Assicurazione infortuni e principio indennitario 1
nella giurisprudenza Dr. Marco Rossetti
Sulla questione della natura dell’assicurazione contro gli infortuni la giurisprudenza ha seguito uno sviluppo che possiamo dividere in tre fasi. (A) In una prima fase (dagli inizi del secolo alla fine degli anni ’50) la Cassazione, nelle non molte occasioni in cui fu chiamata a pronunciarsi sul punto, non ebbe dubbi nel sussumere l’assicurazione contro gli infortuni (allora chiamata contro le “disgrazie accidentali”) nell’ambito dell’assicurazione sulla vita. I giudici pervenivano a tale conclusione sulla base essenzialmente di due argomenti: (a) l’infortunio è un evento attinente la vita umana; (b) l’indennizzo nell’assicurazione infortuni non è parametrato ad un valore effettivo e reale, ma è liberamente pattuito dalle parti. Tale ultima osservazione, a sua volta, riposava sull’opinione che riteneva ripugnante al diritto ed alla morale attribuire un valore al corpo dell’uomo. Questo orientamento, formatosi, nella vigenza del codice di commercio del 1882, venne recepito pressoché integralmente dalla giurisprudenza successiva all’entrata in vigore del codice civile del 1942. La sentenza capostipite in tal senso è Cass. Roma 26.5.1906, in Foro it., 1906, I, 780. Successivamente la Cassazione tornò ad occuparsi della questione con le decisioni rese da Cass. 9.12.1936 n. 3303, in Assicurazioni, 1937, II, 204; Cass. 27.4.1937 n. 1343, in Assicurazioni, 1937, II, 294 (con più ampia motivazione); Cass. 2.2.1938 n. 336, in Assicurazioni, 1938, II, 270; Cass. 12.7.1939 n. 2495, in Assicurazioni, 1940, II, 61.
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Il presente testo costituisce un estratto, con gli aggiustamnti del caso, dal Trattato di diritto delle assicurazioni private, in corso di pubblicazione per i tipi della Zanichelli.
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(B) In una seconda fase, durata grosso modo dall’inizio degli anni ’60 al 2002, la Corte di Cassazione ha tenuto un atteggiamento alquanto singolare. In astratto, ha continuato a prestare ossequio formale al principio secondo cui l’assicurazione contro gli infortuni rientra nel genus dell’assicurazione sulla vita2. Tuttavia proprio nel momento in cui la S.C. dichiarava di prestare ossequio a tale principio, di fatto lo ha continuamente e progressivamente eroso, fin quasi ad abbandonarlo del tutto. Cominciò Cass. 19.5.1951 n. 1259, in Assicurazioni, 1952, II, 2, 7. ad affermare che gli schemi dell’assicurazione sulla vita non possono essere “applicati in pieno” all’assicurazioni infortuni, e di lì a poco Cass. 7.6.1951 n. 1457, in Assicurazioni, 1952, II, 2, 17, ammise incidenter tantum che l’assicurazione infortuni “dal punto di vista giuridico si può distinguere dalla vera e propria assicurazione sulla vita”. Sorse così la tesi tenuta ferma per i successivi quarant’anni della Corte di cassazione:
assicurazione
infortuni
ed
assicurazione
vita
sono
accomunate non da identità, ma da semplice affinità. Con la tesi della affinità, di fatto, la Cassazione si è lasciata le mani libere per decidere caso per caso se e quali norme dettato per l’uno o l’altro tipo di assicurazione fossero applicabili all’assicurazione contro gli infortuni. Dire infatti che l’assicurazione infortuni era “affine” a quella sulla vita significava da un lato tenere fermo il vecchio principio, ma dall’altro ammettere che ad esso si potesse derogare in ragione delle circostanze del caso concerto. Fu così che in applicazione di questo principio (o piuttosto dogma) dell’affinità, la Corte a più riprese allontanò sempre più l’assicurazione infortuni da quella sulla vita: vuoi negando l’applicabilità alla prima di norme dettate per la seconda, vuoi estendendo all’assicurazione infortuni norme dettate per l’assicurazione danni. 2
Per una attenta ricostruzione di questa fase, fino al 1970, si veda GAMBOGI, Sulla giurisprudenza della Cassazione italiana in tema di assicurazione privata contro gli infortuni, in Studi Donati, vol. II, Roma, 1970, 313.
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In particolare: (-) con riferimento alle conseguenze del mancato pagamento del premio, si è esclusa l’applicabilità all’assicurazione infortuni dell’art. 1924 c.c., ritenendo invece applicabile l’art. 1901 c.c.3; (-) con riferimento alle conseguenze al mutamento di professione dell’assicurato, si è esclusa l’applicabilità all’assicurazione infortuni dell’art. 1926 c.c.4; (-) con riferimento alle conseguenze dell’omissione dell’obbligo di avviso, si è ritenuta applicabile anche all’assicurazione contro gli infortuni la previsione di cui all’art. 1915 c.c.5; (-)
con
riferimento
alle
conseguenze
del
ritardato
pagamento
dell’indennizzo, si è qualificata l’obbligazione dell’assicuratore come debito di valore e non di valuta (quale è invece il debito d’indennizzo nell’assicurazione vita), sul presupposto che anche l’assicurazione infortuni rientra nell’assicurazione contro i danni6. Operando in questo modo la Corte di legittimità, al di là di qualsiasi affermazione di principio, ha di fatto finito per aderire nella sostanza alla tesi del contratto misto, delineando per l’assicurazione infortuni uno statuto giuridico composto sia da norme tratte dalla disciplina dell’assicurazione
vita,
sia
da
norme
tratte
dalla
disciplina
dell’assicurazione contro i danni.
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Cass. 13.11.1964 n. 2735, in Assicurazioni, 1965, II, 2, 59, nonché ivi, 231, con nota di TONNI, Il mancato pagamento del premio nell’assicurazione facoltativa infortuni; Cass. 19.10.1967 n. 2551, in Assicurazioni, 1968, II, 2, 61 (ove si afferma che la sussunzione dell’assicurazione infortuni nell’assicurazione sulla vita “non è di ostacolo” ad un diverso trattamento nella sua specifica regolamentazione); Cass. 27.5.1971 n. 1526, in Assicurazioni, 1971, II, 2, 272; Cass. 15.6.1973 n. 1747, in Assicurazioni, 1973, II, 2, XLIV, massima 59; Cass. 27.6.1975 n. 2542, in Assicurazioni, 1076, II, 2, 24; e soprattutto Cass. 13.5.1977 n. 1883, in Assicurazioni, 1978, II, 2, 197, ove per la prima volta si proclama una diversità “ontologica e di struttura” tra l’assicurazione sulla vita e quella contro gli infortuni. 4 Cass. 27.11.1979 n. 6205, in Assicurazioni, II, 2, 105. Contra, invece, si era pronunciato Trib. Milano 30.3.1963, in Assicurazioni, 1964, II, 2, 43, con nota di DURANTE, Appunti sulla natura giuridica dell’assicurazione infortuni. 5 Cass. 4.3.1978 n. 1078, in Assicurazioni, 1978, II, 2, 167. 6 Cass., 03-05-1986, n. 3017, in Giust. civ., 1986, I, 2831; Cass., 26-01-1988, n. 661, in Foro it. Rep. 1988, Assicurazione (contratto), n. 99.
