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meni e bulgari operavano tuttavia in un contesto multietnico (in Slovacchia e in Romania una forte minoranza ungherese, pari all’11% e al 7% della popolazione; in Bulgaria, turchi e rom musulmani: oltre il 10%) ed ereditarono dal partito al potere una cultura politica che combinava nazionalismo e collettivismo economico. In Ungheria e in Polonia, Stati sostanzialmente monoetnici, sono stati, invece, i partiti di centro-destra a propagare la difesa dei valori nazionali e a perseguire, come forze di governo, una politica economica moderatamente statalista e antiliberista (simile a quella delle sinistre occidentali), mentre le formazioni socialiste e liberali sin dagli anni novanta hanno abbracciato una visione accentuatamente liberista dell’economia 19 .
L’ultimo fenomeno degno di nota riguarda il progressivo allungarsi dei cicli di governo e la formazione di un’egemonia politica dei partiti legati alla destra moderata. Fino all’inizio degli anni duemila nessun governo, salvo gli esecutivi ex comunisti romeni e bulgari, è mai riuscito a vincere due elezioni consecutive. Dopo i continui cambi di maggioranza degli anni novanta, con i quali gli elettori punivano compagini governative accusate di scarsi risultati, le ultime tornate registrano partiti in grado di guadagnarsi la rielezione o di mantenere un’alta base di consenso (il centro-destra in Slovacchia, nel 1998-2006; il centro-sinistra in Ungheria, nel 2002-10). Vent’anni dopo il cambio di regime in tutta l’Europa orientale prevalgono compagini governative di centro-destra, a eccezione della Slovenia e dell’Ucraina. Anche in questo caso, l’Europa orientale sembra muoversi in linea con il resto del continente.
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7.3 Economia e società: vincitori e sconfitti del cambiamento
Il passaggio dall’economia pianificata al mercato costituì una sfida ancora più difficile delle riforme politiche e istituzionali. I cambiamenti del 1989-90 colsero le principali potenze occidentali alle prese con la crisi dei sistemi di welfare State varati negli anni cinquanta e sessanta. Le difficoltà economiche scoraggiarono il varo di una sorta di Piano Marshall per l’Europa orientale e la Russia postsovietica, del quale pure si discusse a livello di esperti. Secondo gli scettici, i paesi ex comunisti erano troppo arretrati da un punto di vista economico per poter assorbire in modo efficiente eventuali aiuti 20. Prevalse una filosofia alternativa, ispirata ai progetti di stabilizzazione economica e finanziaria attuati negli anni ottanta in America Latina (con particolare
successo in Cile) dal FMI, dalla Banca mondiale e dal Tesoro statunitense. Nei primi anni novanta, il Washington Consensus ispirava la politica finanziaria (disciplina fiscale, orientamento della spesa pubblica verso i settori produttivi, liberalizzazione, privatizzazione, diritti di proprietà, eliminazione delle barriere commerciali per favorire gli investimenti stranieri) suggerita dalle istituzioni internazionali agli Stati postcomunisti europei 21. Come suggerisce David L. Bartlett, gli organismi finanziari internazionali svolsero importanti funzioni di stimolo e controllo delle economie in transizione, ma la loro capacità di influire sugli indirizzi di politica economica dei singoli paesi non deve essere sopravvalutata. Se la Polonia attuò il pacchetto Balcerowitz in accordo con la ricetta degli economisti liberisti, nel 1990 il governo Klaus lanciò di propria iniziativa in Cecoslovacchia un programma di stabilizzazione che raccoglieva i suggerimenti del FMI, mentre i governi ungheresi adottarono un approccio più morbido e quelli romeni e bulgari ignorarono per anni ogni consiglio 22 .
