17 minute read
L’attacco delle motosiluranti S 30 e S 30 alla corazzata GIULIO
CESARE nelle acque di Pola
Subito dopo l’affondamento del Sella, il sottotenente di vascello DegenhardSchmidt, sapendo che a Pola si trovavano le motosiluranti S 30 e S 33 trasmise “Venite” e la sua posizione, riferendo che aveva con se due piroscafi catturati, uno dei quali con la S 54; e con questa sua richiesta invitava le due unità a partecipare alla fruttifera caccia delle navi italiane in un settore favorevolissimo. Ma come già detto le due motosiluranti non si mossero perché nel frattempo erano state impegnate per altri motivo, che riportiamo di seguito.
Advertisement
La loro attenzione, trovandosi a Pola, era rivolta alla corazzata italiana Giulio Cesare, che pur appartenendo alla 5a Divisione Navale dell’ammiraglio Da Zara, al momento dell’armistizio si trovava distaccata nella base di Pola, impegnata in lavori di ristrutturazione alquanto complessi, che riguardavano anche la sostituzione dell’armamento contraereo con cannoni di maggiore calibro (120 mm); ed era in stato di efficienza non perfetto per il personale ridotto e formato in parte da allievi.
Già la sera del 7 settembre, conoscendo a Roma che la dichiarazione dell’Armistizio con gli Alleati sarebbe avvenuta l’indomani, il comandante della Cesare, capitano di fregata Vittore Carminati, aveva ricevuto da Supermarina l’ordine di rifornirsi di nafta e di acqua, per passare pronto a muovere in sei ore. Successivamente, alle ore 09.00 del 9 settembre l’ammiraglio Da Zara gli trasmise l’ordine di raggiungerlo a Malta. la Cesare (salpò alle 16.00 da Pola scortata dalla torpediniera Sagittario e dalla corvetta Urania, con istruzioni, impartite dal locale Comando di Marina, di fare scalo a Cattaro per rifornirsi di combustibile.
Nel frattempo, la sera dell’8 settembre, le due motosiluranti germaniche S.33 e S.30, anch’esse della 3a Flottiglia, erano salpate da Pola per portarsi in agguato notturno al largo del porto. Lo scopo, tentare di fermare la nave da battaglia italiana. La S.33, comandata dal sottotenente di vascello Gùnther Brauns, individuato il suo obiettivo riuscì a portarsi in vista della Cesare, per poi raggiungere la distanza di lancio. Ma il siluri, diretto contro la corazzata, risultò impreciso e non causò nella formazione italiana alcun allarme, passando inosservato.25 Nel porto di Pola si trovava per lavori anche il sommergibile tedesco U 407 (tenente di vascello Ernst-Ulrich Brüller), che nel corso delle operazioni in Sicilia, il 23 luglio, aveva silurato e danneggiato l’incrociatore britannico Newfoundland a sudest di Siracusa, e che alla successiva missione, il 28 novembre avrebbe silurato e danneggiato anche l’incrociatore Birmingham ad ovest di Derna. Ma secondo quanto è riportato nel Diario della SKL, avendo la Giulio Cesare aperto il fuoco con le mitragliere, per le raffiche sparate nella sua direzione l’U 407 non fu in grado di muovere e portarsi all’attacco. Poi, la partenza delle due motosiluranti e del sommergibile “fu disturbata dagli italiani”, che sorvegliavano il porto con corvette, per cui si riteneva che le tre unità avrebbero potuto salpare soltanto ricevendo l’aiuto dell’Esercito, Ne conseguì che soltanto alle 02.10 del 12 settembre, dopo l’arrivo delle truppe tedesche, le due motosiluranti poterono lasciare il porto di Pola, e si portarono a nordovest dell’Isola di Brioni, rimanendovi in agguato senza aver avuto occasioni d’attacco. Rientrate a Pola, il 14 settembre ripresero il mare per raggiungere Venezia.
Tornando alle navi italiane, la navigazione della Cesare verso Malta fu tormentata anche da un quasi ammutinamento, dal momento che parte dell’equipaggio, per il solito motivo di coscienza, non intendeva andare a consegnarsi agli Alleati. In conseguenza di disordini a bordo, alle 01.00 del 10 la Cesare fu dirottata verso Pescara, ma poi, alle 04.30, ristabilita la calma, riprese la navigazione verso Cattero.