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Come si è accennato, il passaggio dalla tesi della identità tra assicurazione vita ed infortuni a quello della mera affinità non è stato senza contrasti e passi di gambero7. L’opinione secondo cui l’assicurazione contro gli infortuni non avrebbe alcun elemento in comune con l’assicurazione contro i danni, ma rientra senza residui nel genus dell’assicurazione sulla vita ha costituito il fondamento di varie decisioni aspramente criticate in dottrina, come allorché si è ripetutamente ritenuto applicabile all’assicurazione infortuni l’art. 1920 c.c.8; ovvero si è esclusa l’applicabilità dell’art. 1907 c.c. all’assicurazione infortuni per il caso di invalidità9; od ancora si è escluso che l’assicuratore infortuni fosse tenuto a rifondere all’assicurato le spese di cura, ai sensi dell’art. 1914, comma 2, c.c.10; oppure si è negata la pignorabilità delle somme dovute a titolo di indennizzo dall’assicuratore contro gli infortuni11; od, infine, si è condizionata la validità dell’assicurazione infortuni all’assenso del terzo portatore del rischio, ex art. 1919, comma 2, c.c.12 (C) La terza fase della giurisprudenza di legittimità si inaugura nel 2002, con l’intervento delle Sezioni Unite13. Queste ultime, sanando i precedenti 7
L’applicabilità integrale all’assicurazione contro gli infortuni della disciplina dell’assicurazione sulla vita è stata ribadita, sia pure obiter dictum, ancora da Cass. 18 giugno 1998, n. 6062, in Dir. ed economia assicuraz., 2000, 281, nonché da Cass. 24.4.1974 n. 1175, in Assicurazioni, 1975, II, 2, 223; da Cass. 8.11.1979 n. 5755, in Assicurazioni, 1980, II, 2, XI, massima 13, e da Cass. 28.7.1980 n. 4851, in Assicurazioni, 1980, II, 2, XCIV, massima 121. Ancor più recisamente, Cass. 5.7.1968 n. 2285, in Assicurazioni, 1969, II, 2, 235 affermò che l’assicurazione infortuni condivideva con quella sulla vita “l’obietto e le finalità” 8 Cass., sez. I, 10-11-1994, n. 9388, in Giust. civ., 1995, I, 949; Cass., sez. I, 01-04-1994, n. 3207, in Dir. ed economia assicuraz., 1994, 967; Cass. 4.4.1975 n. 1205, in Assicurazioni, 1975, II, 2, 269. La tesi della identità tra assicurazione vita ed infortuni è stata altresì sostenuta, nella giurisprudenza di merito, da Trib. Roma, 12-05-1998, in Assicurazioni, 1999, II, 2, 249, e da Trib. Catania, 15-07-1989, in Arch. civ., 1990, 1152. 9 Cass., 18-02-1982, n. 1022, in Foro it. Rep. 1982, Assicurazione (contratto), n. 127. 10 Cass. 17.9.1979 n. 4788, in Assicurazioni, 1979, II, 2, LXVI, massima 99. 11 Cass. 15.11.1960 n. 3048, in Assicurazioni, 1961, II, 2, 151. Costituisce, assieme a Cass. 2095/61, citata alla nota 12, la decisione contenente il maggior sforzo motivazionale per sostenere la tesi dell’identità tra assicurazione infortuni ed assicurazione vita. 12 Cass. 12.10.1961 n. 2095, in Assicurazioni, 1962, II, 2, 47. 13 Cass., sez. un., 10-04-2002, n. 5119, in Foro it., 2002, I, 2039; la sentenza, per la sua importanza è stata pubblicata da molte Riviste e può leggersi anche in Assicurazioni, 2002, II, 2, 105; in Danno e resp., 2002, 836, con nota di BITETTO; in Corriere giur., 2002, 893, con nota di SEGRETO; in Giust. civ., 2002, I, 1816; in Resp. civ., 2002, 677, con nota di BUGIOLACCHI; in Dir. e giustizia, 2002, fasc. 21, 17, con nota di HAZAN e SANTELIA. In seguito all’intervento delle SS.UU., hanno aderito al nuovo orientamento da queste inaugurato Cass., sez. III, 09-03-2006, n. 5102, in Foro it. Rep. 2006, Assicurazione (contratto),
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contrasti, hanno nella sostanza aderito alla tesi del Fanelli, sopra ricordata, secondo cui l’assicurazione infortuni sarebbe un contratto misto o “a doppia causa”. Secondo la Cassazione infatti nella sua tipicità sociale l’assicurazione infortuni copre due rischi diversi: quello di morte e quello
di
invalidità.
Tale
diversità
dei
rischi
coperti
comporta
l’assoggettamento del contratto ad una disciplina di tipo misto: (a) l’assicurazione contro il rischio di infortuni produttivi di invalidità è un’assicurazione contro i danni, alla quale si applicherà il principio indennitario e l’intero “statuto” dell’assicurazione contro i danni; (b) l’assicurazione contro il rischio di infortuni mortali invece è un’assicurazione sulla vita, alla quale si dovrà applicare la disciplina di quest’ultima (artt. 1919 e ss. c.c.). La motivazione della sentenza 5119/02, cit., perviene alle conclusioni sopra esposte utilizzando larga parte degli argomenti già adottati dalla dottrina per contrastare il vecchio orientamento che assimilava l’assicurazione infortuni a quella sulla vita. L’affermazione che l’assicurazione contro gli infortuni non mortali rientra nell’assicurazione contro i danni viene fondata sui seguenti argomenti: (a) l’art. 1882 c.c., quando definisce l’assicurazione contro i danni come quella in virtù della quale l’assicuratore si obbliga a rivalere l’assicurato del danno ad esso prodotto da un sinistro, non fa riferimento solo ai danni alle cose, ma anche i danni alla persona; (b) per contro, il riferimento del medesimo art. 1882 c.c. agli eventi attinenti la vita umana, quali presupposto dell’assicurazione sulla vita, va inteso con esclusivo riferimento ai fatti concernenti la morte o la sopravvivenza;
n. 149; Cass., sez. III, 19-07-2004, n. 13342, in Giur. comm., 2005, II, 594, con nota di CORRIAS, e Cass., sez. III, 11-03-2005, n. 5435, in Dir. ed economia assicuraz., 2006, 159, nonché in Giust. civ., 2006, I, 1851, con nota di MANCUSO. Sembra invece non accorgersi dell’insegnamento delle Sezioni Unite Cass., sez. III, 24-052006, n. 12353, in Assicurazioni, 2007, II, 2, 16, nella cui motivazione continua a leggersi - sia pure obiter dictum - che “[le] assicurazioni sugli infortuni [sono] per certi aspetti assimilabili alle assicurazioni sulla vita” (e si trattava, si badi, di caso avente ad oggetto un infortunio non mortale).
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(c) l’art. 1916 c.c., mirando ad impedire il cumulo di indennizzo e risarcimento, costituisce espressione tipica del principio indennitario. Di conseguenza, poiché il 4° comma di tale norma concede la surrogazione all’assicuratore contro gli infortuni, anche l’assicurazione infortuni ha natura indennitaria; (d) l’invalidità causata dall’infortunio costituisce sempre un “danno” per i fini di cui all’art. 1882 c.c.: sicuramente biologico, ed eventualmente patrimoniale; (e) la circostanza che la misura dell'indennizzo sia liberamente predeterminata nella polizza non priva l’assicurazione contro gli infortuni non mortali del carattere indennitario, in quanto la legge consente alle parti la stima del valore (ex art. 1908 c.c.). L’affermazione, invece, secondo cui che l’assicurazione contro gli infortuni mortali rientra nell’assicurazione sulla vita viene fondata sui seguenti argomenti: (a) il rischio oggetto dell’assicurazione contro gli infortuni mortali è identico a quello tipico dell'assicurazione sulla vita; (b) beneficiario dell'indennizzo non è l'assicurato, sul quale incide l'evento morte, ma un terzo, come nell'assicurazione sulla vita; (c) l’evento morte non necessariamente è causa di un danno patrimoniale per il beneficiario. Osservazioni conclusive. L’atteggiamento della giurisprudenza nei confronti dell’assicurazione infortuni può paragonarsi ad un processo di metamorfosi: nel 1906 la Corte di cassazione14 sosteneva che l’ass. infortuni coincidesse con l’assicurazione sulla vita; nel 1951 cominciò a dire che era “affine” all’assicurazione sulla vita; nel 1968 ammise che fossero applicabili all’ass. infortuni talune delle norme dettate per l’ass. danni (sebbene continuasse a qualificarla come ass. sulla vita); nel 2002 infine ruppe gli indugi e sentenziò che l’ass. contro gli infortuni non mortali è un’assicurazione contro i danni, quella contro gli infortuni mortali è
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Di Roma, non esistendo all’epoca una sola Corte di cassazione.
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un’assicurazione sulla vita, e che di conseguenza l’ass. infortuni è un contratto misto. Non è dato sapere se questo processo “erosivo” si sia arrestato, o se tra qualche anno la giurisprudenza arriverà a proclamare la natura indennitaria anche dell’assicurazione contro gli infortuni mortali. Non può tuttavia sottacersi che l’adesione delle SS.UU. alla tesi del “contratto misto” ha lasciato irrisolti diversi nodi, ed ha fornito al problema della natura giuridica dell’ass. infortuni risposte solo in parte appaganti. Non si intende qui affermare che tale soluzione sia erronea, ma è certo che la Corte di legittimità non si è sinora fatta carico di prendere adeguatamente posizione in merito alle numerose critiche che la dottrina da molto tempo ha mosso alla tesi del contratto misto. Vediamo il perché. Secondo il giudice di legittimità, come si è visto poc’anzi, l’assicurazione contro gli infortuni mortali deve ritenersi un’assicurazione sulla vita fondamentalmente per tre ragioni: (a) perché vi è identità di rischio tra l’ass. infortuni mortali e l’ass. vita; (b) perché l’evento assicurato nell’ass. infortuni mortali è un evento “attinente la vita umana”, e dunque ai sensi dell’art. 1882 c.c. rientra nell’ass. vita; (c) perché l’ass. infortuni mortali, al pari dell’ass. vita, non ha natura indennitaria,
in
quanto
la
morte
del
portatore
di
rischio
non
necessariamente costituisce un danno per il beneficiario. A ciascuna di queste tre affermazioni tuttavia è possibile muovere alcuni rilievi. In primo luogo è contestabile che nell’ass. infortuni mortali e in quella sulla vita vi sia identità di rischio. Tale identità si può ravvisare solo facendo uso promiscuo del lemma “rischio”, e cioè confondendo la situazione astratta di rischio con le conseguenze di essa. Nell’assicurazione sulla vita la morte della persona portatrice di rischio costituisce il rischio in senso stretto: l’assicuratore è tenuto al pagamento
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dell’indennizzo quale che ne sia la causa, salve ovviamente le delimitazioni legali o pattizie. Nell’ass. infortuni invece non basta il verificarsi della morte perché sorga l’obbligo di pagamento dell’indennizzo, ma è necessario che essa derivi da infortunio. Dunque il rischio assicurato non è la morte, ma l’infortunio, e la prima rappresenta solo una delle possibili conseguenze del secondo. Per rendersi conto di questa diversità tra rischio assicurato e conseguenze di esso si consideri a mo’ d’esempio l’assicurazione contro l’incendio. In questa forma assicurativa il rischio assicurato in senso tecnico è l’incendio stesso, e non la perdita patrimoniale da esso causata15: tanto è vero che se dall’incendio deriva una interruzione di attività commerciale le perdite conseguenti non sono solitamente coperte dalla polizza incendio, ma necessitano di una copertura ad hoc attraverso una assicurazione contro i danni da interruzione di esercizio. Dire, pertanto, che ass. vita e ass. infortuni coprono lo stesso rischio sol perché in ambedue il pagamento dell’indennizzo presuppone la morte di una persona, trascurando del tutto l’elemento causale del rischio, equivarrebbe a dire, estremizzando il discorso, che tutte le assicurazioni contro i danni sono affini, perché tutte coprono il rischio di dovere spendere del denaro, quale che sia la causa del danno imprevisto (incendio, furto, responsabilità, ecc.). E sebbene di fatto il risultato pratico cui le due forme di assicurazione (vita ed infortuni mortali) possano condurre sia identico, la differenza teorica tra esse resta palpabile: nell’ass. infortuni il rischio “è un evento che può o meno importare la morte dell’individuo e per ciò la morte è solo presa in considerazione come una delle conseguenze del sinistro”; nell’ass. vita invece “è la morte che costituisce essa il sinistro”16.
