Chasm

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Roberta Dellabora

CHASM

Daresti l’anima per salvare le persone che ami?


Prima edizione marzo 2015 Self-publishing Pavia, Italia Roberta Dellabora Chasm Romanzo breve

Copyright © 2015 Roberta Dellabora Author Proprietà letteraria e artistica riservata. Tutti i diritti sono riservati. Vietata la riproduzione. Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è puramente casuale.


Prologo

Sapete una cosa? La mia vita non potrebbe andare peggio di così. E’ piuttosto triste da pensare, lo so, ma purtroppo è la verità e io non posso farci nulla. Forse vi sembrerò un po’ drastica e magari non vi starò del tutto simpatica, ma aspettate di conoscere la mia storia e poi potrete giudicare voi stessi. Sì, perché la mia non è come le altre storie. Non c’è un principe e non vi è neppure un castello sperduto tra le valli di qualche magico mondo incantato. No, ci sono io, Samanta D’elia una semplice ragazza di 20 anni con tanti problemi per la testa e una famiglia a cui badare. Che poi non direi proprio “famiglia”, in effetti di questo non si tratta se dovessimo pensare a mia madre come un’alcolizzata cronica e alla mia sorellina, Ginevra, come una quindicenne già con il piercing all’ombelico che va in giro fingendo di non avere una sorella. In effetti mi viene da star male al solo pensiero. Purtroppo non ce la passiamo per niente bene e non parlo solamente del nostro rapporto in famiglia. Da quando mio padre morì stroncato da un infarto la mia vita cominciò a prendere una brutta piega, tutt’altro che rose e fiori. Dovetti lasciare la scuola bocciata per due anni di fila al liceo scientifico e avevo dovuto trovarmi poi un lavoro, che non poteva e non voleva darmi alcuna soddisfazione; ma quale soddisfazione poi? Fare la cameriera in un pub squallido aperto la sera fino a tardi e talvolta non riuscire neanche a portarsi a casa la mancia per colpa del proprio capo avido e menefreghista. E come se non bastasse mi era già capitato diverse volte di avere una detrazione dello stipendio per essere arrivata in ritardo sul posto di lavoro. Già, quale soddisfazione? Ad ogni modo la mia storia inizia così, in una giornata soleggiata di un lunedì di fine settembre. Il caldo stava pian piano lasciando il posto all’imminente autunno e già, sugli alberi, si potevano scorgere le prime foglie cambiare colore e divenire di tante tonalità tra un rosso accesso e un giallo limone. Fortunatamente il pub a cui lavoravo il lunedì mattina e metà pomeriggio faceva chiusura e quindi, in quel giorno, potevo dedicarmi ad altro, allontanarmi qualche ora da casa per prender una boccata


d’aria, starmene per i fatti miei senza che la puzza di alcool dei whiskey di mia madre potesse urtarmi le narici come ogni santo giorno. Così prendevo e me ne andavo semplicemente. Talvolta mi piaceva trascorrere il mio tempo in una piccola biblioteca a Milano che si trovava a pochi passi dal mio quartiere e restare lì a sfogliare qualche libro e assaporare il profumo delle pagine. Anche se tutto sommato devo confessarvi che non sono una gran divoratrice di libri, anzi, avrò iniziato centinaia di romanzi lasciati poi lì inconclusi per sempre. Adesso che ci penso: chissà quante volte avrò riletto le prime pagine di Harry Potter? In altri giorni, invece, e questo soprattutto nelle stagioni calde, prendevo il mio telo da spiaggia e mi sdraiavo all’ombra di uno degli alberi del grande parco del castello Sforzesco in centro città e rimanevo a pensare con gli auricolari nelle orecchie e la musica a livelli stratosferici. Sì, perché la musica era una delle poche cose che riusciva a distrarmi veramente. Riusciva a rilassarmi i nervi tesi, a farmi pensare cose positive e a sognare. A sognare, già. Sono sempre stata una grande sognatrice, forse una delle migliori. Se mi avessero chiesto un giorno di gareggiare ad una competizione da sognatori sarei arrivata tra i primi tre. Perché i sogni sono così: sono in grado di darti la vita che vorresti, che speri, su misura per te stesso. Ma solo con i sogni e un pugno di progetti nel cassetto non si va da nessuna parte. Questo l’ho imparato negli ultimi anni, quando pian piano iniziai la mia discesa in quel baratro da cui sapevo non avrei più fatto ritorno. Ma, dopotutto, mi sono sempre fatta forza e sognando una vita nuova dove la mia quotidianità fosse scandita da orari di lavoro accettabili, e caratterizzata da una buona occupazione, sono andata avanti ingoiando l’amaro in bocca quando dovevo e approfittando della situazione quando potevo. Sognavo una vita nuova dove mia madre abbandonasse il dolore che ancora dopo tutti questi anni si portava dentro e trovasse la forza di capire che c’era bisogno di lei. Una vita nuova dove Ginevra vivesse veramente come una ragazzina della sua età, felice, spensierata e soprattutto leale verso il prossimo. Inutile dire che soffrivo, soffrivo tanto. E l’unico modo per scaricare questo dolore era proprio uscire all’aria aperta. La cosa che più mi affascinava del grande parco del castello Sforzesco, il parco Sempione, erano le persone. Restavo ore ferma ad osservare le loro vite e quasi, dai loro gesti, dai loro movimenti, dai loro sguardi, sembrava di riuscire ad immaginare chi erano. Era come un hobby che non riuscivo ad abbandonare, mi veniva spontaneo osservare e rubare scorci di storie, una diversa dall’altra. Quando ripensavo a come era nata questa passione, mi veniva subito in mente il teatro e una frase che la mia insegnante mi disse: “Non si può immaginare di


personificare una vita se questa non fa parte di noi stessi almeno per quel poco che sia. Anche la più semplice e apparentemente banale può riserbare una grande storia”. Non ho mai ritenuto che la mia storia fosse banale, ne tanto meno semplice. Anzi, ho sempre combattuto per far sì che lo fosse. Ma il futuro scritto dal mio destino, sicuramente, non prevedeva una pianificazione di questo tipo. Quel lunedì camminai per un paio di chilometri nel parco, soffermandomi di tanto in tanto su una coppia di ragazzi, o un anziano signore seduto sulla panchina a leggere il giornale, o sulla figura di una giovane ragazza correre nel parco. Ma la mia attenzione vagò quasi sempre su un uomo che si trovava a pochi passi da me, qualche metro più in là. Quest’ultimo sembrava oppresso da un qualcosa di indecifrabile, il suo sguardo era perso nel vuoto e il suo respiro agitato e irregolare. A primo impatto non lo stetti ad osservare più di tanto, poiché dai vestiti e dalla barba lunga pareva proprio essere un senza tetto. Ma la sua frenesia era imperturbabile e l’atmosfera tetra che lo circondava era talmente densa che poteva essere quasi toccata a mani nude. Io quel giorno non potevo saperlo e probabilmente se lo avessi saputo non mi sarei mai avvicinata. Ma il mio radar “acchiappa- guai” e il mio senso civile ebbe la meglio. Mossi qualche passo nella sua direzione lentamente. Man mano che procedevo i lineamenti scarniti dell’uomo si facevano sempre più chiari e il colore pallido della pelle rugosa, sempre più inquietante. Anche quando gli fui praticamente appresso, esso non si mosse e non sollevò il volto per guardarmi. «Si sente bene?» chiesi allora con un filo di voce, ma l’uomo sembrò non avermi neanche sentita. «Signore?» domandai ancora inginocchiandomi al suo fianco per farmi vedere meglio. Ad un certo punto l’uomo mi lanciò un’occhiata sobbalzante, come rinvenuto da un incubo improvvisamente e la sua fronte iniziò a sudare finché, presto, tutto il corpo non fu scosso da un tremito gelido. Ricordo i suoi occhi, forse una delle cose che guardo più spesso in una persona, probabilmente per la loro magnifica capacità di dir il vero anche quando non si vorrebbe . E quello che vidi fu spaventoso. Lessi una grande angoscia divorare quel povero uomo: terrore puro, buio, nero assoluto. Le tenebre nello sguardo di un uomo innocente ormai spacciato. Occhi color nocciola. Ma cera quella venatura a rovinare il tutto, insieme a tante linee rosse che segnavano il bulbo oculare, come se stessero andando a fuoco. Esitai per un istante. L’uomo schiuse le labbra tremanti e fissandomi bisbigliò delle parole che mi lasciarono impietrita: «Dio mio… Dio mio… Sangue… Ovunque. Ci


divorerà. Moriremo tutti…» disse quelle ultime parole come in un sospiro rassegnato e ormai sfinito si riappoggiò con la schiena al tronco dell’albero senza più aprir bocca. Ero rimasta scioccata e la figura oscura di quell’uomo mi aveva riempita di brividi fino alle ossa. Le sue parole così dure, disperate. Quell’uomo era strano, senza alcuna ombra di dubbio, e non riuscivo a liberarmi dal suo sguardo. La parte più trasparente e vera di una persona, mi ripetevo dentro me. Mi rialzai e feci per andarmene, ma prima che potessi muovere un passo l’uomo mi fermò. «Fermati, ti prego» sbiascicò incerto, la voce spezzata. Lo guardai sbigottita. «Aiutami, salvami!» mi implorò e un brivido mi attraversò la spina dorsale lasciandomi quasi senza parole. «Mi scusi, io..» balbettai. «Non credo di essere in grado» ero più spaventata che mai. Gli occhi dell’uomo, che fino ad un attimo prima si erano accesi di una speranza remota, si spensero improvvisamente diventando di un grigiore straziante. Non pianse né mi fermò nuovamente. Ritornò col capo chino a fissare il terreno, immobile come lui. Tirai fuori dalla mia tracolla il panino che mi ero preparata per pranzo (e che forse non avrei comunque mangiato) e lo posai davanti all’uomo, che però non ci fece caso né ringraziò. Alla fine sgattaiolai via senza più guardarmi indietro. Quella fu l’ultima volta che lo vidi. Fino al giungere della sera quando rientrai a casa. Come al solito l’intera casa era impregnata dell’odore dell’alcool, perfino le foto attaccate alle pareti parevano più scolorite. Mamma era in salotto seduta sulla poltrona e stava terminando un piatto di piselli e prosciutto. «Samanta! Mi hai fatto spaventare» sobbalzò vedendomi spuntare dalla cucina. «Non ti ho sentita entrare». «Dov’è Ginevra?» chiesi notando che il suo cappotto mancava dall’attaccapanni nel corridoio d’ingresso. «E’ andata da quella sua amica. Come si chiamava? Daniela. Sì, Daniela». «Di nuovo? E’ la quarta volta questa settimana. Non le hai detto niente?» lascia che il mio corpo si abbandonasse sulla poltrona di finta pelle, tra la portafinestra e la lampada rosa che due natali fa ci aveva regalato la nonna prima di morire. La mamma fece spallucce e prese un altro boccone, mentre con l’altra mano cambiò canale alla televisione. La canzone del Tg delle otto risuonò col suo motivetto melodico e snervante. «Mamma non credi che sia arrivata l’ora di fare qualche cambiamento?» chiesi esausta, come se quella domanda gliel’avessi posta un milione di volte. La mamma corrugò la fronte e volse i suoi occhi verde acqua verso i miei.


Se non fosse stato per l’ombra attorno il suo sguardo e le rughe che la rendevano ancora più vecchia di quanto non fosse, si poteva dire che era quasi come guardarsi allo specchio. Capelli ramati con striature che ricordavano la terra di Siena della Toscana, corporatura esile e magra, i lineamenti gentili, definiti da un viso a forma di cuore e dagli occhi grandi e lucenti. Una luce che non brillava ormai da troppo tempo, per lei. «Sami, lo sai come la penso. Ne abbiamo già discusso. Se ne parlerà, ma più avanti. Non ora, ecco» rispose in tutta calma, facendo un gesto di impazienza con la mano. «Mamma..» «Guardiamo un po’ di tv, va bene? Prima che vai a lavorare» chiuse così la discussione com’era solita fare. Alzò il volume quando il primo servizio andò in onda. Le immagini di un politico si alternarono, mentre la voce profonda di un giornalista spiegava in sottofondo le nuove riforme elette dal parlamento italiano negli ultimi giorni. La politica era un discorso che non mi aveva mai interessato fino in fondo, né ci avevo mai capito molto, quindi non diedi molta retta alle parole del video. Pochi minuti dopo, però, il Tg mandò un nuovo servizio. Si parlava di un omicidio avvenuto proprio quella mattina a Milano. Il corpo mutilato di un uomo era stato ritrovato nel pomeriggio e il capitano della polizia che era intervenuta sul posto, spiegò che era stato necessario chiudere il castello Sforzesco e i suoi dintorni per degli accertamenti. Il Castello Sforzesco? Pensai allarmata intanto che una strana sensazione cominciava ad insediarsi nella mia testa. “Il corpo dell’uomo è stato rinvenuto nel fossato del castello stamani. Gli esperti ci spiegano che non hanno ancora idea di chi, o cosa, abbia potuto attaccare il povero malcapitato, dato i profondi morsi che dal collo terminano su tutto il torace. Non escludono, ovviamente, l’opera di un animale che avrebbe potuto aggirarsi nei pressi del castello Sforzesco. Ma il caso non detiene ancora alcun dato certo. Solamente l’analisi effettuata in laboratorio dagli esperti svela che l’aggressione è avvenuta proprio questa mattina presto, intorno alle quattro. Pur essendo il corpo orribilmente sfigurato si è potuto risalire comunque all’identità dell’uomo, un operaio edile, di cinquant’anni non sposato che viveva da solo nella zona nord Milanese di Zara. Il suo nome era Antonio Lensi”. Una fotografia di un uomo sovrastò le immagini retrostanti del servizio, paralizzandomi. Gli occhi color nocciola, il viso scarnito, le pieghe sulla pelle. Non c’era alcun dubbio: quello era esattamente la fotografia dell’uomo che avevo incontrato al castello quella mattina. Ma com’era possibile?