Alle 07.00 del 10 settembre un velivolo da ricognizione tedesco apparve in vista e seguì per qualche tempo la Giulio Cesare che, poco dopo mezzogiorno, avvistò la nave appoggio idrovolanti Giuseppe Miraglia, anch’essa diretta a Cattaro. E poiché che il suo Comandante, capitano di vascello Gaetano Correale, era l’ufficiale più elevato in grado, questi assunse il comando della formazione. In seguito all’avvistamento del ricognitore, come risulta dal Diario della SKL, fu fatta decollare una formazione di dieci Ju.88 per attaccare le navi italiane, ma soltanto cinque raggiunsero l’obiettivo.
Essi sopraggiunsero alle 13.45, e concentrarono la loro azione offensiva sulla Cesare senza però riuscire a colpirla, anche per la tempestiva reazione delle unità italiane, che si sviluppò con la manovra e con un nutrito fuoco delle armi contraeree.
25 F. Kemnade, Die Afrika-Flottille. Der Einsatz del 3. Schnellbootflottille im Zweiten Weltkrieg. Chronik und Bilanz, cit., p. 456.
Quindi, per ordine di Supermarina, confermato alle 16.55 da Marina Brindisi, le quattro navi dirette a Cattaro furono deviate su Taranto, ove giunsero alle 14.00 dell’11 settembre.
Ventiquattrore più tardi, nel pomeriggio del 12, la Giulio Cesare e la Giuseppe Miraglia ripresero il mare, salpando per Malta. Inizialmente scortate da quattro idrovolanti Cant. Z. 501, arrivarono a destinazione alla Valletta alle ore 07.25 del 13 settembre, dopo aver incontrato al mattino dello stesso giorno, presso Capo Passero, una formazione navale britannica, costituita dalla corazzata Warspite e da quattro cacciatorpediniere.
L’arrivo a Venezia della S 54 e della S 61
Mentre le motosiluranti si avvicinavano ancora a Venezia, con la S 54 che era assieme ai piroscafo Pontinia e Leopardi (poi tedesco Leda), che era la preda più ambita, 26 la S 61 era rimasta arretrata e con un solo siluro. Essa fermò la nave appoggio della Scuola Sommergibili italiana Quarnarolo, ex jugoslava Hvar, a cui il nocchiere Blömker ordinò di seguire la sua unità se non voleva essere affondato. Ma ciò non avvenne in quanto il Quarnarolo raggiunse Brindisi portandovi tutto il personale della Scuola, per poi proseguire per Taranto.27
Non contenti degli esaltanti successi conseguiti, verso le 19.00 i due piccoli scafi tedeschi, che erano rimasti soltanto con il siluro della S 61 ed erano entrambe a corto di benzina, entrarono per rifornirsi nello stesso porto di Venezia, dove sbarcarono gli italiani prigionieri, alcuni dei quali feriti e bisognosi di urgenti cure in ospedale, mentre invece mantennero il resto come ostaggi fino al 13 settembre, in condizioni in cui scarseggiava anche il cibo.
Poiché il sottotenente Degenhard-Schmit non si era fidato delle dichiarazioni dei prigionieri italiani, che riferirono, in modo del tutto falso, che Venezia era nelle mani dei tedeschi, egli entrò per primo in porto, seguendo i piroscafi Leopardi e Pontinia, in linea nell’ordine, dopo aver camuffato la sua motosilurante S 54, senza esporre la bandiera e con gli uomini con indumenti civili, ed entrò nella laguna, dopo che a sua richiesta gli italiani avevano aperto le ostruzioni forse scambiando la S 54 per una loro motosilurante (nella relazione dell’ammiraglio Emilio Brenta è scritto che una delle motosiluranti innalzava bandiera italiana) e riconoscendo i due piroscafi. E ciò avvenne anche senza alcun disturbo da parte delle batterie della difesa, sebbene le sua unità fosse stata chiaramente illuminate dal chiarore della luna, e quindi riconoscibile. Dopo di ché la S 54 andò ad ormeggiarsi con i due piroscafi vicino a San Nicola del Lido, ad una certa distanza dalla terra, mantenendo uno stato di vigilanza nel caso gli italiani avessero tentato di attaccarla e catturarla. Successivamente, poco dopo le ore 21.00, arrivò anche la S 61 che con le sue prede, i due piroscafi Sabaudia e Albatros, raggiunse Venezia anch’essa indisturbata. Nulla accadde perché in città si respirava ormai un aria di resa, come appurò lo stesso Degenhard-Schmit, scendendo a terra alle 21.00 alla ricerca di un comando tedesco, assieme al tenente di vascello Winkler, due sottufficiali e due marinai, tutti armati per evitare sorprese. Ma di autorità militari tedesche non ve erano, e pertanto l’indomani l’ufficiale, che aveva disponibili soltanto una quarantina di uomini delle sue motosiluranti, decise di andare al consolato germanico di Venezia a parlare con il console.
