suicidi carcere polizia penitenziaria

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SEMINARIO DI PSICOLOGIA PENITENZIARIA LA DISTRUTTIVITÀ NELL’UOMO

Psicopatologia dei reati nella popolazione carceraria 19 settembre 2008 Complesso socio-sanitario dei Colli Via dei Colli, 4 - Padova

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Suicidi in carcere detenuti e agenti di polizia , dott.ssa L. Baccaro • “L’uomo vuol essere felice, e vuole soltanto essere felice... La volontà non fa mai il minimo passo se non verso quest’oggetto quest oggetto. È il movente di tutte le azioni di tutti gli uomini, anche di quelli che s’impiccano”. B. Pascal

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Raccontano:

• “tutti almeno una volta abbiamo pensato ad ammazzarci, soprattutto alla prima carcerazione o quando ci è giunta una pena di tanti anni,, ma è solo un momento…”

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• Già nel XVII secolo i giudici inglesi (Coroners), chiamati a indagare nelle carceri su casi di morte violenta o, comunque, sospetta, pur classificando, di solito, l’evento suicidario come “morte per castigo divino”, in qualche raro caso iniziarono a stabilire divino delle correlazioni fra gli episodi di autosoppressione e alcuni specifici aspetti del regime detentivo. • Ma fu soprattutto nell’Inghilterra vittoriana del XIX secolo che s’intensificarono gli studi, anche se erano t tti influenzati tutti i fl ti dal d l ffatto tt che h in i quell periodo i d non soltanto la morte in carcere, ma la morte in generale aveva assunto una sorta di significato politico, cioè veniva interpretata non come indice della salute psicologica individuale, ma piuttosto della salute morale l d della ll nazione. i Si d deve però ò arrivare i alla ll metà tà del 19º secolo perché il tema più generico delle “morti” in carcere inteso come un “fenomeno di disagio sociale” cominci a destare l’interesse degli studiosi. •

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• Ferri nel 1885 commenta come “il suicidio non mi pare un atto immorale; il suicidio è una sventura, ecco tutto. È una sventura come la pazzia, a cui spesso si associa, e come qualunque altra debolezza fisica o morale. morale Certo è una debolezza; ma una debolezza che non si può imputare alla volontà immorale dell’individuo che ne subisce il fato, o per decreto ereditario attraversante più generazioni, o per resistenza minore della sua fibra agli uragani psicologici che talvolta sconvolgono tutta psicologici, un’esistenza. E così il suicidio non è un fatto antinaturale, contrario alle leggi di natura, all’istinto della propria conservazione. Già tutto ciò che avviene in natura è naturale, ed il suicidio stesso è poi la prova del fatto che che, in chi lo compie ( e per giudicare bisogna tenere conto delle sue condizioni e non delle nostre) l’istinto di conservazione è venuto meno”

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• Attualmente in Italia il suicidio non è punibile ma per l’art. 580 Cod. Pen. è reato l’istigazione o l’aiuto al suicido, la pena è maggiore se il suicido i id avviene i effettivamente ff tti t e se il suicida i id è infermo di mente, incapace di intendere e di volere o minore di 14 anni. In questi casi l’istigatore è colpito con la stessa pena del reato di omicidio i idi volontario. l t i • Chiunque cagiona la morte di un uomo, col consenso di lui, è punito con la reclusione da sei a quindici anni.

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• “In genere si comincia con atti di autolesionismo, ti tagli addosso, prendi a capocciate il muro. Poi insceni il suicidio. Solo che a quel punto è pericoloso. Sei deperito, puoi avere un mancamento, ti possono cedere le gambe gambe. E allora sei morto morto. Il gioco gioco, però però, è pericoloso anche se sopravvivi. Fascicoli personali, magistrati di sorveglianza, guardie: tutti controllano il detenuto. […] In carcere i tentati suicidi vengono puniti,, come pure p p g gli atti di autolesionismo”. Tutto finisce nella tua cartella, vengono stesi dei rapporti, iniziano ad osservarti 24 ore su 24. A quel punto, se hai inscenato il suicidio, devi continuare a fingere, tutto il tempo. E non è facile. Simulato o meno, spesso l risposta la i t d delle ll istituzioni i tit i i all tentato t t t suicidio i idi passa rapidamente dalla visita medica alla cella di isolamento, che dovrebbe essere (ma non è sempre così precisa) piantonata a vista”

