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Colori compositi
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a Rimini e nel Riminese
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Rocche e castelli malatestiani
I - 47900 Rimini, piazza Malatesta 28 tel. 0541 716371 - fax 0541 783808
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Provincia di Rimini Assessorato alla Cultura Assessorato al Turismo
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edizione italiana
Riviera di Rimini Travel Notes
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Coriano Antiquarium del Castello
Colori compositi
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Provincia di Rimini Assessorato alla Cultura Assessorato al Turismo Agenzia marketing turistico Riviera di Rimini
Pier Giorgio Pasini Rocche e castelli malatestiani a Rimini e nel Riminese
in collaborazione con
Coordinamento: Valerio Lessi Progetto grafico: Relè - Leonardo Sonnoli Fotografie tratte dall’Archivio fotografico della Provincia di Rimini Si ringraziano i fotografi: L. Bottaro, P. Cuccurese, P. Delucca, S. Di Bartolo, L. Fabbrini, R. Gallini, L. Liuzzi, G. Mazzanti, T. Mosconi, Paritani, V. Raggi, E. Salvatori, R. Sanchini, F. Taccola, R. Urbinati Revisione: Marino Campana, Caterina Polcari Impaginazione ed impianti: Litoincisa87, Rimini Licia Romani Prima edizione 2003 Ristampa 2008
Indice
Introduzione >
5 8
Il territorio riminese Le difese dello stato malatestiano
Itinerario 1 >
12
Il Castello di Rimini
Itinerario 2 >
16
La culla dei Malatesti: Pennabilli e Verucchio
Itinerario 3 >
19
La valle del Marecchia
Itinerario 4 >
26
La valle del Conca
Itinerario 5 >
34
Regge per le vacanze: Montefiore e Gradara
Bibliografia >
40
Per chi vuole saperne di pi첫
www >
Prima di partire vieni a visitarci www.riviera.rimini.it
Introduzione > Il territorio riminese
In alto, la rupe di Pietracuta dall’alveo del Marecchia. In basso, panoramica della Valmarecchia con la rocca e il paese di Montebello. 5
Il territorio riminese è solo in parte pianeggiante. Già alle spalle della città si alza la collina del Covignano, e un po’ più lontano il Monte Titano. Oltre che un segnacolo caratteristico (“l’azzurra vision di San Marino” di pascoliana memoria) il Monte Titano è una presenza ben concreta e massiccia, una sorta di scolta avanzata degli Appennini, che a sud movimentano e frastagliano l’orizzonte e ad oriente lambiscono il mare col promontorio di Gabicce. Numerosi corsi d’acqua di carattere torrentizio, con i loro letti larghi e ghiaiosi, contribuiscono a rendere vario questo territorio ricco di rilievi. Due di questi sono importanti: il Marecchia, che ha le sue sorgenti in Toscana, all’Alpe della Luna, vicino a quelle del Tevere; e il Conca, che nasce nel Montefeltro, sulle pendici del monte Carpegna. Le valli e le conoidi di questi due fiumi, separati e anzi divaricati dal Monte Titano, formano il territorio riminese che da una parte sfuma lentamente nella Val Padana e dall’altra s’incunea fra l’Adriatico e l’Appennino, a contatto con le Marche e il Montefeltro. Ha confini incerti, spesso indefinibili; si dice di quelli che riguardano la storia, la cultura e la mentalità, non di quelli amministrativi, naturalmente, che hanno un andamento preciso quanto, tutto sommato, burocraticamente astratto. Chi si inoltra nella pianura lungo la via Emilia o la via Romea non incontra certo tracce di confini naturali; e chi si inoltra nella dolce valle del Conca o in quella tumultuosa del Marecchia faticherà ad avvertire il passaggio nel Montefeltro. Il Montefeltro tuttavia ha un suo ben preciso carattere e una sua specifica storia, dovuti tanto alla morfologia essenzialmente collinare e montuosa del terreno che all’appartenenza (almeno dal VI-VII secolo) ad una specifica diocesi, quella del Montefeltro appunto, la cui giurisdizione in epoca medievale si estendeva fino alle valli del Savio e del Foglia, occupando una posizione strategica per i collegamenti fra la pianura padana e la parte centrale e meridionale della penisola. Fin dall’alto Medio Evo questa è stata una zona di forti interessi particolaristici che ne hanno sempre reso impossibile una vera unificazione politica e amministrativa; così le varie comunità dell’interno hanno conservato a lungo forme di autonomia, aiutate anche dalla mancanza di un grande centro capace di sottometterle e organizzarle. È significativo, del resto, che la diocesi del Montefeltro non abbia avuto fino al XVII secolo una sede vescovile stabile (San Leo, San Marino, Talamello, Montetassi, Valle Sant’Anastasio, Pennabilli furono residenze temporanee del vescovo e talvolta della sua cancelleria e del suo tribunale). Una di queste comunità è riuscita a conservare la sua
In alto, la rocca malatestiana del Sasso a Verucchio. In basso, gioielli villanoviani nel Museo archeologico di Verucchio. 6
autonomia fino ad oggi grazie ad una serie di favorevoli circostanze: si tratta della Repubblica di San Marino, che appartiene alla diocesi del Montefeltro e che durante la sua lunga storia si è appoggiata più ad Urbino e alle Marche che a Rimini e alla Romagna. Specialmente la valle del Marecchia, con la sua strada che attraverso il facile passo di Viamaggio conduce in Toscana e quindi al Tirreno, ha rivestito una notevole importanza fin dall’antichità. Era frequentata già in epoca preistorica, come dimostra soprattutto l’abitato villanoviano di Verucchio, che nell’VIII secolo costituiva una tappa importante sulla “via dell’ambra”. Rafforzata dai Romani, fu poi contesa aspramente per la sua importanza strategica fra Goti e Longobardi e Bizantini: una situazione che, non a caso, si è drammaticamente riproposta durante l’ultima guerra mondiale con la “linea gotica”. Proprio le lotte fra Longobardi e Bizantini, e poi fra gli Imperatori franchi e tedeschi e il Papa, hanno favorito la formazione nell’alta e media valle di autonomie signorili, spesso contrapposte e in continua contesa per il possesso e il dominio del territorio. Che ha trovato una sua unità solo da quando la Chiesa, nominalmente proprietaria, è riuscita ad esercitare in maniera diretta la sua “alta sovranità”: in pratica dal 1631, anno della devoluzione, ossia della restituzione, del ducato d’Urbino. In quanto all’antica strada che percorre la valle, essa rimase interrotta e inefficiente proprio per l’asprezza delle lotte e degli interessi contrapposti delle varie potenze e dei vari signori, più che per l’asperità dei luoghi: nel tracciato attuale fu riaperta solo nel 1924! La ricchezza di torri, rocche e castelli che ancor oggi caratterizza le valli del Marecchia e del Conca è dovuta proprio alle contese dell’alto e del basso Medioevo, che costrinsero a fortificare tutti i villaggi e tutti i punti strategici, tanto quelli del fondovalle (mulini, guadi, ponti) quanto quelli d’altura. Già nell’VIII secolo la zona veniva definita come “regione o provincia dei castelli”. Costruite con la pietra locale, le fortificazioni si innestano al terreno scosceso come gemmazioni spontanee, ma senza alcun mimetismo: anzi ostentando il loro carattere di artificio minaccioso e spesso vantando una forza che non hanno. Animano un paesaggio che è molto vario e a volte estremamente pittoresco per il suo aspetto selvaggio, per l’alternanza dei crinali - che fanno da quinta ad aspre zone calanchive e a dolci pendii ricchi di vegetazione e di boschi - e soprattutto per la presenza di isolati massi calcarei, spesso di grandissime dimensioni, affioranti da argille scagliose: è il caso del Monte Titano, ma anche di Sasso Simone e del Simoncello, o, più vicino, della bellissima rupe di San Leo, per ricordare solo i maggiori.