Il feldmaresciallo Albert Kesselring, Comandante Superiore del Sud (OBS) era stato informato che la S 54 e la S 61 erano entrate a Venezia, e per radio nomino come proprio delegato per la città il sottotenente di vascello Degenhard-Schmit.
26 Il 2 febbraio 1944 la motonave Leda (ex Leopardi), che in Egeo era in navigazione da Samos a Kerakion, scortata dalle torpediniere T 14 e T 15 fu attaccato in da aerei della RAF e colpita, essendo carica di munizioni, esplose e affondò presso l’Isola Amorgos (Cicladi). Dell’equipaggio vi furono tre morti: Alcune fonti erroneamente riportano che trasportasse prigionieri italiani, 780 dei quali deceduti. Evidentemente, tante di queste errate notizie, con ricostruzioni a volte completamente false, facevano parte del clima di odio del dopoguerra.
27 Giuseppe Fioravanzo, La Marina dall’8 Settembre 1943 alla fine del conflitto,USMM, cit., p. 196.
Questi nel frattempo si era recato al consolato tedesco, dove assieme al console dottor Köster trovò un ufficiale, il maggiore Schmidt Neudorf, arrivato in treno la sera precedente con personale specializzato ferroviario tedesco, e che stava per recarsi a conferire con il locale comandante del Dipartimento Navale italiano, ammiraglio Emilio Brenta, ex Capo del Reparto Operazioni di Supermarina.
L’ammiraglio di divisione Emilio Brenta. Oltre ad essere stato nel 1940-1941 Capo Reparto Operazioni di Supermarina, poi ammalatosi di esaurimento, era riconosciuto anche un grande tecnico di artiglierie navali. Assunse il Comando in Capo dell’Alto Adriatico, dopo la partenza, per ordine del Re Vittorio Emanuele III, del principe Ferdinando di Savoia Genova. Tutti i principi e duca di Savoia aveva abbandonato la loro sede di Comando, lasciando le responsabilità, di opporsi ai tedeschi, ai loro ufficiali dipendenti.
Il colloquio tra Neudorf e Brenta ebbe inizio alle 09.00 al Comando all’Arsenale, e di fronte alle richieste dell’ufficiale tedesco, “designato ad assumere il Comando della Piazza di Venezia” l’ammiraglio Brenta, che era accompagnato dal contrammiraglio Franco Zannoni, addetto al Comando in Capo Marina Militare della Piazza, e che nella notte aveva già provveduto “a far distruggere gli archivi segreti”, fu convinto ad arrendersi con l’intera guarnigione di 16.000 uomini; e ciò avvenne nel corso di una riunione allargata, iniziata alle ore 11.00, a cui parteciparono altri ufficiali, tra cui da parte tedesca il console Köster e il comandante DegenhardSchmit.28
Tralasciando quelli che furono i dettagli degli accordi stabiliti per la resa per non appesantire il racconto al lettore, occorre dire che il mattino del 9 settembre l’ammiraglio Brenta aveva ricevuto dal Comandante dell’8a Armata, generale Italo Gariboldi, l’ordine di resistere a eventuali atti di forza tedeschi, ma senza provocare “eccessivo spargimento di sangue”.29
Inoltre la città, dove in quel momento non vi erano soldati tedeschi, a causa dei suoi importantissimo monumenti era, come Roma, il terreno meno adatto a combattere, per i frastornati ufficiali e soldati italiani, tanto che le stesse batterie contraeree avevano ricevuto l’ordine di non sparare sugli aerei tedeschi, i quali inizialmente si erano limitati a lanciare “numerosi volantini a mezzo dei quali sono minacciate gravi rappresaglie alla città e alla popolazione in caso di atti di sabotaggio”.30 Tutto quello che era stato fatto per non restare completamente inerti fu quello di far partire da Venezia il maggior numero di navi che si trovavano in porto, per trasferirle nei porti meridionali italiani dell’Adriatico. Sfuggendo agli attacchi aerei della Luftwaffe quattordici vi riuscirono, e tra queste, oltre alla nave appoggio idrovolanti Miraglia e alla nave appoggio della scuola sommergibili Quarnarolo, salparono i grandi piroscafi passeggeri Saturnia e Vulcania, che però, essendo andate a Brioni e Pola invece che a Sud, furono poi catturate dai tedeschi. Tutto il resto del naviglio rimasto in porto, o che si trovava in costruzione nei cantieri fu catturato dai tedeschi.
