Le due fughe

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ella calda e declinante estate del ‘43, dopo lo sbarco alleato al Sud e quando la cruenta guerra cominciava a penetrare sempre più consistentemente nelle terre e fra le genti d’Italia, l’Abruzzo fu teatro di eventi che ebbero una importanza decisiva per le sorti del nostro paese, sia da un punto di vista bellico sia da un punto di vista politico e istituzionale. Fra questi, senz’altro i più importanti sono stati le fughe di Mussolini e di Vittorio Emanuele III che segnarono profondamente i destini della Nazione, nonché l’evoluzione della guerra e i futuri assetti dell’Europa. A queste vicende viene dedicato il primo numero della nostra collana Flashback. Ad esse viene dedicato un impegno narrativo che con originalità ripercorre le trame e gli avvenimenti di storie complesse e controverse. Ma il racconto storico dei fatti e degli eventi, definiti secondo una prospettiva spaziotemporale ben precisa, funge anche da cornice alla narrazione dei molteplici aspetti della società abruzzese, colta in tutto il suo caratteristico interagire con il resto della nazione. Ciò vuol essere la più nitida e significativa espressione di come la storia s’intreccia con le storie, di come la cosiddetta “grande” Storia si completi e sia completata dalle numerose,

distinte e, talvolta, divergenti o convergenti storie, in virtù della osmotica relazione fra “historia maior” e “historia minor”. La definizione dello scenario reale e quotidiano della nostra regione, che in quegli anni sembrava assistere in silenzio e passivamente al mutamento politico, sociale e culturale dell’Italia, svela invece quanta vita si celasse in quell’Abruzzo che ha fatto da sfondo alle “due fughe” parallele e quasi contemporanee, quella del re che si imbarca ad Ortona e quella del Duce che vola via dal Gran Sasso. Il racconto storico, condotto da Marco Patricelli, segue il dispiegarsi degli eventi abruzzesi fra il luglio e il settembre 1943, tratteggiando con minuziosa cura i protagonisti e i luoghi e ricostruendo, al tempo stesso, le matrici politiche e istituzionali della guerra in Abruzzo. Le tante storie, intessute all’interno della “grande” trattazione, si propongono di indagare gli sfaccettati aspetti sociali, economici, politici, intellettuali della realtà locale, alla comprensione della quale il lettore viene introdotto mediante contributi scientifici di approfondimento redatti dai più accreditati specialisti. Gaetano Bonetta

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ABRUZZO SETTEMBRE 1943

il Re si imbarca a Ortona il Duce vola dal Gran Sasso

Supplemento a

VARIO 49

di Marco Patricelli

6,00

Fondazione CARIPE


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collana diretta da Gaetano Bonetta*

l secolo XX ha lasciato all’orizzonte della conoscenza e delle idee lo sconvolgente interrogativo della fine della Storia! Ma, la Storia è realmente finita? Secondo Francis Fukuyama, con la caduta del muro di Berlino si è verificata la fine della Storia con la S maiuscola, ovvero il declino definitivo di quella ricostruzione del passato secondo le interpretazioni ideologiche che hanno caratterizzato l’avvento e lo sviluppo della società contemporanea, borghese da un punto di vista culturale e capitalistica e industriale dal punto di vista economico. Fukuyama ha ritenuto che la Storia sia nata e si sia radicata nella società occidentale grazie al trionfo delle nazioni e, quindi, grazie alla affermazione politica e alla celebrazione delle ideologie. Come si fa a non esser d’accordo? Il fatto che muoia la Storia non significa però che il passato scompaia o meglio che la memoria dei tempi trascorsi si dissolva. Infatti, il passato non è fatto soltanto dalla storia con la S maiuscola, la storia storicistica, ovvero la storia secondo le vulgate storicistiche e ideologiche, cioè volte a dimostrare la “bontà” di un certo presente attraverso la legittimazione addotta con certe vicende storiche. La storia è fatta di passato e, quindi, fin quando esisterà il passato, ci sarà sempre quell’attività culturale che, a ragione, rappresenta la vita vissuta. E la vita trascorsa è

coordinamento scientifico Elsa M. Bruni

fatta di mille vite, così come la storia non storicistica, la storia vissuta realmente e concretamente da tutti, risulterà l’insieme universale di tante storie. Non ci sarà più la storia, bensì ci saranno più storie. E sarà sempre necessario e vitale rifare la storia e le storie, perché senza ricostruzione culturale del passato non può esserci vita. In particolare, non si può formare l’identità umana senza la percezione intellettuale e senza la rappresentazione del passato. Privo di identità e manchevole di identità storica, l’uomo non si distinguerebbe dall’animale. Non potendo l’individuo sopravvivere a se stesso e alla società senza identità, dovrà fare costante ricorso alla memoria quale strumento primario della ricerca o della propria costruzione identitaria. La collana flashback vuole essere una elaborazione intellettuale e culturale del passato, un ritorno al vissuto attraverso fasci di luce su un universo finora poco noto. Infine, vuole dare un contributo alla elaborazione della storia e delle storie, che concorrono a definire gli elementi della identità individuale e sociale e che, di conseguenza, costruiscono e rappresentano la “memoria”. Inoltre, codesta memoria esige di essere divulgata perché è fattore strutturale e fondante per ogni ricostruzione del passato individuale e sociale e per la costruzione di ogni individualità soggettiva e di gruppo. Tale memoria deve essere inclusiva,

ovvero deve essere partecipata a ciascun componente della società in quanto bagaglio culturale minimo per la piena realizzazione del diritto di cittadinanza in un consorzio umano che si fonda sulla conoscenza A tal fine, proprio simile elaborazione della memoria può diventare collettiva solo se inserita nei processi di formazione culturale. Compito doveroso e sociologicamente logico è quello di adoperarsi affinché l’organizzazione e la gestione della socializzazione culturale veda i curricula della memoria come il sapere elementare per la definizione della nuova cittadinanza in una società che dalla conflittualità multiculturale vuole pervenire alla convivenza pacifica della interculturalità. Qui, ancora una volta, la scuola deve svolgere un ruolo principale. Deve dismettere la funzione di tempio laico del rito civile della frequenza formale che ha accompagnato i processi di quella socializzazione di massa che ha creato generazioni di giovani senza competenze e professionalità. Erigendosi a luogo primario di formazione culturale, deve adoperarsi per la creazione di una cultura fatta di competenze e di saperi concreti, nonché di tutte le strumentazioni teoriche e tecnologiche per l’affermazione del pensiero critico.

* Professore ordinario di Pedagogia generale e Storia dei processi formativi, Preside della Facoltà di Lettere-Filosofia dell'Università "G. d'Annunzio" e Presidente dell'Istituto Regionale di Ricerca Educativa d'Abruzzo.

Gaetano Bonetta


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LEDUEFUGHE ABRUZZO SETTEMBRE 1943

Il Re si imbarca a Ortona il Duce vola dal Gran Sasso di Marco Patricelli con testi di:

Giorgio Bocca Gaetano Bonetta Marcello Benegiamo Elsa M. Bruni Mario Cimini Umberto Dante Antonella Di Lorito Enzo Fimiani Lia Giancristofaro Luigi Mastrangelo Luigi Ponziani Maria Cristina Ricciardi

una realizzazione

Fondazione CARIPE tutti i diritti sono riservati.

Supplemento a VARIO Direttore responsabile Claudio Carella redazione: Antonella Da Fermo(grafica), Francesco Di Vincenzo, Fabio Di Carlo. ricerca iconografica: Marco Patricelli


Quando nacque l’Italia di Giorgio Bocca

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a Patria morì o nacque l’8 settembre del ‘43? Del dilemma “Patria morta/Patria rinata” si parla da anni senza alcun costrutto. Una cosa è certa: che prima dell’8 settembre in Italia c’era un regime monarchico fascista e dopo una repubblica democratica, ma la continuità della Patria intesa come lingua, costume, tradizioni, caratteri della nostra storia e del sangue era fuori discussione. I sostenitori della Patria morta in quell’8 settembre sembrano ignorare che il fascismo era stato una brevissima parentesi, non più di quindici anni di regime effettivo, e che i mutamenti in essi avvenuti assai più che al sistema politico si collegavano alla rivoluzione industriale, in corso nel mondo intero. Il fascismo era il complemento, l’accompagnamento retorico di una trasformazione che vedeva l’inizio della fuga dalle campagne alle città, della motorizzazione, dell’affermarsi dei grandi media, del cinematografo e della radio, del tempo libero, della scoperta delle vacanze di massa. L’Italia che apparve a noi partigiani dopo i venti mesi della resistenza era profondamente cambiata politicamente ma identica nella cultura, nelle virtù e nei difetti: una Patria che si ricomponeva e che superava in tempo brevissimo le divisioni della guerra civile. Quando sento ancora parlare di pacificazione mancata a più di un secolo di distanza mi stupisco di questo equivoco che continua. La pacificazione reale,il diritto riconosciuto a tutti i cittadini di far parte della Patria italiana e di

viverci fu questione di poche settimane. Rimasero delle divisioni politiche che non impedirono agli sconfitti di godere di tutti i diritti civili, di avere organizzazioni politiche, giornali, associazioni, di entrare in Parlamento. Nella provincia italiana in quei 15 anni il fascismo era entrato come travestimento degli usi e costumi precedenti, la continuità della Patria stava nella continuità del melodramma, della canzone popolare, nelle maschere, della cucina, tutte ricomparse nelle antiche forme a pochi giorni dalle lacerazioni della insurrezione. Ricordo che una sera di quel maggio incontrai sul treno da Cuneo a Torino un impiegato delle poste che era diventato il capo delle brigate nere e mi venne naturale fare finta di non vederlo, lasciare che scendesse alla prima stazione. Era tornato quello che abitava nella mia strada, un tifoso come me alle partite di calcio. La Patria non è morta e non è nata l’8 settembre del ‘43, è solo diventata più civile, più libera e anche più eguale, con minori differenze di classe, con maggiore omogeneità fra i cittadini. Quella del 25 aprile ‘45 fu veramente una liberazione, per tutti. Per gentile concessione del “Venerdì di Repubblica”


LE DUE FUGHE di Marco Patricelli

La caduta del Duce

La convocazione del Gran Consiglio del fascismo a Palazzo Venezia è decisa il 20 luglio da Mussolini, aderendo alla richiesta di Farinacci che gliel'ha inoltrata il 16. Gli Alleati sono sbarcati in Sicilia e i componenti dell'organo consultivo del regime intendono analizzare la situazione. Mussolini, nonostante tutto, si ritiene ancora sufficientemente forte da non temere iniziative di dissenso, più o meno mascherato. Il 21 luglio il segretario del PNF Carlo Scorza invia ai membri una lettera "riservata personale" in cui li si informa che «Il Duce ha convocato il Gran Consiglio per il 24 (sabato) alle ore 17». E' richiesta la «Divisa Fascista (Sahariana nera, pantaloni corti grigioverdi)». L'ordine del giorno Grandi era già a conoscenza di 6

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no sguardo appena, la mente assorta in pensieri che lo portano altrove. Era stato il Duce dell’Italia per più di venti anni, osannato dalle folle che sapeva soggiogare con la sua retorica e la sua demagogia, adesso è qualcosa di più di un ostaggio e qualcosa di meno di un prigioniero. Benito Mussolini si trova in un posto che non ha mai visto ma che il suo regime ha esaltato come una delle località sciistiche più importanti d’Europa, in una provincia, L’Aquila, che ha il nome di uno dei simboli del regime. Visto così, dalla base della funivia di Assergi, il

Mussolini, poiché gli era stato letto da Scorza, che ne possedeva ovviamente una copia, il 21. Prima della seduta Grandi mette in tasca due piccole bombe a mano ed entra per qualche minuto nella chiesa di piazza Colonna. Durante la riunione De Bono e Grandi siedono alla destra del Duce, mentre alla sua sinistra ci sono Scorza e Suardo. All'alba di domenica 25 il Gran Consiglio è chiamato a votare l'ordine del giorno Grandi che invita il Governo «a pregare la Maestà del Re (...) affinché Egli voglia per l'onore e per la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle Forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono». A favore votano in 19: Acerbo, Albini, Alfieri, Balella, Bastianini, Bignardi, Bottai, Cianetti, Ciano, De Bono, De Marsico, De Stefani, De Vecchi, Federzoni, Gottardi, Grandi, Marinelli, Pareschi, Rossoni; contro si pronunciano Biggini, Buffarini, Guidi, Frattari, Galbiati, Polverelli, Tringali. Scorza aveva presentato un suo ordine del giorno e si oppone al dettato di quello di Grandi. L'unico astenuto è Suardo. Farinacci vota il proprio ordine del giorno. Mussolini, a chiusura del Gran Consiglio, dice:«Voi avete provocato la crisi del regime». L'atto formale di destituzione di Mussolini alla guida dell'Italia è consegnato a Montecitorio al ministro della Real Casa, Pietro Acquarone. Nelle mani del re è esplicitamente rimesso il potere di trattare l'armistizio.

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Gran Sasso d’Italia svetta davvero in tutta la sua maestosità, e la sua cima si confonde col cielo e con le nuvole che si lasciano lacerare dalla pietra sotto la spinta del vento. Ma Mussolini ha poco di cui bearsi, in quel sabato 28 agosto 1943. Tutt’attorno a lui ci sono uomini in uniforme grigioverde che sono la sua compagnia da oltre un mese. Da quando, cioè, Vittorio Emanuele III l’ha fatto arrestare all’uscita di Villa Savoia, all’indomani del voto del Gran Consiglio che aderendo a larghissima maggioranza all’ordine del giorno proposto da Dino Grandi l’ha fatto decadere da capo del Governo e da Duce dell’Italia fascista. Poi è stato tutto un turbinio di avvenimenti. Adesso i suoi custodi, che rispondono agli ordini del suo successore Maresciallo Pietro Badoglio, l’hanno portato ad Assergi, dopo i soggiorni a Ponza e alla Maddalena, in tutta fretta. Tanta fretta che hanno requisito la villa della contessa Rosa Mascitelli ma non hanno la chiave per aprire la porta. Forse un sorriso malcelato attraversa il volto di Mussolini, che si era vantato di aver retto le redini di un Paese dove i treni arrivavano in orario e l’efficienza era lo specchio di una dottrina politica instillata col manganello prima e con la dittatura poi. Ma era un brutto momento per tutti, non solo per lui, prigioniero di lusso del nuovo Governo che gli ha negato il solo desiderio che aveva in quei convulsi frangenti di repentina decadenza: ritirarsi alla Rocca delle Caminate, nella sua Romagna, e farsi dimenticare. Badoglio e la Storia avevano deciso altrimenti. Quando i soldati riescono ad aprire la porta della villetta di Assergi Mussolini si appresta a inanellare altri giorni, gli uni uguali agli altri, in attesa di quel che dovrà necessariamente accadere e che nessuno ancora sa. La sua parabola terrena lo porta verso un destino amaro: resta da vedere se il suo epilogo lo scriveranno gli Alleati o i tedeschi. Che gli diano la caccia, questo è certo. Perché altrimenti Badoglio gli avrebbe cambiato tre volte il nascondiglio? MANIFESTAZIONE POPOLARE PER IL CROLLO DEL REGIME FASCISTA.

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a guerra è andata male, malissimo. Una guerra voluta dal fascismo e avallata dalla monarchia che di fronte al disastro ha brigato per salvare se stessa e l’Italia. Il richiamo alle prerogative sovrane fatto da Dino Grandi nel suo ordine del giorno equivaleva a rimettere nelle mani di Vittorio Emanuele la facoltà di trovare subito la via per la pace. Il Governo si era impegnato «a pregare la Maestà del Re (...) affinché Egli voglia per l'onore e per la salvezza della Patria assumere con l'effettivo comando delle forze armate di terra, di mare e dell'aria, secondo l'articolo 5 dello Statuto del Regno, quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono». Se il re dichiarava la guerra, era anche colui che aveva il potere di far-

25 Luglio, l’ordine del giorno di Dino Grandi

quest’ora grave e decisiva per i destini della nazione; dichiara che a tale scopo è necessario l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali; invita il Capo del governo a pregare la Maestà del Re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinché egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere – con l’effettivo comando delle Forze armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del Regno – quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che «Il Gran Consiglio, riunendosi in questi giorni di sono sempre state, in tutta la storia nazionale, il supremo cimento, volge innanzitutto il suo retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di pensiero agli eroici combattenti d’ogni arma, che Savoia». fianco a fianco con la fiera gente di Sicilia, in Così Ennio Flaiano cui più alta risplende l’univoca fede del popolo vedeva Dino Grandi italiano, rinnovano le nobili tradizioni di estremo «Il fascismo aveva tra gli altri suoi difetti quello valore e l’indomito spirito di sacrificio delle nostre di far apparire intelligenti quei pochi gerarchi che gloriose Forze armate; esaminata la situazione si rifiutavano di saltare nel cerchio infuocato o di interna e internazionale e la condotta politica e partecipare alle marce di Storace, alle gare di militare della guerra, proclama il dovere sacro per nuoto, o affettavano di bere il caffè in pubblico o tutti gli italiani di difendere ad ogni costo l’unità, di dare del lei. Si diceva che costoro fossero geni. l’indipendenza e la libertà della Patria, i frutti E a questa razza di geni appartiene Dino dei sacrifici e degli sforzi di quattro generazioni Grandi che aveva il vantaggio di una barba dal Risorgimento ad oggi, la vita e l’avvenire del perlomeno autorevole» popolo italiano; afferma la necessità dell’unione morale e materiale di tutti gli italiani in 8

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la terminare. Grandi, mettendo fuori gioco il principale responsabile del dramma italiano, forse sperava di poter far sopravvivere il fascismo, che invece si era liquefatto in mille rivoli sterili di fronte all’onda di piena delle manifestazioni di giubilo che avevano turbato non poco Hitler e il suo entourage. Lo sganciamento dell’Italia dal conflitto era solo questione di tempo, ma la partita si giocava sul filo dei nervi e dell’inganno: tra alleati e nuovi alleati, tra nemici ed ex amici.

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tedeschi avevano incassato male il colpo della destituzione di Mussolini, e nonostante gli sforzi per mantenere rapporti di circostanza fintamente cordiali, si erano subito messi a studiare le contromosse: occupazione, rappresaglia, ripristino dello status quo. Piani elaborati in quattro e quattr’otto dal quartier generale per invadere l’Italia e sbarrare la via della Germania, l’arresto dei “traditori”, la liberazione di Mussolini, una volta individuato dove i badogliani lo tenevano al sicuro. Un’operazione segretissima in tre fasi che faceva il paio con quella varata dai Savoia per arrivare a un armistizio con gli Alleati. L’Italia aveva fatto la sua parte e non aveva né la forza militare né la tronfia sicurezza del regime per affrontare una guerra che non era sentita dalla popolazione e che aveva mostrato il suo lato più tragico e sanguinoso anche sul territorio nazionale. Bisognava chiudere quella partita col passato, bene e in fretta, e se possibile scaricarne integralmente le responsabilità sul fascismo e sul suo capo. Difficile poter credere che nonostante le simpatie del premier britannico Winston Churchill per la monarchia e i suoi disegni di equilibrio nel Mediterraneo, si potesse far finta che in quei venti anni non fosse successo nulla e bastasse tendere la mano a inglesi e americani per fare la pace e azzerare l’orologio della storia. In quel mese in cui era stato sballottato tra il Mar Tirreno e l’Appennino abruzzese, Mussolini aveva ripensato al film della sua vita e a quello della nazione che voleva forgiare con l’acciaio e che si era rivelata di stagnola; ma anche lui si credeva l’incarnazione di Cesare, e invece già Charlie Chaplin col “Grande dittatore” ne aveva mes-

GLI ITALIANI APPRENDONO DAI GIORNALI SOTTOPOSTI A CENSURA I PARTICOLARI SUL RICAMBIO

AL VERTICE DEL GOVERNO.

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Nella Tana del lupo

so alla berlina la vuota maestosità di cartapesta. Nel silenzio del Gran Sasso non arrivava neppure l’eco della guerra e tanto i disastri militari quanto i bombardamenti sembravano appartenere a un’altra dimensione. Stava per finire tutto, tutti ne erano sicuri. Già, ma quando? Il I settembre un uomo in borghese che gli Alleati conoscono come generale Giuseppe Castellano viene inviato da Badoglio in Sicilia. E’ stato quest’ufficiale, legato al Capo di stato maggiore generale Vittorio Ambrosio, a sondare il terreno per arrivare all’armistizio, attraverso trattative segrete a Lisbona; tocca di nuovo a lui chiudere la partita e voltare la pagina del libro che il fascismo aveva scritto col sangue dei caduti al fronte e delle vittime civili dei bombardamenti per una guerra non sentita. Castellano è nell’isola ormai controllata dagli angloamericani, che vi erano sbarcati il 10 luglio dopo aver conquistato Pantelleria utilizzata come testa di ponte per la più gran-

dove sia il Duce. Non appena lo saprò lo farò liberare dai paracadutisti». Tra i generali responsabili delle operazioni militari sono presenti il Reichsführer SS Himmler, il Reichsmarschall della Luftwaffe Göring e il Feldmaresciallo Rommel, richiamato da Atene per assumere il comando del Gruppo di armate B, il cui Quartier generale è a Monaco di Baviera. La soluzione della questione italiana si dipana in quattro piani militari già ipotizzati: “Alarich” (invasione), “Schwarz” (schieramento strategico dell’esercito tedesco nella Penisola; cattura dei membri di Casa Savoia, del Governo e di papa Pio XII), “Achse” (cattura o distruzione della flotta italiana; disarmo del Regio esercito) ed “Eiche” Il 26 luglio a Rastenburg, nella Prussia orientale, (liberazione di Mussolini). L’autorizzazione a Hitler e l’Oberkommando der Wehrmacht sono rendere operativo “Alarich” è data da Jodl alle 23 chiamati ad (l’ordine ufficiale è alle 13.30 dell’indomani, e affrontare la situazione italiana. Appena giunta l’esecutività piena è prevista per il 30). Quanto alla Wolfsschanze la notizia della destituzione di all’“Operazione Quercia” Hitler pretende venga Mussolini, Hitler impone subito il suo punto di compiuta «il prima possibile». La fase spionistica vista: «Il Duce è stato arrestato ieri. (...) E’ è da lui affidata al capitano SS Otto Skorzeny, la assolutamente imperativo agire. (...) Si può dire pianificazione dell’azione militare al generale Kurt che in Italia c’è sempre stata aria di tradimento. Student. (...) Questa volta sono determinato a colpire. (...) La resistenza degli italiani sarà nulla (...). Non so 10

de operazione di sbarco mai effettuata fin’allora. Mussolini, che si era vantato di fermare l’invasione sul “bagnasciuga” (con una topica che confondeva la battigia con la parte dello scafo che viene sommersa o emerge dal pelo dell’acqua), aveva dovuto incassare anche il colpo basso in quel che Churchill definiva «il ventre molle d’Europa» e che tale si era rivelato. Giovedì 2 settembre i militari italiani gli dicono di raccattare le sue cose perché c’è un altro trasferimento, ma si tratta di uno spostamento breve, e con un mezzo inusuale: lo porteranno da Assergi, alla base della funivia, a Campo Imperatore, lì dove la stessa funivia serve la stazione sciistica più meridionale d’Europa. Il regime vi ha fatto costruire un albergo a forma di “D”, che nei faraonici piani doveva essere il primo di tre a forma di “V” e di “X”, per far scorgere dagli aerei una maestosa scritta “DVX” sul cuore dell’Appennino. Quell’albergo era rimasto unico, ma aveva una certa nomea, sia per il luogo, sia per ciò che rappresentava. Badoglio aveva visto semplicemente una sorta di prigione irraggiungibile a quota 2.200 metri, dove tenere Mussolini al riparo dalle mire tedesche e da quelle alleate, in attesa di definire le clausole dell’armistizio e sapere cosa fare del prigioniero più illustre che in quel momento ci sia nel Vecchio continente. I tedeschi sono sulle sue tracce, e questo non è un segreto per nessuno. Il giorno dopo il trasferimento di Mussolini sul Gran Sasso si è sfiorata la guerra aperta tra Italia e Germania, formalmente e sostanzialmente alleate, a causa di un tentativo di sbarco alla Maddalena per liberare il Duce, annullato in extremis proprio dall’uomo cui Hitler in persona ha dato l’incarico di trovargli l’amico dittatore: il capitano SS Otto Skorzeny. Quest’ingegnere austriaco fanatico nazista, di grossa mole, sprezzo del pericolo, grande senso di opportunismo e ambizione, una morale a dir poco ambigua, è da poco nelle grazie del Führer, e intende rimanerci il più possibile. E’ stato mandato in Italia per ricostruire le fasi dell’arresto e trovare dove Badoglio tenga nascosto Mussolini. Deve collaborare col potente capo della polizia politica a Roma, il tenente colonnello SS Herbert Kappler,

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L’Abruzzo del 1943

La fine dell’età dell’innocenza

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giovani che vivono in Abruzzo nel ’43 sono nati dopo la marcia su Roma, hanno superato la pubertà poco prima della proclamazione dell’impero, avvenuta durante giornate di un’esultanza di certo non dimenticata, tanto è stata totale e chiassosa. Ogni sabato indossano quella divisa nera che, in genere, costituisce l’abbigliamento più elegante di un guardaroba formato da abiti passati di padre in figlio e di fratello in fratello. Le famiglie più ricche si tramandano un cappotto, quelle medie una mantella, quelle povere delle giacchette che vengono indossate con una sciarpa. L’immortalità di questi capi deriva dalle magie delle madrimassaie, che sanno essere tutto: contabili, vivandiere, cuoche, stiratrici, sarte, calzolaie. Già: calzolaie. Perché anche le scarpe non muoiono mai. In media sono due paia: invernali di cuoio; estive di pezza. Chi si può permettere qualcosa di più si gode dei sandali oppure della scarpe da “ passeggio”, quel passeggio che rappresenta la parte cruciale della giornata, dell’esistenza. Le classi scolastiche sono divise per sesso e i contatti con le coetanee si limitano alle occhiate, a qualche frase bloccata dalla freddezza del “ lei”. I balli , quando ci sono, non concedono intimità: avvengono sotto

sorveglianza. Per frequentare il “casino” i nostri ragazzi scarseggiano dei due requisiti indispensabili: denaro ed età. Si sfogano allora con lo sport, praticato furiosamente secondo le prescrizioni del regime. Praticato ma anche seguito. Siamo alla prima generazione cresciuta dentro lo stadio, gridando ogni domenica il proprio attaccamento al campanile, e attorno alla radio, a festeggiare i successi di una nazionale di calcio capace di vincere due campionati del mondo e un’olimpiade. Tre conferme inequivocabili dell’invincibilità dell’Italia fascista, in sintonia con gli insegnamenti di una scuola e di mezzi di comunicazione perfettamente unilaterali. Sono dei giovani particolarmente allegri, forse nutriti con troppo pane e poca carne, ma privi di dubbi e alternative, convinti di un patriottismo mistico, ereditato dai culti risorgimentali, dai morti della prima guerra mondiale (circa uno per famiglia), dal martellamento delle istituzioni. Infine all’inizio c’è sempre lui, Mussolini, il grande padre che a tutti pensa e provvede. Proprio la fiducia totale nel padre era fondamentale nel determinare quel clima psicologico, quella spensieratezza. A L’Aquila esistono ancora oggi i libri e i quaderni di Giorgio Scimia, considerato universalmente il più bello tra i ragazzi aquilani del ’43. Ha i capelli lisci di brillantina e tirati dietro con la retina come gli attori di quegli anni e come tutti i suoi coetanei. Le fotografie ce lo ritraggono negli svaghi e tra gli amici: il bagno in mutande nel fiume , il vagabondaggio per un luna park spopolato, un sorriso accanto alla ragazzona procace del tiro a segno, una bicicletta sola per tre. Studente mediocre, orfano di padre, Scimia dimostra fino a quasi metà del 1943 grande attaccamento al fascismo, a Mussolini. In un tema scritto nel maggio esalta le mani d’acciaio che reggono saldamente il Paese. Delle frasi più enfatiche è talmente soddisfatto da trascriverle sul

retrocopertina del quaderno. Tra gli episodi della vita di Mussolini lo colpisce il Duce ragazzo che si rivolge ai genitori asserendo: «Un giorno l’Italia intera avrà timore di me!». Il padre fascista piace, dunque, con le mani d’acciaio e terribile. Dopo il 25 luglio la metamorfosi: il giovane aquilano tempesta ossessivamente un intero libro di storia con una frase di Badoglio che inneggia alla caduta del tiranno. E accanto alla più celebre e tipica parola d’ordine del fascismo, «vinceremo», troviamo scritto «Vinceremolo». Questi sono i ragazzi abruzzesi del ’43. La svolta della loro vita non è la guerra che va male, la dieta che si fa più dura con il razionamento, le notizie dei bombardamenti e dello sbarco in Sicilia. L’estate del ’43 significa per i giovani l’ingresso in una nuova età, determinata dalla caduta del padre, dalla fine delle certezze di un’intera esistenza, dal frantumarsi di un universo chiuso e sereno. Da questo momento i ragazzi italiani scoprono il dedalo delle scelte. Scimia, ad esempio, dopo l’arrivo dei tedeschi, va in montagna insieme a una cinquantina di suoi coetanei, come lui armati di fucile. La madre lo ha rifornito di tutto quello che serve: scatolame, liquore, maglie di lana, salumi. Non è una donna ricca, evidentemente la situazione alimentare in città consente ancora di accumulare qualche provvista per un ragazzo che parte. I tedeschi durante un rastrellamento cattureranno dieci ragazzi aquilani, armati , e li riconducono all’Aquila per fucilarli. Tra i prigionieri c’è Giorgio che rivede la madre in città, da dietro la barriera formata dai sorveglianti. Nonostante questo impedimento la donna riesce ad abbracciare il figlio. Nel farlo gli porge due uova fresche. Il ragazzo divide il dono con un altro prigioniero. I due ragazzi rompono le uova e le bevono. E’ l’ultimo ricordo, l’ultima volta che madre e figlio si ritrovano insieme. Umberto Dante

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LE DUE FUGHE

e col generale dei paracadutisti Kurt Student, che ha l’incarico di approntare il piano militare per liberare il Duce, ma Skorzeny è uno di quelli che ama fare di testa sua, e di servire contemporaneamente anche due padroni, purché militino dalla stessa parte: la sua. Il suo referente è infatti il connazionale e capo del Sicherheitsdienst, Ernst Kaltenbrunner. Si muove autonomamente, briga e disfa, ma qualche risultato lo ottiene. I tedeschi scoprono che Mussolini è stato tenuto nell’isola di Ponza, ma quando è troppo tardi per fare qualcosa; arrivano alla Maddalena quando sarebbe meglio che non facessero nulla, perché la loro preda è già stata trasferita. Quel che nessuno, da Hitler in giù, vuol considerare, è che la destituzione del capo del Governo è stato un atto pienamente legittimo da

Dalla Maddalena a Campo Imperatore

pattugliata da i carabinieri. Superate Rieti, Cittaducale, Canistro, Antrodoco, abbiamo lasciato la Salaria per la strada numero diciassette dell’Appennino abruzzese e siamo saliti verso Sella di Corno. Dopo la discesa di Sella di Corno, ormai nell’Abruzzo aquilano, ci siamo fermati causa un allarme aereo. Siamo scesi dalla vettura e abbiamo scorto, altissimi nel cielo, un gruppo di apparecchi nemici. Volavano compatti verso il nord. Sul luogo la confusione era al colmo: civili e militari fuggivano non si sa dove. Alcuni imprecando. Così Mussolini, nel “Pensieri del Gran Sasso Con i miei occhi ho visto un soldato abbandonare d’Italia”, racconta il suo trasferimento dall’isola il fucile; con le mie orecchie ho udito un altro della Maddalena a Campo Imperatore. gridare parole offensive ad un sottotenente prima «Ho lasciato villa Weber alla Maddalena poco di darsela a gambe. La nostra presenza è stata dopo le quattro del mattino in automobile. Mi appena notata: comunque non sono stato accompagnavano il tenente Faiola, il maresciallo riconosciuto. Ciò è invece avvenuto a Bazzano, Antichi e un carabiniere. (…) qualche chilometro dopo L’Aquila, che abbiamo Ero fiducioso che saremmo finalmente andati alla appena rasentato, dove l’autoambulanza si è Rocca delle Caminate, e in tal senso mi sono fermata di nuovo, questa volta a causa di espresso con il tenente colonnello. Ma l’ufficiale un’avaria al motore. (…) Riparato il guasto in ha scosso la testa in senso di diniego. Gli ho una decina di minuti, abbiamo continuato sino chiesto allora quale fosse la diversa meta. Mi ha alla vicina frazione di Paganica, ove abbiamo risposto che non era autorizzato a rivelarmela. imboccato la strada numero diciassette bis della Per la Cassia, a velocità sostenuta e preceduta Funivia e del Gran Sasso. Salendo e dalla 1100, che fungeva da battistrada, attraversando i paesi di Camarda e Assergi, l’autoambulanza è arrivata alle porte di Roma. siamo arrivati alla Villetta del Gran Sasso alle Ha imboccato quindi la via Salaria, diretta verso tredici e trenta». la Sabina. Il traffico era scarso, ma la strada era 12

parte di uno Stato sovrano, ma il tentativo di liberarlo manu militari in un disegno più o meno fattibile di restaurazione, è un atto di guerra, per tale previsto dal diritto internazionale con tutte le sue implicazioni. Alla Maddalena solo per un caso fortuito Badoglio non si è visto scodellare l’occasione di denunciare l’alleanza col Reich e scrollarsi di dosso la sempre più ingombrante presenza tedesca. Ma gli assaltatori guidati da Skorzeny sono stati fermati appena in tempo dalla constatazione che il loro obiettivo era altrove, e non si sapeva proprio dove. Nel gioco degli inganni i servizi segreti italiani sono riusciti comunque a tenere in mano il pallino, e si sono permessi il lusso di dare qualche scacco ai colleghi tedeschi: non tanto a quelli dell’Abwehr (l’ammiraglio Wilhelm Canaris non sembra dispiacersi più di tanto della piega presa dagli avvenimenti e sembra far di tutto per coprire le mosse del suo omologo italiano, il capo del SIM, Servizio informazioni militari, Cesare Amè, auspicando magari un 25 luglio anche in Germania) quanto a quelli del SD, assai più pericolosi e risoluti. La proverbiale efficienza germanica, in questo caso, aveva fatto acqua, perché gli agenti non erano mai riusciti a ricostruire un quadro chiaro dai piccoli e rari indizi che filtravano sulle mosse italiane.