Introduzione > Le difese dello stato malatestiano
Fin dall’epoca romana Rimini ha esercitato la sua influenza su un’ampia fascia di territorio, tanto nella parte pianeggiante verso la Romagna, che in quella collinare verso le Marche. Nel Medio Evo la Rimini comunale si trovò a contrastare con le varie proprietà della chiesa locale, della chiesa romana e della chiesa ravennate e inoltre con le molte concessioni fatte a monasteri e a ricchi privati da parte dell’Arcivescovo di Ravenna, dal Papa, dall’Imperatore. Dal XII secolo vide insidiata la sua supremazia sulla parte collinare dai Malatesti, che da Pennabilli e da Verucchio potevano controllare la media valle del Marecchia, nella parte alta dominata dai Carpegna e dai Montefeltro. In seguito ad una serie di lotte e di accordi, dal XIV secolo i Malatesti ebbero la signoria di Rimini, che ressero con la carica di vicari della Santa Sede dal 1355 alla fine del Quattrocento. Per quasi due secoli le vicende di Rimini si identificano con quelle dei Malatesti, che riuscirono ad allargare il loro dominio nelle Marche fino ad Ascoli Piceno, in Toscana fino a Borgo San Sepolcro, in Romagna fino a Cesena, ma non riuscirono mai a disfarsi dei loro più potenti e astuti vicini: i Montefeltro, che probabilmente come loro avevano avuto origine ritagliandosi dei possedimenti nei domini comitali dei Carpegna, feudatari di antica origine imperiale che dominavano il monte di Carpegna e gran parte della regione. La lotta fra Malatesti e Montefeltro assunse una particolare asprezza nei decenni centrali del Quattrocento, quando a capo delle due famiglie rivali si trovarono Sigismondo e Federico, e soprattutto quando quest’ultimo riuscì a far acquistare al genero Alessandro Sforza la città di Pesaro con il suo territorio (1445), fino a quel momento malatestiani (di un cugino di Sigismondo, l’inetto Galeazzo Malatesta). Questo acquisto, mentre permetteva un libero sbocco sul mare al territorio urbinate, divideva in due tronconi il dominio di Sigismondo, che allora si estendeva nelle Marche fino a Fano, a Senigallia e a Fossombrone. Nelle valli del Marecchia e del Conca si può trovare un’ampia esemplificazione riguardante l’architettura militare fra il XII e il XV secolo: borghi più o meno fortificati si alternano a vere e proprie rocche capaci di contenere piccole guarnigioni e a torri di vedetta isolate, o con semplici recinti, per sorvegliare il territorio e inviare segnalazioni. Le costruzioni che ci sono giunte però sono quasi tutte molto rimaneggiate o ridotte a ruderi malamente leggibili. Si tenga presente che, per quanto numerose, costituiscono solo la parte superstite, assai limitata, di un sistema che aveva raggiunto il massimo di efficienza e di grandezza nel settimo decennio del 8
Quattrocento, quando il territorio risultava capillarmente fortificato; l’insicurezza dello stato, rispetto ai nemici esterni e interni, aveva costretto a munire ogni luogo di qualche importanza strategica, e non solo i confini, peraltro sempre incerti e spesso soggetti a improvvise modifiche, talora consistenti. I Malatesti hanno trasformato continuamente le loro fortificazioni per renderle più sicure e per adeguarle ai nuovi metodi di combattimento e di assedio. Il periodo di maggiori trasformazioni fu certamente quello della signoria di Sigismondo, anche perché coincise con l’uso più frequente e massiccio di un’arma nuova e terribile: l’artiglieria. Sigismondo, divenuto appena quindicenne signore di Rimini (1432), cominciò prestissimo a far restaurare e modificare le fortificazioni del territorio: “Fin dalla sua adolescenza ha perfezionato ciò che a pena un’intera generazione avrebbe potuto fare”, annotava con ammirazione nella sua Cronaca coeva Marco Battagli. I suoi interventi erano intesi a rendere le costruzioni militari veramente funzionali, non “belle”; o meglio cercò di conferire ad esse non una bellezza astratta, ma quella che deriva dall’essere tutte le parti adeguate al loro uso militare. Spirito pratico, particolarmente versato nell’arte della guerra, inventore di nuovi ordigni esplosivi (secondo Roberto Valturio), Sigismondo in persona ha avuto certamente una parte considerevole nell’ideazione e nell’ammodernamento delle strutture difensive del suo stato. Tuttavia chiese anche consigli, e nel 1438 ottenne la supervisione di Filippo Brunelleschi per tutte le fabbriche in cui si stava allora lavorando, tanto nella parte romagnola che in quella marchigiana del territorio. Anche Leon Battista Alberti, nel marzo del 1454, visitò le fortificazioni malatestiane in compagnia di Matteo de’ Pasti: sicuramente fu a Senigallia (una città “rifondata” da Sigismondo e che si stava allora costruendo), ma probabilmente compì una vasta ricognizione in tutte le terre malatestiane. Le fortificazioni restaurate o rifatte da Sigismondo presentano costantemente muri a scarpa molto inclinati, una certa articolazione delle mura esterne, espanse irregolarmente, e infine torribastione interessanti non tanto per l’altezza, quanto per la pianta poligonale, preludio a quei bastioni rotondi che costituiranno l’innovazione più vistosa e moderna dal punto di vista concettuale dell’ultimo quarto del secolo. Altre parziali innovazioni si possono riscontrare nell’uso accorto di terrapieni nelle cinte difensive e addirittura nelle parti interne delle costruzioni; nella razionalizzazione dei percorsi, che permetteva una certa facilità di mano9
vra ai difensori e successivi arroccamenti in caso di invasione. Tali innovazioni in genere non contraddicono la tradizione per quanto riguarda l’aspetto esteriore d’insieme delle fortificazioni: alte, massicce, squadrate, dall’aspetto reso pittoresco da torri, merli e beccatelli (un po’ come tutti i castelli padani), hanno un’imponenza tipicamente medievale e una capacità di suggestione straordinaria, questa in parte dovuta alla bellezza e all’asperità dei luoghi in cui sorgono. Luoghi scelti con grande cura, in modo da comporre una serie ininterrotta di baluardi che si fiancheggiano e che vigilano l’uno accanto all’altro, l’uno sull’altro, sempre a contatto visivo multiplo; quasi a costituire delle formidabili cinture difensive rivolte particolarmente contro il Montefeltro e San Marino. Naturalmente quasi tutti quei luoghi erano già stati fortificati precedentemente; ma a Sigismondo si deve, oltre che una razionalizzazione delle singole opere, un vero e proprio piano difensivo organico: per cui alcune vecchie rocche vennero trascurate o diminuite, e alcune altre ricostruite o ampliate, e collegate fra di lo ro in modo da formare un sistema. In questo senso l’organizzazione difensiva dello stato fu, si può dire, rifondata da Sigismondo; che non mancò di sottolinearlo nelle numerose epigrafi murate nelle varie rocche, vantandosi di averle costruite a fundamentis anche quando le aveva solo rimodernate.