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• Nell’Ordinamento penitenziario, legge n. 354 del 1975, non si parla del suicidio ma, genericamente, di tutela della salute dei carcerati all’art. 11, nel quale si legge che “L’assistenza sanitaria è prestata, nel corso della permanenza nell’istituto, con periodici e frequenti riscontri, riscontri indipendentemente dalle richieste degli interessati”. In realtà, in carcere il tentativo di suicidio è punito disciplinarmente (come avviene anche per l’autolesionismo, il tatuaggio, il piercing), in base all’articolo 77 del Regolamento penitenziario che, al punto 1) prevede ll’infrazione infrazione (molto generica) della “negligenza negligenza nella pulizia e nell’ordine della persona o della camera”. Oltre alle possibili sanzioni decise dal Consiglio di disciplina (richiamo, esclusione dalle attività, isolamento, etc.), l’infrazione disciplinare comporta la perdita dello sconto di pena per la buona condotta ((liberazione anticipata), p ), nonostante il codice penale p non consideri reato il tentativo di suicidio. Inoltre il detenuto che si suicida in carcere si sottrae all’obbligo giuridico di astenersi dal togliersi la vita e ciò può essere ritenuto un “reato omissivo improprio”.

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• L’obbligo giuridico in realtà è riferito non tanto al detenuto, ma all’agente che deve intervenire, infatti l’art. 41 dell’O.P., “Impiego della forza fisica e uso dei mezzi di coercizione”, individua il preciso dovere giuridico e la chiara responsabilità della polizia penitenziaria di salvare il recluso anche a costo di usare la forza, infatti, al fine di garantire l’incolumità del detenuto, gli agenti sono autorizzati a usare quei mezzi di coercizione fisica che, normalmente, sono loro proibiti.

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“Oggi un compagno si è tagliato le vene…Tutto quel sangue mi ha impressionato: la limitatezza e la fragilità della natura umana in carcere è come uno specchio e ti senti emotivamente coinvolto… insomma non è come vedere la sofferenza in televisione, è tutto molto più brutto, più vero, più crudele”. Molti detenuti in carcere si fanno male perché non hanno altri modi per farsi ascoltare. Molti di loro hanno dei problemi ed hanno bisogno di attenzione, per esempio i tossicodipendenti, e non credo che il carcere sia il posto migliore per loro, usciranno dei rottami peggio di quando sono entrati. La maggioranza delle guardie sembrano come quei macellai che non s’impressionano s impressionano più alla vista del sangue sangue, si arruolano solo per lo stipendio non hanno preparazione ed istruzione adatta per gestire delle persone che stanno male. • Se per curare dei malanni fisici ci vuole un dottore laureato in medicina come si può pretendere di curare dei detenuti con problemi psicologici, esistenziali, ecc. con una divisa, una li licenza di tterza media di ed d una chiave hi iin mano. M Molti lti di lloro stanno chiusi 24 ore su 24 e sono imbottiti di psicofarmaci, in queste condizioni c’è da meravigliarsi se uno non si taglia le vene o non tenta la fuga perfetta suicidandosi…”

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• Comunque le misure che vengono adottate nei tentativi di suicidio dei detenuti vanno da un richiamo fino all’isolamento o, nei casi più, gravi, ritenendo il soggetto “affetto da una sorta di devianza psichica”, ad un intervento di tipo medico-psichiatrico, inquadrando il suicidio o come un comportamento “patologico” patologico che viola il diritto\dovere alla salute o come un voler “solo” richiamare l’attenzione su di sé. Quindi abbiamo devianze di vario livello e varia gravità: se l’atto autosoppressivo è considerato “serio”, allora chi lo compie è un malato di mente e ll’ordinamento ordinamento penitenziario prevede l’adozione l adozione di misure rivolte alla tutela della salute mentale del soggetto (assistenza psichiatrica, trasferimento ad un ospedale civile o all’ospedale psichiatrico giudiziario...). • A livello di rimedio strutturale si adotta adotta, in molte carceri, carceri la cosiddetta “cella liscia”, un parallelepipedo senza nessun oggetto all’interno e nessun appiglio alle pareti.

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• Nel caso in cui il suicidio è considerato “simulativo”, allora, si ritiene che il detenuto strumentalizzi il suo gesto per qualche l h fifine di diverso d dalla ll morte t che h può ò essere quello di protestare contro l’amministrazione penitenziaria, quello di ricattare al fine di ottenere qualche altro beneficio, f oppure quello di vendicarsi delle frustrazioni subite. Quando il suicidio è un gesto “manipolativo” o “strategico”, come viene definito nel linguaggio burocratico dell’amministrazione penitenziaria, allora, il gesto suicidario è etichettato come atto di devianza di un detenuto “ribelle”.