15
In questi esatti termini DONATI, Trattato del diritto delle assicurazioni private, vol. III, Milano, 1956, 520. 16 Così, col consueto rigore, ASQUINI, Sulla natura dell’assicurazione facoltativa infortuni, in Assicurazioni, 1937, II, 296.
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La diversità del rischio assicurato tra ass. infortuni mortali e ass. vita emerge evidente non solo sul piano del diritto contrattuale in senso stretto, ma anche sul piano della tecnica assicurativa. Nell’ass. vita il rischio in astratto (la c.d. “situazione di rischio”) è rappresentato dalla incerta durata della vita umana, d è calcolato sulla base della statistica mortuaria. Nell’ass. infortuni invece la situazione di rischio è rappresentata dalla maggiore o minore probabilità di avveramento dell’infortunio, desunta dalla sinistrosità pregressa17. L’età della persona la cui morte è dedotta in rischio ha importanza fondamentale nell’ass. vita, mentre non ne ha alcuna nell’ass. infortuni. Nell’ass.
vita
la
probabilità
dell’avveramento
del
rischio
è
necessariamente crescente, in quanto progredisce con l’invecchiamento della persona portatrice di rischio, mentre nell’ass. infortuni è costante, o comunque non cresce con l’invecchiamento dell’assicurato. La diversità del rischio sopra rilevata comporta una serie di ricadute sulla natura dei due contratti assicurativi che qui si stanno comparando. Nell’ass. infortuni il premio è ricavato dalla frequenza degli incidenti letali, mentre nell’ass. vita è ricavato puramente e semplicemente dall’età del portatore di rischio18. Ed ancora, nell’ass. vita l’assicuratore è obbligato alla costituzione delle riserve matematiche (assenti nell’ass. infortuni), e l’assicurato ha la facoltà di sciogliersi unilateralmente dal contratto esercitando il riscatto, facoltà inconcepibile nell’ass. infortuni, perché impedirebbe all’assicuratore qualsiasi serio calcolo del premio. In secondo luogo, dire che l’ass. infortuni mortali è un’ass. sulla vita perché l’assicuratore si obbliga a pagare all’avverarsi di un “evento attinente la vita umana” pare una lettura riduttiva dell’art. 1882, ultima parte, c.c.. Da tempo infatti attenta dottrina ha messo in evidenza che il riferimento, contenuto nell’art. 1882 c.c., agli eventi attinenti la vita umana 17
COLASSO, La durata del contratto e il regime del premio nell’assicurazione infortuni, in Assicurazioni, 1961, I, 463; CARRESI, Assicurazione contro l’infortunio del terzo e consenso del terzo, in Assicurazioni, 1965, II, 2, 181.
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deve essere inteso non in senso generico, come se abbracciasse qualsiasi fatto concernente la persona, ma in senso tecnico-attuariale, come concernente le assicurazioni fondate sulla durata della vita umana e sulle tavole di mortalità19. Quanto, infine, all’affermazione secondo cui l’ass. contro gli infortuni non avrebbe natura indennitaria, essa mi pare contrastare con due rilievi. Innanzitutto, l’art. 1916, comma 4, c.c., consente l’esercizio della surrogazione all’assicuratore infortuni senza distinguere tra l’ipotesi in cui l’indennizzo sia stato pagato per un infortunio invalidante, e quella in cui sia stato pagato per un infortunio mortale20. Se, dunque, l’attribuzione del diritto di surrogazione è indice della natura indennitaria dell’assicurazione, come le stesse SS.UU. hanno affermato con riferimento agli infortuni invalidanti, conclusione analoga dovrebbe valere anche per gli infortuni mortali. Il secondo rilievo è che le SS.UU. sembrano avere adottato criteri diversi per stabilire cosa sia “danno” con riferimento agli infortuni mortali e non mortali. Rispetto a questi ultimi, come si è visto nel § precedente, Cass. 5119/02 ha affermato che la polizza infortuni ha natura indennitaria perché la lesione della salute costituisce sempre e necessariamente un danno biologico, e dunque l’indennizzo ha una funzione riparatrice di un pregiudizio, secondo la definizione di cui alla prima parte dell’art. 1882 c.c.. Tuttavia anche la morte di una persona costituisce sempre e necessariamente un pregiudizio (almeno) non patrimoniale per i suoi prossimi congiunti, ovvero per le persone che in conseguenza del lutto hanno sofferto un patema d’animo. Se, quindi, la sussistenza di un danno non patrimoniale è condizione sufficiente per catalogare tra le 18
COLASSO, La durata del contratto e il regime del premio nell’assicurazione infortuni, in Assicurazioni, 1961, I, 463. 19 COLASSO, La durata del contratto e il regime del premio nell’assicurazione infortuni, in Assicurazioni, 1961, I, 449. 20 Così DONATI, op. ult. cit., 520-521; CARRESI, op. ult. cit., 188; DURANTE, La prestazione nell’assicurazione contro gli infortuni, ivi, 1961, I, 496; VALERI, Natura e disciplina dell’assicurazione contro gli accidenti secondo il diritto positivo italiano, in Assicurazioni, 1943, I, 274.
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assicurazioni contro i danni quella contro gli infortuni non mortali, e tale danno sussiste anche con riferimento agli eventi letali, ciò basta a qualificare l’ass. infortuni mortali come avente natura indennitaria21. Rispetto a tale conclusione non sembra costituire un ostacolo insormontabile la circostanza che nell’ass. infortuni mortali la misura dell’indennizzo sia stabilita liberamente dalle parti. Se infatti si ammette che la morte di una persona possa costituire un danno (patrimoniale o non patrimoniale) per chi le sopravvive, e se si conviene che tale danno non possa che essere equitativamente stimato, ex art. 1226 c.c., dovrà di conseguenza accettarsi che in ambito assicurativo la aestimatio di tale pregiudizio ben possa formare oggetto di una stima concordata, ai sensi dell’art. 1908 c.c.. Del resto sostenere che la vita dell’uomo non sia suscettibile di valutazione in denaro è affermazione forse dettata da ancestrali ritrosie, ma oggi del tutto contraria alla realtà che abbiamo quotidiniamente sotto gli occhi, e comunque non pertinente rispetto al problema qui in esame. E’ antistorica, perché da tempo sia la dottrina giuridica che la medicina legale hanno avviato e coltivato studi di bioeconomia, vòlti a dimostrare come la salute e la vita dell’individuo ben possano essere espresse in termini monetari, e monetizzate in caso di lesione22. Ma la tesi della incommensurabilità in denaro della vita umana è anche non pertinente al problema qui in esame. E’ ovvio ed evidente che l’uomo e la sua vita non possano vendersi a prezzo di moneta, ma non è questo il punto: qui non si tratta di dare un prezzo alla vita dell’uomo, ma di una operazione ben diversa, e cioè misurare in denaro un pregiudizio che non può essere risarcito in forma specifica, monetizzazione che è imposta per
21
In tal senso anche GAMBOGI, “Cave a consequentiariis”: la “identificazione” tra contratto di assicurazione privata contro gli infortuni e contratto di assicurazione sulla vita, in Assicurazioni, 1969, II, 2, 242. 22 Ex multis, si vedano PIERANTONI, Analisi economica della vita umana, Milano 1986, passim, ma specialmente 24 e segg.; GERIN, La valutazione medico-legale del danno alla persona in responsabilità civile, in Riv. inf. e mal. prof., 1953, 371.