In alto, Mondaino, la rocca malatestiana, ora sede del Comune. In basso, medaglia con il ritratto di Sigismondo Pandolfo Malatesta (c. 1450). 11
Itinerario 1 > Il Castello di Rimini
Rimini Castel Sismondo piazza Malatesta tel. 0541 351611 (Fondazione Cassa di Risparmio) fax 0541 28660 www.fondcarim.it segreteria@fondcarim.it
In alto, Rimini, Castel Sismondo (1437-1446). In basso, medaglia malatestiana con la veduta di Castel Sismondo (c.1450). 12
Il capolavoro dell’architettura militare malatestiana è costituito dal castello di Rimini, fatto costruire da Sigismondo a partire dal 1437 e terminato, stando alle epigrafi che lo decorano, nel 1446. Queste epigrafi, dal dettato solenne e dalle forme epigrafiche antiche, ci fanno sapere che il signore aveva voluto chiamare l’edificio, che dichiarava al solito di avere costruito a fundamentis, con il suo stesso nome: Castel Sismondo. La costruzione sfruttò molte parti delle preesistenti case malatestiane duecentesche, e anche le fortificazioni che il predecessore di Sigismondo (suo fratello Galeotto Roberto, detto il beato) aveva fatto costruire. Per Sigismondo questo castello era ben più del suo palazzo, della sua “reggia”: doveva rappresentare visivamente il suo potere, secondo un concetto ancora del tutto tradizionale; e lo fece infatti realizzare in forme tradizionali, cioè più espressionisticamente pittoresche che razionalmente armoniche, come dimostrava la mutevole prospettiva delle torri, la compattezza delle cortine merlate, l’uso costante di archi acuti e di inserti lapidei e ceramici, lo sfarzo delle dorature e degli intonaci colorati in verde e rosso (i colori araldici malatestiani) documentati dagli scrittori contemporanei; e anche la tortuosità dei percorsi interni, l’irrazionalità con cui erano disposti alcuni vani e forse la scarsezza di grandi sale di rappresentanza. Per avere un’idea della forma originaria del castello oggi occorre fare ricorso alle medaglie fuse da Matteo de’ Pasti per celebrarne la costruzione e ad un particolare dell’affresco dipinto da Piero della Francesca nel Tempio Malatestiano, che ne riproducono esattamente il progetto; e inoltre a una pagina del De Re Militari di Roberto Valturio dedicata alla descrizione e all’esaltazione di quest’opera e di Sigismondo. Il suo nucleo interno era caratterizzato da cinque torri che circondavano un alto cassero (il palatium); l’ampio fossato che delimitava il suo circuito esterno si estendeva sull’attuale piazza Malatesta fino alla parte posteriore del teatro ottocentesco. Ancora colpiscono specialmente la grande mole, l’aspetto poderoso e la conformazione irregolare dell’edificio, concepito come una serie di recinti fortificati attorno ad un nucleo abitativo. Alcune delle irregolarità si possono spiegare con la necessità o la convenienza di sfruttare strutture preesistenti, ma non tutte: per esempio la disposizione delle torri non può dipendere che in parte da ciò, e sarà da interpretare piuttosto come un tentativo precoce e quindi un po’ incerto - di creare un sistema difensivo con punti di tiro e di osservazione che si dovevano fiancheggiare
In alto, cassa malatestiana (c. 1450) proveniente da Montegridolfo, conservata a Rimini nel Museo della Città. In basso, Rimini, l’interno di Castel Sismondo durante una esposizione malatestiana. 15
e sostenere vicendevolmente; una necessità particolarmente sentita da quando era entrata in uso l’artiglieria. Un inventario redatto subito dopo la morte di Sigismondo ci dà una qualche idea dell’arredo della parte residenziale del grande edificio: tavoli, panche e cofani, letti e armadi, arazzi e drappi furono annotati ed enumerati dal notaio che il 13 ottobre 1468 attraversò ed inventariò diligentemente piccoli e grandi ambienti, dai nomi pittoreschi in parte derivati da caratteristiche decorazioni murali (camera delle grillande, del geneviere, della morte, del crocifisso). Nelle casse e negli armadi erano conservati libri e scritture, gioielli e indumenti di strane fogge e a volte di tessuti preziosi, coperte e biancheria. Nei magazzini erano conservate armi, bandiere, tende da campo e stendardi, finimenti per cavalli e collari per cani, strumenti per la caccia tradizionale (archi e frecce) e per la guerra moderna (spingarde e bombarde). Tutto è andato perduto. L’unico autentico mobile malatestiano superstite è una piccola cassa in legno di cipresso databile intorno alla metà del secolo, riccamente intagliata con lo stemma di Sigismondo fra motivi decorativi; è conservata nel Museo della Città, e proviene dal castello di Montegridolfo. Con la caduta dei Malatesti, alla fine del Quattrocento, Castel Sismondo perse il suo carattere di residenza principesca e fu adibito unicamente a scopi militari; con il tempo naturalmente le sue strutture dovettero essere adeguate alle necessità di difesa soprattutto dalle armi da fuoco, che nel giro di pochi decenni avevano fatto enormi progressi. Nel Seicento, dopo un radicale restauro e l’aggiunta di altre cannoniere, assunse in onore del papa regnante (Urbano VIII) il nome di Castel Urbano. Fu in seguito adibito a caserma e a magazzino, e infine a prigione. È destinato a centro culturale, e da anni vi opera un cantiere di restauro che ha permesso di individuare varie preesistenze; particolarmente rilevante è il ritrovamento di resti delle mura urbiche romane con una porta, inglobata proprio nelle fondazioni del Castello: si tratta probabilmente di una porta “montanara” tardoromana che in epoca medievale fu sostituita nello stesso punto, ma ad un livello più alto, dalla porta detta “del gattolo”, appartenuta al Vescovado fino a tutto il Duecento, cioè fino a quando cadde in mano ai Malatesti, che lì vicino avevano le loro case.