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• I tre quarti dei suicidi in carcere sono finti suicidi andati male. Non mangi, deperisci e poi fingi di ucciderti. Se ti va bene prendi l’incompatibilità col carcere che può voler dire, per d t detenuti ti con pene brevi, b i uno sconto t di pena, un trasferimento in un ospedale psichiatrico giudiziario (OPG) in comunità (OPG), comunità. Se ti va male male, muori

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• “Di solito, per chi finisce in carcere, il momento più critico è quello di “primo ingresso”, quando si effettuano i colloqui con gli psicologi ed educatori, che dovrebbero cercare di alleviare il trauma della carcerazione,, specialmente p p per chi entra la p prima volta e si trova rinchiuso in un ambiente totalmente diverso dalla normalità del vivere all’esterno. Qui il “nuovo giunto” tende a sfogare la sua delusione e amarezza, vedendosi di fatto crollare il mondo addosso,, e finisce per p sperare p solo che la p persona con cui svolge il colloquio possa dargli conforto e una certa sicurezza. Ma invece quasi inevitabilmente, data la cronica carenza di personale specializzato, questa speranza nella maggior parte dei casi viene disattesa. Succede allora che, q quando si p presentano p persone che di fatto richiederebbero maggior attenzione, a volte vengano messe nelle celle “lisce” per un periodo di osservazione. E si finisce per creare, di conseguenza, disagio su disagio.

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a) Il suicidio/fuga • L’ambiente L ambiente carcerario esercita sull’individuo sull individuo un’influenza distruttrice tanto da essere considerata la vera causa del suicidio. In queste condizioni psicofisiche il ristretto può attivare a vedere come unica “libera” soluzione la fuga da se stesso, dalla vita a e da u una a realtà ea à cche e lo o so sovrasta as a e a alla a qua quale e non o può sfuggire, ma non solo, il suicidio diventa l’ultimo progetto, inteso come fuga definitiva da una situazione aberrante (perdita della propria soggettività, solitudine, isolamento). Ma, paradossalmente,, il suicidio diventa l’unica possibilità p p di essere con se stessi, in un momento concreto di personale progettualità anticipatoria dell’evento della morte. Un riprendersi in mano la propria vita per andare in una condizione migliore e di pace.

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b) Il suicidio/vendetta, minaccia, ricatto • Il d detenuto t t che h sii dà lla morte t per vendetta, d tt minaccia o ricatto è un ribelle nel cui suicidio, estrema forma di trasgressione comportamentale, si ravvisa un’intenzionalità etero-aggressiva etero aggressiva, anche se questa aggressività non viene, nei fatti, diretta verso gli altri. • Il suicidio come vendetta nasce dal sentimento di odio e di rivalsa verso tutto e tutti, in quanto il detenuto si vede e si sente dimenticato e disprezzato dalle istituzioni, dalla comunità e dalla famiglia.

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• Nel suicidio come minaccia o ricatto la dimensione è finalistica e utilitaristica, cioè l’atto autosoppressivo ha lo scopo di sensibilizzare ll’Istituzione Istituzione penitenziaria e e, per raggiungerlo raggiungerlo, il detenuto si serve del proprio corpo e del suicidio (più spesso di un tentativo di suicidio) come se fosse di un’arma, è come se il recluso riprendesse possesso del proprio corpo, per mantenerlo in ostaggio fino ad ottenere la soddisfazione delle proprie esigenze. In pratica per il detenuto la minaccia di suicidio è vista come l’ultima carta da giocare per tentare di modificare la situazione a proprio favore ma questi non possono essere considerati casi di suicidio vero e proprio in quanto manca l’intenzionalità ed in pratica solo un gesto manipolativo.

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c) Il suicidio per coscienza/vergogna • “Dopo il suicidio del ragazzo albanese non mi meraviglia tanto la reazione del figlio delle vittime che accusa quella persona di essere “sfuggita” alla pena suicidandosi [ …]Se poi si vuole di discutere t d deii motivi ti i che h questa t persona poteva t avere per suicidarsi, io credo che la cosa sia troppo soggettiva, nel senso che ognuno di noi vede il proprio reato in modo diverso. C’è chi lo giustifica e trova delle scusanti, magari ritenendo di aver ucciso per vendicarsi di un torto grave subito. Poi c’è chi non riesce neppure pp a comprendere p la p propria p azione, non sa spiegarsi come ha fatto ad arrivare a un gesto così violento, e c’è chi trova difficile confrontarsi con quello che ha fatto, e io credo che sia questo il caso della persona suicidata. Allora io credo che lui abbia deciso di morire per sparire, per sfuggire, ma non per sfuggire alla pena, bensì per sfuggire alla difficoltà di comprendere p il p proprio p g gesto. La mia impressione p è che questa persona che si è uccisa non perché spaventata dal carcere, ma perché spaventata dalla propria coscienza. Perché sono convinto che il peso più grave non è quello del carcere, ma quello dei rimorsi, del convivere con le proprie responsabilità”.