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qualsiasi tipo di danno dal combinato disposto degli artt. 2043, 2058 e 2059 c.c.23. La natura indennitaria anche dell’assicurazione contro gli infortuni mortali mi sembra sia corroborata da due considerazioni finali. Prima considerazione: svincolare l’assicurazione contro gli infortuni mortali dal principio indennitario significa condurre il contratto di assicurazione ad una degenerazione funzionale, trasformandolo in una scommessa. In tal modo sarebbe ad es. possibile al beneficiario cumulare gli indennizzi dovuti da di più assicuratori contro gli infortuni, quand’anche
la
sommatoria
di
essi
dia
un
risultato
del
tutto
sproporzionato rispetto alla reale entità del pregiudizio (anche non patrimoniale) patito. Ciò può ammettersi nell’ass. sulla vita, la quale assolve una funzione di previdenza, ma non nell’ass. contro gli infortuni mortali, dalla cui struttura tecnica è assente qualsiasi profilo di capitalizzazione. Se poi si considera che la tesi qui contestata fa discendere dalla natura non indennitaria dell’ass. infortuni mortali l’impossibilità per l’assicuratore di agire in surrogazione ex art. 1916 c.c. nei confronti del responsabile dell’omicidio, si realizza per tal via la possibilità per il beneficiario di cumulare indennizzo e risarcimento, e dunque un evidente interesse all’avverarsi del sinistro. Seconda considerazione: come si è visto, per lunghi anni la Cassazione ha negato natura indennitaria anche all’ass. infortuni non mortali, osservando che il corpo umano non è suscettibile di stima in denaro, e quindi mancherebbe nel caso di specie un “valore” assicurato. Poi, nel 2002,
le
Sezioni
Unite
hanno
modificato
tale
orientamento,
espressamente statuendo che la lesione della salute dà luogo ad un “danno non patrimoniale, ma pur sempre patrimonialmente valutabile, come attesta l’elaborazione giurisprudenziale in tema di valutazione, 23
Per la valutabilità in denaro dei pregiudizi non patrimoniali si vedano, ex aliis, le osservazioni di BUSNELLI, Diritto alla salute e tutela risarcitoria, in BUSNELLI e BRECCIA (a cura di), Tutela della salute e diritto privato, Milano, 565; nonché DONATI, Trattato di diritto delle assicurazioni, III, Milano 1956, 536.
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mediante apposite tabelle, del danno biologico. L’infortunio, in quanto evento dannoso da indennizzare, ben può quindi essere ricondotto nell’ambito di applicazione del principio indennitario”24. Or bene, a me pare che il principio appena trascritto possa estendersi anche al danno da morte. Anche quest’ultimo infatti ha natura non patrimoniale, come il danno alla salute; anche il danno da morte è patrimonialmente valutabile; anche per la stima di esso molti uffici giudiziari si sono dotati di tabelle. Se dunque sia il danno biologico che il danno da morte sono valutabili in denaro, non si comprende perché mai solo il primo possa formare oggetto di copertura assicurativa ove derivante da infortunio, e non anche il secondo. Presto o tardi la Corte di legittimità dovrà affrontare questa contraddizione irrisolta, astrattamente risolvibile in due modi: o tornando a negare che l’ass. infortuni per il caso di invalidità abbia natura indennitaria (e si è visto quante e quali ragioni ostino a questa conclusione), oppure ammettere che se ha natura indennitaria l’assicurazione del danno biologico da infortunio, non può non avere identica natura anche l’assicurazione del danno mortale causato da infortunio.
24
Cass., sez. un., 10-04-2002, n. 5119, in Foro it., 2002, I, 2039, § 16.2 dei “Motivi della decisione”.
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Il danno da “Fermo tecnico” Con l’espressione “fermo tecnico” si suole designare il danno che avrebbe subito il proprietario o l'utilizzatore di un autoveicolo, per non averne potuto disporre durante il periodo in cui il mezzo è stato affidato ad una officina per le necessarie riparazioni. I criteri in base ai quali accertare e liquidare questo tipo di danno sono alquanto controversi in giurisprudenza. Possono essere, al riguardo, individuati tre orientamenti ben distinti. (A) Secondo un primo orientamento, il cosiddetto danno da fermo tecnico può essere liquidato in via equitativa, anche in difetto di prova documentata circa il tipo di danno in oggetto, laddove dall'esame delle circostanze lo stesso sia stato semplicemente accertato o sia altamente probabile in base all'id quod plerumque accidit (Giud. Pace Ancona, 8 luglio 1996 n. 146, in Riv. giur. circolaz. trasp. 1999, 820; Giud. pace Casamassima 31 dicembre 1996, in Arch. circolai, 1997, 530; Giud. pace Casamassima 6 maggio 1996, ivi, 1996, 558; Trib. Palermo 23 novembre 1988, in Temi siciliana, 1989, 235; Pret. Messina 19 dicembre 1980, in Resp. civ.,1981, 494). A questo orientaniento paiono aderire anche alcune pronunce della S.C., ove si legge che "il cosiddetto danno da ‘fermo tecnico’, subito dal proprietario di un autoveicolo coinvolto in un incidente stradale, può ben essere liquidato in via equitativa, indipendentemente da una prova specifica, in difetto di elementi di prova contraria" (Cass. 3 aprile 1987 n. 3234, in Arch. circolaz. 1987, 677; nello stesso senso, Cass. 9.11.2006 n. 23916 e Cass. 28 agosto 1978 n. 4009, in Riv. giur. circolaz. trasp. 1979, 280), e ciò in quanto “l'autoveicolo è (…), anche durante la sosta forzata, fonte di spesa (tassa di circolazione, premio di assicurazione) comunque sopportata dal proprietario, ed è altresì soggetto a un naturale deprezzamento di valore”.
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(B) Per un secondo orientamento, nulla può essere riconosciuto per fermo tecnico e per svalutazione del veicolo danneggiato, qualora l'attore non fornisca in proposito alcun elemento di prova e di valutazione al giudicante (Trib. Napoli 15.4.1998, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1999, 761, con nota di Rossetti, Fermo tecnico e “danni virtuali”; Pret. Spoleto 15 luglio 1992, in Arch. circolaz., 1993, 447; Trib. Montepulciano 22 marzo 1993, ivi, 1993, 800; Trib. Biella 16 dicembre 1991, ivi, 1992, 842; Trib. Arezzo 27 novembre 1991, ivi, 1992, 361; Pret. La Spezia 24 maggio 1990, ivi, 1991, 325; Pret. Reggio Calabria 9 maggio 1980, in Resp. civ.,1981, 494). Particolarniente significativa, a questo riguardo, è la decisione resa da Trib. Pisa 13 agosto 1990, in Arh. circolaz., 1991, 325, ove si legge che "in materia di danno da cosiddetto "fermo tecnico" incombe sul danneggiato l'onere di provare l'obiettiva entità del danno provocatogli dall'inerzia del smezzo con riguardo all'uso cui questo era adibito, ai ricavi che se ne producevano, ed alle possibilità di utilizzo che sono rimaste precluse proprio in dipendenza della forzata sosta del veicolo nello specifico periodo al quale la domanda di risarcimento si riferisce: ne consegue che, ove tale prova non sia fornita con la sufficiente precisione, il danno non può essere liquidato che in via equitativa". Anche questo secondo orientamento è stato condiviso in almeno un caso dalla S.C., la quale ha affermato che nell'ipotesi di esercizio dell'azione diretta nei confronti dell'assicuratore per il risarcimento di danni riportati da un autoveicolo a causa di un incidente stradale, il ricorso del danneggiato alla procedura di cui agli artit. 3 l. 23 dicembre 1976 n. 857 e 8 d.p.r. 16 luglio 1981 n. 45, con la comunicazione all'assicuratore del luogo, dei giorni e delle ore in cui il veicolo è disponibile per l'ispezione, non comporta necessariamente la esistenza di un danno da fermo tecnico per i periodi indicati, salvo che non ricorrano specifiche circostanze che devono essere provate dall'interessato (quali la
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inutilizzabilità del veicolo per il tipo di danni riportati finché non sia riparato, ovvero la necessità continua di esso per ragioni di lavoro, cosicché il danneggiato non possa privarsene, senza pregiudizio, neppure per poche ore in giorni da lui scelti (Cass. 7 febbraio 1996 n. 970, in Arch. circalaz., 1996, 635). (C) Un terzo orientamento, infine, ha seguito una via intermedia rispetto a quelli appena esposti. Così, secondo Trib. Palermo, 30 novembre 1982, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1984, 99, il danno rappresentato dal mancato ammortamento delle spese fisse di esercizio (tassa di circolazione, premio di assicurazione ecc.), danno che rappresenta un effetto necessario e costante (per l'impossibilità di usare il veicolo, può essere liquidato anche in difetto di una prova specifica ed in via equitativa; al contrario, il danno da lucro cessante subito a causa della impossibilità di usare il veicolo, ovvero consistito negli esborsi sostenuti per noleggiare altra vettura per motivi di lavoro o altre apprezzabili ragioni, può essere liquidato soltanto ove allegato e provato dal danneggiato. Anche Pret. Ivrea 29 febbraio 1980, in Resp. civ., 1980, 714, ha operato un distinguo, tra fermo effettivo e fermo tecnico propriamente detto: il fermo effettivo riguarda tutto il tempo che il mezzo a seguito dell'incidente non è stato in grado di circolare; il fermo tecnico è invece il tempo strettammente necessario per eseguire a regola d'arte le riparazioni del danno occorso nel sinistro. Sulla base di questa distinzione, il pretore ha ritenuto che solo il secondo tipo di danno deve essere risarcito, ma tenendo conto dell'art. 1227 c.c., il quale impone il dovere per il danneggiato di cercare, nei limiti dell'ordinaria diligenza, di evitare le conseguenze lesive dell'evento (e quindi il danneggiato ha l'onere di attivarsi, nei limiti dell'ordinaria diligenza, per fare riparare il proprio prezzo da una officina celere e non esosa; per munirsi di un mezzo sostitutivo al fine di limitare eventuali perdite patrimoniali, ecc.).