28 Archivio Stato Maggiore Esercito Ufficio Storico, “Relazione presentata dall’Ammiraglio di Squadra Bruto Brivonesi Comandante in Capo il dipartimento dello Jonio e Basso Adriatico sull’opera da lui svolta nei giorni dell’armistizio”, Discriminazione Ufficiali della Regia Marina, L 13, cartella n. 36; AUSMM, Ammiraglio di Divisione Emilio Brenta, Relazione circa l’attività svolta dopo l’8 Settembre 1943. Diario degli Avvenimenti. * L’ammiraglio Brenta il 9 settembre era divenuto il nuovo Comandante in capo del Dipartimento Alto Adriatico, sostituendo l’ammiraglio Ferdinando di Savoia-Genova, che aveva ricevuto dal Re d’Italia l’ordine di trasferirsi nell’Italia meridionale. Brenta era assistito nel comando della piazza dal contrammiraglio Franco Zannoni. Ferdinando di Savoia, principe di Udine, partì verso le puglie con la vecchia torpediniera Audace, che però dovette rientrare a Venezia per avarie a tutti i turbo-ventilatori, e di conseguenza l’ammiraglio dovette ripiegare su un idrovolante Cant.Z.506 che decollato alle 13.30 dell’11 settembre lo trasportò a Brindisi, dove trovò la sua famiglia al seguito del Re. Un bell’esempio di allontanamento dal suo Comando in un momento militare difficile della reazione tedesca, giustificato, come lo fu per gli altri Savoia tra cui il principe Umberto, Comandante del Gruppo di Armate C, e l’ammiraglio Aimone, Comandante del Dipartimento Marittimo dell’Alto Tirreno, dal dovere di obbedire all’ordine di Vittorio Emanuele III.
29 AUSMM, Ammiraglio di Divisione Emilio Brenta, “Relazione circa l’attività svolta dopo l’8 Settembre 1943. Diario degli Avvenimenti; Erminio Bagnasco, Corsari in Adriatico, cit., p. 93.
30 Ibidem, Relazione dell’ammiraglio Brenta.
Le motosiluranti S 54 (sopra) e S 61 (sotto) l’11 settembre 1943 davanti al Palazzo Ducale di Venezia.
Caddero nelle loro mani varie unità navali tra cui nel porto il cacciatorpediniere ex jugoslavo Sebenico, la torpediniera Audace, i sommergibili Nautilo e CM-1, nonché le numerose unità che si trovavano in costruzione nei cantieri navali di Breda, incluse le sei corvette della classe “Gabbiano” Bombarda, Carabina, Scure, Spingarda, Zagaglia e Clava, e gli otto dragamine da 100 tonnellate RD 127 – RD 134.31
Il sommergibile Nautilo in costruzione a Monfalcone. L’8 settembre si era trasferito a Venezia poco prima dell’armistizio. Partito per raggiungere un porto dell’Italia meridionale, assistette all’affondamento del cacciatorpediniere Sella, ma per un’avaria dovette tornare a Venezia dove fu catturato dai tedeschi che lo ribattezzarono U. IT 9.
