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Introduzione di Alberto Becherelli

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Nota dei curatori

Nota dei curatori

Introduzione

Le relazioni tra l’Italia e l’Albania sono caratterizzate da una storia di lungo periodo dai connotati particolari. Come sottolinea Kolec Topalli nel suo contributo sugli aspetti linguistici della questione (Le relazioni storiche e linguistiche fra i popoli delle due coste dell’Adriatico), tali rapporti hanno origini antiche che risalgono all’epoca romana. L’Illiria subisce la “romanizzazione” attraverso la costruzione di strade, lo sviluppo dei commerci e l’insediamento di coloni, mentre i capi tribù illirici s’inseriranno a loro volta nell’amministrazione romana e i generali illirici alla guida delle forze imperiali in alcuni casi diventeranno persino imperatori. L’imposizione della civiltà romana non cancella però quella illirica, che mantiene proprie caratteristiche, soprattutto nel sud dell’odierna Albania, a causa della forte persistenza dell’influenza greca: le terre illiriche diventano così il punto di incontro tra le due civiltà, greca e romana, fenomeno accentuato dalla successiva attribuzione dell’Illiria meridionale all’Impero d’Oriente. In seguito quelle stesse sopravvivenze culturali, greche e romane, contribuiranno a salvaguardare le peculiarità delle popolazioni illiriche all’arrivo degli slavi, che diventeranno l’etnia dominante nella penisola balcanica.

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Dall’XI secolo il territorio albanese subisce, tra i tanti, anche gli attacchi normanni dalla Sicilia – nel contesto della lotta contro Bisanzio nell’Italia meridionale – e Carlo I d’Angiò sarà incoronato re d’Albania nel 1272. Successivamente, con l’inizio della conquista dei Balcani da parte ottomana, sarà Venezia a mantenere vivi i rapporti tra le due sponde adriatiche. In Albania Giorgio Castriota (Gjergj Kastrioti) detto Scanderbeg, personaggio carismatico e grande condot-

tiero capace di unificare le forze albanesi, nel 1443 organizza la lotta contro i turchi. I successi di Scanderbeg preoccupano Venezia, che temendo di perdere le città costiere albanesi rifiuta le sue offerte di pace e alleanza. Solamente Alfonso V d’Aragona, re di Napoli, stabilisce un rapporto d’alleanza con l’eroe nazionale albanese per antonomasia, senza tuttavia fornire aiuti concreti. La fama di Scanderbeg oltrepassa i confini dell’Albania e alla morte del principe albanese (1468), molti suoi seguaci Gheghi fuggono verso la penisola italiana insediandosi, in prevalenza, sulle montagne della Calabria. Intorno a queste comunità, concentrate in maggioranza sulla Sila e nel cosentino (ma anche in Abruzzo, Sicilia e Puglia) fiorirà una vivace letteratura che manterrà vivi usi, costumi, variazioni linguistiche e antiche tradizioni albanesi, senza tuttavia impedire la loro identificazione, nel corso dei secoli, con il nuovo territorio e di conseguenza la futura patria italiana. La morte di Giorgio Castriota non determina comunque la fine della lotta contro gli ottomani, che ancora nel decennio successivo sarà guidata da Lekë Dukagjini, il codificatore del Kanun, la legge consuetudinaria che regola la vita nelle campagne e nelle montagne albanesi, che tanto successo riscuoterà tra gli accademici italiani sul finire degli anni Trenta del Novecento, come ricorda Roberto Reali nel suo intervento Il Centro di Cultura Albanese dell’Accademia d’Italia. Durante circa quattro secoli di dominio ottomano, gli albanesi conservano – oltre ad un endemico ribellismo ogni qual volta se ne presenti occasione – la loro individualità nazionale e culturale, grazie all’organizzazione familiare in fis (famiglie allargate), in bajrak (composte di più fis) e in tribù comprendenti più bajrak. I turchi riescono ad esercitare un più concreto controllo solamente nei territori del sud abitati dall’altra componente etnica albanese, i Toschi. La Sublime Porta concede alle tribù albanesi un’ampia autonomia amministrativa, che consente la sopravvivenza delle leggi consuetudinarie, a condizione di cessare la guerriglia e di pagare l’imposta gravante su ogni nucleo familiare. Si stabilisce così un modus vivendi tra autorità ottomane e popolazione albanese fondato sul rispetto delle tradizioni autoctone da parte delle prime ed il puntuale pagamento dei tributi da parte della seconda. La riduzione delle rivolte è inoltre garantita dalla prosecuzione delle conversioni, più o meno forzate, all’Islam: le im-

provvise e isolate insurrezioni rimangono in tal modo prerogativa degli albanesi cristiani, un fenomeno – quello dell’appartenza alla sfera religiosa cristiana – destinato a rimanere nel XIX secolo un aspetto peculiare, ora sì a carattere prettamente nazionale, di tutte le popolazioni balcaniche ribelli alla dominazione turca.