La notizia mi aveva talmente scossa da rimanere senza fiato e presto dovetti fare i conti con una serie di brividi freddi che mi destarono violentemente dallo schermo della televisione. Quell’uomo... era vivo e di fronte a me. Lo avevo visto sotto l’albero. Gli avevo lasciato il mio panino. Mi aveva guardato con i suoi occhi pieni di orrore. Non era possibile: non potevo essermi immaginata il viso di un uomo che non avevo mai visto prima d’ora. La polizia doveva essersi sbagliata. No, non ero pazza me lo sentivo. Non lo ero e avevo tutti i motivi per dimostrare a me stessa che avevo ragione.


PARTE I Capitolo 1

La sera calò e lentamente il cielo blu scuro si tinse di tanti puntini luminosi. Era incredibile come si potesse osservare tanta bellezza dalla periferia in cui vivevamo ai margini est della città. Una volta, quando papà era ancora tra noi e lavorava in una famosa multinazionale come manager amministrativo, abitavamo in centro in un appartamento di una vecchia corte ottocentesca e qui le luci e i lampioni della movida milanese avevano sostituito lo splendore del cielo notturno. Nulla traspariva, nulla che non appartenesse ai palazzi ricchi di storia, o alle vie sfarzose, o all’alto tenore di vita. Le stelle, per quanto ne sapevo io, erano altre cose. E una volta sognavo di diventare una di quelle per il teatro, o per il cinema. Adoravo recitare, personificare personaggi diversi, creare una nuova vita e una nuova persona sul palco. Non era solamente divertente, era una realtà che faceva parte di me: vedere gli spettatori sospirare commossi, sentire il cuore battere forte prima di ogni spettacolo, fare del proprio corpo e della propria voce una fonte di espressione rinnovabile, storia dopo storia. Saper piangere, saper ridere, saper scegliere l’attimo esatto in scena. Mi era così naturale che certe volte non ricordavo neanche chi fossi e quale fosse il mio vero carattere. Diventavo chi volevo tutte le volte che volevo. Forse a pensarla in questo modo potrebbe non sembrare così eccezionale, direte voi. Ma vi assicuro che per me significava molto perché, paradossalmente, questa mia passione non diventava mai una maschera. Ed era fantastico. Un chiacchiericcio poco distante mi fece tornare alla realtà all'istante. Distolsi lo sguardo dalle stelle per notare che Ginevra, mia sorella, stava camminando verso casa accompagnata da una ragazza bionda al suo fianco.


Mi soffermai sulle gambe nude, sulla minigonna e sulla maglietta troppo corta, prima che si accorgesse della mia presenza. Sbuffò scocciata e mi lanciò un’occhiataccia. Daniela al suo fianco mi volse uno sguardo, squadrandomi. «E questa è tua sorella?» chiese critica, la voce bassa e stridula. Ginevra arrossì violentemente e cominciò ad agitarsi: «Dani, non è mia sorella. Vi ho già detto che è una cugina di Roma che è venuta da noi ad abitare!» esclamò, poi si volse a guardarmi negli occhi. «E’ una buona a nulla» concluse e trascinò via con sé la sua amica passandomi oltre senza aggiungere altro. Cugina, aveva detto. A volte dimenticavo quanto fosse loquace la mia sorellina, ma soprattutto quante bugie era disposta a raccontare per vivere una vita da sogno nell’alta società. Non aveva mai accettato fino in fondo la scelta di trasferirci dopo la morte di nostro padre. Perennemente, la vedevo aggrapparsi a spiragli ormai logori, scorci di vita che non le appartenevano. Odiavo quel suo voler essere costantemente al centro dell’attenzione. «Ehi, io sono qui. E presumo che per andare a mangiare “da un’amica” non serva mettersi in ghingheri?» osservai fissandola dritta negli occhi. I miei stessi occhi. Ginevra strinse le labbra e esordì con un borbottio infastidito. Daniela si rivolse ancora una volta a lei: «Beh, fammi sapere cosa vuoi fare domani sera. L’ingresso non costa tanto e poi ci sarà anche Luca» ridacchiò facendole l’occhiolino. «Ora vado». «Aspetta!» la fermai allungando la mano a mezz’aria. «Non crederai davvero di tornare da sola? Ti accompagno io» mi offrii anche se non ne avevo per niente voglia, ma conoscevo le buie vie di Milano e soprattutto le metropolitane di sera. E non erano certo luoghi raccomandabili a quell’ora. «Cosa?» rise incredula Daniela. «No, grazie! E comunque adesso mi devo incontrare con il mio ragazzo. Non voglio una terza incomoda tra noi due». Rimasi di sasso per la sua sfacciataggine. Piccola ingrata! Probabilmente una volta le avrei anche risposto a tono, ero dotata di un orgoglio di ferro e una personalità inattaccabile. E ora, inevitabilmente, mi rivedevo un po’ in Ginevra. La voglia di vita, di divertimento, di popolarità. Come una droga che crea non solo dipendenza, ma euforia. E presunzione. «Come credi» stiracchiai un sorriso sardonico e ritornai con lo sguardo a Ginevra che stava scuotendo la testa incredula. Daniela le rivolse un ultimo saluto e sparì tra le vie del quartiere da dove era arrivata. Non appena Ginevra fece per raggiungere la porta d’ingresso, allungai velocemente una mano e le afferrai il braccio. «Che fai? Lasciami!» esclamò stizzita. Gli occhi come punte di frecce acuminate pronte a scattare.


«Ascoltami, non devi per forza uscire sempre con Daniela per dimostrarle qualcosa» dissi senza sciogliere la presa che mi legava a lei. «Ma che cazzo dici? Daniela è la mia migliore amica. E piantala di dire scemenze» ringhiò. «Stammi a sentire. D’ora in avanti sarò io a darti il permesso di uscire in settimana. Non è possibile che i pochi soldi che io riesca a portare a casa tu debba spenderli per le tue assurde cose da bambina viziata. Io lavoro per permetterti di andare a scuola, per pagare queste fottutissime bollette e per le sedute dal terapista per la mamma. E dovunque tu voglia andare questo sabato, sappi che non ti darò neanche un soldo per entrarci!» stranamente la voce mi uscì più ferma di quanto mi ero immaginata, anche se le labbra non smettevano di tremare dalla rabbia. Ginevra spalancò gli occhi e la sua faccia prese a diventare rossa come un pomodoro. Mi puntò il dito contro il petto e iniziò ad urlare: «Per la cronaca, il Metropolitan è uno dei posti più belli di Milano. E’ pieno di gente famosa e non posso non andarci. Non rimarrò a marcire qui come fai tu, io diventerò qualcuno un giorno». Stessi occhi, stessi capelli, stesso carattere, stessi sogni. Io e Ginevra eravamo così simili. Ma allo stesso tempo così distanti. La mia bolla di felicità e speranza era scoppiata già da un bel pezzo e, un giorno con l’altro, ero stata catapultata nella cruda e vera realtà di tutti i giorni. Mentre lei ancora viveva in quella bolla, come se il mondo all’esterno non potesse scalfirla e neanche minimamente avvicinarsi al suo ego spropositato. «Per la cronaca, Ginevra, tu non andrai al Metropolitan!» gridai rivolgendole uno sguardo accigliato, come per farle capire che il discorso era chiuso. Le sue guance si gonfiarono rosse di rancore. Con uno strattone si liberò dalla mia presa e a grandi falcate, andò ad aprire la porta d’ingresso. Prima di entrare, però, si volse un’ultima volta con un’espressione corrucciata in volto. Lanciò uno strillo acuto nella sera. Un grido di frustrazione e ira. «Ti odio!» mi disse e si richiuse la porta alle spalle. La porta sbatté con un tonfo lasciandomi sola e avvelenata da quelle ultime due, terribili, parole.


Capitolo 2

L’eco della voce di Ginevra mi ronzava ancora nelle orecchie come un fantasma inquieto e insistente. Non mi ero mai sentita tanto sola come ora. Il cuore spezzato, fatto a pezzi in tanti piccoli frammenti di carne. Sapevo che non facevo parte del cerchio di persone che Ginevra stimava, ma sentirselo dire con parole dure e cariche di astio, come era successo quella sera, mi aveva colta impreparata. Avevo voglia di piangere. Ma perché non poteva andarmene bene almeno una volta? Solo una, non era voler tanto, no? Presi la metropolitana più tardi diretta, come al solito, al “Filligan pub” dove lavoravo. Erano più o meno le otto e mezza, e a quell’ora le cabine del metrò erano poco affollate. Vi erano più signori che tornavano tardi dal lavoro, e si poteva leggergli in volto la stanchezza della giornata premergli sulle palpebre degli occhi. Più in là, invece, vi era un ragazzo un po’ più sveglio di tutti gli altri, dai piercing al naso e sulle orecchie che stava guardando il cellulare, lanciando talvolta qualche occhiata qua è là per il vagone. Mentre seduta a un posto da me, una signora vestita in larghi abiti colorati leggeva tranquilla un libro. Guardai nuovamente l’orologio e capii quasi subito che avrei fatto bene a correre non appena uscita dalla metropolitana, se volevo arrivare puntuale al pub. La discussione con Ginevra e l’incontro fastidioso con Daniela, mi aveva fatto perdere tempo. E ora dovevo pagarne le conseguenze. Accidenti! Accesi la schermata del mio cellulare, quando mi accorsi che mi era arrivato un messaggio da pochi minuti. Si faceva fatica a sentire il telefono in metropolitana.

“Gine è rientrata in casa arrabbiata. Avete litigato di nuovo? Fate la pace.”


Era un messaggio della mamma. Solo lei poteva scrivere “Fate la pace” alla fine di un messaggio. Quello che però non capiva è che non avevo più 15 anni come Ginevra, e che forse avrebbe fatto bene a parlarle, invece di mandare messaggini rappacificatori, sperando che il mondo potesse cambiare magicamente. Che noi potessimo cambiare. Sospirai rassegnata e riposi il cellulare. All’improvviso tutto si fece buio. Le luci si spensero, il ronzio metallico del vagone si attenuò e il metrò inchiodò di colpo facendomi sobbalzare in avanti, e cadere a terra. Il telefono si illuminò un istante mentre veniva sbalzato via dalle mie mani, ma poi si spense un attimo dopo. Le persone a bordo sussultarono presi alla sprovvista e sentii nel buio più cieco, dei suoni come ripetuti sfregamenti e dei passi. Poi silenzio. Allungai le mani per tastare il pavimento alla ricerca del mio telefono, procedetti a carponi. Toccai un sacco di cose improbabili che mi augurai di non scoprire mai cosa fossero. Ad un certo punto sfiorai qualcosa, forse una mano. E dopo la mano una voce, bassa, roca e graffiante. Conoscevo quella voce, ma non capivo come, un secondo dopo intravidi nelle tenebre dei lineamenti di un viso che mi sembravano alquanto famigliari. «Samanta…» bisbigliò l’uomo. «Samanta attenta, scappa!». Il cuore mi balzò fuori dal petto. I miei occhi non potevano credere a ciò che stavano vedendo. Davanti a me, accovacciato, c’era l’uomo che quella mattina era stato trovato morto dalla polizia, e che ero più che sicura di aver incontrato. Il suo sguardo supplichevole mi trafisse come una spada. I suoi occhi color nocciola, adesso, erano più vispi che mai. Un grido di terrore mi sfuggì dalla gola e nei dintorni udii le persone voltarsi allarmati. La luce tornò d’un tratto. Davanti a me non c’era nessuno, solo la porta del vagone che rifletteva i miei lineamenti minuti. La mia mano era appoggiata su un libro. Mi girai di scatto e incontrai improvvisamente gli occhi blu del ragazzo con i piercing che poco prima se ne stava seduto qualche metro più in là. Nelle mani stringeva il mio cellulare. In volto un’espressione colpevole. Le parole mi uscirono spontanee. «Mi stai rubando il telefono?» chiesi esterrefatta.