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ussolini viene portato nella stanza 201 che diventa il suo alloggio: un corridoio appena abbozzato, un bagnetto, una camera da letto senza troppe pretese. Lui, in fondo, non ne ha: nonostante il potere l’abbia ubriacato, si è fermato alle esteriorità più che alla sostanza; in privato, se si esclude il suo debole per le donne, ha sempre condotto una vita parca. Per alcuni versi il piccolo re sabaudo gli somiglia: anche Vittorio Emanuele conduce vita spartana, solo che ha sostituito lo sbrigativo furore erotico ducesco per l’universo femminile con la passione maniacale per la numismatica. Di donne gli basta la moglie Elena, che ha cocciutamente scelto nello sperduto principato da operetta del Montenegro per seguire il trasporto personale a scapito della ragion di Stato. Si fa anche cucinare da lei; predilige piat-

flashback

L’Abruzzo del 1943

Sul Gran Sasso con gli sci

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a realizzazione della funivia del Gran Sasso, lunga 3240 metri di dislivello di circa mille, e dell'albergo di Campo Imperatore, completata nel periodo tra il 1932 e il 1935, fu una delle tantissime grandi opere del fascismo che, come è noto, ebbe tra i cardini del proprio potere il binomio architetturasport. Essa rientrò a pieno titolo tra le

costruzioni monumentali realizzate dal regime, che intese, con successo, dare vita alla stazione sciistica più importante e più meridionale d’Europa e che, dunque, venne segnalata sia per l’avanguardia delle soluzioni sia tecnologiche adottate, per la sua rilevanza sociale, che apriva nuovi scenari a un movimento, quello

sciistico italiano, che nel 1938 poteva attestarsi ai primi posti d’Europa, con oltre 300.000 praticanti. Eppure l’Abruzzo in un primo tempo occupava una posizione di retrovia nelle predilezioni mussoliniane. Le escursioni montane del Duce, personali (spesso per incontrare l’amante Claretta Petacci) e familiari, avevano come meta privilegiata il Terminillo, definito “ la montagna di Roma”. Qui, nel 1930, durante una gara, Mussolini si era fatto fotografare in una posa, divenuta poi celebre, quella a torso nudo sulla neve. L’Abruzzo montano, però, anno dopo anno acquisì considerazione sempre crescente per la maggiore asprezza delle sue alture, che anche concettualmente meglio sintetizzavano gli obiettivi “di elevazione” propri del fascismo. Allo scopo di incentivarne la pratica, nel 1929 l’Opera nazionale dopolavoro aveva istituito il “brevetto di sciatore dopolavorista” per uomini e donne. Per ottenerlo, era necessario superare tre prove: una marcia di cinque chilometri da percorrere in un tempo massimo di un’ora (due chilometri in un’ora e mezza per le donne), una discesa di cinquecento metri senza cadute, un salto di 8 metri da quello che era definito un trampolino ma che in realtà era semplicemente una gobba di neve. Trattandosi di esercizi relativamente agevoli, nel 1935 venne istituito un secondo grado che, con terminologia di stampo militare tanto cara al regime, venne detto “sciatore scelto”. L’anno precedente le selezioni erano state svolte con grande successo proprio in Abruzzo, a Roccaraso, tradizionale meta dei “treni della neve” che ogni domenica portavano nelle stazioni sciistiche migliaia di “dopolavoristi”. Luigi Mastrangelo

IL MANIFESTO CHE PUBBLICIZZA LA STAZIONE SCIISTICA DI CAMPO IMPERATORE.

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LE DUE FUGHE

PIETRO BADOGLIO

ti semplici, come un qualunque borghese. Ma a lui va bene così: più è lontano dal mondo reale meglio sta. D’altronde, salito al trono controvoglia sulla scia dell’assassinio del padre Umberto I, non ha di fatto abdicato nelle mani di Mussolini consegnandogli il potere e il modo di esercitarlo? Questa storia, cominciata nel 1922, ha gettato l’Italia nel disastro. Il fascismo guida le sorti del Paese con un atto illegittimo, come la marcia su Roma del 28 ottobre, ma grazie a un successivo incarico formale e pienamente legittimo; è caduto nella polvere con un atto legittimo di destituzione, per la pronuncia del Gran Consiglio, ed è stato risucchiato apparentemente nel nulla con un atto di forza, quale è stato l’arresto a Villa Savoia. Pochi istanti prima di farlo prendere in consegna dai carabinieri appostati tutt’attorno e rinchiudere dentro un’autoambulanza, Vittorio Emanuele III aveva rassicurato Mussolini dicendogli che in lui aveva ancora un amico, l’ultimo, che avrebbe protetto l’ex Duce diventato – sono parole del re - «l’uomo più odiato d’Italia». L’intrigo di stampo rinascimentale, come l’ha felicemente definito il colonnello onorario SS Eugen Dollmann, era compiuto: preciso e per-

“Italiani!”. Gli appelli del Re e di Badoglio

L’annuncio alla Nazione di Vittorio Emanuele III «Italiani, Assumo da oggi il comando di tutte le Forze Armate. Nell’ora solenne che incombe sui destini della Patria ognuno riprenda il suo posto di dovere, di fede e di combattimento: nessuna deviazione deve essere tollerata, nessuna recriminazione può essere consentita. Ogni italiano si inchini dinanzi alle gravi ferite che hanno lacerato il sacro suolo della Patria. L’Italia, per il valore delle sue Forze Armate, per la decisa volontà di tutti i suoi cittadini, ritroverà nel rispetto delle istituzioni che ne hanno sempre confortato l’ascesa. Italiani, Sono oggi più che mai indissolubilmente unito a voi dalla incrollabile fede nell’immortalità della Patria». Roma, 25 luglio 1943

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E quello del Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio «Italiani, Per ordine di Sua Maestà il Re e Imperatore assumo il Governo militare del Paese con pieni poteri. La guerra continua. L’Italia, duramente colpita nelle sue provincie invase, nelle sue città distrutte, mantiene fede alla parola data, gelosa custode delle sue millenarie tradizioni. Si serrino le file attorno a Sua Maestà il Re e Imperatore, immagine vivente della Patria, esempio per tutti. La consegna ricevuta è chiara e precisa: sarà scrupolosamente eseguita, e chiunque si illuda di poterne intralciare il normale svolgimento, o tenti turbare l’ordine pubblico, sarà inesorabilmente colpito». Viva l’Italia, Viva il Re.

flashback

fetto nei suoi risultati, sconcertante nella forma. Ma non era l’Italia il Paese di Machiavelli e dei machiavellismi?

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alla finestra della camera 201 dell’albergo di Campo Imperatore si vede appena il verde di un prato che contrasta un cielo pronto a cambiare secondo i capricci del tempo. E’ il nulla, in uno scenario che esalta gli spazi e toglie il senso delle dimensioni. Dovrebbe avere una prospettiva più ampia, l’ex Duce, se potesse leggere i giornali e ascoltare la radio non regolarità; e da statista potrebbe forse persino immaginare che la mossa scontata di Badoglio è l’armistizio, anche se ha proclamato che «la guerra continua» senza che nessuno ci creda. Non c’era voluta l’OVRA per riferirgli che dopo il bombardamento del quartiere San Lorenzo a Roma, la gente invocava il papa Pio XII invocando nel contempo la pace. Gli italiani volevano la pace, e la si doveva chiedere agli angloamericani senza irritare i tedeschi, che di motivi di irritazione ne avevano più d’uno. Alle 17.15 di venerdì 3 settembre Castellano porta a termine la missione affidatagli e a Cassibile, a nome del Governo italiano, in una tenda in mezzo agli olivi mette la firma sul cosiddetto “armistizio corto” in dodici articoli. Vittorio Emanuele III le prerogative che aveva congelato in venti anni di fascismo, tanto da firmare nel 1938 anche l’obbrobrio delle leggi razziali, le aveva esercitate per preservare il trono traballante e un Paese annichilito. La longa manus del colpo di stato contro Mussolini era la sua, il complotto l’aveva ordito lui ma non per lo scopo nobile di salvare il Paese – cosa che avrebbe potuto fare ben prima e in svariate occasioni - , quanto salvare la dinastia sabauda. Di tutte queste trame nessuno sa nulla. I tedeschi sospettano, e ne hanno ben donde, ma non riescono a cogliere in fallo Badoglio; il 3 settembre, mentre a Cassibile si firma l’armistizio, con un colpo di teatro, nel ricevere il nuovo ambasciatore a Roma, Rudolf Rahn, rafforza il valore della sua parola ricordando che proviene da uno dei più anziani marescialli d’Europa assieme a Philippe Pétain (la compagnia da lui scelta era quella che era) e August von Mackensen.

L’ABRUZZO

DEL

1943

Il boom della produzione bellica

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el 1932 era entrato in funzione a Piano d'Orta l'impianto di solfato di allumina. La materia prima, l'idrato di allumina, era sbarcata nel porto canale di Pescara da Porto Marghera, via ferrovia giungeva a Piano d'Orta. Negli anni 1937-1943, non tutto l'idrato di allumina era trasformato in solfato e inviato nelle cartiere di Isola del Liri e di Ceprano. Una parte consistente (circa 13 mila quintali) era lavorata per ottenere glicerina, spedita negli impianti di Bussi-Pratola Peligna della Dinamite Nobel-Società Generale Esplosivi e Munizioni, del gruppo Montecatini: qui la glicerina si combinava con l'acido nitrico per ottenere nitroglicerina. Nel marzo 1942, la Società Ilva di Genova aveva stipulato con le Ferrovie dello Stato una convenzione. Per far fronte al crescente fabbisogno di acciaio dell’industria bellica, le ceneri di pirite (usate come combustibile negli altiforni e inviate al polo siderurgico di Bagnoli, viaggiavano con speciali condizioni di trasporto. Fino all’agosto 1943 (quando cessò la produzione di acido solforico), dallo stabilimento di Piano d’Orta partirono per Bagnoli circa 45 mila tonnellate di polveri di pirite (+ 30% rispetto al biennio precedente). Il 1° gennaio 1944, la Montecatini firmava un accordo con il Rustings und Krieg (Ruk), l’Ufficio strategico ed

operativo del Comando Italia Armamenti e Produzione Bellica, con sede a Milano. Il Ruk avrebbe gestito direttamente il trasporto ferroviario degli stabilimenti della Montecatini. L’8 gennaio, il complesso elettrochimico di Bussi, Piano d’Orta e Pratola Peligna (occupato dai tedeschi all’indomani dell’8 settembre) iniziò a pianificare progetti mensili con l’incaricato generale per l’Italia del Ministero del Reich per gli Armamenti e la Produzione Bellica, il generale Leyers. L'importanza (in particolare di Bussi) nell'industria bellica del paese era chiara fin dall'inizio. Agli inizi del '900, la Sie (Società Elettrochimica Italiana) vi attivò cicli produttivi tra i primi in Italia: soda caustica, cloro e derivati (1902), ferro-silicio, carburo di calcio (1904-1906), alluminio (1904). Durante la prima guerra mondiale, gli stabilimenti furono dichiarati ausiliari dal Ministero delle Armi e Munizioni e Bussi diventò un importante centro di produzione bellica. Si producevano lacrimogeni, gas asfissianti, potassio e sodio (elementi di base per la fabbricazione di esplosivi). Il reparto di elettrolisi cloro-soda fabbricava idrogeno purissimo, impiegato nei dirigibili del Genio Aeronautico Militare. Nel 1925, la Società Azogeno di Genova apriva a Bussi uno

stabilimento bellico per la produzione di ammoniaca, acido nitrico e nitrato di ammonio. Nel 1932, la Montecatini, subentrata alla Sie due anni prima, progetta e realizza insieme al Centro Chimico Militare reparti di yprite e arsine. L'yprite era prodotta in grandi quantità, per lo più imbarcate nel porto di Ortona: una parte era probabilmente diretta in Etiopia, durante la guerra coloniale. Nel 1934, vennero attivati anche i reparti di Piombo TetraEtile (PTE), realizzati sulla base di disegni americani. L’impianto di acido solforico di Piano d'Orta, costruito dalla Sie nel 1902, fu rilevato nel 1904 dalla Società Italiana Prodotti Azotati (Sipa) che sperimentò per la prima volta in Europa la produzione di calciocianamide, un fertilizzate sintetico che avrebbe rivoluzionato l'agricoltura. Dichiarata ausiliaria nel 1915, la Sipa nel 1924 fu acquistata dalla Società Marchigiana di Concimi e Prodotti Chimici, nel 1928 subentrò la Montecatini che costruì gli impianti di solfato di allumina e fluosilicato di sodio. Nel febbraio 1943, Bussi e Piano d'Orta iniziavano ad accogliere gli impianti delle filiali di Crotone, Brindisi, Montemarciano, Porto Recanati. Nell'estate-autunno 1943, Pratola Peligna e Piano d'Orta furono bombardate pesantemente, mentre Bussi restò indenne, essendo gli impianti incastonati nelle gole di Popoli. L'obiettivo degli Alleati era chiaro: mettere fuori uso un complesso elettrochimico di livello nazionale, nonché la rete viaria (ferrovia PescaraSulmona, porto canale di Pescara) e i centri urbani della valle, tra cui Pescara, Chieti Scalo e Manoppello. Marcello Benegiamo

LO STABILIMENTO CHIMICO DI BUSSI SUL TIRINO.

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LE DUE FUGHE

I VERTICI DELLA MACCHINA MILITARE NAZISTA (DA DESTRA) HITLER, HIMMLER, DOENITZ,

KEITEL E GÖERING.

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Sui militari tedeschi la sparata era d’effetto. Fin’allora si erano fidati delle sue rassicurazioni, o perlomeno avevano fatto finta di credergli perché così conveniva. Nonostante le proteste italiane, appena mascherate dalla diplomazia, dal Brennero continuavano ad affluire soldati e mezzi che non erano stati disponibili prima, quando Mussolini reclamava aiuti militari. Se adesso si erano trovati, il loro scopo era chiaro: prendere il comando delle operazioni e parare lo sganciamento delle truppe italiane dal fronte anti-alleato. Il “piano Alarico” era entrato nella fase preliminare, non c’era dubbio, e presto sarebbe entrato anche in quella esecutiva. In Trentino-Alto Adige, che i tedeschi consideravano sempre Sud Tirol e che mai avevano accettato fuori dei confini del Reich, la popolazione aveva accolto i soldati della Wehrmacht col dono rituale delle mele, del pane e del vino. I tedeschi si sentivano a casa e tra poco cominceranno a fare i padroni. Mussolini sa poco e in maniera confusa ciò che sta accadendo, e le notizie gli arrivano dai colloqui con i soldati incaricati della sua sorveglianza. Passa il tempo a leggere e a pensare, e a tradurre in scritti i suoi pensieri. Non ha la sua solita rassegna stampa, come accadeva a Palazzo Venezia, seguendo un vizio e un vezzo da giornalista, anzi da direttore di giornale; ma ha il fiuto del politico, quello che gli aveva fatto capire che l’ordine del giorno Grandi non avrebbe significato solo la sua fine, perché con lui si sarebbe frantumato il fascismo che dopo l’impresa d’Etiopia e la proclamazione dell’Impero aveva toccato il picco del consenso, e che la guerra disastrosa aveva portato a disgregarsi: Mussolini aveva capito che i tedeschi si sarebbero vendicati. Conosceva bene Hitler, che lo considerava il suo forse unico amico, anche se l’allievo austriaco aveva abbondantemente superato il maestro di Predappio. Hitler era rimasto assai colpito dalla notizia della destituzione del Duce, ma ancor di più dalle manifestazioni di giubilo degli italiani che si erano riversati in piazza. «Ma cos’è questo fascismo che si è dissolto come neve al sole?» era stato il commento alla Wolfsschanze, nella Prussia Orientale, dove il crollo del regime aveva por-

flashback

tato la sua eco nella tarda serata del 26 luglio. Gli italiani avevano festeggiato in maniera carnascialesca non tanto la destituzione di Mussolini, quanto ciò che ai loro occhi questa celava: la fine della guerra, di cui non ne potevano proprio più. Badoglio aveva presto freddato quei facili entusiasmi, perché il nuovo Governo si dibatteva tra l’incudine e il martello: l’incudine tedesca e il martello angloamericano che non mancava di far sentire i suoi colpi ogni sacrosanto giorno. Sul Gran Sasso il prigioniero di lusso, che secondo le parole di Vittorio Emanuele era stato arrestato a Villa Savoia «per la sua stessa sicurezza», aspettava che qualcosa si muovesse, e cioè che lo liberassero. La questione è che non si sapeva chi potesse farlo, anche se Mussolini sperava fossero comunque i suoi. Una speranza cui si appigliava dopo la delusione di non vedere neppure un gesto in suo aiuto. L’agguerrita divisione corazzata “M” della milizia, di stanza nella zona di Roma, non aveva mosso un dito. Anche in questo caso il bellicismo e l’arditismo di facciata si erano risolti in un bluff. L’unico a mostrare un segno di effettiva solidarietà al Duce era stato il direttore dell’Agenzia Stefani, Manlio Morgagni, che per la disperazione non aveva trovato di meglio che tirarsi un colpo di rivoltella. Fu il solo suicidio nei baccanali del dopo 25 luglio, e l’unico esplicito e sostanziale atto di fedeltà.

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entre a Campo Imperatore i giorni si susseguono lenti, a Roma, nei palazzi del potere, ogni ora porta il suo fardello di frenesia. Lo sganciamento da Hitler, dalla Germania e dalla guerra è cominciato, si sa dove porterà ma non in che modo. Al momento di negoziare l’armistizio, che sancisce una resa incondizionata, gli Alleati hanno preteso la consegna di Mussolini. Badoglio, che pure al Duce e al fascismo deve non poco della sua folgorante carriera, macchiata da gravi colpe furbescamente relegate in secondo piano, deve continuare a tenerlo al riparo delle mire tedesche fino a che il rovesciamento della situazione non gli consentirà di affidarlo agli anglo-americani in tutta sicurezza e senza sporcarsi le

LA REAZIONE TEDESCA ALLA DESTITUZIONE DI MUSSOINI SI MANIFESTA SUBITO CON L’INCREMENTO DELLE TRUPPE SUL TERRITORIO ITALIANO.

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LE DUE FUGHE

Herbert Kappler

Herbert Kappler (Stoccarda 1907 – Soltau 1978) entra a 27 anni nelle SS come esperto di criminologia. Nel 1939 è attaché dell’ambasciata tedesca a Roma con l’incarico di spiare la polizia italiana, nel 1943 è promosso tenente colonnello e capo del servizio di sicurezza, incarico in cui si dimostra abile e spietatamente efficiente. Lega il suo nome al sequestro dell’oro della Banca d’Italia, alla cattura di Galeazzo 18

mani. Lunedì 6 agosto, a un sollecito sulle misure adottate nell’albergo a salvaguardia del prigioniero e di quello che rappresenta come moneta di scambio politica, l’ispettore capo della polizia Giuseppe Gueli, ex questore di Trieste che assieme al tenente dei carabinieri Alberto Faiola è responsabile della custodia di Mussolini e comanda il reparto misto di poliziotti e militi a presidio, invia un telegramma a Badoglio in cui sottolinea che l’albergo di Campo Imperatore è «un fortilizio inespugnabile». Quella missiva arriva sul tavolo del comandante della polizia Carmine Senise che verosimilmente tira un sospiro di sollievo, perché tutto sta per finire, è questione davvero di poco; ma arriva anche su un altro tavolo, quello del tenente colonnello SS Herbert Kappler, capo della polizia politica tedesca a Roma. Il telegramma è stato intercettato dai servizi segreti del Reich e si è andato a incastrare in uno dei tasselli ancora vuoti che ricostruisce le mosse degli italiani dal 26 luglio in poi. Kappler ha il fiuto del poliziotto nazista: martedì 7 settembre ha già capito che quelle poche parole celano una traccia che merita di essere seguita. Dà allora ordine a un suo sottoposto il tenente SS Erich Priebke, che con lui condividerà la responsabilità materiale e morale dell’ecCiano e di Mafalda di Savoia, alla razzia dell’oro degli ebrei romani e successivamente al loro rastrellamento e alla deportazione ad Auschwitz, e alla strage delle Fosse Ardeatine. Catturato dagli Alleati nel 1945 e processato in Italia viene condannato all’ergastolo; ogni richiesta di grazia cade nel vuoto. Malato di cancro, evade rocambolescamente a ferragosto del 1977 durante il ricovero all’ospedale Celio, secondo la ricostruzione degli inquirenti dentro una valigia portata via dalla moglie Anneliese. La Germania rifiuta di riconsegnarlo perché essendogli stato mutato lo status da detenuto a prigioniero di guerra (altrimenti non lo si sarebbe potuto trasferire dal carcere militare di Gaeta al Celio) non v’era obbligo di estradizione: la sua fuga, come prigioniero di guerra, era un atto legittimo.

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cidio delle Fosse Ardeatine, di seguire quella traccia. Priebke sale a bordo di una Fiat Topolino e raggiunge il Gran Sasso per una ricognizione.

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on sono solo le SS a raccogliere l’indizio e a tentare di trasformalo in prova. Il generale Kurt Student si muove autonomamente. In primo luogo ha piazzato alle costole di Skorzeny un suo uomo di fiducia, il capitano pilota e ufficiale di stato maggiore Gerd Langguth, che ha l’incarico di sorvegliare da vicino il capitano SS e di riferire a Student cosa stia combinando. Langguth divide con Skorzeny anche l’alloggio, fa l’amicone ma sospetta dell’austriaco. Tra Luftwaffe e SS c’è una forte diffidenza, cui non è estranea la forte rivalità ad alto livello tra il Reichsmarschall Hermann Goering, ex asso dell’aeronautica della prima guerra mondiale ed erede del Barone Rosso al comando della squadriglia Richthofen, e il Reichsführer Heinrich Himmler, ex allevatore di polli e potentissimo capo dell’ esercito nero. Student quel 7 settembre chiama un altro suo uomo di fiducia, l’ufficiale medico Leo Krutow, e lo invita a fare una “gita” in motocicletta sull’Appennino abruzzese, seminando domande qua e là in cerca di elementi che possano far chiarezza nella situazione alquanto nebulosa. Krutow chiede ad alcuni carabinieri di stanza a un posto di blocco se sia possibile accogliere alcuni paracadutisti feriti nell’albergo ad alta quota: la scusa è plausibile, poiché l’hotel è adibito a convalescenziario per la truppa. Ma quel che l’ufficiale medico non sa è che da giorni i carabinieri hanno fatto sgomberare feriti e malati. E poi il loro tono brusco, nel respingere la sua richiesta e nel provare ad allontanarlo dalla zona, accentua i suoi sospetti. Lì c’è qualcosa che non va, o che comunque i tedeschi non dovrebbero sapere. Non potendo andare oltre, l’ufficiale si ferma in un’osteria e fingendo la massima sufficienza davanti a un bicchiere di vino domanda da quanto tempo la funivia sia inattiva; l’oste gli dice che gli ultimi forestieri si sono visti verso il 20 o il 21 agosto. Krutow risale in motocicletta, fa dietrofront e si presenta a rapporto da Student per riferirgli quel che

L’ABRUZZO

DEL

1943

Quando si fermarono anche i mulini

I

n questo scorcio di tempo, né i contadini né i cittadini meno abbienti si alimentavano correttamente e abbastanza, con riflessi negativi sull’accrescimento degli individui e sulla loro capacità di resistere alle malattie. Per tradizione, i contadini utilizzavano i prodotti della loro campagna, mirando all'autosufficienza; solo nelle principali occasioni festive o in caso di malattia ricorrevano all’acquisto di generi alimentari, come la carne o il pesce salato (baccalà, sarde). Alimenti principali erano, ambedue preparati in casa, la pasta e, soprattutto, il pane nero, quest’ultimo fatto di surrogati più che di farina (il pane bianco fu scoperto dalle masse solo con la Liberazione e gli aiuti americani). Per molte famiglie il cibo quotidiano era la cosiddetta "pizz’e foije", alimento povero preparato con farina di granoturco e verdure campestri strascinate con olio (quando era possibile) e peperoni secchi, eufemisticamente detti “salsicce di giardino”; in inverno si consumavano anche minestre di legumi e patate, condite con lardo, strutto e salsa di pomodoro. Ogni famiglia traeva dal proprio orto gli alimenti che poteva: alcuni venivano conservati per tutto l'anno, altri, come la frutta, erano consumati stagionalmente finché non si esaurivano, a scapito della varietà alimentare. Si producevano in casa anche latte e formaggi; il vino era consumato soprattutto nei periodi dei grandi lavori agricoli, per tonificare e compensare il notevole dispendio di calorie; era allora che si metteva mano pure agli insaccati e al prosciutto ricavati dalla macellazione del maiale, che avveniva a gennaio in simbiosi con la festa di S. Antonio abate; per il resto, il consumo di carne era riservato alle festività e alle grandi occasioni e proveniva quasi esclusivamente dagli animali da cortile. Ben più carente era l’alimentazione di coloro che, vivendo nei centri urbani più popolosi, non avevano la fortuna di poter

attingere direttamente ai prodotti della propria fatica; per questo, si sviluppò un fiorente traffico tra Roma, dove scarseggiavano i generi alimentari, e i paesi della Marsica, che dalla capitale facevano arrivare sigarette e sale. Quando, tra il ’43 e il ‘44, le derrate del prezioso condimento e conservante volsero al termine anche sulla costa, le famiglie ricorsero alla raccolta e all’evaporazione dell’acqua di mare. Lo stesso adattamento fu necessario quando i mulini smisero di funzionare (allora le donne cominciarono a cuocere il grano, spezzato tramite macine rudimentali, col sugo di pomodoro a mo’ di risotto) e tanti calmarono i morsi della fame mangiando corbezzoli e mele acerbe e selvatiche. Contadini e ceti cittadini meno abbienti tendevano all'autosufficienza anche per quanto concerne il vestiario, i cui capi venivano passati di padre in figlio e di fratello in fratello finché reggevano toppe e rammendi. La coltivazione e lavorazione del lino, la sua trasformazione in filato e la relativa tessitura (in genere, insieme al filo di cotone, che veniva acquistato) impegnavano le donne nel tempo lasciato libero dal lavoro nei campi, in modo da ricavare le stoffe necessarie alla casa e i principali articoli del corredo per le future spose, cui si iniziava a provvedere per tempo. La biancheria, le stoviglie ed eventualmente la casa, di cui era dotata la nubenda, assieme al mobilio, all’appezzamento di terra e agli attrezzi del mestiere, spesso portati dal maschio, costituivano la base per il funzionamento della nuova casa; veri e propri contratti, stipulati tra le famiglie degli sposi, regolavano i beni che avrebbero equamente seguito la coppia. Per questo, nell’ottobre del ’43 le famiglie abruzzesi, prima di sfollare, murarono le stoviglie e la migliore biancheria delle figlie nei sottoscala, nelle cantine o nelle soffitte; ma le perquisizioni e i muri squarciati dalla bombe rivelarono quasi tutto, e quei preziosi corredi che

avevano costituito le proiezioni dei sogni delle ragazze da marito furono poi ritrovati a pezzi e a brandelli nelle stalle e nei luoghi ove avevano soggiornato le truppe occupanti che li utilizzavano per ricavare le bende per i feriti. Nel ’43, a causa delle difficoltà di approvvigionamento dei tessuti pesanti, si tornò a tessere al telaio di casa anche la lana: a coloro che possedevano pecore, la lana tosata veniva riconsegnata dai lanifici locali già filata, pronta per essere lavorata al telaio o ai ferri. La tintura o sbiancatura (quest’ultima era effettuata con lo zolfo) riguardava le pezze di tessuto o gli abiti già cuciti oppure precedeva la tessitura (in tal caso, si poteva giocare con i vari fili colorati in modo da creare fantasie geometriche); per creare un effetto mélange, i filati di calze, sciarpe e berretti venivano annodati in modo che assorbissero il colore in modo irregolare. Il confezionamento in forma di abito o cappotto del pesante tessuto casalingo veniva eseguito da donne esperte o, se si avevano mezzi sufficienti, nelle sartorie del paese (in quel contesto, le prestazioni di artigiani e professionisti venivano corrisposte anche con pollame, uova, grano e prodotti di prima necessità). Nello stesso modo, si traevano capi d’abbigliamento da coperte e pastrani militari, a cui ovviamente veniva cambiato colore. Insomma, nulla andava perduto: la scarsità del vestiario determinò l’uso, da parte dei civili, di scarpe militari, il cui bisogno fu superiore alla pietà per i morti e al timore che quelle scarpe con la punta rinforzata in ferro segnalassero ai tedeschi un disertore, per cui, terminate le riserve di cuoio, le concerie arrivarono a lavorare la pelle dei maiali per sopperire alla domanda di scarpe, selle e stivali, e si arrivò addirittura a uccidere gatti per confezionare con la loro pelle sacche e borse. Lia Giancristofaro

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LE DUE FUGHE

ha visto e quel che ha sentito. Sia Langguth sia Krutow fanno parte della 2ª divisione paracadutisti, mandata dalla Francia nella zona dei Colli Albani, a due passi da Roma. Il perché è chiaro e lo si vedrà l’indomani. Ma già quel 7 settembre l’OKW diramava gli ordini definitivi di disarmo delle unità italiane il più rapidamente possibile. In poco più di un mese le truppe tedesche erano raddoppiate e ora contavano l’equivalente di 17 divisioni e 2 brigate; altre 4 divisioni erano in arrivo.