Itinerario 2 > La culla dei Malatesti: Pennabilli e Verucchio
Verucchio Rocca Malatestiana via Rocca, 42 tel. 0541 670222 fax 0541 673266 www.prolocoverucchio.it iat.verucchio@iper.net • apertura: tutto l’anno
Nella pagina accanto, Verucchio, la rocca malatestiana del Sasso. 16
Nel territorio riminese, e particolarmente nella valle del Marecchia e del Conca, dalle colline di Rimini al promontorio di Gabicce, i Malatesti sono documentati come possessori di fondi a partire dal XII secolo. Ma la loro storia rimane incerta fino a quando non diventano cittadini riminesi, un secolo dopo. A Rimini, già verso il 1220, è Malatesta dalla Penna ad emergere come capo della famiglia e, alla sua morte, verso il 1247, il figlio Malatesta da Verucchio. Penna (Pennabilli) e Verucchio si contendono appunto l’onore di aver dato i natali ai Malatesti. Nei secoli scorsi l’erudizione locale, basandosi anche su falsi diplomi, ha davvero versato fiumi d’inchiostro per dirimere la questione, certo non di fondamentale importanza. Probabilmente Verucchio rappresenta solo una tappa di avvicinamento alla città della sempre più potente e sempre più ricca famiglia. Comunque sia, è nella media valle del Marecchia che va collocata la loro “culla”, a meno che non si debba ulteriormente risalire la valle fino alla Toscana (dove sembra vi sia una qualche traccia più antica, ma ancora molto incerta, come ha recentemente suggerito Currado Curradi). Pennabilli e Verucchio hanno una conformazione simile: si distendono su selle attraversate da una strada e dominano il Marecchia con due rocche ciascuna. Di quelle pennesi rimangono ruderi quasi informi, con tracce di cisterne, a coronamento del Roccione e della Rupe (così si chiamano le due cime, a cui facevano capo due distinti abitati, Penna e Billi, unificati nel XIV secolo). Sul Roccione i resti di un bastione poligonale fanno pensare a una costruzione malatestiana del Quattrocento; ai ruderi della fortificazione della Rupe si appoggia in parte il monastero delle suore Agostiniane, costruito all’inizio del XVI secolo con le pietre della rocca distrutta. Nell’abitato esistono ancora avanzi delle mura di cinta e due porte rimaneggiate, con stemmi malatestiani e feltreschi: testimonianza del passaggio del luogo dai Malatesti ai Montefeltro, avvenuto definitivamente nel 1462, l’anno precedente la disfatta di Sigismondo Malatesta ad opera delle milizie papali comandate da Federico da Montefeltro. Più fortunata, in un certo senso, è stata Verucchio; anche qui in una delle sue rocche (detta “del Passerello”), pressoché distrutta, si è insediato un convento di suore; ma l’altra, detta “del Sasso”, domina ancora, ben salda e visibile, il paese e il territorio; per quanto rimaneggiata da adattamenti e restauri è, con quelle di Montebello, San Leo e Santarcangelo, una delle più interessanti di tutta la valle. Sigismondo la fortificò nel 1449, come avvertono due belle iscrizioni, aggiungendole una grande
scarpa e riorganizzando le costruzioni attorno al massiccio cassero centrale. Alcuni scavi hanno rivelato capaci sotterranei e imponenti strutture forse del XII secolo, comunque di molto anteriori all’intervento di Sigismondo. Più antica è anche la bella torre quadrata in pietra, dal paramento straordinariamente accurato, in parte piena. Recentemente (1975) è stato inopinatamente ricostruito un antico sentiero che, protetto dal mastio, scende ripidissimo dal fianco della rupe: costituiva un collegamento di emergenza con il territorio. Le sale di questa rocca hanno subito molti rimaneggiamenti e trasformazioni per adeguarle alle esigenze della piccola corte di Zenobio de Medici, di Ippolita Comnena, di Leonello e di Alberto Pio da Carpi, che ebbero in feudo Verucchio dal 1518 al 1580, e alle esigenze di un piccolo teatro costruito al suo interno nel XVIII secolo. Come Pennabilli anche Verucchio fu perduta da Sigismondo nel 1462 dopo un estenuante assedio. La “rocca del Sasso”, ben munita e difesa da truppe fedeli e affezionate al loro signore, non voleva arrendersi a Federico da Montefeltro, che fu costretto a ricorrere ad uno degli stratagemmi in cui era maestro: una lettera con la falsa firma di Malatesta Novello che preannunciava l’arrivo di rinforzi; i rinforzi arrivarono infatti, e troppo tardi il castellano si accorse che erano costituiti da soldati feltreschi opportunamente camuffati. Da Verucchio si dominano perfettamente il fiume e tutta la pianura fino a Rimini, si sorveglia una buona parte del territorio di San Marino, si comunica direttamente con la rocca di Scorticata (oggi Torriana) che le sta di fronte e con quelle della pianura riminese: questa posizione veramente strategica per il controllo del territorio spiega la cura con cui Sigismondo ne ha riformato e potenziato le difese, che ora costituiscono pacifici e veramente straordinari balconi su uno dei paesaggi più pittoreschi e incantevoli del mondo, “misto di valli, di monti, di terre, di ville, e di mare”, come nel 1705 scriveva l’archiatra di Clemente XI, mons. Gian Maria Lancisi.
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Itinerario 3 > La valle del Marecchia
San Leo Fortezza rinascimentale via Btg. Cacciatori tel. 0541 926967-916306 n. verde 800 553800 musei.san-leo@provincia.ps.it • apertura: tutto l’anno
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Il territorio fra Pennabilli e Verucchio è molto interessante per le testimonianze di storia e d’arte che ancora conserva. Subito ai piedi di Pennabilli, fra la moderna strada e il Marecchia, c’è la pieve di San Pietro in Messa, romanica (XII secolo), tutta in pietra, con un interno a tre navate e una bella facciata. Nel 1200 Giovanni Malatesta donò alcuni terreni a questa pieve. Di là dal fiume si potrà visitare l’affascinante paese di Petrella Guidi, ora quasi disabitato ma quasi intatto nella sua struttura medievale, dominato da una rocca in rovina con una grande torre costruita dai Tiberti fra il XII e il XIII secolo. Sui muri di questa torre resiste ancora in molti punti l’originale intonaco candido, a testimoniare che le antiche fortificazioni erano intonacate e dipinte, e si rendevano ben visibili nel paesaggio anche per i loro colori, che in genere rispecchiavano quelli araldici della famiglia che li possedeva. Sulla porta delle mura conserva uno stemma malatestiano (di Galeotto) affiancato da uno stemma degli Oliva, che lo tennero con la protezione dei Malatesti fino all’inizio del Quattrocento, e uno stemma della Chiesa (le chiavi incrociate). Procedendo oltre Petrella per la piccola strada si raggiunge, al di là del crinale, Sant’Agata Feltria, nella valle del Savio, con una bella rocca malatestiana costruita su un roccione (il “Sasso del lupo”), modificata da Federico da Montefeltro, cui si deve l’aggiunta di un bastione progettato da Francesco di Giorgio Martini, e soprelevata dai Fregoso, che ne furono gli ultimi feudatari. Chi da Pennabilli scende per la vallata del Marecchia, dopo Novafeltria vedrà sulla destra il monte di Maioletto, coronato dai resti di una rocca malatestiana di cui rimangono solo una cortina e due bastioni poligonali a scarpa, distrutta nel 1639 da un fulmine che colpì il magazzino delle polveri da sparo. Maiolo, il borgo fortificato che sorgeva sotto la sua protezione sul fianco del monte, variamente conteso dai Faggiolani, dal Vescovo del Montefeltro, dalla Chiesa, dai Malatesti e dai Montefeltro, è stato completamente distrutto da una frana il 29 maggio 1700: la ferita provocata dalla frana è ancora ben visibile sul fianco del monte. Poco più avanti, dalla strada ormai pianeggiante che segue il largo letto del fiume si gode una stupenda veduta di San Leo, costruita su una rupe calcarea dai fianchi scoscesi, dominata da una rocca pressoché imprendibile riformata da Francesco di Giorgio Martini per Federico da Montefeltro. San Leo, l’antico Mons Feretri, è in un certo senso la capitale ‘storica’ del Montefel-