Come un fulmine un pugno si scaraventò dritto in faccia al ragazzo. Non ero ancora riuscita ad assimilare ciò che era accaduto, ed ora cercavo solamente di capire cosa stava succedendo. Un uomo in camicia, dai capelli corvini come il carbone, si stava avventando sul ragazzo strattonandolo per il colletto. «Piccolo ladruncolo!» sbraitò e con uno spintone allontanò il ragazzo. Questo si risollevò intontito dal colpo e non appena vide le porte del metrò aprirsi, si catapultò all’esterno svanendo nella stazione deserta. Rimasi per qualche secondo a bocca aperta senza dir nulla. Poi l’uomo si piegò recuperando il mio cellulare. Me lo porse. «Tutto bene?» domandò, scrollandosi la camicia con una mano. Scostai lo sguardo dalle porte a lui, vedendolo per la prima volta. Era un uomo sulla trentina, i lineamenti delicati e gentili, i capelli ordinati in un caschetto lungo appena sotto le orecchie. Ma la cosa che più mi colpì fu lo sguardo, sottile, indecifrabile e vivace. Due occhi sfavillanti di un verde acceso, nascosti dietro un paio di occhiali da vista rotondi. «Bene grazie. E grazie anche per...» sollevai il cellulare. «...Avermi aiutata». «Di nulla, ho sentito qualcuno urlare e mi sono precipitato. Non mi capita tutti i giorni» rise. Con un gesto della mano si lisciò i capelli. Aveva un non so ché di attraente e misterioso, soprattutto per il modo di vestire elegante e retrò, sui toni dei grigi. Anche i suoi modi così garbati e la gestualità, avevano un’impronta d’altri tempi che lo rendevano ancora più interessante, e sicuramente molto singolare. «Si, sono stata io a urlare. Ho visto...» ma mi bloccai immediatamente. Non potevo certo raccontare cosa avevo visto un attimo prima: mi avrebbe presa per pazza! Eppure il ricordo vivido di quell’apparizione mi pulsava ininterrottamente nella testa, rendendomi inquieta. Il cuore mi martellava ancora forte nel petto per lo spavento e per quanto gli dicessi di smetterla, non voleva proprio sentir ragione. «Capisco. Ma ora non preoccuparti, quel delinquente se né andato» mi tranquillizzò, anche se il ragazzo era l’ultimo dei miei problemi, ora. «Già, un delinquente». «Ma non bisogna biasimarli, sai? Non è colpa loro. La colpa è di chi li ha abbandonati senza più curarsi di loro. Non deve essere facile vivere in una famiglia simile, dove ogni giorno bisogna lottare per poter pagare i propri debiti, e talvolta non riuscire a portare a casa la pagnotta. Noi alla fine non possiamo comprenderli fino in fondo» disse, la voce ben chiara e distinta. Restai per un attimo imbambolata dalle sue parole.


Il bip acuto della metro annunciò finalmente la chiusura della porte e il treno ripartì con un po’ di esitazione. La gente, non più preoccupata, si risedette e così anche noi. «Solo un po’, in effetti» risposi con poca enfasi e subito mi venne da pensare alla mia situazione famigliare, alla mamma e a Ginevra, di cui non smettevo di prendermi cura. Il viso dell’uomo venne scosso da una nota di sorpresa. «Non intendevo offenderti. Per favore, accetta le mie scuse» si affrettò a dire, come se avesse potuto leggere cosa mi passava per la mente in quel momento. Come se avesse potuto decifrare il dolore che mi portavo dentro. «Niente di grave, non preoccuparti. Davvero nulla di ché». «Problemi anche tu con la legge?» sogghignò sarcastico. «No, non con la legge» risi alla sua battuta. «Con mia madre e... la mia sorellina» la voce mi uscì più bassa di quel che mi ero aspettata. Prima il fantasma di un uomo morto, poi il litigio con Ginevra. Che altro poteva accadere? «Mi spiace» disse semplicemente dopo una breve pausa. Non chiese nient’altro e questo mi fece piacere. Abbozzò un piccolo sorriso e dopo tanto tempo, mi sembrò di percepire un po’ di calore e affetto. Scossi la testa sorridendo a mia volta. «Ad ogni modo permettimi di presentarmi. Mi chiamo Sebastian». «Samanta» gli strinsi la mano. Una stretta forte e decisa. «E da quanto fai la modella?» esordì. Risi confusa. «Modella? Non credo proprio». «Non sei una modella? Perdonami, devo esserti sembrato troppo avventato. E’ un difetto del mio lavoro. Sono uno scopritore di talenti. O almeno così si chiama, anche se in molti si considerano manager di spettacolo» mi spiegò. La sua mano scivolò all’interno della giacca che teneva appoggiata sulle ginocchia, e quando la estrasse tra le dita stringeva un sottile cartellino. “Sebastian Morello, Manager di spettacolo” citava il biglietto da visita. «Non avevo mai incontrato uno scopritore di talenti in metropolitana» osservai divertita accettando il piccolo pezzo di carta. «No, vero? Rimarresti sorpresa da quanti talenti nascosti si possono trovare in questi luoghi» ribatté. «Ad esempio, prendiamo per un momento quella signora laggiù». Sebastian indicò con lo sguardo la donna col libro che avevo notato poco prima del black out. «Guarda il titolo del libro che sta leggendo, e i vestiti colorati che indossa. Sono tutti indizi che mi fanno credere che si tratti di un’artista». Annuii avvalorando la sua bizzarra teoria. Era interessante notare come anche lui fosse così abituato ad osservare la gente, anche se per motivi diversi. Compresi che Sebastian era una persona molto attenta, scrupoloso nel considerare i particolari che gli stavano attorno.


«Mentre, guardando te, a primo impatto ho pensato che fossi una modella. Hai un colorito di capelli sicuramente molto elegante, ricercato. Poi gli occhi chiari e importanti, arricchiti da questa sfumatura d’azzurro. E infine, hai una corporatura perfetta». Sorrisi imbarazzata dalle sue parole, ma allo stesso tempo anche lusingata. Se era così, il modo in cui la gente mi vedeva, non mi dispiaceva affatto. Sebastian sembrò notare il mio rossore e dopo un attimo si scusò nuovamente. «Non preoccuparti, Samanta, non ti chiederò di diventare modella se tu non vuoi». «No, in effetti. Non è il mio sogno» scossi la testa sorridendogli. «E quale sarebbe il tuo sogno?» chiese. Sollevai le spalle e sospirai. «Una volta pensavo che sarei diventata attrice». «E ora non è più così?». Gli occhi verdi di Sebastian mi fissarono, e ancora una volta ebbi l’inquietante sensazione che potesse leggere ciò che mi passava per la testa con un solo sguardo. «No, è solo che è più difficile» risposi voltando il viso. Fuori dal finestrino lessi il nome della mia fermata. Mi alzai dalla panchina in plastica e mi rimisi la borsa in spalla. Con la mano indicai le porte del vagone. Sebastian annuii e si alzò anch’esso per salutarmi. Mi lasciò con una frase, che già conoscevo, ma non avevo mai potuto comprendere fino in fondo. La voce di Sebastian riuscì a dargli più valore. «Ricorda Samanta: se un sogno ha così tanti ostacoli, vuol dire che è quello giusto». Poi le porte si chiusero e la figura del mio amico Sebastian sparì tra mille colori e luci non appena la locomotiva si rimise in movimento, e se ne andò.


Capitolo 3

Il profumo di pioggia e muschio mi pizzicò le narici. Il vento aveva incominciato a soffiare leggero, poi sempre più incalzante da quando ero entrata in metropolitana, ed ero in seguito uscita. Le foglie gialle degli alberi vennero trasportate dalla corrente in una danza mistica e leggiadra, che solamente in questa stagione dell’anno era possibile assistere. Disegnavano nell’aria forme invisibili, circonferenze astratte e suggestive, come una matita su un foglio lasciata libera di esprimersi. Non so bene perché, ma l’incontro con Sebastian aveva avuto un buon effetto positivo su di me. La sua spensieratezza era riuscita a risollevarmi, in un qualche modo. Mi strinsi nel mio golfino blu scuro e corsi diretta al Filligan Pub. Il bar alle 20:30 cominciava ad affollarsi al mio arrivo. Nella sala principale, sotto la luce traballante di una vecchia lampada trovai Jennifer che stava servendo un tavolo e mi salutò da lontano. Jennifer Vermignoli era la mia collega ormai da due anni. Non potevo ritenerla un’amica stretta, ma da quando avevo abbandonato la scuola, e le compagnie del centro, non avevo più avuto molti amici attorno a me. Jennifer era simpatica e aveva un idea tutta sua di look. Quella sera aveva raccolto i capelli lunghi e rosa in una coda a lato, abbellita da un vistoso fiocco a pois azzurro in tinta con la divisa del pub. «Ehi, come mai in ritardo?» domandò subito dopo aver riposto la borsa sotto il balcone del bar e essermi legata il grembiule attorno alla vita. «Ho avuto qualche problema venendo qui». Mi guardò e rise. «Come ieri con la sveglia?». «Già» risposi sconcertata. Possibile che non aveva assistito al black out? «Bé, spero che ora tu sia abbastanza sveglia: ci aspetta un tavolo di venti persone alle 9!». «Venti? Ma questo è un bar, mica un ristorante». «Diglielo con Brambilla. Ha invitato alcuni uomini d’affari. La vedo brutta».


«Uomini d’affari?» chiesi con una nota di stupore, sollevando un sopracciglio. «Sì. Erano quelli di ieri sera che stavano parlando con lui, ricordi? Penso che Brambilla voglia chiudere il locale». Rimasi un attimo intontita dalla novità flash dell’ultimo minuto. Era una bruttissima notizia. Se davvero quell’incosciente aveva deciso di vendere il locale, voleva dire che presto avrei fatto bene a cercare un nuovo impiego. «E ti dirò di più. Il capo, qualche ora dopo, è venuto a domandarmi strane cose» la voce, solitamente acuta di Jennifer, si fece più bassa parola dopo parola. «Mi ha chiesto di te. Ma nulla di importante, te lo posso giurare». «Magari si è stufato di farti il filo e vuole avere un rimpiego. Che fortuna!» esclamai sarcastica sollevando gli occhi al cielo. Era risaputo del lato maniacale di Brambilla, il proprietario del Filligan, verso il pubblico femminile. Questo suo carattere aveva anche portato la moglie a chiedere il divorzio svariati anni prima, e da quel momento di lei non si seppe più nulla. Un po’ mi faceva pena però. Brambilla era il classico uomo dalla battuta sempre pronta, arrogante e orgoglioso. Non permetteva mai a nessuno di mettergli i piedi in testa, e probabilmente questa era l’unica sua qualità, anche se spesso e volentieri non la sfruttava nel modo più corretto. Avevo sempre provato a cercare del buono in lui, davvero ci avevo provato. Ma senza riuscirci. La presenza sentenziale di un capo poco socievole rendeva quotidianamente l’atmosfera del Filligan Pub irrespirabile e pesante. Per questo non poteva ritenersi il posto di lavoro per eccellenza. In fin dei conti, era anche l’unico lavoro che potevo permettermi, vista la mia scelta di abbandonare gli studi, per giunta anche nell’anno in cui avrei perseguito la maturità. Con i debiti da pagare lasciati in eredità da mio padre, con una madre poco affidabile e una sorella menefreghista, prima o poi mi sarebbe toccata la sentenza finale: lasciare la scuola e far i conti con la vita. «Ad ogni modo, cosa ti ha chiesto?» chiesi, iniziando a pulire il bancone del bar dai bicchieri sudici dalla cenere di sigaretta. «Secondo me non ti devi preoccupare più di tanto Samanta. Insomma, sai com’è lui. Va in giro a chiedere se va tutto bene, fa un po’ il santarellino e poi se ne ritorna in ufficio a terminare le sue cose» enfatizzò Jennifer. «Si, è vero. Ma ho comunque un brutto presentimento» dissi, voltandomi e lasciando Jennifer da sola per andare a servire un cliente seduto ad uno dei miei tavoli. La serata passò piuttosto in fretta. Si fece l’una, e dopo aver passato tutto il tempo a correre come una scalmanata, di fronte a Brambilla e ai suoi clienti per dimostrargli la mia buona volontà come cameriera, ora mi ritrovavo con una poltigliosa gelatina al posto delle gambe.


