…fate pure tutto ciò che vi pare, con l’unico limite che ciò non danneggi gli Stati Uniti e l’Occidente…». 11
Risk Soluzione attuabile e fattibile Soluzione, questa, che appare attuabile e fattibile, perché è già ora ciò che di fatto sta accadendo in alcune province, dove il controllo centrale non ha mai avuto alcuna efficacia. Come quelle dove, secondo l’ultimo survey dell’Onu (winter assessment 2011), la coltivazione dell’oppio è in forte incremento e l’ottantadue per cento dei coltivatori asserisce di non aver avuto dal Governo, nonostante gli ingenti fondi devoluti, alcuna proposta di assistenza agricola per le coltivazioni alternative. O quelle dove i miliziani armati non lasciano alcuno spazio alla polizia. Si rischia così che a partire dal 2011, dopo dieci anni, la fine di questa storia possa cominciare a saldarsi con il suo inizio, quando i talebani non erano ancora stati sonoramente battuti. È proprio questo che volevamo? Credo proprio di no. Ma, se desideriamo essere ottimisti, allora lasciamo per un momento i problemi reali del territorio e ritorniamo pure ai grandi meeting dell’Alleanza, dove in piena buona fede – si spera che sia pari quella dei soldati che combattono – si prendono decisioni ed impegni per il futuro. Allora, può essere certamente edificante sapere che nel vertice dei ministri degli Esteri tenuto a Berlino il 14 aprile scorso si è cominciato a pensare a come mantenere intatta l’attuale partnership per l’Afghanistan attraverso tutto il processo di transizione, fino al 2014 ed oltre, senza altre defezioni. Il nome dato alla nuova iniziativa è beneaugurate – è stata chiamata Enduring Partnership – e si propone di continuare il supporto all’Afghanistan anche dopo il 2014, anno nel quale il ruolo militare dell’Isaf dovrebbe esaurirsi. Nell’occasione, il Segretario Generale della Nato Anders Fogh Rasmussen, aveva testualmente dichiarato che l’iniziativa «…manda il forte messaggio che l’Afghanistan un giorno saprà camminare sulle sue gambe, ma ciò non significa che verrà lasciato solo». È questo anche il senso delle parole pronunciate lo scorso 20 maggio al Nato Defense College dal presidente Giorgio Napolitano. 12
dossier PRIMA DI ANDARSENE BISOGNA STABILIRE GLI OBIETTIVI. E NON SONO CHIARI
SI PUÒ ABBANDONARE KABUL? DI
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STEFANO SILVESTRI
aspettativa generale è quella di una significativa riduzione delle truppe impegnate in Afghanistan: di quelle americane in primo luogo, ma è difficile immaginare che gli altri alleati vogliano esser da meno, sia perché anch’essi subiscono la pressione delle loro opinioni pubbliche, sia per non restare soli, con il cerino acceso in mano. In realtà Barack Obama, sino •
L’
ad oggi, ha enormemente accresciuto la presenza americana sul campo, dai 33.700 soldati che vi aveva trovato ai quasi centomila attuali che, calcolando anche i contractors impiegati dagli Usa, arrivano a circa il doppio. Tuttavia, per riuscire a ridurre questi numeri in maniera significativa, è necessaria una efficace gestione della transizione, per evitare che un parziale ritiro si trasformi in una rotta o comunque ci costringa in una situazione peggiore dell’attuale. Una cosa sembra certa, senza un qualche mutamento di strategia, ogni ritiro rischierebbe di limitarsi a pochissime unità, mancando l’obiettivo politico di rassicurare le opinioni pubbliche occidentali (ad esempio, alcuni studi suggeriscono che esso dovrebbe limitarsi a circa 10.000 unità, equamente suddivise tra militari e contractors). Ma quali sono le opzioni possibili? Prima di esaminarne qualcuna bisogna però domandarsi quali siano gli obiettivi che si vogliono raggiungere, e la risposta è tutt’altro che facile ed evidente. Da un punto di vista militare, e prendendo in conto solo gli interessi degli Stati Uniti e dei loro alleati, essi potrebbero essere ridotti a due: 1 sconfiggere e smantellare al Qaeda e i suoi alleati in Afghanistan e in Pakistan, così che non possano più attaccare i nostri paesi;
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negare ad al Qaeda e ai suoi alleati il controllo di qualsivoglia “santuario” e la possibilità di avere appoggio logistico, militare o politico in Afghanistan.
Esistono
però obiettivi più vasti e complessi che vanno dalla piena stabilizzazione e ricostruzione dell’Afghanistan alla sua democratizzazione, e che abbracciano obiettivi regionali più ampi quali il conflitto Indo-Pakistano nel Kashmir, la sicurezza delle repubbliche ex-sovietiche dell’Asia Centrale eccetera. Anche se questi obiettivi non sono direttamente collegati con l’impegno militare in Afghanistan, è chiara la necessità che ogni possibile disimpegno non aggravi gli squilibri, i contrasti e i conflitti regionali. In altri termini, ogni scelta non può essere valutata in astratto, ma deve considerare almeno le sue principali conseguenze politiche e strategiche. Cominciamo dunque dalle ipotesi di carattere più strettamente militare. Gli esperti ne individuano generalmente tre: (a) contro-terrorismo, (b) contro-guerriglia complessiva, (c) contro-guerriglia a conduzione afgana. Ognuna di esse comporta alcuni vantaggi e alcuni svantaggi e diversi livelli di impegno e di costo. 13
Risk Contro-terrorismo È una scelta che rende possibili importanti riduzioni. La Nato potrebbe affidarsi quasi solo alle forze speciali e ad un uso intensivo di mezzi aerei con o senza pilota. In pratica le forze alleate si preoccuperebbero solo di dare la caccia ai terroristi, attaccandoli ed eliminandoli ovunque possibile, senza più insistere sul controllo del territorio. Una variante suggerita da alcuni è quella di ritirarsi puramente e semplicemente dalle regioni meridionali dell’ Afghanistan, rinchiudendosi a Kabul e nelle regioni settentrionali dove i talebani sono più deboli, e di là condurre una serie di attacchi mirati ed intensi contro ogni formazione o gruppo militare che operi sul territorio afgano e nella regione frontaliere del Pakistan. Ciò richiederebbe probabilmente importanti investimenti in tecnologie avanzate di sorveglianza, scoperta ed acquisizione degli obiettivi, nonché nell’ Intelligence, ma diminuirebbe di molto i rischi per le truppe e gli altri operatori presenti sul terreno. Inoltre in tal modo i terroristi ed i loro alleati potrebbero essere mantenuti sotto pressione e attaccati pressoché indefinitamente, riducendo in modo drastico le opzioni a loro disposizione. Di contro, tuttavia, una simile scelta verrebbe vissuta come una sorta di “tradimento” e di abbandono del campo da parte degli attuali alleati della Nato, a cominciare dal governo afgano che perderebbe di colpo ogni possibilità di riprendere il pieno controllo di una parte importante del paese. Una tale strategia susciterebbe certamente anche l’opposizione del Pakistan, che si vedrebbe sempre più trattato alla stregua di un campo di battaglia. Invece di eliminare ogni possibile santuario dei terroristi e di recidere i loro legami con possibili “alleati”, diverrebbe invece molto più probabile una crescente propensione pakistana a proteggere, appoggiare ed eventualmente utilizzare il movimento terrorista internazionale, accrescendone, invece di diminuirne, la pericolosità. Né si potrebbe escludere, a questo punto, il puro e sem-
dossier tenimento di livelli piuttosto consistenti di militari sul terreno, ancora per lungo tempo. Una tale strategia avrebbe obiettivi molto più ampi e complessi di quelli riduttivi indicati all’inizio, poiché punta a proteggere la popolazione civile afgana, a neutralizzare le reti dei guerriglieri talebani e dei loro alleati, oltre alle organizzazioni terroristiche, a sviluppare le forze militari e di polizia afgane, ad aiutare il consolidamento di un sistema legittimo di governo e a far progredire economicamente il paese. Si tratta in realtà della strategia che cerca di applicare al meglio i principi di ogni buona strategia di contro-guerriglia. Così ad esempio, un approfondito e recente studio condotto dalla Rand1 mettendo a confronto 20 diverse strategie applicate sul campo in 30 diverse crisi e guerre dal 1978 ad oggi, ha individuato una serie di 15 best practices che, se applicate correttamente, innalzaContro-guerriglia complessiva no di molto le probabilità di successo, e viceversa, Questa seconda opzione, che può essere definita una serie di 12 scelte che lo rendono del tutto anche di comprehensive strategy, implica il man- improbabile se non impossibile. plice crollo del governo afgano ed il ritorno in forze dei talebani a Kabul. Ciò finirebbe per rendere impossibile anche il proseguimento delle operazioni di contro-terrorismo. Il fatto è che la linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, tracciata, tracciata da Sir Henry Mortimer Durand nel 1893, e lunga oltre 2.400 km., per lo più desertica o di montagna, è stata da sempre sostanzialmente ignorata dalle popolazioni locali, che la attraversano normalmente sia per le loro attività quotidiane che (in alcuni casi) per attaccare le forze della Nato. Ciò rende inevitabile il coinvolgimento del territorio pakistano in ogni operazione di contro-terrorismo, ma implica anche la necessità di tenere conto delle conseguenze politiche di una tale realtà (che, in modo minore, riguarda anche gli altri paesi confinanti).
BUONE E CATTIVE SCELTE Buone > Le forze COIN applicano svariati
principi di comunicazione strategica > Le forse COIN riescono a ridurre significativamente l’appoggio popolare agli insorti > Il governo riesce a mantenere o stabilire la sua legittimità nell’area di conflitto > Il governo è almeno in parte democratico > L’Intelligence COIN à in grado di consentire un adeguato livello di impegno delle forze e/o scompaginare le operazioni nemiche > Il livello delle forze COIN è tale da obbligare gli insorti a combattere come guerriglieri > Il governo è competente > Le forze COIN evitano danni collaterali eccessivi, un uso sproporzionato della forza o altre tattiche illegittime di uso della forza
> Le forze COIN mirano a stabilire buo-
ni rapporti con le popolazioni locali > Nelle zone sotto controllo delle forze COIN vengono migliorate le infrastrutture, ovvero altre misure di sviluppo economico (incluse riforme agrarie e della proprietà della terra) > La maggioranza della popolazione locale appoggia o comunque accetta la presenza delle forze COIN > Le forze COIN stabiliscono aree sicure e quindi provvedono ad allargarle > Le forze COIN hanno il pieno controllo e dominio dell’aria > Le forze COIN si preoccupano di assicurare il rifornimento e la disponibilità dei beni di prima necessità e dei servizi di base nelle aree controllate > Le forse COIN alimentano la percezione di una situazione di sicurezza personale tra la popolazione, nelle aree da esse controllate
Cattive > Le forze COIN usano tattiche di punizione collettiva e di escalation repressiva > Le forze COIN sono essenzialmente costituite da forze di occupazione straniere > Le azioni del governo e delle forze COIN alimentano nuove proteste e nuova opposizione, sfruttata dagli avversari > Le forze irregolari (miliziani, contractors) agiscono in modo difforme e a volte contrario alle scelte del governo e delle forze COIN > Le forze COIN procedono a evacuazioni forzate e al ristabilimento della popolazione in altre aree > I danni collaterali provocati dalle forze COIN sono percepiti localmente come peggiori di quelli inflitti dagli insorti
> In genere, sul luogo, le Forze
COIN sono percepite come peggio degli insorti > Le forze COIN non riescono a modificare la loro strategia o le loro tattiche in situazioni avverse > Le forze COIN si impegnano in operazioni repressive più di quanto lo facciano gli insorti > Gli insorti sono professionalmente migliori delle forze COIN (individualmente e/o collettivamente) e più motivati > Le forze COIN o i loro alleati si sostentano razziando le risorse locali > Le forze COIN e quelle governative hanno obiettivi diversi e diversi livelli di impegno
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Risk In pratica lo studio ha mostrato come sia le “buone” che le “cattive” scelte tendono ad alimentarsi le une con le altre, nel senso che alcune “buone” scelte finiscono con il suggerirne altre dello stesso tipo e viceversa. Ma il punto più interessante è che, se si analizzano le varie crisi e guerre, e si identificano sia le scelte “buone” che quelle “cattive”, si ottiene una buona indicazione sulle speranze di successo dell’operazione stessa. Le vittorie della contro-guerriglia (8 casi su 30) hanno tutte viste una forte prevalenza numerica delle “buone” scelte sulle “cattive”. Negli altri 22 casi invece (sconfitta delle operazioni di controguerriglia) o si verificava una parità tra scelte “buone” e “cattive” oppure addirittura una netta prevalenza numerica delle “cattive”. Ecco la relativa tabella: CRISI Afghanistan post-sovietico 1992-96 Somalia 1980-91 Cecenia 1994-96 Ruanda 1990-94 Zaire anti Mobutu 1996-97 Nicaragua Somoza 1978-79 Sudan SPLA 1984-04 Kosovo 1996-99 Afghanistan contro URSS 1978-92 Papua Nuova Guinea 1988-98 Burundi 1993-03 Bosnia 1992-95 Moldova 1980-92 Georgia/Abkhazia 1992-94 Liberia 1989-97 Afghanistan (talebani) 1998-01 Nagorno-Karabakh 1992-94 RD Congo anti-Kabila 1998-03 Tajikistan 1982-97 Cambogia 1978-92 Nepal 1992-06 Nicaragua Contras 1981-90 Croazia 1982-95 Turchia PKK 1984-99 Uganda ADF 1986-00 Algeria GIA 1992-04 El Salvador 1979-92 Perù 1980-92 Senegal 1982-02 Sierra Leone 1991-02
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BUONE CATTIVE DIFFERENZA RISULTATO 15 12 B-C 0 1 2 2 0 0 2 1 1 3 2 1 2 1 3 2 1 1 2 1 3 4 8 11 8 9 12 13 13 14
10 10 10 10 8 8 9 8 7 9 8 6 6 5 7 6 4 4 5 3 5 4 3 5 0 1 2 2 0 1
-10 -9 -8 -8 -8 -8 -7 -7 -6 -6 -6 -5 -4 -4 -4 -4 -3 -3 -3 -2 -2 0 +5 +6 +8 +8 +10 +11 +13 +13
Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Sconfitta Vittoria Vittoria Vittoria Vittoria Vittoria Vittoria Vittoria Vittoria
Il fatto è che la linea di confine tra Afghanistan e Pakistan, tracciata, da Sir Henry Mortimer Durand nel 1893, e lunga oltre 2.400 km, per lo più desertica o di montagna, è stata da sempre sostanzialmente ignorata dalle popolazioni locali, che la attraversano normalmente sia per le loro attività quotidiane che per attaccare le forze della Nato Ne risulta che l’applicazione di una strategia complessa di contro-guerriglia richiede un forte coordinamento, ma anche una grande attenzione alla realtà politica locale e alle percezioni della popolazione che può essere resa molto difficile se le scelte operative vengono troppo influenzate da fattori esterni (quali ad esempio le elezioni o gli equilibri politici nei paesi da cui proviene il grosso delle forze impegnate nelle operazioni). E questo è appunto il rischio maggiore che corre una tale scelta strategica che, all’atto pratico, potrebbe richiedere la presenza continuativa in Afghanistan ben oltre il 2014, di un consistente numero di militari della Nato (stimata in circa 60-70mila americani, oltre ai contractors e ad una cifra consistente di truppe europee). Una tale scelta potrebbe facilmente rivelarsi insostenibile politicamente sia negli Stati Uniti sia in Europa sia infine nello stesso Afghanistan, dove il livello di accettazione della presenza delle forze Nato continua a declinare e potrebbe presto divenire minoritario.
dossier Contro-guerriglia a conduzione afgana Il che ci lascia di fonte alla terza ipotesi, e cioè il passaggio graduale delle operazioni alle forze militari e di polizia afgane, mantenendo un appoggio consistente in termini di mezzi e tecnologia, nonché di forze speciali e di Intelligence, ma molto più limitato in termini di forze armate e di contractors. In pratica la soglia numerica delle forze della Nato si situerebbe ad un livello intermedio tra la prima e la seconda opzione, ma tendenzialmente più vicina alla prima, cioè all’ipotesi più bassa, e potrebbe essere valutato, per quel che riguarda gli Usa, attorno ai 40mila militari nel 2014, con possibilità di scendere rapidamente verso i 30mila. Ciò consentirebbe anche una forte riduzione degli altri principali contingenti della coalizione, presumibilmente dell’ordine del 50% circa, anche se il loro compito, più che di sorveglianza, dovrebbe essenzialmente concentrarsi su missioni operative e di combattimento (contro-terrorismo e contro-guerriglia) per sostenere il meno armato ed addestrato contingente afgano. Questa strategia non presenta precise controindicazioni, ma in compenso dipende interamente da
Una cosa sembra certa, senza un qualche mutamento di strategia, ogni ritiro rischierebbe di limitarsi a pochissime unità, mancando l’obiettivo politico di rassicurare le opinioni pubbliche occidentali. Due le opzioni possibili: smantellare al Qaeda o privarla di ogni “santuario” logistico, militare o politico
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Risk
una ineliminabile ed ancora incerta premessa, e cioè l’effettiva capacità delle forze militare e di polizia afgane di consolidarsi a tal punto, nel giro di uno o due anni, da essere effettivamente in grado di sostituire le forze alleate nella maggior parte dei loro compiti. Inoltre, e la cosa potrebbe essere anche più difficile, il successo di questa strategia dipenderà anche dalla capacità e volontà del governo di Kabul di continuare ad operare in piena sintonia con le forze della coalizione. Benché ci siano segni positivi circa il raggiungimento della prima condizione, la seconda è ancora tutt’altro che assicurata. In conclusione dunque nessuna delle strategie militari possibili può oggi garantire con certezza la prospettiva di una significativa riduzione delle forze americane e della Nato in Afghanistan, anche se l’ultima ipotesi sembra essere quella preferita. Il fatto è che probabilmente non basterà concentrarsi sugli aspetti militari, ma bisognerà prestare maggiore attenzione agli aspetti politici, strutturando meglio le iniziative in campo diplomatico nei confronti dei paesi della regione. Tra tutti spicca la questione pakistana, ma sarà molto difficile superare l’opposizione pakistana ad un ulteriore forte ridimensionamento dei talebani e ad una più decisa lotta contro i gruppi terroristi, se allo stesso tempo non si riuscirà ad allentare la 18
tensione tra il Pakistan e l’India. Non è una cosa facile, poiché ambedue i paesi sembrano poco propensi a compiere passi significativi. La situazione sembrava avviarsi verso il meglio durante la presidenza del generale Musharraff, quando un dialogo diplomatico indo-pakistano sembrava avviato a riprendere i negoziati sul Kashmir, ma tutto si è interrotto dopo gli attentati di Mumbai. Il coinvolgimento della Cina a fianco del Pakistan non è naturalmente fatto per tranquillizzare l’India, ed il Pakistan, da parte sua, vede con crescente sospetto la rete di consolati che l’India ha aperto in Afghanistan e i buoni rapporti tra Kabul e Nuova Delhi, nonché le crescenti relazioni di quest’ultima con Washington, in un momento di tensione tra Pakistan ed Usa (anche a causa dell’intervento contro Osama bin Laden). Anche più difficile, d’altro canto, è il rapporto tra i paesi della Nato e l’altro grande vicino dell’Afghanistan: l’Iran. Benché quest’ultimo abbia tendenzialmente mantenuto un atteggiamento critico se non ostile nei confronti dei talebani quando erano al potere a Kabul, oggi Teheran conduce una politica più sfumata, se non altro per accrescere i problemi dell’alleanza occidentale. Né un dialogo diplomatico con questo paese sarà facilitato dalle lotte e dai contrasti che sembrano oggi vedere contrapposti i due principali poteri in carica in Iran, quello della Guida Suprema, Khamenei, e quello del Presidente, Amadinejad. Quali che siano le difficoltà tuttavia, una iniziativa diplomatica è certamente necessaria, anche per servire da quadro politico per un dialogo costruttivo con una parte almeno dei talebani e delle altre forze della guerriglia che potrebbero rivelarsi disponibili a soluzioni di compromesso o armistiziali, e questa potrebbe rivelarsi la carta vincente: l’unica effettivamente in grado di garantire una reale riduzione delle forze in campo. Non sarà certamente facile, e non è detto che riesca, ma è anche una via obbligata.
dossier SMALL, MEDIUM O LARGE: WASHINGTON STA DECIDENDO LA “TAGLIA” DELLA RITIRATA
LE TRE SCELTE DI OBAMA DI
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I
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MATTIA FERRARESI
l rapporto di Barack Obama con la guerra è cambiato nel tempo. Quando dal premio Nobel per la pace ci si aspettava un inizio rapido delle operazioni di ritiro dall’Afghanistan, lui ha inviato altre truppe; appena ha dato le pennellate finali all’immagine del commander in chief inflessibile, andando a stanare Osama bin Laden nel compound di Abbottabad, allora inizia a richiamare gli
uomini. In due anni e mezzo di governo il presidente ha fatto saggiare il vento agli uomini della sicurezza nazionale e ha aggiustato le vele di conseguenza, adattandole di volta in volta alle peculiari onde politiche di Washington. L’inizio del ritiro dai teatri di guerra nell’estate 2011 è stato in qualche modo l’orizzonte fisso di una politica estera americana che Obama ha modellato tenendo conto dei risultati sul campo e del mercato politico interno, che si prepara a una nuova tornata elettorale l’anno prossimo. E ora che il processo di ritiro è arrivato formalmente all’inizio, il presidente americano deve decidere quale sarà il suo volto esplicito e che natura avrà la sua anima nascosta. Come era successo, con movimento di truppe contrario, nel “surge” del 2009, anche in questo caso i generali offrono tre opzioni basate sulla quantità di truppe da portare immediatamente a casa: c’è la versione “small”, attorno alle 5mila unità, quella “large” da 15mila, richiesta anche da alcuni parlamentari democratici al Congresso e naturalmente una terza via intermedia. Una delle ultime volontà espresse dal segretario della Difesa, Robert Gates, prima di abbandonare l’incarico è quella di un ritiro contenuto e che tenda a mantenere sul campo il più a lungo possibile le forze operative: «Sceglierei di mantenere i soldati in grado di
ingaggiare scontri con il nemico e inizierei a portare a casa il personale militare di servizio», ha detto durante la sua ultima sua visita in Afghanistan. A Bruxelles è stato ancora più esplicito: «Non c’è fretta di uscire dall’Afghanistan». Il suo successore, l’ex capo della Cia, Leon Panetta, è invece orientato verso un ritiro più significativo fin da subito, una visione che ha molti sostenitori nei settori civili dell’Amministrazione, meno nei ranghi militari del Pentagono. Panetta, che è stato appena sentito dalla commissione del Senato che deve approvare la sua nomina, non ha aggiunto ulteriori dettagli sulla sua linea, ma è chiaro che rappresenta una visione differente e in un certo senso opposta a quella di Gates. Le differenze in questo particolare frangente non hanno soltanto a che fare con calcoli strategici di breve respiro, ma con la natura stessa della missione in Afghanistan, tanto che nei corridoi di Washington la domanda più ricorrente è: qual è lo scopo della presenza americana nel paese? È sulle diverse risposte a questa domanda capitale che si sono formate due scuole di pensiero che si affrontano senza esclusione di colpi ora che è arrivato il momento di diminuire il numero delle truppe. Alcuni uomini di Obama, ad esempio il vicepresidente Joe Biden e ampi settori del dipartimento di 19
Risk Stato, sostengono che l’invasione del paese nel 2001 e i quasi dieci anni di conflitto successivi avevano lo scopo di smantellare la struttura di al Qaeda, che aveva trovato riparo e aiuto in uno stato falcidiato da decenni di guerra e finito infine sotto il controllo dei talebani. Per i fautori di questa visione, il blitz con cui i Navy Seals hanno ucciso Bin Laden ha rappresentato una doppia vittoria: da una parte, Bin Laden si nascondeva nel territorio dell’infido alleato pachistano, a conferma dei tanti report di intelligence che indicano le aree tribali del Pakistan come il vero feudo senza legge dove sono rintanati i quadri del terrorismo internazionale. Sul Pakistan Obama ha scatenato la più imponente campagna di bombardamenti con i droni mai organizzata sul suolo di un paese alleato e, concludono i suoi consiglieri “moderati”, questo è l’approccio giusto a una guerra contro al Qaeda che ha ormai poco a che fare con lo spirito con cui era stata organizzata dall’Amministrazione Bush. Dall’altra, la morte di Bin Laden è usata come il suggello di una considerazione che per molto tempo a Washington nemmeno i critici più feroci della guerra hanno avuto il coraggio di fare a voce alta: al Qaeda ha perso la sua rilevanza e da tempo non è più una minaccia per gli Stati Uniti. Il liberal Peter Beinart, analista della New America Foundation che durante l’invasione dell’Iraq era in prima fila fra i falchi di sinistra, ora è convinto, assieme a molti altri, che dopo la morte dello sceicco del terrore la presenza militare in Afganistan non sia più né proficua strategicamente né sostenibile agli occhi dell’opinione pubblica americana: «Cosa dice il governo alle famiglie dei nostri soldati caduti circa il motivo per cui siamo ancora in Afghanistan? Abbiamo invaso il paese per distruggere al Qaeda e per impedire che il paese diventasse il suo santuario. Dieci anni dopo al Qaida è ampiamente distrutta. Non è riuscita a organizzare attacchi di proporzioni nemmeno lontanamente paragonabili a quelle dell’11 settembre 2001. E 20
anche gli attacchi che ha cercato di eseguire, come quello “dell’attentatore delle mutande” a Detroit, erano portati da terroristi solitari e poco capaci. Una bella differenza rispetto agli attacchi simultanei organizzati con capacità e scrupolo che erano il marchio di fabbrica dell’organizzazione», sostiene Beinart. Anche le strategie di antiterrorismo concepite e sostenute dall’Amministrazione sono usate da questa scuola di pensiero come argomento a favore del ritiro rapido delle truppe. La Cia di Panetta non ha soltanto autorizzato azioni mirate in Pakistan, ma anche nello Yemen – dove i radar e gli uomini sul campo cercano senza posa di localizzare il rifugio dell’imam Anwar al
Peter Bergen all’indomani della morte di bin Laden: «La missione in Afghanistan non ha nulla a che fare con l’eliminazione dei membri di al Qaeda. Riguarda la stabilizzazione del paese, in modo che non torni ad essere mai più il rifugio dell’estremismo che è stato fino al 2001» Awlaki, “il Bin Laden di internet”, come alcuni hanno ribattezzato questo operativo di al Qaeda nato nel New Mexico. Obama ha potenziato e militarizzato l’intelligence, ha concesso licenze straordinarie agli uomini che raccolgono informazioni e preparano operazioni chirurgiche sul campo. Il sigillo di questa tendenza è stata la nomina del generale David Petraeus – l’uomo a cui Bush aveva affidato il grandioso “surge” iracheno del 2007 e che Obama ha voluto vicino a sé per gli incarichi più delicati sulla sicurezza nazio-
nale – a capo della Cia. La scuola moderata dice che questa è la via per eliminare ciò che rimane del terrorismo internazionale, non i boots on the ground, la presenza massiccia sul territorio. La parte che invece auspica un ritiro più lento e accorto – e che in certi casi rigetta la nozione stessa di ritiro con una data stabilita, perché le indicazioni dei militari sono l’unica base sulla quale prendere decisioni, mentre l’impegno con data di scadenza galvanizza il nemico – sta cercando di far valere un ragionamento più complicato da far digerire all’opinione pubblica. Lo ha riassunto l’analista della Cnn Peter Bergen in un saggio sulla rivista The New Republic all’indomani della morte di Bin Laden: «La missione in Afghanistan non ha nulla a che fare con l’eliminazione dei membri di al Qaeda. Riguarda la stabilizzazione del paese, in modo che non torni ad essere mai più il rifugio dell’estremismo che è stato fino al 2001». In questa prospettiva non c’è soltanto l’obbiettivo che Obama ha ripetuto come in un ritornello di «smantellare, distruggere e sconfiggere» al Qaeda, ma anche di rimettere in sesto una nazione devastata, portarla vicino a un’organizzazione che assomigli ad una democrazia (e non solo di nome) e scongiurare così l’ipotesi di una recrudescenza anche più grave della patologia originaria. I dieci anni di guerra hanno dimostrato quanto i progressi siano fragili: per ogni provincia conquistata ce n’è un’altra che ritorna all’attacco, per ogni tribù convinta un’altra si ribella, per ogni informatore fedele ce n’è uno che pianifica attentati e così via. I risultati assodati sono il frutto della pazienza dei militari, della strategia che porta i soldati americani fuori dalle grandi basi ai margini delle città e lì catapulta in mezzo alla popolazione a conquistare “cuori e menti” degli afgani. «Ogni ritiro è dettato più dalla politica che dalla strategia», scrivono Frederick e Kimberly Kagan, intellettuali neoconservatori che hanno contribuito a coniare la politica estera di Bush. Con una certa ironia, le loro parole assomigliano molto a quella apparse in un editoriale del Washington Post, stori-
Risk
La guerra, tema prediletto dei critici di Bush, non si è mai imposta come questione dirimente per gli elettori di Obama. L’economia ha sempre dominato le preoccupazioni degli americani ca voce dei democratici della capitale: «Il ritiro di luglio voluto da Obama sembra più ispirato a considerazioni di politica interna che a una vera strategia». Il Post rincara la dose: «Che il ritiro, a prescindere dalle proporzioni, comunque avvenga è il risultato della decisione imprudente di Obama di annunciare la data del ritiro proprio mentre ordinava un aumento delle truppe». Le 30mila unità mandate nel 2009 hanno fatto diminuire gli attacchi e hanno aperto un piccolo spiraglio di stabilità nel dramma dell’Afghanistan. L’inizio dell’estate, il periodo in cui gli attacchi si fanno di solito più intensi, è stato meno devastante del previsto e anche per questo i critici del ritiro sostengono che le ragioni della manovra siano essenzialmente politiche. Obama con un occhio guarda ai risultati immediati, con l’altro è concentrato sulla campagna elettorale che sta scaldando i motori a Chicago. La guerra, tema prediletto dei critici di Bush, non si è mai imposta come questione dirimente per gli elettori di Obama. L’economia ha dominato incontrastata le preoccupazioni degli americani, mentre la politica estera si è allontanata dalla vita della gente per tornare ad essere poco più di un occulto affare di palazzo. Disoccupazione e assistenza sociale sono i problemi che tengono svegli gli americani la notte, mentre la guerra al terrorismo internazionale viene sempre un passo dopo. Non a caso anche le critiche più accese alla presenza militare americana nel 22
mondo arrivano dal lato economico della questione: i due miliardi di dollari a settimana che l’America spende per sostenere le azioni belliche sono la bandiera sotto la quale si trovano stranamente riuniti i rappresentanti della sinistra radicale e quelli del Tea Party. Animati da differenti ordini di ragioni, entrambi premono per un disimpegno immediato dai teatri di guerra, e nell’opinione pubblica si è affermata la convinzione che la macchina bellica è un capitolo di spesa ingombrante in un budget già di per sé difficile da gestire. In questo senso la morte di Bin Laden ha mandato due messaggi: il primo è che dopo aver colpito la testa dell’organizzazione, l’America può ritirarsi più tranquillamente; il secondo è che con raid ben organizzati dagli apparati di intelligence si possono ottenere risultati migliori di quelli raggiunti con centomila costosissime paia di anfibi piantate sul terreno. Un sondaggio della Cnn dice che il 39 per cento degli americani è favorevole al ritiro delle truppe; prima dell’operazione di Abbottabad la percentuale era ferma a 35. Il successo della missione più delicata ha reso il ritiro un’opzione più realistica agli occhi degli elettori, ma allo stesso tempo ha circoscritto lo scopo dello sforzo decennale in Afghanistan alla sola caccia ai pezzi grossi di al Qaeda. Non c’è dubbio che la grande macchina americana si sia mossa per dare loro la caccia; ma una volta arrivata sul territorio le condizioni sono cambiate, la prospettiva del conflitto si è estesa, tanto che la definizione stessa della natura e dello scopo dell’operazione è cambiata con il passare del tempo. Agitare lo scalpo di Bin Laden in chiave elettorale è la più facile delle operazioni per Obama, ma nel momento cruciale del ritiro il commander in chief degli Stati Uniti dovrà dimostrare di avere una mente politica abbastanza aperta da abbracciare il dibattito interno sullo scopo del conflitto, e quindi elaborare una strategia conseguente. E il presidente ha già dimostrato di saper cambiare prospettiva quando la realtà lo richiede.