Torriana Rocca Malatestiana via Castello, 15 tel. 0541 675232 fax 0541 639905 ristoranteduetorri@libero.it • apertura: visitabile la struttura e la zona panoramica circostante Montebello Rocca dei Guidi di Bagno (Castello di Montebello) tel/fax 0541 675180 • apertura: tutto l’anno
In alto, la fortezza di San Leo. In basso, la torre cilindrica e la chiesetta di Madonna di Saiano. 21
tro, a cui ha dato il nome, e forse il luogo d’origine della casata dei Montefeltro, che per tutto il Trecento e il Quattrocento l’hanno contesa ai Malatesti. Certo si tratta di un luogo di grande importanza strategica per il dominio dell’entroterra, e per questo fu al centro di lunghi scontri fra Longobardi e Bizantini. Va ricordato che proprio a San Leo si è conclusa la lotta di Berengario II contro l’imperatore Ottone I, che il 26 dicembre del 963, dopo un lunghissimo assedio, riuscì a conquistare la città e a catturarlo. Oltre e più che nella rocca, a San Leo i segni del più genuino Medio Evo vanno ricercati nella Pieve e nella Cattedrale, splendidi esempi di architettura romanica. Sulla strada che affianca il fiume Marecchia (la strada Marecchiese) sorvegliano la parte riminese e romagnola della valle due rupi pittoresche: quelle di Pietracuta e di Saiano. Quest’ultima si presenta come uno scoglio alto nel greto del fiume; vi sorgono una antica chiesa dedicata alla Madonna, con un presbiterio a trifoglio (in cui sono affreschi rinascimentali, purtroppo lacunosi) che ricorda le “celle tricore” bizantine, e una grande torre dal bel paramento in conci d’arenaria, cilindrica come i campanili ravennati. Le torri cilindriche non sono rare nel Montefeltro e, nonostante si rifacciano ad una tipologia romana e bizantina, non sembrano essere più antiche del XIII secolo. Ne esistono nei comuni di Pennabilli (Maciano), di Casteldelci (Torre di Monte), di Badia Tedalda (Cicognaia), di Montegrimano (Ca’ Manente), di Sestino (Monte Romano), di Borgopace (Torre di San Martino). Ma quasi a segnare con un vero “termine” il confine tra il Montefeltro e la Romagna, poco più avanti si trova un altro sbarramento fortificato: è costituito dalle colline di Verucchio e di Scorticata (ora Torriana) sulle opposte sponde della valle, attrezzate proprio per rendere invalicabile il passaggio e per inviare a Rimini informazioni (con fuochi e fumi) sul vastissimo territorio che riescono a sorvegliare, tanto verso il mare che verso le colline romagnole e marchigiane e San Marino. La torre di Scorticata, dipendente dalla rocca sottostante, riusciva a comunicare tramite la vicina rocca di Montebello fino a San Giovanni in Galilea, attivando tutta una catena di rocche e castelli fra le valli dell’Uso e del Rubicone e Rimini. Sarà bene attraversare il Marecchia a Ponte Verucchio per salire fino a Torriana e a Montebello, che è un grazioso paese con una rocca interessante, più volte rimaneggiata (dei marchesi di Bagno), che vale la pena visitare per le sue strutture e per i
In alto, l’ingresso al castello di Torriana. In basso, un camminamento sugli spalti del castello di Montebello. 22
magnifici scorci paesaggistici sulla valle del Marecchia e sulla valle dell’Uso che offre dagli spalti. Poi si potrà discendere la valle rimanendo sulla sinistra del fiume, in un paesaggio che diviene subito dolce. Si incontrerà a sinistra Poggioberni con il Palazzo Marcosanti, che domina la strada da una breve altura: in origine era una fattoria fortificata dei Malatesti, e conserva ancora una parte della struttura trecentesca. Si vedano la bella scarpata e i portali ogivali in pietra e in cotto, al centro del corpo principale regolarizzato nel Seicento, e la grande corte. Un po’ più a valle e ormai completamente in pianura, si scorge la bellissima torre duecentesca dei Battagli (una delle famiglie importanti del Medioevo riminese), coronata da merli ghibellini. La torre difendeva una fattoria fortificata (detta “tomba”), cioè un recinto murato con le abitazioni dei contadini, le stalle e soprattutto i magazzini per la custodia dei raccolti e il ricovero degli attrezzi; naturalmente sorgeva al centro di un vasto possedimento agrario. A pochi chilometri è Santarcangelo, costruita su una collina fra il Marecchia e l’Uso; per la sua edilizia modesta, le sue stradine pittoresche che si inerpicano sul colle e si aprono in silenziose piazzette, è una delle cittadine meglio conservate e più piacevoli della zona. Il nucleo antico è ancora in gran parte racchiuso dalla cinta muraria quattrocentesca, restaurata e in parte rifatta nel 1447 da Sigismondo, che vi fece apporre delle epigrafi marmoree; a lui spetta anche la costruzione della rocca, sorta ad un’estremità del colle accanto ad una grande torre voluta da Carlo Malatesta nel 1386. Questa torre era altissima, anzi una delle meraviglie d’Italia per la sua altezza, secondo gli scrittori del tempo. Continuava a meravigliare per la sua imponenza e bellezza anche mezzo secolo dopo; ma ormai gli assedi si facevano più con le bombarde di bronzo che con le catapulte di legno, e Sigismondo non esitò a farla abbassare: ne utilizzò la parte inferiore come mastio angolare per una nuova rocca (in parte costruita col materiale ottenuto dalla demolizione) di forma quadrangolare con torrioni poligonali, in grado di ospitare una buona guarnigione: come comportava l’irrequietezza, l’insofferenza dei santarcangiolesi nei confronti della signoria malatestiana, e la necessità di sorvegliare continuamente il corso inferiore del Marecchia e dell’Uso e la via Emilia in prossimità di Rimini. Anche questa rocca, che purtroppo ha completamente perduto il suo coronamento di beccatelli e di merli, è ornata da iscrizioni in bei caratteri epigrafici antichi e in latino, secondo una
Santarcangelo di Romagna Rocca Malatestiana via Rocca Malatestiana, 4 tel/fax 0541 620832 tel. 081 5751828 www.sigismondomalatesta.it sig.ma@flashnet.it • apertura: in estate su prenotazione
Nella pagina accanto, la rocca malatestiana di Santarcangelo. 24
moda umanistica che proprio allora cominciava ad affermarsi. Dal cortile, con un pittoresco acciottolato sotto cui esiste una cisterna medievale ancora funzionante, si può accedere al mastio, che è la base della grande torre trecentesca di Carlo Malatesta, con una parte delle sue antiche scale a chiocciola nascoste nelle enormi murature: esse permettevano comunicazioni indipendenti ai vari piani (ne sono superstiti quattro). In una sala di questa torre all’alba del 10 ottobre 1432 morì, ad appena ventun anni, Galeotto Roberto Malatesta, detto il beato, nipote e successore di Carlo e fratello di Sigismondo e Malatesta Novello. Alcuni fantasiosi scrittori ottocenteschi hanno ambientato qui le vicende che portarono al “delitto d’onore” di Gianciotto, cioè all’uccisione di Paolo il bello e di Francesca da Rimini. Il paesaggio che si gode dalla terrazza del mastio, su cui svettava fino a poco tempo fa un cipressetto pittoresco quanto dannosissimo per la coesione della muratura, è magnifico: la valle del Marecchia si apre ampia fino alle colline e a San Marino da una parte, fino a Cesena e al mare dall’altra. Vicino al fiume l’attento osservatore potrà scorgere la Pieve, una basilica bizantina ad unica navata sorta nel VI secolo accanto all’abitato romano: è la pieve più antica e meglio conservata di tutta la Romagna.