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In dottrina, per una critica agli orientamenti sub (A) e (C), si veda Rossetti, Fermo tecnico e “dann virtuali”, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1999, 761; si veda altresì, in argomento, Ruggieri, Brevi note in tema di danni da circolazione dei veicoli e da «fermo tecnico», in Temi romana, 1997, 733.
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Delimitazioni temporali del rischio nell’assicurazione di r.c. e clausola claim’s made
Come
in
tutti
i
contratti
contro
i
danni,
l’obbligo
indennitario
dell’assicuratore sussiste se il danno si verifica dopo il pagamento della prima rata di premio, e prima della scadenza dell’efficacia del contratto indicata nella polizza. Nel caso di ritardato pagamento del premio o della rata di esso troverà ovviamente applicazione l’art. 1901 c.c.. Nell’assicurazione della r.c. il problema della delimitazione temporale del rischio assicurato può dar luogo a qualche difficoltà in due ipotesi: (a) nelle ipotesi di fatti illeciti permanenti; (b) nell’ipotesi di fatti illeciti che causino danni permanenti; (c) quando vi sia uno scarto temporale tra la commissione del fatto illecito ed il manifestarsi del danno; (d) quando vi sia uno scarto temporale tra la commissione del fatto illecito e la formulazione della richiesta risarcitoria da parte del danneggiato. Esaminiamo partitamente queste ipotesi. (A) Illeciti permanenti. Una condotta illecita può essere istantanea (provocare lesioni personali con un gesto subitaneo) o permanente (esporre taluno ad immissioni intollerabili senza soluzione di continuità). Nel primo caso il danno causato dall’assicurato sarà indennizzabile dall’assicuratore della r.c. se la condotta è stata tenuta nel corso di efficacia del contratto. Nel secondo caso, poiché il danno si produce quotidiniamente col reiterarsi della condotta illecita, saranno indennizzabili solo i danni derivanti dalla condotta tenuta dall’assicurato sino al momento di scadenza del contratto. Se la permanenza dell’illecito si protrae oltre tale data, la responsabilità dell’assicurato per i danni successivi allo spirare dell’efficacia della polizza non saranno in garanzia.
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(B) Illeciti con effetti permanenti. Con l’ipotesi degli illeciti permanenti non va confusa quella in cui una condotta illecita (istantanea o permanente che sia) abbia prodotto danni permanenti (ad esempio, l’invalidità permanente causata da un sinistro stradale). In questo caso il contratto coprirà tutti i danni causati dall’assicurato, anche se dovessero protrarsi oltre la scadenza del contratto, giacché tutti causalmente riconducibili ad una condotta tenuta nel periodo di efficacia della polizza. (C) Scarto temporale tra la commissione del fatto illecito ed il manifestarsi del danno. Può accadere che le conseguenze del fatto illecito rimangano inizialmente occulte, per manifestarsi solo a distanza di tempo dal momento in cui l’assicurato ha tenuto la condotta illecita (c.d. danni lungolatenti). Si pensi all’ipotesi di un errore del medico che causi una patologia silente per lunghi anni; ovvero all’errore dell’appaltatore di un’opera edile che, col concorso dell’usura del tempo, causi il collasso della costruzione. E’ dunque possibile che: (a) la condotta illecita sia stata tenuta prima della conclusione del contratto, ma il danno si manifesti dopo tale momento; (b) l’assicurato tenga la condotta illecita in costanza di contratto, ma il danno si verifichi dopo la scadenza di esso. La prima di tali ipotesi non dà luogo a difficoltà. Quando la condotta illecita è tenuta dall’assicurato prima della conclusione del contratto il danno non è mai indennizzabile, perché come si vide a suo tempo allorché trattammo del nesso causale - il rischio deve considerarsi inesistente non solo quando si sia già avverato al momento della stipula del contratto, ma anche quando se ne siano verificati tutti i presupposti causali. In questo caso nulla rileva che l’evento si sia concretamente
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verificato dopo la stipula del contratto, quando l’avveramento del sinistro non rappresenta che una conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti prima di tale momento25. Sulla base dei princìpi esposti nel testo riterrei non condivisibile il principio implicitamente affermato da Cass., sez. III, 14-03-2006, n. 5444, in Giust. civ., 2006, I, 802, secondo cui le parti del contratto di assicurazione sono libere di determinare il contenuto da assegnare all’espressione "fatto accaduto durante il tempo dall'assicurazione", di cui all’art. 1917 c.c.. Esse, pertanto, potrebbero individuare tale “fatto” tanto nella mera condotta dell’assicurato, quanto nel manifestarsi del danno. In questo secondo caso il contratto sarebbe perciò efficace, quand’anche la condotta illecita sia stata tenuta dall’assicurato prima della stipula della polizza. Questa tesi dimentica che è sì consentito alle parti delimitare il rischio assicurato, ma non è loro consentito né sovvertire la causa del contratto di assicurazione e l’art. 1895 c.c., pattuendo l’assicurazione di rischi putativi o di rischi già avvveratisi nei loro presupposti causali; né modificare lo statuto della responsabilità civile, stabilendo esse quando debba ritenersi sorta l’obbligazione risarcitoria in capo all’assicurato. Il rischio assicurato nell’assicurazione r.c. è la “responsabilità”, e quest’ultima sorge quando si verificano tutti e due gli elementi che la compongono, cioè la condotta illecita ed il danno. Non è, perciò, affatto vero che le parti possano determinare liberamente il contenuto
da
dare
all’espressione
“fatto
accaduto
durante
il
tempo
dall'assicurazione”, in quanto delle due l’una: (a) se per tale le parti pattuiscono che debba intendersi la sola commissione di una condotta illecita, ancorché non ne sia derivato danno, il contratto è nullo per mancanza di interesse ex art. 1904 c.c., perché l’assicurato non potrebbe patire alcun danno da una condotta illecita che non abbia arrecato a terzi pregiudizi di sorta; 25
FANELLI, op. ult. cit., 133.
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(b) se invece per “fatto accaduto durante il tempo dall'assicurazione” le parti pattuiscono che debba intendersi il solo manifestarsi di un danno quale conseguenza di una condotta dell’assicurato, ancorché tale condotta sia stata tenuta prima della stipula della polizza, il contratto è nullo per essere il rischio già verificatosi prima della stipula. Qualche considerazione in più merita l’ipotesi sub (b) (l’assicurato tiene la condotta illecita in costanza di contratto, ma il danno si verifica dopo la scadenza di esso). Per stabilire se in questi casi la responsabilità dell’assicurato sia coperta o meno occorre tenere presente che, nell’assicurazione della r.c., il “rischio” assicurato è l’insorgenza di un debito risarcitorio in capo all’assicurato. Il debito aquiliano tuttavia non sorge per il solo fatto che sia stata tenuta una condotta illecita o sia stato violato un diritto altrui. L’illecito civile si compone infatti di due elementi essenziali: il fatto illecito (il quale a sua volta si compone della condotta, dell’evento e del nesso causale), ed il danno ingiusto, che dev’essere causalmente collegato al primo, e deve consistere un perdita patrimoniale o non patrimoniale. In mancanza del danno non può sorgere l’obbligazione risarcitoria, ancorché siasi dimostrata la sussistenza di una condotta colposa e della lesione di un interesse personale o patrimoniale della vittima26. Ciò vuol dire che: (a) finché non si verifica il danno, non sorge il diritto del danneggiato al risarcimento; (b) se non sorge il diritto del danneggiato al risarcimento, non sussiste il correlativo obbligo risarcitorio del danneggiante; (c) ergo, è solo col manifestarsi oggettivo del danno che sorge la responsabilità dell’assicurato. Ove si condivida quanto sin qui esposto, deve concludersi che se la condotta illecita è tenuta in costanza di contratto, ma il danno si verifica 26
Così Cass. [ord.], sez. III, 01-12-2004, n. 22586, in Dir. e giustizia, 2005, fasc. 6, 18.