Il contributo finanziario americano alla ripresa economica fu estremamente modesto in conseguenza del prevalere nell’amministrazione Bush (1989-92) e nella prima amministrazione Clinton (1993-96) di tendenze isolazioniste, accompagnate da un disimpegno in Europa e una maggiore attenzione per altre regioni (Asia e Medio Oriente). Un ruolo maggiore fu assunto dalla Comunità economica europea che, nel dicembre 1989, lanciò il programma PHARE (Pologne Hongrie Aide pour la Réconstruction économique), un piano di assistenza tecnica e finanziaria presto esteso a tutte le nuove democrazie. Nel periodo 1990-94 il PHARE allocò peraltro un contributo totale modesto, pari a 4,2 miliardi di ECU (la moneta europea virtuale), di cui circa un terzo destinato alla Polonia e un altro terzo all’Ungheria e alla Cecoslovacchia. La Polonia ottenne dagli organismi monetari internazionali anche una significativa riduzione del debito estero.
L’Europa orientale non riuscì, tuttavia, a finanziare la ristrutturazione economica attraverso gli investimenti diretti esteri – IDE. Le imprese tedesche, che pure disponevano di un notevole know-how e dominarono la corsa alle privatizzazioni (il caso della ˇ Skoda, il gigante ceco acquisito dalla Volkswagen), nei primi anni novanta furono troppo assorbite dalla riunificazione del loro paese; quelle italiane, potenzialmente competitive in Polonia, Ungheria e nei Balcani, furono bloccate nel 1992-93 dall’implosione del sistema politico peninsulare e dal disfarsi del “sistema paese”. Quanto alle multinazionali francesi, britanniche e statunitensi, nei primi anni della transizione mostrarono un interesse minimo per l’area. In Ungheria, destinataria privilegiata degli investimenti stranieri per la sua struttura economica
più aperta e ricettiva, fino al 1993 questi non raggiunsero neppure l’ammontare delle rate annuali del debito estero 23. Alla fine degli anni ottanta, la quota di proprietà statale nel blocco sovietico era tutt’altro che uniforme: raggiungeva il 99% in URSS, il 98% in Romania e in Jugoslavia (anche se qui de iure si trattava di proprietà sociale) e il 97% in Cecoslovacchia, mentre in Polonia e in Ungheria scendeva all’81% e al 65% 24. La privatizzazione accelerata delle economie, accompagnata dalla liberalizzazione dei prezzi e dei servizi pubblici, da licenziamenti di massa e dal taglio delle sovvenzioni statali ai settori meno competitivi, restò l’unica opzione praticabile per i governi di qualunque colore politico. In Europa orientale l’inconsistenza del mercato azionario determinò tuttavia la necessità di utilizzare “tecniche particolari” di privatizzazione 25. Il passaggio di quote di proprietà dallo Stato ai privati avvenne attraverso differenti procedure: offerta pubblica, vendita diretta, distribuzione di voucher, bancarotta, leasing per i dipendenti. Nel primo decennio postcomunista questi metodi consentirono la privatizzazione di circa 150.000 grandi e medie imprese, centinaia di migliaia di piccole ditte e milioni di appartamenti 26 .
Particolarmente ardita si rivelò la privatizzazione “di massa”, con la distribuzione alla popolazione adulta di certificati (voucher) che attestavano, a titolo gratuito o semigratuito, la compartecipazione alla proprietà dell’azienda da privatizzare. La procedura fu adottata in Cecoslovacchia (governo di Václav Klaus, 1990-92) e ripresa nel 1994-95 da Polonia, Bulgaria e Lituania. Analogamente al caso russo (governo di Yegor Gaidar, 1992), i voucher vennero presto rastrellati da holding private i cui gestori si arricchirono alle spalle della popolazione 27. In Ungheria fu il primo governo di centro-destra a porre un freno alla vendita del patrimonio pubblico mediante l’imposizione di vincoli, con l’obiettivo di bloccare le élite economiche, spesso legate all’ex partito comunista, che avevano appena guadagnato il proprio “primo milione”. Il risultato fu un blocco temporaneo dell’ingresso di partner stranieri nelle aziende privatizzate. Nel 1995, il governo socialista-liberale guidato da Gyula Horn lanciò una più ampia campagna di privatizzazioni, seguita a un duro pacchetto di stabilizzazione economica, voluto dagli organismi internazionali e messo a punto dal ministro delle Finanze Lajos Bokros. In seguito alla terza legge sulla privatizzazione, la quota di capitale privato (ungherese o straniero) nell’economia ungherese passò dal 35% del 1989 al 65% del 1993, per crescere al 75% nel 1995 (oggi supera abbondantemente il 90%, una delle percentuali più elevate nell’intera UE) 28. Nonostante il successo macroeconomico, in tutta l’area esteuropea un’immensa quantità di
risorse materiali si perse nelle “pieghe” della privatizzazione. Un rapporto pubblicato nel 2009 dal ministero del Tesoro ungherese ha riconosciuto che, dal 1990 al 2007, a fronte di un introito netto di circa 11 miliardi di euro, soltanto le spese amministrative e legali collegate alla vendita del patrimonio pubblico realizzata con le privatizzazioni hanno fagocitato quasi la metà di tale somma 29. Se a ciò si aggiunge la diffusa corruzione, è possibile concludere che il patrimonio pubblico sia stato svenduto non solo nel più noto caso russo ma anche laddove, come in Ungheria, le autorità adottarono un approccio meno liberista.