Avendo compiuto una serie di imprese che sarebbero divenute leggendarie, le motosiluranti S 54 e S 61 poterono finalmente dedicarsi a realizzare quei lavori di revisione generale di cui avevano tanto bisogno, e che le riportarono in piena efficienza. Nel frattempo, il 17 settembre il Comando in Capo della Wehrmacht (OKW), che non conosceva l’affondamento con le mine del posamine veloce Abdiel, in un comunicato rese noto che due motosiluranti avevano compito in Adriatico una grande impresa affondando quattro navi, un cacciatorpediniere, due dragamine e una vedetta [in realtà un cacciatorpediniere, un dragamine e una cannoniera], e catturato quattro piroscafi, tra cui il Leopardi al suo primo viaggio con 1.000 soldati [sic] italiani a bordo, per poi arrivare alla seguente conclusione: “Dopo essere giunte in un grande porto adriatico hanno costretto il comandante della piazza marittima e il prefetto a cedere le armi”.32
L’indomani, 18 settembre, il ventiquattrenne sottotenente di vascello Klaus Degenhard-Schmit e il capo nocchiere Friedel Blömker ricevettero la Croce d’Oro tedesca, e il 23 dicembre, per il suo valore e l’abilità dimostrati nel corso della vittoriosa missione in Adriatico, Degenhard-Schmit, nato a Kiel il 3 gennaio 1918 e con soli sei anni di servizio nella Kriegsmarine, fu insignito da Hitler della Ritterkreuz, l’ambita onorificenza della Croce di Cavaliere dell’Ordine della Croce di Ferro.
Passato il 1° aprile 1944 al comando della motosilurante S-185 della 10a Flottiglia che operava nel Canale della Manica, e di cui era vice comandante, Degenhard-Schmit decedette a Dunkerque il 22 dicembre dello stesso anno, durante un combattimento con motosiluranti britanniche. Fu promosso postumo tenente di vascello con data di anzianità 1° dicembre 1944.33
La S-54, passata ad un altro comandante, dopo aver urtato una mina il 23 aprile 1944, concluse la sua attività il successivo 31 ottobre, quando all’abbandono della città greca di Salonicco, non potendo muovere, fu autoaffondata con cariche esplosive. Invece, la S 61, che in seguito ad una collisione con la sezionaria S 36 era stata rimorchiata nel porto di Pola, completate le riparazioni, il 3 maggio 1945, a guerra appena finita in Italia, raggiunse Ancona consegnandosi, assieme ad altre motosiluranti superstiti della 3a e 10a Flottiglia, alla Royal Navy. Fu poi demolita.
Riepilogando, delle tre piccole unità tedesche che parteciparono a quell’avventura, i maggiori successi, con conseguenti alte perdite di vite umane, furono indubbiamente conseguiti dalla motozattera MFP 478 che con le mine affondo il posamine veloce britannico Abdiel, certamente la nave più importante, e il rimorchiatore militare italiano Sperone. Alla motosilurante S 54 vanno assegnati l’affondamento del cacciatorpediniere italiano Sella e del motoveliero requisito Vulcania, e la cattura della motonave Leopardi e del piroscafo Pontinia, mentre la motosilurante S 61 affondò la cannoniera italiana Aurora e catturò i piroscafi Sabaudia e Albatros.
32 Erminio Bagnasco, Corsari in Adriatico, cit., p. 110; Vedi anche Diario di Guerra della SKL del 16 settembre 1943.
33 F. Kemnade, Die Africa-Flottille. Der Einsatz del 3. Schnellbootflottille in Zwei Weltkrieg. Chronik und Bilanz, Stuttgardt, Motorbuch Verlag, 1978, p. 450-455; A. Santoni-F. Mattesini, La partecipazione tedesca alla guerra aeronavale nel Mediterraneo (1940-1945), cit., p. 502-503; Emilio Bagnasco e Fulvio Petronio, Una incredibile crociera di guerra in Adriatico, periodico Storia Militare, gennaio 1994.
Gli
attacchi aerei tedeschi alle navi italiane in Adriatico
Ma in quei giorni tra l’8 e il 12 settembre la guerra in Adriatico fu fatta anche dagli aerei della Luftwaffe. La sera del 10 bombardieri in picchiata tedeschi Ju.87, che agivano dalla Croazia, danneggiarono gravemente all’entrata delle Bocche di Cattaro, la grossa cisterna Ardor di 8.960 tsl, che poi, andando alla deriva, fu ancora bombardata e affondata due giorni più" tardi assieme alla nave caserma San Giorgio (ex Principessa Giovanna), poi recuperata e impiegata dai tedeschi.