Risk DOPO IL BLITZ DI ABBOTTABAD BISOGNA MOLTIPLICARE GLI SFORZI PER SCONFIGGERE IL MOVIMENTO
BIN LADEN È MORTO, MA AL QAEDA NO DI FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN •
L’
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uccisione di Osama bin Laden ha rappresentato un grande momento per l’America e per i popoli civili di tutto il mondo. Ma non si possono prendere decisioni irresponsabili in Asia Meridionale spinti dall’euforia del momento. Al Qaeda non è stata ancora smantellata né tantomeno sconfitta. La scomparsa di bin Laden non avrà ripercussioni per le
forze statunitensi ed internazionali in Afghanistan, per la loro missione o per le tempistiche delineate ai fini della riduzione degli effettivi sul campo. George W. Bush inviò truppe in Afghanistan non per uccidere bin Laden, ma per estromettere al Qaeda dal suo sicuro rifugio nella regione, sconfiggerla e creare le condizioni politiche che avrebbero precluso un suo ritorno in Afghanistan. Barack Obama ha riaffermato tale missione nel suo discorso del dicembre 2009, durante il quale ha delineato la sua strategia. Il Presidente ha scelto un approccio di controinsurrezione poiché un ritorno a Kabul del regime talebano avrebbe consentito ad al Qaeda di ristabilire sicure basi nel paese, facendo leva sulla storica cordialità tra i due movimenti o sull’incapacità dei talebani di prevenire il ritorno dei qaedisti. Inoltre, un’insurrezione protratta e violenta creerebbe l’opportunità per gli affiliati di al Qaeda in Pakistan, come la rete Haqqani, di rafforzare i gruppi terroristi internazionali ed impiegarli nella lotta in Afghanistan. Obama sta perseguendo la strategia giusta, ma le forze degli Stati Uniti e dei loro partner internazionali impegnati a porla in essere sono a malapena sufficienti. L’esito del conflitto in Afghanistan rimane in bilico. Nello scorso anno, le forze statunitensi ed i lo24
ro alleati hanno ottenuto brillanti risultati, scacciando i talebani da zone sino ad allora per loro sicure in tutto il sud dell’Afghanistan, la loro terra natale. Anche nella parte orientale dell’Afghanistan, in cui i gruppi legati ad al Qaeda godono di una più consistente presenza, si sono registrati considerevoli progressi. Contrariamente a quanto riportato da alcuni media, né al Qaeda né Lashkar-e-Taiba sono riusciti a creare sicuri rifugi a seguito del ritiro delle forze Usa dalle isolate valli fluviali nella provincia di Kunar. In realtà, una serie di offensive nelle vallate e nella provincia hanno inflitto ingenti perdite a tali organizzazioni. La capitale provinciale, Asad-abad, è una città in crescita e sempre più fiorente, come abbiamo avuto modo di vedere nel corso di una recente visita. E le truppe dell’esercito afghano si sono stabilite in alcuni degli avamposti da cui le forze Usa si sono ritirate, dimostrando determinazione nel controllo del proprio territorio. Sebbene al Qaeda non abbia ristabilito proprie roccaforti in Afghanistan, ciò non è stato certo per mancanza di tentativi. Di recente, le forze statunitensi hanno ucciso un ufficiale di alto rango di al Qaeda a Kunar, e vi sono prove evidenti che al Qaeda e Lashkar-e-Taiba, tra i vari gruppi islamisti, vedrebbero con favore la possibilità di insediarsi in un Afghanistan una volta ancora preda
dossier dell’anarchia. La necessità di aiutare gli afghani a fondare uno stato che possa prevenire il riemergere di focolai terroristi permane anche dopo la morte di bin Laden, e l’attuale strategia, supportata da risorse adeguate, rappresenta l’unico percorso atto a perseguire tale obiettivo. L’invocare un ritiro affrettato equivarrebbe ad ammettere che, con la morte di bin Laden, l’Afghanistan sia diventato irrilevante e che un successo in quella regione non sia più di primaria importanza per la sicurezza dell’America. Di conseguenza, si prospettano lunghi combattimenti all’orizzonte. Un impegno militare continuativo si dimostra necessario per rendere durevo-
re di consolidare ed accrescere i risultati in termini di sicurezza e compiere progressi ad est; dati questi presupposti, non sussistono le condizioni per una massiccia riduzione di forze. Se per quanto riguarda l’Afghanistan si respira un cauto ottimismo, evidenti segnali di pessimismo emergono invece dagli altri fronti della lotta all’islamismo militante. La presenza di bin Laden in Pakistan ha ancora una volta concentrato l’attenzione degli americani sul fatto che la leadership pakistana non abbia ancora raggiunto un consenso circa la necessità di contrastare i gruppi di militanti islamici all’interno dei propri confini. Né gli Stati Uniti hanno sviluppato una reale strategia per fronteggiare tale minaccia. Difficilmente la campagna di attacchi mirati potrà essere ampliata, in special modo dopo il recente raid nel cuore del territorio pakistano. E la campagna con i droni non piegherà quei violenti gruppi terroristi che mira ad eliminare. Una reazione sproporzionata ai sospetti di complicità del Pakistan, data la presenza di bin Laden ad Abbotabad, che si concretizzi con la sospensione di tutti i legami di aiuto o militari o con altre drastiche azioni renderebbe molto più difficile, non di certo più agevole, operare contro i terroristi che ci minacciano. Al contrario, il ritiro delle nostre forze dall’Afghanistan e la cancellazione di tutti gli aiuti al Pakistan non farebbero altro che rafforzare due delle prevalenti teorie cospirative in Asia meridionale – che gli Stati Uniti abbandonino sempre quanti si fidano di loro, e che fossimo lì semplicemente per prendere bin Laden ad ogni costo. Al contrario, dovremmo sfruttare la simbolica vittoria contro lo sceicco saudita continuando a perseguire la strategia presidenziale volta a li quei miglioramenti sinora precari ed affrontare smantellare e sconfiggere i gruppi islamisti milile nuove sfide. Il nemico lavorerà duramente que- tanti supportati da elementi dell’apparato di sicust’anno per riconquistare i territori perduti a sud, rezza pakistano. Solo sconfiggendo tali affiliazioper condurre attacchi spettacolari a Kabul e nel ni potremo ragionevolmente sperare di costringeresto del paese e per rafforzare i suoi rimanenti re il Pakistan a rivalutare i propri interessi di sicuavamposti ad est. Le nostre forze dovranno tenta- rezza e sviluppare una politica per opporsi a e
Al Qaeda non è rimasta confinata ai propri nascondigli in Pakistan e Afghanistan. L’organizzazione prospera laddove persistono condizioni di fragilità politica, ed ha iniziato a fare proseliti in tutto il mondo. Il nucleo del gruppo di cui bin Laden era a capo ha svolto a lungo, nella migliore delle ipotesi, una debole funzione di controllo
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«Il ritiro delle nostre forze dall’Afghanistan e la cancellazione di tutti gli aiuti al Pakistan non farebbero altro che rafforzare due delle prevalenti teorie cospirative in Asia meridionale: che gli Stati Uniti abbandonino sempre quanti si fidano di loro, e che fossimo lì semplicemente per prendere bin Laden ad ogni costo» sconfiggere tutti i militanti islamici che operano all’interno dei suoi confini. Ma al Qaeda non è rimasta confinata ai propri nascondigli in Pakistan e Afghanistan. L’organizzazione prospera laddove persistono condizioni di fragilità politica, ed essa ha iniziato a fare proseliti in tutto il mondo. Il nucleo del gruppo di al Qaeda di cui bin Laden era a capo (a cui spesso ci si riferisce come Al Qaeda Centrale) ha svolto a lungo, nella migliore delle ipotesi, una debole funzione di controllo sulle operazioni dei suoi affiliati sparsi nella regione. Tale controllo poggia in parte sulle risorse gestite da al Qaeda Centrale, in parte sul valore del suo riconoscimento per uno specifico gruppo come degno del marchio al Qaeda, ed in buona parte sul valore simbolico del carismatico bin Laden. Il probabile successore dello sceicco saudita, il medico egiziano Ayman al-Zawahiri, non brilla di certo per carisma. La sua ascesa al ruolo di leadership potrebbe infiammare la competizione tra al Qaeda Centrale 26
ed i gruppi affiliati su quale di questi sia effettivamente il centro del movimento. Sfortunatamente, tale competizione si dispiega sotto forma di attacchi spettacolari, in particolare quelli condotti sul territorio degli stati occidentali. Al Qaeda nella Penisola Araba (Aqap), con base nello Yemen, è la cellula qaedista più attiva e forse più pericolosa al mondo. La Primavera Araba ha raggiunto con virulenza lo Yemen – proteste massicce hanno portato alla defezione di elementi dell’esercito yemenita, con il risultato che le forze armate si stanno concentrando in vista di un’eventuale guerra civile dentro e fuori la capitale ed in ogni zona del paese. Soprattutto adesso che Saleh, l’odiato presidente, è - almeno temporaneamente - fuori gioco. Come ha dimostrato lo studio di Katherine Zimmerman nell’ambito del Critical Threats Project dell’Aei, quasi ogni scenario possibile darà all’Aqap maggiore libertà di addestrarsi, pianificare, organizzare e condurre attacchi da aree tribali sempre più preda dell’anarchia in cui gode di un considerevole sostegno locale. La combinazione tra il naufragio dello Yemen verso il collasso statuale e la scomparsa di bin Laden potrebbero creare un’irrinunciabile opportunità per l’Aqap. La morte dello sceicco potrebbe inoltre determinare un aumento degli sforzi dell’Aqap al fine di condurre attacchi spettacolari contro gli Stati Uniti e l’Occidente.
Un’altra affiliata
di al Qaeda detiene già il controllo di ampie porzioni di uno stato: al Shabab è di fatto il governo di buona parte della Somalia meridionale fuori da Mogadiscio. Non è stato formalmente riconosciuto come membro della galassia di al Qaeda, ma i suoi legami con l’Aqap sono profondi e di vecchia data, e la sua ideologia si rispecchia fedelmente in quella di al Qaeda. Al Shabab è frenato nella sua azione di controllo di tutta la Somalia meridionale e centrale solo dalla presenza dei peacekeepers dell’Uganda e del Burundi, i quali sono stati a malapena in grado di
dossier mantenere parti della capitale. Shabab non subirà molto probabilmente conseguenze negative dalla morte di bin Laden, ma potrebbe intravedere la possibilità – o avvertire la necessità – di espandere il raggio dei propri attacchi per solidale ritorsione. Fortunatamente, al Qaeda in Iraq rimane relativamente inefficace, malgrado gli sforzi per rivitalizzarsi al momento del ritiro delle truppe statunitensi. Ma la presenza costante nel paese di addestratori militari americani anche dopo la fine di quest’anno rimane in dubbio, e non è chiaro se l’esercito iracheno potrà da solo mantenere il livello necessario di pressione su questa branca qaedista. Se il ritiro completo delle forze americane ora in corso porterà ad un’esplosione di conflitti etnici tra arabi e curdi iracheni, come qualche analista teme, al Qaeda in Iraq potrebbe trovare terreno fertile per ristabilirsi, mandando in fumo i progressi realizzati dal 2006. Il perdurare di una situazione di stallo in Libia potrebbe altresì porre le condizioni per il riaffermarsi dei gruppi legati ad al Qaeda quali unici veri alleati dei combattenti ad est, i quali si sentono abbandonati dagli Stati Uniti e dall’Occidente. Sebbene l’attuale leadership della resistenza libica non sia penetrata da al Qaeda o sostenga quell’organizzazione o la sua ideologia, la Libia orientale è l’area che ha prodotto la maggior parte dei combattenti di al Qaeda in quel paese ed in cui più fertile appare il terreno più fertile per un’iniezione di idee e leader di qaedisti. Scenari più remoti potrebbero vedere l’ascesa di affiliati di al Qaeda o di suoi simpatizzanti in Egitto, in qualsiasi zona del Nord Africa, nel Levante, o nell’Africa equatoriale, ma non vi è bisogno di insistere sul punto. La battaglia con al Qaeda, per tacere della più ampia lotta contro l’islamismo militante in generale, è lungi dal dirsi conclusa. I pericoli imminenti stanno, nei fatti, emergendo. Può essere allettante sostenere che queste minacce dimostrino semplicemente l’assennatezza di un ritiro dall’Afghanistan, il quale non è attualmente un centro dell’attività di al
Qaeda, per concentrarsi su problemi più pressanti in altre aree. Dobbiamo resistere a tale tentazione. La nostra lotta contro al Qaeda nella Penisola Araba non verrà favorita dal concedere mano libera ai suoi affiliati in Afghanistan o da un ritorno del leader talebano, il Mullah Omar, che gli affiliati di al Qaeda riconoscono quale “guida dei fedeli”, ad una posizione di potere.
Il successo in Afghanistan rimane di vitale importanza. Un ritiro americano da uno qualsiasi di questi scenari verrebbe considerato da tutta la comunità islamista come un segno di debolezza ed indecisione. Ma il successo in questi due teatri non è sufficiente. In questa fase della lotta contro l’islamismo militante è giunto il momento di fare il punto sulla nostra strategia globale e sviluppare approcci coerenti ai pericoli già visibili all’orizzonte. Nessuno vuole invadere lo Yemen, la Somalia, la Libia, o qualsiasi altro paese. Ma le strategie su cui abbiamo fatto affidamento in Libia e Yemen stanno fallendo, e non abbiamo mai avuto una strategia per la Somalia. Gli Stati Uniti devono percorrere ogni via possibile per scongiurare il trionfo dei gruppi legati ad al Qaeda, preferibilmente senza dispiegare nuove forze. Può essere che, in fin dei conti, l’America non possa semplicemente essere al sicuro se gruppi terroristi con ambizioni internazionali detengono il controllo incontrastato sulle proprie zone e sulle risorse di queste. Ma il governo statunitense non ha ancora concentrato la propria completa attenzione su tali sfide, tantomeno ha destinato ad esse risorse. È giunta l’ora di orientarsi verso tale strategia. Coloro che si dichiarano sinceramente preoccupati per la sicurezza dell’America e dell’Occidente dovrebbero chiedere quel tipo di impegno e rigettare in toto la teoria secondo cui la morte di bin Laden ci consentirà di proclamare “missione compiuta” e ritirarci dal Medio Oriente, e dal mondo. 27
Risk LE FORZE DI SICUREZZA AFGANE CERCANO DI PREPARARSI ALL’ESODO: MA NON SONO PRONTE
ANA, UNA CORSA CONTRO IL TEMPO DI •
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È
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ALESSANDRO MARRONE
come costruire un aereo mentre lo stai facendo volare, e per di più ti sparano addosso». Così David Petraeus, Comandante di Isaf, ha descritto l’arduo compito di formare le forze di sicurezza afgane. Un dispositivo militare e di polizia complesso come un aereo, perché complesso è il mosaico etnico e tribale dell’Afghanistan,
il rapporto con i signori della guerra afgani e con i paesi confinanti. Una forza armata che viene gettata nella mischia appena finito l’addestramento, e in molti casi durante l’addestramento, per la necessità di contrastare una guerriglia che sfugge le maglie del contingente Isaf. La costruzione dell’Afghan National Army (Ana) e della polizia afgana, insieme alla protezione della popolazione civile, alle operazioni “kinetiche” di contrasto alla guerriglia, al sostegno alla ricostruzione istituzionale ed economica, sono i pilastri della strategia di controguerriglia adottata da Petraeus per stabilizzare il paese. L’obiettivo non è sradicare la guerriglia, cosa ritenuta impossibile, ma ridurne le capacità e mettere in grado l’Ana e le istituzioni afgane di gestirla da soli con un ridotto sostegno Nato. Processo da attuare entro il 2014 in una corsa contro il tempo con diversi ostacoli e problemi. Il primo problema è stato quello di trovare un approccio comune all’interno della comunità internazionale impegnata in Afghanistan. Per troppi anni la formazione delle forze armate afgane è stata affidata a singoli paesi Nato, che gestivano programmi non coordinati tra loro e sotto-finanziati. Una situazione che, nonostante la qualità riconosciuta di addestratori come i Carabinieri italiani, ha reso inefficaci e inefficienti gli sforzi 28
internazionali. Solo nel 2009 la Nato ha deciso di istituire la Nato Training Mission Afghanistan (Ntm-A), che ha riunito sotto un unico comando tutte le iniziative Isaf quanto a training e mentoring dell’Ana. La Ntm-A ha ricevuto sostanziali risorse da Stati Uniti e alleati europei, arrivando a dispiegare oggi 2.000 addestratori in Afghanistan. Ciò ha permesso un cambio di passo nella formazione dell’esercito afgano, i cui effettivi sono rapidamente cresciuti dai 97.000 del 2009 ai 154.000 di aprile 2011, con l’obiettivo di arrivare alla soglia dei 171.000 entro l’anno. Uno dei principali problemi che la Ntm-A ha dovuto affrontare è il mantenimento dell’equilibrio etnico all’interno dell’Ana. Il bilanciamento della partecipazione delle minoranze Uzbeka, Tagika e Hazara con la presenza maggioritaria dei Pashtun è fondamentale, per fare sì che l’Ana sia percepito in tutto il paese come una istituzione nazionale dell’Afghanistan e non come una milizia di questa o quella etnia. Oggi la composizione etnica dell’esercito riflette quella del Paese: 44% Pashtun, 25% Tagiki, 10% Hazara e 8% Uzbeki. Dietro i numeri apparentemente rassicuranti si nasconde però un altro problema. La grande maggioranza dei Pashtun arruolati nell’Ana proviene dalle enclave di questa etnia nelle province occi-
dossier dentali, centrali e settentrionali dell’Afghanistan, mentre sono ancora poche le reclute dal cuore del territorio Pashtun nel sud e nell’est del Paese. In queste regioni, cruciali per la stabilizzazione dell’Afghanistan, permane una certa diffidenza verso l’Ana, diffidenza che ne limita ovviamente la capacità di contrastare la guerriglia. Il capo di stato maggiore dell’Esercito e il ministro della Difesa sono stati scelti tra i Pashtun anche con l’obiettivo di rassicurare la loro etnia di provenienza, ma la mossa non ha avuto finora gli effetti desiderati. Questo problema comporta anche il rischio che l’Ana si frammenti su base etniche in caso di ritiro completo e affrettato del contingente Isaf. Trent’anni di guerra civile non si seppelliscono facilmente, e molti tra gli ufficiali, i sottoufficiali e i soldati semplici dell’Ana hanno imbracciato le armi contro i loro attuali commilitoni nel recente passato. Allo scopo di evitare un nuovo scenario da guerra civile, la Ntm-A ha imposto la regola per cui anche l’unità di base della fanteria, il Kandak equivalente del plotone, sia composto da soldati di diverse etnie. Ciò garantirebbe che non si formino unità medio-grandi dell’Ana interamente costituite da una sola etnia e perciò più inclini ad agire come un corpo a sé, pronto nel caso a combattere altre compagnie o brigate tecnicamente omogenee. La speranza è che rischiare la vita insieme aiuti la
I vertici afgani chiedono con insistenza carri armati, aerei e artiglieria pesante. La Ntm-A risponde che per condurre un’efficace controguerriglia non servono questi mezzi, ma piuttosto unità ben addestrate
crescita dal basso di un cameratismo militare che aiuti a superare le divisioni etniche. Un’altra pesante eredità della guerra civile è il tasso di analfabetismo tra la popolazione. Gli uomini tra i 18 e i 40 anni, che di solito costituiscono il nerbo di un esercito, sono cresciuti in Afghanistan senza imparare a leggere e scrivere. Abilità non accessoria per un soldato, visto che la capacità di leggere le comunicazioni, di interpretare una mappa o di utilizzare la radio possono fare la differenza tra la vita e la morte. Per non parlare dell’ovvia difficoltà di costituire i reparti incaricati della logistica o dell’amministrazione, necessari per la sostenibilità dello strumento militare nel medio periodo. È vero che gli afgani, come amano ripetere gli stessi ufficiali dell’Ana, nascono con il combattimento nel sangue, ma se ciò può essere sufficiente per fare un buon guerrigliero non lo è di certo per costituire una istituzione in grado di garantire la sicurezza del Paese. In media solo il 14% delle reclute Ana sa leggere e scrivere, e così la Ntm-A ha istituito corsi estensivi di alfabetizzazione, e più in generale ha aumentato l’impegno sulla qualità oltre che sulla quantità degli effettivi dell’Ana. I corsi stanno avendo un successo crescente perché le famiglie vedono nell’istruzione dei propri ragazzi anche un mezzo di mobilità sociale e riscatto economico. Proprio il legame familiare, tribale e sociale costituisce un altro ostacolo con cui Isaf deve fare i conti. Il tasso di abbandono dell’Ana da parte delle reclute dopo il primo periodo di formazione è infatti molto alto. Uno dei motivi è che i ragazzi che si arruolano dopo alcuni mesi hanno la necessità o la volontà di tornare dalla propria famiglia per portarvi i risparmi, per partecipare al raccolto estivo, o per passare un certo periodo ad occuparsi di questioni familiari. Molti di loro poi in realtà ritornano ad arruolarsi l’autunno successivo, tanto che al ministero della Difesa afgano contestano le statistiche Isaf sul tasso di abbandono, sostenendo che una parte delle 6.000 domande di arruolamento che 29
l’Ana riceve in media ogni mese sono fatte da soldati già formati “di ritorno” dalla casa paterna. Ben più gravi sono i problemi a livello politicostrategico nel formare l’Ana. Gli Stati Uniti hanno già sperimentato cosa voglia dire armare ed equipaggiare delle milizie afgane e poi lasciare loro mano libera. Oggi, seppure in termini diversi rispetto agli anni ’80, si pone lo stesso problema con l’Ana. I vertici dell’esercito afgano chiedono infatti con insistenza carri armati, aerei da combattimento e artiglieria pesante. La Ntm-A risponde che per condurre un’efficace campagna di controguerriglia non servono questi mezzi, ma piuttosto unità ben addestrate, mobili e ben coordinate, in grado di proteggere la popolazione e dare la caccia ai manipoli di insorti. L’Ana si preoccupa però in prospettiva degli stati vicini, ed è esplicito il riferimento a Pakistan e Iran considerati come nemici che già ora destabilizzano l’Afghanistan e sarebbero pronti a invaderlo se Isaf abbandonasse completamente il paese. La frase che si sente più spesso negli ambienti militari di Kabul suona più o meno così: “dateci le armi necessarie e poi ce la caviamo da soli a difenderci. Che vengano pure talebani e pakistani, e vedremo chi vince”.