Itinerario 4 > La valle del Conca
Coriano Antiquarium del Castello tel. 0541 657113-659811 fax 0541 657469 biblioteca@comune.coriano.it • apertura: tutto l’anno
In alto, due vedute del castello di Coriano. In basso, a sinistra, la torre civica di Montecolombo; a destra, la chiesa della Pace di Trarivi. 26
Da Rimini è conveniente raggiungere la valle del Conca direttamente all’inizio della sua parte collinare, attraversando di sbieco il territorio riminese fino a Morciano di Romagna. Basta prendere la strada di Coriano, che scivola dolcemente fra colline coltivate con una cura straordinaria, come fossero giar dini: campi, vigne, oliveti si alternano sui declivi morbidi, animati da sparse abitazioni coloniche, da chiesette, da salici e da pioppi piantati sulle rive di torrenti che incidono profondamente il terreno. A Coriano si troveranno i resti di un castello con mura a scarpa e cortine con beccatelli, e una porta con tracce ben visibili dell’antico ponte levatoio, coronata dallo stemma in pietra dei Sassatelli di Imola (che ebbero in feudo Coriano dal 1528 al 1580). L’accesso interno al recinto fortificato, di forma poligonale, è più antico ed è costituito da un’arcaica torre portaia alta e diritta, che conserva ancora qualche merlo. Il castello è stato in buona parte restaurato di recente; al suo interno è stato realizzato un Antiquarium che raccoglie reperti, oggetti e frammenti di ceramica, ritrovati durante il restauro. Appena superata Coriano una strada secondaria sprofonda sulla sinistra nella valletta del rio di Mordano, fino al ponte Scaricalasino, e riemerge ripida fino alla frazione di Castelleale: si trattava della fattoria fortificata del vescovo Leale Malatesta, che vi morì nel 1400. A ben guardare nelle mura esterne del piccolo agglomerato si scorgeranno mura e archi trecenteschi, antiche finestre con stipiti in pietra, avanzi di una cinta e di una torre con porta a sesto acuto; nel lato a monte esistono ancora consistenti resti della porta carraia, affiancata da un’altra, più piccola, pedonale, entrambe di eleganti forme ogivali. Il vescovo Leale lasciò alla Cattedrale di Rimini un bell’ostensorio, poi trasformato in reliquiario (“della sacra Spina”), sul cui piede è ritratto in atteggiamento devoto davanti a San Giorgio, patrono della cavalleria. Sulla collina opposta esiste un insediamento analogo a quello di Castelleale, e forse più antico, circondato da mura fatiscenti nascoste dalla vegetazione e con l’unico ingresso dominato da un’alta torre, crollata per metà in anni recenti: Agello. Oltre Castelleale si raggiunge San Clemente, anch’essa con resti di fortificazioni, e poi si comincia a scendere nella valle del Conca, che si raggiunge a Morciano: percorrendo la discesa tortuosa si vedono sull’altro versante della valle Saludecio, Montefiore e Gemmano, paesi fortificati che coronano alture ricche di vegetazione. Da Morciano è opportuno risalire la valle
In alto veduta di Gemmano, in basso di Morciano. 29
almeno per raggiungere Montescudo e Montecolombo, due paesi ben muniti sulla sinistra del fiume, che (con Gemmano) sono stati semidistrutti durante l’ultima guerra. A Montescudo sono degne di attenzione le grandi mura della rocca, con scarpate molto grandi e molto inclinate che rendevano praticamente impossibile ogni assalto. Sul bastione meridionale si vede ancora una targa marmorea con un’iscrizione latina dal dettato solenne, scolpita con la consueta cura formale per la disposizione e il carattere delle lettere. In essa Sigismondo afferma di aver costruito dalle fondamenta la grande rocca come “scudo” per la città di Rimini nel 1460. Montescudo, dominando tutta la media valle del Conca e quella del torrente Marano, e fronteggiando direttamente le fortificazioni nemiche di San Marino, costituiva davvero l’elemento chiave di tutto il sistema difensivo malatestiano e un vero e proprio scudo a difesa della stessa città di Rimini, che gli è congiunta da una comoda strada di crinale lunga appena una ventina di chilometri (senza particolari opere difensive). Il 31 marzo 1954, durante il restauro delle mura orientali di Montescudo, sono state trovate ventidue medaglie con l’effigie di Sigismondo. Si tratta di alcune di quelle, famose e veramente stupende, fuse in bronzo da Matteo de’ Pasti negli anni centrali del Quattrocento. Ne sono stati trovati diversi esemplari anche altrove, sempre nei muri di costruzioni malatestiane; sappiamo che il signore di Rimini le faceva nascondere nelle murature affinché la memoria del suo nome e del suo volto sopravvivesse anche alla distruzione delle sue architetture, come la memoria e l’effigie degli imperatori romani erano sopravvissute, grazie alle loro monete, alla distruzione dei loro pur grandiosi edifici. Certamente una tale “preoccupazione” non poteva essere compresa dalla gente comune, che fantasticò su tali depositi e li interpretò come tesori: varie leggende di tesori nascosti nei muri delle rocche malatestiane fiorirono ancor vivente Sigismondo; e a Montefiore se ne favoleggia ancora. Il versante opposto della valle è dominato soprattutto da Gemmano, le cui fortificazioni sono state distrutte, e da Montefiore (di cui si parlerà più avanti), che si raggiungono agevolmente da Morciano. Da Morciano parte anche la strada che permette di arrivare a Saludecio e, travalicando il crinale con Mondaino e Montegridolfo, scende nella valle - quasi tutta marchigiana - del Foglia. Ancora una volta ci troviamo in località di confine di grande
Mondaino Rocca Malatestiana piazza Maggiore, 1 tel. 0541 981674 fax 0541 982060 www.mondaino.com cedmondaino@mondaino.com • apertura: tutto l’anno
In alto, la piazza ottocentesca di Mondaino davanti alla Rocca Malatestiana. In basso, un affresco quattrocentesco in San Rocco di Montegridolfo. 30
valore strategico, quindi accuratamente fortificate. A Saludecio, che ha sempre gravitato nell’orbita riminese e malatestiana, ma che ha avuto propri domicelli (gli Ondidei, uccisi da una famiglia rivale nel 1344, forse su istigazione degli stessi Malatesti), rimangono pochi resti dell’antica rocca, incorporati nell’ottocentesco Palazzo Comunale, la cui ala esterna è decorata da uno stemma malatestiano trecentesco. A Mondaino, che dopo la sconfitta malatestiana ha lungamente gravitato su Fano, tanto le mura di cinta che la porta settentrionale e la rocca (ora palazzo comunale), su un grande basamento a scarpa, formano un nucleo molto pittoresco, anche per l’inserzione fra di esse di una scenografica piazza ottocentesca, semicircolare e porticata. Recentemente è stata rintracciata e in parte scavata una lunga e ripida galleria sotterranea che dalla rocca doveva portare al fiume: costituiva forse una via di fuga, o un passaggio segreto per inviare messaggeri. Nella letteratura riguardante le fortificazioni si parla spesso di passaggi segreti, ma questo è l’unico, per ora, documentato da un ritrovamento. Saludecio e Mondaino, come gli altri paesi della zona, nella prima metà del Trecento furono teatro di lotte tutte interne alla famiglia malatestiana, fra i cugini Ferrantino Novello, Galeotto e Malatesta Guastafamiglia; il primo figlio di Ferrantino e nipote