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Massimo Floris, 19 anni, in attesa di processo. in carcere per una rissa avvenuta un anno fa all’uscita di un bar a Sant’Anna Arresi. Il ragazzo era in cella da poco, trasferito a Buoncammino per il processo che sarebbe cominciato presto. Lei, 17 anni, l’aveva lasciato: gliel’aveva comunicato in una lettera che lui aveva letto poche ore prima. Alle quattro di giovedì pomeriggio, rimasto da solo, Massimo Floris ha preso il lenzuolo dalla sua cuccetta, ne ha annodato un capo alle sbarre della cella e si è passato l’altro attorno al collo. Poi s’è lasciato cadere. Un suicidio organizzato con cura: i quattro compagni di cella fuori per l’ora l ora d’aria d aria, lui che aveva detto di non stare bene ed era rimasto in cella. Prima di annodare un lenzuolo alle sbarre e di impiccarsi in una cella di Buoncammino, ha scritto sulla propria pancia il messaggio d’addio: il nome della sua ragazza e la frase “L’ho fatto per te”. Un suicidio annunciato, in una lettera spedita a casa: una lettera rimasta sulla credenza per due giorni, in una busta chiusa. Sua madre, Anna, non aveva voluto aprirla per rispetto: Massimo l’aveva indirizzata non a lei ma a una sorella. L’hanno aperta giovedì sera, quella lettera. C’era scritto che se la ragazza l’avesse lasciato, lui si sarebbe bb ucciso. i Con tutti si era sempre mostrato sereno, senza mai dare problemi di nessun genere. “In genere stiamo sempre molto attenti alle condizioni psicofisiche dei detenuti. I casi cosiddetti a rischio sono sempre molto controllati, stiamo attenti e vediamo se ricevono visite nei giorni di colloquio, se scrivono e se ricevono posta, come si relazionano con gli altri detenuti. Se ci rendiamo conto che un detenuto è depresso o si sta lasciando andare interveniamo subito con un supporto psicologico”. E conclude: “Purtroppo Purtroppo nel caso di questo ragazzo non ce lo aspettavamo minimamente. Stiamo attenti ma non possiamo conoscere i problemi personali e familiari di ogni detenuto. Se loro non esternano un disagio è impossibile. Purtroppo alcune volte i detenuti si sentono come abbandonati. È la solitudine gioca un ruolo devastante”. (Il Sardegna, 11 novembre 2007)

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Fattori di rischio individuali • Gli istituti i tit ti di pena sono luoghi l hi d dove sii concentrano gruppi vulnerabili che sono tradizionalmente tra quelli più a rischio: • giovani DONNE • persone con disturbi mentali o interdette • soggetti socialmente isolati • soggetti con problemi di abuso di sostanze • soggetti con storie di precedenti comportamenti suicidari o comunicazione di intento suicidario • trattamento psicofarmacologico durante la detenzione • reato ad alto indice di violenza

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Tentato suicidio • IIn carcere sii evidenzia id i lla grande d diff diffusione i d deii tentativi di suicidio non letali tra la popolazione detenuta. Preciso che un tentato suicidio è qualcosa di molto simile ad un suicidio ma è anche tanto altro che un suicidio non è, perché sottende una dinamica completamente diversa dal suicidio vero. vero • Sottolineo che questo è vero perché nella stragrande maggioranza dei casi chi vuole davvero suicidarsi purtroppo muore e in questa verità sta la differenza: mentre chi vuole morire vuole cessare con la vita, chi tenta il suicidio spera che qualcuno interpreti la sua richiesta d’aiuto, offrendo un cambiamento alla situazione

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• Il fenomeno del tentato suicidio i idi in i carcere negli li ultimi 27 anni è stato registrato in 13.297 13 297 casi, casi con un tasso medio ogni 10.000 detenuti pari al 142,24%.

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• La lettura del tentato suicido si può leggere: • suicidio vero che viene scoperto e bloccato • episodio di autolesionismo • a scopo dimostrativo • richiesta aiuto • protestatario t t t i • fuga verso altre strutture

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AUTOLESIONISMO

• Negli ultimi 17 anni gli episodi di autolesionismo sono stati 93 93.414 414 con un tasso di autolesionismo pari al 105,03%.