Un approccio che inevitabilmente innesca le preoccupazioni di Islamabad e Teheran, spingendole a contrastare anziché favorire la stabilizzazione dell’Afghanistan, e apre la strada a futuri conflitti regionali. Perciò finora la Nato e in particolare gli Stati Uniti - hanno rifiutato determinate richieste, tra cui è annoverata la battuta afgana - battuta fino a un certo punto - in merito al bisogno di formare una “Marina Afgana”. Marina che in uno stato senza sbocchi sul mare servirebbe solo a far innervosire le flotte iraniana e pakistana. Per mantenere questa linea occorre però considerare le fondate preoccupazioni strategiche afgane, e assicurare che una ridotta ma sostanziale presenza Nato rimar-
dossier
Dall’inizio del 2011 Isaf e Ana svolgono quasi tutte le operazioni militari “shana ba shana”, cioè spalla a spalla, in modo da trasmettere sul campo il know how della prima e di testare l’operatività raggiunta dalla seconda rà in Afghanistan a supporto di Ana oltre il 2014. Il 2014 è la data cui tutti guardano in Afghanistan, in una specie di corsa contro il tempo. La decisione di Obama di iniziare la graduale riduzione del contingente americano a luglio del 2011 ha portato la Nato ad elaborare la strategia della “Inteqal”, parola che in Dhari e Pasthu vuol dire “transizione”. Transizione delle responsabilità della sicurezza da Isaf alle forze armate e al governo afgano, da attuare entro il 2014 gradualmente attraverso tranche successive di province. La prima tranche annunciata a marzo comprende sette aree, nelle quali vive 1/4 della popolazione afgana: Kabul, Mazar-el-Sharif, Lakshar Gah, Bamyan, Metelman, Panjshir, e la città di Herat sede del Comando Regionale Ovest sotto responsabilità italiana. In queste aree nei prossimi mesi esercito e polizia afgana assumeranno la guida delle operazioni di sicurezza, sotto il controllo rispettivamente del governo centrale e di quello provinciale. Il ruolo di Isaf cambierà, diminuendo le attività di combattimento e pattugliamento, trasferite agli afgani, e aumentando quelle di supporto logistico, aereo, e di intelligence all’Ana. Al tempo stesso saranno aumentati gli sforzi Nato per l’addestramento e l’equipaggiamento di esercito e polizia. Un processo delicato, che la guerriglia cercherà di far fallire con attentati e attacchi come quello avvenuto a maggior contro il Prt italiano di Herat.
Ciò implica che nei prossimi tre anni Isaf diminuirà sì i suoi effettivi e le operazioni di combattimento, ma non abbandonerà del tutto l’Afghanistan. La formazione dell’Ana richiede infatti un impegno di lungo periodo per costruire l’insieme delle strutture di sostegno alle truppe da combattimento, dalla logistica allo staff medico, al supporto aereo. Basti pensare che i primi voli dell’Aeronautica afgana sono previsti non prima del 2017. Finché queste capacità locali non verranno costituite, l’operatività dell’Ana dipenderà in buona misura dal supporto di Isaf. Inoltre, la sostenibilità complessiva dello strumento militare afgano dipenderà per almeno un decennio dalla volontà della Nato, ed in particolare degli Stati Uniti, di pagare gli stipendi dei soldati e di finanziare l’acquisto e la manutenzione degli equipaggiamenti. Le dimensioni attuali dell’Ana sono infatti superiori alle capacità del bilancio dello stato afgano, e il processo di state building sarà molto più lento sul versante civile di quanto lo è stato in ambito militare mantenendo a lungo tale gap. Attualmente comunque il problema principale è intensificare il training dell’Ana, ed in particolare concentrarlo sugli ufficiali e sottoufficiali che saranno a breve chiamati a svolgere un ruolo di leadership autonomo da Isaf a livello operativo e tattico. In parallelo al training svolto in accademia o in caserma, viene intensificato anche il mentoring fatto dagli addestratori Nato inseriti nelle unità afgane, gli Operational Mentoring and Liason Team (Omlt). Dall’inizio del 2011 Isaf e Ana svolgono quasi tutte le operazioni militari Shana ba shana, cioè spalla a spalla ovvero in partnership, in modo da trasmettere sul campo il know how della prima e di testare l’operatività raggiunta dal secondo. Già nell’operazione di Marja del 2010, che ha sottratto alla guerriglia il controllo di una città da 80.000 abitanti, hanno preso parte 10.000 soldati Isaf e 6.000 dell’Ana. Truppe afgane che poi sono rimaste a presidiare il territorio insieme ai poliziotti e ai funzionari statali, secondo il principio di controguerriglia clear-hold-build sperimentato con un 31
Risk certo successo in Iraq: una provincia clear – ripulita - dagli insorti con operazioni “kinetiche” deve essere hold – presidiata – da forze armate sufficienti a garantirne la sicurezza e a stabilirvi l’autorità statale, autorità che va build – costruita – in termini di uffici e servizi pubblici per conquistare il sostegno della popolazione. In questa strategia il ruolo dell’Ana è fondamentale in tutte e tre le fasi, e quindi la formazione delle forze armate afgane è diventata la priorità delle priorità per Isaf: «Gli addestratori sono il ticket per la transizione», ha dichiarato il Segretario Generale della Nato Rasmussen. L’altra priorità è la formazione dell’Afghan National Police (Anp). Qui la situazione è se possibile ancora più complessa e delicata rispetto all’Ana. In primo luogo, si è verificato lo stesso problema di non-coordinamento e sotto-finanziamento degli sforzi comunità internazionale, che prima ha messo in campo programmi nazionali di formazione slegati tra di loro e poi finalmente è passata alla cooperazione Nato-Ue. Attualmente infatti la missione Eupol Afghanistan si occupa della formazione dei vertici della Anp e dei quadri del Ministero degli Interni, mentre la Ntm-A si occupa della formazione su larga scala del corpo di polizia. La cooperazione tra le due missioni è migliorata nettamente dal 2009, ma restano seri problemi da affrontare. Il primo è l’analfabetismo delle reclute, problema ancora più grave per l’Anp rispetto all’Ana perché un poliziotto dovrebbe essere in grado di condurre investigazioni e interagire con l’autorità giudiziaria, mansioni che implicano una padronanza più che basilare della lingua. Il secondo grave problema è la carenza del sistema giudiziario nel suo complesso: sebbene gli effettivi della polizia siano in crescita, 122.000 ad aprile 2011 rispetto ai 95.000 del 2009, non ci sono abbastanza tribunali dove processare gli arrestati o pubblici ministeri per formulare le accuse. La costruzione del sistema giudiziario e di polizia è un compito titanico che è stato sottovalutato dalla comunità internazionale, che l’ha affidato con 32
risorse assolutamente insufficienti prima a Germania e Italia e poi all’Ue. Unione Europea che oggi stanzia per la missione Eupol Afghanistan un budget operativo di appena 120 milioni di euro annui, e dispiega uno staff di poco più di 300 addetti. La missione Ue finora ha formato 1.700 ufficiali nell’Accademia di Kabul e nel centro di addestramento di Bamyan, risultati importanti ma non sufficienti. Per questo motivo la Nato si appresta, con cautela ed in cooperazione con l’Ue, ad entrare anche nel campo del sistema giudiziario, per colmare un gap che mette a rischio l’intero processo di transizione. Infatti, se la popolazione afgana non ottiene dallo stato l’imposizione della legge, tenderà a rivolgersi ai tribunali degli insorti per risolvere le cause e alle milizie dei signori della guerra per avere protezione, destabilizzando così il governo nazionale e ponendo le condizioni per una nuova fase di instabilità o guerra civile.
Il bilanciamento
etnico dell’Anp segue logiche diverse da quello dell’Ana. Infatti il reclutamento della polizia è fatto su base provinciale, e quindi le province a maggioranza o interamente Pashtun avranno un corpo di polizia a maggioranza o interamente Pashtun, e così per quelle Tagike o Uzbeke. La ratio è che il poliziotto deve interagire molto di più del soldato con la popolazione locale, e quindi conoscere il dialetto e appartenere alla realtà della provincia è indispensabile. Altra differenza con l’Ana sta nel fatto che l’Anp non è l’unico corpo di polizia afgano: sono in fase di formazione anche la Afghan Border Police, che agisce come guardia di frontiera e riscuote le tasse doganali; la Afghan Police Protection Force, che dovrebbe sostituire progressivamente le guardie private attualmente utilizzate su larga scala; la Afghan National Civil Order Police, una gendarmerie sul modello dei Carabinieri. La presenza di diversi corpi di polizia comporta però il rischio di mancato coordinamento ed inefficienze, ed è per
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I vari corpi della polizia afgana dipenderanno per diversi anni dalla comunità internazionale, e in particolare da Nato ed Ue, per quanto riguarda il pagamento degli stipendi e l’equipaggiamento, così come l’Ana. Servirà quindi un contributo costante nel tempo, ma molto ridotto rispetto all’attuale livello di risorse umane e materiali dispiegato da Isaf questo che ad esempio nel Comando Regionale Sud sono state istituite delle Shura – consigli - settimanali di coordinamento tra i corpi di polizia, l’Ana e Isaf. Infine, un ruolo molto delicato è svolto dall’Afghan Local Police (Alp). L’idea dell’Alp è stata avanzata dal presidente afgano Karzai, ma di fatto il modello cui ci si ispira è quello dei “Sons of Iraq” protagonisti del “Risveglio di Anbar”, che tra il 2007 e il 2009 ha dato un contributo fondamentale alla campagna di controguerriglia in Iraq cacciando gli infiltrati di Al Qaeda dalle comunità sunnite. Il senso è dare alle comunità locali la possibilità di auto-proteggersi dalle infiltrazioni di Al Qaeda e dei guerriglieri afgani e stranieri, tramite la creazione di milizie a livello di villaggio o di distretto. Il rischio per l’Afghanistan è evidente: il ritorno al dominio dei signori della guerra, la rinuncia al monopolio della forza da parte dello stato, e la prospettiva di una ripresa della guerra civile. Per affrontare questo rischio, alcune misure sono state prese da parte di Isaf e governo afgano. Le reclute 34
dell’Alp devono essere candidate e approvate dalla Shura del distretto e dal Consiglio Provinciale afgano, per poi sottoporsi a un secondo vaglio nazionale che include la raccolta dei dati biometrici. Ciò sia per evitare infiltrazioni di terroristi e insorti già schedati, sia per creare un database delle persone che si stanno per armare. Inoltre, l’Alp non è una struttura parallela, ma è inquadrata nella catena di comando della polizia e gli stipendi sono pagati dal Ministero dell’Interno. Infine, l’Alp ha carattere temporaneo: nel giro di 3-4 anni dovrebbe essere sciolta e i suoi componenti confluire nella forze di polizia nazionali. Considerate tutte queste cautele e problemi, viene da chiedersi se sia davvero opportuno istituire la Alp. Il punto è che i prossimi mesi e anni saranno cruciali per la transizione, e siccome Ana e Anp sono ancora in fase di formazione anche una soluzione tampone è considerata meglio di niente. Le 4.800 reclute dell’Alp sono un contributo importante, ed è una soluzione in linea con la tradizione afgana di gestire la sicurezza a livello di villaggio. I vari corpi della polizia afgana resteranno dipendenti per diversi anni dalla comunità internazionale, ed in particolare da Nato ed Ue, per quanto riguarda il pagamento degli stipendi e l’equipaggiamento, così come l’Ana. Servirà quindi un contributo costante nel tempo, ma molto ridotto rispetto all’attuale livello di risorse umane e materiali dispiegato da Isaf. Gli sforzi della Nato (e in misura minore dell’Ue) per quanto riguarda la formazione di esercito e polizia afgani si configurano quindi come una corsa a ostacoli con cronometro alla mano da qui al 2014, e come una maratona dopo quella data. Ma a differenza delle gare di atletica, in Afghanistan se stavolta le cose vanno male non si potrà semplicemente aspettare il prossimo giro e ritentare. O meglio, si può sempre farlo, ma mettendo in conto di pagare un prezzo come lo hanno pagato gli Stati Uniti nel 2001 a causa dell’abbandono del campo afgano dopo la vittoria sui sovietici.
dossier USCIRE DA KABUL SI PUÒ, MA PRIMA BISOGNA RENDERE SOLIDO E CREDIBILE LO STATO
DIECI PROPOSTE PER LA PACE DI •
V
•
AHMED RASHID
isto che nei nove (o poco più) anni passati nessuna strategia di ricostruzione dello Stato afgano ha realmente funzionato, che garanzia ci può essere che nuovi tentativi sortiscano effetti positivi entro il 2014? Non neghiamolo, le date e i dibattiti alla Casa Bianca ci raccontano solo una parte della storia, mentre l’Afghanistan sta
attraversando una serie di crisi interne fondamentali, che sanciranno se vi sarà o meno uno stato funzionante a partire dal 2014. Nove anni dopo il 2001, le divisioni tra i Pashtun e le nazionalità non-Pasthun che formano la complessa trama nazionale afghana sono più profonde di prima. La nota corruzione ed incompetenza dell’amministrazione Karzai sembrano aver beneficiato ancora una volta i Pashtun. Gli sforzi americani per lo sviluppo si sono concentrati principalmente sul corteggiamento dei Pashtun a sud e ad est, dove gli insorti talebani sono presenti, trascurando le minoranze a nord e ad ovest. I non-Pashtun sono furiosi per il fatto che uno stimato 70% di tutti i fondi per lo sviluppo vengano spesi in due sole province del sud per convincere i Pashtun a recidere i legami con i talebani. I non-Pashtun diffidano dei colloqui di Karzai con i talebani. Malgrado svariati tentativi da parte di Karzai di aggregare un consenso nazionale, i non-Pashtun sono profondamente sospettosi che ogni accordo Karzai-talebani possa semplicemente rafforzare l’egemonia Pashtun nel paese e ridurre ulteriormente i diritti delle minoranze. Di conseguenza, i leader nonPashtun di tutti i gruppi etnici hanno lanciato movimenti politici e popolari per opporsi al dialogo con i talebani. Nel frattempo, le minoranze tagike, uzbe-
ke, hazara e turcomanne hanno raggiunto vantaggi che provocano immenso risentimento tra i Pashtun. Per la prima volta i tagiki e gli hazara dominano l’alta sfera degli ufficiali nell’esercito e nella polizia, anche se l’addestramento ed il reclutamento statunitense sancisce una ferrea parità tra tutti i gruppi etnici. Tradizionalmente la classe di ufficiali afghani è sempre stata Pashtun. La rappresentanza Pashtun nell’esercito è più bassa rispetto alla sua percentuale di popolazione, e solo il 3% delle reclute provengono dall’instabile sud. Le minoranze che dominano il nord e l’ovest hanno inaugurato strade e attivato reti di commercio, importato elettricità e forniture di gas e creato altri proficui collegamenti con i loro vicini – L’Iran e stati dell’Asia centrale come Tagikistan, Uzbekistan e Turkmenistan. Il traffico di droga dell’Afghanistan – il 30% del quale viaggia per l’Iran e per i paesi centro-asiatici quali il Tagikistan – ha altresì arricchito le élite locali. Tutto ciò ha migliorato il tenore di vita della popolazione, ha fornito fonti di ricchezza indipendenti per i signori della guerra locali e le élite che non sono dipendenti da Kabul e ha conferito loro potere politico. Frattanto i Pashtun nel sud non riescono ad affrancarsi dall’influenza del vicino Pakistan, che sostiene i talebani e che poco ha fatto per migliorare la loro condizione. I signori 35
Risk della guerra tagiki ed uzbeki del nord sono diventati così ricchi e potenti che ora si degnano appena di porgere l’orecchio a Karzai. I governatori delle province settentrionali hanno creato i propri feudi e vengono lasciati in pace dalle forze Nato presenti in quelle zone, poiché il rimuoverli creerebbe ulteriore instabilità. I resoconti di stampa non lo dicono, ma l’uomo più potente del paese dopo Karzai è probabilmente Atta Muhammad Noor, un generale tagiko che un tempo combatteva i talebani ed è ora il governatore della provincia di Balkh, al confine con l’Uzbekistan. Lui e gli altri signori della guerra settentrionali stanno riarmando le proprie milizie in preparazione di quella che essi temono possa essere una lunga guerra con i talebani. Il timore è giustificato, in quanto i talebani sono già arrivati al nord, insediando basi, appellandosi alle popolazioni locali, attaccando la Nato e le forze afghane, ed infiltrando militanti nell’Asia centrale. Per la prima volta, affermano gli ufficiali statunitensi, vi sono prove che i talebani abbiano ottenuto sostegno non solo dai Pashtun del nord ma anche dai Tagiki e dagli Uzbeki.
Creare la transizione Nel pieno di questi sempre più critici problemi politici si inserisce la complessa questione della transizione. Dopo anni di trascuratezza, gli Usa e la Nato stanno alla fine tentando di investire più su numeri, equipaggiamento, addestramento e supervisione dell’esercito afgano. Quest’anno i soli Stati Uniti spenderanno 11 miliardi di dollari per le forze di sicurezza afghane – il più ingente capitolo di spesa del bilancio statunitense per la difesa. L’esercito afghano ha raggiunto il suo primo obiettivo di 134.000 effettivi e si espanderà ulteriormente, secondo le stime di ufficiali statunitensi coinvolti nel programma. Le forze di polizia comprendono al momento 109.100 effettivi. Tuttavia queste cifre sono profondamente ingannevoli. Il tasso di perdite nell’esercito afghano si attesta ancora ad un incredibile 24% l’anno. Circa 36
l’86% dei soldati sono analfabeti e l’abuso di sostanze stupefacenti è ancora un problema endemico. La situazione della polizia afghana è addirittura peggiore. (Come ha dimostrato un recente reportage di 60 Minutes, essa è flagellata da incompetenza elementare, analfabetismo e corruzione, che rendono la creazione di un’adeguata forza di polizia uno dei problemi di più difficile soluzione del paese). Sebbene l’80% delle unità dell’esercito operi con i propri corrispettivi Nato, nessuna singola unità afghana è in grado di assumersi specifiche responsabilità per proprio conto sul campo. Le forze afghane sono al comando solo a Kabul, ma ciò è in buona parte determinato da una considerevole presenza della Nato nella capitale. Inoltre, se la presenza amministrativa afghana nelle province è così limitata, le stesse forze afghane, anche se ben addestrate, possono fare ben poco. È stata ora istituita un’accademia per il servizio civile che formerà i burocrati, ma ci vorranno anni prima che possa fare la differenza. Altrettanto grave è il mancato consolidamento di un’economia afghana indigena che non sia costantemente dipendente da sussidi. Per i primi anni dopo l’11 settembre, il presidente Bush si rifiutò di ricostruire le infrastrutture afghane, incluso un adeguato sistema stradale e forniture energetiche, e ciò ostacolò la crescita economica. Solo quest’anno Kabul ha ricevuto approvvigionamenti a tempo pieno di energia elettrica. Il comparto industriale non si è sviluppato per via della mancanza di infrastrutture e poiché i vicini come Cina ed Iran hanno venduto a prezzi stracciati prodotti nel mercato afghano, minandone così la produttività. Obama ha avviato un programma per sostenere lo sviluppo dell’economia civile del paese, ma serve tempo. L’esercito statunitense non acquista ancora i prodotti locali, ma almeno l’esercito afghano viene equipaggiato con stivali ed uniformi prodotti in loco. Un altro grave problema deriva dal fatto che gli ingenti profitti del traffico di stupefacenti vengono riciclati nella speculazione immobiliare
dossier piuttosto che nella produzione economica. Pertanto, l’interrogativo fondamentale per il Generale Petraeus e il suo successore John Allen è ora non tanto quanti talebani riescano ad eliminare, quanto se i capisaldi di uno stato afghano – esercito, polizia, burocrazia –trascurati in maniera così negligente negli scorsi nove anni, possano entrare a pieno regime per il 2014. In aggiunta, possono i leader afghani, ivi compreso il Presidente, guadagnarsi la fiducia di un popolo che ha sopportato insicurezza, corruzione endemica e malgoverno per molti anni? Se i progressi verso l’autogoverno dell’Afghanistan saranno compiuti, emergerà con forza il bisogno di un presidente afghano con le idee chiare. Tuttavia, Karzai è preda di contraddizioni ed enigmi. Durante un’animata conversazione di due ore avuta con lui nel palazzo presidenziale, egli sembrava volersi sforzare di non rompere i legami con Usa e Nato, desiderando al tempo stesso di liberarsi dal loro giogo, che lo fa apparire come una marionetta dell’Occidente. Le ripetute diatribe di Karzai con Petraeus circa la strategia del surge statunitense riguardano principalmente il suo ruolo, la sua sovranità, la sua stessa immagine in Afghanistan – sotto tutti i punti di vista egli percepisce una perdita di potere. E vuole che la guerra sparisca, in un modo o nell’altro.
I vicini Molti afghani dissentirebbero con Karzai. Gli stati confinanti come Pakistan ed Iran hanno un lungo e sanguinoso passato di monumentali ingerenze in Afghanistan, a sostegno dei signori della guerra a loro vicini e per spartirsi interessi. L’Afghanistan non diventerà pacifico a meno che i paesi confinanti non vengano condotti in un accordo di non interferenza monitorato dalla comunità internazionale. Obama lo promise nel corso del suo insediamento, ma poco è sinora stato realizzato. Il problema maggiore è il Pakistan. Tutte e tre le principali fazioni talebane
La polizia afgana è flagellata da incompetenza elementare, analfabetismo e corruzione, che la rendono uno dei problemi di più difficile soluzione del Paese. Sebbene l’80% delle unità dell’esercito operi con i propri corrispettivi Nato, nessuna singola unità è in grado di assumersi specifiche responsabilità hanno base in Pakistan dove da nove anni, ricevono supporto ufficiale e non ufficiale, protezione, finanziamenti e reclute; tuttavia, tre amministrazioni statunitensi consecutive non sono state in grado di impedire all’esercito pakistano di continuare tale sostegno. Il presidente Bush non fece molto, ma Obama ha offerto incentivi molto più generosi ed ha criticato il Pakistan molto più duramente. Petraeus è stato aggressivo, ha chiarito al capo dell’esercito pakistano, il Generale Ashfaq Kiyani, che il sostegno dell’esercito ai Talebani deve cessare. Ma gli Stati Uniti non hanno una strategia generale che conceda all’esercito pakistano un po’ di ciò che desidera o riesca a dissuaderlo dall’ipotesi di controllare l’Afghanistan. L’esercito teme una crescente influenza indiana a Kabul – una questione che nessuno ha affrontato. Vuole utilizzare i negoziati con i talebani come asso nella manica, affinché concessioni massime possano essere pretese dagli Usa, dall’India e dall’Afghanistan in cambio delle concessioni ottenute dai talebani. Anche l’Iran ha imparato ad alzare le pretese. 37
Risk L’Iran sciita non ama i fondamentalisti sunniti che costituiscono il nucleo dei talebani, ma Teheran ha intensificato il proprio sostegno e la protezione per i gruppi talebani che operano nell’Afghanistan occidentale. Come il Pakistan, l’Iran considera i talebani come un’utile carta per la partita finale, quando gli Stati Uniti e la Nato dovranno chiamarlo a discutere della non-ingerenza in Afghanistan. L’Iran si è unito ad India e Russia per assicurarsi che il Pakistan non giunga a dominare l’Afghanistan. Dunque la regione è già nettamente divisa. Da un lato il Pakistan, teoricamente solo con l’appoggio della Cina, ma non del mondo arabo-musulmano che era solito sostenere i talebani. Contro il Pakistan vi sono Iran, Russia, India e gli stati dell’Asia Centrale, estremamente sospettosi del Pakistan e dei talebani ma privi di una strategia per affrontarli. Essi chiedono una più lunga presenza statunitense in Afghanistan, ma si dimostrano altresì scettici nei confronti di un’indefinita permanenza delle truppe Usa.
negoziati. Qui di seguito ripropongo un approccio step-by-step, che coinvolga tutti gli attori, finalizzato a creare un clima di fiducia nella regione affinché i negoziati con i talebani possano in ultima analisi prendere forma.