Soltanto mezz’ora dopo, quando tutti si furono dileguati, potei prendermi un momento di pausa. La porta nascosta dietro le tende di seta si aprì dopo pochi minuti. Brambilla uscì dall’ufficio pensieroso con un foglio tra le mani, ed il cuore quasi mi si gelò vedendolo camminare nella mia direzione. “Ci siamo” pensai ironicamente. Effettivamente la prima cosa che mi passò per la testa fu: “Un’altra riduzione di paga”. L’uomo procedette sempre più a passo spedito non appena mi vide, e infine si fermò proprio di fronte a me senza batter ciglio ne aprir bocca. Dalle labbra strette e dagli occhi cupi, capii che non era proprio contento. Mi diede tra le mani il foglio che aveva portato con sé e rimase ad osservarmi. Non riuscendo a capire lessi ciò che c’era scritto a grandi caratteri sul foglio. «Non credo che tu sia una cattiva ragazza, e non credo che tu sia stupida. Per questo pensavo che avresti capito che tutte quelle riduzioni di paga erano un avvertimento: giusto, D’elia?» mi rimproverò acidamente. Il foglio che mi aveva appena consegnato riportava le seguenti parole:

OGGETTO: Lettera di licenziamento

I miei occhi ebbero un guizzo ma contenni. Sembrò che il tempo si fosse fermato per un istante per poi tornare a scorrere ferocemente e inevitabilmente. Mi stava dicendo ch’ero licenziata. Licenziata. Questa parola mi frullò nella testa antisonante. Ero una persona orgogliosa e per questo non gli avrei certo fatto vedere le mie lacrime, anzi, sentii da subito una gran rabbia salirmi fin sopra le tempie. Penso che rimasi senza fiato per un po’ perché non risposi subito, o almeno non chiesi il perché. Cioè, va bene, avevo fatto qualche ritardo, è vero: ma si può licenziare una persona per una cosa simile? Accidenti, non potevo proprio permettermi di perdere il lavoro, come avremmo fatto a pagare le bollette? Come avremmo fatto a pagare la benzina della macchina? E per poi non parlare degli abbonamenti ai trasporti milanesi per me e Ginevra. «Non.. non capisco, signore» dissi piano, come se un groppo in gola mi stesse soffocando. «Non capisci cosa? D’elia, sia io che te sappiamo bene il perché. Conosciamo i tuoi ritardi, i tuoi vizietti ad alzarti tardi la mattina. Questo è il mondo del lavoro e questo è il mio locale. Il tuo ritardo vuol dire gente che aspetta, e gente che aspetta vuol dire fatica a guadagnare. La gente si stufa dopo un po’ e se ne va. L’ultima volta ti avevo punita con una riduzione dello stipendio. E per dirla tutta non è la prima volta che ti


trattengo dei soldi per questo motivo. Penso che tu non sia proprio portata per il Filligan, questo locale esige un personale qualificato. Chi esce di qui e trova un lavoro è grazie alla mia buona parola, perché so che è una persona che se lo merita. Capisci?». Annuii di proposito, ma non ascoltai bene ciò che stava dicendo, avevo la mente in subbuglio, come se mille api stessero facendo il nido nel mio cervello. Una sensazione pressoché dolorosa. «Jennifer mi ha riferito che ieri sei arrivata di nuovo in ritardo, anche se ti avevo dato la mia fiducia dopo il nostro ultimo colloquio. Secondo te è una cosa buona quella che hai fatto? No, vero? Non è per niente buona, affatto. In questo foglio ho scritto che hai ancora una settimana per lavorare e alla fine procederemo al licenziamento completo. Mi raccomando, D’elia: questa settimana te l’ho data solo perché mi dispiace per te. Ma non provare ad arrivare in ritardo anche in questi ultimi giorni». Così dicendo mi squadrò un’ultima volta, si volse e se ne ritornò nel suo ufficio. Rimasi ferma al bancone, impietrita, con ogni nervo che minacciava di esplodere. La mia voglia di correre fuori dalla porta d’entrata era talmente forte che dovetti sedermi per un momento e riprendere fiato. Volsi lo sguardo immediatamente su Jennifer, che non appena mi vide mi sorrise e mi fece un cenno di consenso. «Allora, Sami? Cosa ti ha proposto sta volta?» continuò a sorridermi. «Il licenziamento, Jennifer» le risposi a denti stretti. «Co.. come?». «Hai capito bene. Ma perché? Perché gli hai detto del mio ritardo di ieri?» le chiesi senza trattenermi. «Oh, no Sami. Mi spiace davvero». «Sinceramente spiace più a me!». «No, non fare così, dai. Ti spiego». «Cosa? Cosa mi spieghi? Che sei un’emerita testa di cazzo?». I lineamenti minuti ed aggraziati del viso di Jennifer si fecero d’un tratto più rigidi nel vedermi sempre più furiosa. «Brambilla ogni due settimane da uno straordinario per riferirgli se qualcuno sgarra...» disse Jennifer con un filo di voce. «Dunque ti sei venduta?» reclamai. «No no, certo che no. Io pensavo che nessuno avrebbe fatto niente di così eclatante. E poi quando gli ho riferito del tuo ritardo l’ho buttata giù come se fosse...». «Come se fosse?». «Insomma Sami, come se fosse una cosa innocente. Gli ho detto che avevi problemi con la tua famiglia e che...». «Jennifer, questi non penso che siano problemi che ti riguardino. Sono miei, miei problemi. E se anche la sera vado a dormire tardi e il giorno dopo mi alzo di conseguenza tardi e male, non sono affari tuoi». Lanciai lo straccio per terra e mi diressi verso l’ultimo tavolo da servire, senza aggiungere nient’altro, solo un’occhiataccia ad un collega ficcanaso che aveva osservato la scena atterrito e tornai a lavorare.



Capitolo 4

Una tempesta si stagliava dentro me. Dubbi, paure, rabbia. I miei sentimenti giocavano con la mia coscienza come se fossi stata una bambola di pezza scucita e gettata in un cassonetto. Un senso di umiliazione mi percuoteva da capo a piedi. Avevo una gran voglia di urlare, di piangere, di sfogarmi. Non pensare a niente per almeno un paio d’ore, spegnere tutto, il nulla più totale. Il dolore mi assaliva violentemente e spudoratamente. E io non potevo far altro che subire inerme. Sconsolata. Priva di ogni energia. Solamente la lieve pioggerellina che aveva cominciato a cadere sulla città – che ora appariva ai miei occhi come una massa grigia e informe – mi destava da quella terribile sensazione di vuoto con i suoi tocchi gentili e freschi. Nella mia mente un turbinio di pensieri ruotava intorno ai miei ricordi, e per la prima volta dopo anni ricordai le parole di mio padre che mi disse la notte prima del suo decesso: “Sii forte, Samanta. Sii forte”. Quelle parole mi ronzavano della testa simile a un suono tenue, ma ovattato e lontano, come se non ricordassi bene per quale motivo fu spinto a dirmele. Ma come potevo essere forte? Ero stanca, distrutta, spossata, indignata. Avevo perso il lavoro che tanto mi era servito per mandare avanti la famiglia. Simbolo, in un qualche modo, della mia tenacia. Della mia voglia di farcela. E ora avevo perso tutto. Mi sentivo ancora più sola di quanto non fossi mai stata. Forse ora comprendevo lo stato d’animo di impotenza della mamma. Scoprire che tutti i propri tentativi sono stati solamente un abbaglio, un sogno troppo difficile da realizzare. Fumo, solamente fumo e nient’altro. Camminai per molto tempo osservando qua e là la notte inghiottire i palazzi più alti di Milano, fin quando senza accorgermene, ripercorsi la via del centro città dove troneggiavano i locali notturni più in voga. Una volta ero solita a frequentare quei posti attorniata costantemente da quelli che consideravo miei amici. Adesso erano in


chissà quale prestigiosa università straniera a spassarsela, a diventare qualcuno; mentre io non facevo altro che crogiolarmi per le strade senza una meta, ripensando a quanto fosse inutile e patetica la mia esistenza. D’un tratto mi ritrovai dentro al Metropolitan, seduta ad una delle soffici sedie al bancone. La musica, a quell’ora, rimbombava ancora ad alti volumi, mentre tutt’intorno a me la folla ballava scomposta e senza sosta, disseminata un po’ per tutta la sala. Rimasi ad osservare e quasi mi stupii nel notare quanta gente in settimana non rinunciava alla propria serata in discoteca per andare a letto presto. Persone oltretutto di ogni età. A qualche passo da me una ragazza dalla lunga treccia rideva e si baciava con un ragazzo che la stringeva a sé. Poco più in là, un gruppo di ragazzi stavano esibendo il loro fisici da bellocci d’innanzi a delle giovani ed ingenue ragazzine. Potevano avere benissimo l’età di Ginevra. Che schifo! Sbuffai irritata da quella visione e mi volsi verso il barista, che non smetteva di lanciarmi occhiate di sbieco, attendendo semplicemente che gli ordinassi qualcosa. Gli feci cenno alla lista dei cocktail e ordinai il primo drink che mi capitò sott’occhio. In meno di quaranta secondi mi ritrovai tra le mani un bicchiere di un intruglio bluastro dal forte aroma di anice. Decisi che quella sera non avrei badato più di tanto alle buone maniere da gentildonna, e tracannai quasi in un sorso tutto il cocktail. Le luci stroboscopiche proiettavano schizzi di luce colorata in tutto il locale, seguendo il ritmo delle canzoni commerciali e cadenzate, in un insieme che ricordava un dipinto impressionista di Van Gogh: “Cielo stellato”. Spirali luminose che erano come onde in continuo movimento. Ombre scure che danzavano con una dinamicità esasperante. Pochi punti fermi. Sorrisi improvvisamente. Era effettivamente come una metafora di vita nel quale mi vedevo riflessa pienamente. Feci scivolare il bicchiere ormai vuoto verso il barista, che ancora una volta mi guardò come se fossi stata un alieno seduta al suo bancone. Scocciata mi alzai e me ne andai. Lasciai che la mia mente venisse trasportata dalla melodia e che le mie articolazioni seguissero quel richiamo senza opporre resistenza. Le mie gambe si mossero lentamente, poi sempre più veloci. Le mie braccia si sollevarono nell’aria scalfendo le note disperse nell’atmosfera. La testa si abbandonò e iniziò a ciondolare cullata dalla musica, mentre gli occhi si chiudevano lentamente. Danzai senza vergogna e passo dopo passo, mi ritrovai presto in mezzo alla pista da ballo presa da un’insolita leggerezza. Delle donne mi guardarono divertite dalla mia goffaggine, ma a me non importava. Sentivo salire dalla gola una ventata d’aria calda, arrivando fino alle guance e infine alla fronte. La sala intorno a me vorticò come se fossi stata al centro


di un ciclone. La mia testa fu scossa da un brusco crepitio. Era ormai certo che quel cocktail dal colore acceso mi avesse fatta andare fuori di testa. Ero ubriaca. Portai una mano alla fronte ma l’alcool mi fece perdere il controllo del braccio e inevitabilmente colpì un ragazzo che si faceva strada tra la folla. Mi bloccai all’istante. I miei occhi inciamparono in uno sguardo glaciale. Due occhi azzurri e vivaci, talmente abbaglianti da apparire come stelle sfavillanti tra le tenebre più fitte. Ne avevo visti pochi così nella mia vita. Gli ultimi che mi avevano colpito in quel modo erano stati quelli di Sebastian. Luminosi e vigorosi. Rabbrividii. Il ragazzo si fermò e mi guardò esitante. Per un attimo si volse verso la ragazza che stava seguendo, ma che nel frattempo era ormai scomparsa dispersa tra la fiumana di gente. Sospirò seccato e infine si girò. Il suo volto era caratterizzato da un profilo pronunciato dalla mascella, dagli zigomi magri e da una pelle liscia, spettinata solamente da qualche accenno di barba. Aveva i capelli di un colore biondo ma più scuro, simile alla cenere, e i suoi ciuffi gli ricadevano sulla fronte ribelli e indomati. «Sono veri?» chiesi senza ritegno. Il ragazzo alzò un sopracciglio sconcertato dalla mia ubriaca intraprendenza. Ubriaca perché sapevo che se non avessi bevuto non mi sarei ritrovata certamente in quella situazione. «Che cosa?» la sua voce gli uscì più chiara di quel che pensavo sarebbe stato per via della musica alta. «Gli occhi: sembrano due lampadine». Pronunciai ingenuamente quelle parole, senza cattiveria. Parlai con una tale genuinità che vidi affiorare sulle sue labbra un piccolo sorriso. Un sorriso sardonico. Spezzò il silenzio scoppiando a ridere e la sua risata argentina mi sorprese profondamente. Così spontanea, elegante e... accattivante. «Abbiamo una poetessa tra di noi» affermò facendomi arrossire. Sollevai le mani a mezz’aria con impeto. «Sono urriaca!» dichiarai. L’alcool non aveva mai avuto un buon effetto su di me. A dir il vero non ero mai stata una grande bevitrice, anzi, se potevo evitarlo era meglio. Ma quella sera la disperazione mi aveva portata su un altro pianeta. Sentivo la testa come in un pallone. «Lo vedo» rispose il ragazzo divertito dalla mia espressione. Sfoggiai un sorriso raggiante, anche se a lui doveva essere apparso come un tentativo mal riuscito di mostrarsi normale. «Già» sogghignai. «Tu sembri proprio uno a cui non sfugge nulla, vero?». «Diciamo che quando le cose sono evidenti non è difficile notarle» osservò studiandomi con lo sguardo.