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(nel senso che manifesta la sua oggettiva apprezzabilità) in epoca successiva alla scadenza, l’assicuratore non è tenuto al pagamento dell’indennizzo, perché il “rischio” (e cioè l’insorgenza del debito risarcitorio in capo all’assicurato) si è verificato posteriormente allo spirare dell’efficacia del contratto27. (D) Scarto temporale tra la commissione del fatto illecito e la formulazione della richiesta risarcitoria da parte del danneggiato. La clausola claim’s made. L’ultima delle ipotesi in cui viene in rilievo la delimitazione temporale del rischio è quella in cui il fatto illecito venga commesso in costanza di contratto, ma la richiesta di risarcimento pervenga all’assicurato dopo la scadenza di esso, o viceversa. Da un punto di vista teorico la soluzione di questa ipotesi è lineare: poiché la responsabilità dell’assicurato sorge solo quando si verifica un danno, ai fini della individuazione della sussistenza della copertura assicurativa nulla rileva il momento in cui il terzo danneggiato decida di far valere la propria pretesa risarcitoria: se il danno è avvenuto (e quindi la responsabilità dell’assicurato è sorta) prima della stipula del contratto esso non sarà mai indennizzabile, a nulla rilevando che la richiesta di risarcimento sia pervenuta all’assicurato nella vigenza del contratto. All’opposto, se il danno è avvenuto (e quindi la responsabilità dell’assicurato è sorta) dopo la stipula del contratto esso sarà sempre 27
Di diverso avviso è il DONATI, op. ult. cit., 368, secondo cui il danno “segue sempre immediatamente il fatto che ne è causa”, anche quando si manifesta tardivamente. Da ciò l’insigne autore trae la conclusione che il danno manifestatosi dopo lo spirare del contratto è pur sempre indennizzabile, se è stato causato da una condotta tenuta dall’assicurato nel corso della polizza. L’affermazione secondo cui il danno “segue sempre immediatamente il fatto che ne è causa” tuttavia non sembra possa essere condivisa né da un punto di vista giuridico, né da un punto di vista fattuale. Non dal primo, perché essa finisce per confondere la lesione del diritto (che è presupposto del danno, ma non il danno) con il danno vero e proprio, rappresentato da una perdita patrimoniale o personale. Né dal secondo, perché la cronaca giudiziaria conosce numerose ipotesi in cui il danno non ha seguito affatto il danno: si pensi alle malattie professionali provocate da esposizione ad effusioni di sostanze chimiche, all’amianto od all’asbesto; si pensi alla responsabilità per contaminazione con sangue infetto, quando la
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indennizzabile, a nulla rilevando che la richiesta di risarcimento sia pervenuta all’assicurato dopo la scadenza del contratto. Tale conclusione è conforme al dettato dell’art. 1917 c.c., ove si prevede giustappunto
che
nell'assicurazione
della
responsabilità
civile
l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare “in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione”. Se quello appena descritto è il sistema del codice, ad esso le polizze derogano frequentemente, soprattutto nell’ambito dell’assicurazione della r.c. professionale. E’ diventata infatti standard, in questo tipo di contratti, la presenza di una clausola (c.d. claim’s made) la quale àncora l’indennizzabilità del sinistro non già al momento in cui si è verificato il danno (e tampoco a quello in cui l’assicurato ha tenuto la condotta illecita), ma al momento in cui è pervenuta all’assicurato la richiesta di risarcimento da parte del terzo. La validità di questa clausola ha formato oggetto di vive dispute in giurisprudenza. Secondo un primo orientamento, le clausole claim’s made non sarebbero nulle di per sé, ma semplicemente vessatorie: esse pertanto non producono effetti se non sottoscritte due volte, ai sensi dell’art. 1341 c.c.28. A questo orientamento ha aderito anche la S.C., stabilendo che le clausole claim’s made non sono nulle, ma che possono concretamente risultare vessatorie, secondo un apprezzamento devoluto al giudice di merito (Cass., sez. III, 15.3.2005 n. 5624, in Danno e resp., 2005, 1071, nonché in Dir. e giustizia, 2005, fasc. 37, 20). Per un secondo orientamento, invece, le clausole claim’s made sarebbero radicalmente nulle in quanto contrarie alla previsione di cui all’art. 1917, comma 1, c.c., in virtù del quale “nell'assicurazione della vittima contragga una patologia che, dopo un periodo di incubazione, si manifesti a distanza di tempo dal momento del contagio.
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responsabilità civile l'assicuratore è obbligato a tenere indenne l'assicurato di quanto questi, in conseguenza del fatto accaduto durante il tempo dell'assicurazione, deve pagare a un terzo (...)”29. Questo secondo orientamento appare preferibile. Infatti nel contratto di assicurazione contro i danni elemento essenziale è il rischio: la mancanza di esso comporta la nullità del contratto (art. 1895 c.c.), la sua cessazione lo scioglimento del vincolo (art. 1896 c.c.). In quanto elemento essenziale del contratto di assicurazione, il rischio deve preesistere alla stipula del contratto, e perdurare dopo tale momento. Tanto si desume dall’art 1895 c.c., il quale in tema di nullità del contratto di assicurazione per inesistenza del rischio prevede due ipotesi. La prima ipotesi di nullità prevista dall’art. 1895 c.c. è che il rischio non sia mai esistito, e ciò può accadere (nell’ass. contro i danni) quando la res oggetto dell’interesse protetto non esiste, ovvero non è mai stata esposta al pericolo di pregiudizio. La seconda ipotesi di nullità prevista dall’art. 1895 c.c. è che il rischio abbia cessato di esistere prima della stipula del contratto. Questa norma conferma indirettamente che il rischio dedotto nel contratto deve essere un evento futuro ed incerto. L’ipotesi della cessazione del rischio anteriore alla stipula può ricorrere, ad es., quando l’evento temuto si è già verificato. La legge quindi non consente né l’assicurazione retroattiva, quella cioè i cui effetti si producano da una data anteriore a quella della stipula del contratto30, né l’assicurazione di rischi già verificatisi, ancorché le parti ne ignorino l’esistenza (c.d. rischio putativo). Non a caso, là dove il
28
App. Napoli 28.2.2001, AXA c. Pisani, inedita; nonché, parrebbe, Trib. Crotone 8.11.2004, Magro c. ASL n. 5, inedita, la cui motivazione peraltro è troppo stringata per desumerne princìpi generali. 29 Così Trib. Roma 5.5.2007, Cortese c. De Paola, inedita; Trib. Roma 5.1.2007, Fallimento Immobiliare S. Cesareo c. Ricchiuto, inedita; Trib. Roma 1.3.2006, Giorgi c. Sterpetti, inedita; Trib. Roma 12.1.2006, Natili c. Barbetti, inedita; Trib. Bologna 2.10.2002, Rossetto c. Checchi, inedita. 30 In tal senso già App. Milano 23.2.1968, in Assicurazioni 1969, II, 83.