È questo il secolo – il XIX – in cui si risveglia infatti l’insofferenza nei confronti della Sublime Porta, nel caso albanese anche grazie alle sollecitazioni culturali e politiche provenienti dagli italo-albanesi dell’Italia meridionale che partecipano con il loro contributo al Risorgimento italiano. Una forte identità nazionale albanese, che supera anche le divisioni confessionali, è alla base del deciso rifiuto che la Lega di Prizren (in prevalenza composta da musulmani) oppone alla spartizione dei territori albanesi contemplate al Congresso di Berlino del 1878 per soddisfare le fameliche aspirazioni dei vicini balcanici. La Lega si pronuncerà così in favore della conservazione della dominazione turca, seppure con una più larga autonomia albanese all’interno del contesto ottomano. Negli anni successivi la Lega continuerà ad opporsi ai progetti federalisti promossi dalle grandi potenze nel tentativo di risolvere i contenziosi territoriali balcanici e in particolare la disputa greco-albanese sull’Epiro. Mosso da una diffidenza del resto ampiamente condivisa tra gli albanesi cresciuti in Italia, lo scrittore Girolamo De Rada, una delle figure più importanti del movimento nazionale albanese della diaspora, diventerà il più tenace avversario delle soluzioni federaliste, intravedendo anche in esse il pericolo di una futura spartizione dell’Albania tra Grecia, Montenegro e Serbia.

Il Congresso di Berlino segna quindi da un lato l’avvio, anche per l’Albania, del processo che la condurrà alla dichiarazione d’indipendenza nazionale, dall’altro, in considerazione della posizione altamente strategica dei propri territori e del progressivo disfacimento dell’Impero ottomano, l’esplosione dell’antagonismo tra Austria e Italia per il predominio sulla costa albanese e più in generale sull’intero Adriatico. L’Italia, che si affaccia in quegli anni sulla scena politica internazionale e vede nei Balcani una propria direttrice espansionistica, per contrastare le aspirazioni austriache si eleva a difesa dell’integrità territoriale albanese, inaugurando una politica di

penetrazione economica e culturale in Albania. Si ricorre, da parte italiana, alla lunga tradizione di scambi commerciali e di contiguità delle due culture e più in generale al sostegno dei movimenti di emancipazione nazionale da tempo avviati nella penisola balcanica. All’apertura di scuole per la diffusione della lingua italiana in Albania si accompagnano però studi di natura militare, per valutare concretamente i possibili punti di sbarco sulla sponda albanese dell’Adriatico, come testimonia nel presente volume lo studio del 1903 del colonnello Vittorio Trombi, presentato dal contributo di Antonello Battaglia e Roberto Sciarrone (Ipotesi di sbarco sulle coste albanesi. Lo studio del colonnello Vittorio Trombi, 1903). Soprattutto, l’Italia invia in Albania armi in sostegno alle sollevazioni anti-turche: i volontari di Ricciotti Garibaldi, al grido di “l’Albania agli albanesi”, sono pronti a raggiungere l’altra sponda adriatica per sostenere gli insorti, che daranno vita alle insurrezioni decisive solamente nel 1911, ampiamente sostenute dalla stampa e dalla politica italiana. In tale contesto non stupisce, quindi, come in alcuni ambienti internazionali si sospetti che l’Italia sia la vera artefice della rivolta, nonostante il governo di Roma sia intenzionato ad impedire le imprese progettate dai volontari, con grande delusione di quella parte dell’opinione pubblica italiana ancora legata agli ideali risorgimentali. Tra interessi strategici e spinte idealistiche va dunque progressivamente concretizzandosi quell’interesse italiano per la sponda albanese dell’Adriatico che qualche decennio più tardi culminerà, nella sua fase degenerativa, con l’occupazione conseguenza della politica di potenza fascista.

