NUMERO 1 – LUGLIO 2008 Reg. Tribunale di Cagliari n. 14/08 del 09/06/08
ĂŠ nata una nuova
2
8 MARIA LAI la favola, la scuola, i bambini
8
46 45
24 58 31
12 69 52
36
28
69 3
Editoriale
7
IN QUESTO NUMERO MARIA LAI. La favola, la scuola, i bambini I VINI ARGIOLAS, da Serdiana un’azienda al femminile Donne e vino L’Islam a volto scoperto La seta che viene dal mare, CHIARA VIGO MICHELA MURGIA. Il mondo lo deve sapere I fumetti di DANI&DANI Loro ci sono riuscite VERONICA MELEDDU, neurochirurgo
8 12 16 17 20 24 28 31 32
STORIE FUORILEGGE Le Banditesse di Sardegna
36
LA VITA DEL PROSSIMO Il coraggio di MADRE TERESA - SUOR NICOLI, una vita al servizio degli altri 40
ATTUALITA’ E DIRITTI Sessant’anni d’intolleranza DONNA Rivista al femminile in Sardegna NUMERO 1 – LUGLIO 2008 Reg. Tribunale di Cagliari n. 14/08 del 09/06/08
TRA ORIENTE E OCCIDENTE Un angolo del Giappone dedicato all’incantevole mondo femminile Non solo belle ma anche tecnologiche
Responsabile Editoriale Patrizia Floris Direttore Responsabile Maria Assunta Serra Collaboratore Editoriale Sandra Sulcis Hanno Collaborato: Laura Bittichesu, Patrizia Casula, Nunzia Cimino, Valentina Chelo, Alessandra Cocco, Daniela Cocco, Maria Rita Concas, Dani&Dani, Roberta Floris, Valentina Follesa, Tatiana Goex, Giovanna Grosso, Barbara Ledda, Nina Ligas, Emanuela Locci, Gabriella Macis, Paola Orrù, Maria Carla Piras, Silvia Secci, Franca Sini, Sandra Sulcis, Alessandra Tiddia, Giuseppina Zoppi Progetto Grafico e impaginazione MIXEDO Editore Associazione AFFUENTE Stampa Tipografiche Kalb (Cagliari) ______________________________ DONNA Direzione, redazione e amministrazione: via Niccolò Tommaseo, 48 – Cagliari Tel/Fax: 0703110698 Email: donna@affuente.it www.affuente.it – www.donnaesardegna.it
42
45 46
L’ISOLA DA SCOPRIRE Discover Sardinia 52 Mangiare e bere 58
ARTE E CULTURA Le madri della Costituzione 62 Mi chiamerò George Sand 66 Libri ed eventi 69
F
ra i tanti nomi possibili abbiamo scelto Donna. Meglio di altri sottolinea il senso della nostra iniziativa in cui la donna ha il ruolo di protagonista. Riteniamo che i tempi siano ormai maturi perché si guardi alla donna con occhi diversi dal passato. Nuovi diritti e libertà, gradi più elevati d’istruzione, maggiore visibilità nelle posizioni di lavoro e nelle professioni, nuovi stili di vita hanno concorso a mutarne profondamente le condizioni e il ruolo nella società. Tutto ciò ha posto in crisi i modelli tradizionali delle sue reti di relazione, e di converso ha fatto sorgere nuovi bisogni di senso e di comunicazione. La rivista vuole dar risalto a questo nuovo esserci della donna che di fronte ai mutati orizzonti di vita e di lavoro, sente il bisogno di interrogarsi su di sé, sul senso della sua esistenza nel tempo e nella società in cui come persona vive, pensa, agisce, ama, opera, intraprende. Conosce dal passato i rischi di emarginazione che incombono se cercasse queste risposte unicamente in un mondo tutto suo, rifugiandosi in un fantastico altrove in apparenza rassicurante e consolatorio. Sa di doversi aprire al dialogo con gli altri. Per cui comunica ed ascolta, interagisce e coopera e anche grazie agli altri ricrea quei nodi di senso che si erano perduti nella rete delle sue relazioni e, per quanto le è possibile, ne migliora l’ordito e progredisce. La rivista nasce appunto per essere al tempo stesso spazio e supporto all’agire comunicativo di questa donna. Nelle diverse rubriche della rivista abbiamo voluto dare un ampio spazio alle interviste di donne che si sono messe in luce guadagnandosi un posto in prima fila nei campi in cui si dispiega il loro impegno di lavoro di vita. Pensiamo infatti che sia quanto mai utile conoscere non soltanto cosa pensano ma anche chi sono e cosa fanno le donne che vivono in Sardegna, ma non solo. Giova apprendere anche dalle esperienze delle donne che vivono in contesti sociali e culturali diversi dal nostro, tanto più che il futuro di società multi-culturale più che essere imminente è già un presente anche da noi.
e
Ci rendiamo conto che la periodicità di una rivista non è sufficiente a conferire quella fluidità di discorso richiesta dai crescenti bisogni di comunicazione. Abbiamo, perciò, pensato di rendere più interattiva la comunicazione mettendo on-line la rivista, corredandola da un apposito blog destinato a raccogliere in modo agile e aperto a quanti volessero intervenire, avanzando opinioni, formulando commenti, dando suggerimenti anche in ordine a temi di rilievo meritevoli di attenzione, ed infine, perché no, manifestando l’interesse a collaborare a specifiche attività in cui si realizza la pubblicazione della rivista, sia in carta che in rete. Presentando gli obiettivi del nostro progetto editoriale ci auguriamo che esso contribuisca a colmare una lacuna di comunicazione che è presente nel panorama della stampa periodica isolana. Se si escludono alcune apprezzabili esperienze di profilo specialistico, di fatto non è mai esistita in Sardegna una rivista femminile che si ponesse l’obiettivo di concorrere a formare la pubblica opinione. Si potrebbe dire, parafrasando un detto di Jane Austen che una metà del mondo non è riuscita fin qui né a sentire né a capire ciò dice e pensa l’altra metà. Sappiamo di intraprendere un’impresa tutt’altro che facile. Oltretutto la pratica non si adegua tanto docilmente come si vorrebbe agli ordini della teoria e spesso si ribella contro i più nobili principi. Ci auguriamo perciò che il nostro impegno trovi una favorevole accoglienza da parte di una vasta platea più che di semplici lettori di interlocutori interessati al dialogo che si apre con voi tutti dalle pagine di questa rivista. L’editore Patrizia Floris floris.patrizia@libero.it
7
MARIA LAI
La favola, la scuola i bambini
“Cosa intendevi per arte quando hai scelto la tua strada?” “Giocavo con grande serietà, a un certo punto i miei giochi li hanno chiamati arte.”
C
on queste parole Maria Lai parla della sua arte. Per lei l’uomo ha bisogno di mettere insieme il visibile e l’invisibile, perciò elabora fiabe, leggende, feste, canti, arte. Per avvicinate tutti, anche i bambini, al magico mondo dell’arte, Maria inventa delle storie, dei giochi, delle fiabe. E’ uno degli stratagemmi usati da Maria per catturare lo spettatore disorientato davanti all’arte, e coinvolgerlo, come una fiaba coinvolge il bambino. Lei dice: “Chiunque io cerchi di sollecitare a un dialogo sull’arte si annoia, soltanto se è in forma di gioco, anche se impegnativo, mi ascolta”. La fiaba permette ai bambini di esprimere la propria vita interiore, le proprie emozioni, i propri sentimenti. Può, quindi, diventare uno strumento per l’educazione alla vita e all’arte. Le fiabe indicano tempi e spazi che non esistono, diventano bugie che servono al bambino e all’adulto per sperimentare la dimensione del sogno e vivere poeticamente la propria esistenza. Con il racconto di una fiaba si invita chiunque a percorrere un viaggio nella fantasia e a tentare di scoprire una nuova storia. La fiaba non si occupa della realtà ma può essere un ottimo strumento per descriverla in maniera
semplice e coinvolgente. E’ fuori dal tempo e dallo spazio, ma mette in luce percezioni profonde, desideri, paure. Per i bambini, a cui Maria dedica molti dei suoi lavori, le fiabe sono una necessità insopprimibile, poiché in esse si immedesimano, e aiutano i piu’ piccini a superare i loro conflitti interiori. Il bambino ha bisogno dei racconti fantastici e della magia, anche se contengono elementi di paura, perché attraverso queste esperienze possono sviluppare più facilmente la capacità di rapportarsi con se stessi e con la complicata realtà che li circonda. L’arte di raccontare è innata in Maria Lai. Sin dagli anni Settanta per realizzare le sue opere utilizza differenti materiali: stoffa, tela grezza, tela jeans, pellicola trasparente e soprattutto il filo. Le immagini più ricorrenti sono il sole, il cielo, la terra, la vita, la morte, la creazione, la felicità e la paura, non mancano i richiami alla società e alla vita politica. Da questo punto di vista è molto interessante la storia di “Curiosape”, dove il Potere, metaforicamente rappresentato dall’ape regina, viene deleggittimato dall’artista Curiosape, e
9
Le tavole dell’opera “Duemila Natali di guerra”
10
si comprende grazie alla sua creatività e ai suoi insegnamenti che per una comunità è importante non perdere il contatto con le feste, i riti e l’arte. Nel racconto si alternano immagini colorate che illustrano la storia, e pagine contenenti citazioni e libere riflessioni sul difficile rapporto tra arte e politica. Il progetto didattico legato alle fiabe è stato realizzato presso alcune scuole con il fine di sviluppare nei bambini la propria fantasia e di avvicinarli all’arte tramite l’ascolto, l’osservazione e la possibile interpretazione.
Nasce a Ulassai il 27 settembre 1919. Nel 1939 lascia la Sardegna per iscriversi al liceo Artistico di Roma con Marino Mazzacurati. Dal 1943 al 1945 frequenta il corso di scultura dell’Accademia di Belle Arti di Venezia con Arturo Martini e Alberto Viani. Nel 2004 le viene conferita la Laurea Honoris causa in Lettere dall’Università degli Studi di Cagliari, discutendo la tesi: Sguardo, Opera, Pensiero. Negli anni Sessanta si verifica un importante mutamento nella ricerca artistica di Maria Lai, la sperimentazione si estende a nuove materie e nuovi linguaggi: telai, libri e tele cucite, pani e terrecotte, fino alla partecipazione alla Biennale di Venezia nel 1978. Con gli anni Ottanta la ricerca sui segni e sui materiali assume una più accentuata connotazione ambientale: 1981, il suo straordinario intervento ambientale: Legarsi alla montagna, Ulassai (NU); 1983, La disfatta dei varani, Camerino(MC); L’alveare del poeta, Orotelli (NU). In questo periodo iniziano le collaborazioni con il teatro: 1983, Mare-Muro scenografia del concerto Strazza-Rizzo La Scaletta, Roma; 1985 Nello spazio di Euclide, Prato; 1986 Lettere al lupo, Prato, Alessandria, Trieste. Negli anni Novanta partecipa a numerose mostre nazionali e internazionali, mentre proseguono le sue operazioni sul territorio, come: 1988 Il Telaio nel lavatoio comunale, 1992 La strada del rito e Le capre cucite, Ulassai; 1993 Su barca di carta m’imbarco, Atelier sul mare, Messina; La scarpata, Ulassai; 1997 L’albero del miele amaro, Siliqua (CA); Il Tempo dell’arte, Su logu de s’iscultura, Tortolì (NU); 1999 Olio di parole 1, Museo dell’Olio Della Sabina, Castelnuovo di Farfa (RI); 2003 Quanti mari navigare, Località Sa Illetta, Cagliari; Il volo del gioco dell’oca; 2004 Libretti murati di terracotta; 2005 La casa delle inquietudini, Ulassai (Ogliastra).
11
A
DALLA VITE ALLA TAVOLA
I vini
rgiolas
a Serdiana un’azienda al fe
Ha solo trent’anni ma da cinque si occupa egregiamente della realizzazione e distribuzione dei prodotti dell’azienda di famiglia.
E
’ dinamica, creativa, esperta di marketing e pubbliche relazioni Valentina Argiolas. Laureata in economia e commercio all’università di Cagliari, solo trent’anni ma da cinque si occupa egregiamente della realizzazione e distribuzione dei prodotti dell’azienda di famiglia. Ama la letteratura, l’arte, i viaggi e il territorio in cui vive e lavora. Il suo sorriso in giro per il mondo è una garanzia di qualità. Cosa vuol dire lavorare in una azienda di famiglia? E’ stato un percorso naturale dopo la laurea entrare a lavorare in azienda anche se, per lungo tempo, non sapevo di che mansioni mi sarei occupata. Ho trascorso un anno e mezzo a cercare di capire le dinamiche azien-
12
di Sandra Sulcis
femminile
dali e ho spaziato da un settore all’altro. Poi ho iniziato ad occuparmi di marketing e pubbliche relazioni. Di eventi, viaggi e tutto ciò che ruota attorno all’ideazione, alla realizzazione e alla distribuzione di un nuovo prodotto. Come si realizza un nuovo prodotto? Per prima cosa bisogna tenere presenti le esigenze del mercato. In questi ultimi anni si ha la necessità di avere un prodotto giovane, fresco e tipico, che racconti il territorio. E’ molto di moda l’aperitivo e non mancano le occasioni per gustare un buon vino dolce neppure durante le cene di lavoro o i convegni. In base a questo pensiamo e realizziamo i nostri prodotti, che devono contraddistinguersi per origine, solarità e genuinità. Qual è il pezzo forte della vostra produzione? Il Turriga è il più famoso dei nostri vini, è caldo, vellutato, armonico, nasce da uve Cannonau, Carignano, Bovale con piccole aggiunte di Malvasia Nera. Al Vinitaly di Verona, le annate 1988 e 1992 hanno vinto il premio “Gran
Medaglia d’Oro” mentre l’annata 1991 si è classificata al terzo posto.In Canada è stato insignito del “Grappolo d’Oro” nel concorso promosso dal governo canadese. Nella “Guida dei vini d’Italia”, infine, le annate, dal 1990 al 2001 si sono aggiudicate i tre bicchieri del Gambero Rosso. Inoltre è inserito nell’annuario dei migliori Vini Italiani, lodato da Luca Maroni e da Robert Parker. Ci sono altri vini simili al turriga? Sull’onda del successo del Turriga nel 1999 è nato il Korem, un rosso di stile internazionale, sapiente uvaggio di Bovale, Carignano, Cannonau. E’ un vino moderno, maturato in piccole botti di rovere, dotato di straordinaria morbidezza, ricco, che ha raggiunto giudizi lusinghieri da appassionati ed esperti di tutto il mondo. Mentre ancora il Korem stava facendo il suo ingresso nei mercati del mondo è stato introdotto nel 2001 un altro vino, stavolta bianco, il Cerdena prodotto da uve Vermentino selezionate con piccolissime aggiunte di altri vitigni autoctoni. E’ un vino dal gusto fine, ampio e persistente con leggere note di rovere ben unite alle note di frutta, nelle prime due annate sono state prodotte appena seimila bottiglie. Qual è l’ultimo nato in casa Argiolas? L’ultimo prodotto nato in casa Argiolas è il Carignano Is Solinas Nato a Marzo 2007 dopo cinque anni dall’acquisto di un vigneto. Per ora abbiamo prodotto 30 mila bottiglie ed è distribuito in tutto il mondo. Altre vostre specialità? Il Perdera, Monica di Sardegna, il Costera, Cannonau di Sardegna, il Costamolino, un Vermentino, Is Argiolas, Vermentino di Sardegna, S’Elegas, Nuragus di Cagliari, tutti vini a Denominazione di origine controllata. Anche questo motivo di grande orgoglio. Dove esportate i vostri prodotti? Il mercato italiano assorbe il 50% delle vendite mentre l’altro 50% è destinato oltre
13
il confine italiano: in Germania, Austria, Olanda, Francia Spagna, Inghilterra, Belgio, Repubblica Ceka, Ungheria, Latvia, Estonia, Lettonia, Norvegia, Finlandia, Danimarca, Svezia, Svizzera, Grecia, Russia, Kazakistan, mentre oltre oceano è inserita nel mercato degli Usa, Canada, Brasile, Australia, Nuova Zelanda, Cina, Giappone, Thailandia, Israele, Filippine, Dubai. Dove si trovano i vini? I vini Argiolas sono presenti nella ristorazione e nelle enoteche di tutto il mondo. Ciò contribuisce a proiettare l’azienda ai più alti livelli e contribuisce a portare i prodotti della nostra isola nelle fasce di mercato di prestigio. Quali sono le maggiori difficoltà che la vostra azienda deve affrontare? Sembra incredibile ma paradossalmente la nostra azienda ha avuto maggiori difficoltà a far conoscere i nostri prodotti in Sardegna piuttosto che in altre regioni italiane e nel mondo. Sebbene la nostra sia un’azienda che lavora da anni abbiamo cominciato ad avere popolarità prima all’estero e poi qui. Perché avete trovato questa difficoltà, secondo te? Perché purtroppo non siamo in grado di capire il grande potenziale economico che la nostra isola ci offre con i suoi prodotti e dovremmo investire più soldi in attività di tipo turistico ricreativo, creando itinerari e percorsi guidati alla scoperta della terra e del vino in questo caso.Ci sono periodi in cui questa volontà sembra essere presente nelle amministrazioni ma poi la burocrazia per raggiungere questi obiettivi è troppo lunga e in tanti rinunciano a queste iniziative. Voi come cercate di far fronte a questa carenza? Per ora cerchiamo di organizzare degli eventi che si svolgano all’interno della nostra azienda come le due rassegne “chef e wine” e “vini ai fornelli” . La prima, rivolta soprattutto ai turisti con lo scopo di insegnare le basi della nostra cucina, la seconda, destinata ad un pubblico locale, con la finalità di carpire dai migliori cuochi sardi i segreti della loro innovativa cucina. Ma speriamo che presto sia anche possibile avviare nella provincia di Cagliari un vero e proprio percorso del vino che permetta a turisti e residenti di conoscere le eccellenti meraviglie della nostra terra.