La Luftwaffe ottenne peraltro maggiori successi nella giornata dell'11 nella zona di Venezia, dove nel pomeriggio, per l’attacco di Ju.87, fu colpito nell’avamporto di Chioggia il piroscafo ex jugoslavo Dubrovnik (capitano Antonio Mesanovic), di 996 tsl., arrivato da Fiume, assieme al piroscafo Scarpanto trasportante personale dell’intendenza della 2a Armata con le loro famiglie. La nave, che si trovava nell’avamporto di Chioggia, colpita dalle bombe intorno alle 17.00 si capovolse e si adagiò su un fondale di 20 metri, a ponente del forte San Felice. Vi furono circa cento morti.
Ma il danno maggiore fu fatto a Venezia, dove per l’attacco di sei Ju.87 intorno alle ore 17.00 dell’11 settembre venne colpito e incendiato, andando totalmente perduto, il lussuoso transatlantico Conte di Savoia, di 48.502 tsl,, senza che le batterie contraeree del porto, per ordine ricevuto, intervenissero.34
Dal momento che si svolgevano a Venezia le discussioni per arrivare ad una resa, l’ammiraglio Emilio Brenta protestò con i rappresentanti i tedeschi per l’attacco al Conte di Savoia che, ormeggiato in disarmo nel Canale Malamocco della Laguna, era preda delle fiamme causate dalle bombe, e chiese la sospensione degli attacchi aerei. I tedeschi ammisero essere stato uno sbaglio, ma intanto il danno era fatto. Invece, secondo il Diario della SKL l’attacco avvenne per impedire al Conte di Savoia di salpare, quindi non vi fu nessun errore.
Non bisogna infatti dimenticare che in seguito all’ordine dell’ammiraglio Brenta del mattino del 9 settembre, tutte le navi in grado di prendere il mare (sei unità da guerra, 14 navi mercantili e venti motovelieri) doveva lasciare il porto di Venezia e dirigere verso sud, e tra queste navi raggiunse Taranto la nave appoggio idrovolanti Miraglia. I transatlantici Saturnia e Vulcania, che avevano lasciato Venezia, andando a Brioni e Pola invece che nelle Puglie, furono catturati dai tedeschi.
34 Vi erano nei Balcani in quel periodo dell’estate 1943 due Stormi di Ju.87 “Stuka”. Il 3° Stormo (St.G.3) in Grecia, e il 151° Stormo (St.G.151) del colonnello Karl Christ, con quattro Gruppi in Serbia per la lotta contro i partigiani di Tito. Lo St.G.151, con i Gruppi I. e II./St.G.151, si trovava a Agram, il IV/St.G.151 a Pancevo, mentre il III./St.G.151 era in Grecia nell’aeroporto di Tatoi, presso Atene, inglobato nello St.G.3. Poiché in Italia non vi erano reparti con velivoli Ju.87, e quindi é da ritenere che mentre i Gruppi dello St.G.3 e del III./St.151 erano impegnati nell’Egeo e nella zona di Corfù e Cefalonia, gli altri tre Gruppi dello St.G.151, della cui attività bellica non si sa quasi nulla, operava nell’Adriatico Settentrionale, fino a Venezia. Il giorno 7 settembre un velivolo Ju.87 della 3a Squadriglia del II./St.G.151, con pilota il sottufficiale Engelbert Schall, era stato abbattuto dai partigiani.
Infatti, i tedeschi avevano intercettato un messaggio in codice in era riportato "il volo della Savoia". Ma venne erroneamente interpretato poiché, in effetti, si riferiva alla partenza da Roma della famiglia reale per la loro fuga, anche con la motivazione di risparmiarla dai combattimenti. Quindi il grande transatlantico fu attaccato ritenendo che avesse ricevuto l’ordine di partire da Venezia, come in effetti stavano facendo le moltissime navi che si trovavano in porto. La nave, pur equipaggio ridotto, sarebbe stata in grado di muovere, ma quando il proseguimento dell’attacco aereo fu annullato, era troppo tardi perché bruciava da prora e poppa.
Quarant’otto ore dopo essere stato colpito, quando con molta fatica l’incendio fu spento, il Conte di Savoia, secondo per tonnellaggio soltanto al mitico Rex, era ridotto ad un rottame fumante, che restò semi-affondato per il resto della guerra.