L’interrogativo è ora non tanto quanti talebani gli Usa riescano ad eliminare, quanto se i capisaldi di uno stato afgano – esercito, polizia, burocrazia – trascurati in maniera così negligente negli scorsi nove anni, possano entrare a pieno regime per il 2014 La Nato, il governo afgano ed il Pakistan liberino la maggior parte dei prigionieri talebani sotto la propria autorità e cerchino di alloggiarli in condizioni di sicurezza in Afghanistan, o consentano loro di trovare rifugio in paesi terzi. La Nato garantisca la libertà di movimento per i mediatori talebani aprendo un ufficio in un paese terzo amico. 2 L’Iran si unisca ai negoziati con le Nazioni Unite ed i paesi europei, cessi di essere un rifugio sicuro per i talebani afghani e consenta loto di ritornare in patria o riparare in paesi terzi. Nessuna di tali azioni include l’amnistia o un passaggio sicuro per al Qaeda ed i suoi affiliati. 3 I talebani rispondano con proprie misure volte a ristabilire un clima di distensione, ad esempio dissociandosi pubblicamente da al Qaeda, imponendo la fine delle uccisioni mirate di amministratori e cooperanti afghani, degli attentati suicidi, dei roghi di scuole e di edifici governativi. 1
Un approccio per la Pace Per rispondere a tali quesiti e non concedere troppo spazio di manovra ai talebani, Karzai, i paesi confinanti, Stati Uniti e Nato devono operare assieme sulla base di un’agenda comune che riduca le tensioni regionali e generi fiducia tra i talebani e Kabul. Ogni nuovo approccio che riguardi della pace dovrà includere misure di reciproca fiducia da parte di Pakistan, Iran e India così come di talebani e Occidente. Karzai ha istituito lo High Peace Council, un organismo multietnico composto da 68 membri per negoziare con i talebani, ma egli necessita di fare molto di più per cementare un consenso in tutto il paese. Naturalmente, la questione principale verterà attorno a quando la Casa Bianca ed il Pentagono decideranno che sia giunto il momento di discutere con i talebani. La vittoria sul campo di battaglia non è possibile, ma la pace non può essere raggiunta senza la partecipazione statunitense ai 38
dossier Gli Stati Uniti, la Nato e l’Onu dichiarino la propria disponibilità a negoziare direttamente con i talebani laddove questi lo richiedano pubblicamente, pur insistendo sul fatto che il dialogo tra Kabul ed i talebani rimane la via maestra per la stipula di un accordo di pace. 5 Una nuova risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu richieda negoziati tra il governo afgano ed i talebani per condurre alla fine delle ostilità. La risoluzione Onu dia mandato al suo rappresentante speciale a Kabul di favorire tali negoziati ed iniziare un dialogo tra gli stati confinanti con l’Afghanistan al fine ridurre le ingerenze ed il loro reciproco antagonismo; la risoluzione chieda altresì che i leader talebani afghani che non hanno legami con al Qaeda siano esclusi dalla lista dei sospettati di terrorismo. 6 India e Pakistan avviino colloqui segreti tra le loro agenzie di intelligence allo scopo di rendere la loro presenza in Afghanistan più trasparente e porre fine alle rivalità. Successivamente, i due governi definiscano accordi che permettano ad entrambi di riconoscere le rispettive ambasciate, consolati, attività di ricostruzione ed interessi commerciali in Afghanistan. Entrambi promettano di non ricercare una presenza militare in Afghanistan o di usare il suolo afghano per indebolire l’altro. 7 Centrale per ogni piano sarebbe un accordo con gli insorti separatisti della provincia pakistana del Belucistan, che fanno uso del territorio afghano per condurre i propri attacchi al Pakistan. Per affrontare il problema, il Pakistan indica un’amnistia generale per tutti i gruppi insurrezionali di separatisti e dissidenti beluci e dichiari la propria intenzione di discutere una nuova formula di pace con tutti i gruppi separatisti beluci per porre fine all’attuale insurrezione. L’esercito e l’Isi liberino tutti i prigionieri beluci trattenuti, incluse le centinaia di prigionieri “scomparsi”. 8 Il governo afghano si impegni a riportare tutti i leader separatisti beluci sul proprio suolo in seguito al raggiungimento dell’accordo su una 4
composizione politica in Belucistan ed un passaggio sicuro per i leader beluci ai fini del ritorno in patria sia garantito dall’esercito pakistano e da un’agenzia internazionale come ad esempio il Comitato Internazionale della Croce Rossa. 9 Il Pakistan delinei una tempistica ed una scadenza tra i sei ed i dodici mesi per tutti i leader talebani afghani e le loro famiglie che vogliano fare altrettanto per lasciare il Pakistan e ritornare in Afghanistan. Il Pakistan, l’Afghanistan e l’Onu aiuterebbero congiuntamente quei talebani che non desiderino ritornare in patria e che non siano nella lista dei terroristi a cercare asilo politico in paesi terzi. Contemporaneamente, il Pakistan intraprenderebbe azioni militari nel Waziristan del Nord nel tentativo di distruggere gli ultimi resti di al Qaeda e dei talebani afghani e pakistani che possono rimanere per cercare di sabotare ogni processo di pace. Anche se tali azioni non avessero pieno successo, lo scopo sarebbe di limitare la loro capacità di fomentare l’insurrezione. 10 Il governo afghano operi per aggregare un consenso nazionale all’interno del paese tra tutti i gruppi etnici, tra la società civile e le tribù prima di intraprendere qualsiasi negoziato formale con i talebani. Consultazioni dovranno inoltre essere avviate tra Usa e talebani. Washington concordi di ridurre drasticamente le uccisioni di leader talebani attraverso droni ed altri mezzi. Molti interrogativi aleggiano su un tale piano. È una perdita immane che Richard Holbrooke, che sarebbe stato una grande figura in grado di portare avanti tali passi, ci abbia lasciato prima che questi potessero essere compiuti. Gli ex ufficiali talebani con cui ho discusso sembravano disponibili ad un percorso di questo tipo. Che i loro corrispettivi in Pakistan possano essere persuasi a siglare una serie di compromessi e prendere le distanze da al Qaeda è tutto fuorché chiaro. Ma se dopo dieci anni la guerra deve essere conclusa ed uno “stato finale” deve essere raggiunto, una serie di azioni dovrà essere intrapresa. 39
il quotidiano Economia, politica, cultura, scienza, religione: ne succedono di cose in ventiquattr’ore. E ci sono decine di televisioni e di giornali che ti assediano per raccontartele. Ma nessuno prova a spiegartele. Leggendo, dentro gli eventi, i segni di dove sta andando il mondo. E cercando insieme le idee per renderlo migliore…
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dossier VI SPIEGO PERCHÉ È MEGLIO SFIDARE SADR CHE ABBANDONARE BAGHDAD AL SUO DESTINO
DO YOU REMEMBER IRAQ? DI •
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ANDREA NATIVI
ualcuno si ricorda ancora dell’Iraq? Tra Afghanistan e guerra in Libia, per non parlare dei drammatici cambiamenti, anche violenti, che stanno attraversando il Nord Africa, l’area del Golfo e il Medioriente, quanto succede a Baghdad e dintorni è uscito dalla attenzione dei media della opinione pubblica. Compresa quella statunitense,
benché il Pentagono sia ancora più che impegnato nel paese con 45.000 uomini (per non parlare delle migliaia di contractors), 6 brigate operative, e certo non solo in operazioni di “supporto e addestramento” alle forze di sicurezza locali (beh il linguaggio ufficiale parla anche di “protezione degli interessi statunitensi”…), mentre è semplicemente impossibile che per la fine dell’anno si arrivi ad un ritiro completo delle forze statunitensi dal paese, almeno se si vuole evitare che l’Iraq torni a rischiare una destabilizzazione interna. Per non parlare delle minacce esterne alla integrità del paese e dei suoi confini. Tuttavia per l’amministrazione Obama è meglio che l’Iraq esca dall’attenzione della pubblica opinione con l’avvicinamento delle elezioni presidenziali del 2012. Per il cittadino statunitense medio la guerra in Iraq è finita da tempo, piuttosto dall’estate 2011 dovrà avere inizio il disimpegno dall’Afghanistan. Ma nonostante i progressi e i miglioramenti siano stati più che significativi in questi anni, l’Iraq si regge solo sulla base di delicati equilibri e, per quanto riguarda la dimensione difesa/sicurezza della quale ci occupiamo in questo articolo, ancora molto resta da fare, soprattutto per consentire al paese una autosufficienza nel campo della difesa, qualcosa di ben più complicato e costoso rispetto alla pur difficile sicurezza
interna. È bene notare che ancora nel 2011 gli “incidenti” alias attacchi sono stati comunque in media una ventina alla settimana, mentre nel primo trimestre dell’anno sono stati uccisi 6 militari statunitensi, 9 contractors, 147 uomini delle forze di sicurezza irachene e 340 civili. Un quadro non proprio rassicurante. Complessivamente dal 2003 gli Usa hanno subito in Iraq perdite pari a 4.450 uomini (senza dimenticare i 1.500 contractors e i 318 civili uccisi), contro i 1.500 caduti in Afghanistan dal 2001. Va ricordato che nei mesi più caldi tra il 2004 e il 2007 i militari Usa uccisi erano in media 75 al mese. È anche vero che quando, nel novembre del 2008, Iraq ed Usa concordarono il piano di ritiro delle truppe statunitensi dal paese (Sofa, Status of Forces Agreement) non erano pochi gli scettici, compreso il sottoscritto, sulla possibilità che a metà agosto 2010 il Pentagono avrebbe dovuto davvero riportare in patria tutte le proprie truppe combattenti, limitandosi a mantenere un sia pure robusto contingente dedicato esclusivamente alla collaborazione con il governo iracheno e le sue forze di difesa e sicurezza. In effetti se ciò è avvenuto e grazie al successo del piano di “surge” (i 50.000 uomini di agosto 2010 rappresentano una riduzione del 70% rispetto ai livelli di forza tocca41
Risk ti nell’ottobre 2007, all’apice della surge) e di engagement innovativo con la popolazione e la componente sunnita della popolazione condotto dal Generale Petraeus, affiancato ad operazioni controguerriglia condotte… come avrebbe dovuto essere fatto fin dall’inizio, dai progressi compiuti nel potenziamento delle forze armate e di sicurezza irachene, del positivo andamento dei corsi del petrolio. Già, perché con il prezzo del barile alle stelle e la produzione ed esportazione di idrocarbu-
I “buchi” più gravi delle forze armate irachene riguardano le componenti militari più sofisticate, costose, complesse e pesanti. Per l’esercito si tratta delle forze corazzate e meccanizzate, per l’aeronautica della componente centrale, quella da combattimento e difesa aerea ri cresciuti progressivamente il governo iracheno dispone di quelle risorse indispensabili per soddisfare parte almeno delle esigenze primarie della popolazione, pagare regolarmente stipendi ai suoi soldati e condurre i programmi di potenziamento o, in qualche caso, di ricostruzione del suo potenziale militare. E quando, per diversi mesi, il prezzo del petrolio ha oscillato pericolosamente verso il basso a Baghdad come a Washington si è temuto il peggio ed il bilancio nominale della difesa, superiore a 5 miliardi di dollari anno (la spesa complessiva per la sicurezza supera i 10 miliardi di dollari all’anno, 42
senza contare i significativi fondi messi a disposizione dagli Usa a diverso titolo e con vari programmi, compresi stanziamenti per consentire l’acquisizione di materiali e armamenti nonché la cessione di equipaggiamenti dichiarati surplus dal Pentagono: solo di Foreign Military Financing c’è 1 miliardo di dollari e la richiesta di fondi per il FY 2012 ammonta a 6,8 miliardi di dollari. Complessivamente gli Usa hanno investito in 8 anni per la ricostruzione dell’Iraq 61,5 miliardi di dollari, con 20,5 miliardi dedicati dal 2005 alla ricostruzione delle forze di sicurezza irachene), non riusciva a far fronte agli impegni e la macchina amministrativa aveva difficoltà a gestire il funzionamento ordinario, mentre i contratti di acquisizione di nuovi sistemi subivano ritardi su ritardi. Nel 2009 si è arrivati al punto di fermare buona parte dei programmi di acquisizione di armamenti e si è anche dovuto rallentare l’arruolamento e la formazione del personale delle forze armate e delle forze di polizia. A tutto questo va aggiunta anche una sana ipocrisia. Perché anche se il Pentagono ha voluto sancire in modo netto il cambiamento nel ruolo delle forze statunitensi in Iraq, battezzando come New Dawn la nuova operazione di stabilizzazione (che ormai è un affaire esclusivamente statunitense, perché, se si esclude il personale Nato impegnato in missioni addestrative, ormai in Iraq sono rimasti i soli soldati Usa: la Gran Bretagna ha riportato in patria a maggio di quest’anno l’ultimo contingente di 90 marinai che aiutavano la marina irachena), in realtà a livello operativo le cose non sono poi cambiate di molto. Anzi, in termini di potenziale di combattimento i reparti che da agosto 2010 sono rimasti in Iraq erano identici a quelli “combattenti” che vi avevano operato in precedenza. Si tratta comunque di 6 brigate da combattimento dotate di tutte le proprie pedine operative, alle quali si è aggiunto un maggior numero di elementi di collegamento, mentoring ed assistenza per favorire la collaborazione con le forze irachene. E i soldati di queste unità continuano anche a condur-
re operazioni combat dove e quando necessario, come facevano in precedenza, anche se i grandi centri abitati sono sotto controllo iracheno. Dunque è solo questione di terminologia (le brigate si chiamano ufficialmente Advise and Assiste Brigate, AAB e inquadrano circa la metà dei militari Usa nel paese) e di comunicazione politicamente corretta che fa comodo sia a Washington, come accennato, sia a Baghdad, dove il governo (costruito peraltro in modo estremamente faticoso e dopo pericolosi vuoti di potere) ha tutto l’interesse ad accreditare la favola del paese indipendente, autosufficiente ed in grado di difendersi senza dover chiedere aiuto allo scomodo ed ingombrante alleato. Però le cose non stanno affatto così e in alcuni settori l’Iraq è totalmente dipendente dal sostegno militare statunitense e non potrà che continuare ad esserlo ancora per molti anni. Inoltre, con il passaggio della responsabilità della transizione dal dipartimento della difesa al dipartimento di stato ci sarà anche un aumento significativo del numero di personale civile e di contractors… dagli attuali 8.000 fino a 17.000. Il che fornirà comunque un minimo di muscoli e sicurezza al personale statunitense… e non solo. In effetti i “buchi” capacitivi più gravi delle forze armate irachene riguardano ovviamente le componenti militari più sofisticate, costose, complesse e pensanti. Per l’esercito si tratta delle forze corazzate e meccanizzate, per l’aeronautica la componente centrale, quella da combattimento e difesa aerea, per la marina, per quanto questa forza armata abbia un peso davvero poco significativo in Iraq, non fosse altro che per ragioni geografiche (l’estensione delle coste irachene sul Golfo misura appena 58 km!), le carenze riguardano le unità da pattugliamento d’altura e le forze specializzate. Per questo è pacifico che forze statunitensi combattenti (con capacità di combattimento) dovranno restare in Iraq ben oltre la deadline ufficiale della fine del 2011 e del resto negoziati in questo senso sono in corso da mesi e mesi, sia pure con la discrezione
Risk del caso. Come è comprensibile, sia gli Stati Uniti sia l’Iraq hanno attribuito la massima priorità a costituire forze armate e di sicurezza in grado di condurre con un crescente livello di indipendenza le operazioni controguerriglia e controterrorismo, di sorvegliare i confini, proteggere le infrastrutture e gli obiettivi strategici. Cosa che in larga misura è riuscita, anche se ovviamente erano sempre gli alleati statunitensi a fornire il supporto intelligence, il comando e controllo, ad occuparsi di logistica complessa, di mobilità e, ogni volta fosse necessario, di provvedere i “muscoli”, ovvero il supporto di fuoco. Ed è stato un successo se già dal 2009 le truppe statunitensi hanno potuto trasferire agli Iracheni il controllo di tutti i principali centri abitati, anche se l’esigenza di rispettare le roadmaps e le tabelle dei tempi decise “a prescindere” a livello politico ha più volte di provocare gravi disastri. E con la decisione di chiudere gli ultimi 14 Prt, i team di ricostruzione provinciale si continua nello stesso corso. E non vi dubbio che oggi la provviso-
L’Iraq è tutt’altro che stabilizzato e non è in grado di fare da solo nel campo della difesa e sicurezza, anche se è in grado di contrastare efficacemente guerriglia e terrorismo. Non è e non sarà per almeno altri 10 anni capace di autodifendersi in caso di attacco esterno e il futuro del paese, in caso di ritiro, potrebbe essere messo a repentaglio 44
ria e traballante stabilità interna irachena (con il governo faticosamente costituito e guidato da almaliki dopo uno stallo di mesi sta di nuovo perdendo i pezzi e con dicasteri chiave come quello della difesa, della sicurezza nazionale e degli interni che sono gestiti ad interim dal premier visto che non si è riusciti a nominare i ministri) sia messa in qualche modo a repentaglio da quanto sta avvenendo in altri paesi del Golfo: sì, forse lo Yemen è abbastanza lontano, ma quanto è accaduto in Bahrein e poi anche in Oman e Qatar, nonché la reazione dei paesi appartenenti al consiglio di cooperazione del golfo ha evidenti ripercussioni anche in Iraq. Anche il mutamento della situazione in Iran e il nuovo corso in politica estera della Turchia riverberano sugli assetti interni iracheni. Senza contare il nodo irrisolto rappresentato dalle velleità indipendentiste della minoranza curda nel nord del paese, dove si trovano poi alcuni dei principali campi petroliferi. I curdi hanno mantenuto di fatto forze di sicurezza indipendenti ed i Peshmerga sono pronti a difendere in armi la propria “autonomia” nei confronti del governo centrale, così come da eventuali mire espansionistiche della Turchia o dell’Iran. Gli Usa in questo contesto fungono da cuscinetto e smorzano i potenziali contrasti, mentre il referendum sul futuro di Kirkuk per il momento non è neanche in agenda. Ma è significativo che qualche tempo fa al Pentagono considerassero come sviluppo positivo il fatto che truppe Usa, curde e irachene effettuassero pattugliamenti “congiunti” lungo la cosiddetta Linea Verde, come se si trattasse di sorvegliare il confine tra stati indipendenti e non tra province di un unico paese. Ma la realtà è più vicina a quella di “separati in casa” piuttosto che quella di una regione con grande autonomia amministrativa. In tutto questo l’Iraq continua a potenziare le proprie forze di sicurezza, sia in termini di consistenza numerica, sia di capacità operativa e militare. Per quanto riguarda le Forze Armate il fulcro è come al solito costituito dall’Esercito, che annovera,
dossier sulla carta, oltre 191.000 uomini, ai quali si aggiungono i 2.150 uomini dell’aviazione dell’Esercito. Il problema costituito dall’elevato tasso di diserzioni è almeno in parte superato, anche se non risolto, mentre molto si è investito e si investe nella formazione dei quadri ufficiali e dei sottufficiali (nel vecchio esercito iracheno non esisteva un corpo di sottufficiali professionisti e affidabili atti a costituire la vera spina dorsale della forza armata, in compenso c’era un corpo di ufficiali eccessivo per consistenza ed insufficiente per qualità). Ufficiali e sottufficiali si sono fatti le ossa combattendo contro la guerriglia ed imparando il mestiere sul campo. In molte occasioni un malinteso senso di orgoglio nazionale ha portato il governo a chiedere ai suoi soldati di svolgere operazioni troppo complesse o impegnative per il livello di capacità effettivo. E questi errori sono stati pagati a caro prezzo sul campo sia in termini di perdite e di materiali distrutti sia, soprattutto, con reparti sfiduciati e immolati troppo presto in azione. Con il tempo e con la necessaria gradualità ci sono stati però significativi miglioramenti. Naturalmente i progressi riguardano la controguerriglia e il controllo del territorio. Creare capacità di combattimento convenzionali, quelle per intenderci necessarie per contrastare una eventuale aggressione condotta da forze convenzionali regolari di un paese straniero è ovviamente un’altra storia. I programmi ufficiali prevedono la costituzione di 13 divisioni, ciascuna articolata su 4 brigate, sostanzialmente di fanteria motorizzata, fanteria e fanteria leggera con elementi di Css (combat service support) e service support relativamente modesti per quantità e qualità (un reggimento del genio, uno d’artiglieria, uno di supporto). Ma, per intenderci, per parecchio tempo il reparto di artiglieria esisteva solo sulla carta e l’arma più potente in dotazione era il mortaio da 120 mm, fino a quando gli Usa non hanno iniziato a trasferire cannoni da 155 mm M198 e semoventi M109 di pari calibro. Complessivamente l’Esercito ha 196 battaglioni operativi, 20 battaglioni di protezione e 6 battaglioni forze speciali. La componente
corazzata è ancora molto modesta, con neanche 150 carri armati tra T-72 e T-55, ai quali si aggiungono i primi 60 di 140 carri M1A1 di seconda mano statunitensi, così come quella meccanizzata 150 BMP e un numero crescente di cingolati M113 (complessivamente saranno oltre un migliaio). Abbastanza logicamente le priorità nelle acquisizioni hanno riguardato i veicoli ruotati tattici per impiego generale (diverse migliaia di Humvee statunitensi, assegnati anche alle forze di polizia), poi si è passati ai veicoli blindati ruotati, con progetti relativi ad oltre un migliaio di Cogar, 400 Stryker, altrettanti M1117. Il pezzo forte del potenziamento dell’esercito riguarda l’acquisizione di 140 carri da battaglia M1 Abrams, ottenuti dagli Usa dal surplus dello US Army e sottoposti ad un programma di aggiornamento e revisione. Ogni carro viene a costare 3,6 milioni di dollari i primi due reggimenti dovrebbero essere pronti per fine anno. Comunque ci vorrà ancora molto tempo prima che l’esercito iracheno possa equipaggiare almeno un core di reparti corazzati e sviluppi le capacità di comando e controllo, addestramento e esperienza per poterli dichiarare operativi… a 360°. La situazione dell’aeronautica, che conta 6.000 uomini, è ovviamente ancora più precaria. Di fatto i cieli e la sovranità dello spazio aereo iracheno sono garantiti dai velivoli da combattimento statunitensi. Si è dovuto ripartire da zero e inizialmente si è puntato su velivoli molto semplici impiegati per ruoli addestrativi, di ricognizione e sorveglianza, collegamento, trasporto, anche se, appena possibile, si è passati ad effettuare operazioni di attacco leggero controguerriglia. E più che sui velivoli ad ala fissa si è molto opportunamente attribuito maggiore importanza agli elicotteri da collegamento, trasporto e trasporto d’assalto, ricognizione. Data la vastità del paese, la natura del terreno, lo stato delle vie di comunicazione, la scarsezza di truppe e forze di polizia il dominio dell’aria e la dimensione aerea sono cruciali. L’aeronautica irachena ha iniziato ad acquistare velivoli leggeri da 45
ricognizione Seeker e poi i King Air statunitensi, poi ha ottenuto velivoli da trasporto tattico C-130 ed ha trasferito ad un ruolo controguerriglia i Caravan usati inizialmente per addestramento. Ha poi ordinato aerei da addestramento basico T-6A Texan puntando anche alla costituzione di squadron da attacco leggero e controguerriglia basati sulla variante T-6B dello stesso velivolo. Il grosso delle risorse è andato al settore elicotteristico, con l’acquisizione di elicotteri rustici e semplici da usare come gli Huey II statunitensi, con un nocciolo duro rappresentato dai soliti “muli” di fabbricazione russa Mi-17, che costano poco e funzionano bene in ambienti climaticamente difficili come quello iracheno o afgano, nonchè elicotteri leggeri Bel 206 e Lakota, con l’obiettivo di acquistare anche macchine più sofisticate. Per la neonata aeronautica irachena l’esigenza è quella di aumentare i numeri, formare i piloti, dotarsi di una struttura di supporto logistico capace di mantenere i velivoli in dotazione ad un elevato livello di efficienza operativa. E non sono cose semplici da realizzare, a dispetto del supporto statunitense. Tutto il resto per ora dipende dagli Stati Uniti: sorveglianza e difesa dello spazio aereo, capacità di attacco, impiego di velivoli senza pilota per la sorveglianza etc. Il sogno iracheno è quello di poter costituire un primo squadrone da combattimento equipaggiato con caccia statunitensi F-16 Block 50, ma questo è ancora un miraggio. Più concreta l’acquisizione di altri aerei da trasporto tattico, di aerei da addestramento a getto etc. Ma ci vorranno anni prima di arrivare alla indipendenza nelle operazioni “interne” di sorveglianza e controguerriglia e per poter schierare un deterrente credibile nei confronti di eventuali aggressioni esterne. Per quanto riguarda la piccola marina, appena 1.800 uomini, i compiti principali consistono nella difesa dell’unico porto/base, quello di Umn Qasar, le acque interne e del delta, le acque territoriali e soprattutto le piattaforme petrolifere e relative attrezzature. Le unità più importanti sono i quattro
dossier pattugliatori classe Fatah, realizzati in Italia da Fincantieri sulla base del progetto Saettia IV. Poi ci sono una dozzina di vedette veloci e piccoli pattugliatori costieri, gommoni a chiglia rigida e unità leggere d’assalto. In teoria la marina irachena possiede anche due piccole corvette lanciamissili, classe Assad, costruite anni fa da Fincantieri e internate in Italia e mai consegnate. Più volte si è parlato di refitting (che sarebbe comunque complesso e costoso) per queste unità, ma a Washigtnon non c’è grande entusiasmo all’idea che la marina irachena disponga di unità combat di questo livello. La marina ha anche costituito un reggimento di marines, su due battaglioni, che si occupa sia della sicurezza delle infrastrutture e installazioni costiere, sia di operazioni anfibie su minima scala, controlli in mare e difesa piattaforme. Al personale delle tre forze armate si aggiungono poi 47.000 uomini impegnati nell’addestramento, la formazione ed il supporto. Ma se in Iraq le forze armate sono importanti, le forze di sicurezza interna lo sono forse anche di più. Purtroppo nel campo della homeland security si è assisitito ad una proliferazione di enti e reparti e in generale il livello qualitativo di queste forze è molto modesto, mentre l’affidabilità e la incorruttibilità dei funzionari sono a dir poco discutibili. Inoltre anche le forze di polizia hanno componenti “combat” che hanno capacità ben superiori a quelle richieste per semplici compiti di tutela dell’ordine pubblico e sono quindi in “sovrapposizione” con i reparti dell’esercito. E così come per le forze armate la integrazione del personale delle diverse componenti etniche, nonché delle milizie di autodifesa, è avvenuto in misura solo parzialmente soddisfacente. La polizia conta comunque oltre 303.000 uomini, ai quali si aggiungono i 45.000 uomini della Polizia Federale (che comprende 4 brigate commando, 1 meccanizzata di pronto intervento, 8 brigate di controllo ordine pubblico), nonché quasi 39.000 uomini del corpo di sicurezza delle frontie-
re, 28.700 dello speciale corpo di difesa delle installazioni petrolifere, i 97.000 del servizio di protezione delle infrastrutture e installazioni strategiche ed i 4.200 uomini delle formazioni dedicate all’anti-terrorismo.. Tutte queste formazioni dipendono dal ministero degli interni. In conclusione, l’Iraq è tutt’altro che stabilizzato e non è in grado di fare da solo nel campo della difesa e sicurezza, anche se è in grado di contrastare efficacemente guerriglia e terrorismo. Non è e non sarà per almeno altri 10 anni capace di autodifendersi in caso di attacco esterno. Se Usa e governo locale non riusciranno ad accordarsi su una proroga della presenza militare statunitense dopo la fine
I curdi hanno mantenuto di fatto forze di sicurezza indipendenti e i Peshmerga sono pronti a difendere in armi la propria “autonomia” nei confronti del governo centrale, così come da eventuali mire espansionistiche della Turchia o dell’Iran del 2011 il futuro del paese e la sua integrità potrebbero essere messi a repentaglio. Peraltro una proroga dell’accordo militare avrebbe pesanti ripercussioni politiche e sulla stessa sicurezza interna, perché Moqtada Sadr, il leader estremista sciita ha già detto che se i soldati Usa rimarranno nel paese i “patti” saranno stati violati e lui passerà dalla lotta politica a quella… combattente, riattivando le sue milizie. Un quadro davvero preoccupante. Ma è meglio sfidare Sadr che abbandonare Baghdad al suo destino. 47
ECCO PERCHÉ GLI USA MANTERRANNO I LORO SOLDATI IN IRAQ
L’ENIGMA IRACHENO DI
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ABDEL HUSSEIN SHAABAN
ttenti, che il tempo a Washington sta per scadere». Questa è la frase che il segretario alla difesa americano Robert Gates rivolse ai responsabili iracheni per spingerli ad affrettarsi a chiedere una proroga della permanenza delle truppe Usa in Iraq, nel corso di un’improvvisa visita a Baghdad nell’aprile 2011, in coincidenza con