A

Roma quella sera, a insaputa totale dei tedeschi e della loro rete di intelligence, Badoglio riceve due “prigionieri di guerra” alleati, che in realtà prigionieri non sono, ma emissari; dopo un breve e infruttuoso colloquio col generale di Corpo d’armata Giacomo Carboni, hanno chiesto e ottenuto un incontro col Capo del Governo: quei due uomini trasportati per Roma a bordo di un’ambulanza sono il generale Maxwell Taylor - comandante dell’artiglieria dell’ 82ª divisione paracadutisti del generale Matthew Ridgway - e il suo aiutante di campo tenente colonnello William Gardiner. Il loro incarico è sapere dove poter far effettuare il previsto aviosbarco dell’82ª divisione – operazione Giant II -

Giuseppe Castellano

Già combattente della prima guerra mondiale, Giuseppe Castellano (Prato 1893 – Porretta Terme 1977), nella seconda è ufficiale di Stato maggiore della II armata in Jugoslavia e collaboratore di Ambrosio, di cui è anche amico, così come di Galeazzo Ciano. E’ il più giovane generale dello Stato maggiore del Regio Esercito. 20

Assai vicino alla Corte grazie al ministro Acquarone, è tra gli organizzatori dell’arresto di Mussolini e il 10 agosto Ambrosio l’incarica di intavolare le trattative nella massima segretezza con gli Alleati per arrivare all’armistizio: Castellano il 12 è a Madrid e il 19 a Lisbona riesce a incontrare l'ambasciatore inglese, il Capo di stato maggiore delle forze alleate del Mediterraneo, Bedell Smith, il capo dell'Intelligence Service delle forze alleate generale Strong, e l’incaricato d'Affari degli Stati Uniti, Kennan. Il 27 rientra a Roma e alle 17.15 del 3 settembre a Cassibile firma a nome dell’Italia l’armistizio corto. In seguito Dwight “Ike” Eisenhower volle conoscerlo e intrattenne con lui rapporti cordiali anche quando ascese alla presidenza degli Usa.

per dare manforte alle truppe italiane al momento della proclamazione dell’armistizio. Ma questa parola suona ancora strana alle orecchie di Badoglio che assieme al capo del SIM Carboni insiste per un differimento, motivandolo con la necessità di assicurarsi il pieno controllo degli aeroporti nei pressi della capitale, pericolosamente vicini alle unità tedesche di stanza. A Cassibile era stato preordinato che uno sbarco in forze – nome in codice Giant I, che diventerà l’Operazione Avalanche di Salerno - avrebbe innescato la dichiarazione della fine delle ostilità, ma nessuno aveva detto a Castellano dove e quando sarebbe avvenuto. Il generale, pressato da Badoglio che interpretava l’intervento armato americano a tutela degli interessi italiani e a protezione dalla rappresaglia delle truppe tedesche, aveva provato in tutti i modi a far sbottonare gli ufficiali alleati; il 4 settembre ne aveva ricavato una confidenza informale da parte del capo di stato maggiore di Eisenhower, generale Walter Bedell Smith, che sia lo sbarco sia la dichiarazione di armistizio non sarebbero avvenuti prima di due settimane. Fatti i debiti conti, Castellano ne aveva dedotto che prima del 10 settembre non sarebbe accaduto nulla, altrimenti Bedell Smith avrebbe parlato di una settimana, non due, e aveva informato di ciò il generale Ambrosio attraverso il maggiore Luigi Marchesi e tramite una lettera che sarebbe stata distrutta il 9 settembre nel falò dei documenti compromettenti di Palazzo Vidoni, sede del Comando supremo. Il sospetto che Bedell Smith, non fidandosi degli italiani, avesse scientemente depistato l’emissario di Badoglio, non aveva sfiorato nessuno. La presunzione di Castellano, da lui confermata in seguito, era che lo sbarco sarebbe potuto avvenire tra il 10 e il 15 settembre, e verosimilmente il 12. Per uno scherzo del destino la data del 12 era stata interpretata non come una possibilità, ma come una certezza. Tant’è che Ambrosio se n’era andato a Torino, il 6 settembre, mancando quindi all’appuntamento con Taylor e Gardiner. I due ufficiali americani restano assai contrariati da quel che ai loro occhi appare come l’ennesima “furbata”

flashback

L’ATTO DELLA FIRMA SULL’ARMISTIZIO A CASSIBILE E L’ESULTANZA DEGLI ITALIANI ALLA SUA PROCLAMAZIONE.

21


LE DUE FUGHE

L’armistizio corto

Ecco il testo completo dell'armistizio militare (il cosiddetto “armistizio corto”), firmato il 3 settembre a Cassibile (Siracusa) dal generale di brigata, addetto al Comando supremo italiano, Giuseppe Castellano, per il Maresciallo d'Italia Pietro Badoglio, Capo del governo, e del generale dell'esercito degli Stati Uniti e Capo di stato maggiore, Walter Bedell Smith, per il comandante in capo delle forze alleate Dwight Eisenhower. «1) Cessazione immediata di ogni attività ostile da parte delle Forze Armate italiane. 2) L'Italia farà ogni sforzo per rifiutare ai tedeschi tutto ciò che potrebbe essere adoperato contro le Nazioni Unite. 3) Tutti i prigionieri e gli internati delle Nazioni Unite saranno consegnati immediatamente al comandante in capo alleato e nessuno di essi potrà ora o in qualsiasi momento essere trasferito in Germania. 4) Trasferimento immediato della flotta italiana e degli aerei italiani in quelle località che saranno designate dal comandante in capo alleato, con i dettagli di disarmo che saranno fissati da lui. 5) Il naviglio mercantile italiano potrà essere requisito dal comandante in capo alleato per supplire alle necessità del suo programma militare navale. 6) Resa immediata della Corsica e di tutto il territorio italiano, sia delle isole che del continente, agli alleati, per essere usati come basi di operazione e per altri scopi, a seconda delle decisioni degli alleati. 7) Garanzia immediata del libero uso da parte degli alleati di tutti gli aeroporti e porti navali in territorio italiano, senza tener conto dello sviluppo dell'evacuazione del territorio italiano da parte delle forze tedesche. Questi porti navali e aeroporti dovranno essere protetti dalle Forze Armate 22

all’italiana, una perdita di tempo, una tattica dilatoria che non porta da nessuna parte, ma ligi al loro incarico si impegnano non a sollecitare il rinvio, ma a riferire tutto a Eisenhower. Giant II non si poteva fare perché gli italiani, sopravvalutando la consistenza numerica delle truppe tedesche, non potevano garantire né gli aeroporti né l’appoggio tattico e logistico, e infatti l’operazione verrà annullata all’ultimissimo momento. Badoglio esce dal colloquio con la fallace

italiane finché questo compito non sarà assunto dagli alleati. 8) Immediato richiamo in Italia delle Forze Armate italiane da ogni partecipazione alla guerra, in qualsiasi zona in cui si trovano attualmente impegnate. 9) Garanzia da parte del Governo italiano che, se necessario, impiegherà tutte le sue forze disponibili per assicurare la sollecita e precisa esecuzione di tutte le condizioni dell'armistizio. 10) Il Comandante in capo delle Forze alleate si riserva il diritto di prendere qualsiasi misura che egli riterrà necessaria per la protezione degli interessi delle Forze alleate, per la prosecuzione della guerra; e il Governo italiano si impegna a prendere quelle misure amministrative e di altro carattere, che potranno essere richieste dal comandante in capo e in particolare il comandante in capo stabilirà un Governo militare alleato in quelle parti del territorio italiano, ove egli lo riterrà necessario nell'interesse militare delle Nazioni alleate. 11) Il comandante in capo delle Forze alleate avrà pieno diritto di imporre misure di disarmo, di smobilitazione e di smilitarizzazione. 12) Altre condizioni di carattere politico, economico e finanziario, che l'Italia dovrà impegnarsi ad eseguire, saranno trasmesse in seguito. Le condizioni di questo armistizio non saranno rese pubbliche senza l'approvazione del Comandante in capo alleato. Il testo inglese sarà considerato il testo ufficiale».

convinzione che le sue richieste siano state accettate e gioca erroneamente sul fatto che in realtà non è stata fissata una scadenza fissa per l’annuncio dell’armistizio e l’ambiguità dei sospettosi americani rafforza la convinzione che la fine delle ostilità sarà proclamata il 12 settembre, non l’indomani.

G

li italiani che quel mercoledì si sintonizzano sulle onde della Bbc, che fornisce loro notizie sulla guerra che a onor del vero è disastrosa, dovrebbero “distrarsi” con un concerto di musiche di Verdi e con una conferenza sui nazisti e l’Argentina. Sembrerebbe una normale programmazione, ma non è proprio così. C’è chi sa che si tratta di segnali prefissati, ma nessuno dei pochissimi a conoscenza di dettagli apparentemente insignificanti, quella mattina ascolta Radio Londra e molti nel dopoguerra giureranno che quelle trasmissioni non sono mai state captate, mentre altri sosterranno che sono state regolarmente irradiate. Fatto sta che nessuno ascolta le musiche verdiane e la conferenza sudamericana, segnali prestabiliti che il giorno “X”, quello dell’armistizio, è l’8 settembre. L’“assaggio” è a mezzogiorno con un massiccio e violentissimo bombardamento del quartier generale di Kesselring, a Frascati, eppure c’è chi tentenna ancora e non vuol vedere l’evidenza. Badoglio non sa che Eisenhower, a Biserta, ha reagito alle profferte dilatorie con stizza e tono duro. La sintetica relazione dei due emissari inerente le richieste italiane gli è giunta col suo carico di riserve e di scetticismo e il comandante supremo delle forze angloamericane risponde subito a Badoglio con un messaggio cifrato che alle 17.30 è portato in chiaro dagli italiani, nel quale si intima di rispettare gli accordi presi il 3 settembre a Cassibile, a pena di dure rappresaglie. Da Badoglio in giù, negli alti gradi, sanno adesso che non ci saranno rinvii. Lo sanno tutti in quella riunione convocata alle 18 al Quirinale e alla quale, col re e Badoglio, partecipano il generale Ambrosio, il ministro degli esteri Raffaele Guariglia, i tre ministri militari Antonio Sorice (esercito), Raffaele de Courten (marina) e Renato Sandalli (aeronautica), il sottoca-

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Una regione che s’industria

A

llo scoppio della seconda guerra mondiale, l’industria abruzzese registrava un ristretto numero di medie e grandi aziende, localizzate in determinate aree vallive e in alcuni centri urbani. Peraltro, una simile struttura si può dividere, oltre che in settori, anche in imprese gestite dall’imprenditoria locale o esterna. Il comparto elettrochimico era tra i più consistenti a livello nazionale. Comprendeva gli stabilimenti elettrochimici di Bussi-Piano d’Orta e lo stabilimento Celdit di Chieti Scalo, attivati rispettivamente da un cartello di società e banche italiane ed estere e dalla Società della Cellulosa d’Italia. Piuttosto notevoli erano anche gli impianti della Società Colla e Concimi di Avezzano, installati nel 1902 dall’omonima società di Roma e rilevati nel 1920 dalla Montecatini che vi avviò la produzione di acido solforico. Un’altra fabbrica chimica di spessore nazionale era il Colorificio Italiano Blu d’Oltremare, aperto nel 1917 a Pescara da una società di Torino: la sostanza, prodotta per la prima volta in Italia, veniva impiegata nella lavorazione della

seta e in editoria. Tra gli imprenditori locali ricordiamo i fratelli Bucco di Pescara, titolari dell’omonimo stabilimento chimico e farmaceutico. Fondata nel 1888, l’azienda si dotò nel tempo di moderni impianti e macchinari, affermandosi anche nel mercato nazionale. L’altro comparto abruzzese di importanza nazionale era quello idroelettrico. L’intera produzione di energia per uso industriale era monopolizzata dalla Società Meridionale di Elettricità che gestiva il sistema energetico del bacino fluviale del Tirino-Pescara, formato da cinque centrali, attivate tra il 1901-1938, nonché la centrale dell’Aventino (1917). Le Ferrovie dello Stato avevano costruito un poderoso impianto sul fiume Sagittario (1922), mentre l’Unes (Unione Esercizi Elettrici) di Milano controllava quasi tutto il settore elettrocommerciale abruzzese, lasciando alle imprese locali fette di mercato molto ridotte. Tra queste, ricordiamo la Zecca-Cauli, fondata nel 1905 da un gruppo di imprenditori chietini, l’unica azienda capace di contrastare l’egemonia dell’Unes. Tuttora in

attività, la Zecca è stata al centro dell’attenzione in occasione del black out che ha colpito il paese il 28 settembre 2003, riuscendo a ripristinare nel comprensorio ortonese la corrente in poco meno di due ore, mentre nel resto dell’Italia i tempi di riattivazione sono stati molto più lunghi. L’industria mineraria abruzzese annoverava aziende di medie dimensioni, situate soprattutto nella Val Pescara (Scafa e San Valentino). Ricordiamo la Società Abruzzese Miniere e Asfalti, fondata nel 1922 da imprenditori chietini, la Anonima Puricelli di Milano (1930), la Neuchatel Asphalte Company (1890). A Pescara si registra la presenza del cementificio Pelino-Ciarrapico (1926), titolari di un altro stabilimento a Bomba (1907), a Cagnano Amiterno un cementificio della Società Portland di Bergamo (1923). L’industria meccanica era l’anello più debole. Facevano eccezione le Officine Camplone di Pescara (1902) e Calvi di Chieti Scalo (1884): aziende di successo nel settore della costruzione di macchine e attrezzi agricoli lavorarono per conto dell’esercito nei due conflitti mondiali, producendo proiettili e pezzi di artiglieria. Infine, qualche rapido cenno sull’industria agro-alimentare. Le uniche fabbriche degne di nota erano lo Zuccherificio di Avezzano (1902) e il pastificio De Cecco di Fara San Martino (1887), potenziato nel 1927 con l’impianto molitorio di Pescara. Per il resto, il settore alimentare registrava una miriade di piccole aziende, con modesti livelli produttivi e occupazionali, in un contesto commerciale tutt’al più provinciale. Marcello Benegiamo

LO ZUCCHERIFICIO DI AVEZZANO.

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LE DUE FUGHE

po di stato maggiore Giuseppe De Stefanis che fa le veci di Mario Roatta, il capo del SIM nonché comandante del Corpo motorizzato, a difesa di Roma, Giacomo Carboni, l’aiutante di campo di Vittorio Emanuele, generale Paolo Puntoni, il ministro della Real Casa, Pietro Acquarone. Se qualcuno aveva ancora un dubbio residuale, il maggiore Marchesi glieli aveva tolti sostenendo che Eisenhower aveva anticipato l’annuncio rispetto al 12 settembre che, come sappiamo, non era stato fissato da nessuno. C’è persino chi preme per denunciare gli accordi di Cassibile, e siamo ormai al marasma e alla farsa. De Courten ha stigmatizzato la clausola della consegna della flotta agli Alleati, Sandalli si è lamentato sul destino dell’aeronautica. Il re taglia corto e chiude il Consiglio della Corona con l’intenzione di mantenere l’impegno preso con gli Alleati.

Q

8 Settembre, l’annuncio radiofonico di Badoglio «Il Governo Italiano, riconosciuta la impossibilità

di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha

chiesto un armistizio al Generale Eisenhower

Comandante in capo delle Forze alleate angloamericane.

La richiesta è stata accolta. Conseguentemente ogni atto di ostilità contro le Forze anglo-

americane deve cessare da parte delle Forze italiane in ogni luogo.

Esse però reagiranno ad eventali attacchi da qualsiasi altra provenienza».

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uello stesso giorno un bimotore con le croci nere ha sorvolato insistentemente la zona dell’aeroporto di Pescara. Dal basso gli avieri italiani hanno seguito la traiettoria dell’Heinkel 111 con curiosità ma senza preoccupazione: è un aereo tedesco, non un bombardiere alleato, e non c’è da temere qualche brutta sorpresa. Si è annotato l’accaduto come una piccola ma irrilevante novità nella routine quotidiana di un aeroporto di provincia che si occupa solo di addestramento. Su quell’Heinkel ci sono Skorzeny e Langguth, i quali hanno dato ordine al pilota di portarsi sulla traiettoria e in altezza utile a scattare fotografie della struttura e della pista, per aggiornare le mappe in loro possesso. In caso di necessità lo scalo pescarese può essere utile per assistenza o rifornimento. Il bimotore è decollato dall’aeroporto di Pratica di Mare e durante il rientro alla base sorvola l’Appennino. Il piano di volo prevede il passaggio sul Gran Sasso, ed è a questo punto che Skorzeny e Langguth dicono con sufficienza e senza tradire alcuna enfasi al pilota di fare qualche giro per prendere fotografie anche dell’albergo in quota, che fino a qualche settimana prima era un luogo di convalescenza per i soldati feriti. Il pilota dell’Heinkel non lo sa

flashback

e non lo sospetta neppure, ma è quello il reale obiettivo del volo di ricognizione: l’aeroporto di Pescara era solo un diversivo per mantenere la segretezza e depistare eventuali segnalazioni della Regia Aeronautica. Tutto si sta attivando da parte tedesca per mettere le mani su Mussolini e riconsegnarlo all’amico Hitler. La caccia grossa si sta per concludere sulla vetta più alta dell’Appennino, con un attacco in piena regola dei reparti d’assalto tedeschi a un reparto regolare italiano. Una guerra tra alleati che si sentivano già separati in casa.

Q

uella separazione diventa irreversibile quando Radio Algeri, alle 18.30, diffonde la notizia dell’armistizio, confermando un lancio dell’Agenzia Reuters che lo aveva anticipato attorno alle 17.30. Non c’è più tempo per giochi, giochetti e doppi giochi. Gli unici a non dover mostrare alcuna sorpresa dovrebbero essere gli italiani, eppure l’annuncio è incredibilmente un fulmine a ciel sereno. Invece di far scattare le misure previste, precipita nel panico chi ha le leve del comando. Badoglio si reca all’Eiar e con voce stentorea incide su un disco l’annuncio dell’armistizio. Non è un messaggio alla nazione in senso stretto, è una comunicazione asettica, fedele specchio dello scollamento tra il Paese reale e la sua classe dirigente che ha già la testa altrove, alla salvezza personale. Sono le 19.42, le armi devono tacere ma il Regio Esercito ha l’invito, più che l’ordine, a reagire ad attacchi che provengano da altre parti: il riferimento ai tedeschi è chiaro, ma implicito. «La guerra continua», aveva detto Badoglio alla caduta del regime, e adesso che dice su disco che la guerra è finita, è come se preannunciasse che difficilmente sarà davvero così. Impossibile pensare che Hitler possa incassare questo duro colpo, per quanto ampiamente nell’aria, senza fare nulla, senza contromisure militari, senza rappresaglie. Le finalità che avevano innescato il 25 luglio si rivelano in tutta la loro pochezza nelle ore crepuscolari dell’8 settembre. La monarchia cerca di salvare se stessa dalla fine dell’avventura fascista, gli uomini che hanno contribuito con le loro azioni e le loro omissioni, le

TRA LE ASSAI POCO FREQUENTI VISITE DEL RE IN ABRUZZO SI RICORDA QUELLA A FRANCAVILLA PER L’OMAGGIO A MICHETTI.

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LE DUE FUGHE

loro convinzioni e le loro convenzioni utilitaristiche, si arrabattano per preservare la vita e, possibilmente, il ruolo. Via da Roma, il prima possibile, via dai tedeschi finché è possibile. Dove i reparti italiani ringalluzziti dall’armistizio e i reparti tedeschi irritati per quel che reputano un tradimento si trovano in contatto, si registrano le prime scaramucce e i primi caduti. I nuovi nemici si sono già “annusati” e i comandanti più esperti, soprattutto tedeschi, hanno già saggiato la resistenza dell’avversario e la sua volontà di

OP 44, un esercito allo sbando

La Memoria OP 44 (la sigla indica in maniera enigmatica “ordine pubblico”) era stata diramata da Roatta, su ordine del Capo di Stato maggiore generale Ambrosio, il 26 agosto, e prevedeva il comportamento delle Forze armate in caso di attacco tedesco. Fu consegnata ai comandi d’armata e a quelli territoriali di Milano e Bologna attraverso ufficiali di Stato maggiore che 26

assistevano alla lettura, riprendevano l’ultimo foglio firmato per presa visione e facevano distruggere il documento. Le direttive ingiungevano di interrompere «a qualunque costo» ferrovie e strade alpine, bloccare le comunicazioni tedesche, raggruppare le unità, difendere i confini e le zone strategicamente rilevanti. Il problema era che si rinviava a disposizioni applicative e chiarificatrici che non arriveranno mai, perché l’operatività era subordinata alle provocazioni tedesche oppure a un ordine dello Stato maggiore. Non si faceva cenno né alla possibilità di armistizio né tantomeno al rovesciamento di alleanze. L’OP 44 fu integrata dal Comando supremo col Promemoria n. 1 del 6 settembre, inviato alle tre Forze armate e sempre riferito all’eventuale attacco tedesco, e dal Promemoria n. 2 che però non pervenne a tutti i reparti e che quindi venne surrogato dal radiogramma 24202 inoltrato da Ambrosio alle 00.20 e ricevuto alle 2 del 9 settembre, che era a dir poco ambiguo e contraddittorio: da un lato si ingiungeva di reagire «at ogni violenza armata germanica», dall’altro si ordinava di non prendere «iniziativa di atti ostili contro germanici». Contribuì non poco a creare il clima di sconcerto e di sbando e a poco valse l’ordine notturno di Roatta con cui si autorizzava a rispondere con la forza agli atti di forza. I combattimenti erano già divampati e la situazione compromessa per 82 divisioni italiane, di cui 35 all’estero: due milioni di uomini lasciati in balìa degli eventi, abbandonati dai capi e affidati all’iniziativa dei comandanti e dei singoli.

battersi. Che, tranne alcune lodevoli eccezioni, è tutt’altro che ferrea. L’Oberkommando der Wehrmacht (OKW) ha assorbito con apparente calma la defezione italiana e ha approntato le contromosse diffondendo la parola d’ordine “Achse” che prevede la neutralizzazione del Regio esercito.

B

adoglio dopo la tappa all’Eiar va al ministero della guerra in via XX Settembre, dove si ritrovano i vertici dello Stato a eccezione di Guariglia che, essendo un ministro “civile”, non viene neppure coinvolto. Tra poco lo “dimenticheranno” a Roma, come nulla fosse. Verso le 21 arrivano anche Vittorio Emanuele III e la regina Elena . Alcuni corazzieri giunti col re fanno la guardia dabbasso. Tra gli ultimi a giungere al ministero ci sono il principe Umberto e il capo di stato maggiore, generale Roatta, che aveva smentito all’addetto militare dell’ambasciata tedesca, generale Toussaint, l’annuncio dell’armistizio. Roatta si trovava a pochi metri dal ministero, a Palazzo Caprara. Era in borghese. Avrebbe potuto e dovuto rendere operativa la Memoria OP 44 sulla scia delle notizie delle mosse tedesche e dei primi scontri a fuoco, ma non lo fa. L’ambiguità del messaggio di Badoglio viene sublimata alle più paradossali conseguenze: le truppe italiane sono autorizzate a reagire se attaccate, ma non hanno l’ordine di attaccare per prevenire l’iniziativa tedesca, e in ogni caso non hanno il via libera a un piano strategico che pure sulla carta c’è. Anzi, in realtà sulla carta non c’è proprio più, anche se esiste il suo contenuto: l’OP 44 è stata diramata, fatta imparare a memoria e bruciata. Roatta si reca al ministero alle prime ore del mattino del 9 settembre, capovolgendo il quadro semi-ottimistico che era stato fatto al sovrano nella sera del giorno prima. I tedeschi non stavano affatto ripiegando, avevano in mano il bandolo della matassa e stavano sistematicamente avvolgendo il filo degli avvenimenti. Quanto patetica e da commedia dell’arte, in un umorismo sicuramente involontario, era stata la tronfia affermazione del generale Carboni che si era detto pronto a inseguire i tedeschi in ritirata! Il generale Sorice rei-

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Un’economia rasa al suolo

I

l fronte ristagnò in Abruzzo otto mesi. Nel giugno 1944 i tedeschi abbandonavano l’Abruzzo. La struttura economica e produttiva della regione risultava profondamente sconvolta: il dramma che allora visse la popolazione era reso ancora più pesante dal fatto che si trattava di una economia già di per sé debole, costruita con fatica e sacrifici nei decenni precedenti. L’agricoltura che costituiva la principale attività, occupando nel censimento del 1936 oltre il 72% della popolazione, fu il settore economico che registrò i danni più ingenti per un valore complessivo (compreso il Molise allora aggregato all’Abruzzo nei censimenti) che sfiorava i 12 miliardi di lire. Quasi la metà di questa enorme cifra proveniva dalla sola provincia di Chieti. In effetti, nel Chietino le intense e prolungate operazioni di guerra (linea Gustav) devastarono l’agricoltura e le risorse boschive del medio e alto Sangro (risultavano distrutti o danneggiati oltre 12 mila ettari di bosco). Anche la fascia collinare e costiera fu colpita duramente,

con un calo della produttività che in alcune aree raggiungeva il 40%. Il quadro della situazione peggiorò ulteriormente durante la fase della ritirata dei tedeschi che, come è noto, praticavano il sistema della «terra bruciata». Peraltro, la guerra distrusse l’intero sistema infrastrutturale dei Consorzi di bonifica, frutto di ingenti investimenti pubblici e privati negli anni Trenta: rete viaria, ponti, silos, case coloniche. Ancora una volta, i più colpiti furono i comprensori della provincia di Chieti (Consorzio di Bonifica del SangroAventino, Alto Sangro, Basso Trigno, Canale del Littorio), con danni stimati in oltre 50 milioni di lire, mentre negli altri consorzi (Valle del Tirino, Tavo-FinoSaline, Tronto) le distruzione furono meno pesanti. L’esempio del frumento, la più importante tra le colture primarie, aiuta a comprender meglio l’entità del disastro che allora si abbatté sull’agricoltura abruzzese. La produzione subì nel 1943-1944 un calo di circa il 30%, la resa per ettaro subì un rallentamento che in alcune zone

(circondario di Palena, area del Foro, litoranea di Ortona) arrivò al 60%. Cali consistenti si registrarono anche per altri prodotti, granoturco, patate, barbabietole e le colture pregiate, vite e olivo. In particolare, in Abruzzo vennero divelte 7 milioni di viti, danneggiate oltre 4 milioni. Le piante di ulivo distrutte furono oltre 260 mila, danneggiate oltre 230 mila, su un patrimonio olivicolo di circa 4 milioni di piante. Tuttavia, la catastrofe di maggiore portata si ebbe nel settore zootecnico. Nel 1944, tra massacri e deportazioni di bestiame (quasi 40.000 mila capi di soli bovini razziati da tedeschi, di cui la metà nel Chietino), il patrimonio zootecnico dell’Abruzzo si era ridotto di oltre il 30% rispetto alla situazione, peraltro precaria, del 1942. In alcune zone del Chietino, la distruzione degli animali fu totale, nell’Aquilano si registrò una diminuzione di oltre 100 mila capi di ovini su un totale di mezzo milione, di 15 mila bovini su 34 mila. Il numero dei fabbricati e delle aziende rurali distrutti fu gigantesco: 21 mila (circa 17 mila vani), oltre 110 mila ricoveri per bestiame. Due episodi emblematici evidenziano il disastro dell’agricoltura e della zootecnia abruzzese. Nell’estate 1944, il poco latte a disposizione per nutrire i bambini (la maggior parte delle vacche era stata razziata o ammazzata dai tedeschi) fu trattato con l’aggiunta di acqua ossigenata per garantirne la conservazione durante il trasporto. Sempre nel 1944, il podestà di Chieti emanò un ordine per cui i proprietari di galline erano obbligati a consegnare le uova, in caso di inadempienza gli animali sarebbero stati requisiti. Marcello Benegiamo 27


LE DUE FUGHE

tera il sollecito a far partire il re, Ambrosio non la pensa così e rimette la decisione nelle mani di Badoglio. Roatta, col suo scenario catastrofico, smorza ogni velleità - se pure esistesse – di resistenza, sostenendo che Roma può essere tenuta per poco, quindi l’allontanamento dei vertici dello Stato è da imbastire subito, o non ce ne sarà più il tempo. Vittorio Emanuele, come una sfinge, non si mostra entusiasta dell’idea di andar via ma se ne assume la responsabilità. Si parte, dunque. Roatta, tornato a Palazzo Caprara, vagheggia la creazione di un nuovo comando generale a Carsoli, nell’Aquilano, e ordina allo stato maggiore di trasferirsi lì; dovrebbe pensare a difendere Roma, si limita a far spostare alcune divisioni a Tivoli. Poi è lui a spostarsi, in automobile, verso Pescara.