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legislatore ha inteso consentire l’assicurazione di rischi putativi, l’ha fatto espressamente: è il caso dell’art. 514 cod. nav.. Per “rischi già verificatisi” tuttavia debbono intendersi non solo gli eventi dannosi materialmente avvenuti prima della stipula del contratto, ma anche quelli i cui presupposti causali si siano già verificati al momento della stipula. In questo caso nulla rileva che l’evento si sia concretamente verificato dopo la stipula del contratto, quando l’avveramento del sinistro non rappresenta che una conseguenza inevitabile di fatti già avvenuti prima di tale momento. Così ad es., sarebbe nullo il contratto di assicurazione del credito se il fallimento del debitore dell’assicurato, dichiarato dopo la conclusione del contratto, sia stato reso inevitabile dal compimento di atti pregiudizievoli in epoca anteriore alla stipula; così come sarebbe del pari nullo il contratto di assicurazione contro il rischio di crollo di un immobile, se al momento della stipula si era già verificato il cedimento del terreno su cui poggiava l’edificio, e che ha prodotto quale conseguenza inevitabile il crollo della costruzione. Or bene, nell’assicurazione della r.c. il “rischio” dedotto in contratto è l’impoverimento dell’assicurato, conseguente ad esborsi risarcitori a loro volta derivanti da fatti illeciti commessi dall’assicurato medesimo. Pertanto, sebbene l’assicurato patisca materialmente il pregiudizio quando il terzo danneggiato esiga il risarcimento, non v’è dubbio che il “rischio” dedotto nel contratto è rappresentato non dalla richiesta di risarcimento proveniente dal terzo, ma dalla commissione di illeciti colposi da parte dell’assicurato. Ne consegue che la clausola claim’s made, nella parte in cui consente l’indennizzabilità di rischi già verificatisi al momento della stipula del contratto, è nulla ex art. 1895 c.c., in quanto rappresenta l’assicurazione di un rischio putativo. Nella parte, invece, in cui non consente l’indennizzabilità di rischi verificatisi in costanza di contratto, quando la richiesta risarcitoria pervenga all’assicurato dopo la scadenza del contratto, la clausola
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claim’s made pone una decadenza a carico dell’assicurato, che in quanto 31
tale deve essere approvato per iscritto, ex art. 1341 c.c. . La clausola claim’s made, oltre che nulla (nella parte in cui ammette l’indennizzabilità dei danni causati dall’assicurato prima della stipula del contratto) o vessatoria (nella parte in cui esclude l’indennizzabilità dei danni causati dall’assicurato in costanza di contratto), per il contesto contrattuale nel quale viene inserita può altresì risultare particolarmente insidiosa per l’assicurato, perché ha l’effetto concreto di limitare la durata effettiva del contratto ad un arco di tempo ben inferiore a quello indicato nella polizza. Ed infatti tutti i danni causati dall’assicurato nell’ultimo periodo di vigenza del contratto non saranno mai indennizzabili in presenza di una clausola claim’s made, giacché è assai raro (se non impossibile) che il terzo danneggiato invii la propria richiesta risarcitoria al responsabile illico et immediate. Si potrebbe pensare che la clausola in esame, se esclude l’indennizzabilità dei danni causati dall’assicurato in prossimità dello spirare del contratto, nel contempo consente però l’indennizzabilità dei danni causati dall’assicurato prima della stipula del contratto, quando la relativa richiesta gli pervenga dopo tale momento. In realtà - quale che sia il giudizio che si volesse dare sulla validità di tale patto - questo effetto favorevole all’assicurato è solo apparente. Infatti in tutte le polizze dove compare la clausola claim’s made è altresì usuale la previsione in virtù del quale l’assicurato dichiara di non essere a conoscenza di sue condotte che possano aver dato luogo a richieste di risarcimento. Il combinato disposto della clausola claim’s made e della dichiarazione di inesistenza di fatti colposi anteriori alla stipula del contratto vanifica, come si 31
Nello stesso senso, in dottrina, CARASSALE, La clausola claims made nelle polizze di responsabilità civile professionale, in Danno e resp., 2006, 595. Esprime un giudizio negativo sulla validità della clausola claim’s made anche MIELE, La clausola "claim made" nei contratti di assicurazione delle amministrazioni pubbliche: gestione del rischio e controllo di gestione, in PQM, 2006, fasc. 2-3, III, 144. In senso contrario, e cioè per la validità della clausola claim’s made, si vedano invece ROSSI, Contratti assicurativi, clausole claims made e sinistri latenti, in Il merito, 2007, fasc. 6, 2; DE STROBEL, Claim's made e rischio putativo, in Dir. econ . ass., 2007, 171. Sulla clausola in esame si veda altresì ANTONUCCI, Prassi e norma nel contratto di assicurazione: la clausola claims made, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 145.
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accennava, qualsiasi possibile effetto benefico per l’assicurato della clausola in esame, giacché delle due l’una: (a) se l’assicurato non ha causato danni prima del contratto la clausola claim’s made gli sarà inutile nella parte in cui dichiara di coprire i fatti anteriori, mentre gli sarà nociva per la parte in cui esclude la copertura per i fatti commessi in costanza di contratto, quando la richiesta di risarcimento gli pervenga dopo la scadenza; (b) se l’assicurato ha causato danni prima della stipula della polizza, e lo dichiara, l’assicuratore non accetterà il rischio né la stipula; (c) se l’assicurato ha causato danni prima della stipula della polizza, ma non lo dichiara, al momento in cui dovesse pervenire la richiesta di risarcimento da parte del terzo l’assicuratore avrà buon gioco nell’opporgli la non indennizzabilità del sinistro, per avere l’assicurato reso dichiarazioni reticenti ai sensi dell’art. 1892 c.c.. Ulteriore insidia della clausola claim’s made è il suo effetto limitativo di fatto della libertà contrattuale dell’assicurato. Non sono infatti pochi i contratti i quali combinano la clausola claim’s made con altra clausola, in virtù della quale in caso di rinnovo del contratto saranno assicurati anche i fatti commessi dall’assicurato nella vigenza del contratto scaduto, ma per i quali la richiesta di risarcimento sia pervenuta all’assicurato dopo la scadenza, se il vecchio contratto si sia automaticamente rinnovato per effetto della mancanza di disdetta. Il combinato disposto di tali clausole costringe l’assicurato a non recedere mai dal contratto, al fine non perdere la garanzia per le richieste di risarcimento relative a fatti commessi nella vigenza delle precedenti annate assicurative. Infine, la clausola claim’s made risulta estremamente svantaggiosa per gli assicurati i quali prevedono che, alla scadenza del contratto, cesseranno l’attività coperta dalla polizza (si pensi all’imprenditore che decida di mutare attività, od al professionista che decida di andare in pensione). In questi casi tutti gli eventuali fatti illeciti commessi dall’assicurato nell’immediata prossimità della scadenza del contratto non potranno mai essere coperti: non dalla polizza scaduta, perché pervenendo verosimilmente la richiesta di risarcimento dopo la scadenza del
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contratto, opererà la clausola claim’s made; né da un nuovo contratto, perché essendo cessata l’attività mancherebbe l’interesse alla stipula di una nuova polizza, ex art. 1904 c.c.. Alcune polizze, in verità, consentono di coprire questo rischio pagando un sovrappremio (c.d. sunset clause), ma la clausola ovviamente solo nel caso in cui si ritenga valida la clausola claim’s made - è da ritenere vessatoria, in quanto fa pagare all’assicurato una prestazione che gli spetterebbe per legge quale effetto naturale del contratto, ai sensi dell’art. 1917 c.c..
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Assicurazione della responsabilità civile e nozione di “accidentalità”
Nelle condizioni generali dei contratti di assicurazione della responsabilità civile costituisce una clausola di stile quella che prevede l’operatività della polizza unicamente nel caso di “fatti accidentali” che arrechino danno a terzi. Nonostante sia utilizzata da anni, e largamente diffusa, il senso e la finalità di questa clausola rimangono oscuri (a meno di non volere supporre o l’insipienza giuridica del predisponente, ovvero il poco nobile fine di farne uso per sottrarsi ai propri obblighi contrattuali), soprattutto alla luce della mole di contenzioso che l’interpretazione di essa ha generato. Nell’interpretazione di questa clausola la giurisprudenza ha fornito risposte contrastanti. Proviamo a leggerle in modo organico, ma senza mai prescindere dalle peculiarità del caso concreto. Secondo un primo e maggioritario orientamento, l’assicurazione della responsabilità civile non può concernere fatti meramente accidentali, dovuti cioè a caso fortuito o forza maggiore, perché da essi non può sorgere
responsabilità
per
l’assicurato.
L’effetto
“naturale”
dell’assicurazione della responsabilità civile è quello di tenere indenne l’assicurato dalla responsabilità derivante da fatti colposi, e dunque in mancanza di espresse clausole limitative del rischio, deve escludersi che la garanzia assicurativa non copra alcune forme di colpa (ad es., quella grave). Pertanto la clausola di un contratto di assicurazione che preveda la copertura del rischio per danni conseguenti a “fatti accidentali” va interpretata nel senso che essa si riferisce semplicemente alla condotta colposa, anche se volontaria, in contrapposizione ai fatti dolosi (nel caso di specie, è stato ritenuto “fatto accidentale” il danno causato dal taglio
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volontario di un albero, abbattutosi a causa di un errore di calcolo della traiettoria di caduta su una cassetta di protezione di un cavo telefonico)32. Secondo questo orientamento, pertanto, quando la polizza r.c. limita l’indennizzabilità ai danni derivati da fatti accidentali, per tali debbono intendersi i “fatti colposi”, in quanto “secondo la terminologia giuridica tradizionalmente accettata senza contestazioni, il fatto accidentale è equivalente a fortuito o forza maggiore; di conseguenza appare evidente la contraddizione della previsione del risarcimento dovuto all'assicurato quale civilmente responsabile per danni prodotti a terzi in dipendenza di un fatto accidentale”33. Principi analoghi sono stati affermati da molte altre decisioni, ed in particolare: (-) Cass., 5-4-1990, n. 2863, in Banca, borsa e titoli, 1992, II, 299, con nota di FESTI, Le clausole aggiunte ai moduli o formulari ed interpretazione secondo buona fede, ove espressamente si afferma che “l'assicurazione della responsabilità civile non può riguardare i fatti meramente accidentali, dovuti cioè a caso fortuito o a forza maggiore”; (-) Cass., 17-10-1983, n. 6071, in Giur. it., 1984, I, 1, 1485, la quale ha escluso che la clausola di limitazione della copertura assicurativa ai “fatti accidentali” comporti l’esclusione dei danni causati da colpa cosciente; (-) Cass., 25-11-1980, n. 6265, in Arch. civ., 1981, 214, la quale, in ipotesi di polizza che limiti il rischio assicurato ai «fatti accidentali», ha affermato che il contratto può spiegare effetto se ed in quanto la garanzia abbia ad oggetto i fatti colposi dell’assicurato; (-) Cass. 30-10-1979, n. 5679, in Resp. civ. prev., 1980, 372, secondo cui “non può esservi responsabilità e quindi valido obbligo di copertura assicurativa per un fatto accidentale”;
32
Cass., 10-4-1995, n. 4118, in Resp. civ. prev., 1995, 528, con nota di Dies, In margine ad una conferma della Cassazione sul "fatto accidentale" e sulla "mala gestio" nell'assicurazione della responsabilità civile. 33 Così, testualmente, Cass., 10-4-1995, n. 4118, cit..