l’ottavo anniversario dell’invasione dell’Iraq. Secondo l’accordo firmato da Baghdad e Washington nel novembre del 2008, le forze americane si sarebbero dovute ritirare dall’Iraq in base a un calendario che si sarebbe completato con la fine del 2011. In effetti, in base alla decisione del presidente americano Barack Obama, è stato completato il ritiro di 91.000 soldati nell’agosto del 2010, ma un dibattito a livello iracheno ed americano ha cominciato a contrapporre al completamento del ritiro la possibile permanenza di alcune migliaia di soldati americani dopo il termine previsto dall’accordo, cosa che richiederebbe una nuova intesa per regolamentare giuridicamente la permanenza di tali forze. Se la richiesta di una proroga potrebbe apparire a prima vista una richiesta “americana”, allo stesso tempo potrebbe essere una richiesta irachena, con l’eccezione del raggruppamento di Muqtada alSadr. Non vi è infatti alcun ambiente politico che chiede o che insiste su un pieno ritiro delle truppe americane. Al contrario, alcuni ambienti invocano apertamente il prolungamento della loro permanenza, come ad esempio l’Alleanza del Kurdistan che raggruppa i curdi in parlamento. La stessa richiesta l’ha espressa in maniera ugualmente franca il governo regionale del Kurdistan. Le posizioni di alcuni oscillano tra il silenzio e la riluttanza. Altri 48
attendono la posizione ufficiale del governo, tanto più che la ratifica di un nuovo accordo richiederebbe una sua discussione per ottenere l’approvazione in parlamento, qualora il governo dovesse prendere una decisione in questo senso. L’ex ambasciatore americano in Iraq Ryan Crocker, che fu a Baghdad tra il 2007 e il 2009, ritiene che Washington debba adottare la politica della “pazienza strategica” nei confronti dell’Iraq nella prossima fase, poiché non è più in grado di compiere passi unilaterali da questo momento in poi. Ma se gli iracheni chiederanno di riconsiderare la situazione in maniera condivisa per la fase post-2011, sarà un interesse strategico dell’amministrazione americana rispondere a questa richiesta in maniera positiva. Dunque Washington vuole “lasciare la palla nel campo degli iracheni”. Infatti, malgrado le divisioni esistenti fra i diversi raggruppamenti politici, essi – ad eccezione del summenzionato Muqtada al-Sadr – potrebbero accordarsi su una permanenza limitata delle forze americane in alcune basi. Potrebbe trattarsi di un periodo di due o tre anni, ulteriormente prorogabile in base ad un nuovo accordo qualora fosse necessario. Dietro le quinte sono circolate insistentemente voci circa comuni preparativi per ratificare un nuovo accordo il quale regolerebbe le relazioni politiche, militari e di sicurezza tra
dossier Washington e Baghdad. Malgrado alcune riserve e alcuni diversivi – che si verificarono anche durante il processo di ratifica dell’accordo del 2008, che “costrinse” praticamente tutti a trovarsi alla fine d’accordo su di esso, nella speranza di sottoporlo successivamente ad un referendum popolare che poi non ebbe luogo – la stipula di un nuovo accordo potrebbe prendere la stessa piega del 2008, visto che alcune forze non vogliono prendere l’iniziativa, alcune aspettano che siano altri a farlo, e tutti – come dice un detto iracheno - vogliono “mangiare l’aglio con la bocca degli altri”, perfino coloro che hanno giustificato l’accordo precedente come il “male minore” (così lo definì il segretario generale del Partito comunista iracheno Hamid Majid Moussa). Pur riconoscendo le carenze e le lacune nella sicurezza, e il mancato completamento del processo di costruzione di forze armate irachene in grado di fronteggiare le serie sfide interne ed esterne del paese, le priorità degli Stati Uniti non si fermano tuttavia qui, ma legano il nuovo accordo di sicurezza con l’Iraq a questioni importanti ed urgenti come: la questione iraniana, soprattutto in relazione al suo programma nucleare; la questione del ritiro e del ridispiegamento delle forze Usa in Afghanistan; il complicato rapporto con il Pakistan; le prospettive di pace dopo il cambiamento in Medioriente, soprattutto alla luce dell’intransigenza israeliana e delle diffidenze nei confronti della riconciliazione palestinese tra Fatah e Hamas; la crisi economica e finanziaria mondiale e le sue ripercussioni negli Stati Uniti. Tutto ciò segue le rivolte popolari avvenute in numerosi paesi della regione, e l’uccisione di Osama bin Laden nel corso di un’operazione delle forze speciali americane vicino a Islamabad. Ad ogni modo, la permanenza di alcune migliaia di soldati americani (è probabile che il numero superi le 10.000 unità) ha delle giustificazioni sia agli occhi degli americani che degli iracheni a livello del governo e di coloro che vi partecipano, tanto più che si tratterebbe di forze altamente addestrate ed equipaggiate, e pronte al combattimento, sebbene uffi-
cialmente incaricate di addestrare le forze irachene, di fornire loro la consulenza necessaria, e di compiere operazioni antiterrorismo congiunte di portata limitata, in accordo con gli accordi presi tra Washington e Baghdad. Alle forze militari Usa si deve poi aggiungere una presenza civile americana molto forte in Iraq, soprattutto tenuto conto che l’ambasciata americana in Iraq è la più grande ambasciata Usa del mondo, e che Washington ha due consolati rispettivamente a Bassora e Erbil, oltre che uffici a Kirkuk e Mosul – per una presenza civile complessiva di 2.400 funzionari. La protezione di questi uffici e del loro personale, oltre che delle personalità civili e militari americane, è poi subappaltata a società di sicurezza private americane che hanno uno statuto giuridico speciale. Siccome le forze armate irachene non sono al momento in grado di proteggere lo spazio aereo e le acque territoriali del paese di fronte a minacce esterne, è richiesta una presenza militare americana perché queste esigenze siano assicurate – la stessa giustificazione di fronte alla quale si “inchinarono” praticamente tutte le forze politiche irachene, ed in particolare quelle che presero parte al “processo politico” iracheno, per motivare la loro accettazione dell’accordo del 2008,
Washington anche se dovesse ritirarsi non lascerà il campo libero, e cercherà di compiere un ritiro «responsabile ed a testa alta», come lo ha definito Obama mostrando pragmatismo politico, soprattutto dopo la sconfitta del progetto americano del “Grande” e del “Nuovo” Medioriente 49
Risk dell’estensione delle risoluzioni internazionali, del prolungamento della missione delle forze della coalizione in Iraq, e del pagamento a Washington di un risarcimento del valore di 400 milioni di dollari dopo la chiusura del Fondo per lo sviluppo dell’Iraq istituito in base alla risoluzione 1483 del Consiglio di Sicurezza dell’Onu il 22 maggio del 2003.
Ma cosa accadrebbe se Washington decidesse – in base a valutazioni proprie, ed in particolare sotto la pressione della crisi finanziaria ed economica, e sotto la spinta dell’opinione pubblica americana ed internazionale – di ritirarsi dall’Iraq? L’Iraq diverrebbe preda degli Stati confinanti, ed in particolare dell’Iran la cui influenza è cresciuta enormemente? In effetti, perfino gli Stati Uniti, che hanno occupato l’Iraq, sono dovuti scendere a patti con Teheran, per via diretta o indiretta, sulla formazione del nuovo governo iracheno, poiché imporre un proprio candidato avrebbe significato il fallimento certo delle proprie politiche rivelatesi fallimentari fin dall’inizio. Ma in realtà Washington anche se dovesse ritirarsi non lascerà il campo libero, ed allo stesso tempo cercherà di compiere un ritiro «responsabile ed a testa alta», come lo ha definito il presidente americano Obama mostrando pragmatismo politico, soprattutto dopo la sconfitta del progetto americano del “Grande” e del “Nuovo” Medioriente, e dopo che gli americani sono sprofondati fino al collo nel pantano iracheno. In questo caso (ovvero se davvero dovesse avvenire un ritiro), per gli Stati Uniti sarebbe necessario sostituire la presenza militare diretta con le basi militari presenti nel Golfo: le due basi militari in Kuwait e il quartier generale della Quinta flotta Usa in Bahrein, in aggiunta all’enorme base in Qatar e alle installazioni nell’Oman e negli Emirati Arabi Uniti. Perciò Washington sarebbe comunque in grado di dispiegare rapidamente forze di terra, oltre a forze aeree, navali e missilistiche, per scoraggiare qualsiasi attacco e affrontare qualsiasi evenienza esterna. Se lo scenario iracheno è intricato, non meno com50
plicata è la situazione americana, soprattutto dal punto di vista militare. Sul fronte iracheno alcune forze temono il ritiro americano. Se il movimento curdo vuole una presenza militare americana a garanzia delle conquiste fin qui ottenute e a sostegno di una soluzione al problema delle cosiddette aree contese – in particolare Kirkuk – alcune componenti politiche degli arabi sunniti si sono mostrate caute di fronte all’eventualità del ritiro americano, sebbene non abbiano manifestato apertamente i propri timori, poiché temono un’espansione del dominio delle forze sciite, soprattutto in assenza di un contrappeso. Cosa ancora più importante, perfino alcuni gruppi che si oppongono alla presenza americana hanno espresso i propri timori di fronte a un possibile ritiro degli Usa. L’ex ministro degli Esteri ed esponente di spicco del partito Baath, Tarek Aziz, ha affermato dal carcere che l’America ha la responsabilità di non lasciare l’Iraq in mano ai “lupi”, intendendo con questa espressione le forze che dominano il governo. Una simile posizione solleva numerosi paradossi e implicazioni a proposito del “realismo” del ritiro e delle forze che lo sostengono, comprese le forze dominanti la cui preoccupazione potrebbe crescere qualora il ritiro dovesse avvenire. Sebbene alcune forze vogliano mobilitare la piazza ad opporsi alle posizioni del governo, chiedendo il ritiro americano, esse in realtà vogliono che le forze Usa restino poiché temono una rottura degli equilibri di forza a favore del regime di Teheran, considerato più pericoloso dell’occupazione americana poiché pronto a sostenere i propri amici. Il presidente iraniano Ahmadinejad ha dichiarato che l’Iran e gli altri paesi della regione sono pronti a colmare il vuoto di sicurezza lasciato dagli Usa, più che uno scenario un incubo per alcune correnti che partecipano al processo politico iracheno, ed anche per alcune forze esterne ad esso. Vi è poi chi ritiene che il semplice fatto di accordarsi su un ritiro americano spingerebbe nuovamente il paese nel baratro della guerra civile. Il processo politico potrebbe infatti raggiungere lo stallo totale e il
conflitto attuale – che ha paralizzato lo Stato e i suoi compiti essenziali di garantire la sicurezza, i servizi sanitari, l’istruzione, il lavoro e la lotta alla corruzione – potrebbe trasformarsi da scontro politico in scontro armato, rischiando di disintegrare il paese. Cosa ancora più importante, vi è chi sostiene che il settarismo e la frammentazione dell’Iraq potrebbero estendersi agli Stati vicini che stanno attraversando situazioni difficili, tanto più che le rivolte popolari hanno confermato la debolezza di molti regimi. Ciò potrebbe portare a situazioni incontrollabili, e il caos potrebbe propagarsi ad altri paesi a partire dall’Iraq. A completamento degli scenari legati al ritiro americano, vi è quello che prevede la progressiva sostituzione delle truppe Usa con forze fornite dalle società di sicurezza private americane, che rappresentano un esercito sotto mentite spoglie il quale stipula contratti con l’esercito americano e comprende mercenari che svolgono missioni specifiche al servizio di chi li paga. Queste società private, oltre a proteggere le installazioni americane in Iraq, ed altri obiettivi sensibili come i pozzi di petrolio e le linee di rifornimento, potrebbero svolgere il ruolo di forze americane di pronto intervento. Così come l’accordo del 2008 (il cui testo venne diffuso solo dopo la sua ratifica e fu consegnato ai membri del parlamento solo al momento della discussione in aula) fu circondato dal mistero e dalla segretezza, lo stesso mistero attorno al ritiro americano continua a predominare oggi, aumentando le preoccupazioni circa un deterioramento della situazione in direzione di un maggiore senso di sfiducia e di insicurezza. Così come l’ammiraglio americano Mike Mullen all’epoca aveva ammonito il governo iracheno che la mancata firma dell’accordo avrebbe portato a conseguenze catastrofiche, allo stesso modo vi è oggi chi – soprattutto da parte americana, e di alcuni responsabili del governo iracheno – afferma che il ritiro americano esporrebbe la situazione irachena ad un probabile collasso. Dunque oggi è come ieri?
Risk
GLI
EDITORIALI/MICHELE
NONES
Una nuova sfida per l’industria europea e italiana
La recente crisi economica e finanziaria internazionale ha comportato, e continuerà a farlo nel prossimo futuro, un declino delle risorse che i Paesi europei mettono al servizio della difesa e della sicurezza ed inevitabilmente anche delle spese per gli equipaggiamenti militari, soprattutto nei programmi di maggiore complessità ed impegno. È necessario, quindi, pervenire ad un netto miglioramento dell’impiego delle risorse, cercando nuove modalità di spesa, più efficienti ed efficaci, pena un calo generalizzato delle capacità militari. Di tutto questo si è parlato nell’High Level Seminar sull’industria e i mercati della difesa e sicurezza promosso dal vicepresidente della Commissione europea Antonio Tajani e dal Commissario per il mercato interno Michel Barnier lo scorso 23 maggio a Bruxelles. L’obiettivo dell’Europa non può che essere quello di eliminare ridondanze e duplicazioni, sia nel campo della ricerca che in quello della produzione, puntando ad una base tecnologica e industriale più efficiente e conseguentemente più forte. Di qui, la necessità di dare nuovo impulso ai programmi multinazionali, anche se andrebbero corretti alcuni limiti e criticità emersi nelle esperienze passate. Una delle possibili soluzioni è quella di individuare una Lead Nation per ciascun programma che, con le proprie strutture o con strutture internazionali sottoposte alla sua direzione, consenta di avere un Paese “responsabile” direttamente dei risultati. Un’altra possibilità è legata all’accorciamento temporale e alla riduzione quantitativa delle fasi dei programmi in modo da ridurre l’inerzia che troppo spesso caratterizza i programmi più complessi e lunghi. È interessante, infine, osservare come la stessa Direttiva Ue 2009/81 sugli appalti nel campo della difesa e della sicurezza, preveda un’apposita clausola di esclusione per i programmi di collaborazione internazionale, a conferma che l’obiettivo condiviso è quello di spingere i governi degli Stati membri a cooperare a livello europeo. Ma è anche l’approccio ai programmi multinazionali che deve cambiare: efficienza e rapidità devono fare parte della pianificazione della difesa dei Paesi membri, prevedendo non solo le prestazioni desiderate dai sistemi d’arma da 52
acquisire, ma anche la semplicità di realizzazione e la possibilità di esportazione. Per questo il settore che si occupa del procurement dovrebbe collaborare sin dall’inizio con i pianificatori della Difesa, affinchè già nella stesura dei requisiti operativi tali elementi siano tenuti nella giusta considerazione ed il risultato finale sia la realizzazione di sistemi d’arma efficaci, esportabili e prodotti a costi ragionevoli. Questa stessa impostazione dovrebbe essere seguita nell’intera vita del programma, soprattutto nel caso di cambiamento dei requisiti per evitare aumento dei costi e ritardi. La ricerca tecnologica dovrebbe essere meglio coordinata a livello europeo, in un’ottica di completamento reciproco degli sforzi sostenuti dai singoli Paesi. Tenendola separata dalla produzione, la ricerca dovrebbe diventare sempre più un’occasione di innovazione di tecnologie di prodotto e di processo, senza che questa si traduca immediatamente in commesse, ma piuttosto in know-how da proteggere adeguatamente, in vista di possibili successive applicazioni. In quest’ottica dovrebbe essere possibile, per lo meno per i programmi maggiori, avere più competizione nella fase di R&S anche a livello europeo fra team diversi, scegliendone poi uno solo per la fase di produzione, ma coinvolgendovi anche l’altro al fine di mantenere un livello minimo di competitività sul mercato europeo. In ogni caso è necessario aumentare le risorse finanziarie per la ricerca tecnologica. Stante l’attuale scarsità di risorse disponibili a livello nazionale, un possibile aiuto potrebbe venire dai fondi europei per la ricerca del Framework Program 8. Espandendo la parte dedicata alla sicurezza e, in generale, quella dei progetti “dual use”, sarebbe possibile favorire la concentrazione delle spese di ricerca nazionali sulle attività militari. L’export di materiale d’armamento, infine, dovrebbe essere adeguatamente considerato fin dall’avvio di ogni nuovo programma multinazionale sia sul piano del contenuto tecnologico sia su quello delle successive attività di supporto. Queste indicazioni sembrano ormai condivise quando se ne parla a Bruxelles. Il vero problema è continuare a farlo quando si torna nelle capitali europee.
editoriali
GLI
EDITORIALI/STRANAMORE
Gheddafi (non troppo solo) contro tutti
La Nato si prepara a continuare le operazioni militari contro la Libia fino a fine settembre almeno, ma se fosse necessario è pronta a continuare più a lungo l’incredibile maratona che contrappone l’Alleanza Atlantica, l’Onu e l’Unione Europea al colonnello Gheddafi e ai suoi lealisti. I quali stanno dimostrando una fedeltà, uno spirito bellico ed un coraggio davvero ammirevoli, a conferma di come i sostenitori del dittatore non siano certo solo mercenari. Questa guerra al rallentatore dimostra una volta di più come si debba pensarci due volte prima di scatenare un conflitto, perché si sa come e quando si comincia, ma nessuno può garantire quanto durerà e come andranno le cose. Si sperava che dopo la “lezione” dell’Iraq la comunità internazionale e gli Usa avessero compreso questo concetto. E invece… eccoci impantanati in una guerra in cui la Nato impiega il potere aereo-navale per ottenere un risultato strategico, ma lo fa con tali limitazioni in termini di regole di ingaggio, quantità e qualità di mezzi impegnati, da protrarre le operazioni ben al di là di quanto sarebbe necessario. E con una strategica incrementale stile Vietnam che fa venire i brividi. Non parliamo della “figura” degli Stati Uniti, che prima si impegnano in una chiamata alle armi e prendono la guida delle operazioni e poi per ragioni di politica interna si tirano indietro, lasciando il cerino in mano a Francia, Gran Bretagna e pochi altri. Tanto valeva lasciare Gheddafi al suo posto e usare altri strumenti per convincerlo ad “ammorbidirsi” nei confronti dell’opposizione. Intendiamoci, l’esito del confronto non è in discussione: da una parte abbiamo la Nato e 2/3 del mondo, dall’altro quello che rimane del potenziale militare libico lealista. Non c’è proprio partita. Ma certo continuando al piccolo trotto la guerra, trasformata in guerra di attrito e logoramento, sia pure a senso unico, può durare ancora parecchio. Si sta facendo il contrario di quello che andava fatto… con una campagna aerea strategica e condotta con la massima intensità, supportata da personale a terra per
assicurare comando, controllo, comunicazioni e intelligence e fornitura di assistenza a quell’armata brancaleone costituita dagli insorti. Quanto alla solidarietà Nato: gli Usa e il Segretario generale chiedono rinforzi e la Norvegia annuncia che si tirerà fuori entro fine settembre. Fantastico. Tra l’altro quanto sta avvenendo in Libia dovrebbe dare un bel metro di valutazione su quali siano le effettive capacità militari Nato e su come si sia persa la cognizione di cosa significhi e come si debba combattere una guerra. Comunque, tosto o tardi Gheddafi sarà sconfitto o convinto a mollare. Al momento, visto che non si è voluto o potuto eliminare il “bersaglio” si spera di arrivare almeno ad una soluzione negoziale. Per convincere il Colonnello bisogna utilizzare metodi di convincimento un po’ più decisi. E al contempo agire anche sul fronte dei “ribelli”, i quali non vogliono sentir parlare di elezioni e di un possibile nuovo corso al quale Gheddafi e i suoi parteciperebbero. Però siccome i ribelli da soli non sono in grado di ottenere alcun risultato militare… non dovrebbe essere difficili convincerli ad accontentarsi, visto che a questo punto la Nato non sembra essere in grado di imporre un regime change. E se arriverà al compromesso, allora vedremo come la Nato e l’Onu sapranno organizzare quella missione di stabilizzazione e ricostruzione ormai ineluttabile. Costerà molto e durerà a lungo, come sempre. Speriamo che chi non ha voluto sparare un colpo sia pronto almeno a partecipare al dopo guerra o a pagarne i costi. Quanto all’Italia… invece di pensare a come tagliare i fondi per le missioni militari per finanziare la riforma fiscale (abolire gli enti inutili, come le province, e mandare a casa migliaia di politici e dipendenti non necessarie con la riforma regionale/federale invece non viene stranamente considerato) sarà bene cominciare a calcolare quanto servirà per la missione post guerra in Libia, se non vogliamo essere completamente emarginati sulla scena internzionale. Altro che tutti a casa! 53
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cenari
LIBIA
TRIPOLI-BENGASI, L’ORA DEL COMPROMESSO COLLOQUIO CON
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VINCENZO CAMPORINI DI LUISA AREZZO
roprio mentre il figlio del Raìs, l’estromissione di Gheddafi? Dipende dalla capacità dei cirenaiSaif al Islam, proponeva eleci di avere obiettivi credibili, sia mizioni immediate per superare litari che politici. E io non vedo selo stallo (prospettiva rifiutata sia gnali in tale direzione. Mi auguradall’Italia che dagli Stati Uniti) i jet vo che degli sviluppi ci fossero della Nato hanno preso nuovamente qualche settimana fa e invece non di mira il bunker di Muammar ne vedo. L’unico tratto che può esGheddafi a Tripoli, scatenando le ire sere considerato positivo è il nuodi Cina e Russia, per le quali La guerra di Libia vo atteggiamento russo e cinese. l’Alleanza travalica il mandato Onu si sta trasformando Comunque sia, i tempi sono sicurain Libia. D’altronde, la Nato ha acin un pantano. mente più lunghi di quanto non si cordato ancora tre mesi di tempo alla Il Raìs resiste e i ribelli non fanno passi avanti. credesse all’inizio. missione, non escludendo che questa Uscirne fuori si può: Cosa significa attendere un paspossa continuare anche dopo settemimponendo so avanti dei cirenaici? In fin dei bre. Un’ipotesi che scontenta tutti un aut aut al Cnt: «O trattate conti quando è cominciata la misper l’Italia basti pensare alla Lega - e con Gheddafi sione in Libia è stato subito fatto che getta l’ombra di una possibile pero la Nato se ne va» manenza al potere del Colonnello. notare quanto i ribelli fossero di«Questa guerra rischia lo stallo» dice sorganizzati, militarmente imprea Risk il generale Vincenzo Camporini, consigliere parati e politicamente scarsi. Insomma, un’opmilitare del ministro degli Esteri «o quantomeno si posizione da armare e preparare. Non è che ci si rivela più lunga di quanto non fosse stato preventi- potesse aspettare poi troppo da loro… vato». Non usa parole tenere il generale. Anzi. È È vero. Ma è giunto il momento che prendano reaconvinto che l’impresa sia stata messa in piedi con listicamente atto della situazione e decidano se vauna buona dose di superficialità e sotto la spinta di le la pena insistere nella chiusura al dialogo o moun politico europeo (evidente il riferimento al pre- strarsi più flessibili. Diciamo pure che restano ansidente francese Nicolas Sarkozy) che per valuta- corati al “io voglio questo e basta”, ma ci vogliono zioni tattiche personali sta adesso facendo pagare la dei mezzi per mantenere questa posizione, cosa che spesa dei suoi errori a tutti. non hanno. Il loro è un atteggiamento ideologico, Generale, quante possibilità ci sono che que- non politico. È arrivata l’ora di parlare con chi ogsta guerra finisca in tempi brevi e con gi detiene il potere nelle varie località libiche, e 54
scenari Gheddafi quel potere ce l’ha. Non si può continuare nel refrain: “facciamo parlare le armi” quando queste non si sanno usare. Il rischio è uno stato conflittuale permanente. Se il Cnt si mostrasse aperto ad un compromesso, quale potrebbe essere? Non lo so, ma se non ci si siede intorno a un tavolo per discuterne non lo saprà mai nessuno. La flessibilità è uno strumento però, e va usato. Si potrebbero ipotizzare ruoli per personaggi che ancora non sono comparsi sulla scena. Parliamoci chiaro: qui il problema è che chi noi vorremmo sostenere non è in grado o non ha voglia di impegnarsi. E pensa che le castagne dal fuoco gliele debbano levare gli Occidentali. Non è così, perché senza una decisa avanzata terrestre il problema in Libia non si risolve. E questa è un’operazione che compete ai libici e a nessun altro. Il supporto aereo gli è garantito e a questo punto se loro non sono capaci o non hanno voglia di impegnarsi, il problema deve essere riesaminato. Si sta profilando l’eventualità che il Colonnello resti al potere? È possibile. Certo, significherebbe la successiva e inevitabile spartizione della Libia in Cirenaica e Tripolitania, quello che all’inizio nessuno voleva. Ma tant’è. Inutile dire che per l’Italia il danno sarebbe enorme. C’è modo di venirne a capo? Soltanto mettendosi a dialogare con determinazione con tutti coloro che in questo momento stanno operando: Parigi e Londra in primis. È necessario un confronto a tre per cercare una posizione concordata comune e stabilire l’atteggiamento da tenere con coerenza nel tempo. Questo è almeno quello che io auspico. Se il vertice a tre non ci sarà, e visto che gli altri sono tutti comprimari, saremmo nei guai. Questa guerra al rallentatore non dimostra che prima di scatenare un conflitto bisognerebbe pensarci due volte? Non due, sedici volte. Ma sappiamo benissimo co-
me è cominciata questa operazione: per volontà di un personaggio politico europeo che ha seguito i suoi obiettivi di politica internazionale e nazionale senza valutarne le conseguenze. Il punto è che la comunità internazionale è stata incapace di discutere con lui e i risultati sono adesso sotto i nostri occhi. Nicolas Sarkozy, visto che è agli atti che sia stato il capo dell’Eliseo a spingere per l’intervento, sta letteralmente rischiando di restare con il cerino in mano, non trova? Assolutamente sì. Però stiamo pagando (e pagheremo) tutti. Se la comunità internazionale non fosse guidata da persone che si affidano ai sondaggi, leggono solo le prime pagine dei giornali e guardano al Jazeera, non saremmo a questo punto. È mancata assolutamente qualsiasi analisi seria e approfondita sulla situazione reale libica, ci si è fatti cogliere dall’emozione del cimitero sulle spiagge di Tripoli, artatamente spacciate per fosse comuni. Tutti sapevano che non lo erano, ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo. E questo è il risultato. Detto con franchezza da un soldato, di grandissima improvvisazione. Nemmeno un paio di settimane fa la Norvegia ha fatto sapere di essere pronta a ritirarsi dalla missione, la Spagna fa la voce grossa, ma non è mai stata operativa. La Germania di Angela Merkel ha sempre nutrito grosse riserve. Dove è finita l’inossidabile solidarietà della Nato? La solidarietà non può essere un dato di fatto, la solidarietà esiste solo se si condividono degli obiettivi concreti. Perché la Nato era solidale negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta? Perché questo fine ultimo c’era: la difesa dall’Armata rossa. Perché si è ritrovata nel 1991 (nonostante qualche tentennamento andreottiano da noi…)? Perché la comunità internazionale ha riconosciuto concordemente che bisognasse evitare un assorbimento del Kuwait da parte dell’Iraq ed è intervenuta. In altre parole: se non c’è un obiettivo, manca anche la solidarietà. 55
Risk Sì, però a un certo punto la Nato è intervenuta ed ha preso le redini della situazione… Ma perché era il male minore: volevamo davvero lasciare tutto nelle mani del comando operativo francese? Anche dal punto di vista tecnico era una pura follia. Oggi, almeno sotto questo profilo, la catena di comando Nato è collaudata e se si devono fare delle operazioni si ha almeno la garanzia che vengano fatte bene. Ma è un utilizzo strumentale della Nato, non è la Nato che ha deciso di cominciare. Il tragico errore è stato quello di avviare la missione in assenza di un’approvazione tedesca. Il tentennamento della Germania avrebbe dovuto far riflettere. E invece nessuno lo ha fatto. Ecco perché è giunta l’ora che Parigi, Roma e Londra si siedano a un tavolo comune e decidano il da farsi. Gli altri poi li seguiranno. Ma cosa dovrebbero decidere i tre? Visto che al momento l’ostacolo principale a qualsiasi tipo di evoluzione è l’atteggiamento dei bengasini, bisognerebbe decidere come trattarli. E avere una voce unica e forte. Insomma, potrebbero decidere di andare da loro e dirgli: “amici cari, se voi non mostrate un minimo di flessibilità noi ce ne andiamo”. Punto. Generale, un’informazione che proprio non arriva mai è quella relativa al ruolo svolto dalla nostra aeronautica sui cieli libici. I bombardamenti su Tripoli si sono intensificati ma nessuno ci dice quante missioni i nostri piloti abbiano condotto e quanti missili abbiano usato… Chiedetelo al ministero della Difesa che si è chiuso in un mutismo assoluto per diretto volere del capo del dicastero. Al riguardo c’è una direttiva ad hoc che proibisce di divulgare ogni tipo di informazione. Immagino per motivi di politica interna, al fine di evitare l’irritazione leghista. I comunicati stampa della Difesa sono generici e inutili sia per i media, sia per la storia… Ci sta dicendo che anche il ministero degli Esteri non viene tenuto informato? Esattamente, quantomeno non in tempo reale.