La transizione all’economia di mercato e l’improvviso venir meno dell’immenso, poco esigente mercato sovietico causarono un crollo delle esportazioni e una contrazione significativa del prodotto nazionale. L’esatta misura del declino resta difficile da stabilire a causa dell’impossibilità di misurare la quota di economia sommersa presente nelle economie socialiste. In generale, tuttavia, si può affermare che nel 1989-92 l’Europa orientale patì un declino economico variabile dal 15 al 40%, esteso a tutti i settori dell’economia ma particolarmente acuto nell’industria pesante. Grazie anche alla base di partenza estremamente bassa del 1989, la Polonia tornò in crescita positiva nel 1992, seguita nel 1993 da Repubblica Ceca, Slovacchia, Albania, Romania e Slovenia e, dal 1994, da Ungheria, Romania e Bulgaria 30. In quell’anno, fatta eccezione per le zone ex jugoslave teatro di combattimenti, continuarono a declinare Estonia, Lituania, Macedonia e soprattutto l’Ucraina: il grande Stato postsovietico perse in un solo anno oltre il 20% della propria ricchezza nazionale e oltre il 60% nel periodo 1991-98. Dopo alcuni anni di crescita, numerosi paesi subirono, nel 1997-98, le ripercussioni del crollo economico-finanziario in Asia e in Russia. La Romania ebbe nel 1998-99 una ricaduta assai grave e anche i PIL bulgaro, ceco e slovacco tornarono temporaneamente a diminuire. Ancora più significativi dell’entità del dramma economico sono gli indicatori del reddito pro capite, calcolati rispetto al 1989 al punto più basso della crisi (1992-93). Il potere d’acquisto crollò del 17% in Polonia, del 19% in Ungheria, del 21% in Cecoslovacchia, del 23% in Bulgaria, del 44% nell’ex Jugoslavia e addirittura del 72% in Romania (in questi ultimi casi l’iperinflazione ebbe un peso decisivo nella svalutazione di salari e pensioni). Nell’intera regione il reddito pro capite raggiungeva nel 1989 il 37% di quello dell’Europa occidentale, una percentuale scesa pochi anni dopo al 27% 31 .