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(-) Cass. 17-11-1976, n. 4270, in Foro it., 1976, I, 2798; in Giur. it., 1978, I, 1, 242, la quale ha dichiarato “nulla la clausola con cui si limita l'assicurazione ai soli casi fortuiti, poiché dal fortuito non sorge mai responsabilità civile”; Estremamente significativo, ai fini che qui rilevano (valore e portata della clausola che limita l’indennizzo ai danni causati da “fatti accidentali”) è pure il decisum di Cass. 20-12-1972 n. 3646, in Assicurazioni, 1973, II, 2, massima n. 42. Nel caso deciso da questa sentenza il proprietario di un fabbricato aveva dovuto risarcire il danno causato ad un terzo da infiltrazioni di acqua, ed aveva chiesto al proprio assicuratore della responsabilità civile la rifusione del risarcimento
pagato.
Il
giudice
di
merito,
accogliendo
l’eccezione
dell’assicuratore, aveva rigettato la domanda osservando che il contratto prevedeva la copertura per i soli fatti accidentali, mentre nella specie il danno era derivato da omessa manutenzione, e quindi da una condotta volontaria. La S.C. ha però cassato la decisione di merito, nella parte in cui aveva considerato “fatto accidentale” come sinonimo di “fatto fortuito”, richiamando tra gli altri argomenti il canone ermeneutico dell’interpretazione utile (art. 1367 c.c.). Infatti, se la garanzia assicurativa fosse stata limitata ai soli casi fortuiti, essa sarebbe stata sempre inoperante, perché il caso fortuito esclude la responsabilità. Per la giurisprudenza di merito, nello stesso senso, si vedano Trib. Nocera Inferiore, 25-2-1999, in Arch. locaz., 1999, 641. Vi è tuttavia anche un diverso e minoritario orientamento, secondo il quale i “fatti accidentali” non coincidono coi “fatti colposi”, ma costituiscono una categoria più ristretta di questi ultimi. Ben possono, pertanto, sussistere eventi non dolosi e non accidentali. L'accidentalità
secondo
questo
orientamento
non
richiederebbe
“l'imprevedibilità dell'evento dannoso, ma l'incertezza della sua specificità, sicché si configura quando, pur essendo astrattamente possibile prevedere il verificarsi di una evenienza, sia incerto il complesso di fattori
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che concorrono a produrla secondo le modalità materiali e temporali concretamente verificatesi”34. Fatti accidentali, quindi, sarebbero quelli dovuti a circostanze estranee all’attività dell’agente (predisposta con le cautele necessarie ad evitare l’altrui pregiudizio), le quali “concretino l’astratta potenzialità dannosa di tale attività in uno specifico danno a carico di un determinato bene appartenente ad un terzo”. Sarebbero, per contro, fatti colposi non accidentali quelli che dipendono “naturalmente” dalla sola attività dell’agente e dalle stesse modalità, con cui essa è stata preordinata ed eseguita35. Tra i due orientamenti riterrei preferibile il primo, per varie ragioni. Innanzitutto, dal punto di vista letterale, “accidentale”, vuol dire “dovuto al caso, casuale, fortuito; contingente, non necessario, non essenziale; secondario, accessorio”36. “Fatto accidentale” dunque ai sensi dell’art. 1361 c.c. non potrebbe significare altro che fatto fortuito. Ora, si è visto al § precedente che l’assicuratore della responsabilità civile è obbligato ad indennizzare l’assicurato quando questi sia civilmente responsabile di un illecito aquiliano o di un inadempimento contrattuale. Tuttavia tanto la responsabilità extracontrattuale, quanto quella negoziale, sono escluse se l’inadempimento o l’illecito dipendano da caso fortuito o da forza maggiore. Pertanto delle due l’una: 34
Così Cass., 4-2-1992, n. 1214, in Arch. circolaz., 1992, 734; in Assicurazioni 1993, II, 2, 45, nonché in Dir. econ. ass., 1992, 621 con nota di DE STROBEL, Accidentalità: una sentenza confortante; in Resp. civ. prev., 1993, 590 con nota di DIES, Il fatto accidentale nella assicurazione della responsabilità civile: un dilemma insoluto (e irrisolvibile?); nello stesso senso Cass. 30-4-1981, n. 2652, Cass., 30-4-1981, n. 2652, in Riv. giur. circolaz. trasp., 1981, 1043; si veda anche Trib. Pordenone, 12-1-2000, in Dir. econ. ass., 2000, 911, con nota di SCIBETTA, Il fatto accidentale nell'assicurazione della responsabilità civile, secondo cui “fatti accidentali” sono quelli che causano il sinistro repentinamente e non in un comportamento ripetuto nel tempo. Si noti il periodare contorto della Suprema Corte, e si verifichi come la pretesa di definire i “fatti accidentali” finisca per riprodurre quella dei fatti colposi. 35 Così Cass., 4-2-1992, n. 1214, cit.; in applicazione di questo principio, la S.C. ha ritenuto non adeguatamente motivata la decisione di merito che aveva ritenuto sussistere la copertura assicurativa in un caso in cui l’assicurato, nell’esercizio della propria attività artigianale, eseguendo lavori di pitturazione aveva imbrattato di vernice nebulizzata delle vetture parcheggiate poco distanti.
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(-) se per “fatto accidentale” si intende un danno commesso dall’assicurato e dovuto a caso fortuito od a forza maggiore, l’obbligazione dell’assicuratore comunque non sussisterebbe, perché non verrebbe in rilievo alcuna responsabilità dell’assicurato; in questo caso, la clausola che limita la copertura assicurativa ai “fatti accidentali” è inutile; (-) se, invece, per “fatto accidentale” si intende un danno commesso dall’assicurato
e
dovuto
a
colpa,
l’obbligazione
dell’assicuratore
comunque sussisterebbe, perché altrimenti il contratto sarebbe nullo per mancanza di causa (infatti a fronte dell’obbligo di pagare il premio non starebbe alcuna obbligazione dell’assicuratore: non quella di tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze di danni dolosi, perché esclusa dalla legge; non quella di tenere indenne l’assicurato dalle conseguenze di danni colposi, perché escluda dal contratto). Resta tuttavia da considerare, alla stregua dell’ulteriore criterio ermeneutico dettato dall’art. 1361 c.c., se all’espressione “fatto accidentale” possa attribuirsi un significato diverso da quello che le è proprio, ma conforme alla volontà delle parti. Occorre dunque chiedersi: cosa hanno voluto esattamente, assicurato ed assicuratore, nel pattuire l’indennizzabilità dei soli danni causati dall’assicurato e derivanti da “fatti accidentali”?37 Ebbene, sotto tale versante l’unico senso ragionevole che la clausola in esame può avere è quello di circoscrivere il rischio assicurato: di evitare, cioè, che l’assicuratore possa trovarsi costretto ad indennizzare danni causati dall’assicurato attraverso condotte del tutto esorbitanti, anomale, eterodosse rispetto a quelle avute presenti al momento della stipula della polizza.
36
BATTAGLIA, Grande dizionario della lingua italiana, vol. I, Torino 1961, ad vocem, 82. Senza dimenticare che il riferimento alla “volontà delle parti”, di cui è menzione nell’art. 1361 c.c., nei contratti conclusi mediante formulari è una fictio iuris. La clausola che limita la copertura ai fatti accidentali è infatti unilateralmente predisposta dall’assicuratore, e per l’assicurato rifiutarla significherebbe non potere assicurarsi. Più propriamente, quindi, occorre fare riferimento alla volontà unilaterale dell’assicuratore, piuttosto che a quella dell’assicurato. 37
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Ma se così è, la clausola limitativa della copertura ai fatti accidentali è uno strumento inidoneo rispetto al fine perseguito. L’esatta delimitazione del rischio potrà infatti avvenire meglio e più chiaramente descrivendo esattamente le condotte potenzialmente dannose dell’assicurato, la sua attività lavorativa, il grado della colpa, e via dicendo (cfr., sulla delimitazione del rischio, il § seguente). Ove, invece, si pretenda di delimitare il rischio facendo riferimento ai “fatti accidentali” non si esce dall'alternativa: la clausola o è nulla (ove per fatti accidentali si intendano i fatti colposi), o è inapplicabile a causa della sua indeterminatezza (ove per fatti accidentali si intendano una aliquota di tutti i fatti colposi), in quanto priva di qualsiasi utile riferimento per sceverare, tra tutti i possibili fatti colposi, quelli coperti e quelli esclusi.
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