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Tornando alle polemiche politiche, Maroni ha dato grandi segnali di nervosismo per il protrarsi di questa guerra. Anche in nome di un danno economico per il nostro Paese… I signori che adesso dicono che stiamo spendendo troppi soldi per la Libia dovrebbero sapere, e certamente sanno, che il ministro dell’Economia e delle Finanze non ha ancora tirato fuori un centesimo per questa operazione. C’è una bozza di decreto pronta e che non viene presentata in Consiglio dei ministri perché lui si rifiuta di spendere dei soldi. Tutto quello che è stato speso fino ad oggi viene dal bilancio ordinario della difesa. Non c’è un euro in più rispetto a questo. Se oggi smettessimo di combattere in Libia il bilancio italiano non ne trarrebbe alcun beneficio. Generale, i nostri aerei stanno utilizzando quello che viene definito il munizionamento guidato, l’unico che consente di non colpire in modo indiscriminato gli obiettivi prescelti. Queste scorte stanno per terminare? Non lo so. Però è possibile che la nostra autonomia sia fortemente intaccata. Quel che è certo è che non ci sono quattrini per rimpinguarle. Ci sarà un momento in cui si dovrà usare altro. Noi stiamo usando i kit gps e laser applicati sulle bombe normali che vengono proodotti in Italia, dunque più facili da reperire sul mercato, ma se non si trovano i soldi… All’inizio di questa intervista ha detto che il mutato atteggiamento di Russia e Cina potrebbe significare una svolta. Ma a vantaggio di chi? Se Mosca e Pechino prendessero una forte posizione io credo che Gheddafi non avrebbe più nessuna speranza di resistere al potere. Ma dovrebbe avvenire in modo esplicito e palese. Diciamo che dal punto di vista tattico ci farebbe assai comodo, risolvendoci un problema. È ovvio però che né Cina né Russia faranno qualcosa gratis, e non escludo affatto che il prezzo che si dovrà pagare per il loro intervento non cadrà sulle nostre spalle in modo rilevante.
scenari
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cenari
MEDIORIENTE
STATO PALESTINESE, ILLUSIONE OTTICA DI
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PIERRE CHIARTANO
pposizione bilanciapresa dei negoziati tra Israele e ta» è un termine che l’Autorità nazionale palestinese. gli antropologi utilizA margine dell’incontro romano zano per definire le dinamiche deltra il premier israeliano Bejamin le popolazioni nomadi arabe. Vuol Netanyahu e il Primo ministro dire che il gruppo non fa la gueritaliano, il 13 giugno, è nata la ra al singolo e viceversa: clan conproposta di ospitare i negoziati a tro clan, tribù contro tribù, umma Erice, in Sicilia. E di coinvolgecontro infedeli. L’onore per un re aziende italiane per rilanciare arabo sta nel rispettare la chiamal’economia in Cisgiordania. Ma ta del gruppo d’appartenenza. È sono molti gli osservatori interuna norma nata per regolare i connazionali che guardano al procesflitti in una società governata «deso di costituzione di uno Stato Per molti è un Paese senza mocraticamente» dalle tribù, copalestinese con scetticismo o con terra, spaccato tra Gaza e me sostiene Philip Carl Salzman, moderato ottimismo. Una vicenCisgiordania; senza popolo, antropologo della McGill da che si trascina da più di mezdiviso tra laici e islamici; senza speranza, perché merce University di Ottawa. Oggi, che zo secolo e che è stata troppo di scambio nel complesso invece il mondo arabo è retto da spesso utilizzata strumentalmendomino mediorientale. Serve guardare dentro una delle dittature – se pure in forte te, sia dai Paesi arabi cui spesso realtà che spesso i media crisi – può essere utile per comil futuro del popolo palestinese internazionali ritraggono solo prendere la psicologia araba, animporta poco – al di fuori della in superficie, facendosi aiutare anche dalla storia che nella vicenda palestinese. La retorica politica – sia dalle canprimavera delle rivolte però semcellerie occidentali, interessate a bra aver cominciato a scardinare questo meccani- mantenere un certo controllo nella regione. E poi smo di vincolo assoluto, di fratellanza indiscrimi- l’impressione è che la nascita di uno Stato palestinata, di connubio non ragionato che ha reso tanto nese non sia un problema reale, ma di volta in volcomplicata la diplomazia in Medioriente. È una spe- ta la proiezione d’interessi esterni. Ora anche Barack ranza per il futuro, perché il presente vede lo Stato Obama cerca di tessere la tela di una nuova politipalestinese ancora come un’illusione ottica. Ma ve- ca mediorientale. I grandi cambiamenti in atto, a codiamo perché. minciare dalla primavera araba, porteranno conseÈ recentissimo il coinvolgimento italiano per la ri- guenze negli anni a venire e Washington vuole e può 58
scenari giocare ancora un ruolo determinante sul futuro della regione, anche se alcuni osservatori giudicano molto debole la sua posizione. Il problema palestinese sembra più simbolico che reale, a meno che non si pensi alla vita “complicata” che vivono gli arabi a Gaza e in Cisgiordania. E potrebbe essere risolto solo con la volontà del governo di Gerusalemme a decise rinunce, dimenticando lo spettro di Gaza. Cioè l’abbandono unilaterale da parte degli israeliani della Striscia – ai tempi del governo di Ariel Sharon. Un evento non privo d’aspetti traumatici per Israele. Una rinuncia che non ha prodotto nulla, se non conseguenze negative per lo Stato ebraico. «Sì ci sarà uno Stato palestinese non avrà Gerusalemme come capitale. Forse un sobborgo della città» questo è un esempio dei problemi reali sul tavolo dei negoziati, citato dal politologo Usa d’origine rumena, Edward Luttwak. Molti osservatori vedono i palestinesi troppo divisi tra i laici dell’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania e i fondamentalisti sunniti di Hamas nella Striscia di Gaza. E anche la recente ricomposizione tra la Resistenza islamica e Fatah potrebbe portare ulteriori problemi anziché soluzioni. L’esperto americano ci spiega anche perché: «In più la loro politica di non riconoscimento dello Stato d’Israele ha causato il blocco dei flussi dei pendolari. Così chi abita nella Striscia non può andare a lavorare in Israele». E c’è anche molto scetticismo sulla reale forza politica di Hamas. «Se oggi si votasse nella Striscia, Hamas prenderebbe al massimo il 20 per cento delle preferenze. Ciò che loro hanno dato a quella popolazione è stata una grande copertura mediatica a livello internazionale, pochissimo da mettere nello stomaco. E i vertici di Hamas non se la passano niente male. A proposito di questo argomento ci sono state alcune rivelazioni. Ad esempio nel 2009 durante il bombardamento israeliano di Gaza, Hamas aveva denunciato la morte di un loro leader, un ministro, avvenuta con le sue tre mogli e i loro bambini in un complesso residenziale dove vivevano» continua
Luttwak. Insomma, ci vuol far capire il consulente del Pentagono, la nomenclatura della resistenza islamica gode di privilegi rispetto alla massa di miserabili che stenta a sopravvivere nella Striscia. Piove sempre sul bagnato a alla miseria si aggiunge la perdita di ogni possibilità di riscattarsi almeno sul piano economico. «Nel mondo si denuncia questa blockade di Gaza, ma Hamas si è dichiarato nemico dello Stato ebraico, Gaza è dunque territorio nemico. E chi mai aprirebbe le porte di casa propria al nemico?». Questo è il punto di vista di un osservatore americano non antipatizzante con Israele. Ma la musica non cambia neanche con chi ha sempre avuto una posizione quantomeno di moderata “simpatia” per la causa palestinese.
È il caso del direttore
di Limes Lucio Caracciolo. «Non penso che la questione israelopalestinese sia così centrale, come spesso ci viene presentata. Ha sicuramente un valore simbolico. Ma è anche vero che sia Israele che gli altri Paesi arabi non la considerano una materia strategica. Gli arabi al di là della retorica non pensano che i palestinesi siano una loro priorità. Quindi da un punto di vista degli equilibri complessivi in Medioriente non si tratta affatto di una questione strategica». Caracciolo dunque minimizza il valore reale della creazione di uno Stato palestinese e delinea nuovi scenari con attori che reciteranno ruoli un po’ diversi da quelli sin qui visti. «Israele e Iran da un parte e dall’altra la questione complessiva del mondo arabo sunnita. In particolare il futuro dell’Egitto. Sono problemi connessi ma diversi. L’unico paese che in questo momento può minacciare la preponderanza d’Israele nella regione, da un punto di vista geostrategico è l’Iran. Che in qualche maniera considera lo Stato ebraico l’arcinemico e viceversa. Alla fine però penso che tra Iran e Israele sia possibile arrivare ad un compromesso. Teheran non ha davvero interesse a distruggere Israele e lo Stato ebraico non ne ha a una contrapposizione permanente con l’Iran. A questo punto entrano in gioco 59
Risk gli attori arabo-sunniti, in modo particolare l’Egitto e l’Arabia Saudita. La novità dell’Egitto dopoMubarak e che tornerà protagonista della regione. L’ex presidente egiziano faceva sostanzialmente ciò che gli veniva detto da americani e israeliani. Chiunque vada al suo posto avrà una sua autonoma politica e ciò sarà un grosso problema per Israele». E anche il futuro degli accordi di Camp David, caposaldo della pace regionale per alcuni decenni, è assai incerto. «In maniera strisciante forse ma penso proprio che gli equilibri nati a Camp David verranno presto messi in discussione. Soprattutto ci sarà una revisione dell’approccio egiziano verso Gaza. Specialmente se i Fratelli musulmani dovessero avere un ruolo più rilevante nella politica egiziana. Quindi un più rilevante appoggio ad Hamas nella Striscia sarà visibile». La politica imperiale di Teheran, la maniera con cui agisce sul lungo periodo, potrà influenzare il nuovo corso nella regione soprattutto a danno dei sauditi. «Penso che l’Iran si consideri un impero da sempre, che i suoi riferimenti geopolitici siano quelli imperiali di Ciro il grande piuttosto che lo stesso Khomeini. E che la sua sfera d’interessi vada dal Libano all’Asia centrale. Inevitabilmente entrerà in conflitto con gli attori arabo-sunniti del Golfo e in primis con l’Arabia Saudita. Negli ultimi trent’anni Gerusalemme e Riad si sono trovati d’accordo nell’affrontare Teheran adesso la partita e un po’ più complicata».
Ma se lo Stato palestinese non è un problema strategico, quale percezione ne ha l’opinione pubblica israeliana? Forse è la primavera araba che ha influenzato l’opinione pubblica israeliana, oppure è la stanchezza di un popolo di essere perennemente in guerra in casa propria. Quasi il 50 per cento degli israeliani ritiene che Israele debba «riconoscere uno Stato palestinese a condizione di mantenere in Cisgiordania blocchi di colonie». Se la piazza araba finalmente esiste, qualche speranza per la democrazia dovrebbe pur esserci. E con essa la possibilità di una pacifica convivenza. È questa forse 60
la domanda che si pongono oggi molti cittadini dello Stato ebraico, stanchi di vivere nell’unico sistema democratico moderno della regione: dunque senza interlocutori affidabili. La relativa sorpresa è emersa da un sondaggio pubblicato ieri dal più diffuso quotidiano israeliano Yediot Aharonot. Il 48 per cento delle persone interpellate è favorevole a riconoscere lo Stato palestinese, mentre il 41 per cento ritiene che Israele «debba opporsi con forza a qualsiasi proclamazione di uno Stato palestinese, anche a costo di uno scontro con le Nazioni Unite». Inoltre, il 53 per cento degli israeliani pensa che il premier Benjamin Netanyahu dovrebbe presentare un «piano per risolvere il conflitto con i palestinesi a costo di importanti concessioni». Un altro elemento del domino palestinese è la posizione della Siria, ormai con un regime agonizzante, da sempre ha manovrato i palestinesi dei campi libanesi, pur arrivando a un tacito accordo con Israele per non danneggiare troppo gli interessi dello Stato ebraico. Inoltre Damasco è dagli anni Settanta che garantisce che dalle alture del Golan nessuno prenda di mira la terra di Sion e pur manovrando opportunisticamente i disperati dei campi palestinesi, non sembra amarli poi così tanto. Da sempre Damasco si è ritagliata un ruolo di broker politico: genera e risolve problemi a ciclo continuo. Vuole essere indispensabile negli equilibri regionali. Ora che il regime alawita è in pericolo usa le stesse armi nel tentativo si sopravvivere. E la Siria fa comodo a molti, Ankara compresa, dove i media hanno molto edulcorato la sostanza della rivolta. Insomma, un regime duro e impopolare sembra meglio di un punto interrogativo. Ma spesso la politica sta alla storia, come i metereologi al tempo. Ma vediamo un po’ la cronistoria della questione palestinese per capire meglio la genesi dei problemi. Nel 1897 Thomas Herzl ebbe un’idea, quella di costruire uno Stato per tutti gli ebrei del mondo, “aiutato” allora dalla presenza di un premier britannico, Benjamin Disraeli, che condivideva alcuni aspetti del progetto. Nel XIX secolo in Europa vi-
scenari gevano in diversi Paesi – Italia compresa – molti divieti per gli appartenenti alla comunità ebraica. Incluso quello di non poter acquistare terre. Si comprende dunque l’ansia e le aspettative scatenate dalla visione di Herzl. Poi nel 1917 ci fu la “contraddittoria” dichiarazione di Balfour. Una lettera scritta da un pari britannico a Lord de Rotschild. Il governo inglese nella spartizione dei resti dell’impero Ottomano vedeva con favore la creazione di «un focolare ebraico in Palestina». Termine su cui si so-
Quasi il 50 per cento degli israeliani ritiene che si debba «riconoscere uno Stato palestinese a condizione di mantenere in Cisgiordania blocchi di colonie». Se la piazza araba finalmente esiste, qualche speranza per la democrazia dovrebbe pur esserci. E con essa la possibilità di una pacifica convivenza no scatenate battaglie esegetiche a seconda degli interessi che si difendevano. Un sogno che divenne realtà solo dopo un incubo: la Shoà. La cattiva coscienza europea che aveva fretta di lavarsi l’anima dal grande massacro perpetrato dal nazismo durante il Secondo conflitto mondiale, fece il resto. La storia della nascita d’Israele s’intreccia molto con la nascita della Repubblica in Italia. Ada Sereni, Alcide De Gasperi e Golda Meyerson, sono alcuni dei protagonisti, le armi per il nascente esercito di Gerusalemme, gli intrighi politici e le spy story, gli attentati e i colpi di mano, sono altri elementi del-
la nascita di Israele. Una concatenazione di eventi che ha creato un “problema”, a seconda dei punti di vista, da oltre mezzo secolo. Il “problema” se così si può definire, è la nascita di una vera democrazia, ricca e ambiziosa, in mezzo alle aride e poverissime spianate della Palestina. Una terra per cui nessuno – prima del 1948 – avrebbe pensato di combattere. Un anno prima c’era stata la risoluzione Onu 181 che sanciva la nascita di due Stati in Palestina: quello ebraico e quello arabo. All’epoca molti Paesi mediorientali si erano riempiti di consiglieri nazisti, scappati alla sconfitta del Terzo Reich, così molte cancellerie nel Mashreq vennero utilizzate per estendere e continuare la battaglia antisemita. Dal canto loro i palestinesi, costretti a un esodo forzato, più per colpa degli Stati arabi, che fin dall’inizio utilizzarono la loro causa per opportunismo politico, che per volontà del nascente Stato d’Israele, incominciarono a popolare i campi profughi in Libano, In Siria e in quella che allora si chiamava Transgiordania. Nessun Paese che li ha ospitati li ha mai amati. In Libano sono disprezzati, Damasco li ha sempre fatti controllare, In Giordania poi la Legione araba di re Hussein li ha massacrati durante il famoso Settembre nero. Insomma, dove piantavano le tende, cominciavano a tramare golpe contro i governi ospitanti. Negli anni si è poi costituita una comunità della diaspora, fatta di professionisti, imprenditori, artigiani e operai che si integravano invece benissimo con le comunità che li ospitavano: Canada, Europa, Stati Uniti erano tra le mete preferite. Con gli anni questa comunità s’identificava sempre di meno con chi li avrebbe dovuti rappresentare: l’Olp di Yasser Arafat e le altre sigle che mischiavano politica, terrorismo e criminalità. Dopo la crisi di Suez, nel 1956, che mette fuori gioco i vecchi Stati europei, le cose si complicano. Gli Usa non vogliono che le vecchie logiche neocoloniali intralcino la loro politica mediorientale in piena Guerra fredda. Nel 1967 c’è la Guerra dei Sei giorni. E subito dopo arriva la risoluzione Onu 242, quella della «pace in cambio 61
Risk
Molti osservatori vedono i palestinesi troppo divisi tra i laici dell’Anp di Abu Mazen in Cisgiordania e i fondamentalisti sunniti di Hamas nella Striscia di Gaza. E anche la recente ricomposizione tra la Resistenza islamica e Fatah potrebbe portare ulteriori problemi anziché soluzioni di territori». Si contano i primi fallimenti diplomatici. Prima lo svedese Gunnar Jarring getta la spugna nel 1969, dopo aver fatto la spola tra Israele e le capitali arabe. Poi è il turno di William Rogers, segretario di Stato Usa. Stesso risultato. Arriva il secondo piano Rogers un anno dopo che Nasser a luglio decide di accettare, ma poi il presidente egiziano muore in settembre. Tutto da rifare. Nel 1971 nuovo piano del dipartimento di Stato. Nell’ottobre del 1973 arriva un’altra guerra, scatenata da Egitto e Siria contro Israele, durante la festività ebraica dello Yom Kippur. Alla fine dello stesso mese il Consiglio di sicurezza Onu emana l’ennesima risoluzione. A dicembre si apre a Ginevra la conferenza per la pace in Medioriente. Intanto continuano le trattative tra Gerusalemme e il Cairo, il Terzo corpo d’armata egiziano è intrappolato nella Penisola del Sinai. Ma solo nel 1975 arriva un accordo definitivo sulla separazione delle truppe. È il 1977 a segnare una svolta nei rapporti tra arabi e israeliani e quindi ad aprire una nuova stagione di speranze per il futuro palestinese. Anwar el Sadat in autunno si reca per la prima volta nello Stato ebraico, parla al62
la Knesset e incontra Menachem Begin: si pongono le basi per quello che l’anno dopo saranno gli accordi di Camp David. Il primo accordo aveva tre parti. La prima riguardava l’istituzione di un’autorità autonoma in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, e la piena attuazione della risoluzione 242 del consiglio di Sicurezza del Palazzo di vetro. Meno chiaro l’accordo relativo al Sinai, più tardi interpretato diversamente da Israele, Egitto e Stati Uniti. Il destino di Gerusalemme veniva deliberatamente escluso dall’accordo. La seconda parte, affrontava le relazioni israelo-egiziane. Nella terza sezione del documento si dichiaravano i principi che dovevano essere applicati alle relazioni tra Israele e tutti i suoi vicini arabi. Insomma si era davanti ad una svolta storica. Il primo e importantissimo risultato fu il riconoscimento reciproco del Cairo e di Gerusalemme, sancito dal trattato di pace firmato il 17 settembre del 1978. Dieci anni dopo un altro passaggio cruciale sulla strada dei rapporto tra israeliani e palestinesi. Ad Algeri infatti il consiglio nazionale palestinese accetta l’insieme delle risoluzioni Onu sulla Palestina, riconoscendo di fatto lo Stato d’Israele. Poi nel 1991 c’è Madrid che sancisce il passaggio della questione palestinese nell’era del dopo Muro di Berlino, nell’Urss c’è ancora Gorbaciov. Gli Usa e l’Unione Sovietica promuovono la Conferenza di Pace di Madrid con l’intento di raggiungere un giusto, duraturo e comprensivo accordo di pace attraverso dirette negoziazioni lungo due percorsi, tra Israele e gli Stati arabi e tra Israele e i palestinesi, basandosi sulle risoluzioni 242 e 338. Al tavolo siedono Israele, Siria, Libano e Giordania. I palestinesi vengono invitati a partecipare come parte di una delegazione comune giordano-palestinese. Si accendono molte speranze, molti credono che la divisione del mondo in sfere d’influenza tra amici di Washington e quelli di Mosca abbia influenzato negativamente anche il processo di pace in Palestina. E infatti nel 1993 si arriva al riconoscimento reciproco dello Stato ebraico e dell’Olp, che aper la strada agli accordi di Oslo, fir-
mati a Washington nel settembre dello stesso anno. Poi in successione arrivano gli accordi economici e l’autonomia di Gaza e Gerico (1994), Oslo II (1995). A dicembre dello stesso anno l’esercito con la Stella di David si ritira dalle sei maggiori città arabo-palestinesi. Ma sembra che il vento di Oslo spiri solo su Gerusalemme, l’Olp stranamente temporeggia. Poi nell’agenda negoziale arrivano Hebron e Wye Plantation. Ma il processo langue, Arafat palesemente non rappresenta più gli interessi palestinesi, Gerusalemme lo sa e teme di fare concessioni all’interlocutore sbagliato.