Il 28 novembre 1912, comunque, nel bel mezzo delle guerre balcaniche e al fine di evitare che gli Stati della Lega balcanica possano approfittarne per spartirsi i territori dell’Albania, il Congresso Nazionale Albanese, riunito a Valona sotto la presidenza di Ismail Qemali, proclama l’indipendenza nazionale. L’intento del convegno svolto qui alla Sapienza in occasione della ricorrenza del suo centenario e i relativi atti che presentiamo di seguito, vogliono essere anche il nostro modo di festeggiare una nazione, alla nostra legata nel corso della storia da saldi rapporti politici, culturali ed economici – non sempre idilliaci – che vanno oggi consolidandosi sempre più proficui e costruttivi.

Gli eventi che seguono la proclamazione d’indipendenza albanese – la Prima guerra mondiale con l’occupazione italiana di Saseno, Valona e i territori limitrofi e la successiva Conferenza della Pace – sono stati ampiamente ricostruiti dalla storiografia italiana, soprattutto in relazione al ruolo e alle aspirazioni che, dopo la scomparsa degli imperi austro-ungarico e ottomano, l’Italia va assumendo nell’Adriatico. In questa sede mi permetto di rimandare al mio contributo L’Albania nella politica estera italiana, 1913-1920. Altri interventi consentono inoltre una serie di importanti considerazioni su questioni all’indipendenza albanese direttamente collegate, come le riflessioni di Paolo Rago in Appunti sulle caratteristiche del nazionalismo albanese, l’analisi di Elio Miracco sul romanzo storico albanese (Il canone del romanzo storico nel primo periodo dell’indipendenza) o le considerazioni di Giuseppe Motta sulla minoranza aromena (La questione aromena e la nascita dell'Albania).

Durante il corso degli anni Venti i rapporti tra Italia e Albania proseguono, apparentemente inaugurati dai migliori auspici, con l’accordo del 2 agosto 1920, che impegna la prima – oltre a ritirare le proprie truppe dal territorio albanese, inclusa Valona ma non l’isola di Saseno – a tutelare l’indipendenza del piccolo Stato balcanico e a dirigerne, attraverso i propri ufficiali e non senza tragici risvolti, i lavori di delimitazione dei confini (si veda il contributo di Alessandro Vagnini, La Commissione di delimitazione dei confini albanesi e l’incidente di Giannina). L’Italia coglie inoltre le opportunità concesse da un’Albania alla ricerca di aiuti economici, che si concretizzano nel trattato di commercio e navigazione del 1924, negli accordi economici del 1925 e la costituzione della Banca nazionale d’Albania (si veda il contributo di Lorenzo Iaselli Le relazioni finanziarie tra Italia e Albania, 1925-1943. Il ruolo della Banca Nazionale d’Albania) e i due accordi politico-militari firmati a Tirana nel 1926 e nel 1927 – seguiti da quello prettamente militare del 1928 – che legano ancora più i destini dei due Paesi permettendo all’Italia di potenziare il proprio controllo sullo Stato albanese.

La presenza italiana si afferma così in tutti i settori della vita albanese: i rapporti fra i due Paesi sono tuttavia destinati a deteriorarsi nei primi anni Trenta, quando Zog, che non intende confermare il

patto di amicizia e sicurezza del 1926, non rinnova l’incarico agli ufficiali italiani addetti all’organizzazione delle forze armate albanesi e chiude le scuole italiane presenti in Albania, con l’Italia che reagisce sospendendo i prestiti. Zog tenterà allora di “ricucire” le relazioni italo-albanesi, soprattutto attraverso la mancata adesione dell’Albania al programma di sanzioni decretato dalla Società delle Nazioni contro l’Italia per l’invasione dell’Etiopia. La sua politica tuttavia non otterrà i risultati sperati. L’Italia a questo punto pretende infatti una maggiore integrazione dei due Paesi e negli ambienti governativi italiani prende forza la necessità di un’occupazione diretta dell’Albania al fine di poterne meglio sfruttare le materie prime, ipotesi che trova il più acceso sostenitore nel ministro degli Esteri Galeazzo Ciano. La notte tra il 6 e il 7 aprile 1939 le truppe italiane sbarcano in Albania: è la fine dell’indipendenza e l’inizio della breve e sofferta Unione con l’Italia fascista. Gli affari esteri albanesi diventano prerogativa italiana, le sedi diplomatiche albanesi all’estero vengono soppresse, le barriere doganali abolite, trasformando di fatto l’Albania in una provincia italiana.