di Malatestino dall’occhio, i secondi figli di Pandolfo I (che di Malatestino era fratello). Tali lotte si risolsero con la sconfitta di Ferrantino, che si era alleato con i Montefeltro e che aveva costituito una specie di signoria personale sulle colline romagnole verso Urbino. Un paese intero fu vittima di queste lotte: Montegridolfo, distrutto nel 1337 da Ferrantino e ricostruito cinque anni dopo da Galeotto e Malatesta secondo un piano urbanistico ben preciso, ancora sostanzialmente intatto: sul rilievo terrapienato e regolarizzato da alte mura a scarpa, le modeste costruzioni sorgono allineate con cura fra tre strade parallele; l’accesso al paese avviene attraverso un’unica porta-torre con ponte levatoio, ora modificata. Dalla parte opposta dell’abitato sorgeva una piccola rocca, di cui restano avanzi parzialmente inglobati in un palazzo (ora trasformato in albergo): forse si trattava di quella che era stata generosamente donata nel 1503 da Cesare Borgia, detto il Valentino, al suo amatissimo “boia” don Micheletto. Tutto il paese è stato di recente restaurato con molta cura. Appena fuori dall’antico abitato sorge la chiesetta di San Rocco, con affreschi del XV e XVI secolo raffiguranti la Madonna con il Bambino e i santi Sebastiano e Rocco, e una pala seicente-
sca che ne ripete il soggetto (di Guido Cagnacci). Nella valle del Conca di trovano altri affreschi dell’ultimo quarto del Quattrocento di notevole pregio: una Vergine con il Bambino in trono fra angeli musicanti è a Mondaino (ora nel Municipio, proveniente dal convento delle Clarisse); e una frammentaria decorazione con la raffigurazione del Giudizio Universale e del Paradiso è nella chiesetta dell’Ospedale di Santa Maria della Misericordia di Montefiore. Ridiscese le colline fino a Morciano, si può proseguire verso il mare per la strada che costeggia l’alveo del Conca. Ben presto si incontrerà un’altra importante ‘terra’ malatestiana, San Giovanni in Marignano, di fondazione benedettina, con mura e torre di accesso tre-quattrocentesche (e numerose “fosse da grano” recentemente riscoperte e restaurate). Tutta la zona pianeggiante compresa fra il Conca, il Ventena e il Tavollo, da Morciano al mare, durante l’alto Medio Evo era paludosa, e fu bonificata dai Benedettini, che vi si erano insediati con numerose abbazie e grandi possedimenti in parte già della chiesa ravennate. La strada si conclude a Cattolica (la cui vecchia chiesa di Sant’Apollinare era dei Benedettini di Classe), che pochi chilometri separano dal grande castello di Gradara, in territorio pesarese.
In alto, a sinistra, Porta Marina e campanile di Saludecio; a destra, particolare di un affresco quattrocentesco della chiesa dell’Ospedale, a Montefiore. In basso, a sinistra, veduta aerea di Montegridolfo; a destra la chiesa della Scuola a San Giovanni in Marignano. 33
Itinerario 5 > Regge per le vacanze: Montefiore e Gradara
Montefiore Conca Rocca Malatestiana via Roma, 2 tel. 0541 980035 fax 0541 980206 www.comune.montefioreconca.rn.it utribmontefiore@email.it • apertura: Pasqua - ottobre
In alto, vera da pozzo del Trecento nel cortile della rocca di Montefiore. In basso, “Battaglia di cavalieri”, affresco di Jacopo Avanzi (c. 1370) nella rocca di Montefiore. 34
Nella seconda metà del Trecento, consolidata la loro signoria e ottenuta la carica ufficiale di “vicari”, i Malatesti modificarono alcune rocche per renderle adatte ad ospitare la loro corte che, per ricchezza e raffinatezza, ormai gareggiava con le grandi corti dell’Italia centrale. Gradara soprattutto e Montefiore furono appunto, oltre che rocche pressoché imprendibili, sontuose residenze temporanee, di villeggiatura diremmo oggi, specialmente nei periodi più favorevoli alla caccia. Si dà anche il caso di edifici costruiti proprio come “delizie”, e trasformati poi in fortezze: per esempio la villa delle Caminate a tre miglia da Fano, fatta costruire da Galeotto nel 1365 e decorata da Pace da Faenza, purtroppo totalmente distrutta. Montefiore è ben visibile tanto da Rimini che da tutta la pianura riminese. Domina la media valle del Conca e quella del Ventena, e fa parte della catena più salda e coerente di tutto il sistema difensivo malatestiano; per comprenderne l’importanza strategica basta considerarlo in relazione, cioè in contrasto, con le rocche feltresche di Tavoleto e di Sassofeltrio. Forse è il più caratteristico dei castelli malatestiani per la sua forma prismatica e per il risalto che vi ha la rocca, dall’aspetto anomalo, quasi surreale, per essere liscia e sfaccettata, compatta e cristallina; non c’è da meravigliarsi che sia rimasta negli occhi, e forse nei taccuini di viaggio, di Giovanni Bellini, che ebbe a riprodurla nello sfondo di almeno due suoi dipinti. Purtroppo la visione ravvicinata è un po’ deludente per gli ampi rifacimenti che l’edificio accusa, condotti nel dopoguerra con una insensibilità rara, e che hanno stravolto e cancellato molti elementi originali capaci di fornire indizi utili per la sua comprensione e per una più sicura ricostruzione (ideale, s’intende). Già nel Duecento l’edificio doveva avere una notevole mole e un buon assetto funzionale, con una torre a cui si affiancava, appena distaccato, un palazzo residenziale; entrambi erano protetti da un recinto murato, che racchiudeva al centro un cortile con cisterna, modellato sul cocuzzolo della collina. Al secolo successivo risalgono ampliamenti consistenti e le mura che circondano tutto il paese e formano un grande recinto difensivo in cui è inclusa anche la rocca. Abbiamo notizie di vari restauri e di modifiche, dovuti a Sigismondo, ma prima ancora a Malatesta Ungaro, che predilesse questo edificio e lo fece decorare con un bellissimo stemma lapideo col “cimiero” tuttora esistente e con dipinti in parte miracolosamente superstiti. Nella grande “camera dell’Imperatore” (che era affiancata ad una “sala del trono” e ad
Gradara Rocca piazza Alberta Porta Natale tel. 0541 964181-964115 fax 0541 823035 www.gradara.org info@gradara.org • apertura: tutto l’anno
In alto, dalla rocca di Montefiore, veduta del borgo con la chiesa parrocchiale. In basso, il castello di Gradara. 36