S

ulle auto di servizio si raccoglie quanto di utile si può portare via, il necessario e il superfluo. C’è una sola via sicuramente non controllata dalla Wehrmacht, la Tiburtina Valeria, che conduce a Pescara. Nella città dannun-

Giacomo Carboni

«Bell’uomo, cinquantaquattrenne, vigoroso e snello, baffetti neri, occhi scuri, assomigliava a Douglas Fairbanks. Alpino, ma appassionato di equitazione, mondano, amante delle belle attrici, 28

frequentava i salotti e gli ambienti politici più che le caserme, e gli uffici degli uomini importanti e dello stato maggiore che i campi di addestramento e di battaglia. (…) Sarebbe stato, a guardarlo, persona assai simpatica e gradevole, se non avesse avuto quell’aria spavalda da attore che fa il generale, o da generale che fa l’attore». Così Domenico Bartoli descrive Giacomo Carboni in “L’Italia si arrende” (Editoriale Nuova, 1984, p. 97). Nelle sue mani erano state fatte confluire assurdamente le cariche di capo del SIM (Servizio informazioni militari) e del Corpo motocorazzato a difesa di Roma. Della sua condotta si ricorda la frase pronunciata davanti a Vittorio Emanuele la mattina del 9 settembre: «Maestà, se i tedeschi si ritirano sono pronto a inseguirli». Una battuta davvero degna di un attore, ma i tedeschi non si sarebbero affatto ritirati. E quel giorno non si girava un film.

ziana c’è un porto e c’è un aeroporto: una volta lì, si deciderà in quale modo raggiungere il territorio italiano dove i tedeschi non sono presenti e, soprattutto, non si combatte. Combattere dovrebbe essere il verbo da coniugare, per il riscatto di valori negati dal fascismo, ma che il corteo di fuggitivi allontana da sé come un fantasma incombente. Neanche all’esercito, disseminato in mezz’Europa, è stato detto nulla. In verità un ordine in previsione del rovesciamento di fronte, la già citata Memoria OP 44 (OP sta per ordine pubblico, nell’ennesimo camuffamento dei contenuti), è stato impartito, ma senza renderlo operativo. E i comandi italiani, per tradizione e lassismo di un esercito dove il più delle volte si faceva carriera per censo e anzianità di servizio e non per meriti effettivi, non brillano certo per spirito di iniziativa. Alcuni di loro non hanno neppure ricevuto l’OP 44, soprattutto nelle zone d’occupazione balcaniche e nella Francia meridionale. Senza ordini operativi inequivoci sono 82 divisioni, 12 brigate, 2 reggimenti, 6 Gruppi operativi. In Albania, Erzegovina, Jugoslavia, Montenegro, Egeo, Francia meridionale, Corsica, 900.000 uomini stanno per ritrovarsi tra due fuochi, quello dei vecchi e quello dei nuovi nemici. Nella Memoria OP 44 sono sì contenute le linee d’azione contro i tedeschi, ma si trattava di dinamite cui non era stato fornito l’innesco. L’innocuità si sarebbe trasformata in disorientamento, il disorientamento in sbando. Quando alle 6.30 del 9 settembre viene diramata la notizia che il re, il Comando supremo e i capi di stato maggiore avevano lasciato Roma, i comandi militari hanno la sola opzione di regolarsi come meglio credono: c’è chi attacca, chi aspetta, chi viene attaccato. I tedeschi, passato il primo momento di sbigottimento, hanno reagito con prontezza. Al generale Student, comandante del XI Fliegerkorps, sono bastati una cartina militare, un dito e due parole - «domani mattina» - per indicare ad alcuni comandanti di reparto della 2ª divisione paracadutisti le operazioni di disarmo della 103ª divisione italiana di fanteria Piacenza che si frappone sulla via di Roma. Un pesce piccolo, nella rete del fondatore del Corpo dei paracaduti-

flashback

VITTORIO EMANUELE III FA IL PUNTO DELLA SITUAZIONE CON IL MARESCIALLO PIETRO BADOGLIO.

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LE DUE FUGHE

VITTORIO EMANUELE III

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sti, che tratta con sufficienza. Il pesce grosso, infatti, ce l’ha ormai a portata di mano a Campo Imperatore: Benito Mussolini. Hitler stesso gli si è raccomandato, conoscendo l’abilità dei suoi uomini, il loro alto grado di addestramento, la capacità di sbrogliare le situazioni più intricate. E’ il momento di affidare l’incarico operativo del “Fall Eiche”, l’Operazione Quercia che cela una delle azioni più misteriose della seconda guerra mondiale. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, che pure comanda l’intero scacchiere centromeridionale del fronte italiano, non sa neppure che ci sia l’intenzione di liberare Mussolini. Quel giovedì 9 settembre una colonna d’auto muove da Roma verso l’Abruzzo, col suo carico di Savoia, di militari, di frammenti di Governo di uno Stato che sta andando a brandelli. In edicola, anche se portano a titoli di scatola in prima pagina la notizia dell’armistizio, i giornali pubblicano il bollettino di guerra 1201 a firma di Ambrosio sui combattimenti dei reparti italiani e tedeschi per arrestare l’avanzata britannica in Calabria. Prima di andar via da Roma Vittorio Emanuele si è rivolto al generale Carboni, che dovrebbe sbarrare la via di Roma ai tedeschi, dicendogli: «Siamo nelle sue mani». La Wehrmacht e i paracadutisti penetrano nella Città eterna attraverso le vie consolari, appena infastiditi dalle sacche di resistenza che pure ci sono e sono lodevoli, come testimoniano i combattimenti ingaggiati dalla divisione Ariete, dai Granatieri di Sardegna, dalla Piave, dai Lancieri di Montebello, dalla Sassari, dalla Nembo. I nebulosi ordini di Carboni, la sua presenza a corrente alternata, non erano tali da trasformare la tenacia delle truppe in capacità di successo. Questo farà nascere la favola postuma che Carboni abbia assicurato in qualche modo l’accesso a Roma in cambio del via libera del corteo reale per Pescara. Una “favola”, appunto, perché non ci sono prove storiche di un patteggiamento del genere. Kesselring era un osso duro e i suoi comandanti sapevano benissimo cosa fare e come farlo. Carboni farà perdere le sue tracce, ancora una volta, mentre i tedeschi entravano a Roma da conquistatori: non si assumerà neppure la

U

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responsabilità di firmare l’atto di resa.

n castello che deve il suo nome più alla forma che all’imponenza, quello che si apre alla prospettiva del primo autiere della colonna reale. Crecchio è un paese piccolo, tra Chieti e Ortona, eletto a buen retiro dai duchi di Bovino, che sono anche baroni di Crecchio. Lui, Gianni de Riseis, è stato podestà di Napoli e senatore; lei, Antonia Caetani, è una delle dame di compagnia della regina Elena. Ambedue, con la figlia Teresa e i cinque figli, hanno lasciato Napoli, a rischio di bombardamento, per quel centro abruzzese dove sta per abbattersi una “bomba” più deflagrante dell’artiglieria navale britannica o degli ordigni delle Fortezze volanti americane. La prima auto a fermarsi è quella del principe Umberto, il primo a uscire dall’abitacolo è il suo aiutante di campo, Francesco Campello. Ma è il principe a chiedere a una ragazzina se la duchessa di Bovino sia in casa. «Sì, la nonna è qui», dice, e corre ad avvisarla. Sono da poco passate le 10. Quando riferisce che dabbasso c’è l’erede al trono non le credono subito. Arrivano intanto anche Vittorio Emanuele III ed Elena. La duchessa Antonia si precipita ad accogliere la regina. Nel cortile è un brulicare di auto e di divise grigioverdi. La servitù viene allertata. I duchi di Bovino cedono la loro camera da letto ai reali per farli riposare dal viaggio. Viene allestito in tutta fretta un pranzo. Il cuoco Aquilino Beneduce si ingegna tra i fornelli per servire nel migliore dei modi quegli ospiti inattesi e di così alto rango. Beneduce ha fatto miracoli scodellando nove portate degne di un pranzo preordinato, tra consommé, trota salmonata, petto di tacchino alla sella di capriolo, mousse di prosciutto con contorno di fagiolini, scelta di formaggi, dolce. L’abilità del cuoco di Villa Santa Maria è degna di miglior causa: i Savoia e i loro accompagnatori avrebbero ben pochi motivi per dedicarsi ai piaceri della tavola ma il re, alla fine del pranzo, si complimenta con Beneduce, tramite la duchessa Antonia. Ha gradito assai quel che il cuoco villese ha preparato. Per lo chef è un altro fiore all’occhiello: ha deliziato i palati del re Alfonso di Spagna,

L’ABRUZZO

«

DEL

1943

Una scuola a regime

Il maestro deve essere, fra tutti, il mezzo più poderoso per utilizzare e far fruttificare, nella pace e nel lavoro, i benefici della civiltà. La civiltà, in quello che ha di sostanzialmente buono, spiritualizza il lavoro, lo eleva a mezzo di conquista di beni più alti. Nel centro rurale il maestro preparato e innamorato del proprio ufficio, ricco di cultura e di fede, specchiato nei costumi, contento del proprio stato, è la sola persona che possa mettere in valore i nuovi mezzi di una vita più larga, creando intorno a sé una più viva coscienza e un più ricco sentimento nazionale e universale. Si deve anzi dire che la stessa più complicata e molteplice funzione del maestro rurale lo libererà dai molti limiti ed impoverimenti della vita professionale che, in ambienti più popolosi in cui vige la legge della divisione del lavoro e della specializzazione, tende a ingrettirsi nella tecnica miope e nella fatua superbia pedagogica. L'importanza che assume la scuola rurale deve conciliare i giovani maestri con se stessi, a sentire altamente la dignità del proprio ufficio e la poesia della campagna, nella quale attendono ad un'opera apprezzata e onorata nella misura della sua utilità e dell'amore zelante che vi mettono coloro che vi sono destinati».

Edoardo Predome, L’educazione rurale, 1938.

Parole in consonanza con le tesi espresse da Giuseppe Bottai nella Carta della Scuola rurale promulgata nel 1940. L’educazione scolastica si configurava in questi anni quale strumento privilegiato con cui render nota e divulgare l’ideologia del regime: era cioè un mezzo di propaganda politica. In un testo di didattica dedicato agli insegnanti, risalente a questo periodo e molto diffuso anche in Abruzzo, appare evidente il legame inscindibile tra scuola e potere; nel volume, L’educazione rurale di Edoardo Predome, si legge infatti che il maestro deve «imparare a parlare con i contadini per vincere le molte loro riluttanze nel secondare i saggi provvedimenti governativi, a vincerne la diffidenza e la grettezza, adoperate spesso in proprio danno». È, dunque, lecito esprimersi, a proposito dell’educazione scolastica, in termini di utilizzo per fini che estraniavano dallo stretto campo della preparazione culturale. Lo scolaro doveva formarsi per divenire un buon soldato, a «credere, obbedire e combattere». L’irreggimentazione della gioventù iniziava già tra i banchi di scuola, là dove le rigide regole miravano all’introiezione dei valori rappresentativi del Partito: la disciplina e la sottomissione al più forte che, nella realtà delle classi, coincideva con la figura del maestro. Nelle scuole abruzzesi le lezioni si svolgevano all’interno di edifici poveri, in aule arredate in modo essenziale entro le quali a una semplice cattedra si accompagnavano qualche banco con calamaio e delle sedie. Le pareti ricalcavano le iscrizioni di chiara e voluta ispirazione fascista: vanno

ricordati, a tal proposito, il motto «Credere, obbedire, combattere» e «È l’aratro che traccia il solco, ma è la spada che lo difende». La scuola elementare era il grado d’istruzione cui il Fascismo riservava un’attenzione costante, in quanto primo gradino del processo di indottrinamento e, di conseguenza, anche il momento educativo più importante per il raggiungimento degli obiettivi formativi del futuro “valoroso” cittadino. I libri di testo, i manuali, i libri di lettura, i sussidiari e persino gli stessi libri di aritmetica venivano redatti ad hoc da una commissione predisposta a tal fine già dal 1929, quando con la Legge n. 5 del 7 gennaio si stabilirono le norme di compilazione del Testo unico di Stato nelle elementari: un solo testo per le prime due classi e due testi (libro di lettura e sussidiario) per le tre classi rimanenti, soggetti ogni tre anni, inoltre, a un’ attenta revisione. La consapevolezza, tuttavia, che non fosse sufficiente per la diffusione delle idee del regime l’imposizione di testi unici, esortò ad affiancare a essi istituzioni di supporto, come l’Opera nazionale balilla, e una più efficace opera di propalazione operata dai maestri. La rassegna del materiale didattico in uso nelle istituzioni scolastiche abruzzesi nel 1943 costituisce un prezioso veicolo di indagine dei metodi e delle strategie pedagogiche di un regime totalitario che ha dato prova di ingegno nell’azione di indottrinamento e della abilità di insinuarsi in tutti gli aspetti della vita civile. Tutto veniva adulterato, la didattica appariva manipolata: il fascismo, però, non riuscì a radicarsi indelebilmente nelle coscienze!

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della regina del Portogallo, di Amedeo d’Aosta, dei trasvolatori Italo Balbo e Francesco De Pinedo, dello scienziato Guglielmo Marconi. E di Benito Mussolini, che pare gli abbia detto: «Voi con la vostra arte avete conquistato il mio stomaco, io con la mia politica conquisterò il mondo». Non è andata proprio così, e quel pranzo a Crecchio lo conferma.

B L’INGRESSO DELL’’AEROPORTO PASQUALE LIBERI DI

PESCARA DOVE SI TENNE IL CONSIGLIO DELLA CORONA IL 9 SETTEMBRE 1943.

IL MOLO MARTELLO DEL PORTO DI ORTONA DA DOVE NELLA NOTTE DEL E PARTE DEL

BRINDISI.

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9 SETTEMBRE LA FAMIGLIA REALE

GOVERNO SI IMBARCANO PER RAGGIUNGERE

adoglio, alle caute domande dei duchi che vorrebbero orientarsi nella successione degli avvenimenti, risponde solo che sta portando in salvo il re e che tra una ventina di giorni al massimo saranno tutti di nuovo a Roma. Quanto a Mussolini, di cui si sta assolutamente disinteressando (tant’è che non ha impartito nessun ordine al riguardo), accenna appena che forse i suoi, a questo punto, lo libereranno. Più facile che lo facciano i tedeschi, che non i fascisti. De Riseis e la moglie non sanno affatto che il Duce si trova a poche decine di chilometri in linea d’aria da Crecchio. Tutti i raggi di questi convulsi momenti della storia d’Italia convergono verso l’Abruzzo. Nelle prime ore del pomeriggio gli ospiti risalgono in auto e lasciano il castello. La loro destinazione è adesso Pescara: hanno avuto garanzie che la zona è tranquilla e sotto controllo italiano. Il ministro della marina Raffele de Courten si presenta al Comando di zona per approntare le misure militari di sicurezza. Un’intera divisione di fanteria, la “Legnano”, che è in transito per raggiungere il fronte meridionale, viene fermata nel Chietino. E’ lo stesso Ambrosio a impartire l’ordine al generale Roberto Olmi, incaricandolo di blindare tutta la fascia che da Chieti abbraccia la costa tra Pescara e Ortona. Ma il comando viene assunto formalmente dagli ufficiali provenienti da Roma. Le strade di accesso in tutta l’area sono sbarrate e le comunicazioni telefoniche interrotte. Alcune vedette vengono mandate in pattugliamento al largo dei porti e qualche aereo si leva in volo in ricognizione. De Courten ha chiesto l’invio da Pola e da Brindisi delle corvette “Baionetta” e “Scimitarra”, mentre all’incrociatore “Scipione” sono state fatte levare le ancore da Taranto e muovere verso il medio Adriatico.

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Sembra che tutto funzioni, che qualcuno sia riuscito a mantenere ancora il sangue freddo. Il corteo di auto partito da Crecchio muove verso l’aeroporto di Pescara, un centro di addestramento finora del tutto al di fuori dagli eventi bellici e senza particolare importanza, tanto che è stato risparmiato dai bombardamenti. Negli hangar sono parcheggiati alcuni vecchi e disarmati Ro 41 e Breda 25 per la scuola agli allievi piloti. In mattinata è arrivata da Ciampino una squadriglia di moderni caccia Macchi 205 “Veltro” al comando del maggiore Maurizio Ruspoli. Nell’aeroporto ci sono poche decine di avieri, pochissimi ufficiali. Il comandante, tenente colonnello Raffaele Martinetti-Bianchi, non c’è. Il re viene accolto dall’istruttore del corso allievi ufficiali piloti “Ippogrifo ‘43”, Rodolfo Popper, dal capitano Alfredo Castiglione e dal tenente Enzo Caglianone. All’aeroporto si tiene il Consiglio della corona. L’intenzione è quella di raggiungere una città del sud dove non ci sono i tedeschi, ma dove non ci siano neppure gli Alleati, per salvare le apparenze e non dare l’idea che si cerchi la tutela della armi straniere, e la scelta è tra Bari e Brindisi. Su Bari, però, le notizie sono contraddittorie. Un trasferimento in aereo non è pensabile, per una serie di considerazioni pratiche e di comodo. Non ci sono velivoli da trasporto negli hangar, la Regia aeronautica – ma questo non lo si dice esplicitamente – è un’Arma “infida” perché deve la sua creazione al fascismo, sono troppe le persone del seguito reale, l’aeroporto è stato sorvolato appena il giorno prima da un ricognitore tedesco che magari potrebbe essere il preludio a un bombardamento. Si prende come scusa il fatto che la regina soffre il mal d’aereo e si opta per il trasferimento via nave. L’imbarco sarà a Ortona. Le corvette “Baionetta” e “Scimitarra” sono già in marcia d’avvicinamento. La seduta viene sciolta e il re si congeda dagli ufficiali dell’Aeronautica dicendo che si sarebbero rivisti entro otto, dieci giorni al massimo. Si risale in auto. Dove andare, nel frattempo, se non a Crecchio? Il corteo si allontana lungo la Tiburtina che, contrariamente a quanto sostenuto da alcuni nel dopoguerra, non IL CASTELLO DI CRECCHIO.

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Mario Roatta

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aveva visto neppure l’ombra di una colonna tedesca. Alla duchessa di Bovino per poco non viene un colpo quando vede nuovamente le vetture reali. Aveva dato ordine al giardiniere di chiudere il cancello del parco e l’uomo adesso non si trovava. Finalmente le chiavi spuntano fuori. La regina, assai contrariata, si rivolge alla sua dama di compagnia in francese. Antonia Caetani apprende che l’aeroporto di Pescara sarebbe in mani tedesche e che quindi si sarebbero imbarcati tutti in serata da Ortona. Il principe Umberto, che più volte ha sollevato il dubbio di dover tornare a Roma e combattere, per la dignità, per la dinastia ma soprattutto per l’Italia, è stato messo all’angolo dalla madre, dal re e da Badoglio. Elena gli ha detto che se fosse andato l’avrebbero ucciso, Badoglio, come suo superiore, gli ha impartito l’ordine di rimanere, Vittorio Emanuele gli ha ricordato che in Casa Savoia si regna uno alla volta. L’ultima briciola di credibilità e di riscatto della monarchia viene gettata così al vento. «Mon père ne veut pas, ne veut pas» confida Umberto alla duchessa

Decorato due volte nella prima guerra mondiale, successivamente addetto militare nelle ambasciate di Varsavia, Tallin, Riga e Helsinki, Mario Roatta (Modena 1887 – Roma 1968) è posto a capo del SIM (Servizio informazioni militari) nel 1934; nel 1936 è al comando del corpo di spedizione italiano in Spagna, ed é sostituito dopo la sconfitta di Guadalajara. Nel ’39 è generale di corpo d’armata, due anni dopo è Capo di stato maggiore dell’esercito. Messo al comando di un’armata in Jugoslavia e poi in Sicilia, nel ’43 è di nuovo Capo di stato maggiore. In borghese segue Badoglio e Vittorio Emanuele nella fuga di Pescara lasciando Carboni a dirigere la difesa di Roma. A fine novembre 1944 gli Alleati pretendono sia sottoposto a procedimento da parte dell’Alto commissario per le sanzioni contro il fascismo e da parte della Commissione che deve giudicare la mancata difesa di Roma. Mentre è ricoverato in ospedale riesce a fuggire e a riparare in Spagna. Condannato in contumacia a 30 anni di reclusione, nel ’48 la pena viene revocata, ma Roatta tornerà in Italia solo nel 1966.

I

di Bovino. E se il padre non vuole, non si fa. Savoia hanno dovuto incassare lo scacco di un’accoglienza non propriamente entusiastica all’aeroporto di Pescara, e non possono fare a meno di notare che i crecchiesi, al di là del castello, manifestano chiaramente il desiderio che se ne vadano il prima possibile, altrimenti i tedeschi faranno pagare a loro e al loro paese quell’ospitalità piombata all’improvviso e foriera di sciagure. Vittorio Emanuele inganna il tempo passeggiando nel parco assieme al generale Puntoni e a Teresa de Riseis, e riesce, lui così freddo e asettico, anche a fare una macabra battuta: «Chissà a che albero mi impiccherebbero i tedeschi». Badoglio, in precedenza, ha ripetuto più volte, quasi sussurrando: «se i tedeschi ci prendessero ci taglierebbero la testa». I tedeschi sono uno spauracchio. La regina, intanto, ha consegnato alla duchessa di Bovino un sacchetto contenente alcuni gioielli, con la preghiera di serbarli perché sono ricordi di famiglia. Saranno riconsegnati ad Amalfi nel 1944: a quell’epoca il castello di Crecchio non esisteva più perché dopo essere stato occupato dai tedeschi era stato bombardato e parzialmente distrutto. E’ notte fonda quando alla luce delle fiaccole gli ospiti risalgono in macchina e partono. Destinazione Ortona. Dopo pochi chilometri il corteo viene fermato a un posto di blocco. Lo comanda il capitano dei carabinieri Alberto Migliorati, che è stato avvisato di un’operazione segreta in atto e ha detto ai suoi uomini di stare all’erta per prevenire un colpo di mano dei tedeschi. L’automobile di Umberto sorpassa le altre e si porta nei pressi dell’ufficiale; il principe si fa riconoscere e gli dice: «Capitano, la vita del re è nelle vostre mani». Migliorati non ha dubbi: «Sono agli ordini di Sua maestà e di Vostra altezza», sale a bordo della vettura e divide il tragitto col principe ereditario. I loro destini si separeranno sul molo di Ortona, ma i due si rivedranno il 2 giugno 1946 a Roma quando Umberto andrà a trovare il capitano ricoverato in ospedale per testimoniargli la sua riconoscenza.

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L’ABRUZZO

DEL

1943

Libro e moschetto

L

a realtà scolastica abruzzese negli anni ’40 riflette il connubio, stabile e affermato in tutta la Penisola tra istruzione e regime fascista. Il Dicastero dell’Educazione nazionale faceva della scuola un elettorato da inserire pienamente entro il panorama autocratico del Fascismo che, attraverso ministri non sempre felicemente ricordati, come nel caso di Cesare Maria De Vecchi, esercitava l’invadente diritto di censura e, sul piano didattico, di totalizzante controllo. L’impianto scolastico era il frutto dell’abile snaturamento, operato attraverso una serie di "ritocchi" e sfociata nell’operazione di "bonifica fascista", di quella riforma liberale e idealistica con cui il ministro e filosofo Giovanni Gentile nel ’23 si riproponeva di potenziare le attività dello spirito. Anche nella regione abruzzese, dunque, erano gli insegnanti, cui si richiedeva o, meglio, si imponeva l’iscrizione al partito, a relazionare la situazione delle scuole e a presentare le attività educative progettate. Lo Stato si configurava quale supervisore attivo nel passare al vaglio l’intera vita educativa e

formativa del Paese, dal controllo dei programmi d’insegnamento al conferimento degli incarichi di supplenza e, prima ancora, al rifornire le biblioteche scolastiche di testi affini all’ideologia nazionale, di libri che avrebbero dovuto indottrinare la gioventù italiana, istruirla nel processo di crescita personale e cognitiva, senza peraltro concederle libertà di pensiero e di soggettività decisionale. Ed è così che, nelle classi elementari abruzzesi, in specie nelle quarte e nelle quinte, pane quotidiano di ripetizione corale risultavano il libro “Credere obbedire combattere” di Maria Luisa Berti, oltre chiaramente alla lettura degli scritti personali del Duce. I libri riproducevano fedelmente le vicende del regime e, affiancati da sussidiari, insistevano molto nel presentare quei valori e quegli ideali di cui lo stesso movimento fascista si serviva, tramite figure operanti nel tessuto sociale e culturale, per far proseliti. In altre parole, l’opera di propaganda politica passava filtrata anche per i libri e per i sussidiari che a scuola si leggevano: le caratteristiche regionali, l’ideale della vita contadina sana e formatrice di uomini forti e di virili combattenti, l’immagine del paffuto balilla, rispondevano ad una funzione di apostolato e di appoggio alla politica agraria e di rilevazione della contrapposizione con la inquieta società operaia e borghese. L’Abruzzo, da regione basata su un’economia prevalentemente agricola, fa registrare in questo periodo un tasso di alfabetizzazione basso rispetto al Nord del Paese, tuttavia superiore comparando i dati di scolarità con quelli del resto del Mezzogiorno. Gli iscritti al Liceo Classico nell’anno ’42/‘43 sono circa il 33%, all’Istituto

Tecnico il 30%, all’Istituto magistrale il 22%, all’Istituto Professionale il 5,2%, al Liceo Scientifico il 6,8%, al Liceo Artistico il 3%. Molti istituti secondari erano attivi nel territorio sin dagli anni ’20. Nel 1922, ad esempio, nasceva a Pescara la Scuola Industriale, i cui iscritti aumentarono notevolmente dal ’36 al ‘45 in seguito alla possibilità dei diplomati, cui la scuola rilasciava attestati di perito industriale, meccanico, elettrotecnico e chimico, nelle industrie locali e, in particolare, in quelle del territorio pescarese ricco di energia elettrica ricavata dalle centrali del Tirino e del Verde. La Scuola Industriale era unicamente maschile; le donne accedevano alla Scuola di Avviamento al lavoro, sorta nel 1928 e di pari durata triennale. La mutata fisionomia sociale e territoriale delle diverse province abruzzesi, l’esigenza di costruire nuove strutture stradali e di riparare ai danni delle inondazioni dei fiumi, la disposizione di materiale edilizio (vanno ricordate le fornaci Agostinone, Muzi e Forlani) determinarono la crescita di coloro che si iscrivevano alla sezione riservata ai geometri, nel cui iter didattico venne inserito anche il latino con un numero di ore settimanali pari a quello dell’italiano. È chiaro segno di quanto il regime avesse premura di conferire rilievo alle materie umanistiche e di insistere sul controllo dei rispettivi docenti, con la coscienza che le discipline storico-letterarie erano le più congeniali all’opera di indottrinamento dei principi ideologici nazionalisti e fascisti. Elsa M. Bruni

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LE DUE FUGHE

Vittorio Ambrosio

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a zona portuale di Ortona era stata perlustrata qualche ora prima da alcuni forestieri. Sembravano semplici civili, invece erano alti ufficiali del Regio esercito in borghese. Qualcuno è stato informato in segreto della loro presenza perché nel Municipio si rincorrono le telefonate che hanno un solo argomento: la dislocazione della corvetta “Baionetta”. Due impiegate comunali, Ada e Antonina Grilli, smistano e inviano comunicazioni da e per Roma, Brindisi, Taranto, Venezia, Bari. La nave della Regia marina di cui si attende l’arrivo dovrebbe essere già a Ortona, ma c’è un evidente ritardo che innervosisce le persone all’altro capo del telefono, e che evidentemente non devono essere di bassa forza, considerando il tono e le reazioni. All’imbrunire di quel 9 settembre nella zona del molo c’è una palpabile agitazione. Il maresciallo dei carabinieri Vincenzo Agostinone ha mandato poco prima un militare della Capitaneria a bussare alla porta di casa di alcuni pescatori ordinando loro di raggiungere immediatamente la banchina nord. Viene detto loro solo che c’è un’operazione segreta in corso, e niente altro, se non di avviare i motori dei pescherecci “Nicolina”, “Anna”,

Vittorio Ambrosio (Torino 1879 – Alassio 1958) viene decorato con la Croce dell’Ordine militare di Savoia nel 1941 per la sua condotta della guerra in Jugoslavia. Nel 1942 è Capo di stato maggiore dell’Esercito e quindi generale d’armata. Il I febbraio 1943 è Capo di stato maggiore generale (attuale Capo di SM della Difesa) e lavora per staccare le sorti dell’Italia dalla Germania nazista, premendo prima su Mussolini poi collaborando attivamente con la monarchia e con Badoglio. Pur tentando di far rientrare in patria il maggior numero possibile di soldati, tiene una condotta incerta e quindi segue Badoglio a Brindisi, dove sollecita i militari ad affiancare gli Alleati nella lotta contro i tedeschi. Nella seconda metà di novembre lascia l’incarico a Giovanni Messe ed è elevato al rango di ispettore generale del Regio Esercito dal quale si dimette alla fine di luglio del 1944.

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“Littorio”, “Dolia”, e della draga “Argo”. Poi sono stati spenti: occorreva sincerarsi del funzionamento e dell’efficienza. I pescatori sanno soltanto che è in corso un’operazione segreta: non dicono loro nient’altro e le loro domande mute restano senza risposta. Alle 21 è stato fatto risuonare l’allarme antiaereo per tenere la gente lontana. Si aspetta, nel brusio e nel clima elettrico, che arrivi qualcuno. La speranza è che non arrivino i tedeschi, perché lo sanno tutti che quelli sono i nuovi nemici, che non scherzano affatto e che da loro non c’è da aspettarsi nulla di buono, adesso che accusano gli italiani di tradimento. Nel buio della notte si intravede una luce in alto che serpeggiando si avvicina al molo, poi un’altra, poi un’altra ancora: sono i fanali schermati di alcune automobili. Un brivido corre nel silenzio dell’attesa. Se fossero mezzi tedeschi sarebbe la fine; il picchetto di marinai col moschetto sembra una patetica rappresentanza del millantato esercito degli otto milioni di baionette della retorica mussoliniana. Un esercito che già non c’è più.

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pescatori contano dieci, undici, dodici vetture, ma sono tutte Fiat e Alfa Romeo. Vengono da Crecchio, dove verso le 23 il generale Puntoni aveva avuto la conferma che la “Baionetta” era salpata dal porto di Pescara e stava arrivando a Ortona. La colonna aveva lasciato il castello dei duchi di Bovino e si era mossa verso la cittadina portuale. Da una Fiat 2800 sui cui parafanghi spicca il guidone azzurro con cinque stelle d’oro, esce un ometto con l’uniforme grigioverde: è Vittorio Emanuele III. In breve il molo brulica di ufficiali in divisa e in borghese, come il Capo di stato maggiore Mario Roatta che per sicurezza tiene un mitra a tracolla. Non c’è Badoglio, lo cercano con lo sguardo e domandano di lui, ma non c’è, non si trova. L’hanno perso di vista a Pescara e il Maresciallo non ha detto niente a nessuno sulle sue mosse. Il faro del molo di Ortona si accende e dal largo risponde la corvetta “Baionetta” che dopo un po’ getta l’ancora. E’ l’1.45. Il maresciallo Agostinone, che per quanto possibile ha il controllo delle operazioni, ordina di nuovo ai pescatori di

VITTORIO EMANUELE III E IL FIGLIO UMBERTO CONVERSANO CON GLI ALTRI FUGGIASCHI DELLO STATO MAGGIORE SULLA CORVETTA “BAIONETTA“.