S.S. 14
“Il buon vino non nasce solo dalle tecnica. E’ nutrito con un insieme armonioso di umiltà, amore, passione e cura infinita per le vigne e i loro frutti. Un segreto semplice ricevuto come dono di natura e che ho passato ai miei figli e a tutti coloro che mi hanno accompagnato in questa affascinante avventura.” La famiglia Argiolas si occupa di viticoltura dal 1918 anno in cui Francesco, impiantò il primo vigneto con l’aiuto dei prigionieri di guerra ma è con il figlio di Francesco, Antonio, che inizia la grande avventura dei vini Argiolas oggi rinomati in tutto il mondo. Uomo di ingegno ed eclettico, impegnato nelle attività agricole, in particolare nella viticoltura e nella olivicoltura, Antonio destina tutti i suoi guadagni all’acquisto di nuove fattorie con l’obiettivo di creare un’efficiente e moderna azienda vitivinicola. Quando, alla fine degli anni settanta, la politica comunitaria di invitò agli espianti delle viti, non si lasciò condizionare come fecero molti suoi colleghi che, attratti da un immediato sostegno economico, ridussero o addirittura cancellano la superfici vitate, Antonio fece una scelta coraggiosa. Lui e i figli Franco e Giuseppe con una serie di grossi investimenti economici e interventi graduali danno inizio ad una riqualificazione complessiva della filiera produttiva. Procedono quindi alla ristrutturazione dei vigneti e della cantina e chiamano a collaborare uno dei padri dell’enologia nazionale, Giacomo Tachis, affiancato dall’impegno costante dell’enologo Mariano Murru. La loro scelta portò i risultati sperati, la produzione aumentò e con essa i guadagni.Attualmente in azienda sono presenti e operano tre generazioni : il patriarca Antonio, i due figli e i nipoti.
eVino
Donne
Non solo Bacco. Bastet era una divinità egizia, il cui culto ebbe origine nella città di Per Bast. Dea della fecondità, delle danze è del vino, fu tra le più rispettate e temute dell’epoca. I gatti devono sicuramente a lei l’amore e la cura che oggi gli vengono dedicati. In suo rispetto il maltrattamento dei piccoli felini arrivava ad essere punito con la morte.
Il nuovo consumatore del vino italiano è donna, o almeno così sembra, secondo quanto sostiene Donatella Cinelli Colombini, produttrice di Brunello di Montalcino e di Chianti a Trequanda. La Colombini, fondatrice del Movimento Turismo del Vino, ideatrice di Cantine Aperte e Assessore al Turismo del comune di Siena, ha assegnato questo primato alle donne durante la presentazione della ricerca “Vino e Turismo al femminile”, presentata nel convegno “Vino di genere”, organizzato dall’Enoteca Italiana di Siena. L’identikit delle consumatrici è piuttosto definito secondo Donatella: se è giovane e colta beve poco ma bene, mentre, con l’innalzarsi dell’età cresce la sua attenzione al prezzo. Così seguendo le parole della produttrice che ha inventato la prima cantina tutta al femminile in Italia ed il primo vino selezionato da sole donne, il Brunello “Prime Donne”, si scopre che le donne sono poco interessate al legame fra il vino e il suo territorio di origine anzi, tendono ad essere consumatrici infedeli perché sempre attratte da nuove specialità anche straniere. Se guardiamo gli stili di consumo invece, il 32% delle donne italiane si dichiara pronta a bere una bottiglia di vino con le amiche. Per il gentil sesso infatti, il vino è un complemento della socializzazione e uno strumento di relazione interpersonale. Le wine lovers nostrane iniziano a gustare il vino intorno ai 20 anni. Le donne amano le bol-
licine molto più degli uomini ma il loro vino preferito è fermo e secco. In enoteca la frequenza femminile è aumentata: il 41% degli enotecari milanesi afferma che il proprio cliente è indifferentemente uomo o donna. Se una donna e un uomo comprano insieme, è lei a scegliere (29%) per poi chiedere quale sia l’abbinamento migliore vino-cibo (57%). L’Amministrazione Toscana ha lavorato molto in questo senso individuando i “Vini delle Donne” all’interno della migliore produzione regionale e proponendoli in degustazioni separate durante tutti gli eventi promozionali. C’è poi un argomento a sé stante connesso alle donne che lavorano nel settore vino. La donna è, dunque, il nuovo protagonista del mercato del vino, ma anche nel turismo è ormai una grande opinion leader. Crescono le donne fra i turisti del vino e c’è persino un’agenzia “Women & Wine” che organizza viaggi, incontri e degustazioni riservate alle donne appassionate di grandi bottiglie.
Abbiamo raccontato alcune biografie di donne coraggiose che provengono dal mondo islamico. Donne che, nonostante le restrizioni politiche, le torture, le rigide regole della religione musulmana hanno avuto la forza di contrastare la triste condizione femminile presente nel loro paese. Non si sono arrese davanti alle opposizioni, hanno preferito subire una condanna piuttosto che lasciarsi sopraffare da un sistema ingiusto che nega alla donna e ai più deboli i fondamentali diritti umani: non godono della libertà di spostamento, di espressione, di parola, non possono procedere negli studi né tanto meno aspirare a ricoprire cariche o posizioni di responsabilità in campo civile o religioso. Queste donne però, hanno combattuto contro tutto questo e la loro determinazione nell’attenuare il divario tra oriente e occidente, sarà d’esempio per le nuove generazioni e per una convivenza pacifica tra questi due mondi. La loro è una lotta per la trasformazione radicale delle condizioni generali di esistenza della società, della famiglia, della casa, della politica. Le loro battaglie rimarranno nella storia e i loro nomi impressi nella mente.
L
‘Islam
a volto scoperto Khalida Toumi Messaoudi, algerina, nata nel 1958 è ministro della Comunicazione e della Cultura dal 2001, simbolo del movimento per i diritti e le pari opportunità delle donne nei Paesi islamici. Scrittrice ed ex insegnante di matematica, sceglie di dedicare la sua vita alla lotta per l’affermazione della parità tra i sessi, fondando nel 1985 “l’Associazione per l’uguaglianza tra l’uomo e la donna davanti alla legge”, a seguito dell’approvazione in Algeria del Codice della famiglia che reprime e schiaccia i diritti delle donne. Nel marzo del 1993 viene condannata a morte dal Fronte Islamico (F.I.S.), movimento fondamentalista algerino. Da allora vive in clandestinità nel suo paese, rifiutando l’esilio per non abbandonare i suoi compatrioti. Il 12 giugno 1993 una lettera del Movimento per lo Stato Islamico (MEI) firmata da Said Makhloufi ufficializza la sua condanna a morte. L’anno dopo durante una manifestazione pacifista Khalida viene ferita ad una gamba. Nonostante la condanna continua a guidare numerosi cortei di donne che accusavano i politici di legarsi ai fondamentalisti. Nel 1997 Khalida è stata eletta in Parlamento ed oggi, in qualità di ministro, fa parte della commissione nazionale promossa dal Presidente Bouteflika per l’elaborazione di un nuovo Codice di famiglia.
17
Amina Wadud Ayaan Hirsi Ali europarlamentare, 33 anni, laureata in scienze politiche, scrittrice, è nata a Mogadiscio. Figlia di un politico somalo, Hirsi Magan, noto esponente dell’opposizione contro Siad Barre, Ayaan cresce in un ambiente strettamente musulmano. Durante l’infanzia subisce la rituale mutilazione genitale cui sono sottoposte tutte le donne somale. Quando emigra con la famiglia in Arabia Saudita si adatta all’imposizione del velo islamico e alla proibizione alle frequentazioni esterne. Per sfuggire al matrimonio combinato per lei dal padre, musulmano osservante, si allontana dalla famiglia e si rifugia in Europa. Dal 1992 vive in Olanda, dove è inizialmente un’esponente della sinistra per poi migrare nelle fila del partito liberale. Qui perfeziona la lingua, si iscrive all’Università e lavora presso l’ufficio studi del partito socialdemocratico. Il suo è un attivismo mirato alla protezione delle donne di religione musulmana. Documenta centinaia di casi di violenza fisica, pestaggi, incesti, abusi sessuali e accusa le autorità olandesi di fare troppo poco per porre fine queste pratiche. Proprio a seguito di queste denunce giungono le prime minacce di morte. Si nasconde all’estero, poi viene posta sotto la protezione della polizia. Ayaan Hisri Ali è nota per avere scritto la sceneggiatura del film Submission Part 1, ritenuto blasfemo dai fondamentalisti islamici. Anche la giovane scrittrice è colpita da una fatwa, condanna che, secondo il Corano, può essere eseguita da qualsiasi musulmano nel mondo. Rientrata in Olanda, è stata eletta in Parlamento, ma si è dimessa nel maggio del 2006, dopo aver subito la minaccia, da parte del ministro dell’immigrazione, Rita Verdonk, appartenente al suo stesso partito, di ritiro della nazionalità olandese per aver fornito alle autorità dei dati anagrafici imprecisi al momento del suo ingresso nel paese con lo scopo di ottenere lo stato di profuga. Dopo lo scandalo suscitato dalla presa di posizione della Verdonk, la deputata di origine somala ha deciso di lasciare l’Olanda per emigrare negli Stati Uniti, anche se il ministro ha fatto marcia indietro e le ha restituito il passaporto olandese.
18
nata negli Stati Uniti nel 1953 è professoressa di studi islamici presso il Dipartimento di filosofia e studi religiosi dell’Università americana della Virginia. E’ stata la prima donna a guidare la preghiera comunitaria in una moschea di New York. Per questo lo sceicco Yussef al-Qarasawi, membro Fratellanza Musulmana, ha emesso una fatwa, un editto religioso, pubblicato sulla stampa del Qatar, in cui la condannava a morte. La donna, leader del gruppo Muslim Wakeup, aveva condotto il rito nella sala delle conferenze della Casa del Sinodo della Cattedrale di St. John the Divine, una chiesa anglicana, dopo che tre moschee avevano rifiutato di ospitare l’evento. Circa cento fedeli tra uomini e donne hanno pregato insieme sfidando i fondamentalisti. L’attivismo a favore della parità tra i sessi di Amina Wadud è da tempo sostenuto da diverse associazioni islamiche americane che hanno organizzato diverse manifestazioni pubbliche e campagne di sensibilizzazione. Suoi principali sostenitori sono le due associazioni Muslim WakeUp e Muslim Women’s Freedom. Wadud ha pubblicato un libro “Qur’an and woman. Rereading the sacred text form a woman’s prospective” (1999, Oxford University Press), che ha suscitato numerose polemiche tra i musulmani di tutto il mondo per le sue posizioni a favore dei diritti delle donne fondato su argomentazioni teologiche, cioè sulle fonti stesse dell’Islam. Nel suo libro Amina Wadud sostiene che “il profeta Muhammad ha permesso a una donna di guidare la preghiera”.
Fatima Mernissi nata a Fez, in Marocco, nel 1940 è considerata in tutto il mondo una fra le più autorevoli e originali intellettuali dei paesi arabi, grazie al suo innovativo lavoro di sociologa e studiosa dell’Islam. Ha completato la sua formazione accademica studiando alla Sorbona e alla Brandeis University negli USA. Attualmente insegna sociologia all’Università Mohammed V di Rabat, in Marocco. Nota in Italia per i suoi romanzi e in particolare per La terrazza proibita (Giunti, 2005), si è sempre distinta per le coraggiose prese di posizione a favore della libertà femminile, che giudica perfettamente compatibile con i precetti del Corano.
I suoi libri sono letti in tutto il mondo e tradotti in più di venti lingue. Dal 1997 sostiene il programma “Sinergie Civique” e dal 2000 anima gli incontri che vanno sotto il nome di “Caravane Civique”, giunti alla sesta edizione. Il progetto consiste nell’organizzare workshop in alcune delle realtà periferiche del paese, coinvolgendo professionisti della comunicazione che si prestino ad entrare in contatto con gli aderenti alle molte, minuscole e spesso finanziariamente inesistenti, organizzazioni non governative marocchine.