Segue il tentativo di “fascistizzare” la società albanese, attraverso programmi di urbanizzazione e la costituzione di un partito fascista e di organizzazioni giovanili e culturali. La propaganda fascista tenta di sfruttare la sensibilità della popolazione albanese ai sentimenti nazionalisti con la creazione di una “Grande Albania”, attraverso l’annessione del Kosovo e della Çameria. L’occupazione italiana, tuttavia, è lungi dal guadagnarsi il favore degli albanesi, che organizzeranno la resistenza nazionale progressivamente egemonizzata dal movimento comunista di Enver Hoxha, collegato a quello attivo in Jugoslavia. La guerra partigiana provoca disagi alle truppe italiane, ostacola i rifornimenti, rende insicure le vie di comunicazione. Nell’inverno 1942-1943 le azioni di guerriglia assumono carattere quotidiano, come si desume dai documenti conservati nell’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito ampiamente citati negli interventi qui riportati e di cui Alessandro Gionfrida e Silvia Trani, in coda al volume, riportano un ampio resoconto (Le fonti relative all’Albania conservate presso l’Archivio dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito). Gli italiani, per impedire l’aggregazione delle

forze di opposizione, praticano varie forme di repressione armata, ma a poco serviranno le operazioni contro-insurrezionali, qui descritte dal saggio, di Filippo Cappellano e Domenico De Luca, Le operazioni di contro guerriglia italiane in Albania. Gli stessi militari italiani, o almeno una loro considerevole parte, dopo l’8 settembre 1943 contribuiranno in modo decisivo alla lotta di liberazione nazionale albanese con la costituzione del Comando Truppe alla Montagna, vicende ricostruite da Fabrizio Giardini nell’intervento L’Esercito italiano nella guerra di Liberazione albanese.

Al termine della Seconda guerra mondiale, di conseguenza, nel contesto – spesso tragico, come nel caso della famiglia Terrusi qui riportato in Ritorno al Paese delle Aquile – che si avvia a dividere il mondo nell’ordine bipolare della Guerra Fredda, Enver Hoxha instaura il regime comunista da lui dominato per circa quarant’anni, che costringe gli albanesi al silenzio e alla totale chiusura verso l’esterno. Ci troviamo in assoluto dinanzi al periodo di minore intensità nelle relazioni italo-albanesi: in tal senso rapporti sono mantenuti in quegli anni soprattutto da gruppi politici italiani extra-parlamentari che vanno vantando illusorie affinità ideologiche con determinate esperienze del campo socialista, come descritto da Andrea Carteny e Giulia Giustizieri (Alle origini della lotta al revisionismo sovietico. Il sostegno albanese ai gruppi marxisti-leninisti di ispirazione maoista).

Il regime albanese negli ultimi anni vive una parziale apertura con Ramiz Alia, il delfino di Hoxha, nella consapevolezza di non poter ulteriormente deteriorare i rapporti con l’Italia e con gli altri Stati nei quali si spera per una concreta cooperazione economica; ma è soprattutto con la caduta del comunismo e l’inizio delle fughe degli albanesi nelle ambasciate straniere che l’Albania si ripropone nel contesto internazionale. Tali fughe hanno avuto principalmente nell’Italia la “terra promessa”, collegandosi idealmente a quelle avvenute nell’epoca moderna e in minor parte nel corso del XIX e del XX secolo, ma dividendo al tempo stesso l’opinione pubblica italiana tra l’esser favorevole ad un’accoglienza umanitaria e la richiesta di una maggiore severità nel controllare gli ingressi. Come attesta il contributo di Franco Pittau e Antonio Ricci (Gli albanesi in Italia. Oltre vent’anni prima della tranquillità) oggi la questione dell’immigrazione

albanese in Italia sembra sulla via della definitiva soluzione e gli immigrati albanesi di un tempo risultano nella maggior parte dei casi elementi pienamente integrati nella società italiana. A sua volta l’Albania negli ultimi vent’anni è stata al centro dell’interesse economico degli imprenditori italiani in cerca di nuovi spazi e aree di investimento. Gli anni Novanta hanno dunque condotto ad una nuova e positiva era nelle relazioni italo-albanesi, riportando l’Italia – promotrice tra l’altro del’integrazione europea dei Paesi dei Balcani occidentali (si veda in merito il contributo di Emanuela C. Del Re, L’Albania nei prossimi cento anni. Una visione strategica dall’Europa) – all’inevitabile ruolo di partner strategico più importante per l’Albania, nell’ambito istituzionale, economico e sociale.

Alberto Becherelli

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