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LE DUE FUGHE

Harald Mors

accendere i motori degli scafi e al capobarca Sebastiano Fonzi di fare rotta verso la corvetta. Badoglio e de Courten sono già a bordo, si sono imbarcati a Pescara, e adesso impartiscono le direttive per quelli che sono in attesa sul molo: solo trenta potranno salire, gli altri dovranno aspettare un’altra nave, la “Scimitarra”. Una notizia, quella che Fonzi fa rimbalzare a terra, che innesca il caos: tutti tentano di mettere piede su uno dei pescherecci con i motori accesi. Vittorio Emanuele viene quasi preso di peso e fatto salire sul “Nicolina”. «Presto, presto, Maestà, non c’è tempo da perdere, i tedeschi possono arrivare da un momento all’altro!». Il piccolo Savoia si lascia tra-

Divisione e combatte in Russia. Nel 1943, ormai maggiore e pluridecorato, è trasferito in Italia alla testa del Lehr-Bataillon per rilevare il maggiore Harry Herrmann, malato. E’ comandante responsabile del battaglione che compie l’impresa della liberazione di Mussolini, ma tutti i meriti gli vengono scippati da Skorzeny. E’ ufficiale di Stato maggiore della 2ª Divisione fino a gennaio del 1944, quando viene trasferito sul fronte russo, senza mai sapere se per punizione per le sue proteste mirate al ristabilimento della verità o per un normale avvicendamento operativo. Verso la fine della guerra è nominato ispettore capo della Scuola ufficiali paracadutisti di Goslar. Nel Robert, il padre di Harald Otto Skorzeny (Alessandria marzo 1945 è ufficiale di Stato maggiore della 3ª d’Egitto 1910 – Berg am See 2001), è prefetto della Divisione paracadutisti. Viene fatto prigioniero nella Gendarmeria del khedivé quando scoppia la prima sacca della Ruhr. A settembre viene liberato. Per alcuni guerra mondiale e la madre, originaria di Losanna, per anni vive facendo il maestro di ballo a Ulm, ma torna evitare l’internamento si trasferisce con la famiglia in in servizio appena ricostituita la Bundeswehr. Nel Svizzera. I Mors provengono dal Baden e dal XVII 1956 è assegnato all'Intelligence della Nato. Nel secolo hanno dato alla Germania ufficiali, avvocati e 1961 è promosso colonnello e il suo ultimo incarico è a funzionari dello Stato. Nel 1922 i Mors si Madrid. Si congeda nel 1965 e vive nella sua casa sul trasferiscono a Berlino. Harald a 18 anni compie i lago di Starnberg, scrivendo la storia della sua primi voli con gli alianti, entra nella Reichswehr come famiglia, dal capostipite al padre Robert. Il suo unico allievo ufficiale, quindi torna nella truppa e frequenta accenno alla liberazione di Mussolini è un rapporto la Scuola di guerra di Dresda. Nel 1934 è tenente degli anni ’50 che i servizi segreti americani hanno della Lufthansa e l’anno successivo della Luftwaffe. In accertato essere la reale narrazione dei fatti e il puntuale famiglia il nazismo non ha attecchito; il padre Robert racconto degli eventi, con i ruoli effettivi dei personaggi finisce nel mirino della Gestapo e lo stesso Harald viene che vi hanno preso parte. definito politicamente inaffidabile e la sua promozione a La verità storica è consegnata agli storici. capitano è bloccata. Nel 1940 è pilota da caccia e da bombardamento ma, dichiarato inabile ai voli d'alta quota, si arruola nei paracadutisti. Partecipa alla presa di Creta, diventa comandante di battaglione della 2ª 38

scinare dagli eventi più grandi di lui, ha borbottato più volte «a che serve? a che serve?». Umberto aiuta la regina Elena, altri militari scaricano valigie e pacchi dalle auto e li mettono sui pescherecci. Sul “Nicolina” c’è un giovanissimo aiuto motorista, Tommaso D’Antuono, che ha riconosciuto la regina Elena ma non lo dà a vedere; ha notato che la donna si regge a fatica sullo scafo e allora prende due cassette per il pesce e, dopo averle ripulite, le offre alla sovrana: «Sedetevi, signora. Starete più comoda». «Ma tu sai chi sono?», chiede Elena, ma il diciassettenne marinaio ortonese risponde di no. «Mi ricorderò di te», gli dice, e lo accarezza affettuosamente. Il “Nicolina” adesso accosta la nave da guerra. Sul molo sono rimasti quelli che non hanno trovato posto, e due vengono respinti da Badoglio e lasciati sul “Nicolina”. D’Antuono registra le loro lamentele e le loro richieste d’aiuto; addirittura vorrebbero che quel peschereccio facesse rotta verso sud, ma non c’è nafta nei serbatoi perché il carburante è razionato. A Ortona la folla rimasta a terra si disperde col suo carico di smarrimento, di paura, di incertezze e di sfiducia. Le divise vengono gettate via o barattate con anonimi abiti civili. La “Scimitarra” per cinque ore attenderà a Pescara che qualcuno si imbarchi, poi leverà le àncore verso sud. Gli ufficiali che si ritrovano a Chieti, al Distretto militare, il 10 settembre proclamano l’autoscioglimento dell’esercito e cercano riparo per lo più presso i piccoli centri del Pescarese, come Loreto Aprutino, Spoltore, Penne, Città Sant’Angelo, Torre de’ Passeri. Qui si procurano abiti borghesi e scompaiono, oppure cercano ospitalità a famiglie del luogo. E’ finita. Quello stesso venerdì Radio Stoccolma lancia la notizia che, nel rispetto delle clausole dell’armistizio, Benito Mussolini sarà consegnato agli Alleati in Nord Africa. Ma chi potrebbe consegnarlo? Gli italiani no di certo. Badoglio si è “dimenticato” del prigioniero, casualmente o intenzionalmente. Forse, ma questa è pura speculazione storica, ha fatto un calcolo ben preciso: meglio che se lo prendano i tedeschi, perché allora tutto quello che potrà dire contro di lui sarà avvelenato dal risentimento e dallo spirito di

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Arte prima e dopo

A

nche in Abruzzo, così come altrove, il secondo conflitto mondiale rappresenta lo spartiacque tra un “prima”, che diviene immediatamente vecchio, e un “dopo” che anticipa l’affermazione di nuovi valori. Nell’ambito delle arti figurative, la guerra e le sue drammatiche conseguenze segnano la deflagrante accelerazione di un processo evolutivo che conduce a una profonda innovazione dei linguaggi espressivi: da una visione ancora legata ai canoni della sensibilità tardo ottocentesca, a nuove linee di ricerca in sintonia con il dibattito culturale del tempo. La strada che realizza, anche nella nostra regione, l’affermazione di un sistema moderno dell’arte, si renderà evidente soprattutto dalla metà degli anni Cinquanta, contrassegnata però sin dall’immediato dopoguerra, dall’ansia di adeguamento ai parametri culturali internazionali e dalla nascita di numerose manifestazioni artistiche, prima fra tutte il Premio di Pittura “F. P. Michetti” di

Francavilla al Mare, istituito nel 1947. All’alba degli anni Quaranta, scomparsa la generazione degli artisti nati intorno alla metà dell’Ottocento, e con loro i grandi protagonisti del Cenacolo Michettiano, un capitolo importante della vita culturale abruzzese si era oramai concluso. Della vecchia classe sopravvivono Quintilio Michetti, fratello di Francesco Paolo, che muore proprio nel luglio del 1943 alla vetusta età di novantatrè anni, e Basilio Cascella, pittore e ceramista, poliedrica e vivace personalità artistica, deputato al Parlamento Italiano dal 1929 al 1934, che, ormai ottantenne, vive un’ultima e suggestiva stagione pittorica. Suo figlio Tommaso, costretto a lasciare la città di Pescara con i figli Andrea e Pietro, poco più che ventenni, immortala lo sfollamento dell’autunno 1943 in un dipinto ad olio eseguito proprio in quell’anno e oggi conservato presso il Museo Civico “B. Cascella” di Pescara. Molteplici ed eloquenti sono le personalità degli artisti abruzzesi, taluni di notorietà già riconosciuta, altri, più giovani, che si renderanno promotori dell’evoluzione linguistica del dopoguerra. In pittura: Giovanni Melarangelo, di Teramo dal lessico malinconico e intimista, Francesco Patella di Mosciano Sant’Angelo, Carlo Verdecchia di Atri, Giovanni Pittoni, nativo di Catignano, uno dei protagonisti del rinnovamento stilistico insieme a Nicola Febo, Gabriele Di Bene, e Giuseppe Misticoni, fondatore del Liceo Artistico di Pescara. Ancora a Pescara, vive e lavora l’autore delle decorazioni per le confezioni del Parrozzo e dell’Aurum, il pittore Armando Cermignani, che nel 1948 sarà eletto Senatore della Repubblica, mentre a L’Aquila è operante Fulvio Muzii, attento al tema sociale ed

esistenziale, così come a Sulmona il più giovane Italo Picini, presente alla prima Biennale di Venezia del dopoguerra. A Lanciano, nel 1943 rientra il pittore Federico Spoltore, fuggito da Roma pochi giorni prima dell’8 settembre, celebre ritrattista di Casa Savoia, dei potenti dell’epoca e dei principali avvenimenti storici documentati dall’Istituto Arti Grafiche di Bergamo, con cui collabora fino al 1942. Fra gli scultori, operano a Pescara Giuseppe Di Prinzio e l’ortonese Guido Costanzo, autore della facciata del Palazzo del Governo, a Sulmona Attilio Renzi e Giuseppe Bellei, a Penne Giuseppe Brindisi, padre del noto pittore Remo Brindisi, a Giulianova Alfonso Tentarelli. Tra gli artisti abruzzesi impegnati fuori regione, si segnalano: il vastese Nicola Galante, celebre xilografo, partecipe al Gruppo dei Sei Pittori di Torino, a Napoli lo scultore Ennio Tomai, a Como il pittore Italo De Sanctis, originario di Spoltore, a Roma lo scultore Nicola D’Antino, il pittore Nino Caffè, nativo di Alfedena, il pescarese Manfredo Acerbo, pittore, grafico e cartellonista cinematografico e lo scultore Venanzio Crocetti, che nell’anno 1943 lavora ai bozzetti per le decorazioni della Cappella della nuova Stazione Termini di Roma. Un caso a parte è quello del giovane Guido Montauti, nato a Pietracamela, un caposcuola del rinnovamento formale e stilistico in pittura: arruolato nella Resistenza francese, dopo essere evaso da un campo di prigionia nazista, manterrà con Parigi un vivo legame, come comprovano le recensioni critiche e le sue prime monografie edite in Francia. Maria Cristina Ricciardi

VITTORIO EMANUELE III DAVANTI AD UNA TELA DI FRANCESCO PAOLO MICHETTI.

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LE DUE FUGHE

Kurt Student

Kurt Student (Birkholz 1890 – Lemgo 1978) è considerato il teorizzatore e creatore dell’Arma dei paracadutisti. Entrato nella scuola militare di Potsdam, segue un corso di pilotaggio e partecipa alla prima guerra mondiale nell’aeronautica; nel 1916 è comandante di una squadriglia da caccia. Alla fine del conflitto è capitano, ma l’aviazione è stata sciolta con le clausole del trattato di Versailles. L’ostacolo viene aggirato con le scuole di volo a vela, che dovranno preparare i futuri piloti. Ma intanto, per cinque anni, Student deve tornare al reggimento di fanteria di appartenenza. L’ascesa di Hitler non l’entusiasma, ma il fatto che infranga il trattato di Versailles ricostituendo la Luftwaffe sì. Nel marzo 1933 è direttore della scuola di addestramento al volo, nel ’35 comandante del centro sperimentale del materiale di volo dove si formano tutti i migliori piloti della rinascente Luftwaffe. Sale di grado in grado e nel 1938 è comandante della VII divisione aerea Münster col grado di maggiore generale: qui si 40

vendetta. Di fronte a un tribunale alleato le accuse di Mussolini a Badoglio potrebbero avere invece tutt’altro peso. Badoglio, nella campagna d’Etiopia, quand’era all’apice della considerazione del fascismo, ha usato i gas per aver ragione degli abissini: atto esplicitamente vietato dalla Convenzione di Ginevra e considerato crimine di guerra. E quando il conflitto finirà i tribunali avranno il loro bel da fare per sanzionarne le aberrazioni. Meglio un Mussolini rancoroso sotto tutela tedesca, che un Mussolini disposto a tutto pur di salvarsi. Il discorso della salvezza a tutti i costi Badoglio lo cono-

forgiano le truppe parcadutiste. Lo scoppio della guerra è in anticipo sulla preparazione dei reparti, motivati e dall’alto grado di addestramento. Il 10 maggio 1940 i paracadutisti di Student conquistano il forte belga di Eben-Emael, ritenuto inespugnabile da tutti i vertici militari europei: bastano poco più di 80 uomini, perfettamente addestrati, per aver ragione di una guarnigione di oltre un migliaio di soldati. Il mondo resta a bocca aperta di fronte all’alto grado di preparazione delle truppe aviotrasportate tedesche. Il 14 maggio un cecchino olandese lo ferisce gravemente alla testa e per tutta la vita porterà una calotta d’argento per sostituire una scheggia del cranio. Promosso tenente generale a fine ’40, l’anno successivo coordina l’attacco aereo su Creta. Hitler, colpito dalle gravi perdite, non utilizzerà più i paracadutisti su vasta scala ma solo come fanteria altamente specializzata (in Africa, Russia, Italia, Francia) e per operazioni speciali, come la liberazione di Mussolini. Nel settembre 1944 è comandante del gruppo di armate H, ma viene sostituito da Blaskowitz al fianco del quale resta come vice. Nello stesso anno perde l’unico figlio, pilota della Luftwaffe.Cade prigioniero degli inglesi nell’aprile del 1945 nello Schleswig-Holsltein ed è liberato nel 1948; gli viene intentato un processo per non aver impedito crimini di guerra a Creta, ma in suo favore depone persino il generale neozelandese Inglis. I suoi nemici sul campo di battaglia gli hanno sempre riconosciuto cavallerescamente il valore e non hanno mai mancato di sottolineare la stima nei suoi confronti.

I

flashback

sce bene, avendolo messo in pratica tra l’8 e il 9 settembre. l silenzio di Badoglio dura due giorni. Sabato 11 settembre, da Radio Brindisi, il capo del Governo dà quell’ordine che non ha impartito quando avrebbe dovuto, se si fosse assunto la responsabilità del suo ruolo fino in fondo. Dalle gracchianti Radiobalilla e Radiorurale gli italiani ascoltano il Maresciallo che li incita a combattere contro i tedeschi, dando il crisma dell’ufficialità a quel che è ormai chiaro a tutti: il nemico adesso porta la divisa grigioferro germanica, non quella kaki o oliva degli Alleati. Battersi? E’ una parola. Chi ha colto con chiarezza l’evolversi degli avvenimenti l’ha già fatto, chi si è lasciato sorprendere da essi non può più farlo, perché i tedeschi hanno disarmato l’esercito e avviato soldati e ufficiali verso la Germania. Ma c’è qualcos’altro che i tedeschi si apprestano a fare.

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el pomeriggio il comandante del Lehbataillon della 2ª divisione paracadutisti si trova nella sua tenda nei pressi del Collegio Nobile di Mondragone e sta discutendo col suo aiutante, il tenente Hans-Joachim Kurt, su come utilizzare i camion Fiat, preda bellica del disarmo della 103ª divisione italiana di fanteria “Piacenza”. Il maggiore Harald Otto Mors viene a un tratto distolto dal trillare del telefono da campo; risponde Kurth il quale, ascoltate poche frasi, riferisce a Mors che il generale Student lo desidera urgentemente al quartier generale. Dall’altro capo del filo non è stato aggiunto null’altro. Ci dev’essere qualche incarico, come il disarmo di qualche grande unità di due giorni prima. Mors incrocia l’ufficiale di Stato maggiore Arnold von Roon e gli chiede se sappia qualcosa al riguardo, ma l’ufficiale ignora i motivi della convocazione, o forse non può dirgli niente; fatto sta che lo conduce al cospetto di Student. Il generale, dopo i saluti di prammatica, gli annuncia che il giorno dopo alle 7.30, col suo reparto, dovrà liberare Benito Mussolini che gli italiani tengono prigioniero sul Gran Sasso. Student si raccomanda sulla necessità di tenere segreto l’obiettivo della missione; sottolinea solo che

TRA IL RE E IL DUCE LE STRADE SI DIVIDONO PER SEMPRE.

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LE DUE FUGHE

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occorre fare in fretta, prima che l’ex Duce venga di nuovo trasferito vanificando i risultati della stressante caccia che i tedeschi gli danno da un mese e mezzo. A onor del vero, aggiunge, non si sa né quanti uomini tengano sotto sorveglianza Mussolini, né quale sia il loro armamento, né si conosce bene la morfologia della zona; a essere totalmente franchi, non c’è neppure la prova che il prigioniero si trovi davvero sull’Appennino abruzzese, ma siccome ormai non ci sono più rischi di innescare imprevedibili reazioni sul piano diplomatico, tanto vale tentare. Mors riesce a mascherare la sorpresa per un incarico che arriva da Hitler in persona; Student, che lo conosce bene e lo stima, gli dà un’ora di tempo per studiare il materiale di cui i tedeschi sono venuti in possesso, e approntare così un piano operativo che dovrà discutere con lui. Dopo essere uscito il maggiore cerca il capitano Langguth, che era stato ai suoi ordini qualche tempo prima, per visionare le fotografie scattate nel corso della ricognizione dell’8 settembre. Le immagini sono di scarso aiuto: non precisano se a Campo Imperatore ci sia una guarnigione a presidio di Mussolini, non forniscono indicazioni su cosa troveranno i paracadutisti una volta lanciati su quota 2.200. Il quadro è poco chiaro e assolutamente lacunoso, ma Student confida che se ne traggano tutti gli elementi utili all’azione. Langguth precisa che quel poco che sanno su tutta la vicenda di Mussolini è grazie a un capitano SS che per motivi di sicurezza va in giro con una divisa tropicale della Luftwaffe; Mors l’ha incrociato qualche volta e tutto quel che sa di lui è che veniva dal Quartier generale e aveva un incarico speciale. Langguth aggiunge che dev’essere un tipo ben addentro ai gangli del potere nazista, perché tutti i giorni si sente telefonicamente con i suoi referenti a Berlino, ovvero con Kaltenbrunner. Mors ha capito che si occupa di spionaggio, una fase che, a quanto pare, è ormai terminata. La parola passa ai soldati, per elaborare il piano d’azione e metterlo in pratica. Spetta a lui.

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n attacco al Gran Sasso non è dei più semplici. Non solo di tratta di operare a oltre 200 chilometri dalla base, ma il fronte abruzzese è scarsamente presidiato da soldati tedeschi, mentre quelli italiani, per quanto spaesati dall’armistizio, non sono numericamente trascurabili. E’ territorio nemico a tutti gli effetti. Le fotografie scattate a oltre 4.000 metri di quota non forniscono dati sul terreno di battaglia, e questo è un problema per le truppe paracadutate. Le informazioni in possesso dei tedeschi riguardano la funivia di Assergi, che copre un dislivello di un migliaio di metri, e la vallata. Nessun assalto può essere mosso via terra partendo dalla base della funivia, perché percorrere la mulattiera che si inerpica lungo la montagna richiede una marcia di ben 5 ore, improponibile sia per i tempi sia per il facile tiro al bersaglio dall’alto. Mancando poi l’elemento sorpresa, gli italiani, una volta avvistati i tedeschi, potrebbero tranquillamente prendere Mussolini e allontanarsi con lui lungo qualche sentiero facendo perdere le tracce. Tornato nella tenda di Student, Mors rileva che non è fattibile neppure l’ipotesi di un lancio di paracadutisti a causa dei forti venti in quota, delle correnti ascensionali e della presenza di un burrone vicinissimo all’albergo. Il rischio altissimo è, nella migliore delle ipotesi, la dispersione dei paracadutisti; nella peggiore, una strage. L’azione dev’essere combinata e prevedere il recupero del battaglione. Il maggiore propone uno sbarco di alianti DFS 230 davanti all’albergo, con la compagnia al completo del tenente barone Georg von Berlepsch, simultaneo a un blitz delle altre due compagnie alla base della funivia per isolare dal basso la struttura e portare poi eventualmente aiuto all’unità d’assalto. Preso Mussolini, le compagnie si riuniranno per tornare a Roma. Saranno schierati 370 paracadutisti. Student rivolge un’altra occhiata di studio alle carte, riflette un po’ e dà il parere favorevole; è d’accordo anche con la necessità di far slittare l’ora d’inizio dell’operazione, ma non di 24 ore come vorrebbe Mors, poiché teme che in quel lasso di tempo Mussolini venga trasferito o consegnato agli Alleati. Si agirà alle 14 del-

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L’ABRUZZO

DEL

1943

Povere biblioteche

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oco, molto poco si leggeva nell’Abruzzo degli anni ’40, sia in ambiti privati sia in ambiti pubblici. In linea di massima ciò era dovuto al ritardo nella costituzione di un universo editoriale e bibliotecario in Italia, e nel Mezzogiorno in special modo, e rispetto ad altri Paesi trova la sua ragionevole causa nella assenza di una specifica tradizione scientifica. A dare l’idea di tali difficoltà, e di quelle abruzzesi in particolare, val la pena ricordare cosa succedeva a Pescara in fatto di biblioteche. Nonostante l’attenzione che il fascismo riservasse, o sembrava voler riservare alla cultura, all’educazione e alla diffusione libraria, intese quali veicolo di propaganda del regime, gli Abruzzi e il Molise offrono negli anni ’40 un panorama di desolazione culturale e di impotenza formativa delle masse popolari. La stessa biblioteca provinciale “G. D’Annunzio” di Pescara, nella definizione di Raffaele Colapietra, si annovera tra quelle strutture del regime «che se ne andavano per conto loro, scoordinate, fini a se stesse». L’annuario delle biblioteche italiane degli anni a cavallo tra 1930 e il 1943, redatto da bibliotecari dell’associazione fascista della scuola,

evidenzia nella regione abruzzese una palese condizione di minorità dei centri culturali, con l’evidente disagio, se non impossibilità, da parte dei cittadini di entrare in contatto con la cultura. La biblioteca provinciale di Pescara fu inaugurata il 14 agosto 1934, a pochi anni dall’istituzione della città, con una cerimonia quasi del tutto taciuta dalla stampa locale e volutamente trascurata dalla popolazione pescarese, impegnata in quei giorni in manifestazioni di più evidente attrattiva: lo svolgimento di tre gare automobilistiche nazionali e la cerimonia di apertura del nuovo ospedale civile. Non solo. La scarsa partecipazione e il modesto spazio concesso alla cerimonia sono, la spia di una trascuratezza più profonda da parte della classe dirigente. Va notato, a tal proposito, che la classe politica fascista, così pure la sua ammirazione, era orientata non tanto verso il patrimonio librario, quanto invece su: oggetti, cimeli, manoscritti, donazioni e offerte di mecenati privati. Esempio ne è il discorso di apertura di Domenico Tinozzi, il quale largo peso tributò alla presenza nei locali della biblioteca del dipinto "La Figlia di Jorio" di Francesco Paolo Michetti, spiegandone la presenza

nella biblioteca con riferimento alla politica del ministro Giacomo Acerbo. La biblioteca sorgeva in un’area del Palazzo Verrocchio sito in corso Umberto I. Essa avrebbe dovuto configurarsi quale centro di alta cultura, distinta dalle altre biblioteche che costellavano la provincia: biblioteche private, come quella del barone Casamarte a Loreto Aprutino o quella pescarese di pietro spinosa, biblioteche scolastiche e, infine quelle popolari. Il nucleo iniziale della “G. D’Annunzio, si costituiva di volumi donati da Domenico Tinozzi, presidente della Provincia di Pescara e figura di rilievo per l’attenzione rivolta alla divulgazione culturale. Dopo il bombardamento del 31 agosto 1943, la biblioteca perse la funzione culturale svolta sino ad allora; in questo periodo non sono segnalati acquisti e incrementi di libri. In altri termini, la biblioteca finì per essere dimenticata. La vita culturale conobbe una sua ripresa solo dopo il luglio 1945, quando si tentò di recuperare i libri trafugati durante l’occupazione tedesca e la biblioteca si arricchì di circa 25.000 volumi, organizzati in sei cataloghi. Appartenevano per lo più, almeno i primi all’editrice Ulrico Hoepli di Milano e, in base alla politica degli acquisti di quegl’anni, popolavano in numero quantitativamente superiore la sezione scientifica e tecnica. Comparivano, inoltre, opere di narrativa e, meno, testi di dottrina fascista, periodici, collezioni.Infine, va necessariamente segnalata la prestigiosa sezione dannunziana. Elsa M. Bruni

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LE DUE FUGHE

Otto Skorzeny

Laureato a pieni voti in ingegneria meccanica al Politecnico di Vienna nel 1931, Otto Skorzeny (Vienna 1908 – Madrid 1975) già nel 1928 si era iscritto all’organizzazione nazionalista degli “Studentenfreikorps”. Nel 1932 prende la tessera del Partito nazista e nel ’34 entra nelle SS. Lavora come capo tecnico in un’officina di riparazioni automobilistiche e come dirigente in una fabbrica di telai ma nel ’38, quando l’Austria viene annessa al Reich, abbraccia la carriera militare. Nel ‘39 è Untersturmführer (sottotenente) SS in un reparto motorizzato e poi comandante di compagnia. Scoppia la guerra e fa domanda per arruolarsi nella Luftwaffe ma viene scartato e allora entra come ufficiale della riserva delle Waffen SS. Nel 1940 è richiamato per l’addestramento nella 1ª Divisione corazzata Waffen SS “Leibstandarte Adolf Hitler”, poi lo destinano al Reggimento di artiglieria della 2ª Divisione corazzata Waffen SS “Das Reich”. Ha il battesimo del fuoco nel ’41 in Jugoslavia. Trasferito in Russia partecipa alla presa di Brest-Litovsk. Per motivi di salute a 44

l’indomani, domenica, e si avrà così il tempo non solo di far arrivare la staffetta Heidenreich dalla Francia, con rimorchiatori e alianti, ma anche di consentire alla colonna di terra di prendere possesso della funivia. Resta da definire cosa fare di Mussolini una volta sottratto alla custodia degli italiani: non c’è dubbio che debba essere portato via al più presto e sotto scorta. Mors vorrebbe caricarlo su

fine ’42 è destinato ai servizi sedentari. La conoscenza diretta del Capo del Reichssicherheitshauptamt (Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, RSHA), l’Obergruppenführer Ernst Kaltenbrunner gli apre nuove prospettive di carriera. L’hauptsturmführer (capitano) è prescelto per guidare l’addestramento nella scuola di commandos aperta a Friedenthal, vicino a Berlino. Hitler gli affida personalmente l’incarico di trovare dove gli italiani tengano nascosto Mussolini dopo la destituzione. Skorzeny capisce che è l’occasione della sua vita e fa di tutto per proporsi come liberatore del Duce. Con i favori di Hitler è pluridecorato, diventa un personaggio ambito e temuto e ottiene di occuparsi di imprese spericolate, come la cattura del reggente di Ungheria Miklos Horty o l’allestimento di una Brigata di SS in grado di parlare perfettamente l'americano che seminò lo scompiglio nelle file statunitensi durante l’offensiva delle Ardenne nel 1944. A guerra finita, ormai colonnello, si consegna agli americani. Processato e assolto dall’accusa di crimini di guerra, è sottoposto a denazificazione. Il 27 luglio 1948 non aspetta neppure la sentenza e se ne va dal campo aperto dove veniva tenuto. Fa perdere le sue tracce. Nel 1950 è in Spagna, sotto la benevola protezione del regime franchista, e si occupa di import-export. Per qualche tempo si fa chiamare Robert Steinbauer. A Madrid si sposa una seconda volta. In seguito gli si attribuiscono ruoli mai troppo chiari in operazioni di spionaggio con gli arabi e con gli israeliani, ma ancora una volta la leggenda nasconde la storia: tutto perfettamente in linea con il personaggio che lo stesso Skorzeny aveva fatto di tutto per creare.

flashback

un blindato da porre al centro della colonna, nel posto più sicuro; Student opta per una soluzione più rapida: sarà il suo pilota personale, l’asso della Luftwaffe, capitano Heinrich Gerlach, ad atterrare davanti all’albergo con un agile monomotore Fieseler 156 Storch (“Cicogna”) e a portarlo via. Un secondo Storch, un aereo che richiede spazi brevissimi di atterraggio e decollo, prenderà a bordo un ufficiale con l’incarico di scortare il prezioso prigioniero. Student dice a Mors che Hitler in persona si è raccomandato per questa missione. Mussolini dev’essere sottratto agli italiani e agli Alleati, vivo o morto. La responsabilità è di Mors, adesso. L’Operazione Quercia prende corpo davanti a due sole persone, Student e Mors. Skorzeny non c’è e non sa nulla di tutto questo; ogni giorno si è recato da Student per fare il punto della situazione, ma il generale non lo ha mai messo al corrente di cose che esulassero dal suo incarico spionistico. Questa fase era esaurita, toccava adesso ai militari.

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ors mette telefonicamente in stato d’allerta il battaglione ma si astiene dal diramare ordini precisi ai comandanti di compagnia e men che meno l’obiettivo della missione. La segretezza è ancora assoluta. Kesselring, che pure comanda l’intero scacchiere militare, non sa neppure che esista un piano per liberare Mussolini e Student non ha mai fatto trapelare nulla di nulla durante incontri di vertice, pranzi o cene nel quartier generale di Frascati. Skorzeny, a rapporto da Student, viene informato che i paracadutisti sono in preallarme per l’Operazione Quercia; il generale lo ringrazia per il ruolo fin qui da lui svolto e sta per congedarlo, quando Skorzeny gli chiede la cortesia personale di poter comunque partecipare all’azione, assieme ad alcune SS, come una sorta di riconoscimento per il suo impegno nella caccia a Mussolini. Student in linea di principio non è contrario, ma ribatte che ne informerà Mors, il quale è responsabile della missione, e precisa che Skorzeny non dovrà assumere nessuna iniziativa né far pesare il suo grado; nel caso sarà aggregato alla compagnia di Berlepsch come “consigliere politico”, non

L’ALBERGO DI CAMPO IMPERATORE DALLA CARATTERISTICA STRUTTURA SEMICIRCOLARE.