Aung San Suu Kyi nata nel 1945, ha conosciuto e apprezzato la filosofia gandhiana della non-violenza fin da bambina, in India, dove ha vissuto con la madre dopo la morte del padre Aung San, leader del movimento indipendentista assassinato nel 1947. Aung ha avuto una formazione cosmopolita: ha studiato a Oxford, ha lavorato all’Onu e ha sposato un inglese. Il suo interesse per la politica si è manifestato quando, nel 1988, in Birmania si è trovata coinvolta nella lotta contro il regime militare. Di fronte alla pagoda di Swe Dagon, nel corso di una grande manifestazione di protesta, Aung San Suu Kyi lancia la sua prima sfida alla giunta militare: chiede libere elezioni per la costruzione di un governo democratico multipartitico, e rivolge un appello al popolo per la pacificazione, il dialogo e l’unità. Un appello importantissimo, che chiede
tolleranza anche nei confronti delle forze politiche di regime. La giunta militare percepisce immediatamente il rischio politico del suo ruolo nell’opposizione, e cerca subito di mettere a tacere il suo carisma, ponendola agli arresti domiciliari. Nel 1990, in piena repressione, ha detto “no” all’offerta di andare in esilio e ha preferito restare nel paese, detenuta nella sua casa, senza possibilità di alcun contatto con il mondo esterno. Il tentativo di tappare la bocca alla Lega Nazionale per la Democrazia sbaragliandola nelle uniche elezioni che i generali sono costretti ad indire nel maggio 1990, non riesce. Aung San Suu Kyi, ed il suo partito, riportano un successo schiacciante. Invano. La giunta militare ignora il risultato delle elezioni, e tiene la leader agli arresti domiciliari. Cade il silenzio sulla sua vicenda, e sulla Birmania, interrotto ogni tanto solo dai riconoscimenti internazionali che le vengono assegnati, come il Nobel per la Pace nel 1991. Grazie alle pressioni internazionali, nel luglio del 1995 il governo le revoca gli arresti domiciliari, mantenendo però a suo carico il divieto di varcare i confini della capitale. Aung San Suu Kyi viene arrestata nuovamente nel settembre del 2000, mentre cerca di lasciare la città per portare avanti iniziative politiche. Liberata qualche tempo dopo, nel maggio del 2003 si salva a stento da un attentato, perpetrato contro di lei e i suoi sostenitori mentre visita un villaggio nel nord della Birmania. Oggi Aung San Suu Kyi continua ad essere agli arresti domiciliari nella grande casa di University Avenue. Arresti domiciliari strettissimi. In tutto sono ormai dodici, gli anni passati in prigionia nella sua casa, circondata da sbarramenti e filo spinato, controllata giorno e notte da agenti dei servizi segreti. Aung San Suu Kyi è stata l’ottava donna premiata col Nobel per la Pace.
Mehrangiz Kar
nata nel 1944 è avvocato, scrittrice nonché docente all’Università di Harvard, è perseguitata dal regime iraniano per il suo impegno in difesa dei diritti umani, in particolare delle donne. Nata ad Ahvaz, nel sud dell’Iran, ha frequentato il College of Law and Political Science all’Università di Teheran. Dopo la laurea ha lavorato per il Sazman-e Ta’min-e Ejtemaii (Institute of Social Security) e pubblicato oltre 100 articoli su questioni sociali e anche di carattere politico. Venne arrestata il 29 aprile 2000 per aver partecipato a Berlino, insieme ai più importanti scrittori e intellettuali iraniani, a una conferenza accademica sul tema della riforma politica e sociale dell’Iran. Processata a porte chiuse senza le garanzie della difesa fu condannata a quattro anni di reclusione con capi d’imputazione arbitrari e grotteschi, come “azioni contrarie alla sicurezza nazionale” o “violazione del codice sul vestito islamico”. Una volta rilasciata, si è recata negli Stati Uniti. Dopo la sua partenza il marito, il giornalista Siamak Pourzand, anch’egli impegnato nella critica al regime, è scomparso e Mehrangiz ha ricevuto forti pressioni da Teheran per tacere. I suoi tentativi di avere notizie attraverso istituzioni governative e organizzazioni per i diritti umani sono falliti e gli appelli lanciati insieme alle figlie Leila e Azadeh alle reti televisive e radiofoniche internazionali non hanno avuto esito. Le forze di sicurezza del governo hanno tuttavia annunciato, settimane dopo la sua scomparsa, che il Sig. Pourzand si trovava nelle carceri della Repubblica islamica con le accuse di spionaggio e minaccia alla sicurezza nazionale. Il 3 maggio 2002 la Tehran Press Court ha emesso a suo carico una condanna a otto anni di detenzione.
19
E’ uno scrigno pieno di tesori meravigliosi il mare, un vero e proprio mondo nascosto agli occhi degli uomini.Tra i tanti doni che il nostro Mar Mediterraneo ci offre, ve n’è uno, il cui mistero e la cui bellezza può essere svelato solamente dalle mani di abili artigiani: la Pinna nobilis, la più grande conchiglia di tutto il Mediterraneo.
INTERVISTA A
C
LA SETA CHE VIENE DAL MARE
HIARA VIGO U
di Sandra Sulcis
20
n tempo molto diffusa, è attualmente una specie protetta che si insedia lungo le regioni costiere della Sardegna, ed in particolare nelle coste settentrionali. Questo mollusco bivalve si fissa con la sua estremità appuntita nel fondo marino, mediante dei filamenti di natura cornea che al contatto dell’acqua si induriscono e, come una sorta di ancora, evitano di farlo trasportare dalle correnti marine. Proprio da questi lunghi filamenti, secreti dalla ghiandola denominata bissogena, si ottiene una fibra tessile grezza, dalla quale si ricava il bisso marino. Il termine bisso, derivato dal tardo latino “byssus” e dal greco “bussos”, a sua volta di origine fenicia, venne successivamente ad indicare un tessuto particolarmente fine e pregiato, grazie alla sua duttilità che permette di ottenere una stoffa morbida, dall’aspetto lucido e brillante molto simile alla seta e la sua colorazione dorata, che a seconda dell’incidenza della luce, le conferisce una dignità unica. Un’altra importante peculiarità di questo prodotto è la capacità di trattenere il calore. Caratteristiche che furono prese in esame da un dottore cagliaritano del XIX secolo, Giuseppe Basso Arnoux, quando volle utilizzarla per massaggi che egli stesso praticava. In realtà egli si prodigò in maniera assolutamen-
te encomiabile, dedicando tutte le sue energie allo studio delle caratteristiche del bisso nella speranza di sviluppare una florida industria ma tutti i suoi tentativi andarono vanificati. Non si tratta quindi di una semplice conchiglia, ma dell’artefice della cosiddetta “seta marina”, così definita sin dall’antichità, che riuscì ad alimentare una fiorente industria di tessuti presso i Fenici, gli Egizi, i Caldei e gli Ebrei.La seta del mare, da sempre è stata utilizzata per creare vesti di grande pregio destinate esclusivamente a principi, sovrani o ai grandi sacerdoti: “Con porpora viola e porpora rossa, con scarlatto e bisso fece le vesti liturgiche per officiare nel santuario. Fecero le vesti sacre di Aronne, come il Signore aveva ordinato a Mosè”. Così viene citato il bisso nell’Antico Testamento, ma si trova menzionato anche nei Vangeli, o in altre opere più recenti.E’ un materiale pregiatissimo e oggi ancora di più vista la difficoltà di approvvigionamento della materia prima, causata dall’inquinamento marino e dai danni provocati dai subacquei. Inoltre, un ruolo determinante per trasformarla in una sostanza rara, è la difficoltà della sua lavorazione: innanzitutto la pesca si effettua con l’immersione in apnea del pescatore che, con l’ausilio di uno
strumento costituito da una lunga asta terminante con un occhiello, riesce a strappare il mollusco dal suo ancoraggio. Una volta raccolto il bisso, inizia il processo di lavorazione vero e proprio. I filamenti vengono pettinati con arnesi in acciaio affinché lo sfregamento li renda lucidi. Si procede infine, alla filatura manuale mediante rocca e fuso di legno di piccole dimensioni; questa è un’operazione molto delicata. Infatti, solo mani esperte possono ottenere dei filati sottilissimi e di diametro uniforme. In Sardegna la storia del Bisso ci porta da Chiara Vigo, le cui mani ostinatamente filano le fragili fibre della seta del mare come le mani di una fata. E’ lei l’unica tessitrice di bisso al mondo, preleva personalmente la bava della pinna in apnea ed è l’unica che plasma questa materia con quella perizia che imparò da sua nonna e i cui segreti verranno da lei trasmessi di generazione in generazione.Dal bisso non si può trarre alcun vantaggio materiale, non si può lucrare, così stabilisce il giuramento del mare e così Chiara ha dichiarato la sua fedeltà al mare, all’acqua, alla terra e all’arte. Il panno di bisso può essere solo donato perché è un tesoro che viene dal mare e come il mare è di tutti.
21
INTERVISTA A CHIARA VIGO
Nasce a Calasetta il primo febbraio del 1955. La sua energia è travolgente. Entrare nel laboratorio di Chiara Vigo rievoca le meraviglie del mare. Si rimane estasiati.
C
ome si diventa maestri dell’arte del bisso? Io ho appreso quest’arte antica e sconosciuta da mia nonna. E’ grazie a lei e alla sua maestria che ho potuto apprendere tutte le nozioni indispensabili per lavorare il bisso. Ho studiato le fibre marine, quelle terrestri e ho approfondito le conoscenze per riparare i tessuti antichi. Questo sistema di trasmissione della conoscenza non è rischioso per una continuità dell’arte stabile e duratura nel tempo? Tramandare un lavoro di generazione in generazione è molto bello ma non ci si può limitare a questo. E’ importante che anche i giovani apprendano i vecchi mestieri altrimenti il nostro patrimonio rischia di perdersi. Da 30 anni infatti chiedo alle autorità competenti
22
10 telai di legno e l’attrezzatura utile, oltre allo spazio adeguato, per poter insegnare ai più giovani l’arte della lavorazione del Bisso, ma purtroppo non ho avuto alcun risposa positiva. Mi conoscono in tutto il mondo ma in Sardegna non hanno ancora capito l’importanza della mia arte. Che caratteristiche deve avere il Maestro? Il Maestro deve essere una persona consapevole che la sua arte non gli appartiene e di conseguenza va difesa, conservata e tramandata con fatica, tempo e dedizione. A quale età ha iniziato a lavorare il bisso? Ho iniziato a filare a 5 anni quasi per gioco. Per me il fuso era come una bacchetta magica. A 12 anni di nascosto da mia nonna andavo nel suo telaio e provavo a tessere. Come si concilia la raccolta del bisso con l’equilibrio dell’ecosistema marino? Basta leggere il testo di ultima edizione intitolato “La Seta del Mare” di Evangelina Campi, edizione Scorpio-
ne, Taranto, a me dedicato. Questo volume nato da un progetto di scuola media è l’unico documento che raccoglie e racconta del bisso nel Mediterraneo in capitoli dove ogni specialista ha detto la sua in maniera scientifica, tecnica ed esoterica.
Esistono al mondo altre produzioni di bisso? Nella Civiltà mediterranea le due città che possono vantare storia nella lavorazione con origine mesopotamica (lavorazione Hefod ebraico libro dell’Esodo manifattura Hiram dei Caldei) sono la città di Sant’Antioco e la città di Taranto. I pezzi costruiti a Taranto sono prevalentemente pezzi che vengono dalla scuola delle Clarisse. Cosa ne pensa del fatto che uno staff di ricercatori greci starebbe compiendo degli studi per incrementare la produzione di bisso artificiosamente e su larga scala? Questo è il risultato della poca sensibilità ai miei ripetuti inviti alle autorità competenti di fare decreti legge seri di tutela dell’animale, in maniera da salvaguardare il patrimonio italiano impedendo a pazzi di sovvertire le leggi fondamentali della natura. Ho sempre pensato che il termine Europa è stato costruito troppo frettolosamente senza avere la coscienza di tutelare il patrimonio etnico e biologicamente speci-
fico. Penso anche che i nostri figli abbiano dei diritti che non possono essere tralasciati. Quali sono i suoi progetti futuri? Ho aspettato una vita che le amministrazioni si occupassero di darmi una mano. Oggi sono stanca. Se non avrò gli aiuti che mi servono sarò costretta a rendere all’acqua quello che è suo e lasciare che gli uomini percorrano le strade che hanno scelto. Gli scrigni dei maestri stentano a chiudersi, ma se si chiudono è impossibile riaprirli. Quello che io ho in mano è un bene dell’umanità e come tale va salvaguardato da tutti, ognuno secondo la propria capacità e la propria responsabilità. Demandare ad altri la salvaguardia dei beni dei propri figli è permettere che le loro cose vadano in rovina. Forse abbiamo dimenticato che siamo responsabili e risponderemo a Dio di quanto ricevuto e quindi ognuno di noi ha il dovere di leggere, capire ed eventualmente rispondere in piena libertà.
23
La storia di Michela Murgia dal call center al successo editoriale
Ilol mondo deve sapere
Trentacinque anni, nata e cresciuta in provincia di Oristano, Michela ha lo sguardo curioso e attento. Non le sfugge nulla e non ha paura di parlare. Per lei il lavoro, l‘onestà e la lealtà vengono prima di tutto.
24
A
bolisce lo sfruttamento in tutte le sue forme e non ha paura di combatterlo. Con questo spirito ha scritto un libro “ il mondo lo deve sapere”, presto diventato un vero best seller. Un successo davvero enorme a cui si è ispirata la trama di uno spettacolo teatrale e un film diretto da Paolo Virzi “Tutta la vita davanti”. Come ti definisci in poche parole? Feroce, fertile,concreta. Quanto hanno inciso nella tua vita gli studi di Teologia? Molto. Gli studi di teologia ti permettono di svolgere un percorso critico. Hai la possibilità di studiare su testi che analizzano la storia, la cultura, le tradizioni, la religione di altre società e puoi sviluppare un’ampia capacità critica e anche molto relativa sull’intera realtà che ti circonda Qual è la tua più grande soddisfazione? La mia più grande soddisfazione è potermi trovare
nelle condizioni di aiutare altre persone. Creare opportunità perché chi vale, per chi ha le capacità per potersi realizzare al meglio. La tua più grande delusione? Non ho delusioni ma revisioni di prospettiva. Progetti futuri? Il mio più grande desiderio per il futuro è molto semplice. Ciò che più mi preme è essere felice. Crearmi una famiglia e avere un figlio. Cosa vuol dire essere una donna per te? Vuol dire tanto, forse tutto, non sono una femminista ma, al massimo, una nuova femminista che pensa che la vera lotta che devono fare ora le donne non è la stessa che hanno portato avanti le ragazze del ’68 per la parità e l’emancipazione. Quella odierna è una battaglia per mantenere la propria identità di donna. Per cercare di poter conciliare il lavoro e la famiglia senza dover scegliere una cosa piuttosto che l’altra. C’è stata una critica che ti ha messo in discussione? Sì. Una ragazza di 16 anni un giorno mi disse che io voglio che gli altri siano come me. Mi ferì molto, ma riflettendoci, capì che un po’ aveva ragione e adesso sto molto più attenta a non condizionare troppo il pensiero delle persone che incontro. Come ti sei convertita? Ho conosciuto persone che mi hanno trasmesso serenità. Ho desiderato essere come loro. Hai scritto un libro dal titolo “il mondo lo deve sapere”. Cosa deve sapere il mondo? Il mondo deve sapere che esistono dei luoghi di lavoro come i call center dove si sfruttano tantissimo le persone e che ci sono delle realtà troppo ingiuste contro le quali bisogna combattere. Non è stato facile decidere di scrivere e far pubblicare questo libro. Parlare del mondo del lavoro quando questo manca e raccontare una storia che hai vissuto, fa affiorare dei sentimenti contrastanti e ti espone ancora di più alle critiche. Devi essere molto convinta delle motivazioni che ti hanno portato a denunciare tutto questo per poter superare gli ostacoli che ti mette di fronte la verità. Il mio però, non è un libro di denuncia. E’ solo una protesta contro il precariato, un male della nostra società contro cui bisogna combattere per il bene dei giovani e del paese.