Non ero decisamente in buono stato, calcolando poi che non mi ero presa neanche la briga di cambiarmi. Una maglietta bianca e un paio di jeans scuri era ciò che indossavo solitamente come divisa da lavoro. «Ah si? E ora cosa noti “So tutto io”?» dissi corrucciando la fronte. Avvicinò il viso al mio orecchio: «Beh, noto che sei sola, sbronza e quasi certamente molto demoralizzata. Qualcuno potrebbe approfittarne» appurò il ragazzo dagli occhi azzurri come il ghiaccio. «E cosa ti fa pensare che io sia sola?» replicai quasi immediatamente. «Se fossi stata in compagnia avresti dedicato più tempo al guardaroba, poetessa». «E questo che vuol dire? Anche tu non sei un modello d’uomo» esclamai puntandogli il dito al petto e considerando il suo abbigliamento sobrio riassunto in un paio di pantaloni in jersey color porpora e una maglietta bianca con scritto al petto “Give me your soul!”. Mi afferrò la mano con un colpo deciso. «Sei simpatica poetessa. Ma non mi piace che mi si prenda in giro» parlò d’un tratto serio. Rimasi disorientata dal suo atteggiamento. Un attimo prima pareva il classico ragazzo universitario pronto a spassarsela, e un attimo dopo sembrava uscito da uno di quei film dalla trama intrigata e troppo complessa. Mi scappò una smorfia esterrefatta. Lasciò la mia mano delicatamente. «Non mi sembra di averti mai vista da queste parti. Come ti chiami?» chiese alzando un sopracciglio. Esplosi in una risata stridula. «Ma ci stai provando?» Maledetto alcool! Aveva sempre avuto questo potere: o farmi cadere addormentata, il che ero sicura sarebbe successo da lì a poco; o trasformarmi in una perfetta deficiente dalla risata facile. «Perché sappi che sono venuta qui da sola e non cerco compagnia. Voglio divertirmi da sola. Ballare da sola. E bere da sola. Comprendi?». «Quindi sei qui da sola». «No». «Lo hai appena confermato». «Non è vero!» sbuffai. «Sei buffa, poetessa. Davvero buffa». «E tu sei strano. I tuoi occhi sono strani. Te l’ho già chiesto se sono veri?» domandai avvicinandomi e fissandolo con sguardo intenso. O almeno, quello che poteva sembrare. «Sì, e sono naturali». «Non si intonano per niente a te. Questi sono gli occhi di un angelo. E tu hai più le fattezze da diavolo. Se capisci cosa intendo» analizzai attentamente cercando di rimanere il più possibile seria.


Il ragazzo dagli occhi azzurri come il ghiaccio sorrise e con fare misterioso, si avvicinò al mio orecchio. «Mi appartengono più di quanto tu possa immaginare, poetessa».


Capitolo 5

Quegli occhi. Non riuscivo a leggere il mistero nascosto dentro di essi. Eppure erano riusciti ad imprimersi nella mia memoria nel modo in cui si può imprimere un tatuaggio. Intangibile, ma soprattutto irremovibile. Non erano solamente azzurri, erano molto di più. Vivi e splendenti, come se un’aureola facesse da contorno all’iride trasparente e riflettesse il cielo stesso. La mattina dopo mi ero svegliata con quel ricordo tra i tanti pensieri che mi frullavano per l’anticamera del cervello. Quell’immagine aveva scavalcato addirittura il fatto che io fossi stata licenziata. Eppure in tutto questo non riuscivo ancora a ricordare cosa fosse accaduto quella notte. Cosa avessi fatto dopo ch’ero entrata al Metropolitan o cosa fosse successo in seguito. Niente. Memoria vuota. Più cercavo di sforzarmi, più il mal di testa da sbronza mi annebbiava la vista rendendomi uno zombie ambulante. Quando sollevai lo sguardo verso l’orologio dovetti attendere prima che la vista mettesse a fuoco. La dura e cruda verità mi riportò con uno schiaffo sul pianeta terra. Mancavano venti minuti a mezzo giorno: ero nuovamente in terribile ritardo al lavoro. Non feci in tempo a chiedermi il perché la sveglia del cellulare non avesse squillato. Afferrai la maglietta e i pantaloni del giorno prima e me li ficcai addosso. Una spazzolata ai capelli – che ora avevano preso più le sembianze di un nido di un pettirosso – e volai fuori dalla camera. La cucina era come sempre in disordine, piatti ancora da lavare, i fornelli mezzi sporchi e bottiglie di vetro ancora da portare via da un mese intero. Vicino alla mia borsa scorsi una bottiglia di grappa mezza finita. Storsi il naso. Mia madre aveva bevuto di nuovo, quando si era ripromessa di non farlo. Faceva sempre così, ogni santa volta.


Se succedeva qualcosa che non andava, beveva. Se succedeva di pensare a mio padre, beveva. Per ogni cosa aveva sempre il suo bel bicchierino pronto all’uso. Grappa, Vodka, Whisky e Rum. Questi erano i nomi dei suoi migliori amici; questi erano i nomi dei suoi unici amici. Presi la bottiglia e la gettai insieme alle altre vuote, non avevo neanche lontanamente voglia di fermarmi alla campana del vetro e buttarla, anche se pensai che avrei dovuto farlo. Mi voltai verso l’atrio d’ingresso accorgendomi, così, della silenziosa presenza di Ginevra seduta al tavolo della cucina intenta a guardare il monitor del suo portatile. «Non dovresti essere a scuola?» le domandai, fissandola da testa a piedi. Era vestita nuovamente a suo modo, con una minigonna ancor più corta della stretta maglietta che portava, sebbene la stagione autunnale avanzasse di giorno in giorno. «Non dovresti essere al lavoro?» ribatté lei senza distogliere lo sguardo dallo schermo. «Sono in ritardo» risposi. «Sono rimasta a casa» ribadì lei di rimando. Mi ammutolii, ma non potei trattenermi nel puntarle gli occhi addosso nella speranza che si voltasse, che dicesse qualcosa di più. Magari che si scusasse. Ma non fece niente. «Sai Gine, dovremmo proprio parlare io te, un giorno» esordii allora, interrompendo il silenzio. «Come credi». «No, davvero. Prima di tutto dovresti spiegarmi perché non dici la verità alle tue amiche». «E cioè?». «Che sono tua sorella, non tua cugina venuta da chi sa dove!» esclamai esasperata con la rabbia che pian piano stava montando dentro. «Non ci penso proprio. Scordatelo» contestò tranquillamente. La porta d’ingresso si aprì poco più tardi. La mamma entrò e appoggiò la sua borsa e il giacchino di pelle – un dono che gli fece papà anni fa – e ci raggiunse. Guardò Ginevra, ma non proferì parola. Ben sì, appoggiò il sacchetto del pane fresco sul tavolo e alzò lo sguardo verso di me. «Oggi andrò a sentire per un posto di lavoro» disse. «Bene!» risposi, anche se sapevo che sarebbe stata la solita bufala. Diceva sempre così quando i soldi cominciavano a scarseggiare, o l’alcool cominciava a mancarle: “Oggi vado a questo colloquio”. Ma la cosa non era del tutto


semplice. Magari avrebbe lavorato per un mese o due, per poi ritrovarsi a casa nuovamente fingendo di essere malata e quindi in seguito licenziata. Chissà se stavolta avrebbe cercato di non perdere il lavoro? Me lo chiedevo ogni volta, ma ogni volta rimanevo delusa. «Ho rincontrato una vecchia collega di papà. Mi ha detto che nella caffetteria dove solitamente va a pranzo cercano una persona che stia alla cassa» ci spiegò mentre apriva l’armadietto dei piatti per apparecchiare la tavola. Con una spugna pulì la parte di tavolo non occupata dalla roba di Ginevra. In casa non usavamo neanche più la tovaglia, era raro trovarci tutte insieme per mangiare. «A proposito di papà, mamma… Non sarebbe ora che buttassi via quel vecchio giubbotto di pelle?» sostenni indicando l’attaccapanni in legno all’entrata. La mamma si bloccò e abbozzò un sorriso, anche seppur triste. Sollevò la mano e dolcemente mi sfiorò la guancia in una debole carezza. Le sue mani erano fresche e profumavano di violetta e di pane. «Samanta» disse quasi in un bisbiglio. Gli occhi lucidi. «Sei così brava. Lavori tanto per noi, ma non disponiamo dei soldi necessari per rifarci il guardaroba». Sapevo bene che era vero. Ma le sue parole non facevano altro che mascherare il dispiacere e le bugie dietro tutto questo: la mamma non ce la faceva a lasciare andare quel ricordo. Vi era molto legata come se ci fosse una corda invisibile, più solido di qualunque altro sentimento. Mia madre aveva amato tanto mio padre. Sospirai rammaricata anche dal fatto che non ero riuscita a confessarle del licenziamento al Filligan. Pensai che la prima cosa che avrei acquistato con i soldi del nuovo lavoro, sarebbe stato proprio un giubbotto nuovo per lei. Magari per Natale. Un ultimo sguardo all’orologio della cucina mi ricordò il mio ritardo, così uscii di corsa e presto mi ritrovai alla fermata della metropolitana, come tutti i giorni. Avete presente quando vi sentite con la testa in un’altra dimensione? Quando tutti i vostri pensieri si formano nella mente senza alcun ordine preciso? Ma soprattutto quando ogni preoccupazione si trasforma in un groppo alla gola così grande da farvi soffocare irrimediabilmente? Ecco, quella sensazione non era niente in confronto a ciò che stavo passando. Chissà forse era colpa del metrò che mi dava tempo di riflettere sulle cose, ma in quei minuti che passai viaggiando, mi resi conto di quanto fosse grave la situazione in famiglia. Volevo bene a mamma. Volevo bene anche a Ginevra. E per questo non smettevo di pianificare ogni situazione nel solito tram tram quotidiano. E stavolta avrei fatto bene a mettermi sotto per bene. Dovevo assicurarci almeno un tetto sotto cui vivere,


benché ci avessero già minacciato di mettere la casa all’asta. Ma questo non potevo permetterlo. Poi, inspiegabilmente, mi balenò nella mente tutt’altro pensiero, che avevo accostato temporaneamente. Ripensai all’uomo e all’ambiguità che alleggiava intorno al nostro incontro al parco Sempione. Me ne ero completamente scordata e sentii d’un tratto un’infrenabile voglia di approfondire la questione. Di scavare più a fondo. Ormai era chiaro che Brambilla non me l’avrebbe fatta passare liscia. Per lui il mio ennesimo ritardo sarebbe stato come un affronto al suo orgoglio. Così pensai che se avessi ritardato di qualche minuto in più, senza altro, non sarebbe cambiato nulla. Scesi allora alla fermata più vicina al castello. Camminai per un po’ soffermandomi di tanto in tanto a studiare le transenne che circondavano alcune zone non praticabili. Evidentemente vi erano ancora delle ricerche in atto. Sgattaiolai oltre il portone d’ingresso al grande cortile in pietra interno, e infine svoltai per il parco esterno. Ci misi qualche secondo a ricordarmi precisamente l’albero sotto cui avevo fatto il mio incontro paranormale. Sempre che di ciò si trattasse. Per me il parco era un luogo importante. Non potevo credere che potesse essere il luogo designato di un fantasma. A guardare la splendida giornata che si era fatta largo tra le nubi, e i magici colori autunnali, non sembrava proprio essere vero. Il cinguettio di un uccellino sul ramo di un albero ormai spoglio, rallegrava timidamente l’atmosfera fredda e densa, che mi rendeva inquieta. Indubbiamente, non potevo considerarmi una temeraria, specialmente se di mezzo vi era un ente soprannaturale. Personalmente non credevo in queste cose, ma i fatti mi avevano condotto a pensare il contrario ultimamente. E dunque dovevo essere forte, per lo meno per garantire la mia salute mentale. Poco dopo individuai il grande faggio dalle foglie dorate sotto il quale avevo trovato l’uomo la mattina precedente. Mi avvicinai a piccoli passi, temendo quasi che qualcuno (o qualcosa) potesse spuntare fuori da un momento con l’altro, e quando fui abbastanza vicina i miei occhi vennero attratti da un barlume, un debole sbarluccichio. Vi era una carta argentata per terra. La raccolsi e immediatamente la riconobbi. Era la carta stagnola con il quale avevo avvolto il panino che diedi all’uomo, o meglio, al fantasma. Pensai che qualcuno doveva averlo mangiato, non poteva essersi divorato da solo. Assurdo! Poi notai qualcos’altro, più piccolo e bianco. Un foglietto. Lo afferrai con le dita e lo capovolsi. Spalancai gli occhi sconcertata, il sangue mi si gelò nelle vene come neve ad alta quota. Sopra il biglietto vi erano scritte delle parole.