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LE DUE FUGHE

prenderà ovviamente ordini da un tenente ma neppure potrà darne. I suoi uomini dovranno invece obbedire alle direttive di Berlepsch che è il solo responsabile del commando. E’ tutto. a colonna di terra lascia la base di Frascati alle 3 del mattino del 12 settembre. A Pratica di Mare resta la compagnia di Berlepsch, il quale viene informato dell’obiettivo poco prima che i suoi uomini salgano a bordo dei DFS 230: a sentire il nome di Mussolini per poco non gli cade il monocolo, ma con l’autocontrollo del nobile e del soldato dissimula bene. Non riesce invece a dissimulare il disappunto quando apprende da Student che dovrebbe portare con sé non solo Skorzeny, ma anche alcune SS: non gli va affatto di privarsi di uomini addestrati e che conosce bene, per comandare elementi del SD di cui ignora tutto. Non vorrebbe lasciare soldati per poliziotti politici, ma gli ordini sono ordini e così 16 paracadutisti della compagnia, sui 90 pronti a bordo pista poco dopo mezzogiorno, restano a terra. Altri due

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E Mussolini giocava a scopone

colazione composta di quanto sopra e verso le due scendeva abitualmente a fare la sua passeggiata fuori dell’albergo. Rientrava abitualmente verso le 4 e qualche volta, prima di salire in stanza, si soffermava a fare qualche domanda a qualcuno degli agenti che era in portineria. Più tardi fece chiamare l’ispettore Gueli perché salisse nel suo appartamento a conversare con lui; Gueli diceva di aver trascorso con Mussolini le sue più belle ore, data la profonda intelligenza di questi. La giornata di Mussolini a Campo Imperatore Le loro conversazioni si basavano, credo, più che secondo la relazione del Comando generale dei altro sulla politica, ed il momento attuale… Dopo carabinieri all’Alto commissariato delle sanzioni il pranzo che egli faceva regolarmente alle 19, contro il fascismo (gennaio 1945). scendeva di nuovo nella sala da pranzo «Soleva alzarsi al mattino verso le ore 9 e dopo la dell’albergo a giocare con la sua abituale partita a piccola colazione scendeva nella sala da pranzo scopone (abitudine presa durante la prigionia) con dell’albergo a conversare con l’Ispettore Gueli ed l’Ispettore Gueli, con il tenente Faiola, il anche con il tenente Faiola, che si spacciava per maresciallo Antichi e un altro maresciallo. amico fidato di Badoglio. Gli piaceva ammirare, Egli ascoltava la radio che era in albergo sia anche con l’aiuto di un cannocchiale, il panorama tedesca che italiana, che americana o inglese. meraviglioso della catena montuosa del Gran Sasso Alle insolenze rivolte a lui restava impassibile». che, in quelle giornate di limpido azzurro e di sole, spiccava maestosa e superba. Alle 12 Mussolini saliva nel suo appartamento per la seconda 46

fanno posto a Skorzeny e al suo braccio destro, il tenente SS Karl Radl. Ma la compagnia è assolutamente al comando di Berlepsch. Il capitano Langguth ha il comando dello stormo di rimorchiatori Henschel 126, sia perché è un abile pilota, sia perché avendo sorvolato la zona durante la ricognizione dell’8 settembre, può orientarsi al meglio. Nell’aliante di Skorzeny viene fatto entrare a forza dalle SS un generale della Pubblica Sicurezza, che Radl è andato a prelevare nella sua abitazione. Il generale Fernando Soleti recalcitra, non vorrebbe, è livido di paura, non si sa se in quanto conosce l’obiettivo della missione o se teme le modalità a dir poco avventurose in cui sta per svolgersi, ma a un tratto tira fuori la Beretta d’ordinanza; prontamente una SS lo disarma e sventa il probabile tentativo di suicidio. Skorzeny pretende che l’ufficiale medico dei paracadutisti, Brunner, lo narcotizzi, ma questi si rifiuta di compiere un gesto contrario alla sua etica.Soleti viene spinto a forza nel DFS 230 di Skorzeny e divide per forza di cose con lo spregiudicato capitano l’avventura del Gran Sasso. Uno dopo l’altro i dieci alianti della squadra speciale si sollevano da terra. Student li guarda allontanarsi finché non diventano puntini all’orizzonte, inghiottiti dal cielo terso settembrino.

A

nche se tedeschi e italiani non sapevano che l’articolo 29 dell’armistizio lungo prevedeva la consegna di Mussolini agli Alleati, verosimilmente erano stati informati venerdì 10 settembre da Radio Stoccolma che sarebbe finito nelle loro mani al più presto in Nord Africa. Mussolini aveva scosso la testa, convinto che non si sarebbe mai consegnato vivo né agli inglesi né agli americani. Badoglio, che era fuggito da Pescara sul “Baionetta”, non aveva lasciato più ordini riguardo a Mussolini: l’avesse fatto per dimenticanza, o nell’orgasmo della fuga, o per cinico calcolo, fatto sta che Gueli sul Gran Sasso si era ritrovato a gestire una situazione più grande di lui, senza averne la forza. Il Capo della Polizia Carmine Senise, quello stesso giorno, gli aveva confermato che gli ordini ricevuti in precedenza doveva-

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Il risveglio degli intellettuali

E

strapolare caratteri omogenei e distintivi in relazione ad una ben precisa realtà geografica, si rivela spesso operazione velleitaria, che comporta di necessità un infoltirsi di eccezioni e “distinguo”: che senso avrebbe, per esempio, riferire ad un mero contesto regionale l’attività di intellettuali come Benedetto Croce, Ignazio Silone, Ettore Janni (tra l’altro, significativamente, direttore del maggior quotidiano nazionale, il "Corriere della sera", tra l’agosto e il settembre 1943) che pure non ripudiarono mai le loro origini abruzzesi, ma la cui portata esorbita da qualsiasi confine locale? Con buona approssimazione si può tuttavia affermare che in quel breve torno di tempo maturarono le condizioni perché la cultura regionale – senza dubbio di concerto con quella nazionale, ma forse in maniera ancora più repentina – subisse un decisivo cambiamento di rotta. La storia sembrava curiosamente “passare” per l’Abruzzo, con la presenza simultanea, sebbene effimera, di un re in fuga e di un excapo di governo prigioniero sul Gran Sasso. Ed erano avvenimenti che, a distanza anche di decenni, avrebbero fornito alimento ad una copiosa letteratura memoriale (si pensi, paradigmaticamente, a certe pagine narrative di Corrado Colacito, Manlio Masci o di Ottaviano Giannangeli). Ma cosa cambiava nel dettaglio della vita culturale della regione? Se ci riferiamo espressamente al ruolo e alla funzione degli intellettuali, è

indubbio che su quel discrimine s’innestavano i presupposti di una rinascita che nell’immediato, quasi a riscattare un colpevole atteggiamento di acritica sottomissione, avrebbe avuto il carattere di una partecipazione diretta agli avvenimenti drammatici che seguirono l’armistizio (la Resistenza abruzzese, per quanto estemporanea, si organizzò quasi d’istinto, in netto anticipo rispetto a quella settentrionale). Ma ben presto quella reazione istintuale si sarebbe tramutata in una cosciente riappropriazione di spazi e funzioni tradizionali per gli intellettuali, quelli della discussione politica e della ridefinizione teoretica e pratica di un nuovo assetto della dimensione socioculturale. Ad esemplificare e dare concretezza a questa parabola così sinteticamente descritta, credo che niente sia più efficace di un rapido sguardo alla situazione dell’editoria giornalista abruzzese, specie di quella di cultura, che, in fondo, è una delle manifestazioni più tangibili della presenza e dell’azione di un tessuto intellettuale. Ebbene, sotto questo riguardo, il ventennio fascista aveva determinato una progressiva mortificazione, fino all’annullamento, di quelle energie che, tra fine Ottocento e inizi Novecento, avevano dato vita ad una cospicua fioritura di grandi iniziative culturali che, tra l’altro, avevano visto un convergere verso l’Abruzzo persino di scrittori stranieri: riviste come quelle promosse da Basilio Cascella – "l’Illustrazione abruzzese" (1899-

1905), "La Grande illustrazione" (1914-15) – o "Le pagine" (1916-17), una delle prime riviste italiane a dare spazio a Tristan Tzara, artefice del movimento Dadaista), condiretta da Nicola Moscardelli, Giovanni Titta Rosa e Maria D’Arezzo, o anche l’ambizioso "Nuovo convito" (1916-22) di Maria Del Vasto Celano, avevano incarnato al meglio l’attivismo di una intellettualità in nessun modo disposta a chiudersi negli angusti orizzonti della “provincia”. Gli anni che preludono al 1943 sono effettivamente di “calma piatta”: le uniche testate esistenti in regione sono dovute all’opera di intellettuali “organici” al regime e dunque, nella loro modestissima levatura culturale, svolgono mera opera di propaganda. Sull’abbrivio del 1943 la ripresa è lenta, ma significativa: il fervore dei fogli politici, e meglio sarebbe dire “partitici”, del primissimo dopoguerra ("La Terra" e "Vita nuova" a Chieti, "La Riscossa" e "La Specola" a Teramo, "La difesa del popolo", "Lotta proletaria" a Pescara, il "Risveglio d’Abruzzo" e la "Voce d’Abruzzo" all’Aquila) avrebbe gradualmente lasciato spazio ad una editoria giornalistica più meditata, impegnata ancora ad elaborare le drammatiche vicende di un recente passato ricercando le fila di una continuità fatalmente interrotta, ma anche protesa alla costruzione di qualcosa di nuovo. Mario Cimini

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LE DUE FUGHE

SOTTO, L’ISPETTORE GENERALE GIUSEPPE GUELI E IL TENENTE DEI CARABINIERI

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ALBERTO FAIOLA

no ritenersi ancora validi; le direttive non prevedevano certo la consegna dell’ex Duce ai tedeschi, ma contemplavano persino l’ipotesi di ucciderlo pur di impedirlo. Il 9 settembre, nel fuggi-fuggi generale, Senise era rimasto a Roma e consigliandosi col ministro degli interni Umberto Ricci al Viminale aveva concordato che Gueli dovesse regolarsi con prudenza. Una formulazione sfuggente che pareva escludere l’estrema ipotesi di soppressione del prigioniero, ma che poteva significare anche l’esatto contrario. Restava l’alternativa dell’allontanamento con l’ostaggio sui sentieri montani dell’Appennino abruzzese, dove di certo i tedeschi non avrebbero potuto allestire una caccia all’uomo. In un memoriale Gueli narrò in seguito:«allorché mi convocò, il capo della Polizia mi chiarì che si trattava di salvaguardare la persona di Mussolini e di impedire, in tutti i modi, che i tedeschi lo rapissero. In tal caso, bisognava far fuoco sul prigioniero e far trovare un cadavere. Risposi che ero un uomo di battaglia non un assassino e allora lui mi disse che della bisogna erano stati incaricati i Carabinieri. Badoglio volle conoscermi e, a presentarmi al Capo del Governo, provvide Senise. Il Maresciallo ripeté a me la consegna già data a Polito e io, come Polito, assicurai che l'avrei fedelmente e, occorrendo, personalmente eseguita. Nella notte, trascorsa insonne, però, presi la mia decisione: poiché la sorte, fra milioni d'italiani restati fedeli al Duce, dava a me l'occasione favorevole, dovevo fare di tutto per salvarlo. L'indomani, mi recai in Sardegna e constatai che, per clima e per sicurezza Mussolini si trovava molto male. Se gli inglesi avessero avuto notizia della sua presenza alla Maddalena, avrebbero potuto facilmente impadronirsene o seppellirlo sotto le macerie della villa con quattro cannonate delle loro navi». Era stato Gueli a scegliere il Gran Sasso come luogo sicuro ed era stato lui a decidere il da farsi di fronte al precipitare degli eventi. La prigione più alta del mondo, secondo il suo giudizio, poteva tranquillamente essere considerata un «fortilizio inespugnabile».

N

ella notte di sabato 11, in una crisi di sconforto, Mussolini era stato visto dai carabinieri di guardia armeggiare sul polso con la lama di un rasoio Gillette ed era stato prontamente neutralizzato dalla guardia Francesco Grivetto; in seguito si parlerà persino di tentativo di suicidio, ma in realtà l’ex dittatore aveva imbastito un puerile teatrino drammatico, senza conseguenze per lui né per i suoi custodi, costato appena qualche goccia di sangue e una scalfittura. "Lo trovai seduto sulla sponda del letto – racconterà il maresciallo-attendente Osvaldo Antichi - con le braccia abbandonate e gli occhi sbarrati. Dai polsi, gli scendeva un rigagnolo di sangue. Sul comodino c'era una lametta da barba e, aperto, il rasoio Gillette, quello stesso che gli aveva mandato, a Ponza, Donna Rachele. Erano accorsi altri carabinieri e il tenente Alberto Faiola. Con dello spago gli legai strettissimi gli avambracci per bloccare l'emorragia. Faiola fece portare una cassetta di pronto soccorso; poi, con una garza, gli medicammo le ferite". Il tenente Faiola il 29 febbraio 1944 scriverà che «la sera del 10 settembre, ascoltando la radio, il Duce apprese che fra le clausole dell'armistizio era compresa la consegna della sua persona al nemico. Ne rimase impressionato e, chiamatomi nella notte, esternò a me, che sapeva reduce dalla prigionia inglese, tutta l'apprensione che gli causava tale notizia, dicendomi, anche, che avrebbe preferito darsi la morte piuttosto che subire una simile onta. Ritenni mio dovere non solo rassicurarlo che nessun ordine al riguardo era a noi pervenuto ma di promettergli, anzi di giurargli, che, di fronte a simile eventualità, io lo avrei guidato e protetto in una fuga attraverso le montagne. Soltanto dopo questo mio così solenne impegno, egli consentì a coricarsi e potei lasciarlo veramente tranquillizzato...». Faiola aveva rafforzato le sue asserzioni ricordando all’ex Duce che era stato prigioniero degli inglesi a Tobruk e quindi mai e poi mai lo avrebbe consegnato a quelli che, nonostante l’armistizio, continuava a considerare nemici. I rapporti di Mussolini con gli uomini incaricati della sua custodia erano abbastanza amichevoli: giocavano a carte, ascoltavano a vol-

flashback

IL MASSICCIO DEL GRAN SASSO D’ITALIA.

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LE DUE FUGHE

te la radio, scambiavano qualche confidenza, in senso paritetico e non più da capo a sottoposto. Quello della prigionia a Campo Imperatore era un Mussolini più umano, sfrondato di retorica, svuotato di potere, ridimensionato nel ruolo, dimesso nei toni, rassegnato agli eventi che non dominava più. Un uomo solo col suo destino, che altri stavano però scrivendo per lui.

L

PARACADUSTISTI TEDESCHI DEL LEHRBATAILLON

NELLA PIANA DI

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ASSERGI

’albergo era un microcosmo apparentemente lontano da tutto, dove si guardava con distacco alla tragedia che si era abbattuta sull’Italia con la guerra prima e con l’armistizio poi, e per cui esistevano responsabilità ben precise. All’interno della struttura fatta evacuare il 2 settembre era rimasto solo il personale ritenuto indispensabile all’assistenza della guarnigione e del prigioniero: il cuoco Silvio Giusti, il dispensiere Guido Cifani, l'amministratrice Flavia Iurato, la cameriera Lisetta Moscardi, il maestro di sci Domenico Antonelli. La figura di quest’ultimo lascia galleggiare l’ipotesi che potesse risultare indispensabile nel caso si fosse deciso di allontanarsi con Mussolini lungo i sentieri di montagna per sottrarlo alla cattura. La parabola dell’ex Duce si stava per compiere in quella domenica 12 settembre in cui il prefetto dell’Aquila, Rodolfo Biancorosso, aveva chiesto e ottenuto attorno a mezzogiorno un incontro con Gueli alla base della funivia, per comunicazioni urgenti che si rifiutava di fare per telefono poiché le linee potevano essere intercettate e controllate dai tedeschi. Biancorosso si era detto certo che l’albergo sarebbe stato attaccato di lì a poco. Se Gueli fosse turbato o meno dall’informazione, non lo sappiamo; è certo che risponde a Biancorosso di essere sicuro del fatto suo e che «per evitare che rinforzi il servizio esterno» non dirà nulla di tutto ciò a Faiola, il quale – va ricordato – avrebbe dovuto prendere ordini direttamente dal comandante dell’Arma Angelo Cerica. Gueli aspetta inutilmente che gli alti quadri di Roma gli chiariscano la situazione e gli sciolgano le mani sgravandolo da ogni responsabilità; attenderà da un minuto all’altro una telefonata o un telegramma che non

potrebbe mai ricevere poiché i tedeschi hanno tagliato tutte le comunicazioni isolando l’albergo. Senise in effetti aveva provato a contattarlo, ma di fronte all’irraggiungibilità di Gueli aveva desistito inviando un radiogramma al questore dell’Aquila, Di Guglielmo, che alle 13 gli raccomanda "massima prudenza". Non è l’ordine che Gueli vuole, non è la luce burocratica che gli dissolve il buio e le nebbie in cui brancola. Cosa voleva dire quel “massima prudenza”? Uccidere Mussolini, come prevedevano i precedenti ordini, o far di tutto per salvaguardarne la vita a scanso di complicazioni? L’ispettore decide che l’interpretazione più corretta – o meglio la più comoda – è quella di non far ricorso alle armi; Faiola, da lui consultato, era stato convinto che questa fosse la chiave di lettura giusta. «Mi domandano la mia interpretazione – scriverà in merito al breve e frettoloso summit con Faiola e Antichi nell’hotel di Campo Imperatore -, dico chiaro che non può significare altro se non che, al caso, bisogna evitare spargimento di sangue. Devo ritenere che ciò corrispondesse alla loro aspirazione, perché ho notato nelle espressioni di entrambi, specie del Faiola, un senso di sollievo. Dopo di che pranzo e vado a riposare». L’ipotesi di sparare a Mussolini pur di non farlo cadere in mani tedesche era stata definitivamente accantonata. Ma questo significava né più né meno consegnarlo a essi. Strana scelta, quella dell’ispettore, che nel dopoguerra si discolperà sostenendo un precente accordo convenzionale col capo della Polizia che nessuno potrà confermare. Appena arriveranno i tedeschi, quindi, non dovranno far altro che prendersi Mussolini e portarselo via. Se solo lo immaginassero, potrebbero persino evitare lo spiegamento di forze e i meccanismi complessi di un’operazione coordinata tra truppe aviotrasportate e terrestri.

L

a colonna col grosso del battaglione agli ordini del maggiore Harald Mors è da ore in marcia verso il Gran Sasso. L’ufficiale ripensa a una missione su cui ha carta bianca, che ha elaborato lui stesso in poco tempo e che non può fallire: Hitler in persona si è racco-

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Dietro il filo spinato

4

settembre 1940. Un decreto di Benito Mussolini inserisce l’Abruzzo in una delle pagine più tragiche della nostra storia, quella della politica di segregazione con la creazione dei campi e delle località di internamento. Inizialmente erano solo luoghi deputati a ospitare coloro che il regime voleva tenere lontani dalle zone di guerra ma che, ben presto, acquisiscono la duplice connotazione di anticamere della libertà o dell’inferno dei lager nazisti. L’Abruzzo, per quei suoi luoghi impervi e inaccessibili, per quella sua gente quotidianamente in lotta con la fame e per questo lontana dagli intrighi della politica, entra immediatamente nella lista delle zone prescelte dal regime. Nel 1940 gli ispettori segnalano al Ministero dell’interno ben 40 possibili campi e 31 edifici da dislocare alle pendici del Gran Sasso e della Majella, ma vengono attivati solo 15 campi e 59 località di internamento e utilizzati solo 23 edifici con 1730 posti che i quasi 2000 internati sono costretti a dividersi. Si tratta di locali già esistenti come ville, conventi, scuole, caserme, ex asili, che avevano spesso

bisogno di lavori di manutenzione o di riadattamento che non sempre vennero eseguiti visto che la maggior parte di queste strutture aveva mura pericolanti, finestre e tetti non isolati a sufficienza. «Manca sul posto – così l’ispettore Rosati nella sua relazione sul campo di Lanciano – una infermeria o almeno una sala con medicinali per interventi di pronto soccorso, un impianto docce o di bagni in vasca e da parecchio tempo manca anche l’acqua nel fabbricato: all’esterno vi è un rubinetto di acqua corrente che è certamente inadeguato ai bisogni della comunità». L’acqua manca anche negli altri campi e i più fortunati, come gli internati di Tortoreto, possono attingere direttamente ai pozzi. La maggior parte di queste strutture è priva anche di servizi igienici, di corrente elettrica e lo smaltimento dei liquami avviene tramite pozzi neri, che, spesso, non hanno capacità adeguata e traboccano. Il sovraffollamento dei locali costringe alcuni internati a dormire per terra e a dividersi la già esigua razione alimentare; non è raro trovare pidocchi, cimici, ratti e scorpioni. L’ispettore generale

medico nell’aprile 1942 nella sua relazione al Ministero denuncia che nel campo di Nereto «erano state adattate una cucina e un refettorio sotto un porticato aperto e che in una latrina era stato applicato un annaffiatoio a doccia senza scaldabagno». I locali umidi e le basse temperature favoriscono l’insorgenza di malattie da raffreddamento, tubercolosi, poliomieliti, tifo, dissenteria, scabbia. Anche se «nessuno veniva torturato, ucciso o maltrattato – ha lasciato scritto un internato ebreo nel campo di Tortoreto -, l’incertezza e l’inutilità della nostra situazione, la totale mancanza di qualsiasi prospettiva, la noia di quella esistenza, si insinuavano giorno dopo giorno nelle pieghe dell’animo. Eravamo come sospesi nel nulla». Le giornate nei campi scorrono lentamente, scandite dalle attività previste dal regolamento: non vi è l’obbligo di lavorare per cui ogni giorno si sconfigge la noia leggendo libri e riviste di propaganda del regime o passeggiando nelle esigue aree permesse in attesa di ricevere una lettera o un pacco dai famigliari. La presenza degli internati, che sono prevalentemente uomini di cultura e provenienti dalle grandi città, sconvolge la tranquilla vita degli abitanti dei paesi in cui sono ubicati i campi. Alcuni di essi ne approfittano per speculare sui prezzi degli alimenti: le internate di Lanciano si lamentano più volte dell’aumento eccessivo. Altri, i più fedeli al regime, spesso si rendono autori di delazioni con le quali accusano i direttori dei campi di essere troppo poco rigidi nei confronti degli internati. Eppure, in un clima di terrore come questo, furono tanti i gesti di solidarietà che sono impressi ancora nella memoria dei testimoni: Karl Jacob Mausner, continua a pagina 53 51


LE DUE FUGHE

IL GENERALE DELLA PUBBLICA SICUREZZA FERNANDO SOLE-

TI (A SINISTRA) CONVERSA CON IL MAGGIORE HARALD MORS

(AL CENTRO) TRAMITE L’INTERPRETE MARESCIALLO WÄCHTLER

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mandato per il risultato, e un suo ordine non ammette incertezze né indecisioni. Le compagnie del Lehrbataillon devono percorrere un tragitto insidioso, in un territorio sconosciuto e in un quadro politico completamente diverso da quello di appena quattro giorni prima. Non c’è lo stato di guerra tra la Germania e l’Italia, ma l’ostilità degli italiani nei confronti dei soldati tedeschi è tutt’altro che impalpabile. L’equipaggio di un sidecar della Wehrmacht proveniente da Tivoli aveva quasi subito avvisato che nella zona alcuni reparti del Regio Esercito avevano rivolto le armi contro i tedeschi e che l’atteggiamento della popolazione sconsigliava di abbandonare tutte le precauzioni adottate normalmente in zona di guerra. Mors deve evitare ogni rischio di essere risucchiato in un combattimento e ordina di cambiare percorso: da Monte Porzio punta su Valmontone, Sora, Capistrello, Castelvecchio, per poi riprendere il tragitto secondo il percorso originale nei pressi di Avezzano. Una diversione che se da un lato mette i soldati al riparo dallo scontro, dall’altro allunga pericolosamente i tempi per arrivare sull’obiettivo, perché ci sono da coprire ulteriori 60 chilometri rispetto ai 240 preventivati. Le montagne abruzzesi si snodano nella loro selvaggia maestosità davanti agli occhi degli ufficiali e dei paracadutisti. Hanno tutti esperienza di combattimento, nei diversi fronti aperti da Hitler in Europa, e altrove le montagne per loro significano guerra partigiana, quella fatta di agguati, imboscate, attacchi “mordi e fuggi”, rastrellamenti. Uno scenario che sembra ideale per la guerriglia, ma in Abruzzo lo sconcerto e lo smarrimento seguiti all’armistizio non hanno ancora coagulato la resistenza. Il viaggio prosegue con relativa tranquillità. I camion e i mezzi corazzati hanno i fari incappucciati per non segnalare la loro presenza, il freddo del mattino lascia ben presto posto alla calura di un’estate che si avvinghia ai suoi ultimi giorni. Giunta nei pressi di Popoli, la colonna in assetto di guerra svolta verso l’Aquilano. Gli italiani non si sono fatti vedere, nessun significativo posto di blocco sulla strada e verosimilmente nessun avvistamento può aver allertato le unità ancora di

stanza nella regione. Qui la guerra è arrivata solo a fine agosto, con i bombardamenti di Sulmona (il 27) e di Pescara (il 31) per interrompere il flusso del traffico ferroviario verso Roma e verso il meridione. L’Abruzzo era considerato una zona tranquilla, ancora abbastanza impervia e disagiata, tanto da consigliare il regime fascista a installarvi diversi campi di prigionia per militari alleati e campi di internamento per i civili italiani e stranieri, tra cui gli ebrei. Dopo l’8 settembre i sorveglianti italiani avevano aperto i cancelli permettendo a migliaia di prigionieri di riversarsi nelle campagne alla ricerca della salvezza personale e di una via per raggiungere il sud e ricongiungersi alle truppe anglo-americane. Gli unici tedeschi che gli abruzzesi hanno visto sono quelli dirottati a sud verso il fronte o quelli che risalgono in direzione nord: nessun reparto tedesco mediogrande è di stanza in questa regione ai margini delle vicende belliche.

G

li eventi si stanno accavallando a velocità frenetica, ma Mors ha un solo pensiero, adesso: raggiungere Assergi in tempo utile per favorire l’azione della compagnia di Berlepsch. Verso le 13 le unità dei guastatori dei paracadutisti hanno già isolato telefonicamente l’albergo di Campo Imperatore e si sono dislocate per controllare il fazzoletto di territorio ai piedi del Gran Sasso. Non c’è stato alcun contrattempo. Alle 13.45 il distaccamento avanzato del tenente Hans Weber comunica a Mors che la base della funivia, ad Assergi, è in mani tedesche. Attraverso le lenti del binocolo il maggiore vede sulla cresta appenninica la sagoma dell’albergo vanto del fascismo che ora ne custodiva il suo capo decaduto; un uomo minato nel fisico e nel morale che Hitler voleva risuscitare politicamente per continuare la lotta. Mancano pochi minuti al compimento dell’Operazione Quercia. Da ovest un ronzio preannuncia l’apparizione in cielo dei rimorchiatori e degli alianti. Dai finestrini laterali dei DFS 230 i paracadutisti della compagnia d’assalto riescono a scorgere a valle i mezzi dei loro compagni e si rincuorano: non saranno soli

flashback

ebreo viennese salvato dai campi di sterminio di Auschwitz da Fabio Di Paolantonio, un abitante di Ripa teatina, ricorda che i cittadini di Pianella sfamarono i sessanta ebrei che attraversavano la cittadina per essere consegnati alle SS; il prete di una chiesetta di campagna, di cui non è tramandato il nome, tenne nascosto per dieci giorni un prigioniero; un abruzzese già emigrato in America, per tre anni, rischiando la fucilazione, si era preso cura di un internato. Nei campi abruzzesi finiscono rinchiusi prigionieri, libici, russi, iracheni, cinesi, slavi, zingari, dissidenti ma anche ebrei. Nel 1940 il regime decide di segregare dapprima solo «ebrei italiani pericolosi», di cui 112 residenti in Abruzzo e successivamente tutti coloro che appartenevano a Stati nemici. «Ci sistemarono nel campo di Civitella Del Tronto –ha dichiarato Jacob Mausner a un giornalista de “Il progresso»- in un ospedale in disuso ma ci trattavano bene. Facemmo amicizia anche con i nostri carcerieri. I problemi iniziarono dopo l’armistizio quando venimmo dati in consegna ai nazisti". Da quel momento gli internati saranno costretti ai lavori forzati in attesa di essere deportati nei lager tedeschi. Infatti, a partire dal 1943 fino al 1944, anno in cui sono chiusi tutti i campi abruzzesi, compreso quello nazista di Teramo, molti prigionieri vengono deportati dapprima al campo di prigionia di Servigliano (Ascoli Piceno) e poi a Fossoli di Carpi (Modena) da dove si

poteva prendere solo le direzioni di Auschwitz o di Bergen Belsen. Questa sorte è toccata a tutti i 338 internati di Civitella Del Tronto. L’Abruzzo non fu solo terra di internamento per i civili, ma anche di militari. In particolare nei 42 campi di concentramento realizzati sul territorio abruzzese finirono rinchiusi a più riprese 136.550 prigionieri di guerra, di cui 12.800 a L’Aquila, Avezzano, Sulmona e Chieti, nei campi numero 102, 91, 78 e 21. Nel campo 91 (Avezzano) erano reclusi graduati dell’esercito indiano e operai arabi reclutati nei primi anni di guerra nel nord Africa e, in misura minore, subahdar e havildar (ufficiali di grado inferiore arruolati tra le popolazioni indiane) e un esiguo numero di graduati europei. Sulmona, invece, ospitava anche 200 neozelandesi e 150 sudafricani, che lavoravano nelle cave vicino Scafa, sulla via principale per Pescara. Una testimonianza viva di come erano strutturati tali luoghi di pena ci viene fornita da Donald Jones, prigioniero nel campo di Fonte d’Amore, costruito a 5 chilometri da Sulmona per ospitare i prigionieri della prima guerra mondiale: «era di forma rettangolare, circondato da un alto muro di pietra e, come se questo non fosse stato sufficiente, le autorità italiane avevano cementato cocci di vetro rotto in cima al muro e avevano aggiunto due alti recinti di filo spinato lungo il perimetro. Il campo era diviso in cinque reparti: uno per gli ufficiali, uno per i

sergenti e gli altri tre per gli altri ranghi. Grazie al regolare invio dei pacchi della Croce Rossa, che si aggiungevano alle insufficienti razioni italiane, sopravvivemmo nel periodo compreso tra l’ottobre del 1942 e il settembre 1943 ed eravamo in buona salute». Sulmona amministrava anche Villa Orsini (a meno di dieci chilometri da Fonte d’Amore), dove era segregato un ristretto numero di ufficiali di alto grado e un terzo campo di prigionia (il 78/1) ad Acquafredda, a nord del massiccio della Majella. I reclusi rifuggivano la forzata inattività progettando minuziosamente piani di evasione o organizzando competizioni sportive. Molti, certamente, preferivano il ruolo di prigioniero di guerra a quello di soldato, che ogni giorno era costretto a mettere a repentaglio la propria vita: lo status di detenuto rimaneva sotto la garanzia delle convenzioni internazionali e la Croce Rossa riforniva i campi con viveri in abbondanza. Privilegi non indifferenti in tempi di guerra ma che i prigionieri, probabilmente, impararono ad apprezzare con il tempo. Infatti John Esmond Fox, internato nel campo 78 (Fonte d’Amore), descrisse con queste parole cariche di terrore le sensazioni del suo arrivo a Sulmona: «come fissavo quello scenario abbandonato da Dio, il pensiero di essere imprigionato lì mi mandava i brividi freddi per la spina dorsale. La mia prima impressione fu di orrore e di spavento e mi colpiva soprattutto la sua aridità». Quando nel settembre del 1943 fu firmato l’armistizio, i termini della resa incondizionata dell’Italia agli Alleati prevedevano che i circa 80.000 prigionieri di guerra fossero rimessi in libertà dalle autorità militari e che fossero difesi dalle mire tedesche. Nessun militare rispettò questa condizione ma l’evasione dei prigionieri fu spalleggiata dalla gente del luogo. Così i nemici trovarono nel cuore della popolazione abruzzese la chiave per la libertà. Antonella Di Lorito

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LE DUE FUGHE

LA COMPAGNIA D’ASSALTO DEL TENENTE BERLEPSCH NEI DINTORNI DELL’ALBERGO DI CAMPO IMPERATORE.