I
DALLA SARDEGNA AGLI STATI UNITI CON LA FORZA DELLA FANTASIA
fumetti di Dani & Dani
Q
uando avete iniziato a disegnare Fumetti? Da un punto di vista professionale, abbiamo cominciato a scrivere e disegnare fumetti una decina d’anni fa. La nostra però è una passione che ci accompagna da sempre. Vi ispirate a qualche fumettista in particolare? Le nostre fonti di ispirazione sono molteplici e, anche se può sembrare un paradosso, la maggior parte è slegata dal fumetto. Cinema, letteratura e musica sono per noi fonti inesauribili. Per non parlare poi della storia. Questo non toglie che abbiamo avuto, e continuiamo ad avere, tanto da imparare dall’esempio di grandi autori, soprattutto Giapponesi, essendo il nostro stile di disegno decisamente filo-nipponico. Takehiko Inoue e Naoki Urasawa sono gli ultimi due in ordine di tempo. Giapponesi a par-
28
Daniela Serri e Daniela Orrù, in arte Dany&Dany, vivono e lavorano a Cagliari, loro città natale. Amano disegnare e raccontare storie, una passione diventata un lavoro. Sono loro infatti, le ideatrici dei testi dei loro fumetti, storie uniche di originalità e avventura. Debuttano come autrici di fumetti nel 2002 con la graphic novel e dalla Sardegna sbarcano in America. Inoltre, dal 2003, tengono ‘lezioni di manga’ per i corsi di fumetto organizzati da “Gruppo Misto Comunicazione” e, dal 2006, per i corsi della scuola di fumetto “Fare Fumetto”.
te, c’è un’importante eccezione: Neil Gaiman, autore inglese della serie a fumetti “Sandman” e di tante altre bellissime storie a fumetti e non. Di cosa parlano i vostri fumetti? Le nostre graphic novel raccontano storie diverse tra loro. Sono romanzi a fumetti tra le 100 e le 150 pagine, ciascuno con una trama autoconclusiva a sè stante. In generale però, possiamo dire di aver sviluppato soprattutto due generi: il gotico d’azione da una parte e un tema più quotidiano, erotico-sentimentale, dall’altra. Quest’ultimo rappresenta la maggior parte della nostra produzione con pubblicazioni in lingua italiana, inglese e tedesca. A prescindere dal discorso sul genere, comunque, cerchiamo sempre di realizzare storie che diano un posto centrale ai personaggi e alle loro psicologie. Quanto tempo impiegate per realizzarli? Attualmente riusciamo a produrre una tavola al giorno, completa di inchiostri, grigi, balloons e lettering. “The lily and the rose”, il fumetto che è uscito un paio di mesi fa negli USA, è lungo 140 pagine e l’abbiamo realizzato in meno di sei mesi, durante i quali abbiamo anche scritto e tradotto in inglese il soggetto e la sceneggiatura, oltre realizzato l’illustrazione di copertina. Come mai qui in Sardegna non siete riuscite a farvi conoscere? Se il problema qui in Sardegna fosse farci conoscere, non potremmo davvero lamentarci. I nostri lavori sono sempre andati esauriti nelle fumetterie isolane e ogni mostra o presentazione a cui
abbiamo partecipato ha sempre attirato un pubblico numeroso e affettuoso. Tuttavia, il nostro obiettivo non è farci conoscere, ma fare. E qui in Sardegna, purtroppo, c’è davvero poco da fare... in tutti i sensi.Neppure nel resto dell’Italia ci sono molte occasioni di lavoro. Si parla spesso della crisi decennale che affligge il fumetto italiano, ma non si fa nulla per modernizzarlo: i giovani autori purtroppo,non vengono considerati una risorsa su cui investire. Se poi hanno uno stile poco “tradizionale” come il nostro, allora il trattamento è anche peggiore. E triste che l’Italia debba sempre essere l’ultimo vagone traballante del treno… In Francia, in Germania e in Spagna la situazione è completamente diversa, per non parlare degli Stati Uniti. E’ stato solo grazie ad internet che siamo riuscite a trovare una strada alternativa all’estero, come anche molti nostri colleghi italiani. Com’è la vostra esperienza in America? Fantastica! Siamo davvero entusiaste di essere entrate nel mercato statunitense. Un mese fa siamo state a San Francisco in occasione di una fiera di fumetto e ab-
29
la quale abbiamo in progetto una serie a fumetti. Per quanto riguarda riviste e giornali, finora le nostre collaborazioni si sono limitate alla pubblicazione di singole illustrazioni, per lo più per correlare articoli sul fumetto in generale o su di noi come autrici. Qual è il fumetto che vi è riuscito meglio? E il meno riuscito? Siamo molto affezionate a tutti i nostri lavori e sappiamo di averli fatti nel modo migliore possibile rispetto ai mezzi e alle capacità che possedevamo nel momento della realizzazione. A livello affettivo sono tutti sullo stesso piano; a livello tecnico-qualitativo per fortuna vanno migliorando col passare del tempo e speriamo possa essere sempre così.
biamo potuto toccare con mano la vitalità e il calore sia degli addetti ai lavori, che del pubblico. Gli editori investono molte risorse per lanciare nuovi talenti e sono in grado di garantire una distribuzione e una campagna promozionale che purtroppo in Italia neanche ci sogniamo. Certo la crisi c’è anche là, ma la si affronta in modo radicalmente opposto: non ripiegandosi su se stessi come in Italia, ma aprendosi alle novità e sperimentando. Questo dinamismo incoraggia le nuove produzioni e queste stimolano il mercato. Per quale rivista, giornale lavorate? I nostri fumetti sono albi di oltre 100 pagine e non potrebbero essere contenuti all’interno di riviste e giornali, perciò vengono pubblicati come libri a fumetti singoli. Escono nelle librerie e nelle fumetterie. Attualmente pubblichiamo con la casa editrice americana “Yaoi Press” e con la tedesca “Wild Side”. Inoltre abbiamo appena concluso le trattative con un’altra casa editrice americana, di cui però non possiamo ancora fare il nome, con
30
QUANDO L’IMPERATIVO È: MANTENERE I NERVI SALDI
Dal 1989 all’ospedale Brotzu di Cagliari, da Pavia a Cagliari è una delle poche donne specializzata in neurochirurgia. Sposata, con due figli, riesce a conciliare gli impegni di lavoro con quelli della famiglia. La passione per quello che fa, lo studio e le cure che riserva ai suoi pazienti sono una garanzia per la buona riuscita dei suoi interventi. 32
Veronica Meleddu IN SALA OPERATORIA CON DEDIZIONE E AMORE
neurochirurgo di Sandra Sulcis
C
ome è iniziata la passione per il suo lavoro? Da sempre è un lavoro che ho nel sangue. Sin dalle scuole elementari sono rimasta affascinata dal sistema nervoso. Il fatto che un organo potesse coordinare tutti gli apparati mi ha veramente colpita, è straordinario. Così mi sono iscritta alla facoltà di medicina e, a Pavia, mi sono specializzata nella conoscenza di questo apparato. Cos’è in poche parole la neurochirurgia? E’ la disciplina per la terapia chirurgica delle malattie del sistema nervoso. Richiede una profonda preparazione perché intervenire sul sistema nervoso senza un’adeguata conoscenza può essere molto rischioso per il paziente. L’intervento del neurochirurgo deve essere delicato, è necessario rispettare le strutture aggredite e rimuovere definitivamente la lesione. Bisogna perciò conoscere bene l’anatomia e verificare scrupolosamente i rapporti della lesione con le strutture funzionali.
Ricorda il suo primo intervento? Fu nel 1985 durante la scuola di specializzazione che ho frequentato a Pavia. Feci da ausilio al chirurgo, dovevo drenare le cavità ventricolari. . Comunque una soddisfazione, anche se il mio fu solo un compito di routin. Lavora all’ospedale Brotzu di Cagliari dal 1989. Che tecniche utilizzate nel reparto di neurochirurgia per gli interventi? Le tecniche chirurgiche moderne si basano sul rispetto massimo del tessuto nervoso. Per realizzare questo scopo sono necessari strumenti sofisticati, sia per l’accesso, sia per la manipolazione chirurgica. L’accesso viene studiato in base alle caratteristiche della lesione ed alla
33
sua localizzazione. Per le lesioni vascolari e per taluni tumori risulta indispensabile anche la conoscenza della struttura vasale normale e patologica. Normalmente l’esperienza e la perizia del chirurgo permettono di localizzare e trattare la lesione con minimo danno del tessuto sano. Sono state sviluppate a questo proposito tecniche chirurgiche attraverso la base cranica il cui scopo è quello di retrarre il cervello il meno possibile e giungere all’area di interesse attraverso la via più breve. L’uso del neuroendoscopio agevola fortemente questo proposito. In aree cerebrali particolarmente critiche (area motoria o del linguaggio) è necessario un monitoraggio clinico e soprattutto elettrofisiologico, per delimitare i confini chirurgici. Col paziente spesso sveglio o risvegliabile si stimola l’area di interesse, localizzando la zona corticale che controlla la funzione da salvare. E’ indispensabile un lavoro d’equipe e una conoscenza approfondita del paziente e dei macchinari che ci supportano durante l’intervento. Quanti interventi effettuate lei e la sua equipe? In media tre alla settimana. Quanto dura ogni intervento?
34
Dipende dalla patologia per cui interveniamo. Il paziente può rimanere sotto i ferri venti minuti, un’ora ma anche un’intera giornata se è necessario. Che età hanno i suoi pazienti? Tutte le età. Ho dovuto operare anche dei bambini. Molti comunque sono pazienti che hanno subito un trauma cranico in seguito a un incidente stradale. La maggior parte delle persone che entrano nelle sale operatorie, purtroppo, arrivano in ospedale con dei gravi traumi cranici che richiedono un intervento urgente. Quanto tempo impiegano i suoi pazienti per riprendersi e tornare a una vita normale? In genere se l’intervento è riuscito dopo 7 giorni il paziente può tornare a casa e dopo 15 è in grado di riprendere a lavorare. Cosa vuol dire essere una donna neurochirurgo? E’ una scelta di vita importante. Essere neurochirurgo vuol dire non dimenticarsi mai che la vita degli altri è nelle tue mani. Non puoi permetterti di sbagliare, tanto meno se sei una donna. Questo lavoro è da sempre stato prerogativa degli uomini, sono ancora poche le donne neurochirurgo
in Italia e non è facile competere. La determinazione è indispensabile. Non ci si deve lasciar abbattere delle sconfitte, bisogna superarle. Inoltre è necessario mettersi in discussione, mai pensare di aver raggiunto l’apice della conoscenza. Lei è moglie e madre di due figli. Come fa a conciliare il suo lavoro con gli impegni della sua famiglia? E’ molto difficile. Il mio lavoro non mi permette di avere una giornata scandita da dei ritmi costanti. Ogni giorno so a che ora prendo servizio ma mai quando torno a casa. I miei figli sanno che nel mio lavoro non esiste nulla di certo, devo essere sempre reperibile perché possono chiamarmi in ogni momento. Ma parlo molto con loro, sanno che il dovere e la responsabilità è molto importante. Quando erano piccoli li ho portati con me in ospedale perché vedessero con i loro occhi e capissero cosa vuol dire lavorare nel mio reparto e salvare vite umane. E’ stato difficile e spesso ancora lo è
ma per i miei figli ci sono sempre anche quando entro in sala operatoria. Cosa pensano i suoi colleghi di lei? Credo che mi stimino. Sono molto determinata, so farmi rispettare. Quale è il suo prossimo obiettivo? Specializzarmi nel cura dei tumori al Basicranio. Che consiglio vuole dare alle altre donne che come lei vogliono fare questo mestiere? Non si devono mai lasciar abbattere da nulla. Il nostro è un lavoro che richiede un forte senso di umanità. Devono ricordarsi che prima di tutto hanno a che fare con persone non con malati. E’ fondamentale instaurare un rapporto di stima e fiducia tra loro e il paziente, devono accompagnarlo in ogni istante, prima, durante e dopo l’intervento. Non arrendersi davanti alle difficoltà e ricordarsi che sbagliare è umano. L’importante è sapere di aver fatto tutto il possibile. Quale è la sua più grande soddisfazione? Sono due le mie più grandi soddisfazioni: la prima, quando ricevo i ringraziamenti dai miei pazienti e dai loro familiari, e la seconda è quando torno a casa e i miei figli mi chiedono come stanno i miei pazienti.