La chiusura di migliaia di imprese e la riconversione di interi settori produttivi generarono conseguenze sociali pesanti. Anche in uno
dei paesi più fortunati, l’Ungheria, il numero degli occupati calò in pochi anni da 5,5 a meno di 4 milioni. A fronte di una popolazione in lieve calo, oltre un milione di posti di lavoro non è mai stato recuperato: molti operai, soprattutto non qualificati, subirono il pensionamento anticipato, altri furono licenziati. La disoccupazione raggiunse nel 1993 il 14%, poi iniziò una lenta discesa fino al 6% del 2002. I nuovi poveri del postcomunismo erano soprattutto operai maschi adulti (come vedremo meglio nell’Epilogo molti di essi appartenevano alla comunità rom). La precarietà esistenziale, sommandosi al diffuso alcolismo o a un divorzio, provocava spesso la perdita del domicilio, condannando centinaia di migliaia di persone alla marginalità 32 . Come ha mostrato Béla Tomka, la responsabilità dell’allentamento delle reti di protezione sociale grava soltanto in parte sulla ristrutturazione economica degli anni novanta. Confrontando tra il 1950 e il 1990 la dinamica dell’aumento della spesa sociale in Ungheria e nei principali paesi occidentali, Tomka evidenzia un fatto sorprendente: il regime comunista aveva investito nel settore sociale una quota di PIL (appena il 4% nel 1950, il 18% nel 1990) nettamente inferiore a quella di tutti gli Stati occidentali esaminati. A eccezione della RDT e della Cecoslovacchia, negli altri paesi esteuropei le spese sociali registrarono un aumento perfino inferiore a quello ungherese. I regimi comunisti «aumentarono le spese legate al welfare soprattutto in periodi di crisi e con scopi di autolegittimazione, ma le politiche di welfare non costituivano una loro priorità» 33 .
La ristrutturazione industriale determinò un aumento ancora più marcato della disoccupazione in Polonia, Slovacchia e nel Baltico, dove i senza lavoro superarono negli anni novanta il 20% della popolazione attiva. In Romania, dove la dismissione e la vendita del patrimonio industriale pubblico si avviarono in ritardo (per volontà politica), i disoccupati si attestarono intorno al 10%. Solo nella Repubblica Ceca, dove l’industria riuscì a riconvertirsi grazie alla più elevata qualità dei prodotti e a una manodopera specializzata, gli operai restarono (e sono ancora oggi) circa il 40% della forza lavoro, mentre i disoccupati non superarono mai il 5-6% della popolazione attiva. Come risultato della repentina deindustrializzazione post 1989 e della delocalizzazione in Europa orientale di molti servizi di assistenza logistica e informatica, la maggioranza degli occupati è oggi impiegata nel settore dei servizi (dal 70% dell’Ungheria e dell’Estonia al 40% della Romania). L’agricoltura occupa oggi una quota superiore al 10% della popolazione solo nell’area balcanica e in Polonia. Nel primo caso prevale una produzione di sussistenza, mentre nel secondo le piccole aziende a conduzione familiare si sono trasformate, grazie an-
che ai fondi europei, in moderne cooperative di produzione e distribuzione.
La ristrutturazione delle economie ha radicalmente modificato lo stile e il tenore di vita, ma anche gli orizzonti culturali. Valutare in sintesi le conseguenze di un fenomeno così complesso è un compito impossibile: ci limiteremo ad alcune osservazioni generali. I drammi sociali che hanno accompagnato le transizioni esteuropee si sono svolti in silenzio. Le ondate di licenziamenti, “ristrutturazioni” e “razionalizzazioni” non hanno generato proteste violente o durature, fatta eccezione – soprattutto in Ucraina, Polonia e Romania – per una categoria dotata di uno spirito di corpo peculiare, quella dei minatori. I vecchi sindacati del periodo comunista si sono gradualmente atrofizzati e coprono ormai pochi settori del pubblico impiego (insegnanti, ferrovieri). Dal canto loro, le aziende multinazionali presenti in Europa orientale utilizzano ogni mezzo in loro possesso per scoraggiare la rappresentanza sindacale: scioperi e serrate sono quasi sconosciute alla “nuova” classe operaia. La rapidità del cambiamento ha indotto la popolazione a cercare di adattarvisi al più presto. Per anni milioni di cittadini hanno vissuto alla giornata, senza nessuna garanzia del salario o della pensione. Il fattore psicologico si è rivelato fondamentale nel successo di questa severa rieducazione collettiva. Nei primi anni novanta la popolazione volle credere che i cambiamenti, per quanto dolorosi e talvolta ingiusti, avrebbero consentito ai più di vivere presto una vita migliore.