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in caso di battaglia, anche se logica vuole che ben poco aiuto potrà venire dalla colonna di terra se non funzionerà appieno il fattore sorpresa. I poliziotti e i carabinieri guardano tutti verso l’alto. In un primo tempo non capiscono cosa stia accadendo, poi hanno la sola opzione di cercare di capire se gli alianti siano tedeschi o angloamericani, e nient’altro: stanno venendo a prendere Mussolini, questo è sicuro. Ma che fare? Chi dovrebbe impartire gli ordini, l’ispettore Gueli e il tenente Faiola, sono combattuti tra sentimenti personali, ordini ricevuti, capacità e incapacità di decidere. E scelgono la soluzione più semplice da adottare, ma anche la più complicata da spiegare: non si farà nulla. Il primo aliante in formazione tocca terra e subito i paracadutisti si proiettano fuori dalla fusoliera correndo armi in pugno verso l’albergo; poi un secondo, poi un terzo. La corsa dei velivoli tra erba e spuntoni di pietra è rallentata dal filo spinato avvolto sui pattini per ridurre lo spazio di arresto. In successione attorno all’albergo nereggiano le sagome dei DFS 230 mentre un formicolare di uomini in mimetica si stringe attorno alla massiccia struttura. E’ l’ultimo atto dell’assalto. Stanno a guardare i poliziotti e i carabinieri, guardano dall’alto i piloti dei rimorchiatori, immaginano i paracadutisti mille metri più in basso. Non parte neppure un colpo. «Una fitta nuvolaglia biancastra copriva le cime del Gran Sasso, ma fu tuttavia possibile avvertire il passaggio di alcuni velivoli. Mussolini sentiva che la giornata sarebbe stata decisiva per la sua sorte» ricostruisce in terza persona Mussolini in “Storia di un anno” dove racconta che «un aliante si posò a cento metri di distanza dall'edificio e ne uscirono quattro o cinque uomini in kaki, i quali posizionarono rapidamente due mitragliatrici e poi avanzarono. Dopo pochi secondi, altri alianti atterrarono nelle immediate vicinanze e gli uomini ripeterono la stessa manovra. (…). Fu dato l'allarme». L’ex Duce chiede al maresciallo Antichi se si tratti di inglesi, ma quando apprende che invece quelli sono tedeschi, sussurra a mezza bocca «questa non ci voleva». Faiola ha appena dato l’ordine di schierarsi in assetto da combattimento, carabinieri e poliziotti

corrono ai posti assegnati senza tanta convinzione, mentre il tenente si precipita ad avvisare Gueli che sta riposando nel suo alloggio al terzo piano. Il generale Soleti, condotto avanti come ostaggio, ha il tempo di urlare con voce impastata «Non sparate! Non sparate!» che è a metà tra un’esortazione e una speranza, più che un ordine. Non sa, e non può saperlo nessuno, che premere il grilletto è quanto di più lontano corra nelle menti degli italiani. Finisce subito tutto prima di cominciare. Il maresciallo Eugen Abel, che ha raggiunto per primo la stanza 201 in cui si trova Mussolini obbedendo all’ordine esplicito impartitogli dal generale Student, viene letteralmente spostato di peso da Skorzeny, che si presenta all’esterrefatto ex Duce con il saluto nazista seguito dalla frase: «Duce, il mio Führer mi ha mandato a liberarvi». Se credesse davvero al fato, Mussolini dovrebbe ricordare quel che gli ha detto qualche giorno prima un pastore abruzzese nei pressi dell’albergo, il quale gli aveva preannunciato la prossima liberazione; un augurio, nulla di più, con quel pizzico di fatalismo e di ignoranza. L’Abruzzo è una regione arretrata, l’analfabetismo ancora diffuso e ben radicato, nonostante gli sforzi reali e di facciata del regime sul comparto scolastico; il pastore, che non sapeva nulla di quanto stava accadendo in Italia e nel resto d’Europa e il cui panorama di riferimento era la montagna col gregge, gli si era rivolto rincuorandolo secondo la formula di cortesia della povera gente. Ma aveva colto nel segno.

P

rim’ancora che Mussolini riesca a riaversi dalla sorpresa, il marconista maresciallo Herbert Ripke trasmette al battaglione che la missione è compiuta. Fino all’ultimo momento aleggiava il dubbio che quell’attacco fosse inutile, perché mai i tedeschi avevano avuto le prove che a Campo Imperatore fosse davvero custodito l’ex Duce: c’erano solo indizi, a onor del vero abbastanza univoci, ma nulla di più. Il capitano Langguth ha volteggiato con l’Henschel attorno all’albergo fino a che non ha visto la sagoma di Mussolini; quindi ha puntato il muso del suo aereo verso Pratica di

flashback

L’ABRUZZO

DEL

1943

Quei patrioti sulla Majella

I

l riscatto attraverso le armi, la consapevolezza che non si poteva stare solo a guardare perché la libertà e la democrazia andavano conquistate. I tedeschi li chiamavano con sprezzo “Banditen” e, affettuosamente, anche un ufficiale polacco che combatteva con gli Alleati chiamava “bandito” il vicecomandante Domenico Troilo, ma lo faceva con un misto di affetto, di rispetto e di considerazione. Doti conquistate sul campo di battaglia, non per grazia ricevuta. La Brigata Maiella era nata per caso, forse anche per difendere esclusivamente “la roba”, cioè il bestiame dalle razzie tedesche, come sostiene Giorgio Bocca; ma era nata tra le montagne d’Abruzzo, prima formazione partigiana organizzata a costituirsi per uno slancio ideale e non per direttive politiche. La brigata, che nei primi giorni del dicembre 1943 vede la luce come Banda patrioti della Maiella nel castello ducale di Casoli, diventa in seguito Gruppo patrioti della Maiella che gli Alleati elevano al rango di brigata; per tutti i mesi di attività andrà fiera della sua apoliticità e delle

sue caratteristiche uniche nel panorama resistenziale italiano. Il piccolo esercito di volontari che si raccoglie attorno all’avvocato Ettore Troilo e al suo vice Domenico Troilo non ha etichette politiche: combatte prima con le armi da preda secondo le tattiche di guerriglia, quindi ottiene il riconoscimento dalle autorità sospettose militari britanniche grazie al maggiore Lionel Wigram che crede in loro e che cadrà il 3 febbraio alla loro testa nella battaglia di Pizzoferrato, poi riceve armi e divise britanniche e il riconoscimento da parte del ricostituito Esercito italiano di liberazione, ma si rifiuta sdegnosamente di mettere le stellette sul bavero: sono il simbolo che legherebbe i patrioti della Maiella ai Savoia, che ritengono screditati dopo la fuga di Ortona e quindi non più riferimento dell’Italia che verrà. Dopo aver combattuto in Abruzzo con il V Corpo d’armata britannico, il Gruppo entra nell’orbita del II Corpo polacco, con cui prosegue la risalita dell’Italia. Arriva a contare poco meno di 1.500 uomini, ben addestrati, coraggiosi e

molto motivati, come sottolineano gli ufficiali alleati che li vedono all’opera e gli alti comandanti britannici e polacchi. Non hanno paura dello scontro, non hanno paura dei tedeschi, temono soltanto l’eventualità che possano essere rimandati a casa. Le richieste di entrarne a far parte sono più di quelle che possono essere accettate. Combattono ma non odiano: i prigionieri vengono avviati verso le retrovie, i feriti sono curati, non importa che divisa indossino. E’ l’unica formazione partigiana che prosegue la lotta di liberazione al di là dei confini territoriali. Questi soldati senza stellette ma con il tricolore italiano in prima fila entrano inquadrati a Pesaro, poi a Bologna, poi ad Asiago. Sono davvero il simbolo del riscatto. Quando il cannone finirà di tuonare in Italia, il Gruppo patrioti della Maiella conterà 55 caduti, 19 prigionieri, 151 feriti (di cui 36 mutilati): 4 i decorati con medaglia d’argento alla memoria, 11 sul campo, 43 di bronzo sul campo, 145 le croci di guerra sul campo, 2 le medaglie di bronzo al valor militare. E inoltre le decorazioni concesse dalla Polonia: una croce al merito con spade d’argento, 14 croci al merito con spade di bronzo, 3 croci dei valorosi. I soldati della libertà tornano nelle loro case dopo la solenne cerimonia di scioglimento a Brisighella, il 15 luglio 1945, nel corso della quale vengono resi gli onori delle armi da un reggimento di cavalleria inglese e uno di ulani polacchi. Tra le note della banda militare si chiude l’epopea della Maiella: è l’unica formazione partigiana decorata di medaglia d’oro al valor militare. Marco Patricelli

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LE DUE FUGHE

IL MAGGIORE MORS SI CONGRATULA

CON IL COMANDANTE DELLA UNITÀ AVIOTRASPORTATE D’ASSALTO TENENTE BARONE

BERLEPSCH

PER LA RIUSCITA DELL’OPERAZIONE

QUERCIA

Mare: la sua missione, secondo gli ordini ricevuti da Student, era davvero finita con quella conferma. Il tenente Blumenthal trascrive il contenuto della comunicazione radio di Ripke e porge un foglietto al maggiore Mors che istintivamente guarda l’orologio. Sono le 14.17. Non sono passate neppure 24 ore da quando Student gli ha affidato l’incarico. Mussolini è lì ed è vivo. Mors e alcuni ufficiali raggiungono la base della funivia, dove gli italiani a presidio sono tenuti sotto controllo dai mitra tedeschi, senza neppure troppo impegno, visto il loro atteggiamento non ostile, e salgono a bordo. Via interfono Mors chiede di parlare col tenente Berlepsch che a voce gli conferma il pieno successo dell’Operazione Quercia. Nella valle di Assergi i paracadutisti si sono già abbandonati a scene di entusiasmo. Molti hanno scoperto solo allora quale fosse la preda cui davano la caccia. E’ filato tutto liscio, se non fosse per una scaramuccia alla quale non danno la minima importanza, e che non riportano neppure nel rapporto della missione. Quel breve scambio di colpi è invece costato la vita alla guardia comunale forestale Pasqualino Di Tocco, che aveva provato a dare l’allarme, e il ferimento del carabiniere Giovanni Natale, che dal suo posto di blocco aveva aperto il fuoco col moschetto contro i tedeschi: morirà il giorno seguente. Oggi nessuno si ricorda di questi due caduti, gli unici soldati in grigioverde che fecero il loro dovere in un giorno in cui nessuno si attenne al senso dell’onore e agli obblighi derivanti dalle stellette. Per decenni si è sostenuto che l’Operazione Quercia fu “pulita” – e in effetti, tutto sommato, è stata proprio così – ma è un errore considerarla senza spargimento di sangue.

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lle 14.45 Mors e i suoi uomini sono a quota 2.200 metri, nella stazione d’arrivo della funivia; gli operatori di quella intermedia non si erano accorti di nulla ed erano sbiancati nel vedere nella cabina i soldati tedeschi armati di tutto punto che andavano a raccogliere il loro bottino. Con l’occhio attento del militare Mors non può non notare che i cani da guardia sono chiusi nei recinti, i soldati italiani sono stati

disarmati, le armi pesanti sono rimaste incappucciate o chiuse negli armadi, ma il clima è molto amichevole, quasi all’insegna del cameratismo anteriore all’8 settembre. Nella confusione Faiola ha comunque ordinato al maresciallo Oreste Daini di bruciare alcune carte riservate. Carabinieri e poliziotti hanno consegnato ai tedeschi i moschetti e i mitra leggeri con calma e quasi indifferenza; alcuni, platealmente, lanciano i fucili nel burrone con un senso di liberazione. Il vino comincia a scorrere nei bicchieri e nelle gavette. C’è uno strano clima di festa. Berlepsch saluta militarmente Mors, gli stringe la mano e lo accompagna assieme ai tenenti Kurth e Schulze nel breve tragitto verso l’albergo. Qui davanti all’ingresso il maggiore si presenta a Mussolini come il comandante e responsabile della missione, preannunciandogli che sarebbe stato al più presto condotto al cospetto di Hitler. Mors aveva assistito nel 1937 a Roma alla grande parata per la celebrazione della proclamazione dell’impero a pochi metri dal Duce al culmine della potenza e del consenso; adesso davanti a lui c’è un uomo smagrito, provato dagli eventi, la barba non rasata e un cappotto blu che sembra fuori misura. Il 31 agosto quello stesso uomo, in una lunga lettera indirizzata alla sorella Edvige, aveva scritto «Per quanto mi riguarda io mi considero un uomo per tre quarti defunto. Il resto è un mucchio di ossa e muscoli in fase di deperimento organico da dieci mesi a questa parte. Del passato non una parola. Anch'esso è morto. Non rimpiango niente, non desidero niente». Colui che una volta in un comizio aveva dato un ultimatum a Dio per fulminarlo, a riprova della sua esistenza da lui messa in dubbio, confessava che «in un'isola avevo incominciato - dopo cinquant'anni - il mio riavvicinamento alla Religione. Se ne occupava un parroco di fama ottima - don Salvatore Capula, parroco della Maddalena -. Poi sono partito e la di lui fatica rimase interrotta. Ad ogni modo, una delle cartelle che tenevo vicino al lume del mio tavolo a Palazzo Venezia e che ho invano chieste, c'è di mio pugno un testamento - maggio 1943 - che dice “nato cattolico apostolico

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LA COLONNA MOTOCORAZZATA TEDESCA E LO SBARCO DELLA SQUADRA D’ASSALTO DEI PARACADUTISTI.

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LE DUE FUGHE

romano, tale intendo morire. Non voglio funerali e onori funebri di nessuna specie”».

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ussolini era la caricatura sbiadita del dittatore che aveva tenuto le redini del potere per oltre un ventennio. Dopo il saluto e i convenevoli di una situazione imbarazzante, l’ex dittatore ringrazia con apparente sincerità, si rivolge a Mors e ripete quanto già detto a Berlepsch: «Ero certo che il mio amico Hitler non mi avrebbe abbandonato». La sua volontà, come ha riferito prima a Skorzeny e poi a Mors, sarebbe di tornare dalla moglie Rachele, alla Rocca delle Caminate, ma questo non è affatto possibile. Era l’unico desiderio che aveva avuto dopo l’arresto che Badoglio aveva giustificato così: «Il sottoscritto Capo del Governo, tiene a far sapere a V.E. che quanto è stato eseguito nei vostri riguardi è unicamente dovuto al vostro personale interesse, essendo giunte da più parti precise segnalazioni di un serio complotto contro la vostra persona. Spiacente di questo, tiene a farvi sapere che è pronto a dare ordini per il vostro sicuro accompagnamento, con i dovuti riguardi, nella località che vorrete indicare». Mussolini aveva risposto: «Desidero ringraziare il Maresciallo d'ltalia Pietro Badoglio per le attenzioni che ha voluto riservare alla mia persona. Unica residenza di cui posso disporre è la Rocca delle Caminate, dove sono disposto a trasferirmi in qualsiasi momento. Desidero assicurare il Maresciallo Badoglio, anche in ricordo del lavoro comune svolto in altri tempi, che da parte mia non solo non gli verranno create difficoltà di sorta, ma sarà data ogni possibile collaborazione. Sono contento della decisione presa di continuare la guerra con gli alleati, così come l’onore e gli interessi della Patria, in questo momento, esigono, e faccio voti che il successo coroni il grave compito al quale il Maresciallo Badoglio si accinge per ordine e in nome di S.M. il Re, del quale, durante 21 anni, sono stato leale servitore e tale rimango. Viva l’Italia!». In poco più di un mese era successo di tutto. Adesso, in mani tedesche, l’ex Duce ha una sola richiesta da rivolgere all’ufficiale dei paracadutisti: «La prego di libe-

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rare i soldati di guardia: sono stati buoni con me». Mors non solleva alcuna obiezione e lo rassicura: agli italiani non sarà torto un capello e non è prevista alcuna misura coercitiva. Le sue impressioni sono di trovarsi di fronte a un uomo finito, estromesso dallo scenario politico e ora rapito dai tedeschi, non liberato dai suoi connazionali che per la sua salvezza non avevano davvero fatto nulla dal 25 luglio in poi. Un’impressione supportata dalla laconica frase pronunciata da Mussolini quando gli chiedono di mettersi in posa per scattare alcune fotografie: «Fate di me quel che volete». Se non è una resa, è un indice chiaro di rassegnazione. Appena il giorno prima sul suo diario il ministro della propaganda Josef Goebbels aveva scritto che da un punto di vista puramente sentimentale sarebbe stato «increscioso» se i tedeschi non fossero riusciti a liberarlo, ma da quello politico sarebbe stato meglio non riesumare la sua figura; il giorno dopo l’impresa del Gran Sasso non cambierà affatto idea: «Per quanto io sia commosso dal lato umano dalla liberazione di Mussolini, sono tuttavia scettico per quanto riguarda i vantaggi politici». Lo stesso ex Duce pensava di se stesso che l’avventura politica fosse definitivamente compiuta.

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korzeny non stacca un momento né gli occhi né il suo fisico imponente da Mussolini e lo segue come un’ombra. Il borbottio di un aereo distoglie l’attenzione di tutti: si tratta del Fieseler Storch 156 del capitano Gerlach che viene a prendere Mussolini. Il pilota prende terra col suo “Cicogna” grazie a un atterraggio spettacolare, ma il cui ricordo sbiadisce rispetto alle modalità del decollo. Paracadutisti, carabinieri e poliziotti stanno ripulendo un tratto di terreno dai massi che affiorano. Mussolini, che ha salutato quasi affettuosamente il maresciallo Antichi e la cameriera Lisetta Moscardi, sale a bordo con qualche timore («ma non potremmo andare via terra?» sussurra quasi senza che nessuno si prenda la briga di rispondergli) e dietro di lui a un tratto si infila Skorzeny. L’aereo è biposto, Gerlach solleva qualche obiezione ma non insiste più di tanto quando apprende dell’intenzione del

DOPO LA FOTOGRAFIA DI RITO CON I SUOI “LIBERATORI“MUSSOLINI VIENE SCORTATO VERSO L’AEREO CHE LO CONDURRÀ A PRATICA DI MARE.

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LE DUE FUGHE

SKORZENY ALLE COSTOLE DI MUSSOLINI FESTEGGIATO SIA DAI TEDESCHI SIA DAI POLIZIOTTI E CARABINIERI CHE LO TENEVANO IN CUSTODIA NELL’HOTEL

DI CAMPO IMPERATORE.

robusto capitano SS di scortare personalmente Mussolini, non potendo contare su un secondo Storch bloccato a terra da un problema al carrello. Il pilota riferirà in seguito che Skorzeny gli fece in quattro e quattr’otto, e senza alzare la voce, un discorsetto del genere:«caro Gerlach, non si sa come le cose possano andare a finire ed è sempre meglio avere dalla tua parte un ufficiale SS». Ovvero lo scudo del partito nazista. Una proposta che, parafrasando Manzoni, non si poteva rifiutare. Mors, inoltre, non solleva alcuna obiezione al riguardo, rimettendo a Gerlach la decisione di prendere un altro passeggero. Il capitano annuisce e si dice pronto a correre il rischio. L’austriaco si sistema allora alle spalle del seggiolino posteriore, con la schiena schiacciata contro il tettuccio e chinato in avanti, con le braccia ancorate alle barre portanti. Tedeschi e italiani si aggrappano con le mani alle ali dello Storch e fanno da zavorra vivente per consentire a Gerlach di far salire di giri il motore e ottenere un piccolo effetto-catapulta quando i soldati molleranno: la pista è molto corta, dà su un burrone e per di più il vento spira di coda. Sono le peggiori condizioni per un decollo ma non c’è da scegliere. Al via il “Cicogna”, tra due ali di saluti romani e mani di soldati che si agitano, sobbalza sul terreno irregolare poi, finita la pista di fortuna, piomba nel vuoto; italiani e tedeschi si precipitano sul bordo del precipizio da dove arriva l’urlo del motore a tutto gas, quindi l’aereo risponde ai comandi di Gerlach e si arrampica sul cielo; compie una breve manovra a semicerchio e diventa sempre più piccolo fino a scomparire all’orizzonte. Mors, che è stato pilota di caccia e di bombardieri prima di passare ai paracadutisti, ha seguito senza tradire emozioni ma trattenendo il respiro quel decollo a dir poco avventuroso; adesso può comunicare a Student «Auftrag erfüllt. Duce abgeflogen». La missione si chiude qui con Mussolini in volo per Pratica di Mare.

L 60

a tensione si stempera. E’ andato tutto per il meglio per tutti. I carabinieri e i poliziotti hanno evitato il rischio di una battaglia, i paracadutisti che Mussolini potesse sfuggire per la ter-

za volta alla caccia voluta da Hitler, com’era accaduto a Ponza e alla Maddalena quando per poco Skorzeny non faceva scoppiare una guerra con l’Italia ancora formalmente alleata col Reich. Il capitano SS aveva messo in atto un attacco in piena regola ai reparti italiani il 29 agosto, sventato in extremis da lui stesso di fronte alla certezza che l’ex Duce non si trovava più sull’isola. Sul Gran Sasso non c’erano più quelle considerazioni di carattere diplomatico che l’austriaco aveva disinvoltamente trascurato due settimane prima. Quel che non aveva affatto trascurato di fare sulla montagna abruzzese, però, era di disobbedire agli ordini ricevuti e di compromettere l’esito dell’Operazione Quercia. Mors aveva sospettato qualcosa vedendo due alianti seriamente danneggiati abbastanza lontani dall’albergo; i tedeschi e gli italiani avevano prestato subito soccorso ai paracadutisti feriti, trasportandoli verso il ricovero. L’unico che si era rifiutato di aiutare i soldati era stato un pastore abruzzese che si trovava col suo gregge da quelle parti, e neppure la vista delle armi l’aveva fatto desistere dalla sua indifferenza. Gli ufficiali del Lehrbataillon fanno il punto della situazione. Student aveva visto giusto quando aveva puntato sull’effetto-sorpresa e quando si era detto certo che gli italiani non avrebbero reagito. Adesso si tratta di compiere le ultime procedure, come dare alle fiamme gli alianti e distruggere le armi pesanti degli italiani; i quali, peraltro, hanno abbondato in sorrisi per farsi fotografare assieme ai vincitori, hanno dato loro più che una mano e aspettano solo di sapere se potranno restare lì per poi tornarsene a casa. Dopo due ore a quota 2.200 metri non c’è più un solo tedesco. Gli italiani passeranno lì sopra ancora qualche giorno, in attesa di nuovi ordini che sembrano non arrivare mai, ingannando il tempo sparando con i moschetti rimasti muti per tutto il 12 settembre e divertendosi a sforacchiare lo scatolame. A valle, nel perimetro di Fonte Cerreto, il grosso del Lehrbataillon è rimasto del tutto inattivo. I paracadutisti non hanno visto l’ombra di un soldato italiano, le truppe di stanza all’Aquila o non si sono accorte di nulla o hanno reputato che non fosse il

flashback

IL FIESELER STORCH DEL CAPITANO GERLACH PRENDE A BORDO MUSSOLINI DIETRO CUI SI È SISTEMATO SKORZENY IN POSIZIONE DI FORTUNA.

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LE DUE FUGHE

I

caso di fare niente.

l sole comincia a calare e tornare subito alla base non avrebbe senso. I tedeschi sono partiti prima dell’alba, si sono sobbarcati una trasferta disagevole, hanno accumulato la tensione che prelude ai combattimenti, si sono rilassati, ora sono stanchi. Mors decide che il battaglione si accamperà a Camarda, vicino a un ruscello. Attorno al fuoco lui e i comandanti di plotone sbobinano a parole il film della giornata: sono tutti euforici per l’impresa che è stata realizzata al di là delle più rosee aspettative. Ma in quel film è entrato a forza un personaggio che la sceneggiatura originale aveva tenuto fuori: Otto Skorzeny. Mors sobbalza quando sente da Berlepsch che Skorzeny si è portato dietro un ostaggio che all’aeroporto ha tentato di tirarsi un colpo di pistola alla tempia pur di non fare quel che gli si chiedeva. Student avrebbe voluto la cooperazione del generale Soleti per evitare un bagno di sangue; questi aveva biascicato un sì assai poco convinto, ma poi evidentemente aveva cambiato idea. Skorzeny l’aveva allora fatto narcotizzare e l’aveva caricato a forza sul suo aliante. Un gesto da gangster, non da soldato, stigmatizzato univocamente sia dall’aristocratico Berlepsch sia dagli altri ufficiali dei paracadutisti.

I PARACADUTISTI RECUPERANO LE “CONSOLES“

DALLE CABINE DI PILOTAGGIO PRIMA DI DAR FUOCO AGLI ALIANTI.

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on è l’unico colpo di testa che lo spregiudicato SS ha messo in atto. Gli ordini prevedevano che a capofila della formazione degli alianti vi fosse il DFS 230 di Berlepsch trainato dall’Henschel di Langguth, e il perché è chiaro: il tenente comandava il reparto, il maresciallo Abel doveva raggiungere subito Mussolini, il capitano pilota conosceva i luoghi dell’azione avendoli sorvolati l’8 settembre con l’Heinkel 111 da ricognizione. L’aliante di Skorzeny pilotato da Elimar Meyer si era ritrovato primo per un malinteso. Langguth, per guadagnare quota al fine di superare la catena montagnosa, aveva compiuto una manovra che il secondo e terzo Henschel alle sue spalle avevano seguito, ma non il quarto: ecco perché Skorzeny si era ritrovato alla testa del gruppo, non certo per-

ché avesse un ruolo di comando. Ma di quel ruolo si era impossessato una volta su Campo Imperatore, imponendo al pilota di scendere in picchiata, eventualità espressamente esclusa da Student. Nell’abitacolo Skorzeny aveva fatto pesare il grado di capitano, che invece non avrebbe dovuto far valere in quanto il suo ruolo era quello di osservatore, o di consigliere politico, non di ufficiale operativo. Non gli avevano neppure fornito la mimetica da combattimento dei paracadutisti e portava ancora la divisa tropicale del personale Luftwaffe. L’improvvisa manovra aveva mandato fuori formazione i due alianti che Mors aveva visto fracassati lontani dal perimetro dell’albergo. Per poco l’intera missione non era stata mandata all’aria da quell’ambizioso austriaco divorato dalle manie di protagonismo che aveva sconvolto ogni pianificazione militare. Gli ufficiali paracadutisti scuotono la testa di fronte al racconto di Berlepsch, poi vanno a dormire, soddisfatti per quel che sono riusciti a fare e per aver strappato Mussolini agli Alleati.