35
L
E BA
“C’è in questo regno di Sardegna una famiglia divisa, chiamata Delitala. paragonabile agli antichi Guelfi e Ghibellini. Due di loro sono in prigione, due condannati a morte in contumacia. Altri due, con molti parenti, sono a capo dei banditi... Si può dire che sono i piccoli sovrani della Gallura: e non c’è possibilità di arrestarli, perche ci sono montagne. boschi e luoghi dove non ci si può servire di guide. “ (Tratto da Banditi di Sardegna – Franco Fresi)
Paska Devaddis : immagine tratta da un disegno di Piero Masia
36
Lucia, Paska e Sa Reina Storia di donne d’altri tempi e d’altri luoghi tra mito e storia
ANDITESSE DI SARDEGNA “E di Valentina Follesa
’ una giovane di circa quarant’anni che non si è voluta sposare per non dipendere da un uomo, secondo quanto lei stessa afferma. Ha due mustacchi da granatiere e usa le armi e il cavallo come un gendarme”. Siamo nella prima metà del 1700. Il ritratto è di una donna sarda d’altri tempi, femminista certamente no, emancipata sicuramente si. Forte dei suoi ideali, decisa, indipendente, nonostante, come ben sappiamo, la figura femminile nel passato fosse relegata a ben altre faccende, pur ricoprendo un ruolo di spicco e di potere secondo le leggi non scritte di una radicata e ben funzionante società matriarcale. Integra. Ma ‘fuorilegge’. Una banditessa, esponente di quella piaga sarda, il banditismo appunto, che nato per contrastare il ‘dominio dello straniero’ in Sardegna, ha poi finito per diventare un metodo violento di protesta, causa di omicidi e lotte senza esclusione di colpi. Riporta il grande storico Giuseppe Manno, di cui leggiamo nel libro di Paolo Fresi, Banditi di Sardegna, preziosa fonte in questa nostra ricerca storica: “La Sardegna era in quel tempo tribolata da varie bande di malviventi, che, formicando per ogni dove, non solo turbavano la quiete comune, ma faceano anche vista di voler sopraffare lo stesso governo, andato il piu’ delle volte a rilento nel combatterli”. Ma torniamo alla ‘banditessa’, cercando di fotografare questo curioso personaggio da un angolo diverso da quello che la parificherebbe ai suoi colleghi uomini banditi. Non vogliamo certo, d’altro canto, proporre un modello di donna, ma soltanto fare qualche considerazione e riflessione su
37
una delle figure femminili, a suo modo speciale, di cui la Sardegna del passato ci ha lasciato memoria, ben consapevoli di parlare di un ruolo politicamente non imitabile. La donna di cui si parla nell’incipit, in realtà parte di una lettera che il vicerè di Sardegna scriveva verso il 1735 al re Carlo Emanuele III, è Donna Lucia Delitala, appartenente ad una delle più ricche casate di Nulvi, spezzata in due fazioni avverse, dove a combattere erano anche le donne. “Ed una gentildonna di quel casato – ci suggerisce il Manno – donna Lucia Delitala, dava loro l’esempio dello stare immota in su l’arcione e del lanciarsi con il cavallo tra i balzi e dell’affrontare gagliardamente l’inimico e dell’imbroccare da lunge collo schioppetto. Non perciò solo d’animo virile; poichè sentendo di sè meglio di quello che fosse disdicevole a femmina, ricusò, finchè visse, le nozze e l’amore d’un sesso di cui non sapeva sofferire la superiorità”. Personaggio scomodo per il governo piemontese, ma una sorta di eroina per la gente comune. La tradizione popolare la ricorda infatti come l’amazzone di Nulvi, donna dal fascino straordinario, illuminata da un bel sorriso, dotata di grande coraggio, abile nei combattimenti a cavallo e amante della vita e della libertà. Il suo volto diveniva accigliato e duro solo quando doveva affrontare una battaglia. Era molto apprezzata e sti-
38
mata per la sua lealtà anche dai suoi ‘colleghi uomini’, con cui lavorava a stretto contatto. Lei capeggiava infatti, insieme al Bandito di Chiaramonti Giovanni Fais e a sua moglie Chiara Unani, una banda di sprezzanti guerriglieri che contrastava l’autorità Piemontese. E non si risparmiava, era sempre in prima linea con la sua ‘spericolata irruenza’ ci riferisce il Fresi. Abbandonò la sua posizione dopo la rivolta di Chiaramonti che le costò una condanna a 15 anni in contumacia per dedicarsi alla guerriglia, rifugiandosi poi probabilmente in Corsica. Sulla sua morte non si sa molto, le voci che arrivano dalla tradizione orale si rincorrono fino a sfociare nella più fantastica delle storie popolari. Probabilmente morì tra il 1755 e il 1767. Dove e come non si sa. Nel cimitero di Nulvi, dove ci sono le tombe dei Delitala, nessuna lapide ha inciso il suo nome. Potrebbe essere morta in seguito ad una caduta da un dirupo, o uccisa in Corsica da alcuni pastori transumanti. Ma Donna Lucia “era ... uomo da farsi sorprendere così facilmente”? Una cosa è certa. Morì nubile e ricchissima e lasciò tutti i suoi averi alla chiesa. Ma non è l’unica banditessa di cui si hanno notizie in Sardegna. Altre due donne, entrambe provenienti da ricche famiglie, si sono distinte in questo ruolo: Maria Antonia nota come Sa Reina di Nuoro e Paska Devaddis di Orgosolo. Sa Reina visse a Nuoro a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Era una donna un pò diversa da Lucia. Non scelse la latitanza, ma ne fu fiera sostenitrice. Apparteneva ai Serra-Sanna, una temutissima famiglia povera di origini, divenuta proprietaria di case, terreni e molti capi di bestiame, grazie anche all’impegno di Maria Antonia. “Lei
incedeva altera – ci racconta il Fresi - le forme robuste nascoste dal ricco costume smagliante di ori, candore di lini e rosso sangue di porpora. Il viso eretto, bello di un’ardita bellezza, era come abbrunito dal nero profondo degli occhi”. Capace però di imbracciare il fucile e di assumere sembianze maschili per girare liberamente nelle campagne circostanti dove agivano indisturbati i suoi due fratelli latitanti, Giacomo e il temibile Elias, a cui forniva informazioni e riserve d’armi. Fu lei l’eccellente tramite tra il paese e i territori circostanti dove la legge non si poteva applicare. Il governo piemontese la definiva “un accidente mandato da Dio sulla terra per dannazione del genere umano”. La sua attività cessò giocoforza nella notte tra il 14 e il 15 maggio, meglio conosciuta come notte di San Bartolomeo, nella quale l’autorità regia, grazie ad un’azione a sorpresa, riuscì a compiere arresti eccellenti, tra cui quello de La Regina di Nuoro, che nel 1900 fu condannata a 18 anni di carcere. Infine Paska, una giovane donna divenuta banditessa in seguito al coinvolgimento della sua famiglia nella faida tra due casate di spicco della Barbagia di allora, i Cossu, vicini al governo piemontese, e i Corraine intolleranti verso tale autorità. Orgosolo, 1912: Paska, piuttosto che rimettersi ad un mandato di cattura, decide di darsi alla macchia, rinunciando anche ad una fuga in America insieme al fidanzato Michele Manca, che mai riuscì a sposare perchè lui scontava una pena per omicidio. “Una giovinetta costretta anche lei a prendere la via della montagna – ci riferisce Fresi riprendendo un testo di Brigaglia - capace di cavalcare e sparare come i suoi
compagni di latitanza: quando muore, di tisi e di stenti, in montagna, i suoi compagni la trasportano di notte nel paese silenzioso e la depongono nella sua casa vuota, sul tappeto più bello, vestita con il costume da sposa che non potrà più indossare; l’autopsia sul cadavere la dichiarerà vergine, e Paska diventerà un personaggio di leggenda». Avrebbe potuto avere un futuro assicurato ed una vita agiata, ma scelse invece di seguire un destino duro e incerto volto ad eliminare i propri nemici. La tradizione orale la vuole vergine amazzone, selvaggia e fortissima, mentre invece nella realtà era una giovane donna dalla salute cagionevole, stretta da una società le cui le leggi, benchè non scritte, dovevano essere rispettate. Moriva nel 1913 in latitanza. Tre storie, tre personaggi, accomunati da una scelta di vivere come ‘fuorilegge’. Condannate dal governo piemontese o considerate partigiane dal popolo, a torto o a ragione, furono comunque donne forti, indipendenti, tenaci nell’animo e nelle idee. Contraddistinte da quell’inconfondibile orgoglio e carattere fiero che appartiene alle donne sarde.
39
I
l coraggio
di Madre Teresa L
a figura minuta di Madre Teresa, il suo fragile fisico piegato dalla fatica, il suo volto solcato da innumerevoli rughe sono conosciuti in tutto il mondo. Chi l’ha incontrata, non ha più potuto dimenticarla: la luce del suo sorriso, i suoi occhi profondi, amorevoli, limpidi riflettevano la sua immensa carità. Lei amava definirsi “la piccola matita di Dio”, un piccolo semplice strumento fra le Sue mani. Riconosceva con umiltà che quando la matita sarebbe diventata un mozzicone inutile, il Signore avrebbe affidato ad altri la sua missione apostolica. Alla base della spiritualità di Madre Teresa c’era il tabernacolo. , la preghiera, l’abbandono a Dio. E’ dal tabernacolo, infatti, che lei le sue suore attingono forza e fede per il servizio loro affidato. Per condurre una vita d’amore al servizio degli ultimi bisogna innanzitutto pregare, ripeteva spesso Madre Teresa. Senza la preghiera, infatti, la carità non sarebbe carità, ma semplice filantropia o generico buonismo. “ Ricordatevi che non siete assistenti sociali – soleva ripetere loro Madre Teresa – ma contemplative nel cuore del mondo “. Lei stessa aveva sempre in mano la corona del Rosario e così tante volte l’hanno immortalata i fotografi e le TV di tutto il mondo. Anche quando andò a Oslo a ritirare il premio Nobel, in una terra rigidamente luterana, portò con se la sua corona di grossi grani ben in vista tra le sue dita nodose. Era convinta che la santità è possibile a chiunque s’impegni seriamente nel seguire Gesù, e si affidava a Maria. “Ricorrere a Lei con confidenza come di bambini in tutte le proprie gioie e pene”, non mancava mai di raccomandare ogni giorno alle sue suore. Una delle sue preghiere più belle, tradotta dall’inglese, dice così:
40
“Maria, Madre di Gesù, dammi il tuo cuore, così bello, così puro, così immacolato, così pieno d’amore e umiltà: rendimi capace di ricevere Gesù nel Pane della Vita, amarlo come tu lo amasti e servirlo sotto le povere spoglie del più povero tra i poveri...” Madre Teresa è scomparsa a Calcutta la sera del venerdì 5 settembre 1997, alle 21.30. Aveva 87 anni, la sua morte creò un profondo vuoto. Il 26 luglio 1999 si è aperto, per volontà di Giovanni Paolo II, il suo processo di beatificazione. Per tutti Madre Teresa è già Santa. Il suo messaggio è sempre attuale, la sua vita un esempio da seguire. Il suo era un linguaggio semplice, comprensibile, che penetrava nel profondo del cuore. Per lei ognuno deve cercare la sua Calcutta, perché è presente anche sulle strade del ricco Occidente, nel ritmo frenetico delle nostre città. “Puoi trovare Calcutta in tutto il mondo – lei diceva – se hai occhi per vedere. Dovunque ci sono i non amati, i non voluti, i non curati, i respinti, i dimenticati…” Nella casa-madre nella Lower Circular Road di Calcutta, c’è una semplice cappella, dove dal 13 settembre 1997, riposa la piccola suora che ha dedicato la sua vita agli altri. Pellegrini da tutto il mondo vengono ogni giorno a visitarla. Persone di ogni credo e ceto sociale giungono qui, nel cuore di Calcutta, per pregare e trovare pace e amore.
Nicoli SUnauorvita
al servizio degli altri
“I
l cuore è una meraviglia della creazione. Dal cuore viene la capacità di amare, di gioire, di sacrificarsi. Esso è capace di atti eroici è più grande dell’uomo stesso ma diventa cieco se non si lascia
guidare dalla ragione”. La dolcezza esigente di una madre dalla fede solida e l’animo generoso, questo caratterizzava Suor Giuseppina Nicoli, salita alla gloria degli altari il 3 Febbraio scorso. Nata a Casatisma il 18 Novembre 1863, piccolo borgo vicino a Voghera Giuseppina Nicoli sentì fin da bambina la sua vocazione. A vent’anni entrò in seminario, abbandonò tutto per seguire la vocazione di figlia della Carità e nel Natale del 1884 partì per la Sardegna, dove cominciò la sua avventura al servizio dei poveri e in particolare dei bambini. Sbarcò a Cagliari il primo gennaio 1885. Rimase affascinata dagli splendidi colori della città e del mare. “Davvero dà un’idea dell’infinito” scrisse al padre in una lettera. Nel 1886 si dedicò ad assistere le famiglie povere della città, conobbe i bambini e gli abbandonati a se stessi. Li riunì all’asilo Umberto e Margherita insegnò loro il catechismo attribuendogli il nome di “Luigini”. Inoltre ridiede slancio all’associazione delle figlie di Maria, riunì le dame della carità e le guidò nel servizio verso i poveri, incentivò la scuola di catechismo raggiungendo ogni domenica circa 800 bambini e bambine, costituì la scuola di religione per le giovani delle scuole superiori ed universitarie per aiutarle a diventare maestre nella fede. A Cagliari e in tutta la Sardegna però, Suor Nicoli è amata e conosciuta soprattutto per le amorevoli cure che dedicò ai ragazzi poveri del quartiere della marina. Erano vagabondi ai margini della comunità, orfani, abbandonati a se stessi. Ragazzetti fra i 10 e 15 anni affamati, scalzi, magri, oziavano tutto il giorno nel quartiere, dormivano per strada. Per sopravvivere trasportavano i bagagli e i pacchi della spesa delle signore sopra delle larghe ceste (corbule) portate sulla testa. Li chiamavano per questo i “Is picioccus de crobi” i ragazzi della cesta. La loro condizione non poteva lasciare indifferente Suor Nicoli che, senza sottrarli al loro ambiente, cominciò a conquistarsi la loro simpatia. Riuscì a portarli alla messa, a istruirli nel catechismo, a insegnare loro a leggere e a scrivere. A poco a poco da ragazzi magri e poveri divennero “Marianelli” i monelli di Maria che si affidavano all’affetto e alle cure delle suore della Carità. Suor Nicoli poi, divenne per loro come una madre. Nella sua vita Suor Nicoli non si stancò mai di dedicarsi ai più poveri e ai bisognosi, per lei la solidarietà e l’altruismo erano alla base di tutti i rapporti umani. La sua vita era intrisa di carità e amore. Morì il 31 dicembre 1924. Suor Teresa Tambelli, continuatrice della sua opera l’ha definita una santa, La santa della Carità. Il 28 Aprile 2006 Papa Benedetto XVI ha autorizzato la promulgazione del decreto di eroicità delle virtù di Suor Nicoli, dichiarandola venerabile. Il 3 febbraio 2008 è stata Proclamata Beata.
“Non diciamo: ‘Sono sempre la stessa!’. Noi navighiamo contro la corrente di un fiume. Non riusciamo ad andare avanti. Non diciamo: ‘Non faccio niente’. Se facessi niente sarei trasportata dalla corrente. Se sono sempre qui è perché lotto contro la corrente, mi sostengo, mi arricchisco di meriti.” “Il segreto per divenire grandi santi è praticare le piccole virtù, facendo tutto bene, nel tempo e nel luogo, nella maniera con cui Dio vuole. Quale cosa da il vero valore alle nostre azioni? L’intenzione e l’affetto del cuore. Fare tutto conformemente al volere di Dio è aver trovato il segreto per cambiare in oro e diamante la piccola moneta della vedova del Vangelo. La pratica delle piccole virtù ci libera dall’orgoglio, dalla pigrizia, dall’ambizione.”
Tina Merlin
DALLE CASE CHIUSE AI QUARTIERI A LUCI ROSSE
A sessant’anni dalla legge che ne decretò la chiusura, si torna a parlare di case chiuse. E’ in corso in questi mesi infatti un appassionato dibattito sulle misure più efficaci da adottare nella lotta contro la prostituzione, ma soprattutto spostare dalle strade il sesso mercenario a disposizione 24 ore su 24 festivi compresi. Tra le varie ipotesi quella di riaprire le case quelle che un tempo venivano chiamate con vari nomi: case di tolleranza, postriboli, bordelli, e in termini più popolari casini. Giusta o sbagliata che fosse, la legge stabiliva di abolire la regolamentazione della prostituzione in Italia e, allo stesso tempo, avviava la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione. La conseguenza fu quella della chiusura delle case di tolleranza. In sessant’anni cosa ha prodotto dunque la tanto contestata legge Merlin? Tanti, dai politici agli intellettuali, oggi tirano oggi le somme. Sicuramente ha spostato nelle strade quello che è considerato dall’opinione pubblica il mestiere più antico del mondo. Un grande mercato del sesso a pagamento che non conosce crisi, globalizzato insieme ai consumi e ai mercati. Meglio conosciuta come “legge Merlin” per via della prima firmataria, la famosa legge 75 del 20 febbraio 1948, fu promossa dalla senatrice socialista Lina Merlin, che affrontò all’epoca la forte opposizione di molti parlamentari, compresi diversi compagni di partito. Una legge non molto condivisa all’epoca in un’Italia attaccata alle più intime tradizioni del periodo preunitario, e fortemente criticata in Parlamento da singoli esponenti di diversi partiti, di destra e sinistra. In un periodo storico dove, secondo il pensiero
essant’anni Sd’intolleranza di Maria Assunta Serra
42
dominante, la prostituzione era considerata certamente un male morale, ma in ogni caso necessaria alla società. Utile per soddisfare i bisogni sessuali maschili e per salvaguardare l’onore delle donne per bene. Ma nonostante fosse considerata necessaria, la prostituzione era ritenuta anche pericolosa, sia per le eventuali malattie contagiose, sia per l’impatto visivo che potevano avere in particolare le donne e i bambini nell’assistere a trattative e commerci non merce in esposizione. Ecco dunque il dovere dello Stato di regolare le attività di meretricio e renderle invisibili agli occhi innocenti. Già ai tempi di Cavour vi fu una prima regolamentazione. Una prostituzione legalizzata dove le donne che esercitavano il mestiere dovevano iscriversi sui registri di polizia, sottoporsi a visite mediche due volte alla settimana e restare all’interno delle case per la maggior parte del tempo, sotto la sorveglianza delle forze dell’ordine. Il mestiere non poteva essere abbandonato senza il permesso delle forze dell’ordine e le donne non potevano allontanarsi o cambiare residenza. Diversi anni più tardi arrivarono anche le teorie di alcuni studiosi che, dati scientifici alla mano, arrivarono alla teoria della donna delinquente, della natura criminale della prostituta, avvallando così atteggiamenti sempre più intransigenti da parte dello Stato nel controllo delle attività . Le case chiuse diventavano quindi un necessario compromesso fra i desideri sessuali degli uomini e la vergogna morale rappresentata invece dalle prostitute. Il commercio del sesso diventava perciò legittimo all’interno dei bordelli, reso dunque invisibile al pubblico e subordinato al potere dello Stato. La senatrice Merlin già nel 1948 aveva promosso un progetto di legge contro lo sfruttamento sessuale e l’uso dello Stato di riscuotere la tassa di esercizio e la percentuale sugli incassi della vendita del corpo delle donne. Ma fu determinante per la sua iniziativa l’adesione dell’Italia all’ONU. In virtù di questo evento, il governo dovette infatti sottoscrivere diverse convenzioni tra cui la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo
43
Una scena dal film di Lina Wetmuller “Film d’amore e d’anarchia
44
che obbligava tra l’altro, gli Stati firmatari di porre in atto la repressione della tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione. Le leggi che fino ad allora avevano quindi regolamentato la prostituzione vennero abolite, senza che il Parlamento trovasse una soluzione diversa o quanto meno alternativa alla questione che, come si sa, non fu assolutamente eliminata. La legge restituì la libertà ad oltre duemila schiave del sesso, fino ad allora sfruttate sia dai loro lenoni (o protettori) e sia dallo Stato che contava incassi ad ogni prestazione. La legge Merlin segnò una svolta nel costume italiano del secondo dopoguerra, anche se in tanti intravedevano gravi conseguenze come epidemie di malattie veneree ed il dilagare delle prostitute nelle strade delle città. La legge Merlin e la chiusura della case di tolleranza non ha certamente portato alla scomparsa della prostituzione, né alla diminuzione del numero delle donne costrette per ricatto o per necessità a prostituirsi. Tanto più con gli anni è aumentato il fenomeno criminale legato a racket anche stranieri che hanno in mano lo sfruttamento di giovani donne dell’est europeo e del sud Africa. Di questi tempi il dibattito è in corso. Riaprire o no le case chiuse, organizzare quartieri a luci rosse, come le vetrine del sesso ad Amsterdam, o Artemis a Berlino. In Germania, Svizzera e Olanda la prostituzione è legalizzata, l’attività è oggetto d’imposta, esiste anche il sindacato che tutela le professioniste del sesso. In Francia e in Gran Bretagna invece è solo tollerata, ma il mercato è molto attivo... In Italia un referendum potrà decidere le opzioni possibili. Repressione o legalizzazione? Lasciamo alle donne l’ardua sentenza.