una “sala del Papa”) esistono alcuni “ritratti” di antichi eroi e due scene frammentarie di battaglia, affrescate da Jacopo Avanzi intorno al 1370. Si tratta degli unici resti di decorazioni pittoriche appartenenti a edifici privati malatestiani. Affreschi e pitture sono documentati in molte altre residenze e castelli malatestiani: a Pesaro, a Montelevecchie, a San Costanzo di Fano, a Brescia, a Rimini, a Gradara, ma non ne rimane traccia. Prima di uscire da Montefiore si notino le costruzioni che formano un semicerchio ai piedi della rocca, e la chiesa parrocchiale con un bel portale gotico e un Crocifisso riminese del Trecento. Sulla porta del paese, nel Medioevo munita di ponte levatoio, è murata una targa lapidea con gli stemmi del pontefice Pio II Piccolomini e del cardinal legato Niccolò Forteguerri: è opera di un certo Giacomo, lapicida ferrarese, e nel 1464 (dopo la sconfitta di Sigismondo Malatesta) andò a sostituire uno stemma malatestiano. Gradara è un altro grande castello che univa alla funzione difensiva quella di sontuosa residenza. Si trattava - come per Montefiore - di un bene allodiale dei Malatesti, cioè di una vera proprietà derivata da acquisto, non da concessione pontificia. In quanto a manufatto difensivo va considerato in rapporto diretto con Rimini e in sistema con le rocche di Gabicce, Casteldimezzo e Fiorenzuola, sulle colline del litorale, e di Tavullia nell’interno. Malatesta Guastafamiglia nel 1364 assegnava per testamento Montefiore e Gradara rispettivamente a Malatesta Ungaro e a Pandolfo, suoi figli. Pandolfo è l’amico del Petrarca e il padre di quel Malatesta dei sonetti che nel 1429 morì proprio nella rocca di Gradara. Di Pandolfo si conosce l’interesse per la pittura, oltre che per la poesia (mandò un pittore dal Petrarca perché gli facesse segretamente il ritratto); di Malatesta si sa che reclutò artisti a Firenze (fra questi era il giovane Lorenzo Ghiberti) per decorare la sua residenza pesarese. Probabilmente le decorazioni ad affresco con eroi dell’antichità e battaglie antiche documentate tanto nel castello di Gradara quanto nel palazzo pesarese, erano in gran parte dovute a Pandolfo; e forse non erano molto diverse da quelle fatte dipingere a Montefiore dall’Ungaro. Nella rocca di Gradara esistono ancora affreschi del Quattrocento, con eroi e con battaglie, ma sono dovuti alla committenza degli Sforza, che ebbero il castello dal 1463. Già all’entrata del paese si vedono sull’antica porta gli stemmi di Alessandro Sforza (insieme a quello di Guidobaldo II Della Rovere e di Vittoria Farnese), mentre sulla porta della vera e propria rocca trionfa una bella iscrizione di Giovanni Sforza, comme-
morativa di un importante restauro del 1494. Sicuramente il castello ne aveva bisogno: anche se Sigismondo Malatesta aveva già risarcito i danni provocati dal pesante assedio di Francesco Sforza, che nel 1446 aveva inutilmente tentato di sottrarglela per darla al fratello Alessandro, appena divenuto signore di Pesaro (1445) con la connivenza, e anzi la complicità, di Federico da Montefeltro. Nell’insieme tanto il paese, interamente fasciato da mura merlate, che la rocca sono in buono stato di conservazione e presentano molte parti genuine, nonostante i numerosi restauri subiti (pesanti, anche se necessari, quelli condotti negli anni venti del nostro secolo). Alla rocca si accede tramite un ponte levatoio, dopo aver superato una serie di protezioni successive; il cortile interno, quadrangolare, è ornato su tre lati da portico e loggia (del primo Trecento e del tardo Quattrocento), con stemmi di Pandolfo Malatesta e di Giovanni Sforza; in un angolo il mastio, un tempo isolato, risalta nudo e poderoso e mostra di essere la parte più antica di tutto il complesso. Verso la metà del Settecento sotto al suo pavimento, là dove oggi è allestita una pittoresca sala di tortura, fu trovato il corpo in piedi di un guerriero armato di tutto punto: forse condannato, trecento anni prima, a morire soffocato sotto un cumulo di terra. Il mastio fu sicuramente usato come prigione e come tribunale: l’iscrizione all’esterno della finestrella della sala bassa lo indica come “antidoto alla disonestà”. Dalla corte si accede direttamente alla cappella, con una bella pala in maiolica bianca e azzurra di Andrea della Robbia raffigurante la Madonna con il Bambino e quattro santi (nella predella l’Annunciazione fra San Francesco che riceve le stimmate e Santa Maria Egiziaca che riceve la comunione da un angelo); e, attraverso una scala cinquecentesca, al piano superiore, dove si possono visitare sale con un eclettico mobilio d’antiquariato e con decorazioni medievaleggianti completamente e spesso fastidiosamente false, databili ai primi decenni del Novecento. È completamente falsa anche la cosiddetta camera di Francesca, che negli anni venti è stata provvista di tutti gli ingredienti (letto e leggio, cortine e botola, passaggio segreto, balcone eccetera) per “ambientare” e rendere verosimile la tragedia dei “due cognati” che, se pur accadde, accadde altrove. Evidentemente siamo di fronte all’espressione di un gusto tardo romantico, decadente, più incline al romanzo d’appendice che al rispetto per le testimonianze storiche. Ma per fortuna la struttura della rocca è, nella 38
sostanza, autentica, come autentiche e affascinanti sono alcune delle sue decorazioni rinascimentali ad affresco: quelle del camerino di Lucrezia Borgia (che per qualche anno fu la moglie di Giovanni Sforza), della sala dei putti e del loggiato, in cui è conservato anche qualche frammento scultoreo. Comunque il fascino vero della costruzione sta nella sua complessità, nella stratificazione delle sue parti, nella grandiosità della sua struttura, nel rapporto con il paese fortificato e con il paesaggio circostante. Gradara, “distesa sulla cresta della collina con una sorta di armata e vigile mollezza, come una fiera in riposo ma pronta a slanciarsi” (Luigi Michelini Tocci), guarda verso oriente e verso nord, verso il mare e verso la Romagna: che si apre alla pianura subito dopo il promontorio di Gabicce, con la Cattolica fondata nel 1273 fra il Ventena e il Tavollo quasi a rimpiazzare l’antica, anzi la mitica “Conca città profondata” e per creare un limite visibile al territorio riminese. Terra malatestiana e marchigiana, Gradara respira il vento del mare e le ultime nebbie padane, in cui risuonano le voci e le musiche, e stingono i colori e le maniere delle grandi corti settentrionali, estensi e gonzaghesche e viscontee. Più che in tutti gli altri castelli malatestiani in essa circola ancora aria di cavalleria cortese e crudele, mescolata al ricordo delle ultime prodezze dello sventato e coraggioso Sigismondo, prima del declino.
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Bibliografia > Per chi vuole saperne di più
Autori vari Sigismondo Pandolfo Malatesta e il suo tempo Mostra storica (Rimini), Neri Pozza editore, Vicenza 1970
Autori vari Maricla, otto lezioni per conoscere il fiume Marecchia e la sua valle Maggioli ed., Rimini 1989
Autori Vari Rocche e Castelli di Romagna, III, Alfa ed., Bologna 1972
Autori vari Storia illustrata di Rimini, I-III, Nuova Editoriale Aiep, Milano 1990
G. Franceschini I Malatesta Dall’Oglio, Milano 1973
Autori vari Rocche e bombarde fra Marche e Romagna nel XV secolo a c. di M. Mauro, Ravenna 1995
F.V. Lombardi Le torri del Montefeltro e della Massa Trabaria Bruno Ghigi ed., Rimini 1981 Autori vari Natura e cultura nella valle del Conca Biblioteca comunale di Cattolica e Cassa di Risparmio di Rimini, Rimini 1982 P. G. Pasini I Malatesti e l’arte Silvana ed., Milano 1983 A. Vasina Comuni e signorie in Emilia e in Romagna UTET, Torino 1986 Autori vari Rocche fortilizi castelli in Emilia Romagna Marche Silvana ed., Milano 1988 40
C. Curradi Alle origini dei Malatesti in “Romagna arte e storia”, 48, 1996 P. G. Pasini Arte in Valconca, I-II, Silvana ed., Milano 1996-1997 G. Rimondini, D. Palloni, Il castello e la rocca di Mondaino Rimini 1998 Medioevo romantico, paesi e castelli tra Romagna e Marche nei disegni di Romolo Liverani Rimini 1999 Volando sul Marecchia fotografie di L. Liuzzi e V. Raggi, Ramberti ed., Rimini 2000