Anche il viaggio finale dei resti di questa famosa nave fu oggetto di aspre controversie. Recuperato il 16 ottobre 1945 e venduto come rottame da demolizione, il Conte di Savoia, dopo discussioni per la convenienza di poterlo riparare e riportare in servizio spendendo molto denaro e manifestazioni di operai che, invece, volevano che la nave fosse smantellata a Marghera, e in cui i giornali parlarono di "una battaglia dei poveri", la demolizione si concluse solo nell'aprile del 1950 a Monfalcone. Parti dei resti della nave furono utilizzati nello stesso cantiere come acconto della costruzione della prima nave della Linea Italiana del dopoguerra, la motonave Giulio Cesare, molto più piccola, di 27.694 tsl.
Il meraviglioso transatlantico Conte di Savoia, di 48.502 tsl, una delle navi orgoglio della cantieristica italiana. Trovandosi l’11 settembre 1943 ormeggiato a Venezia fu volutamente attaccato da sei bombardieri in picchiata tedeschi Ju.87. Colpito ed incendiato irreparabilmente fu poi smantellato nel 1950-1951.
Lo stesso giorno dell’episodio dell’attacco al Conte di Savoia, 11 settembre, fu colpito da bombe e affondato nei pressi del porto di Spalato il piroscafo Nicola Martini, di 634 tsl, e fece la stessa fine la piccola torpediniera T-8 (tenente di vascello Marcello Bosio), ex jugoslava, attaccata a una ventina di miglia a nordovest di Ragusa (Dalmazia), tra l’isola di Mezzo e l’isolotto di Olipa, da una formazione di nove velivoli Ju.87. Colpita in corrispondenza delle caldaie, la torpediniera si inabisso in un fondale di 64 metri.
Nei giorni successivi, mentre i tedeschi potevano ormai esercitare il controllò su tutti i porti italiani a nord di Bari e Salerno, la Marina italiana cercò di portare aiuto alle guarnigioni dell'Esercito che ancora resistevano lungo la costa greca e soprattutto a Cefaloria e Corfù, pagando in questo compito un forte tributo a causa degli Ju.87 del II./St.G.3 (capitano Theodor Nordmann) dislocati ad Argos, in Grecia. Le torpediniere del 3° Gruppo Missori e Stocco, inviate nella zona dei combattimenti per contribuire con le loro armi alla difesa del porto di Corfù, furono attaccate dai bombardieri tedeschi il mattino del 14 settembre e la Giuseppe Missori (capitano di corvetta Wolfango Mandini), colpita dalle bombe dagli “Stuka”, fu portata ad incagliare e fu abbandonata.
A conclusione di questo saggio non si può non rimanere quasi increduli che due piccole motosiluranti e una motozattera posamine, con un numero esiguo di uomini d’equipaggio, ma che avevano ricevuto ordini precisi ed erano animati da tanta determinazione e aggressività, abbiano potuto portare a termine per sei giorni nei mari Ionio e Adriatico, e con straordinario successo, un’impresa come quella compiuta dalla S 54, dalla S 51 e dalla MFP 478. Piccole navi alle quali di solito le principali marine non assegnano un nome ma soltanto una sigla. Nel caso specifico una S che stava per Schnellboot o motosilurante, e una MFP per motozattera.
Occorre però dire che le piccole unità tedesche furono agevolate da un’incredibile serie di lacune da parte della Regia Marina, i cui comandi o comandanti a bordo delle navi, trovandosi a dover combattere con coloro che poche ore prima erano considerati a tutti gli effetti degli alleati (e non degli invasori), non sapevano come comportarsi, tanto che nessuna delle numerose navi incontrate non ve ne fu una da cui fu fatto partire un colpo di pistola.
Contribuì a questa situazione anche il fatto che le navi incontrate dalle motosiluranti, comprese le unità militari che furono affondate, trasportavano un gran numero di soldati e civili che andavano al sud; e questo scoraggiò, indubbiamente, i comandanti dei piroscafi armati, in cui si trovavano, a reagire per evitare un massacro che si sarebbe verificato in caso di siluramento. Inoltre, nello sfascio delle Forze Armate italiane dell’8 settembre, non esisteva più in quei giorni alcuna sorveglianza in mare né di esplorazione ed intervento aereo, il che facilitò enormemente il compito delle unità tedesche che portarono a termine la loro impresa senza essere state minimamente disturbate.