Un angolo del Giappone dedicato all’incantevole mondo femminile
Nel mondo dello spettacolo le donne che vestono ruoli maschili sono una rarità ma, Takarazuka, rappresenta un’eccezione. Dal 1924 la cittadina nipponica di Takarazuka ospita il primo e più grandioso esempio di compagnia stabile tutta femminile, in cui i ruoli maschili sono rigorosamente riservati alle donne. Questo teatro però non rappresenta una scappatoia per attricette che vogliono dare spettacolo e farsi pubblicità, bensì un rigido e impegnativo percorso formativo, che soprattutto negli ultimi anni è diventato un’icona per le giapponesi e non solo. Questa compagnia non recluta attrici “esterne”, ma solo fra le allieve dell’annessa scuola di recitazione, estremamente selettiva, che si occupa della crescita delle aspiranti “takarisiennes” (questo è il soprannome delle attrici del Takarazuka). Le ragazze studiano per otto ore al giorno, sotto una ferrea disciplina, vivono nei dormitori e nelle infrastrutture annesse al teatro, e per stimolare la resistenza e la forza di volontà non sono
loro concessi elettrodomestici. Dopo un anno in comune le studentesse si separano a seconda delle proprie inclinazioni: le “musumeyaku” si specializzeranno in ruoli femminili, mentre le “otokoyaku” in quelli maschili seguendo un addestramento supplementare che dovrà farle diventare “veri uomini”. Terminata la preparazione, le attrici verranno assegnate a una delle cinque troupes (luna, neve, stella, fiore e cielo) che compongono la compagnia, e inizieranno a tenere le loro rappresentazioni presso il teatro principale a Takarazuka, al distaccamento di Tokyo o in tournèe nazionali ed internazionali. Ogni troupe è organizzata gerarchicamente in base all’anzianità e quando l’attrice principale si ritira, o non è più adatta ai ruoli principali, viene sostituita da chi la segue nella “piramide” della propria troupe. Recentemente si è costituito un gruppo speciale composto da takarisiennes ultraquarantenni, i cui membri possono andare a sostenere le varie troupes, in base alle loro varie esigenze. Quando capita
che una takarisienne abbandona questa vita troppo impegnativa, spesso decide di diventare una cantante o, più di frequente, apre un locale. Il repertorio del teatro Takarazuka è estremamente vario e va dai musical più gettonati come “Grease!”, “Kiss me Kate” e “West Side Story” a “L’Opera da Tre Soldi” di B.Brecht, dal teatro romantico di “Cyrano de Bergerac” ai classici di Shakespare, nonchè a rielaborazioni originali come la biografia di Rodolfo Valentino. Questa particolare propensione alla commistione di generi, inoltre, ha spesso aperto le porte al mondo dei manga caratterizzati da contenuti più “adulti”, e la rappresentazione di “Lady Oscar” è stata una conseguenza quasi automatica. Sicuramente la realtà giapponese è un microcosmo ma certamente il Teatro Takarazuka è stato capace di ritagliarsi spazio e popolarità in una società maschilista e tradizionalista come quella nipponica.
45
NON SOLO BELLE ma anche creative e tecnologiche ecco le donne che amano la scienza e hanno contribuito al progresso scientifico mondiale E’ ancora lunga la strada da percorrere per una reale parità tra uomo e donna. In molti paesi in via di sviluppo, salvo rare eccezioni, le donne sono ben lontane non solo dall’aver raggiunto la parità con l’altro sesso, ma anche dal vedere loro riconosciuti i più elementari diritti di esseri umani. Malgrado le difficoltà incontrate però, non sono poche le donne che hanno portato importanti contributi allo sviluppo della scienza. La storia ci tramanda i nomi di alcune famose scienziate che, in tutto il mondo, con i loro studi hanno contribuito allo sviluppo della scienza e della tecnologia. Donne determinate, curiose, disposte a combattere i pregiudizi di inferiorità che da sempre sono stati loro attribuiti. Donne uniche, esempio per le nuove generazioni che non hanno nulla da invidiare ai colleghi uomini.
africa
Annie Easley (1933) Madame C.J. Walker (1867 - 1919) Fu una delle prime donne, appartenente a una famiglia di schiavi ad avere successo economico grazie alla sua capacità creativa e innovativa. Nel 1905 mise a punto un trattamento per lisciare i capelli. La sua invenzione le permise di accumulare una fortuna grazie alla vendita del prodotto porta a porta. Nel 1910 riuscì ad aprire una azienda e organizzò numerosi convegni per promuovere la sua invenzione.
46
47
MIXEDO
america
Alexandra Illmer Forsythe (1918 - 1980) Matematica Alexandra Illmer Forsythe ha condotto diversi studi in campo informatico. Dal 1960 al 1970 è stata co-autrice di una serie di testi di informatica. Emily Roebling (1844 - 1903) Ingegnere Il marito fu l’ingegnere che seguì i lavori per la costruzione del Ponte di Brooklyn. Paralizzato a causa di un incidente, i lavori di completamento vennero continuati da Emily Roebling. Kate Gleason (1865 - 1933) Ingegnere Nel 1918 divenne la prima donna ad entrare nella American Society of Mechanical Engineers.
asia
Si Ling-Chi (c. 2640 AC) Imperatrice Leggendaria prima Imperatrice della Cina. Mentre era seduta nel suo giardino capì il segreto della seta osservando il baco da seta. Sviluppò il processo per rimuovere il filo dal bozzolo e stabilì dove tessere la seta e fare nuovi tessuti. Wu, Chien Shiung (1912 - 1997) Fisico Chien Shiung Wu nacque in China nel 1912 ed emigrò negli Stati Uniti dopo essersi laureata alla Nanking Central University. All’Università di Berkeley ottenne un Dottorato ed insegnò allo Smith College prima di iniziare a lavorare presso la Columbia University. Partecipò al Progetto Manhattan, e tra i risultati ottenuti il più importante fu la dimostrazione che il “principio di parità” fino ad allora ritenuto intoccabile, non è sempre valido in campo subatomico. Grazie a questa scoperta il Nobel fu vinto dai suoi colleghi Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang. Vandana Shiva (1952) Fisico quantistico Considerata la teorica più nota di una nuova scienza: l’ecologia sociale. Oltre ad essere un fisico, Vandana Shiva è anche economista e dirige dal 1982 il Centro per la Scienza, Tecnologia e Politica delle Risorse Naturali di Dehra Dun in India. Fa parte del movimento “Donne” che in Asia, Africa e America Latina critica le politiche di aiuto allo sviluppo.
europa
Maria Gaetana Agnesi (1718 - 1799) Matematica Bambina prodigio, all’età di nove anni, scriveva leggeva e parlava italiano, francese, latino, greco, tedesco, spagnolo ed era conosciuta come “l’oracolo delle sette lingue”. Herta Marks Aryton (1854 - 1923) Fisico Agli inizi del XX secolo lavorò nel campo dell’elettricità e scrisse quello che divenne lo “standard textbook”. Columbia University. Partecipò quindi al Progetto Manhattan, di cui tra i risultati ottenuti il più importante fu la dimostrazione che il “principio di parità” fino ad allora ritenuto intoccabile, non è sempre valido in campo subatomico. Grazie a questa scoperta il Nobel fu vinto dai suoi colleghi Tsung Dao Lee e Chen Ning Yang.
48
D ISCOVER SARDINIA
viaggio tra mare, chiese e storia
L
a Sardegna, collocata nel centro del Mar Mediterraneo, coi suoi circa 1800 chilometri di coste rappresenta, per la posizione geografica e per la sua storia, una delle destinazioni più ambite per chi usa trascorrere le proprie vacanze al mare. E non solo. Proviamo ad intraprendere, pur con tutti i limiti delle righe che abbiamo a disposizione per presentarvi la Sardegna, un piccolo tour, sfiorando le coste piu’ suggestive e spingendoci poi verso l’interno tra i nuraghi e le antiche chiese. Punto di partenza e poi di approdo, il capoluogo sardo: Cagliari. Merita molto piu’ di due parole veloci che il nostro spazio tiranno ci impone. Di sicuro una visita di qualche giorno. Addossata ad un piccolo colle, sulla cima del quale si trova la cittadella medievale con le due Torri di San Pancrazio e dell’Elefante, la capitale della Sardegna si è sviluppata poi verso il mare coi suoi quartieri moderni ed il porto commerciale tra i più importanti del Mediterraneo. La città, forse di origine fenicia ma certamente cartaginese, è anche il principale centro politico, economico e culturale della regione sarda; con i centri più vicini di Quartu, Pirri, Monserrato o Selargius ospita quasi un terzo dell’intera popolazione isolana. Spostiamoci verso occidente, ci imbattiamo immediatamente nella ex città punico romana di Nora, vicino al ridente centro estivo di Pula. Che ospita la spiaggia e la pineta di S.Margherita di Pula, che ospitano alcune tra le migliori strutture alberghiere
52
della Sardegna. In questa località si possono effettuare escursioni nelle vicine zone montagnose coperte da folti boschi, o passare una giornata rilassante sul percorso di golf di Is Molas che, grazie al clima mite, rimane aperto per tutto l’anno, ospitando gare internazionali. Obbligatorie le visite a alla lunga striscia di rena bianchissima di Chia. Poi i porti di Calasetta o Sant’Antioco da cui si parte in traghetto per arrivare alle vicine Isola di San Pietro e Carloforte. Famosisima per la pesca del tonno, che viene lavorato ed inscatolato negli stabilimenti locali e dal quale si ricava la prelibata bottarga e il musciame. Inizia poi la costa occidentale con i suoi fondali più ampi e inesplorati: Nebida e Masua, che hanno un grande faraglione chiamato ‘”Pan di Zucchero” per le sue pareti candide, che spunta dall’acqua come un fungo dalla terra. Qualche miglio ancora e si trova Cala Domestica, una delle perle di questa parte della costa sarda, posta in fondo ad un fiordo il cui ingresso sembra sorvegliato dall’alto da una bella torre aragonese.
Veduta di Castello quartiere storico di Cagliari.
A seguire Buggerru. Circondato da gallerie minerarie scavate nella montagna, in quanto vecchio centro minerario ormai solo turistico. Poi, Fluminimaggiore nelle cui vicinanze si trovano le Grotte di Su Mannau, visitabili per un lungo tratto, ed il Tempio di Antas dedicato ad una divinità locale: il Sardus Pater. Si entra, così, nella cosiddetta “Costa Verde” e nella Marina di Arbus che sono preceduti dalla spettacolare “colata” di sabbia di Ingurtosu, le cui dune con folti ginepri degradano a mare in grandi spazi ancora quasi deserti dove l’uomo per fortuna non è ancora riuscito a mettere nè mano nè mattoni. Chiude a Nord il Golfo di Oristano dove è stata ritrovata la città punicoromana di Tharros, i cui scavi archeologici hanno riportato alla luce non solo i monumenti di quelle civiltà ma anche numerosi e preziosi oggetti. Qualche miglio più a nord, si arriva alla cittadina di Bosa, costruita sulla foce del fiume Temo, collegata ad Alghero da una strada panoramica bellissima. Antica città catalana, una volta chiamata Barceloneta (cioè la piccola Barcellona) Alghero è la pioniera delle destinazioni turistiche della Sardegna: oltre al suo mare e alle sue spiagge, gode di un clima temperato in ogni mese dell’ anno ed ha attrezzature adeguate per rendere un soggiorno estremante piacevole. Lontano dalla città l’ imponente e austera Punta di Capo Caccia che contiene al suo interno le famose Grotte di Nettuno, cui si accede con tempo buono via mare, oppure da terra percorrendo la “escala del cabirol” (ovvero la scala del capriolo), lunga ben 650 gradini. Poi Stintino, per chi ama fare il bagno in acque limpide dai fondali di sabbia.