Una calligrafia maschile e disordinata. Vi era scritto: “Grazie mille... Samanta�.


Capitolo 6

Santo cielo! “Grazie mille... Samanta”? Non riuscivo a capacitarmi di ciò che stavo leggendo. Il pensiero che i postumi della sbornia stessero avendo il soppravvento, mi passò per un istante nella mente. Eppure non poteva essere vero. Mi diedi un pizzicotto ma quel messaggio era sempre lì, tra le mie mani in modo inquietante, più vero di qualsiasi altra cosa. “Grazie mille... Samanta”. Rilessi quelle parole più e più volte come per cercare una spiegazione dietro a quel mistero. Ma poi grazie per cosa? E chi aveva scritto quel biglietto, come poteva sapere il mio nome? Coincidenze? Beh, poteva essere, tutto era possibile. O forse no. Mi adagiai stanca e sbalordita allo stesso tempo, sulla panchina che si trovava a pochi passi dal grande faggio dorato. I gomiti appoggiati alle ginocchia tremati, la schiena incurvata in avanti e gli occhi increduli. Stetti in quella posizione a lungo, in una trance provocata dalle mille domande che si erano impossessate di me completamente. Lo sguardo ancora fisso su quel pezzo di carta come se fossi alla ricerca di qualcosa tra le righe che però non c’era. E poi, talmente concentrata non udii le foglie scricchiolare e subito dopo un’ombra avvicinarsi. Sobbalzai quando mi appoggiò la mano sulla spalla. Due grandi occhi verde smeraldo custoditi dietro una vecchia montatura d’occhiali vintage. I capelli lunghi e scuri, raccolti stavolta in una coda, gli donavano ancora una volta l’aspetto di un nobiluomo. «Samanta!» esclamò sorridente Sebastian riconoscendomi. «Se-sebastian!» mugolai. La voce spezzata dallo spavento. «Ti ho preso alla sprovvista? Perdonami» si scusò per poi accomodarsi ordinatamente al mio fianco sulla fredda panchina in pietra. Come la prima volta che ci eravamo incontrati, Sebastian indossava un abbigliamento molto distinto, con un paio di pantaloni bianchi di jersey e una giacca blu posta sopra una maglietta grigio perla.


«Come mai da queste parti?» chiesi, mentre guardinga nascondevo il biglietto nella tasca del giubbotto di jeans. Anche se mi ero presa un bello spavento, ero felice di vedere un viso famigliare. «Ero passato per una passeggiata. E poi perché volevo vedere il luogo del crimine di cui hanno parlato al tg». «Sei un appassionato di queste cose?». «Non in particolare. Sto scrivendo un libro, un thriller, e perciò era mia intenzione osservare la scena del crimine. Anche se lo trovo piuttosto spiacevole». Mentre parlava estrasse dal taschino della giacca un portasigari. Un signore d’altri tempi, in tutto e per tutto. «Ti spiace se fumo?». Scossi la testa. «E invece tu, come mai qui?» domandò. Mi scappò una smorfia stizzita. «Sono in ritardo al lavoro» affermai imbarazzata. L’aroma intenso del fumo del sigaro iniziò ad spargersi nell’aria, riportandomi alla memoria il profumo speziato di Cuba che mio padre una volta era abituato a consumare. «E come mai sembra che questa cosa non ti importi?». «Beh... ecco». Sollevai lo sguardo incontrando nuovamente il suo decisamente più sicuro e affabile, come fosse quello di un vecchio amico. «Sono stata licenziata, a dir il vero. Ho ancora una settimana di lavoro e poi mi daranno la liquidazione». «Capisco. Non hai molta voglia. Neanche io ce l’avrei». «Non fraintendermi è per via del mio capo. Permettimi la parola, è uno stronzo. Mi ha licenziata di punto in bianco. E ha anche la bella faccia di ritenersi un buon samaritano!» strepitai alterata al solo pensiero di rivedere Brambilla in quei giorni. «Un buon samaritano?» ridacchiò divertito. «Non ti buttare giù. Troverai un nuovo lavoro, ne sono sicuro». Espirò il fumo dalle labbra e allora mi rivolse un altro sorriso d’incoraggiamento. Il suo viso sembrò illuminarsi. Chissà quante donne aveva conquistato con quel suo fare carismatico, mi ritrovai a pensare. Eppure non sembrava quel genere d’uomo, anzi. Era gentile da parte sua interessarsi. Dopotutto era il modo di fare di Sebastian. Così cortese, amichevole e espansivo. «Si, devo. Non posso permettermi di andare avanti senza un lavoro» sospirai. «Capisco. Quanto è problematica la tua situazione?». «Molto problematica, purtroppo. Mia mamma non lavora, mia sorella è ancora minorenne e ha appena iniziato le scuole superiori. Ed ora io ho perso il lavoro» le parole mi uscirono stanche. Dovevo proprio ricordarmelo ogni giorno? Sebastian abbassò lo sguardo. «Mi spiace» disse. «E’ così» sollevai le spalle insofferente.


Rimanemmo in silenzio per alcuni secondi, poi Sebastian si alzò. In volto una strana espressione cupa e pensierosa. Con l’indice della mano si massaggiò il mento. «Ascolta Samanta» esordì alla fine. «Credo che posso aiutarti. Stasera ci sarebbe questo ritrovo, un party. Verranno persone piuttosto famose, professionisti della moda e dello spettacolo. Posso presentarti a qualcuno come modella» mi propose. «Come modella?» ripetei stupita. Non avevo mai visto di buon occhio quel mondo, molte compagne che avevo conosciuto al liceo volevano diventarlo, e per questo si ritrovavano costrette a rispettare una stupida tabella dietetica che io avevo sempre ritenuto assurda, per il semplice fatto che esse erano già molto magre e altrettanto molto belle. Per questo mi stupì la proposta di Sebastian. «Non saprei. Sei gentile, ma non penso che sarei in grado di fare la modella» risposi combattuta. E poi non ero così convinta che fare la modella potesse risolvere i problemi economici della mia famiglia. «Magari è vero. Ma pensa al potenziale. Venendo con me a questo incontro avresti la possibilità di conoscere delle persone importanti che potrebbero procurarti un lavoro» replicò. Non aveva tutti i torti. «Ma Sebastian, io non conosco questa vita. Non saprei come comportarmi o cosa dire. E se poi incontrassi qualche persona importante che non conosco? Che figura ci farei?». Sebastian rimase fermo ad osservarmi, i suoi occhi esprimevano molto più di quanto le sue parole potessero fare. Così sinceri. Così fiduciosi. Nessuno mai mi aveva guardata in quel modo. Mai nessuno aveva creduto in me. «Non preoccuparti. Io sarò vicino a te» asserì risedendosi ma senza smettere di guardarmi, come il solo fatto di non distogliere lo sguardo potesse creare un legame che, non so come, si poteva quasi percepire sulla pelle. Presi un bel respiro. Può darsi che egli riuscisse a scorgere qualcosa che io invece ne ero assolutamente cieca. In fin dei conti era lui l’esperto, lo scopritore di talenti, il manager di spettacolo. Era suo compito trovare il potenziale e se Sebastian mi stava porgendo la mano, chissà, forse avrei fatto bene a cogliere la palla al balzo. Però non ne ero sicura. Avevo paura. Paura di sbagliare tutto e di cadere nuovamente in quel baratro che tanto avevo combattuto per non inciamparci nuovamente dentro. «Samanta?» bisbigliò Sebastian richiamandomi dai pensieri. «Sebastian, il fatto è che ho timore di non farcela. E poi non ho mai considerato il mondo dello spettacolo come una fonte di guadagno. Ma solamente come una passione» mormorai. «L’altro giorno mi hai detto che hai un sogno: diventare attrice. E ora che hai la possibilità di diventarlo, scarti l’idea perché non credi che potresti guadagnare


abbastanza denaro? Il mondo dello spettacolo non è sempre un hobby come credi. Per molte persone è un lavoro». «Mi spiace, non volevo contraddire le tue aspettative. E’ solo che sono del tutto nuova a questo modo di vedere le cose» obbiettai amareggiata . «Lo capisco. Si, ti capisco molto bene. Ed è per questo che io punto su di te, Samanta. Non dico che potresti diventare la star più rinomata di Milano. Ma potresti essere la Samanta che tu vuoi, e che in molti conosceranno». Diventare attrice. Sì, era sempre stato tra i miei traguardi più importanti. Lo avevo sempre desiderato da quando ero piccola e papà mi portava a scuola di recitazione nella compagnia teatrale di un rinomato teatro di periferia. Vedevo il mio futuro molto vicino e chiaro, delineato dalla mia risolutezza e dalla perseveranza che non mancavo mai di dimostrare a chi mi stava intorno. Mentre ora, quel futuro luminoso era stato oscurato e lentamente si era assopito, perdendo totalmente la determinazione che lo distingueva. Avevo abbandonato i miei sogni. «Sicuramente non sarebbe male» concordai, anche se la mia faccia sminuiva le mie parole. «Non sembri convinta» notò Sebastian. «Samanta, non sei costretta. Ma se vorresti cambiar vita dovresti prima di tutto mirare più in alto. Dovresti pensare anche a te, ogni tanto». Pensare a me? E come potevo? Sentivo che se avessi distolto l’attenzione dalla mia famiglia sarebbe stato come abbandonarla. Come un tradimento. Non me la sentivo di lasciare la mamma e Ginevra da sole. Però d’altro canto, Sebastian mi stava aiutando ad aprire la mente verso una realtà migliore, dove sarei stata felice. Cos’avrei dovuto fare? «Facciamo così. Ti aspetterò all’entrata dell’hotel e deciderai tu. Se ti presenterai sarò lieto di aiutarti, invece se non verrai capirò» suggerì. «Grazie». «Nel frattempo prendi questo». Sebastian mi porse un piccolo cartellino colorato sopra il quale vi era riportato l’indirizzo dell’hotel in zona Montenapoleone, al centro di Milano. Via, oltretutto, rinomata e conosciuta per le firme prestigiose e famose in tutto il mondo. Era dunque una cosa seria. «Presumo quindi che se io dovessi partecipare dovrei venire vestita in un certo modo» lo interrogai mentre volavo con la mente al mio spoglio armadio, delineato solamente da qualche vestito corto e di poco conto. Sebastian annuì.


«Certamente. Solitamente le donne vestono con un abito preferibilmente lungo. Ma penso che anche un altro genere di abbigliamento possa andare bene, a patto che rispetti l’eleganza richiesta per l’evento» chiarì. «Ok». L’uomo mi scrutò esitante. Da quando il lavoro aveva occupato ogni momento della mia vita, non avevo mai sentito il bisogno di vestirmi elegante. Non frequentavo più i locali di sera e tanto meno non trovavo quasi mai il tempo di uscire. Mi era capitato ben poche volte di ritrovarmi con dei colleghi, tra cui quella traditrice di Jennifer, a bere qualcosa in centro. Ma non mi ero mai vestita con tacchi e magliette firmate. «Credo che dovrò darti una mano anche in questo» fece Sebastian, spezzando il silenzio e prendendo una piccola agenda. Tirò fuori dal taschino la sua penna stilografica argento e cominciò velocemente ad annotare qualcosa. «Lascia che ci pensi io. Tu devi solamente dirmi l’indirizzo di casa tua» picchiettò con la penna sull’agenda. «E cosa farai? Mi manderai una limousine?» scherzai, anche se non sarebbe stato male visto il traffico milanese insopportabile e snervante. Sebastian rise. «No, ma potresti trovare un regalo quando stasera rientrerai a casa per cambiarti». «Sempre che il mio capo mi faccia uscire prima. Non ne sono certa» arricciai il naso infastidita. Già, Brambilla non mi avrebbe mai permesso di andare a quel party. Sembrava di essere in una fiaba di cenerentola con la matrigna cattiva personificata, però, da un omone di cinquant’anni suonati dotato di un orribile senso dell’umorismo. «Non preoccuparti, penserò anche a questo» concluse. Poco dopo lo salutai con un abbraccio. Si sistemò la giacca e prese per il sentiero sterrato per uscire dal parco. Tra le dita reggevo ancora il biglietto d’invito che sprigionava un’aura mistica tutta sua, e un profumo di opportunità che non avevo mai percepito prima d’ora. Se esisteva un paradiso, Sebastian doveva essere un angelo sceso in terra. Ne ero certa.