I

l Lehrbataillon rientra alla base l’indomani. Al Convento Nobile di Mondragone Mors e i suoi uomini vengono festeggiati dagli altri paracaduti che hanno scoperto non solo che esisteva un piano per liberare Mussolini, ma anche che l’onore di questa riuscitissima missione segreta è toccata al corpo d’élite della Luftwaffe. Student si congratula con Mors, ma il clima di festa viene subito guastato da un ufficiale il quale ha appena ascoltato dalla radio che Hitler ha promosso Skorzeny maggiore e l’ha decorato con la “croce di cavaliere”: è la prima volta nella storia dell’esercito tedesco che questa decorazione viene assegnata lo stesso giorno dell’impresa ritenuta meritoria. E questo non è ancora nulla. Martedì 14 settembre il radiogiornale delle 7 fa ascoltare dai microfoni di Radio Berlino la voce del "liberatore di Mussolini", il maggiore SS Otto Skorzeny. Il racconto dell’impresa, per chi ha visto con i propri occhi l’accaduto, è fantascienza pura. Nella versione dell’austriaco un terzo degli uomini che hanno partecipato al blitz sul Gran Sasso sono morti sfracellati contro le rocce o nel com-

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L’ABRUZZO

DEL

1943

Un mercato nero come la fame

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ra le responsabilità del regime fascista, una delle più gravide di conseguenze negative fu l'inadeguatezza delle politiche di organizzazione delle risorse economiche e di gestione degli approvvigionamenti alimentari durante il secondo conflitto mondiale. Già dal primo inverno di guerra (1940) e in forme vieppiù acute a partire dal 1942, l'inefficacia nei razionamenti di cibo, basati sul sistema degli ammassi, insieme alla volontà del fascismo di dare un segnale di apparente normalità ritardando in modo disastroso alcuni interventi indispensabili (il pane venne razionato solo alla fine del '41), fecero sì che generi essenziali alla sopravvivenza – formalmente razionati e ottenibili solo nei limiti previsti dalle tessere – scarseggiassero sempre più sul mercato ufficiale. Si andava invece formando e consolidando una forma parallela e illegale di scambio, detto mercato nero, controllato da 'borsaneristi' (legati alla malavita o semplici commercianti e produttori), nel quale generi di prima

necessità (alimentari, ma non solo) si trovavano in vendita a prezzi straordinariamente più elevati, non alla portata delle classi meno abbienti, ma compatibili con gli standard di vita degli italiani più facoltosi e al riparo, in qualche modo, entro l'universo di favoriti dal regime. All'aprirsi del 1942, il mercato nero poteva dirsi legalizzato di fatto. L'ulteriore collasso nella rete dei trasporti, causato dai bombardamenti, rendeva ancor più difficile la circolazione delle merci sul territorio. I cattivi raccolti prefiguravano drammatiche condizioni di vita. La popolazione civile poteva ormai soddisfare meno della metà dei bisogni primari in forme legali: il resto, lo si otteneva ricorrendo alla borsa nera, al cui interno si impinguavano, più di altri dal piccolo calibro, grandi speculatori (tra cui figure di spicco del fascismo), in grado di fare incetta privatamente di ingenti quantità di derrate alimentari e prodotti di consumo, acquistandole da piccoli

produttori locali o sottraendole agli ammassi, sfruttando radicati canali di corruttela negli apparati di regime, così da ottenere a modici prezzi generi tesserati, per poi rivenderli in nero con profitti impressionanti per l'epoca (e in specie scandalosi considerando le spaventose difficoltà nella vita quotidiana degli italiani). Con l'aprirsi dell'ultima crisi, dopo l'8 settembre 1943, il fenomeno esplose. In Italia, fino alla liberazione, ci si sarebbe sfamati rifornendosi di contrabbando, sia nel Regno del Sud (dove la malavita ne controllò i traffici in oggettiva convergenza d'interessi con soggetti destinati a fortune assai più ampie), sia nella Repubblica sociale. Ancor più ciò avvenne in Abruzzo, date l'arretratezza economica, la crudezza bellica, la stagnazione del fronte nel 1943-44 e la favorevole posizione mediana nella penisola. Gli stessi anni successivi alla guerra sarebbero stati caratterizzati dal mercato nero, principalmente nel Mezzogiorno. I profitti illegali del decennio 1940, dunque, permisero l'accumulo di immense fortune private a personaggi che avrebbero giocato un ruolo di primo piano nell'orientare vicende e scelte economiche (e politiche) nell'Italia repubblicana. L'Abruzzo non si sottrasse a tale condizione, anzi: qui si determinarono potenti posizioni e interessi privatistici, nati proprio nel “nero” del fascismo e del conflitto, e poi fatti pesare nella vita e nell'amministrazione democratiche post-1945. Su di essi occorrerebbe fare chiarezza, per valutare alcune distorsioni del troppo rapido 'boom' economico all'interno del modello di sviluppo regionale. Enzo Fimiani 63


LE DUE FUGHE

ERNST KALTENBRUNNER, DIRETTO SUPERIORE DI OTTO SKORZENY E COMANDANTE IN CAPO DEL

REICHSSICHERHEITSHAUPTAMT (RSHA)

battimento: Hitler ha avuto il suo tributo di sangue tedesco per la liberazione dell’amico italiano. Naturalmente tutta l’operazione, a suo dire, è targata SS e i paracadutisti vi hanno avuto un ruolo marginale. Mors rimane di sasso, i suoi ufficiali non riescono a trattenere la stizza. Berlepsch è paonazzo e nonostante l’educazione che gli deriva dal lignaggio ,perde l’autocontrollo (di lì a poco si ammalerà d’itterizia e sarà ricoverato in un ospedale militare). I paracadutisti vogliono una rettifica, per ristabilire la verità, per veder riconosciuto il loro ruolo, per avere il merito di un’impresa che ha fatto il giro del mondo e che ha riscosso l’ammirazione persino dei nemici: sul Gran Sasso c’è stato un perfetto mix di audacia, organizzazione, tempismo, coordinamento. Student, però, gela le aspettative dei soldati del Lehrbataillon; il generale non attribuisce soverchia importanza all’accaduto, e male fa. I suoi pensieri vanno alle difficoltà di tenere sotto controllo lo scacchiere di Roma, come gli ha ordinato l’Oberkommando, ma di fronte alle insistenze dei suoi ufficiali si impegna a sollevare la questione davanti a Goering. Il comandante in capo della Luftwaffe ha le sue belle responsabilità nell’involuzione della vicenda. Era stato il primo degli alti “papaveri” del Reich a essere avvisato della liberazione di Mussolini, ma la notizia, per i tempi e i modi in cui gli era giunta, gli era sembrata talmente incredibile che aveva preferito aspettare una conferma prima di dirlo a Hitler, e si era limitato ad attendere l’arrivo dell’Heinkel 111 con Mussolini a Vienna.

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no scrupolo che non si era affatto posto Skorzeny, lestissimo a telefonare alla prima buona occasione a Kaltenbrunner e a innescare la reazione a catena lungo i vertici del Partito nazista. Fatto sta che non appena lui e il suo prezioso ospite varcano il salone dell’hotel Imperial di Vienna, dove ci sono due stanze prenotate direttamente da Berlino, l’ufficiale SS riceve una chiamata da Himmler; l’onnipotente capo delle SS si congratula con «l’eroe del Gran Sasso», gli preannuncia che l’indomani sarà ricevuto da Hitler in persona e

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persino che sarà opportuno recarsi dal Führer accompagnato dalla moglie. Ha appena abbassato il ricevitore quando in hotel si presenta un colonnello in alta uniforme che sbatte i tacchi, lo saluta a mano tesa col rituale «Heil Hitler!» e gli consegna la Ritterkreuz. La memorabile giornata di Skorzeny contempla un’altra sorpresa: il telefono trilla e l’emozionatissimo direttore dell’albergo gli smista una chiamata dalla Wolfsschanze. E’ Hitler che vuole congratularsi con lui: «Maggiore Skorzeny, lei è l'uomo del mio cuore. Lei ha coronato col successo la nostra missione. Il suo Führer la ringrazia». Lo ha già promosso maggiore.

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l giorno dopo a Monaco, quando il portello del Junkers Ju 52 proveniente da Vienna si apre, Mussolini è accolto in pompa magna dal Führer. «Appena Hitler mi vide, mi abbracciò – ha lasciato scritto -. Mi sentii morire quando tralasciò i convenevoli ed impostò il discorso sulla situazione italiana. Io ero stanco, sfiduciato, depresso e temevo persino di essere ammalato di cancro (….). Non avevo voglia di parlare, di discutere, ma soltanto di riposare. Invece dovetti ascoltare subito il Führer. Egli entrò in argomento così: “Non bisogna perdere una sola giornata di tempo. È indispensabile che già entro la giornata di domani voi annunciate alla radio che la monarchia è deposta e che sorge lo Stato fascista italiano, i cui poteri dovranno essere accentrati nella vostra persona, che così si renderà garante, e non è possibile accettare altro garante, della piena validità dell'alleanza fra la Germania e l'Italia”».

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’impresa del Gran Sasso fa in breve il giro del mondo. Per motivi diversi ognuno ha interesse a mitizzare quel che è accaduto sulla montagna abruzzese: i tedeschi perché hanno compiuto una missione straordinaria; gli italiani per giustificare una reazione che non c’è stata; gli inglesi per ammortizzare lo smacco subito. Al Servizio informazioni britannico viene attribuito che «la liberazione di Mussolini corona una delle gesta più audaci e sensazionali di questa guerra». Il 14 settembre il “Gazzettino di Venezia” riporta che «a Londra l’Ex-

HITLER ACCOGLIE MUSSOLINI ALL’ARRIVO ALL’AEROPORTO DI MONACO DI BAVIERA, DOPO LA TAPPA A VIENNA.

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LE DUE FUGHE

Albert Kesselring

Albert Kesserling (Markstedt 1885 - Bad Neuheim 1960) è uno dei fondatori della Luftwaffe. Ufficiale formatosi nei ranghi dell’artiglieria, «soldato nell’anima e nel corpo» come si definisce nelle memorie, non era nazista ma non seppe trovare un compromesso tra la sua coscienza e l’obbedienza a Hitler e tentò in ogni modo di rimanere, se non al di sopra, almeno al di fuori della politica. A 48 anni prende il brevetto di pilota, lo scoppio della guerra, il I settembre 1939, lo vede al comando della I Flotta aerea; nel 1940 è Feldmaresciallo e l’anno seguente è comandante supremo del fronte del Mediterraneo. Il “sorridente Albert“, come veniva chiamato dai suoi soldati, lega il suo nome alla ritirata in Italia: 1.200 chilometri di “guerra del centimetro” scanditi in ben venti mesi che faranno dannare gli Alleati. 66

change Telegraph annuncia che la popolazione della Capitale britannica ha avuto notizia della “sorpresa” con “grande dispetto”, giacché solo pochi giorni fa era stata data assicurazione a tutti gli inglesi che Mussolini era “strettamente sorvegliato”». Gli Alleati avevano ricevuto una «notizia assai sgradita» una volta appreso che Mussolini era in mano ai tedeschi, almeno così sosteneva un editoriale del “Goeteborgs Posten”. «E’ evidente - continuava il giornale - che hanno sottovalutato la potenza dei tedeschi in Italia». I francesi vengono informati che sul Gran Sasso era stato realizzato «un colpo di mano senza precedenti». A est si inietta il virus del dubbio:«negli ambienti sovietici di Istanbul si dimostra grande sorpresa per la notizia della liberazione del Duce, non disgiunta da un profondo sentimento di sdegno. Dalle dichiarazioni di questi circoli si ha l’impressione che i sovietici credano di avere a che fare “con l’ingannevole politica borghese della doppia vita” giacché è credibile che il colpo germanico non sarebbe riuscito se certi ambienti anglo-americani non avesse-

Gli piacevano gli italiani e l’Italia, ma la sua firma sui bandi militari e gli atti di rappresaglia contro i civili nella lotta antipartigiana alla fine della guerra lo mandano sotto processo, a Venezia, dove una corte militare britannica lo condanna a morte. Churchill interviene in suo favore e la pena è commutata all’ergastolo. Passa il suo tempo in carcere a Werl incollando sacchetti di carta e nel 1952 viene liberato. Nelle sue memorie, pubblicate nel 1953, non ha parole dure per nessuno, tranne che per Rommel. Aveva detto che gli italiani avrebbero dovuto fargli un monumento, invece di pretendere il processo per crimini di guerra: gli risponde con acri versi il poeta Piero Calamandrei. Dal punto di vista militare la Campagna d’Italia fu gestita con polso, fantasia, efficacia e grande mestiere, come meglio non si sarebbe potuto: glielo riconobbero amici e nemici.

ro avuto interesse che esso riuscisse». Churchill, in un discorso alla Camera dei Comuni che analizzava la situazione politica e militare, così commenterà l’episodio di Campo Imperatore: «Avevamo ragione di credere che Mussolini si trovasse in luogo sicuro e ben custodito, ed era sicuramente nell'interesse del Governo Badoglio non lasciarselo sfuggire. Mussolini stesso, stando a quanto si dice, avrebbe dichiarato che credeva di venir consegnato agli Alleati. Questa era l'intenzione e si sarebbe anche realizzata, se non fossero intervenute circostanze da noi del tutto indipendenti... L’impresa è stata molto audace... Non credo che vi fosse trascuratezza o malafede da parte del Governo Badoglio che, però, si era tenuto un'alternativa: i carabinieri di guardia avevano avuto l'ordine di sparare su Mussolini nel caso si tentasse di liberarlo, ma non compirono il loro dovere a causa delle considerevoli forze tedesche arrivate dal cielo, che senza alcun dubbio li avrebbero ritenuti responsabili della sua vita e della sua sicurezza...».

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a straordinarietà del blitz si apprestava a diventare leggenda. Student non sarebbe riuscito a chiedere una rettifica a Hitler, ma a chiarire i termini della questione con Goring sì. Gli riferirà quanto realmente accaduto a Campo Imperatore, ma il comandante in capo della Luftwaffe si limiterà a scuotere la testa commentando che aveva immaginato qualcosa di simile e che in tutto il bailamme della propaganda doveva esserci sicuramente lo zampino di Goebbels e di Himmler. Goering confiderà a Student che Hitler ormai disperava di potere riavere al suo fianco Mussolini e che, quando lo avevano avvisato che l’Operazione Quercia era stata realizzata, non era più in sé dall’euforia e aveva deciso di decorare Skorzeny senza sentire ragioni né aspettare i dettagli. Tra il Reichsmarschall e il Reichsführer la rivalità era accesa e appena mascherata dalla convenienza e da rapporti formali e di circostanza, ma stavolta il capo delle SS aveva messo a segno un colpo da maestro appropriandosi dei meriti della Luftwaffe; per quanto Goering desiderasse in cuor suo restituire la pariglia, di fronte a un ordine del giorno firmato da Hitler aveva dovuto

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L’Abruzzo del 1943

Linea Gustav, tragico fronte

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elle settimane dopo l'8 settembre 1943, la decisione tedesca di difendersi "palmo a palmo" sul territorio italiano al fine di ritardare l'avanzata degli Alleati da sud condusse alla fortificazione di efficaci baluardi difensivi nella parte centro-meridionale

della penisola. Essi – costruiti ex novo oppure atti a consolidare difese naturali che sfruttavano le asperità morfologiche dei terreni montani e fluviali – presero nel loro insieme il nome di Linea Gustav. Dal Tirreno, all'altezza di Gaeta, la linea si snodava verso nordest, a cavallo delle dorsali dei monti Aurunci e degli Appennini, per giungere fino all'Adriatico, alla foce del fiume Sangro nell'Abruzzo meridionale. Gli eventi bellici che si consumarono su tale crinale, pur avendo come epicentro l'imbuto intorno a Cassino dove si svolsero battaglie tra le più cruente dell'intera seconda guerra mondiale, conobbero pagine di straordinaria intensità anche nell'area abruzzese (ritenuta a lungo cruciale, nella fallace convinzione degli inglesi di giungere a Roma da Pescara chiudendo in una tenaglia i tedeschi). Il fatto che per quasi nove mesi, dall'ottobre 1943 al giugno 1944, la linea del fronte di una guerra mondiale (una total war che coinvolse i civili come mai prima nella storia) ristagnasse in Abruzzo, costituì una cesura nella vicenda contemporanea della regione e un devastante ingresso nella modernità che avrebbe segnato modi e limiti della ricostruzione e dello sviluppo abruzzesi nell'Italia repubblicana. I mesi di scontri tra l'VIII Armata britannica (gli statunitensi operavano sul fronte tirrenico) e le truppe nazifasciste (a Wehrmacht e SS si affiancavano reparti italiani della neonata Repubblica sociale, che da Salò tentava di radicarsi sul territorio nell'autunno del regime), ebbero il loro acme drammatico tra fine 1943 e primi giorni del '44. Spaventosa fu la carneficina che, nel piovoso autunno del '43, costò il passaggio del Sangro, fiume le cui alte sponde favorivano naturalmente la difesa

tedesca e saloina. Terribile poi – nel rigidissimo inverno ormai giunto – si rivelò la conquista da parte alleata della cittadina di Ortona, che andò totalmente distrutta: qui i combattimenti, casa per casa, nell’ultima settimana di dicembre del ‘43 assursero all'epopea di paradigmatica battaglia urbana nel contesto complessivo del conflitto. Nelle zone intorno alla Gustav, però, i sanguinosi mesi di guerra fecero dell'Abruzzo un caso per molti versi unico anche per altri scenari che vi si delinearono. Se la Resistenza vi sperimentò alcuni criteri organizzativi e militari che avrebbero trovato compiuta affermazione durante il 1944-45 nell'Italia centro-settentrionale, furono soprattutto le violenze contro i civili a spiccare con drammaticità. Mentre l'intensità dei bombardamenti alleati causò vittime e distruzioni, i nazifascisti applicarono con ferocia metodi terroristici di controllo della popolazione messi in pratica su più larga scala a livello europeo: decine di eccidi e rappresaglie di inaudita gravità; interi paesi, campi, capi di bestiame rasi al suolo e uccisi (il lugubre fare terra bruciata all'avanzata nemica, che colpì la provincia di Chieti); rastrellamenti allo scopo di reclutare manodopera per il lavoro coatto; sfollamento obbligato per centinaia di migliaia di persone. Quando tutto questo finì, dopo lo sblocco delle operazioni a Cassino e la liberazione di Roma, per gli abruzzesi cominciava davvero un'altra storia, in mezzo alla conta di macerie e vittime (circa 20 mila, tra morti e feriti militari e civili), davanti all'immane opera di ricostruzione. Enzo Fimiani 67


LE DUE FUGHE

ingoiare il rospo e far buon viso a cattivo gioco. Di rettifica non se ne parlava neppure, e lo stesso Student, a un Mors che si era messo a rapporto per perorare la causa dei suoi uomini, dirà: «Caro Mors, non voglio noie con Himmler». Non era possibile neppure precisare che non c’erano stati caduti sul Gran Sasso. L’opinione pubblica tedesca e quella mondiale dovevano avere il tributo di sangue per la causa dell’amicizia: che fosse finto, poco importava. La propaganda nazista non aveva perso un attimo per puntare i riflettori sul primo successo riportato dai soldati tedeschi in un anno che li aveva visti ovunque in ritirata. In un volantino lanciato in Italia in cui campeggiava in grassetto "Il Duce è stato liberato!", si precisava: "Dal Quartier generale del Fuehrer 12 settembre. Paracadutisti nonché organi della Pubblica Sicurezza e delle S.S. hanno effettuato domenica scorsa un'impresa per la liberazione del Duce, trattenuto in prigionia dalla cricca dei traditori. Il colpo di mano è riuscito! Il Duce si trova in libertà! La sua estradizione e consegna agli Anglo-Americani secondo l'accordo del governo di Badoglio con i nemici è quindi fallita. Così Adolfo Hitler ha serbato al suo amico Mussolini la fedeltà!».

I IL GENERALE STUDENT E IL TENENTE BERLEPSCH, DUE DEI REALI ARTEFICI DEL BLITZ CHE PORTÒ ALLA LIBERAZIONE DI

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MUSSOLINI.

l bollettino del 17 settembre del Deusche Nachtrichten Bureau si poneva un interrogativo: «Rimane da chiarire il problema perché gli uomini di scorta, che dovevano guardare Mussolini, non hanno sparato un colpo ma si sono arresi immediatamente e hanno obbedito ai comandi dei tedeschi. Probabilmente la sorpresa è stata un fattore decisivo. (..) Un altro fattore decisivo è stata la rapidità d’azione»; ma nello stesso tempo sottolineava che «tutti hanno partecipato all’azione con ogni energia e l’hanno portata a termine col massimo sangue freddo». Il giorno dopo, 18 settembre, dopo un lungo silenzio gli italiani potranno riascoltare la voce di Mussolini dai microfoni di Radio Monaco. E’ la prima volta da quasi due mesi. Lo stentoreo timbro del dittatore scandiva che «Dopo un lungo silenzio ecco che nuovamente vi giunge la mia voce, e sono sicuro che voi la riconoscete». Ci voleva uno sforzo di fantasia per riconoscere il tono mussoliniano in quelle frasi arrochite. «Ho tardato qual-

che giorno prima di indirizzarmi a voi perché dopo un periodo di isolamento morale era necessario che riprendessi contatto col mondo». Si rivolgeva agli italiani parlando proprio della sua liberazione: «Nella notte dall'11 al 12 settembre feci sapere che i nemici non mi avrebbero avuto vivo nelle loro mani. (...) Erano le 14 quando vidi atterrare il primo aliante, poi successivamente altri; quindi, squadre di uomini avanzarono verso il rifugio decisi a spezzare qualsiasi resistenza. Le guardie che mi vegliavano non capivano e non un colpo partì. Tutto è durato cinque minuti. L'impresa, rivelatrice dell'organizzazione e dello spirito di iniziativa e della decisione tedesca rimarrà memorabile nella storia della guerra. Col tempo diverrà leggendaria».

L

’Abruzzo usciva di scena dai binari della grande storia. C’era stato proiettato il 9 settembre con Vittorio Emanuele III e Badoglio, e il 12 con Mussolini, poi i riflettori si erano spenti e si era fatto il buio. La regione diventava terra di conquista e subiva l’occupazione tedesca. Quel buio sarebbe stato squarciato a novembre, con i bagliori della guerra e il braccio di ferro tra Kesselring e Montgomery al fronte. L’Abruzzo diventava campo di battaglia sul Sangro, sul Moro, a Ortona. Tagliato in due dalla Linea Gustav, spezzato a metà dagli eventi bellici, conoscerà gli orrori degli eccidi, della terra bruciata, dell’unica battaglia casa per casa del fronte occidentale tra le vie della città che fu il buen retiro di Margherita d’Austria. Tra le sue montagne nasceva la lotta partigiana. La liberazione arriverà solo a giugno del 1944. Gli Alleati erano entrati a Roma ed erano sbarcati in Normandia. Il conto alla rovescia sul quadrante della storia stava accelerando verso lo zero.

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L’ABRUZZO

A

partire dalla liberazione di Mussolini, la ricostituzione a metà settembre di uno stato fascista e la successiva continuità furono assicurate non solo dal fatto che comuni, province, le stesse prefetture, anche se spesso decapitate nei responsabili d'alto grado, mantennero una loro attività di routine, ma anche perché, soprattutto a partire dall'ottobre, la ripresa generale della macchina burocratica avvenne con una certa regolarità. All'Aquila il prefetto Rodolfo Biancorosso, nominato dal vecchio governo dal l° agosto 1943, fu collocato a riposo il 10 dicembre e sostituito dall'ex consigliere nazionale Vittorio Monti; a Pescara il 25 ottobre venne nominato Celso Morini, anch'egli ex consigliere nazionale; a Chieti Giannino Romualdi, che da Badoglio era stato nominato il l° settembre, aderì a Salò e rimase nella carica fino al 15 giugno per passare poi alla prefettura di Livorno; a Teramo Vincenzo Ippoliti assunse la carica il 25 ottobre per passare, a ridosso della liberazione della città, a reggere la prefettura di Ancona. La continuità, però, non riguarda soltanto le gerarchie dello stato, ma anche i livelli più bassi della burocrazia e abbraccia tutti i settori della pubblica amministrazione. Il giuramento di fedeltà alla RSI prestato dagli impiegati costituisce un elemento di spiccata rilevanza dal momento che per un verso testimonia di una sostanziale (anche se spesso forzosa) adesione alla nuova compagine fascista in nome di una "fedeltà" acriticamente intesa; per altro il loro ergersi comunque a diaframma - fragile fin quanto si vuole - fra occupanti tedeschi e gerarchie fasciste e i bisogni elementari della popolazione, contribuirà a salvare i più dall'accusa di collaborazionismo e di tradimento. Anche lo stato degli studi relativo alla organizzazione politica fascista presenta grandi lacune soprattutto se si pensi che la rinascita di un fascismo repubblicano, di organizzazioni sindacali, di strumenti di propaganda, o non viene registrata, oppure viene affrontata in termini sbrigativi e liquidatori che certamente non aiutano a comprendere i termini veri su cui si combatté la battaglia tra fascismo e antifascismo. Pur non

DEL

1943

L’ultimo fascismo avendo notizie certe, è da ritenere che l’organizzazione politica fascista, la rinascita di un fascismo repubblicano, delle organizzazioni sindacali, degli strumenti di propaganda, ebbe una sua certa continuità. Tutto questo è tanto più vero per l'Abruzzo, dove la provvisorietà della presenza fascista dopo l'armistizio non viene riconosciuta nei suoi concreti addentellati, ma identificata tout-court con l'occupante tedesco al quale è associata in un giudizio di condanna morale e politica. Tra l'ottobre 1943 e la Liberazione, operarono in vario grado e con diversa capacità di incidenza organismi del PFR, federazioni, sezioni, sindacati, polizia di partito (GNR) e giornali; una presenza che testimonia un qualche radicamento non immediatamente riconducibile a mera coercizione e alla presenza degli occupanti tedeschi. A circa un mese dalla liberazione di Mussolini, la riorganizzazione del Partito fascista può dirsi avviata e la nascita il 23 settembre del nuovo stato contribuirà a dare ad esso ulteriore slancio. Il 16 ottobre si tiene a Teramo la prima as-semblea del rinato fascio repubblicano, il giorno prima a Chieti un manifesto annuncia la ricostituzione della Federazione fascista. Al congresso di Verona del 14 novembre partecipano delegati delle federazioni abruzzesi ad eccezione di Chieti, segno forse di una persistente difficoltà a cui non doveva essere estraneo il fatto che il fronte tagliava a metà la provincia. Una certa vitalità mo-stra il fascismo teramano, se nel giro di un paio di mesi può annoverare la costituzione di 20 fasci in tutta la provincia per un numero complessivo di oltre 500 iscritti. Un numero destinato a crescere, stando ai dati di fine gennaio sul numero, ben 482, degli iscritti al fascio del capoluogo. Alla fine di dicembre gli aderenti al fascio dell'Aquila (il solo esistente nella provincia) erano circa 700, vale a dire il 20% degli iscritti al vecchio PNF. Si tratta evidentemente di cifre apparentemente di non grande significato, ma che andrebbero ampliate attraverso una ricognizione più circostanziata che ne diano una dimensione più verosimile e soprattutto correlata con altri momenti di organizzazione politica e sindacale.

A Teramo, ad esempio, dal 28 ottobre 1943 sino al 3 giugno 1944 viene pubblicato l'unico periodico ("Tempo Nostro", un settimanale) di una federazione fascista repubblicana in Abruzzo; dal 15 marzo, poi, gli si affianca un quindicinale, "Il Lavoratore", emanazione delle Unioni provinciali fasciste dei lavoratori. Si tratta dunque di fonti di primaria importanza per cogliere lo spirito che anima l'ultimo fascismo abruzzese nel quale si affastellano e si accavallano spesso con-traddittoriamente la denuncia della Monarchia, il tradimento dei "molti", la condanna del capitalismo e della religione, l'aspirazione a ritornare ad un fascismo delle origini, la rivendicazione di un nuovo ordine sociale del quale la "socializzazione" avrebbe dovuto essere cardine. Quest'ultimo sarà uno degli argomenti più dibattuti sui fogli teramani e, al di là della fumosità di linguaggio e della astrazione degli obiettivi, testimonia uno sforzo di at-tenzione ai temi sociali che cercava di mettere in pratica i postulati del nuovo stato. L'attivismo dimostrato su questo versante dal prefetto Ippoliti rappresenta l'estremo tentativo di ricostruire un minimo di consenso sociale attorno a slogan di tipo anticapitalistico, a provvedimenti "emblematici" di lotta alla borsa nera, di riequilibrio salariale, di provvidenze che nelle condizioni difficili di quei mesi andassero incontro alle più elementari esigenze degli sfollati. Ci troviamo di fronte, almeno in alcuni casi, ad una capacità di resistenza, se non di presa del neofa-scismo che va attentamente valutata: nel gennaio 1944 tra i 482 iscritti al fascio di Teramo, circa un terzo, 153, non erano stati aderenti al vecchio PNF. Un’analisi di questo tipo offrirebbe certamente nuovi elementi di conoscenza che ineriscono non solo alla sfera sociale e politica, ma anche a quella etica, vale a dire alla risposta che molti (e non solo coloro che fecero la scelta antifascista o quella della non collaborazione) diedero al problema del "tradimento". Luigi Ponziani

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Sommario

Gaetano Bonetta, Flashback Giorgio Bocca, Quando nacque l’Italia Marco Patricelli, Le due fughe La caduta del Duce 25 Luglio: l’ordine del giorno di Dino Grandi Nella Tana del lupo L’Abruzzo del 1943/La fine dell’età dell’innocenza di Umberto Dante Dalla Maddalena a Campo Imperatore L’Abruzzo del 1943/Sul Gran Sasso con gli sci di Luigi Mastrangelo “Italiani!”. Gli appelli del re e di Badoglio L’Abruzzo del 1943/Il boom della produzione bellica di Marcelli Benegiamo Herbert Kappler L’Abruzzo del 1943/Quando si fermarono anche i mulini di Lia Giancristofaro Giuseppe Castellano L’armistizio corto L’Abruzzo del 1943/Una regione che s’industria di Marcello Benegiamo 8 Settembre, l’annuncio radiofonico di Badoglio OP 44, un esercito allo sbando L’Abruzzo del 1943/Un’economia rasa al suolo di Marcello Benegiamo Giacomo Carboni L’Abruzzo del 1943/Una scuola a regime di Elsa M. Bruni Mario Roatta L’Abruzzo del 1943/Libro e moschetto di Elsa M. Bruni Vittorio Ambrosio Harald Mors L’Abruzzo del 1943/Arte prima e dopo di Maria Cristina Ricciardi Kurt Student L’Abruzzo del 1943/Povere biblioteche di Elsa M. Bruni Otto Skorzeny E Mussolini giocava a scopone L’Abruzzo del 1943/Il risveglio degli intellettuali di Mario Cimini L’Abruzzo del 1943/Dietro il filo spinato di Antonella Di Lorito L’Abruzzo del 1943/Quei patrioti sulla Majella di Marco Patricelli L’Abruzzo del 1943/Un mercato nero come la fame di Enzo Fimiani Albert Kesserling L’Abruzzo del 1943/ Linea Gustav, tragico fronte di Enzo Fimiani L’Abruzzo del 1943/L’ultimo fascismo di Luigi Ponziani Riferimenti bibliografici essenziali

Finito di stampare nel mese di gennaio 2004 presso la Litografia Botolini di Rocca San Giovanni (Ch).

redazione: 65122 Pescara Via Puccini 85/2 tel. 08534296 fax. 08527132 e-mail: redazione@vario.it www.vario.it


flashback

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ella calda e declinante estate del ‘43, dopo lo sbarco alleato al Sud e quando la cruenta guerra cominciava a penetrare sempre più consistentemente nelle terre e fra le genti d’Italia, l’Abruzzo fu teatro di eventi che ebbero una importanza decisiva per le sorti del nostro paese, sia da un punto di vista bellico sia da un punto di vista politico e istituzionale. Fra questi, senz’altro i più importanti sono stati le fughe di Mussolini e di Vittorio Emanuele III che segnarono profondamente i destini della Nazione, nonché l’evoluzione della guerra e i futuri assetti dell’Europa. A queste vicende viene dedicato il primo numero della nostra collana Flashback. Ad esse viene dedicato un impegno narrativo che con originalità ripercorre le trame e gli avvenimenti di storie complesse e controverse. Ma il racconto storico dei fatti e degli eventi, definiti secondo una prospettiva spaziotemporale ben precisa, funge anche da cornice alla narrazione dei molteplici aspetti della società abruzzese, colta in tutto il suo caratteristico interagire con il resto della nazione. Ciò vuol essere la più nitida e significativa espressione di come la storia s’intreccia con le storie, di come la cosiddetta “grande” Storia si completi e sia completata dalle numerose,

distinte e, talvolta, divergenti o convergenti storie, in virtù della osmotica relazione fra “historia maior” e “historia minor”. La definizione dello scenario reale e quotidiano della nostra regione, che in quegli anni sembrava assistere in silenzio e passivamente al mutamento politico, sociale e culturale dell’Italia, svela invece quanta vita si celasse in quell’Abruzzo che ha fatto da sfondo alle “due fughe” parallele e quasi contemporanee, quella del re che si imbarca ad Ortona e quella del Duce che vola via dal Gran Sasso. Il racconto storico, condotto da Marco Patricelli, segue il dispiegarsi degli eventi abruzzesi fra il luglio e il settembre 1943, tratteggiando con minuziosa cura i protagonisti e i luoghi e ricostruendo, al tempo stesso, le matrici politiche e istituzionali della guerra in Abruzzo. Le tante storie, intessute all’interno della “grande” trattazione, si propongono di indagare gli sfaccettati aspetti sociali, economici, politici, intellettuali della realtà locale, alla comprensione della quale il lettore viene introdotto mediante contributi scientifici di approfondimento redatti dai più accreditati specialisti. Gaetano Bonetta

LEDUE FUGHE LEDUE FUGHE

N

flashback

ABRUZZO SETTEMBRE 1943

il Re si imbarca a Ortona il Duce vola dal Gran Sasso

Supplemento a

VARIO 49

di Marco Patricelli

6,00

Fondazione CARIPE


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