53
Da qui si arriva al Golfo dell’ Asinara dove si trova Porto Torres importante scalo tra l’isola, lo stivale, la Corsica e la Francia. Poi la costa riprende a salire sino a Castelsardo, piccolo borgo medioevale fondato dai Doria nel XII secolo, oggi una destinazione turistica molto frequentata assai rinomato per il suo artigianato, soprattutto quello legato alla realizzazione di cestini con foglie di palme selvatiche. Da qui ci dirigiamo verso Capo Testa, la punta più a nord della Sardegna, con le sue enormi rocce di granito modellate dal vento. Vicina è Cala di Luna che ci introduce al villaggio dei pescatori di Santa Teresa di Gallura, oggi diventato una ridente cittadina turistica; d’estate il suo porto naturale (ricavato in un lungo fiordo) si riempie di tante imbarcazioni da diporto. Da qui ci si puo’ imbarcare nel paradiso dell’Arcipelago di La Maddalena: 23 isole, tra piccole e grandi, che rappresentano per ogni amante del mare una meta obbligata per il fascino e il profumo della vegetazione mediterranea, per la trasparenza delle acque e la finissima rena delle spiagge. Un ponte la lega a Caprera che ospita la casa e il Museo di Giuseppe Garibaldi, l’ eroe dei due Mondi. E’ breve il passo nel fantastico mondo della Costa Smeralda chiamata cosi’ per il suo mare che ha il colore di un prezioso smeraldo. Le sue piu’ note perle, conosciute in tutto il mondo sono Porto Cervo (uno dei più attrezzati e moderni porti turistici del Mediterraneo ) in cui si possono ammirare le ville prestigiose di uomini d’ affari, artisti e personaggi del cinema o della televisione, la lunga e sabbiosa Liscia Ruja, Cala di Volpe, che ospita uno degli alberghi più raffinati e originali del mondo e a chiudere, Porto Rotondo, luogo molto mondano cresciuto attorno al suo porto dove si affacciano le boutique e i negozi delle firme più prestigiose della moda e della oreficeria. Appena fuori dal Golfo di Olbia percorriamo la costa appartenente alla provincia di Nuoro e citiamo S. Teodoro e Budoni, Posada che ha davanti una bellissima spiaggia e alle spalle un antico borgo medievale e il Castello della Fava, certamente abitato da Eleonora D’Arborea. I fondali, sabbiosi per la presenza di spiagge, continuano con La Caletta di Siniscola e la tranquilla Marina di Orosei. L’unico centro con un piccolo porto sempre molto affollato della zona è quello di Cala Gonone che rappresenta la “dependance” marina di Dorgali. La zona , ricca di insediamenti risalenti alla civiltà nuragica, ci propone la visita alle Grotte di Ispinigoli, chiamata del Bue Marino perché’ ha sempre ospitato la foca monaca. Proseguendo verso Sud Cala Luna, un raro gioiello della natura costituito da una
Una panoramica della costa di Buggerru - Flumini Maggiore, comprendente le spiagge di San Nicolò e di Portixeddu
spiaggia di grande bellezza chiusa da uno stagno e da una folta macchia di oleandri che fanno da sfondo ad uno scenario che tutto il mondo invidia alla Sardegna. A contorno, Cala Sisine, la successiva Cala Mariuolu composta da piccole insenature dove la spiaggia è formata da piccole pietre rotonde che vanno sempre più rimpicciolendosi man mano che si arriva alla battigia. Nelle vicinanze Baunei, villaggio che vive soprattutto dell’ allevamento di bestiame che ha come centro turistico sul mare Santa Maria Navarrese. Poi Arbatax, che è anche punto di arrivo del trenino che corre sopra la montagna verso Lanusei e Arzana. La costa dell’Ogliastra sembra improvvisamente addolcirsi con spiagge di rena finissima come quelle di Orri e Tortolì. Ai buongustai: fate rifornimento, prima di lasciare questa zona, di alcuni prodotti del mare come le prelibate uova di muggine che qui si chiamano “bottarga” oppure i freschi pesci di peschiera come anguille, capitoni. spigole, orate o ancora i saporiti mitili. Ultima tappa della zona, Marina di Gairo, da cui ci dirigiamo verso il Sarrabus, che ci accompagnerà sino alle porte di Villasimius, passando per Capo Carbonara e giuardando all’isola dei Cavoli, il cui nome deriva forse dal nome cagliaritano del granchio. Capo Boi, Solanas, Torre delle Stelle e Capitana ci riconducono alla lunga spiaggia del Poetto (ben otto chilometri di sabbia finissima) che ci annuncia l’arrivo a Cagliari.
ALLEGATI
TORICI
Alghero
E a questo proposito è senz’altro da consigliare la visita di alcune delle migliaia di sepolture ipogeiche disseminate nell’isola, le Domus de Janas, case delle fate o delle streghe per la tradizione popolare, scavate nella roccia, nelle pareti delle montagne in luoghi spesso inaccessibili. Ad Alghero la necropoli di Anghelu Ruju offre la possibilità di esplorare agevolmente decine di grotticelle funerarie, alcune delle quali decorate con veli di pittura rossa e teste di toro stilizzate, simbolo maschile di fertilità e perciò di continuità della vita, molto frequente in questo tipo di sepoltura.
la necropoli di Montessu
Per chi è disposto ad affrontare un certo tratto di cammino a piedi, spostandoci nella provincia di Cagliari, nelle campagne di Villaperuccio la necropoli di Montessu offre, in un anfiteatro naturale di grande bellezza, uno degli esempi più suggestivi di questo tipo di architettura funeraria.
Pranu Mutteddu - Menhirs
a Goni nel Gerrei
Da non perdere la spettacolare concentrazione di Pranu Mutteddu a Goni nel Gerrei, che accanto ad un ricco complesso tombale del III millennio a.C. vede una cinquantina di “pietre fitte”, una ventina delle quali allineate lungo l’asse Est-Ovest in apparente riferimento quindi al corso celeste del sole.
Fluminimaggiore Tempio di Antas
L’edificio, ristrutturato sotto Caracalla nel 213 d.C., era prima un sacello
punico, e prima ancora forse un luogo di culto di un dio indigeno, come testimonierebbero piccoli bronzi di età nuragica e un fregio nel quale si legge la dedica latina a Sardus Pater, divinità tradizionale della Sardegna antica.
I NURAGHI
Nella sua espressione più semplice il nuraghe presenta la figura di una torre rotonda, dal profilo verticale a tronco di cono, sormontata da un terrazzo sporgente, costruita con muratura molto spessa, composta a secco con grosse pietre, talora grezze, talora lavorate, disposte in filari orizzontali sovrapposti a cerchi sempre più stretti dal basso verso l’alto. Nuraghe Palmavera Alghero Su Nuraxi - Barumini Nuraghe Losa Abbasanta Villaggio nuragico Tiscali
LE CHIESE
Cagliari - S. Alenixedda S. Pietro Extramuros presso Bosa S. Gavino a Porto Torres S.S. Trinità di Saccargia
m
Virtù
ANGIARE E BERE
di patata di Patrizia Floris
Beati i poveri di spirito. Riferito alla patata, il richiamo all’antica sapienza non deve suonare irriverente dal momento che i riflettori delle Nazioni Unite si sono accesi proiettando la loro luce sull’umile tubero. Per iniziativa del Perù, che rivendica al proprio territorio andino le sue antiche origini, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura (FAO) ha proclamato il 2008 Anno Internazionale della Patata. Non si tratta di un’idea balzana. Dopo il riso, il frumento e il mais, la patata occupa nel mondo il quarto posto tra i prodotti agricoli più importanti per l’alimentazione umana. Lo scopo dell’Anno internazionale è duplice. In primo luogo si vuole richiamare l’attenzione sull’importanza della patata come fonte ulteriore di cibo per i paesi in via di sviluppo, soprattutto per quelle regioni del mondo dove il dramma della fame colpisce ancora circa un miliardo di persone. In secondo luogo, si mira a promuovere la ricerca e lo sviluppo di sistemi di coltivazione adeguati alle specifiche realtà agricole
58
regionali. Si stima che nei prossimi vent’anni della popolazione mondiale aumenterà di oltre 100 milioni di persone all’anno e che più del 95% di questo incremento demografico interesserà i paesi in via di sviluppo. Gli esperti delle Nazioni Unite, calcolano che per alleviare la fame nel mondo la produzione di derrate alimentari dovrebbe aumentare del 60% rispetto alle attuali disponibilità. In questa impresa che si configura come una vera e propria lotta contro la fame nel mondo non v’è dubbio che la patata abbia un ruolo importante da giocare. Esistono, infatti, tutte le condizioni propizie al riguardo, sia dal punto di vista nutrizionale sia dal punto di vista dei requisiti e dei costi di produzione. Le patate sono ricche di carboidrati per cui sono in grado di dare un buon apporto di energia; possiedono, inoltre, vitamina C e potassio. Rispetto agli altri tuberi e radici hanno un quantitativo maggiore di proteine (2,1%), di alta qualità e ben bilanciate con le esigenze dell’alimentazione umana. Rispetto a qualunque altra coltivazione, la patata produce
Vincent Van Gogh, “I mangiatori di patate” 1885
una maggiore quantità di cibo in minor tempo, su una superficie minore e può adattarsi ai climi più disparati. La sua coltivazione risulta perciò particolarmente adatta per quelle aree dove la pressione demografica rende scarsa la terra ed abbondante il lavoro, condizioni che si ritrovano nella maggior parte dei paesi in via di sviluppo. Anche dal punto di vista dei costi, la sua produzione risulta abbordabile: un chilo di patate costa meno di un terzo un chilo di frumento. In aggiunta, la patata può contare su un potenziale di espansione della domanda che è ancora elevato. Nonostante i consumi pro capite nei paesi in via di sviluppo si siano più che raddoppiati negli ultimi quarant’anni, passando da meno di 10 kg a quasi 22 kg per abitante, il livello raggiunto in questi paesi resta ancora al di sotto di un quarto dei consumi che si registrano in Europa. Ma, al di là dell’evidenza offerta da questi dati, è la stessa storia della patata a fornirci le prove più decisive. Questa storia ha inizio 7-8000 anni fa nei pressi del lago Titicaca situato a 3.800 metri sul livello del mare nella catena delle Ande, quando gruppi di cacciatori e di raccoglitori si insediarono sulle terre circostanti. Da prima incominciarono a cibarsi con le patate selvatiche che vi crescevano in abbondanza, mentre in seguito impararono a selezionare e a coltivare le varietà più adatte per usi comme-
stibili. In effetti, ciò che oggigiorno conosciamo come “patata” (solanum tuberosum) contiene soltanto un frammento della diversità genetica presente nelle sette specie riconosciute e nelle 5000 varietà che tutt’ora crescono sulle Ande. È interessante rilevare che fu proprio in virtù della disponibilità di cibo ottenuta mediante un’alimentazione basata sul mais e le patate che la civilizzazione indigena del Sud America poté espandersi raggiungendo il culmine del suo sviluppo con l’ascesa degli Inca, il cui impero si estendeva tra l’Argentina e la Colombia dei nostri giorni. L’invasione spagnola iniziata nel 1532 e culminata nel 1572 mentre da un lato segnò la tragica fine di questo vasto impero, dall’altro lato diede un impulso del tutto nuovo alla diffusione della patata in Europa e nel mondo. Le prime testimonianze dell’introduzione della patata in Europa risalgono al 1565, nelle isole Canarie, mentre si ha notizia solo dal 1573 della sua iniziale presenza sulla terraferma
59
spagnola. Ben presto, però, la patata incomincerà a girare per le corti d’Europa inviata quale dono esotico da prima al Papa in Roma, da qui spedita all’Ambasciatore pontificio a Mons in Belgio per poi essere recapitata ad un botanico di Vienna. Tra la fine del secolo e gli inizi del settecento la patata raggiungerà in rapida successione l’Inghilterra, la Francia e i Paesi Bassi. Arriverà negli Stati Uniti nel 1719, passando dall’Europa anziché dal Sud America da dove era iniziato il suo viaggio. Tuttavia, per molti anni l’aristocrazia europea si sarebbe limitata ad ammirarne i fiori, mentre le classi più umili erano distolte dal suo consumo dalle credenze popolari, che annoveravano la patata tra le piante velenose. Tra primi ad apprezzarla, oltre gli irlandesi, furono i marinai che incominciarono ad includerla tra le provviste di bordo nei lunghi viaggi oceanici. Attraverso loro, la patata raggiungerà nel XVII secolo l’India, la Cina e il Giappone. La vera svolta nella diffusione della patata come cibo di massa su scala europea si avrà con la Rivoluzione industriale e con i fenomeni di urbanizzazione che ad essa si accompagnarono. Di quegli
anni in cui lo sviluppo economico si intrecciava ancora con la più nera povertà, e le strabilianti fortune accumulate dai pochi si contrapponevano ai morsi della fame patiti dai più, la maestria di Vincent Gogh ci ha lasciato un’eloquente testimonianza dipingendo lo squallore e la bruttezza della miseria nei volti di una povera famiglia contadina riunita intorno a un tavolo dove è posto soltanto un piatto di patate. Per quanto frugale, quel pasto rappresentò nondimeno per milioni di europei un valido spartiacque tra la vita e la morte per fame. La riprova di ciò si ebbe nelle drammatiche conseguenze derivanti da un’epidemia di peronospora che si diffuse tra il 1845 e il 1848 soprattutto in Irlanda quando la perdita di interi raccolti causerà la morte di 1 milione di individui che traevano dal consumo di patate l’80% delle loro fabbisogno giornaliero di calorie. La lezione fu durissima ma servì ad introdurre varietà più resistenti alle malattie e più produttive. Da allora in poi la patata si affermerà progressivamente in Europa e in molti paesi extra-europei diventando grazie alla facilità di coltura anche in piccoli appezzamenti, al basso prezzo, alla rapidità di cottura, il primo tra i moderni prodotti alimentari di larga “convenienza”. Altro non resta da dire se non che l’umile e spesso sbeffeggiata patata possa portare a compimento la sua missione alimentare iniziata migliaia di anni orsono. L’auspicio è, dunque, che quest’Anno Internazionale giovi a dare nuovo slancio alla sua storia, questa volta a vantaggio di quella parte dell’umanità che ancora soffre e muore di fame nel mondo.
Superficie coltivata Ettari
Quantità
Rendimento
Tonnellate
Tonnellate per ettaro
1.
Cina
4 901 500
2.
Fed. Russa
2 962 420
38 572 640
13.02
3.
India
1 400 000
23 910 000
17.08
4.
USA
451 430
19 712 630
43.67
5.
Ucraina
1 463 684
19 467 000
13.30
6.
Germania
274 300
10 030 600
36.57
7.
Polonia
597 230
8 981 976
15.04
8.
Belarussia
433 922
8 329 412
19.20
9.
Olanda
156 000
6 500 000
41.67
158 084
6 354 333
40.20
10.
Francia
70 338 000
14.35
MIXEDO
Fonte: FAOSTAT
60
virtù di patata Pane e patate cotto sulle foglie di cavolo Ingredienti: Farina di grano duro, lievito, acqua, sale, patate Preparazione: Preparare la pasta lievitata come per il pane. Lessare le patate con la buccia, in abbondante acqua salata; pelarle, schiacciarle, farle assorbire dalla pasta ben gramolata, aggiungendovi dell’acqua tiepida che la renderà morbidissima. Lasciare lievitare in luogo ben caldo per circa tre ore. Cuocere le focacce nel seguente modo: prendere le foglie più larghe dei cavoli (private del gambo) e usarle come teglia; spruzzarle d’acqua e stender-
Agnolotti di patate alla sarda Ingredienti per la pasta: 250 g di farina, 1 uovo intero e 1 tuorlo per il ripieno: 500 g di patate, 30 g di burro, 150 g di caciocavallo, 1 spicchio d`aglio qualche foglia di menta secca2 cucchiai di olio extravergine d`oliva per la salsa: 600 g di pomodori S.Marzano, 1 cipollina, basilico, un pizzico di zucchero, sale Preparazione: Lessate le patate, sbucciatele e passatele nello schiacciapatate. In una terrina mescolate al passato di patate il burro, l`olio, il caciocavallo grattugiato. l`aglio tritato, la menta finemente sbriciolata. Mescolate accuratamente e regolate di sale. In un robot da cucina preparate la pasta con la farina, il
vi sopra piccole quantità di pasta dello spessore di due o tre centimetri. Infilare le spianate a due a due nel forno a legna a temperatura molto alta. Quando la pasta si rapprende raggiungendo una certa consistenza, togliere dal forno per eliminare le foglie. Capovolgendole, rimetterle nel forno per completarne la cottura. La colorazione dorata iindica che occorre sfornarle, spazzolarle e inumidirle con acqua perchè conservino la morbidezza. Le focacce si mangiando preferibilmente calde.
tuorlo, l`uovo intero, il sale e pochissima acqua. Lavorate bene l`impasto, poi tiratelo in una sfoglia sottile; con un tagliapasta ricavate dei dischi di 6-7 cm di diametro. Mettete al centro di ogni disco una pallina di ripieno di patate, poi ripiegate la pasta a mezzaluna, chiudendo bene i bordi perché il ripieno non esca durante la cottura. Preparate la salsa: lavate i pomodori e spezzettateli, poi metteteli in una casseruola con cipolla finemente tritata e lo zucchero. Salate e cuocete a fiamma bassissima per circa mezz`ora, poi frullate la salsa e unite il basilico. Lessate gli agnolotti in acqua bollente salata per 4-5 minuti, scolateli e conditeli con la salsa preparata, poi servite subito.
61
Da sinistra, Nadia Gallico Spano. Maria Federici e Nilde Iotti
La Costituzione italiana ha sessant’anni. Il progetto di Costituzione fu approvato dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947. Riportò 214 voti a favore e 145 contrari. Il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola appose la sua firma per la promulgazione il 27 dicembre 1947, e sempre nello stesso giorno il testo fu pubblicato in una edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale.