Molti di essi hanno visto effettivamente realizzato questo sogno, sia che provenissero dalle tradizionali élite dotate di un elevato capitale culturale e sociale, sia che appartenessero ai settori della “borghesia rossa” capaci di riconvertire il proprio capitale politico in beni materiali 34. A vent’anni dalle trasformazioni economiche, il reddito pro capite rispetto alla media dei membri dell’Unione Europea mostra un quadro variegato: nel 2009 esso raggiungeva il 90% in Slovenia, l’80% nella Repubblica Ceca, il 72% in Slovacchia, il 67% in Estonia, il 64% in Ungheria, il 62% in Lituania, il 57% in Polonia e Lettonia, il 41% in Bulgaria e Romania. Rispetto alla fine degli anni ottanta, e soprattutto rispetto alla condizione di quegli Stati successori della Jugoslavia e dell’URSS privi di ogni speranza di entrare nell’UE, come la Bosnia, il Kosovo e L’Ucraina o la Moldova, si tratta di un progresso notevole. Al tempo stesso, l’attuale graduatoria relativa al reddito pro capite in Europa orientale non si discosta troppo da quelle degli anni venti e sessanta (Slovenia, Repubblica Ceca, Estonia erano e restano i paesi più prosperi; le repubbliche meridionali dello
spazio jugoslavo, l’Albania e la Moldavia i più poveri), e nessuno dei paesi dell’Europa orientale raggiunge ancora la media dell’Unione Europea. Ciò pare suggerire che le condizioni storiche di partenza, ovvero l’eredità storico-culturale e le dinamiche sociali dell’ultimo secolo, giochino nello sviluppo economico dell’Europa orientale un ruolo troppo spesso sottovalutato.
Il cambiamento ha avuto un impatto profondo sulle generazioni più giovani e istruite. Ai giovani cresciuti nella realtà della digitalizzazione globalizzata, la società di mercato ha offerto opportunità di realizzazione personale altrimenti impensabili. La possibilità di viaggiare, parlare le lingue occidentali, di confrontarsi quotidianamente con l’estero attraverso le reti telematiche ha trasformato i giovani nei vincitori del cambiamento. In Europa orientale è assai frequente incontrare trentenni, uomini e donne, nei panni di ministri, amministratori delegati e direttori di istituti di ricerca. Il dinamismo delle nuove generazioni contrasta, tuttavia, con il dramma della generazione precedente, quella nata negli anni quaranta e cinquanta. Per interi gruppi sociali (i lavoratori di una fattoria collettiva o di una fabbrica, gli abitanti di una città mineraria) la scomparsa del proprio microcosmo ha significato una perdita di status sociale e di senso esistenziale. Una ricerca pubblicata dalla rivista scientifica “The Lancet” ha sollevato recentemente un dibattito sui costi umani della transizione e della privatizzazione nell’ex Unione Sovietica e in Europa orientale (Russia inclusa), che, secondo gli autori, hanno causato fra il 1989 e il 2002 un aumento della mortalità del 12,8% fra la popolazione adulta maschile, con un picco nel 1994 e una chiara correlazione fra l’adozione di terapie economiche liberiste e il calo dell’aspettativa di vita 35. Altre indagini rivelano un declino dell’aspettativa di vita, frutto di maggiore pressione psicologica, ansia, ma anche di alcolismo, incultura sanitaria e cattiva alimentazione 36. Questo spiega l’apparente contraddizione che pone oggi, relativamente all’aspettativa di vita alla nascita, paesi relativamente prosperi come Slovenia e Repubblica Ceca dietro Bosnia (82 anni per le donne, 74,5 per gli uomini – un dato in linea con la media dell’UE) e Albania (80,5 e 75). Nei paesi baltici, in Ungheria e in Romania l’aspettativa di vita scende a 75-77 anni per le donne e a 67-69 per gli uomini, mentre nell’area postsovietica i dati mostrano una realtà demografica addirittura catastrofica: in Moldavia 74 e 66,5 anni, in Belarus 76 e 64 anni, in Ucraina 74 e 62 anni, in Russia 73 e 59 anni. Gli ultimi due Stati si collocano rispettivamente al 119o e 128o posto nella classifica mondiale 37 .