Nel Duemila, a settembre, si accende la seconda Intifada, dopo la passeggiata del premier Ariel Sharon nella spianata della moschea di al Aqsa. È Madelein Albright, segretario di Stato Usa che a Parigi fa il pompiere tra il premier Ehud Barak e Arafat. Nel 2001 è invece l’ex capo della Cia, George Tenet, a ottenere un cessate il fuoco tra le parti. Nel 2002 arriva la risoluzione 1397 e poi il piano di pace Ue. Poi arriva Sharm el Sheik e quella che sembra una svolta: nel 2004 muore Artafat. Nasce la stella di Abu Mazen, ma nasce cadente perché è arrivato il tempo dell’ultrafondamentalismo declinato dai sunniti di Hamas. I problemi cambiano solo colore. Il resto è storia recente e racconta una narrazione dove Israele concede con riserva, percependo l’odio di Hamas. Dove al ritiro israeliano da Gaza segue l’operazione Piombo fuso e dove l’Anp si barcamena ormai solo in Cisgiordania e con difficoltà, viste le continue interferenze iraniane. Al pericolo sunnita si sostituisce quello sciita, sancito nel 2006 dalla disastrosa operazione di Tsahal in Libano. Dei palestinesi ne parlano tutti, ma alla fine servono solo come strumenti per le levantine logiche regionali di potere. Da ultimo il regime morente di Damasco li ha mandati a morire sul confine con Israele. E lo Stato palestinese sembra ancora lontano.
lo scacchiere
Unione europea /L’arresto di Mladic
e il ruolo di Bruxelles nei Balcani
Dopo vent’anni non si è ancora chiuso il cerchio della difesa europea DI ALESSANDRO MARRONE
o scorso 26 maggio le autorità serbe hanno arrestato dopo anni di latitanza l’ex generale serbo-bosniaco Ratko Mladic, ricercato con l’accusa di genocidio, di crimini contro l’umanità e dell’eccidio di Srebrenica del 1995. La figura di Mladic, insieme a quelle di Karadzic e Milosevic, hanno simboleggiato la guerra civile jugoslava e i relativi massacri, ben più delle loro controparti croate o bosniaco-musulmane che pure non sono certo state esenti da colpe. Proprio l’implosione della Jugoslavia all’inizio degli anni ‘90 è stato uno degli eventi che ha segnato la storia recente della politica estera, di sicurezza e difesa dell’Ue. In partenza per Belgrado con l’intento di mediare tra serbi e croati a nome dell’allora Comunità Economica Europea, il 29 giugno 1991 il ministro degli Esteri lussemburghese affermò che «questa è l’ora dell’Europa, non è l’ora degli Stati Uniti». I massacri balcanici degli anni successivi, incluso quello di Srebrenica di fronte ai Caschi Blu olandesi, avvenuti sotto lo sguardo
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di un’Europa rivelatasi impotente ad impedirli, hanno dimostrato quanto quella dichiarazione fosse rimasta un flatus voci. C’è voluto l’intervento degli Stati Uniti per fermare la guerra civile in Bosnia, e non a caso gli accordi di pace tra bosniaci, croati e serbi sono stati firmati in una cittadina dell’Ohio di nome Dayton e non a Parigi, Berlino o Roma. Così come nel 1999 è stata la Nato a intervenire in Kosovo, e non l’Ue, con le forze americane che hanno effettuato quasi il 90% delle sortite durante la campagna aerea alleata. Le guerre in Jugoslavia sono state anche uno dei motori del processo che dai trattati di Maastricht e Amsterdam, attraverso lo spartiacque di Saint Malo, ha portato alla nascita di quella che oggi è chiamata Politica comune di sicurezza e difesa del’Ue. Ma se la l’arresto di Mladic sembra chiudere il cerchio delle guerre balcaniche, a vent’anni di distanza da quella dichiarazione non si è affatto chiuso il cerchio della difesa europea. Tanto che l’intervento nella più importante crisi in corso nel vicinato dell’Unione, quella libica, si svolge tramite la Nato e non sarebbe stato possibile senza le capacità militari messe in campo in un primo momento dagli Stati Uniti. Mentre la difesa europea oscilla tra accordi bilaterali come quello franco-britannico che nulla hanno di europeo, e l’inconsistenza politica dell’Alto Rappresentante per la politica estera dell’Ue. Mladic verrà processato dal
scacchiere
Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, che lo ha preso in custodia all’Aja pochi giorni dopo il suo arresto. Il Tribunale, attualmente presieduto dall’italiano Fausto Pocar, ha visto alternarsi alla presidenza tre europei e due americani nei suoi 18 anni di vita. Secondo alcuni analisti l’influenza americana si è sentita soprattutto nell’indirizzare le attività del Tribunale verso i crimini commessi da esponenti serbi, che costituiscono la stragrande maggioranza degli imputati di alto livello giudicati all’Aja. Nei Balcani occidentali gli europei, e l’Ue in particolare, hanno inciso maggiormente nella fase di stabilizzazione postconflitto. In Bosnia Herzegovina ad esempio l’Ue schiera due missioni: una missione di polizia, Eupm, con uno staff di 192 addetti tra funzionari e ufficiali, con compiti di mentoring a monitoraggio rispetto alla formazione e all’attività della polizia bosniaca; e un’altra, Eufor Althea, che impiega un contingente di 2.200 militari con funzione di deterrenza rispetto alle varie etnie bosniache per garantire il rispetto degli accordi di pace. In Kosovo la missione Eulex, 1.950 effettivi, assiste le autorità kosovare nella costruzione del sistema giudiziario e di polizia, con funzioni non soltanto di mentoring e monitoraggio ma anche esecutive. Tutte queste missioni affrontano gravi difficoltà insite nella problematica situazione sul terreno, in particolare in Bosnia Herzegovina, e richiedono un forte impegno di medio-lungo periodo. In Kosovo inoltre rimane fondamentale la presenza della missione Kfor della Nato, che svolge la stessa funzione di deterrenza nei confronti della ripresa di scontri interetnici garantita da Althea in Bosnia. Aldilà delle missioni civili e militari, un altro strumento a disposizione dell’Ue per la stabi-
lizzazione dei Balcani occidentali è la prospettiva della loro inclusione nell’Unione, con tutto quel che comporta in termini di aiuti economici, investimenti, libera circolazione delle persone e delle merci, ecc. Uno strumento di soft power in questa fase importante tanto quanto lo era quello militare di hard power negli anni ’90. La prospettiva di ingresso nell’Unione è ovviamente lontana per Kosovo, Bosnia e Montenegro, meno per la Macedonia che ha lo status di candidato a membro dell’Ue dal 2005, in via di definizione per la Croazia che sta negoziando la sua adesione, e già realizzata da tempo per la Slovenia. La Serbia oggi punta con decisione verso lo status di candidato all’adesione all’Unione, e proprio l’arresto di Ratko Mladic rimuove uno degli ostacoli sulla via di Belgrado, soddisfacendo la richiesta avanzata con forza da alcuni stati membri – in particolare quelli più scottati dagli eccidi balcanici, come l’Olanda – di una piena collaborazione delle autorità serbe nella caccia ai ricercati per crimini di guerra. Parafrasando la dichiarazione del 1991, vent’anni dopo nei Balcani occidentali è sempre di più l’ora dell’Europa, perché solo l’Ue può mettere in campo l’insieme di strumenti necessari a stabilizzare la regione, e solo l’Ue ha interesse ad utilizzarli considerato il sempre più avanzato disimpegno degli Stati Uniti dal Vecchio Continente. 65
Risk
America Latina/Caccia a Ottobre Rosso L’Argentina, al voto in autunno, si scopre post Kirchner DI
RICCARDO GEFTER WONDRICH
Argentina si prepara alle elezioni di ottobre. Il barometro dell’economia continua ad oscillare, ma il prossimo governo dovrà adattarsi a uno scenario che va lentamente peggiorando. Tre fattori principali stanno alla base della vigorosa crescita economica degli ultimi otto anni. Il primo è il boom agricolo, grazie alla diffusione della soia transgenica (dal 1996) e della semina diretta. Il secondo è la svalutazione del peso e il conseguente attivo di bilancia commerciale. Il terzo è la ristrutturazione del debito, tanto amara per i risparmiatori italiani quanto efficace per i conti pubblici. Su questi punti si è centrato il modello dei governi Kirchner, un peronismo di sinistra con tratti populisti, caratterizzato da forte interventismo nella sfera economica, protezionismo commerciale e alleanza di ferro con i sindacati. L’Argentina è rimasta un paese agro-esportatore, che a causa della poca trasparenza delle regole del gioco ha attratto meno investimenti di quanti avrebbe potuto. L’inflazione attorno al 25% e i tentativi di nasconderne la reale entità sono i danni collaterali del “modello K”. Il rallentamento dell’economia globale, la concorrenza del Brasile, l’aumento della produzione di soia in Cina e la fuga di capitali sono nubi che si affacciano all’orizzonte. Passate le elezioni, spesa pubblica e sussidi per calmierare le tariffe di acqua, gas, trasporti e elettricità dovranno essere ridotti per evitare una crisi fiscale. Ma uscire dalla trappola della spesa e dell’assistenzialismo non sarà facile. Nessuno lo dice a voce alta, ma è opinione diffusa che solo l’apparato peronista può tenera a bada un sindacalismo ipertrofico in grado di paralizzare il paese. Non sorprende, quindi, che il politico argentino con maggiore ascendente, il sindaco di Buenos Aires Mauricio Macri, preferisca la rielezione nella capitale piuttosto che puntare alla Casa Rosada. Meglio attendere un turno e lasciare ad altri il conto degli errori e delle mancate riforme. In questa com-
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plessa cornice, gli ultimi mesi sono stati caratterizzati da un grande tatticismo, sia nelle forze di governo sia tra quelle di opposizione. A due settimane dalla data ultima per presentare le candidature, il presidente Cristina Fernández de Kirchner ancora non aveva sciolto la riserva sulla propria discesa in campo. I favori del pronostico sono per lei, ma alcuni gravi episodi di corruzione rischiano di complicare i giochi. Per non perdere voti al centro, la Kirchner ha dovuto smarcarsi dall’abbraccio del potente e poco presentabile capo della Confederazione generale dei lavoratori, Hugo Moyano. Il partito radicale pare aver trovato in Ricardo Alfonsín - figlio del presidente che guidò il paese sudamericano nel viaggio di ritorno verso la democrazia nel 1983 - un leader capace di costruire intese elettorali per raccogliere parte del voto anti-kirchnerista. Alfonsín ha scelto un economista di prestigio come l’ex presidente della Banca Centrale Javier González Fraga quale vice-presidente, e si è alleato con il peronismo dissidente di Francisco de Narváez, forte nella provincia di Buenos Aires. Il governatore della provincia di Santa Fe Hermes Binner sarà il candidato del partito Socialista. Binner ha poche speranze di vittoria alle presidenziali, ma può costruire un’alternativa socialdemocratica solida negli anni a venire. A completare il quadro ci sono l’eterna candidata anti-sistema Elisa Carrió e l’ex presidente Eduardo Duhalde, l’unico non kirchnerista ad avere ancora una certa influenza nel complesso apparato di potere peronista. Le elezioni dovrebbero vedere quindi contrapporsi tre forze principali: un populismo di sinistra -il kirchnerismo -, una coalizione di centro articolata sull’asse Alfonsínde Narváez e una forza socialdemocratica progressista con al centro il partito Socialista. Fino ad ottobre tuttavia molte cose possono cambiare, come insegna l’exploit di Ollanta Humala in Perù, che a 5 mesi dal voto veniva accreditato dell’8% delle preferenze.
Africa/il miraggio dei diritti umani
scacchiere
La grande incompiuta del continente nero DI
MARIA EGIZIA GATTAMORTA
onostante i progressi compiuti a 50 anni dall’indipendenza di buona parte dei paesi africani, sono sistematiche e crescenti le violazioni dei diritti umani nel continente. Conakry, Duékoué, Bobo Dioulasso, Darfur, Makombo, Nord e Sud del Kivu sono nomi che evocano il terrore. Che gli autori delle violenze più bieche (stupri, torture, mutilazioni) siano milizie governative (come Forces Armées de la Republique Demoratique du Congo, Forces Républicaines de Cote d’Ivoire) o gruppi armati ribelli (Lord’s Resitance Army, Forces Democratiques de Liberation du Rwanda), ha poca importanza: il problema è che - qualunque sia il responsabile - viene a crearsi un tessuto sociale traumatizzato, viene a prodursi una violenza con “effetto moltiplicatore” da un lato e con “effetto azzerante” dall’altro. Tipico può considerarsi il caso dei child soldiers: dare un fucile ad un bambino ed obbligarlo a commettere crimini sotto effetto di allucinogeni significa negargli il diritto ad un’infanzia serena, portarlo via dai suoi affetti e da un’educazione di base, plasmare il suo cervello solo su input di violenza. I rapporti di Human Right Watch, Amnesty International e Reporters without Borders evidenziano le difficoltà vissute nei paesi africani e le differenti tipologie di diritti negati e violati. Il panorama è tragicamente vasto e va’ al di là degli stupri utilizzati come arma sistematica di guerra, dei genocidi compiuti in nome della salvaguardia dell’unità nazionale o dell’utilizzo dei bambini a fini bellici. In realtà c’è altro che non può essere ignorato nelle aree a nord ed al sud del Sahara, basti pensare agli arresti arbitrari ed ai fermi immotivati compiuti ai danni di giornalisti o di esponenti dell’opposizione politica, alla sistematica repressione del dissenso, alla restrizione delle libertà di espressione, di riunione e di stampa, alle violenze pre e post-elettorali, alle discriminazioni contro gli omosessuali o gli albini, agli sfratti forzati e alle violenze sui migranti, alle ghettizzazioni di gruppi minoritari, alla pena di morte vigente in alcuni si-
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stemi politici. Per ognuno di questi temi il pensiero corre indifferentemente al quotidiano vissuto in Zimbabwe, Eritrea, Nigeria, Uganda, Somalia, Rwanda, Sudan e Libia… ma non solo. Certamente le violazioni dei diritti dell’uomo sono una realtà mondiale, ma è l’Africa a primeggiare in tale settore. Colpisce il fatto che non si individuino – o se si individuano, non si puniscano - i mandanti e gli autori di crimini commessi contro gruppi di civili ma neanche quelli responsabili di singole “operazioni mirate” contro responsabili di ong specializzate. Solo per fare alcuni nomi, non sono state date ancora risposte alla morte di Oscar Kingara e Paul Oulu (uccisi a Nairobi nel 2009) né tanto meno all’assassinio misterioso di Floribert Chebeya (responsabile dell’organizzazione congolese “La voix des sans-voix”, ucciso a Kinshasa nel giugno 2010). Gli strumenti africani per punire i crimini ci sarebbero ma non viene data loro attuazione: la Carta Africana dei diritti dell’uomo e dei popoli, la Convenzione dell’Oua relativa ai rifugiati, la Carta Africana dei diritti e del benessere del bambino, la Dichiarazione sull’uguaglianza tra uomini e donne in Africa appaiono tristemente solo propositi messi su carta. Peso ancor più debole sembrano avere i meccanismi di applicazione quali la Corte Africana dei Diritti dell’uomo e dei Popoli. Un risultato minimo, ma comunque incoraggiante, è stato dato piuttosto in questi anni da singole Commissioni di Verità e Riconciliazione create per denunciare i crimini commessi nel passato in Sud Africa, Sierra Leone, Liberia e Marocco, che però hanno garantito l’impunità agli autori dei crimini. Quali dunque gli elementi che potrebbero permettere di fare un salto di qualità? Sarebbe senz’altro utile che l’Ua e le organizzazioni regionali ricercassero le motivazioni più profonde che spingono ai conflitti, promuovendo la democratizzazione ed un processo di istanze dal basso verso l’alto (bottom-up), ma sarebbe ancor più necessaria una società civile pronta a rivendicare pacificamente i suoi diritti. 67
La storia
Quando Genova venne fulminata dal Giove gallico di Virgilio Ilari enoua. Buon giorno Algieri mio: di dove vieni con passo sì ritenuto, e grave? Vorrei ben darti un bacio d’amico, mà hò orrore di accostarmi al tuo volto, tanto lo trovo contrafatto, & abbrustolito. Algieri. Jo me ne ritorno da Parigi, dove sono andato a ringraziare l’Imperatore della Francia del bene che mi hà fatto in havermi reso così deforme col fuoco delle sue bombe. Genoua. Hai tu havuto sentimenti così dissonorati, e bassi di render grazie alle ingiurie, & ad ingiurie, le più stupide, e le più crudeli, che un Padrone Tiranno possa fare al più umiliato de’ suoi Schiavi? Tu che sei il capo altiero dell’Africa, che fai tremare tutto il Mediterraneo colle flotte comandate dai tuoi Rinnegati, come hai potuto con tanta ignominia piegare il collo alla insolenza francese? Algieri. Abassa Abassa la tua superbia, Genoua mia; tu non parli con sentimenti sani, & amiche-
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voli. Se bene i Magistrati che mi governano, non hanno mai studiato il tuo Machiavello, il mio infortunio mi hà così ben ammaestrato che io ti darei ancora qualche buon auvertimento, se lo domandassi; mà da che procede che tu hai così velato il volto, e tutto il tuo corpo? Genoua. Non oso discoprirmi il mio per non ispaventarti. Tu che hai veduto altre volte la mia fronte così serena, e ridente, e tutte le mie membra più belle, e più ornate che i campi di flora, e che i giardini di Tempe, piangeresti ora certamente in veder la mia bianca e fiorita faccia assai più horrida, e nera che il tuo ceffo africano. Algieri. E chi t’ha ridotta in si deplorabile stato, Genoua mia? Genoua. Mi hanno si fieramente maltrattata quelli istessi, che t’hanno fatto tanto bene, con questa differenza, che io ancora ti riconosco alle fattezze del volto, la dove i miei propri figli hanno grandissima difficoltà a riconoscere questa infelicissima Madre al sembiante, & anche al parlare».
“Avventuriero della penna del Seicento” per alcuni, Marana fu il più emarginato degli storici italiani. Piccolo borghese, afflitto da rancore sociale e narcisismo autodistruttivo, venne detenuto quattro anni nella Torre di Genova per aver inventato un complotto politico. E poi finì in Francia Bombardamento di Algeri 1682
Così comincia il Dialogo Fra Genoua et Algieri, Città fulminate dal Giove Gallico, stampato nel 1685 in italiano ad “Amsterdamo per Henrico Desbordes nel Kalver-straat vicino al Dam”. L’autore è quel Gian Paolo Marana (Genova 1642 - Parigi 1693) che il colto lettore certamente conosce per merito di Gian Carlo Roscioni (Roma 1927). Oltre ai celeberrimi studi su Carlo Emilio Gadda (di cui ha ereditato archivio e biblioteca, donati poi - lui fortunato! - alla Biblioteca Trivulziana), e al saggio sulle “storie, sogni e fughe dei giovani gesuiti italiani” attratti dal Desiderio delle Indie, Roscioni ne ha infatti dedicato a Marana uno non meno magistrale e avvincente. Completando un’acribiosa ricerca giù iniziata da Lucio Villari, Sulle tracce dell’”Esploratore turco (Milano, Rizzoli, 1992) ricostruisce con splendida scrittura la genesi politico-culturale e l’ordito psicologico e retorico dell’opera principale di Marana, uno dei
più famosi romanzi epistolari del Seicento, L’esploratore turco e le di lui relazioni segrete alla Porta ottomana scoperte in Parigi, pubblicato a Parigi sia in italiano che in francese (L’espion du grand seigneur) in due volumi, nel 1684 e nel 1686, con dedica al re Sole, che autorizzò la stampa e ne fece conservare i manoscritti autografi nella Bibliothèque Royale. Alle 102 lettere dell’edizione Barbin, ristampate ad Amsterdam nel 1686 e 1688 e a Parigi nel 1689 e 1689, se ne aggiunsero in seguito, a partire dall’edizione inglese del 168794 (Letters writ by a Turkish Spy Who Lived Five and Forty Years Undiscovered at Paris), altre 400, per la massima parte di altri autori, incluse 63 attribuite a Daniel Defoe (16601731). La versione inglese, in otto volumi, ha avuto ventiquattro edizioni fino al 2010 (Bibliobazaar). Ascritte alla libellistica libertina di denuncia degli arcana politici, e perciò finite 69
Risk all’Indice nel 1705, le lettere della fittizia spia turca nel 1679 per apparecchiare l’asservimento di furono anche considerate come un modello ispiratore Genova, e fuggito a Nizza per sottrarsi a un nuovo delle Lettres persanes di Montesquieu. La critica processo, nel 1681 Marana pubblicò a Lione un rifapolitica messa in bocca ad un fittizio osservatore cimento dietrologico, antinobiliare e filo-francese dei “esterno” e “l’espediente del manoscritto ritrovato” Successi della guerra del 1672, dichiaratamente sono però “stratagemmi letterari” usati pure da modellato sulla Congiura del conte Fieschi (1629) di Cervantes e da Ortensio Lando e modi parAgostino Mascardi (1590-1640). Protetto dal ticolari della “dissimulazione honesta” confessore del re, visse poi stentatamente già teorizzata nel Convivio di Dante a Parigi, respinto dai circoli culturali (Roscioni, pp. 162 ss e 50). significativi e nella illusoria speranMarana fu il più emarginato di za di subentrare a Siri nella carica quegli storici italiani politicanti di “storiografo regio nella lingua che nel 1923 Luigi Fassò definì italiana”; più fondatamente appe«avventurieri della penna nel tita in passato da Assarino e poi da Seicento»; come il suo concittaLeti e Fassola, la carica fu infatti dino Luca Assarino (1602-1672), soppressa alla morte di Siri. il ferrarese Maiolino Bisaccioni Nemmeno fu ricompensato dei torvi (1582-1663), il benedettino parmense panegirici, intessuti di arrogante serviliVittorio Siri (1608-1685), i milanesi smo, ripetutamente dedicati al Re Sole. Medaglia commemorativa Annibale Porroni (1623-1684) e Depresso, paranoico e repellente, dundel bombardamento di Genova Gregorio Leti (1630-1701) e sopratque, come il suo fittizio “esploratore” tutto il varallese Giovanni Battista Feliciano Fassola Mehmet: e disgustosamente pericoloso, se fu davve(1648-1713). Noto come “Primi Visconti” o “conte di ro capace di tradurre Seneca in carcere usando il San Majolo” e gola profonda dei segreti e dei pette- fumo della lampada per inchiostro e “l’ugne dei golezzi di Versailles, costui fu l’unico fortunato del piedi” per penna. Come tutti i patriottismi, ultimo gruppo, grazie al felice matrimonio con una ricca rifugio dei mariuoli, nemmeno quello di Marana era vedova; tutti gli altri finirono tristemente le loro esi- disinteressato. Lo professava con spocchia rancorosa stenze (e il pluriomicida colonnello Porroni pure per esigere la cooptazione, o almeno per vendicarsi ammazzato da un sicario). salendo in cattedra a dar livide lezioni ai magistrati. Ma poi, esule tra i nemici della patria, esibiva un vitPiccolo borghese, afflitto da rancore sociale e timismo proletario: «Io non dico alla Maestà Vostra narcisismo autodistruttivo, detenuto quattro anni scriveva nella dedica dell’Esploratore al re - la mia nella Torre di Genova per aver inventato un complot- Patria e i mio stato perché gli huomini poveri in queto politico, l’infelicissimo Marana sciupò la sua occa- sto mondo non sono d’alcun luogo». Contrariamente sione nel 1674, quando Giovanni Prato, già coman- all’impressione suscitata dal brano che abbiamo dante dei genovesi nella recente guerra contro l’ag- riportato all’inizio di questo articolo, il Dialogo tra gressore sabaudo, gli commissionò la celebrazione Genova e Algeri non è affatto una denuncia terzodel suo genio militare. Ma le critiche all’impreviden- mondista dell’aggressione imperialista. In realtà è un za della Repubblica intessute nel minuzioso resocon- peana alla generosità del Gran Re che perdona e to delle pur vittoriose operazioni valsero a Marana ricompensa i colpevoli castigati e pentiti, e una durisancora un mese di prigione e il sequestro del mano- sima requisitoria contro la laida Repubblica che ha scritto. Avvicinato perciò dalla spia francese arrivata osato sfidarne la pazienza, prostituendosi agl’interes70
In alto: Genes FoudroyĂŠe par l'ArmĂŠe Navale In basso: Il 15 maggio 1685 Luigi XIV riceve a Versailles le riparazioni presentate dal doge di Genova, Francesco Maria Imperiale Lercari
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si privati dei bottegai in combutta con gli spagnoli e perseguitando i buoni cittadini ammiratori della Francia. Il Dialogo fu scritto tra il primo e il secondo volume dell’Esploratore, e probabilmente prima dell’umiliante missione a Parigi compiuta dal doge Francesco Maria Imperiale Lercari (1629-1712), il quale, in deroga alle norme che vietavano al doge in carica di uscire dal territorio della Repubblica, dovette presentare personalmente le riparazioni pretese da Luigi XIV. Quest’atto, che segnò il definitivo passaggio di Genova dalla joint venture con la Spagna al protettorato francese, avvenne nella galleria degli specchi a Versailles il 15 maggio 1685 e fu immortalato in un arazzo commissionato nel 1710, di cui resta il carton dipinto da Claude Guy Hallé (1652-1736), considerato (a imperituro scorno italiano) il capolavoro di questo pittore. Il colore dominante della scena è il rosso, che mette in risalto il gruppo dei due senatori in toga nera prosternati dietro il doge: questi esegue la proschinesi avvolto in un gran mantello di velluto purpureo. Occorre aggiungere che proprio quest’abito era stato scelto intenzionalmente a scopo di promozione commerciale: e infatti la delegazione genovese approfittò dell’occasione per piazzare enormi commesse di velluti da parte della nobiltà francese, che 72
servirono a finanziare la ricostruzione della città distrutta dalla flotta francese; la qual dunque risorse, come Petrolini fece poi dire a Nerone, «più bella e più superba che pria». La proschinesi del doge chiuse in attivo un lungo conflitto, che secondo le Memorie del re Sole risaliva a vent’anni prima, quando la Repubblica, che appena cominciava a riprendersi dalla peste sterminatrice del 1656, aveva osato aprire una rappresentanza commerciale a Costantinopoli per sottrarsi all’intermediazione francese «osservata fino ad allora da tutta la Cristianità». Altrettanto decisivo fu però il disegno colbertiano di sottrarre alla Spagna l’appoggio del Banco di San Giorgio, subentrato nel 1557 ai Fugger come finanziatore dei Re Cattolici. Vari incidenti con le batterie costiere genovesi verificatisi durante la guerra navale franco-olandese acuirono la tensione e nel 1679 il rifiuto genovese di rendere gli onori alla squadra francese provocò per rappresaglia la distruzione a cannonate dei palazzi nobiliari di Sampierdarena usati per la villeggiatura. Fin dal 1681 la Francia preparò accuratamente i piani di un attacco risolutivo, e tutte le fortificazioni genovesi furono accuratamente rilevate da decine di ingegneri militari, travestiti da pittori, ambulanti e religiosi, coordinati dall’ambasciatore francese, François de
storia Saint-Olon (1640-1720), che fu pure il principale se, e circa un terzo degli edifici fino a Oregina fu referente e protettore di Marana. Il pretesto per l’at- distrutto o gravemente danneggiato; ma la metà delle tacco, già deciso dal re nel maggio 1683 anche se bombe rimase inesplosa e lo sbarco di 4.000 marines poi l’esecuzione slittò di un anno, fu l’asserita viola- fu inchiodato sul bagnasciuga dall’incazzata milizia zione della neutralità da parte di Genova, per aver paesana della Val Polcévera, che scannò poi scrupolofornito munizioni ad Algeri (bombardata dalla flot- samente tutti i malcapitati rimasti a terra. ta francese nel 1681 e 1683 e poi ancora nel 1688) Diversamente dai bombardieri umanitari moderni, e aver consentito il transito dei rinforzi spagnoli Duquesne e Segnelay L’art de jetter les bombes di diretti in Fiandra. Spopolata dalla peste e dalle François Le Cointe Blondel (1618-1686) se l’erano carestie, oppressa dall’oligarchia e scardinata e studiato e quindi sapevano che oltre alle artiglierie da corrotta dalla tirannide giudiziaria, la famigerata far sfilare in parata sui Campi Elisi ci volevano pure “città delle congiure”, testimoniate dalle colonne le munizioni: ma neppure loro avevano il pozzo di infami erette ad ogni cantone, non poteva permet- San Patrizio e, una volta finite le bombe, dovettero tersi la superba risposta del dare alla vela e tornarsene a doge Lercari alle intimazioni Hyères senza aver nulla conclufrancesi. Anche allora era so. In realtà finì con un compromeglio non “avere una messo mediato dal papa e banca” senza i mezzi per accettato dalla Francia per non difenderla. Reduce dal seconfar troppo godere il Terzo, che do bombardamento di Algeri e allora era soltanto la Porta. comandata dall’ammiraglio e Genova cambiò il cliente unico, armatore ugonotto Abraham e più Superba che pria, si tenne Duquesne (1604/10-1688) e la banca e il suo orrendo sistedal marchese di Segnelay ma politico. La vittoria borboBombardamento di Genova 1684 (1651-90), figlio omonimo e nica nella guerra di successione successore di Jean Baptiste Colbert (1619-83), spagnola (1700-1714) le recuperò poi pure le rotte e i l’Armata dei Diritti Umani & dei Fondi Sovrani si commerci iberici e atlantici e la Francia la difese presentò di fronte a Genova il mattino del 17 mag- durante l’assedio austro-sardo del 1746-47 (quello di gio 1684. Centosessanta navi da guerra e da traspor- “Balilla”). La Francia continuò a bombardare Algeri to schierate dalla Lanterna alla foce del Bisagno: fin quando non se la prese nel 1830 per esserne cacciadavanti 10 batterie galleggianti (“pallandre”) armate ta nel 1962, con la vergogna e il disonore incisi per coi devastanti mortai Tomahawk da 330 mm e pro- sempre nella memoria dell’umanità da uno dei capolatette da decine di scialuppe guarnite di moschettieri, vori del cinema italiano. Nella “favola senza senso, più indietro 20 galere e 16 vascelli, per complessive raccontata da un idiota” che culla la quotidiana tristez756 bocche da fuoco, con 27 tartane e 72 barche per za del mondo, il bombardamento di Genova aggiunse il rifornimento di munizioni. un’altra scena alle danze del re Sole, non più solo Apollo ma pure Giove, raffigurato, sulla medaglia Il bombardamento durò ininterrottamente dieci commemorativa, nella posa del Cristo della Cappella giorni e dieci notti, dal 18 al 28 maggio. Gli incendi Sistina, cinto di nembi e assiso sul dorso di un’aquila, illuminavano le tenebre al punto che a bordo delle nell’atto di scagliar fulmini sulla Superba, già in fiamnavi si poteva leggere Polibio e Racine. Il compound me sotto il fuoco delle navi. La legenda recita: Vibrata dogale, trasformato in magazzino delle polveri, esplo- in superbos fulmina. Genoa emendata, MDCLXXXIV. 73
la libreria
libreria
IL MADE IN ITALY PRIMEGGIA NELLO SPAZIO E NESSUNO LO SA di Mario Arpino
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li italiani sono stati ormai convinti di come tutto, qui da noi, stia andando male. Anni di auto denigrazione e un’odiosa contrapposizione politica ci hanno portato a questo. Invece non è vero. Ci sono tante cose che vanno benissimo, ed altre che tutto il mondo ci invidia. Ad esempio, uno dei settori in cui primeggiamo da sempre a livello globale è lo Spazio. Ma nessuno lo sa, perché nessuno ce lo dice. Avete mai visto una sola prima serata, o anche seconda, dove, invece del “pollaio” con i soliti insulti, vada in onda quello che sappiamo fare nello Spazio? Non farebbe audience, ci è stato detto da fonte autorevole. Se non ci avessero pensato il Santo Padre e il Presidente della Repubblica, perfino le recenti imprese dei nostri astronauti sarebbero passate sotto traccia. Certo, non abbiamo lanciato noi lo Sputnik, non abbiamo fatto girare il primo cosmonauta attorno alla Terra, nè siamo stati noi a sbarcare sulla Luna. Ma nel settore abbiamo riconosciute eccellenze, ottime tecnologie d’avanguardia e siamo stati i padri e i realizzatori di un gran numero di iniziative di successo. Stiamo parlando di Spazio, non di moda, di arredamento o di calzature, dove pure ci facciamo onore. E scusatemi se è poco! Ben venga allora un libro-intervista come quello di Carlo Ferrone, dove, colloquiando con il professor Carlo Buongiorno, viene alla luce,
CARLO FERRONE Carlo Buongiorno, lo spazio di una vita LoGisma editore pagine 295 • euro 20 Libro-intervista al primo direttore generale dell’Agenzia spaziale italiana. L’autore, Enrico Ferrone, è ingegnere aeronautico laureato all’Università Federico II di Napoli, e segretario generale dell’Ugai, Unione giornalisti aerospaziali italiani. Ha pubblicato i volumi “Tra cielo e Mare, idrovolanti e anfibi nell’aviazione mondiale” e “Il volo a Napoli tra passato e futuro”, per l’Istituto Bibliografico Napoleone.