62
La Costituzione italiana ha sessant’anni. Il progetto di Costituzione fu approvato dall’Assemblea costituente il 22 dicembre 1947. Riportò 214 voti a favore e 145 contrari. Il Capo provvisorio dello Stato Enrico De Nicola appose la sua firma per la promulgazione il 27 dicembre 1947, e sempre nello stesso giorno il testo fu pubblicato in una edizione straordinaria della Gazzetta Ufficiale. Cinque giorni dopo, la Carta costituzionale entrò in vigore. Era il 1° gennaio 1948. Si chiudeva così quella fase di transizione che a partire dalla caduta del fascismo (25 luglio 1943), attraverso il referendum istituzionale e la concomitante elezione dell’Assemblea costituente (2 giugno 1946), giunse infine a fondare la Repubblica italiana dotandola di una propria Carta costituzionale, condizione indispensabile per la piena ripresa della vita democratica nel Paese. In quest’anno in cui ricorre il sessantesimo anniversario della Carta costituzionale, può essere interessante ricordare tra i diversi aspetti che rendono importante questa ricorrenza il ruolo svolto dalle donne. Per-
ché se da un lato è divenuto usuale rendere omaggio ai membri dell’Assemblea costituente riconoscendo a essi per l’opera meritoria svolta il titolo di «padri fondatori» della Repubblica, dall’altro lato ciò non deve far dimenticare che in quell’Assemblea era presente a pieno titolo anche un gruppo di donne. Con pensiero di non minore riconoscenza meriterebbero anch’esse di essere ricordate a buon diritto come le «madri fondatrici» della nostra costituzione. Furono infatti 21 le donne elette il 2 giugno 1946 all’Assemblea costituente: 9 appartenevano alla Democrazia Cristiana, 9 al Partito Comunista Italiano, 2 al Partito socialista e una all’Uomo Qualunque. Cinque di loro entrarono nella «Commissione dei 75» incaricata di scrivere la Carta costituzionale: Maria Federici e Angela Gotelli per la Democrazia Cristiana, Teresa Noce e Nilde Iotti per
I
italiana dopo un ventennio di assenza forzata dalle consultazioni elettorali. Sebbene i leader dei due maggiori partiti politici, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, fossero stati tra i più tenaci sostenitori del voto femminile, i timori sulle scelte elettorali delle donne erano assai diffusi anche all’interno delle due maggiori compagini: i comunisti temevano l’influenza della Chiesa sul voto femminile, i democristiani paventavano il contrario. I partiti minori, dal canto loro, erano più che certi che il voto delle donne avrebbe premiato soprattutto i grandi partiti di massa. Tra le incertezze e i timori della vigilia elettorale aleggiava il vecchio pregiudizio sull’immaturità delle donne a prendere parte alla vita politica del Paese. L’affluenza alle urne delle donne superò ogni previsione. Si trattò di una vera partecipazione di massa. Votarono oltre 12 milioni di elettrici, con
e madri
della Costituzione il Partito Comunista, Tina Merlin per il Partito Socialista. E’ comprensibile che durante la campagna elettorale del ’46 si guardasse al voto delle donne con misto di interesse e di apprensione. Era la prima volta che le donne partecipavano ad una votazione politica generale. Avrebbero votato in massa o si sarebbero per lo più astenute? Come si sarebbe indirizzato il loro voto tra i diversi partiti e, all’interno di questi, a quali canditati avrebbero affidato il compito di redigere la nuova carta costituzionale? Domande che riflettevano non soltanto l’incertezza ma anche l’importanza attribuita al voto femminile. Non foss’altro perché le donne rappresentavano la maggioranza degli aventi diritto al voto. L’elettorato femminile contava, infatti, più di 14 milioni di elettrici, pari al 53% del totale degli iscritti nelle liste elettorali. La posta in gioco era, inoltre, molto alta: non si trattava soltanto di scegliere la forma di Stato, con il voto sul referendum tra Monarchia o Repubblica, ma anche di misurare con l’elezione dell’Assemblea costituente, la reale forza dei singoli partiti che si presentavano di nuovo sulla scena politica
63
una percentuale superiore a quella degli uomini: l’89,2% contro l’89%. Le cronache del tempo descrivono le lunghe file di donne ai seggi elettorali. Le mogli e le madri, perlopiù accompagnate dai bambini, come raccontava un giornale del tempo, si erano recate alle urne di mattina presto, per essere poi libere all’ora di pranzo, mentre più tardi giungeranno le ragazze «con l’abito della festa e le scarpette nuove». Il numero delle elette, però, sarà notevolmente al di sotto di quanto avrebbe meritato una così elevata partecipazione al voto. Delle 226 candidate solo il 9,3% (21) fu eletto all’Assemblea costituente. Dal punto di vista anagrafico «le costituenti» appartenevano a tre diverse generazioni, numericamente equivalenti tra loro: la prima, nata alla fine dell’Otto-
64
cento, e la seconda, nata nel primo quindicennio del novecento, avevano avuto modo di partecipare alla vita politica e sindacale negli ultimi anni dello stato liberale, mentre la terza generazione ricomprendeva le più giovani che erano nate sotto il fascismo e che solo da poco avevano ultimato gli studi. Geograficamente venivano tutte dalla penisola, in prevalenza dalle regioni del Centro-Nord. Ma una di loro, Nadia Gallico, nata a Tunisi, rappresenterà idealmente la Sardegna, la terra in cui era nato il marito, Velio Spano. Quanto al grado d’istruzione, hanno titoli di studio sensibilmente più elevati rispetto alla media delle italiane di quel tempo: in maggioranza sono laureate, sposate e con figli a carico. Ma di là delle differenze di provenienza geografica, di stato civile, d’istruzione e di appartenenza partitica ciò che più di ogni altro aspetto sarà decisivo nella formazione politica delle donne dell’Assemblea costituente è la partecipazione di quasi tutte alla Resistenza: un’esperienza vissuta sia pure in forme diverse che alimenterà di valori e d’idealità civili quell’impegno generoso che le indusse a superare non poche difficoltà pur di contribuire a gettare le basi del nuovo ordinamento repubblicano. Come ha scritto di recente Barbara Pezzini («Studi e ricerche di storia contemporanea», 2007, fasc. 68, pp. 163-187) il rapporto tra donne e costituzione è certamente «un luogo privilegiato nel quale osservare sia le “radici” che il “cammino” della Costituzione italiana del 1948». E questo per almeno tre buone ragioni. In primo luogo, perché il suffragio universale unito all’eleggibilità delle donne in seno all’Assemblea costituente diede vita ad un potere costituente interamente nuovo rispetto al preesistente ordinamento monarchico-statutario in quanto ha posto l’uguaglianza tra uomini e donne direttamente alle radici dei processi decisionali che hanno portato alla formulazione e alla promulgazione della Costituzione repubblicana. In secondo luogo, perché queste stesse radici hanno di fatto plasmato l’impianto delle norme costituzionali volte sia alla non discriminazione fra i sessi sia al riconoscimento della differenza di genere. Da questo punto di vista la Costituzione repubblicana era e resta tuttora fortemente innovativa, soprattutto quando introduce la differenza di sesso direttamente tra i «principi fondamentali» all’articolo 3 (in cui si vieta ogni discriminazione fondata sul sesso) e quando conferisce un fondamento giuridico di valore costituzionale alla differenza di genere, riconoscendo in numerosi articoli una posizione differente degli uomini e delle donne (in forma esplicita, negli art. 36, 37, 31, e, in forma più indiretta, negli articoli 29, 48 e 51). Infine, perché l’ingresso delle donne nei luoghi della rappresentanza politica se da un lato ha posto i principi di una democrazia consapevolmente declinata rispetto al genere, capace,
cioè, di riconoscere le differenze tra i sessi e di assumerle in modo non discriminatorio — dall’altro lato ha reso possibile misurare il cammino compiuto in tal senso nell’arco dei sessant’anni di vita della Costituzione. Un cammino che consente, per converso, di valutare quanta strada resta ancora da percorrere per dare compiuta attuazione a quei principi mediante le leggi ordinarie nelle quali siano definite le posizioni relative degli uomini e delle donne nei vari ambiti della vita sociale – dalla famiglia, al lavoro, alla sfera politica. Dall’avvio del processo costituente, non si può fare a meno di osservare quanto l’attuazione di questi principi fondamentali sia stata faticosa e lenta, e lungi dal potersi dire pienamente realizzata. La distanza tra le norme costituzionali e la legislazione ordinaria rivela, inoltre, il potenziale di trasformazione sociale
Giulio Aristide Sartorio; particolare dell’affresco “la Gioavane Italia e le doti spirituali” 1913 Aula di Montecitorio
che resta ancora incorporato nella Costituzione. Soprattutto da un’idea di quali e quante opportunità questa può ancora offrire per orientare al meglio i mutamenti che riguardano la posizione degli uomini e delle donne nella società del nostro tempo: dalle libertà personali alle relazioni sociali tra i sessi, dalla bioetica al pieno sviluppo di quella democrazia duale, formata da uomini e da donne, alla quale seppero guardare con lungimiranza «i padri» e «le madri» della nostra Costituzione repubblicana.
P.F.
65
M
i chiamerò
GeorgeSand Nei primi mesi del 1832 un editore parigino contattò Madame Dupin: intendeva pubblicare al più presto un nuovo romanzo di Jules Sand. Con questo pseudonimo erano già apparsi l’anno prima due romanzi che avevano riscosso un certo successo. Il nome di Jules Sand aveva così incominciato a circolare tra il pubblico dei lettori e l’editore intendeva trarre profitto da questa circostanza, ben sapendo che per promuovere le vendite di un libro, il nome dell’autore è tutto. La richiesta inaspettata giungeva tanto più gradita in quanto Madame Dupin aveva già pronto il manoscritto di un suo romanzo e aspettava l’occasione propizia per pubblicarlo. Questa sembrava finalmente giunta. Bisognava, però, rispettare la clausola del nome dell’autore, che agli occhi dell’editore rivestiva un interesse commerciale nient’affatto trascurabile. Qui sorgeva una difficoltà, perché Madame Dupin non era l’unica titolare di quel nom de plume. Jules Sand
66
era, infatti, il nome d’arte che lei e il suo giovane amante, Jules Sandeau, avevano scelto di comune accordo per firmare i due ultimi romanzi che erano nati dalla loro collaborazione letteraria. Interpellato al riguardo, Sandeau si rifiutò di firmare un’opera alla cui redazione non aveva minimamente partecipato. Non è ben chiaro se oltre le invocate ragioni d’onore vi fosse qualche altro recondito motivo di disappunto derivante dal fatto che anche Sandeau mirava a farsi un nome in campo letterario; ma sta di fatto che il suo rifiuto impediva il buon fine del contratto. La piega che veniva ad assumere la questione non andava del tutto a genio a Madame Dupin. Era venuta a Parigi per rifarsi una vita, lasciandosi alle spalle un matrimonio fallito. Non potendo divorziare perché il divorzio era stato abolito dal codice civile di Napoleone, aveva però ottenuto dal marito, Casimiro Dudevant, il consenso per quella che allora si chiamava la «separazione dei corpi». L’intesa oltre l’affidamento
Jules Sandeau
dei loro due piccoli figli, Maurizio e Solange, regolava anche i loro rapporti economici. Convinta che nessuno dovesse subire danno dalle sue scelte di vita, aveva lasciato al marito l’amministrazione delle terre e di tutte le altre proprietà immobiliari che aveva ereditato dalla nonna paterna. Per lei si era riservata una rendita assai modesta insieme al diritto di alternare ogni tre mesi la sua residenza tra Parigi e il “castello”Nohant, residenza della sua famiglia. Finalmente libera dai suoi impegni coniugali, non voleva più sottomettere la propria vita dal volere di nessun altro, anche se si trattasse, come in questo caso, del suo amante. La sua vera passione, la più grande fra tutte, era scrivere ed era fermamente decisa a seguire questa sua vocazione. Perdere quel contratto era assai più costoso della perdita dei proventi monetari che da esso potevano derivare: significava rinunciare alla propria autonomia di scrittrice. Prima o poi la sua vocazione l’avrebbe spinta a scrivere un altro romanzo, ma con che nome l’avrebbe pubblicato? Più ci pensava e più le doveva apparire chiaro che continuare a scrivere in collaborazione col suo amante non era un investimento utile a quel “mestiere di scrittore” che desiderava intraprendere. Si rivolse perciò per un consiglio al suo conterraneo Henri de Latuoche che a quel tempo dirigeva Le Figaro. Era stato lui che incontrandola a Parigi le aveva spalancato le porte del giornalismo
impegnandola come notista. Il consiglio di Latuoche fu all’altezza della fama di uomo navigato nel mondo degli affari editoriali. Il contratto non doveva essere perso: Madame Dupin avrebbe conservato il cognome Sand, ma avrebbe cambiato il nome. Rincuorata da un giudizio che sembrava salomonico, scelse il nome di George perché, come scriverà in seguito nelle sue memorie, il suono le ricordava la regione del Berry, dove aveva trascorso gran parte delle sua vita. L’editore accettò la soluzione di compromesso. Il romanzo intitolato Indiana poté essere pubblicato il 18 maggio 1832 con la firma “G. Sand”. E’ verosimile pensare che l’abbreviazione del nome dell’autore fosse l’ultimo tocco di un’astuzia editoriale. Il primo dei due romanzi che la coppia Sandeau-Dupin aveva firmato col cognome Sand era apparso anch’esso preceduto dalla sola iniziale del nome. La differenza tra “J.Sand” e “G.Sand” è così lieve da far presumere che sarebbe passata del tutto, o quasi, inosservata alla maggioranza dei lettori. Oltretutto si sa che è più facile ricordare il cognome che non il nome di un autore. Anche se l’equivoco fosse stato intenzionalmente voluto, si trattò di un veniale espediente commerciale, da cui tutti in fondo trassero un vantaggio. Il romanzo ebbe infatti un successo strepitoso. Nonostante l’epidemia di colera che in quei mesi affliggeva Parigi, le vendite non ne soffrirono e l’editore poté ricavare un profitto maggiore di quello preventivato. A loro volta, i lettori sebbene all’oscuro di come si era giunti alla pubblicazione, furono ampiamente ripagati dalla lettura di un romanzo di gran lunga migliore tra quelli apparsi in precedenza sotto il nome di Sand. Appassionati dalle vicissitudini della protagonista, una giovane creola, il cui nome era appunto Indiana, maltrattata dal marito e ingannata dall’amante, ebbero modo di riflettere sulle deplorevoli condizioni della donna nella società dei primi decenni dell’Ottocento, contro le quali il romanzo elevava una vibrante denuncia. Quanto a Madame Dupin, ottenne quanto di meglio può mai sperare un autore al suo esordio. Divenne celebre nello spazio di un mattino. In men che non si dica acquistò fama e notorietà di autentica scrittrice. Come tanti parigini anche lei fu raggiunta, per fortuna in forma lieve, dal colera: una vera inezia di fronte all’accoglienza che il pubblico riservò al suo romanzo, alle recensioni della critica, e soprattutto alle numerose proposte di contratto che le pervennero. La vita di Madame Dupin cambiò d’un colpo: da oscura notista che scriveva per Le Figaro e La Revue de Paris si trovò trasportata nel luminoso mondo delle lettere, in compagnia dei più grandi romanzieri del suo tempo. Il successo fu tale che il suo vero nome, che all’anagrafe era Amandine Lucille Aurore nata Dupin, fu completamente soppiantato dal nuovo nome d’arte. Il primo usciva dalla scena, quando Aurore aveva 28 anni. Era nato George Sand.
67