Capitolo 7

L’odore nauseante di chiuso e di sigaretta arieggiava nell’ufficio buio di Brambilla, illuminato solamente da una piccola lampada che proiettava guizzi di luce sull’arredamento datato. Sedevo su di una delle poltrone in pelle, rovinate da qualche bicchierino di gin di troppo. Davanti a me vi era una scrivania in legno scuro dove il capo era seduto davanti ad una pila di fogli, e li accanto stringeva tra le mani grassocce le carte del mio contratto lavorativo che firmai quando mi assunse. Mi aveva fatto chiamare non appena avevo messo piede al Filligan, e la sua insolita cordialità mi fece quasi venire i brividi. «Questo è il contratto. E questo è il tuo licenziamento. Sai cara, l’ultima volta avevo pensato che ero stato un po’ duro con te. Ma oggi, questo tuo rinnovato ritardo, ha solamente consolidato il mio modo di vederti. Non ho mai visto una persona come te, che si impegna così poco per mantenersi il lavoro». Brambilla mi stava facendo l’ultima paternale come previsto. Pensai che fu l’ultima, perché non ne potevo proprio più ad essere etichettata come un’inutile seccatura. Mi porse la sua penna in cuoio e oro, e mi fece scivolare sotto la mano il foglio del licenziamento che avrei dovuto firmare. «Pensavo di aver capito che non eri proprio in una bella situazione, o sbaglio? Pensavo che un lavoro ti servisse. No?». La rabbia cominciò a salirmi lentamente, mentre firmavo il mio licenziamento. La sua voce mi irritava quanto una puntura di zanzara. Cercai di mantenere la mano ferma e di scrivere il più velocemente possibile. Non vedevo l’ora di andarmene. «Ma sai una cosa, D’elia: do sempre un’ultimissima opportunità». Sollevai lo sguardo accigliata e confusa. Un attimo prima mi stava dicendo di fare le valigie ed andarmene, ed un attimo dopo mi stava dando un’altra opportunità? La cosa puzzava un tantino. Gli occhi scuri di Brambilla brillarono nella penombra del suo viso rugoso e in carne. Si passò una mano tra i capelli brizzolati e poi continuò. «Potresti fare anche su dei soldi. I tuoi problemi penso che potrebbero scomparire». Continuai a guardarlo negli occhi non capendo quel giro di parole.


«Bhé, ecco. Potrei pagarti bene se mi offrissi dei servizi che a nessun altro concederesti, che ne so, una serata a cena. Pagherei ovviamente io. Magari una serata in discoteca, insomma, una bella uscita e magari poi... che ne so, potremmo rientrare a casa e conoscerci meglio. Conoscerci a fondo, intendo. Non sarebbe bello? Rimarremmo amici come prima, come se questo licenziamento non fosse mai avvenuto...» fece strusciando i palmi delle mani in un gesto di poco conto. «Mi sta dicendo che vorrebbe venire a letto con me?» sbottai in modo indifferente. «Oh, bè, non avrei detto proprio direttamente così. Sai un po’ di romanticismo con le ragazze come te, ci vuole». Come me? L’arroganza dell’uomo mi faceva imbestialire, come se dovesse per forza classificarmi in una tipologia di donna. E neppure quella più bella, secondo lui. «Vorrebbe, insomma, portarmi fuori a cena, concedermi cortese attenzioni, farmi magari anche dei regali e risanare il debito che abbiamo in famiglia?» chiesi ancor più fuori dai gangheri. «Certamente, dovresti solamente concedermi un po’ di attenzioni. Insomma, non sarà necessario un orario, potresti decidere tu e credo proprio che non sarà di mattina» rise divertito. «Sa cosa penso?». Brambilla mi sorrise, sembrava proprio che aspettasse un sì. Mi alzai dalla sedia dell’ufficio e lo guardai dritto negli occhi. Le guance mi scoppiarono di un rossore scottante. «Penso che lei sia un verme!» urlai con tutto il fiato che avevo in gola, ormai in escandescenza. «Penso che sia uno squallido, sporco e infame verme solitario, che non sa come passare il suo tempo e soprattutto non sa con chi passarlo. Penso che sarò felice di andarmene da questo schifosissimo posto. I suoi soldi se li può ficcare dove dico io. Ma per chi mi ha preso, eh? Per una poverella che non ha una lira in tasca e farebbe di tutto per mantenere la famiglia? Si vergogni! Divorziato e con due figli. Vada a quel paese, verme di un verme!». Esplosi in una rabbia incontenibile, lanciai la penna sul tavolo e presi la mia copia del licenziamento che appallottolai in tasca come se fosse uno scontrino. Girai i tacchi per andarmene, ma Brambilla mi fermò. «Sei una povera puttanella di strada, ecco cosa ho sempre pensato, ed ecco quale dovrebbe essere il tuo posto» rispose sollevandosi dalla poltrona e puntandomi il suo dito grassoccio. Senza pensare alle conseguenze che avrei portato con il mio gesto, caricai il braccio e assestai un diretto sul naso del mio ex capo. «Puttana!» esclamò reggendosi il naso sporco di sangue. «Ti denuncio!». «Per cosa? Per essermi difesa da un maniaco? Va al diavolo» e dicendo questo lanciai un’ultima occhiata all’uomo tremante e me la filai verso l’uscita senza salutare i miei vecchi colleghi. Non potevo credere a ciò che mi stava davvero accadendo. Poteva esserci cosa peggiore? Poteva succedere ancora qualcosa di male alla mia già triste esistenza? Ero davvero furibonda, adirata e già stavo architettando una denuncia bella e buona.


Jennifer volse lo sguardo allarmata. Allungò il braccio per fermarmi, ma me la scrollai di dosso con uno strattone. Avrei voluto urlarle addosso anche a lei, che ormai ne ero certa, aveva venduto il suo corpo a Brambilla. Non si spiegava altrimenti la sua confidenza con quello schifoso bastardo. I miei occhi la trafissero come spine acuminate e sicura che avesse recepito il messaggio, uscii sbattendomi la porta alle spalle. Non sarei mai più tornata in quel posto orribile. Il vento freddo mi sferzò il viso sconquassandomi. Mi strinsi nel mio giubbotto e procedetti a passo svelto tra le vie buie e deserte di Milano. La pioggia del giorno prima aveva reso impossibile camminare per strada, formando degli specchi d’acqua tra le irregolarità dell’asfalto. Infreddolita, arrabbiata e per lo più umiliata alla grande. Non mi era mai successa una cosa del genere, davvero. Mi ero sempre fidata troppo delle persone, guardando la parte buona e non quella dettata dalla libidine. Maledetto Brambilla! Una lacrima scese lenta sulla guancia ghiacciata, portandomi un po’ di quel calore che ora mi mancava. L’adrenalina che mi aveva portata ad esplodere di rabbia mi faceva ancora battere forte il cuore. Avevo le tempie scosse da un picchiettio inarrestabile. La voce dell’uomo martellava ancora tra i pensieri con una cacofonia di suoni e parole. Mi girava la testa. Lasciai che le lacrime lavassero via un pezzo della vergogna che avevo provato. Mi adagiai contro il muro in mattoni che stavo costeggiando e che terminava con l’inizio di un cortile in pietra che mandava un po’ di luce, facendomi rimanere così nell’ombra. Ritrassi la testa all’indietro e scrutai il cielo. La luna era nascosta dietro una grande nuvola nera, ma sapevo che vi era la luna piena quella sera. Non che mi interessasse particolarmente, non avrebbe potuto comunque consolarmi in nessun modo. Poi presi un bel respiro e asciugandomi gli occhi proseguii. Svoltai l’angolo e procedetti per una stretta viottola sterrata, quando ad un certo punto, mi bloccai inquieta. La nebbia si era deposta in piccoli banchi tra le due murature che fungevano da margini in quel passaggio poco illuminato. Nascosto nelle tenebre un uomo sollevò il volto da terra. I suoi occhi mi colpirono facendomi sussultare. Erano luminosi e scarlatti, brillanti come rubini. Si alzò in piedi facendo cadere il peso che reggeva con un tonfo. La mano di una persona toccò la ghiaia facendo sprizzare alcuni sassolini in tutte le direzioni, e dopo uno spasmo quasi impercettibile si immobilizzò. Silenzio. Solo il mio respiro tagliava l’aria. Deglutii. L’uomo in piedi piegò la testa con uno scatto, come per osservarmi meglio. Allora un luccichio attirò la mia attenzione. Erano i suoi denti, bianchissimi e lucenti. E spaventosamente aguzzi. Le labbra si allargarono in un sorriso mostrando una dentatura scomposta, più grande di una bocca comune. I suoi abiti riflettevano una sostanza appiccicosa che gli colava dalla maglietta, e le sue mani fremevano con degli schiocchi innaturali dei polsi.


Mossi un piede all’indietro. Il cuore si fermò per un istante, per poi tornare a battere più spaventato che mai. Nella testa avevo un solo pensiero, una sola parola che mi passava e ri-passava per l’anticamera del cervello. Scappa! Scappa! Scappa! Mi volsi spedita e incominciai a correre più velocemente che potei, lasciandomi alle spalle quella mostruosità che ancora adesso non riuscivo a definire. Non era umana, non poteva essere altrimenti. Le gambe si mossero rapide e i piedi calpestarono nuovamente l’asfalto bagnato. Non ebbi neppure il tempo di chiedere aiuto. Avevo il respiro smorzato, la gola secca e un grido bloccato da un groppo. Corsi e corsi ancora. Scappa! Scappa! Scappa! Mi ripetevo nella mente. Scappa. Il mio istinto mi diceva che se mi fossi fermata per un istante sarebbe stata la fine. Avevo visto un omicidio? Cosa avevo visto? Non ne ero certa. Mi ritrovavo in uno stato disperato come in catalessi. Poi inciampai e caddi. Mi ritrovai nella strada principale che collegava il centro alla periferia più a est. La luce era tornata d’un tratto e le persone in strada si fermarono gettandomi delle occhiate sconcertati. Girai su me stessa, ma non c’era nessuno. Quell’ombra dagli occhi insanguinati era scomparsa. Forse l’avevo seminata? Improbabile considerando la breve distanza percorsa. Rimasi con lo sguardo fisso sulla via dalla quale ero uscita. Nessun rumore. Niente di niente. Poi una ragazza mi si avvicinò allungando la mano per aiutarmi ad alzarmi. «Tutto a posto? Ti sei fatta male?» domandò gentile, ma le sue parole mi giunsero attenuate, basse e lontane. Non gli diedi retta. Solamente quando mi ripresi compresi che ero finita di corpo dentro una pozzanghera e allora mi sollevai ringraziandola.


Capitolo 8

Occhi rossi, denti affilati? Cos’era.. quella cosa? Mi sentivo così spaventata. E perennemente il pensiero che tutti quegli strani eventi che erano accaduti fossero collegati, mi provocò un senso di inquietudine. Non riuscivo a capirne il significato, il senso e il mistero che aleggiava dietro tutto quel caos. Quando avevo incontrato il fantasma di quell’uomo – in seguito orribilmente trucidato – erano successe delle cose inaspettate, orribili. L’incontro in metropolitana con lo spettro, il licenziamento e ora… questo. Rientrai in casa col fiatone. Avevo percorso di corsa due isolati a piedi da quando ero uscita dal Filligan, ed ora mi sentivo a pezzi come se un macigno mi stesse schiacciando a terra. Sospirai già più serena di vedere le famigliari pareti gialle del corridoio di casa, e i soliti mobili economici dell’Ikea. «Mamma?» la voce arrivò al mio orecchio dal piano di sopra, insieme al suono di passi sulla scala. Ginevra spuntò infine sullo stipite della porta della cucina che si trovava in linea retta con il corridoio d’entrata. «Ah, sei tu. Non dovevi essere al lavoro?» borbottò. Faci scivolare la borsa sul vecchio comodino al mio fianco. «Come mai questo interesse nei miei riguardi?» replicai. Tolsi le scarpe fradice e le riposi in un angolino accanto alla porta. Ginevra mi squadrò perplessa. «La mamma?» domandai allora. «Penso non sia ancora rientrata. Ad ogni modo io sto uscendo. Diglielo tu» rispose mentre con la mano si allungava verso il barattolo dove solitamente lasciavamo il resto dei soldi. Ginevra indossava un vestito corto color argento, aveva i capelli legati in una coda che le ricadeva a boccoli sulla schiena nuda, e ai piedi un paio di stivali bassi in cuoio scamosciato firmati Dolce&Gabbana. «Ferma un attimo dove stai andando?». «Esco con Daniela». «Vestita in quel modo?».