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• Il tagliarsi per loro è come un passaporto per avere ciò di cui hanno bisogno, ad esempio: vogliono parlare con un operatore, psicologo, se non lo ottengono una lametta e via, ovviamente sono già persone con grossi problemi a monte monte. • Poi ci sono due tipi di autolesionisti, ovviamente sempre per ottenere qualcosa, però uno lo fa coscientemente ed allora sceglie il punto dove tagliarsi di minor danno e minor entità (carceramente si chiamavano graffi di gatto e c’era sempre la battuta scherzosa “hai messo il gatto in cella?”). • Il peggio è quello determinato, si dà coraggio con gli psicofarmaci e taglia p g dove capita, p , se ci sono vene,, arterie, è uguale. Ho visto uno che si tagliò il collo…lo hanno ripreso per i capelli quando i soccorsi…sob, come al solito sono arrivati tardi, ed il sangue dal bagno era arrivato in cella…

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SUICIDIO POLIZIA PENITENZIARIA

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• Il sociologo Durkeim ha studiato il fenomeno del suicidio nelle forze armate e nella polizia e lo ha suddiviso in due forme: • il SUICIDIO EGOISTICO, messo in atto in una situazione di crisi personale e per scarso interesse verso la comunità, come potrebbe avvenire in seguito a malattie, privazioni e lutti; • il SUICIDIO ALTRUISTICO, messo in atto per forte ed intenso legame con la comunità, segnato da un forte senso dell’onore, dello spirito di corpo e di formazione morale, p per cui ci si sacrifica p per il bene ed il successo del gruppo di appartenenza.

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• L’ipotesi di partenza è che gli agenti di Polizia Penitenziaria sono sottoposti ad un continuo stress dovuto: • alla relazione con i detenuti, le loro problematiche, le loro condizioni; • alla relazione con i colleghi, i superiori e i dirigenti dell’istituto penale; • alla realtà organizzativa e ai compiti istituzionali più o meno delineati e contradditori. L’analisi dei compiti e delle g agenti g p penitenziari ha p portato a considerare una funzioni degli possibile contraddizione che si fa strada nel ruolo di agenti: l’assodata partecipazione degli agenti all’osservazione e al trattamento, che si considera un progresso civile e coerente con le linee costituzionali, potrebbe non essere in sintonia di ruolo e mansione con la più consolidata funzione di controllo e sorveglianza dei detenuti e internati. Questo conflitto di ruolo incrementerebbe, negli agenti maggiormente sensibili e inclini ad un alto livello professionale soprattutto nella relazione con i detenuti, un ulteriore fattore di rischio di burnout.

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Alcune condizioni che possono essere considerate per il rischio di suicidio sono: • il sesso maschile: gli uomini interiorizzano e reprimono gli stati emotivi negativi e questo viene amplificato dal bisogno continuo di autocontrollo delle emozioni; • l’ambiente operativo: che conduce ad un contatto continuativo con la violenza, la sofferenza, il crimine, la morte, con un continuo bisogno di fornire assistenza, intervento, aiuto, nelle situazioni critiche altrui; • la struttura gerarchica piramidale: a tutti è promessa una carriera, ma la carriera prevede tagli ed esclusioni, graduatorie e gerarchie che possono far crollare psicologicamente chi si sente escluso da promozioni e avanzamenti; il negativo adattamento alla gerarchia, se eccessivamente autoritaria e poco sensibile ai problemi del singolo.

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• l’assenza della rete delle protezioni sociali, della funzione protettiva delle equipes, del senso di appartenenza ad uno staff, in quanto anche fra “pari” c’è una classifica, una graduatoria; • la facilità al trasferimento, la difficoltà ad accettare la realtà dei distacchi dalla città o dalla propria famiglia con il conseguente sradicamento forzato dall’ambiente abituale (famiglia, amici), che viene vissuto come una perdita della propria i sicurezza; i • la forzata convivenza con altri sancita da regole rigide, che prevedono la perdita della privacy e rendono difficile l’integrazione; • la riattivazione di dinamiche relazionali conflittuali, nei confronti f ti dell’immagine d ll’i i paterna, t riproposta i t d daii superiori, i i e di quella dei fratelli, riproposta dai colleghi pari grado;

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Epidemiologia del suicidio • Rifacendoci a dei dati statistici sul fenomeno del suicidio nelle forze di polizia possiamo dire innanzi tutto che “il suicidio è sempre e

comunque q sottostimato nelle statistiche ufficiali” (secondo studi dell’OMS di Ginevra) per riserbo della famiglia, per errore con morti accidentali o incidenti e per errata causa di morte (“arresto ( arresto cardiaco”) cardiaco ) stilata da un sanitario poco attento.

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GRAZIE PER L ATTENZIONE L’ATTENZIONE

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