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Risk senza pompa o magnificat, tutta la lunga storia aerospaziale italiana, dal precursore professor Luigi Broglio, generale ingegnere del Corpo del Genio dell’Aeronautica Militare, fino ai successi dei giorni nostri. Se in patria nessuno è profeta, per fortuna i riconoscimenti ci vengono dall’estero. Jean-Jacques Dordain, appena riconfermato direttore generale dell’agenzia spaziale europea (Esa), ritiene Carlo Buongiorno uno degli architetti del programma spaziale italiano, formulato quando, prima di diventare il padre fondatore dell’Agenzia Spaziale Italiana (Asi), era stato alla guida del Piano Spaziale Nazionale per il nostro ministero della Ricerca. Quale delegato nazionale all’Esa, pur non stancandosi mai di tutelare gli interessi italiani, viene a tutt’oggi ricordato come una delle colonne portanti dello sviluppo del programma spaziale europeo. Negli Stati Uniti, il professor Buongiorno già negli anni Settanta godeva della fama di uno tra i maestri mondiali nel campo dei lanciatori. Negli anni Sessanta, negli Usa era già coinvolto in attività legate ai razzi sonda poi utilizzati nel progetto San Marco del generale Broglio. Nel 1964 a Wallops Island curava il primo lancio dello Scout, per poi trasferirlo sulla piattaforma di lancio italiana in mare aperto, in prossimità delle coste del Kenya. Tanto tempo è ormai trascorso, e oggi direttore generale dell’Asi, nel cui consiglio di amministrazione è ancora attivo Carlo Buongiorno, è l’ingegner Enrico Saggese. «Quale allievo di Luigi Broglio, il padre fondatore delle attività spaziali italiane – commenta – Carlo è sempre stato al centro e al vertice di quelle pionieristiche gesta che hanno fatto del nostro Paese la terza nazione al mondo dopo Usa e Urss a mettere in orbita, nel 1964, un satellite artificiale. Si tratta di persone che sono state in grado di vedere lontano, molto oltre il loro presente, e pensare con scientifica immaginazione quel futuro che è oggi per noi una realtà quotidiana. I loro progetti – 76
continua Saggese – hanno permesso al nostro Paese di crescere e stare al passo con i partner europei e internazionali, in una posizione che forse non speravamo di raggiungere, ma che oggi cerchiamo di consolidare e di mantenere». E, come vedremo in seguito, ci stiamo riuscendo. Per gli appassionati, ricordiamo solo alcuni dei progetti allora realizzati dalla neonata Asi, quali il satellite al guinzaglio “Tethered”, i due satelliti di telecomunicazioni Italsat, il satellite scientifico Beppo-Sax, il motore di apogeo Iris e il laboratorio Spacelab. Dopo questa digressione, ritorniamo al libro-intervista di Enrico Ferrone. Sono 295 pagine che, per coloro che hanno seguito negli anni le questioni spaziali, sono ricche di eventi, di fatti e di emozioni. Sono pagine di storia, lo è persino quella con l’indice dei nomi, perché, sebbene si tratti per la maggior parte di personaggi ancora vivi e vegeti ai giorni nostri, ciascuno di essi rappresenta una pietra miliare nell’avventura spaziale nazionale. L’intervista, con numerose digressioni, si articola su tredici capitoli, cui sono da aggiungere prefazioni e postfazioni di estremo interesse e attualità, quali sono quelle dei già citati Jean-Jacques Dordain ed Enrico Saggese, e di Luigi Pasquali e Francesco Depasquale, rispettivamente amministratori delegati di Thales Alenia Space Italia e Elv S.p.A., prime contractor del progetto del nuovo lanciatore spaziale italo-europeo Vega. È una lunga cavalcata attraverso tutte le vicissitudini dell’aerospazio – non si parla solo di satelliti, ma anche di vettori, di poligoni, di aeroplani e di motori – che va dall’epoca di von Braun e della sua V.2 fino ai giorni nostri, in cui veder partire uno Shuttle o una Soyuz , oppure lanciare un satellite per l’osservazione della terra, delle comunicazioni o dell’osservazione meteorologica appare quasi banale. Ma non è stato sempre così. Si è trattato di un cammino faticoso, costoso, ricco di collaborazioni internazionali ma anche di accese rivalità,
libreria di ingegno, di coraggio e di sacrificio, di cui Carlo Buongiorno, un buon italiano – di queste nostre primogeniture spesso ci dimentichiamo – è stato testimone costante. Alle domande argute, ma sempre professionali, poste da un giornalista esperto nel settore quale è Enrico Ferrone, l’intervistato risponde sempre con la stessa arguzia, andando spesso – quando le circostanze o l’importanza dell’argomento lo richiedono – ben oltre lo stesso quesito. Ciò che sorprende è la semplicità con cui Buongiorno riesce a rendere accessibili cose difficili, e la capacità che ha di “umanizzare” ogni argomento, nel senso che ogni passo avanti viene sempre posto come conquista non materiale, ma soprattutto spirituale e culturale, da parte di tutto il genere umano. È l’essere umano, non un’astratta tecnologia, al centro del progresso dell’umanità, di cui la conquista dello Spazio – sia pure con molti limiti – sembra essere un anelito irrinunciabile. Attorno a ogni programma – e, anche limitandoci a quelli italiani, che ormai sono molti - il lettore scopre così tutta una serie di episodi riferiti al contesto temporale, storie inedite, bizze della politica, dispute scientifiche, problematiche di finanziamenti, alleanze europee, necessità di scegliere tra francesi e americani o di collaborare con entrambi. Ma, anche questo presenta problemi, la partita spaziale oggi non si gioca più tra America, Russia ed Europa, ma si prospettano in termini indiscutibili le capacità emergenti di paesi come Cina, !ndia, Giappone e Brasile, incrementando la necessità di coordinamento, di chiarezza di obiettivi (chi fa che cosa) e di trasferimento di tecnologie. Queste sono e rimarranno le problematiche politico-industriali per una conquista coordinata dello Spazio, non ostante l’innegabile buona volontà della comunità scientifica internazionale. Un significato non palese che nascondono tutti i quesiti e tutte le risposte di questa lunga intervista è se valga davvero la pena tendere allo Spazio,
se i costi ed i sacrifici necessari davvero valgano la candela. Anche la risposta è implicita, ma la si trova sempre ed è positiva. Si deve così concludere che guardare al di là dell’atmosfera significa conquistarsi un ruolo globale. Vuol dire proporre e conseguire strumenti trainanti sia in termini diretti, pensiamo alle telecomunicazioni, alla navigazione, all’osservazione della terra, alla meteorologia, vuoi in termini indiretti, come lo sviluppo delle nanotecnologie, delle colture nel vuoto e dei materiali sperimentali. Per non parlare delle applicazioni duali, quelle che sono anche utilizzabili in ambito militare, sia tattico che strategico. La nostra industria in questo si fa onore, se diversi moduli importanti della stazione spaziale internazionale sono stati progettati e costruiti in Italia, e persino alcune navette automatiche di servizio tra la terra e la stazione sono made in Italy. Ora con il vettore Vega, capace di trasportare in orbita satelliti di una tonnellata e mezzo, stiamo acquisendo una posizione di rilievo anche nell’accesso allo Spazio. Sia il vettore che la stazione di lancio e di controllo di Kourou, infatti, sono realizzazione di Società italiane, che da tempo operano come prime contractor. Primeggiamo anche nel volo umano e nella ricerca scientifica, sia con lo Spettrometro Magnetico Alfa, per la ricerca dell’antimateria, sia con la serie di esperimenti pianificati congiuntamente dall’Asi e dall’Aeronautica Militare a bordo della stazione spaziale. L’ing. Paolo Nespoli ed il colonnello pilota dell’A.M. Roberto Vittori, qualificati sia sullo Shuttle che sulla Soyuz, sono due veterani dello Spazio che ormai tutto il mondo conosce e riconosce. Senza i cinquant’anni dedicati allo Spazio dal professor Carlo Buongiorno e, prima, senza la tenacia de professor Luigi Broglio, entrambi ufficiali ingegneri dell’Aeronautica, probabilmente l’Italia non avrebbe mai conseguito questi successi. 77
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ATTILIO PICCIONI, UNA VITA PER LA LIBERTÀ Il politico che si impegnò a mantenere l’Italia saldamente collocata nell’area delle democrazie occidentali di Giancristiano Desiderio
Il 6 settembre 1946 torna in Italia, dopo un lungo esilio durato ventidue anni, Luigi Sturzo. Il prete di Caltagirone che nel 1919 fondò il Partito popolare italiano avrebbe potuto far ritorno in patria anche prima, ma ostacoli di vario genere e natura gli impedirono il viaggio. In Italia lo attendevano in tanti. Tra questi, il suo vecchio amico Attilio Piccioni che aveva ricevuto la corrispondenza americana di Sturzo da New York e sapeva, dunque, quanto negli Stati Uniti si pensava sulla Democrazia cristiana e sulla politica italiana. L’amicizia che lega Attilio Piccioni a Luigi Sturzo è grande e di lunga data: così Piccioni parte per Napoli per riabbracciarlo subito con lo sbarco della motonave Vulcania proveniente dalla città statunitense. L’incontro, com’è naturale in questi casi, è commovente, anche se lo stesso Sturzo pone quasi subito fine alle felicitazioni perché, per il suo cuore malandato e debole, teme le emozioni troppo forti. Così, salito sull’auto di Scelba, si mette subito in viaggio per Roma. L’incontro dopo oltre venti anni tra Sturzo e Piccioni - il quale da lì a poco subentrerà ad Alcide De Gasperi alla guida della Dc, mentre il leader democristiano formerà il suo IV governo mettendo fine alla “coabitazione forzata” con comunisti e socialisti - è significativo per la comprensione della storia italiana, per le scelte di libertà compiute in quegli anni e, naturalmente, per capire l’impegno e l’azione politica di Piccioni. Tuttavia, chi era Attilio Piccioni? Quasi nessuno ricorda, come invece va fatto, il suo contributo determinante nella costruzione della democrazia in Italia e il suo forte e convinto lavoro per mantenere il nostro Paese - la nostra Patria, come diceva e scriveva giustamente, e con maggior verità, lo stesso Piccioni - collocato saldamente e 78
fieramente nell’area delle democrazie occidentali. Il suo nome è ricordato ingiustamente solo per il “caso Montesi”: ah, ecco chi era Attilio Piccioni. Il politico cattolico il cui figlio Piero fu coinvolto ingiustamente - tanto che poi la giustizia lo riconobbe estraneo ai fatti e dunque innocente - nel delitto di Wilma Montesi: la ragazza romana trovata morta la mattina dell’11 aprile 1953 sulla spiaggia di Ostia. Una storia giudiziaria diventata suo malgrado politico-giudiziaria per l’uso che ne fu fatto proprio contro Attilio Piccioni che, da parte sua, rispose con grande dignità e la serietà che contraddistinse la sua lunga vita al servizio dell’Italia e della libertà degli italiani. Allora, questo libro di Gabriella Fanello Marcucci - Attilio Piccioni. La scelta occidentale. Vita e opere di un padre della Repubblica, liberal edizioni - è un sacrosanto tributo a un uomo politico il quale, “usando un’espressione manzoniana, potrebbe essere definito più famoso che conosciuto”. Il libro della giornalista ripercorre tutta la vita di Piccioni a più di cento anni dalla sua nascita e a oltre trenta dalla sua scomparsa. Attilio Piccioni nasce a Poggio Bustone il 14 giugno 1892 e muore il 10 marzo 1976. Le date sono importanti perché, come si vede, di mezzo c’è quasi tutto il Novecento con le sue due guerre mondiali, il fascismo, il comunismo, la guerra civile, la repubblica. Attilio Piccioni, il nono di dieci figli di due maestri elementari, Giuseppe Piccioni e Gaetana Fabiani due di quei maestri che, si può dire senza temere la retorica, con i loro insegnamenti elementari e il loro amore per i bambini (i due facevano scuola nella cucina della loro casa a Poggio Bustone nel territorio di Rieti) fecero l’Italia unita - attraversa tutto la lunga storia del “secolo breve” e lo fa con la consapevolezza che una vita vissuta senza lotta per la libertà non è degna di essere vissuta. È questo, senz’altro, il tratto caratterizzante la vita e il pen-
libreria siero dell’avvocato Piccioni che da cristiano, e proprio perché cristiano, coltiverà sempre una visione laica della politica e della vita di partito. Il volume di Gabriella Fanello Marcucci, giornalista e storica che ha dedicato non poca fatica alla ricostruzione del movimento politico dei cattolici italiani, è scrupoloso, documentato, filologicamente ineccepibile, vien da scrivere. Il percorso biografico, politico e umano di Attilio Piccioni è seguito passo passo e ricostruito con precisione: il lettore vedrà apparire gradualmente davanti agli occhi della sua mente la forte fisionomia politica di Piccioni: dal suo primo impegno nel dopoguerra a Torino alla lotta antifascista - fu lucida la sua precoce analisi del pericolo della violenza mussoliniana - dall’elezione nell’Assemblea costituente, alla segreteria della Democrazia cristiana agli impegni di governo. Ma ritorniamo al momento del ritorno di Sturzo dall’America, alla segreteria della Dc e al IV governo De Gasperi. Come a Torino nel dopo guerra fondò Il pensiero popolare, così alla fine del 1946 Piccioni appena subentrato a De Gasperi alla guida della Dc fonda il settimanale Popolo e libertà, titolo tutto “sturziano”. Sul numero 3 del 19 gennaio 1947 proprio Luigi Sturzo firma un fondo intitolato “America-Italia, conoscersi-apprezzarsi”. La segreteria politica della Dc di Piccioni è tutto improntata a questa indirizzo di pensiero: l’Italia è e deve continuare ad essere una democrazia libera.
Attilio Piccioni aveva perfetta contezza della situazione italiana e internazionale, tanto che è l’artefice della fine della “coabitazione forzata” con le sinistre di Togliatti e di Nenni. Al momento della votazione del governo che metterà comunisti e socialisti all’opposizione, sarà proprio Piccioni a giustificare con un suo discorso - che si può definire storico - la necessità di varare il IV governo De Gasperi per difendere prima di tutto la libertà: «Io rispondo sta rispondendo a Togliatti, ndr - che viviamo in un sistema democratico, in una ripresa di vita democratica che noi vogliamo salvaguardare con tutte le nostre forze; mancheremmo a tutta la nostra azione passata, a tutte le nostre promesse e garanzie del periodo di liberazione, al nostro dovere, se non fossimo custodi rigidi e inflessibili dei principii e delle forme di autentica democrazia. Io rispondo, all’onorevole Togliatti, che non esiste un problema della Democrazia cristiana o del Partito liberale o di qualsiasi altro partito; sarà la funzione interna del sistema democratico, nel rispetto della sua legalità, che determinerà quello che è il posto e la funzione di ciascun partito». A me piace pensare - e ho motivi per credere sia vero - che questo amore per la libertà, che poi è simpatia per un senso umano delle cose di questo mondo, Attilio Piccioni lo abbia appreso in quella cucina della casa di Poggio Bustone dove i maestri Giuseppe e Gaetana facevano scuola ai bambini e alla bambine del paese e ai loro dieci figli.
GABRIELLA FANELLO MARCUCCI Attilio Piccioni la scelta occidentale Vita e opere di un padre della Repubblica liberal edizioni pagine 521 • euro 20 Quasi nessuno ricorda il determinante contributo di Attilio Piccioni nella costruzione della democrazia in Italia o il suo impegno per mantenere il Paese saldamente collocato nell’area delle democrazie occidentali. Spesso, infatti, a sentirlo nominare, si pensa unicamente a un ostacolo che qualcuno pose sulla sua strada per impedirne il cammino: il «caso Montesi». A più di cento anni dalla sua nascita e a oltre trenta dalla sua scomparsa, il libro ricostruisce la figura di Piccioni alla luce delle memorie documentarie rimaste in fondi politici e personali. Nella narrazione, la parola viene ceduta a Piccioni stesso, riportando testualmente le sue parole. È questo un metodo, scelto dall’autrice per farlo conoscere direttamente, per mettere i lettori in contatto col suo pensiero acuto e spesso premonitore, piuttosto che sentirlo raccontato.
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del numero
LUISA AREZZO: giornalista, caporedattore esteri di liberal MARIO ARPINO: generale, già capo di Stato Maggiore della Difesa VINCENZO CAMPORINI: generale, consigliere militare del ministro degli Esteri, già capo di Stato Maggiore della Difesa GIANCRISTIANO DESIDERIO: giornalista e scrittore, ha curato il libro La libertà della scuola di Luigi Einaudi e Salvatore Valitutti MATTIA FERRARESI: giornalista, corrispondente dagli Stati Uniti per Il Foglio MARIA EGIZIA GATTAMORTA: analista internazionale, esperta di Africa e Mediterraneo RICCARDO GEFTER WONDRICH: esperto di America Latina FREDERICK W. KAGAN: resident scholar all’American Enterprise Institute, già professore di Storia militare a West Point KIMBERLY KAGAN: fondatrice e presidente dell’Institute of Study of War di Washington VIRGILIO ILARI: già docente di Storia delle Istituzioni Militari all’Università Cattolica di Milano ALESSANDRO MARRONE: ricercatore presso lo Iai - Istituto Affari Internazionali nell'Area Sicurezza e Difesa ANDREA NATIVI: analista militare e giornalista AHMED RASHID: giornalista e scrittore, uno dei massimi esperti di Afghanistan ABDEL HUSSEIN SHAABAN: intellettuale ed accademico iracheno. Nei suoi scritti si è occupato di democrazia e diritti umani, riforme e questioni della società civile STEFANO SILVESTRI: presidente dell’Istituto Affari Internazionali (Iai)
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Towards a safer world.
Un progetto per una mobilità capillare, che integra ed estende le tradizionali reti di trasporto pubblico
Quando avrete finito di leggere questa pagina, da qualche parte nel mondo sarà decollato o atterrato un aereo costruito da Alenia Aeronautica o con la sua partecipazione. Che si tratti di un turboelica regionale, di un caccia multiruolo, di un velivolo da trasporto militare, di un jet di linea, di un aereo per missioni speciali o di un sistema a pilotaggio remoto, quell’aereo è caratterizzato dai materiali avanzati, dal supporto completo, dalla sostenibilità economica e dal rispetto ambientale che Alenia Aeronautica ha maturato in un percorso nato con l’aviazione stessa.
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Mario Arpino
Vincenzo Camporini
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Giancristiano Desiderio
Mattia Ferraresi
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AFGHANISTAN, LE OMBRE DEL RITIRO
Luisa Arezzo
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maggio-giugno
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La lunga estate di Kabul Gli Usa si preparano all’exit strategy. Tutti i rischi di una scelta difficile MARIO ARPINO
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Si può abbandonare Karzai al proprio destino? Forse, ma prima di andare via bisogna stabilire gli obiettivi STEFANO SILVESTRI
Maria Egizia Gattamorta
Le tre scelte di Obama Small, medium o large: Washington sta decidendo la “taglia” della ritirata MATTIA FERRARESI
Riccardo Gefter Wondrich
AFGHANISTAN LE OMBRE DEL RITIRO
Frederick W. Kagan
Kimberly Kagan
Virgilio Ilari
Alessandro Marrone
Michele Nones
Ahmed Rashid
Abdel Hussein Shaaban
Stefano Silvestri
RISK MAGGIO-GIUGNO 2011
Andrea Nativi
Bin Laden è morto ma al Qaeda no Se prima non si neutralizzano i terroristi sarà un disastro FREDERICK W. KAGAN, KIMBERLY KAGAN
Tripoli-Bengasi è l’ora di un accordo Vincenzo Camporini
Stato palestinese illusione ottica Pierre Chiartano
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