Camminai verso la lavanderia. Lanciai il giubbotto bagnato e sporco nel lavabo, e mi tolsi i pantaloni. Ginevra sbuffò e s’infilò il giacchino qualche minuto prima di uscire. «Te l’ho detto ieri. Al Metropolitan!» esclamò infastidita. «Ti ho detto che non è un posto per te. E comunque domani hai scuola, a che ora penseresti di rientrare?» contestai, ma il mio tono non la scalfì minimamente. «Potresti per una sera rimandare a sabato e rimanere in casa». «Assolutamente no. Mi stanno aspettando. Io vado!» e dicendo questo prese e se ne andò. «Ginevra!» la chiamai, ma era già uscita dalla porta d’ingresso. «Santo cielo!» mormorai rassegnata. Strinsi i capelli tra le mani facendoli sgocciolare e infine sfilai la maglietta. Mi ritornò all’improvviso in mente l’immagine raccapricciante del mostro. Non ero sicura che tutto ciò fosse frutto della mia immaginazione, e il pensiero che anche Ginevra avesse potuto incontrarlo mi gettò in un mare di ansia. In più ci si metteva anche il fatto che la mamma non fosse ancora rientrata e questo mi rese più pensierosa. Purtroppo era accaduto qualche tempo fa una cosa veramente brutta. La mamma sfiancata dai debiti e dalla morte di papà, cercò di togliersi la vita avvelenandosi con del detersivo. Fortunatamente il vicino aveva sentito degli strani rumori ed era intervenuto in tempo. Non glielo dicemmo mai a Ginevra, credeva solamente che le sedute dal terapista servissero per la depressione. Una verità svelata in parte. Per questo motivo, ogni volta, avevo paura di tornare a casa e non trovarla. Salii le scale fino al piano di sopra e accesi la doccia nel bagno. Nel frattempo mi diressi in camera e presi della biancheria pulita. Il mio sguardo vagò a vuoto per qualche minuto per la stanza. La sensazione che avevo percepito precedentemente mi opprimeva come non mai. Quasi mi tornarono le lacrime agli occhi, ma non piansi quando sul letto vidi una scatola. Mi avvicinai e lessi il biglietto che vi era posto sopra. Riconobbi l’elegante calligrafia di Sebastian poiché l’avevo osservato quella mattina scrivere sulla sua agenda. A quanto pare aveva mantenuto la sua promessa. “ Questo vestito è preso a noleggio. Verrò a recuperarlo tra qualche giorno. Ci vediamo in centro ” c’era scritto. Aprii senza esitazione la scatola firmata Versace e immediatamente i miei occhi furono colmati dallo splendore di una stoffa liscia e leggera color blu come il cielo notturno. Non avevo mai avuto la possibilità di provare un tale abito e, per giunta, pure firmato. Forse una volta lo avrei bramato per le mie serate eleganti in centro città. Ma ora non ne vedevo più il potenziale. Mi sentivo solamente molto lusingata


per la cortesia mostratomi da Sebastian. E dopotutto non avevo ancora deciso se raggiungerlo o meno al party a cui mi aveva invitata. Mi catapultai sotto l’acqua fumante, che lentamente scivolò per tutto il corpo avvolgendomi e rigenerandomi dal freddo che avevo patito. Quel caldo abbraccio mi accolse come una madre che tiene in grembo il suo bambino. Fu in quel momento che il mio autocontrollo ebbe un cedimento e mi lasciai andare. Lasciai che le lacrime uscissero, che tutta la tensione si sfogasse e che il dolore si riversasse in mille pensieri. Piangere mi avrebbe fatto bene, anche se, da sempre, avevo preferito avere una spalla che mi sorreggesse. Ero stanca di essere il pilastro della mia famiglia, avrei voluto che per una volta fosse la mamma a prendere le redini delle nostre vite, e rassicurarci. Purtroppo però ero sola. Più sola di quanto pensassi. Destinata a lottare per sempre, probabilmente, senza nessuno al mio fianco. Che fine avevano fatto le giornate in campagna dalla zia a giocare con la mia sorellina? Che fine avevano fatto i momenti divertenti con papà a teatro? E gli attimi in cui cucinavamo dolci con la mamma? Dove. Dove erano scomparsi? Non potevo credere che si fossero dissolti nell’aria, che fossero diventati solamente un’ombra del passato: ricordi sciolti nella memoria come sali da bagno privati di ogni essenza profumata. Ma alla fine succede questo, purtroppo, soprattutto per una famiglia poco unita. Un’altra lacrima solcò il mio viso distrutto e piegato da una smorfia infelice. Così lacerante quasi fosse un artiglio. Poi ancora una, e un’altra ancora, fino a quando il poco equilibrio di cui ero ancora padrona si spezzò, scagliandomi con la forza di un treno in un mare in tempesta, selvaggio, incontrollato. Spaventoso. Ero caduta. Non letteralmente. Ero precipitata in quell’abisso, o meglio: in quel baratro. Nelle profondità della mia anima e ancora più giù. Avevo il cuore a pezzi. Una sensazione terribile capace di inebetire i sensi, una fitta che era come un coltello conficcato nel punto più sensibile del mio io interiore, una forza terribile e stritolatrice, dal potere immane, apparentemente priva di alcun lato positivo e di uno spiraglio di luce a cui aggrapparsi per sostenersi. La testa vorticava rapita da un uragano di emozioni contrastanti. E poi, ad un tratto, mi apparve il viso di Sebastian e le sue parole riemersero nella mia memoria: “Ricorda Samanta: se un sogno ha così tanti ostacoli, vuol dire che è quello giusto”. Quanto avrei voluto che fosse vero. Quanto avrei voluto afferrare quelle parole.


Eppure ero così stanca. Demoralizzata. Appassita. E non riuscivo a vedere nient’altro che il grigio opprimente tutt’intorno a me. Presi un bel respiro prima di scoppiare nuovamente in un turbinio di singhiozzi. Scivolai lungo la parete ricoperta di piastrelle della doccia e rimasi lì, seduta a terra con l’acqua bollente che ormai aveva esaurito il suo potere rinvigorente. Ginevra non mi vuole bene e mamma non si riprenderà mai. Non riuscivo a pensare ad altro. Erano ormai passate le undici di sera ed io giacevo inerme sul letto, avvolta nel morbido accappatoio, con il profumo dello sciampo per capelli ancora nell’aria. Avevo smesso di piangere già da un pezzo, tuttavia avevo la mente ancora affollata da tanti pensieri. Lo sguardo fisso al soffitto bianco, d’un tratto ronzò tra i mobili in legno chiaro, tra le fotografie appese al pannello in sughero che creammo io e la mamma quando avevo dieci anni, e la mia sorellina quattro. Iniziai riportare in vita ricordi che credevo perduti. Mi soffermai sulla macchia nell’angolo destro dell’armadio e rammentai improvvisamente come Ginevra aveva rovesciato per sbaglio la vernice rosa con cui dovevamo dipingere le pareti delle nostre camere. E di nuovo, mi venne in mente quella volta che, al mare in Sicilia, avevo tanto insistito per avere quella calamita a forma di conchiglia che mi piaceva tanto, e che ora si trovava attaccata alla cornice in ferro dello specchio, sopra al cassettone. Tanti frammenti di ricordi che ora mi apparivano cupi e dispersi. Scappati dalle mani deboli di una ragazza distrutta e da una famiglia separata. Fu il suono del campanello a scuotermi. Per un attimo non ci feci caso. Poi nuovamente quel trillo acuto che non udivo da un po’: non ricevevamo molte visite. Mi affacciai alla finestra che dava sul cortile della porta d’ingresso e la vidi. Un’auto blu era parcheggiata in fronte al cancelletto e in piedi, fuori da questa, scorsi una persona. Si stringeva nel cappotto lungo ed elegante che lasciava trapelare pochi scorci di un raffinato completo da uomo. Solo quando sollevò il volto lo riconobbi: era Sebastian. Mi sorprese vederlo sotto casa tanto che rimasi a bocca aperta. «Samanta?» chiamò sventolando il braccio nella mia direzione. «Cosa ci fai qui?» chiesi incredula aprendo la finestra. «Mi sembra ovvio: sono venuto a prenderti». Richiusi la finestra e mi precipitai di sotto pur consapevole del mio abbigliamento, non proprio consono ad accogliere un ospite, e aprii. Sebastian sorrise. «Sono rimasto fuori dalle porte dell’hotel ad attenderti, ma non sei venuta» si giustificò. «Non avevo voglia di partecipare all’incontro solo. Per questo mi trovo qui ora».


«Sei venuto a prendermi pur sapendo che non mi sarei presentata?» strabuzzai gli occhi. «Esattamente». Sebastian volse lo sguardo all’auto che gorgogliava impaziente e mi fece un cenno aspettando che dicessi qualcosa. «Grazie» riuscii solamente a rispondere. Lui mi guardò premuroso e mi rivolse un altro sorriso. «Aspetterò che ti cambi, nel frattempo mi siedo in auto» disse indicando col pollice la vettura alle sue spalle. «No. Aspetta pure in soggiorno. Almeno sarai più al caldo» lo fermai invitandolo ad entrare e a mettersi comodo. Lui annuì e si tolse il cappotto. Potrei giurare di aver scorto un piccolo sorriso sulle sue labbra, ma in un primo momento non ci feci caso, e poi avevo altro a cui pensare. Ritornai in camera e in breve afferrai l’abito che Sebastian mi aveva fatto recapitare. La stoffa vellutata mi scese lungo i fianchi fino a sfiorare il pavimento. Era più bello di quanto immaginassi. La parte sopra fasciava il seno dolcemente e le applicazioni brillanti del cinturino lo rendeva un vestito più adatto ad un ballo di Galà, che ad un evento mondano. Mi specchiai e improvvisamente non potei trattenere un sorriso soddisfatto che si stampò sulle mie labbra rosee e carnose. Ero grata a Sebastian più di quanto potessi mostrare.


Capitolo 9

Fu il profumo dei fiori all’entrata la prima cosa che sentii. Freschi, cosparsi da una punta di dolcezza. Erano tante composizioni di Gelsomino e rose rosse, forse i pochi colori che vidi quella sera, e questo mi rallegrò in un certo senso. Luci soffuse armoniosamente legate alle forme moderne dell’arredamento, creavano una cornice sofisticata e un posto fin troppo gradevole. I pavimenti in parquet, le pareti vistosamente decorate da un modello scuro di carta da parati, i tavoli bianchi e luminosi. Ma più di tutto fu la vista dalle ampie vetrate a conquistare il mio cuore. La città risplendeva sotto di noi creando un contrasto travolgente tra terra e cielo, blu e aranci, e in fondo i pinnacoli del Duomo di Milano si mostravano in tutta la loro imponenza: affascinanti, rigogliosi, magnifici. Ci trovavamo al sesto piano dell’hotel in via Montenapoleone, un edificio storico che da breve era stato rimodernato e ancora adesso vi erano in atto dei piccoli restauri nell’attico all’ultimo piano. Fuori aveva ricominciato a piovere, ma l’acqua scrosciante non interferiva con il panorama, anzi, amplificava i bagliori esterni trasformandoli in cerchi di luce e moltiplicando così la bellezza esplosiva del luogo. Osservando la gente si notava da subito come questi fossero abituati a frequentare certi ambienti. Mentre io rimanevo incantata da tutto ciò che vedevo, gli altri non sembravano far caso a niente, se non a loro stessi o alle persone affianco. Ero entrata in un mondo a parte. Le chiacchiere, le risate e il tintinnio dei bicchieri. La musica di sottofondo si espandeva per la stanza diffondendo un ritmo delicato e non troppo invadente. Capii immediatamente cosa intendesse dire Sebastian per “abito adeguato alla serata”. Ovunque mi voltassi si poteva percepire un’atmosfera piuttosto rarefatta, quasi irrespirabile. Mi sentivo come un pesce fuor d’acqua: era esattamente l’espressione corretta. Fortunatamente nessuno fece caso al mio evidente nervosismo. Dovetti ringraziare più che altro Sebastian che di tanto in tanto si soffermava a conversare con qualcuno, alleviando le mie pene. Sebastian ci sapeva fare. Era giovane ma dai suoi modi carismatici si comprendeva come avesse raffinato una certa esperienza. Riusciva ad unire il lavoro e il tempo


libero senza difficoltà, e non poneva differenze tra questi. Una passione che era divenuta a far parte della sua vita. Però mi resi conto che non lo conoscevo poi così a fondo. Un uomo dal fascino misterioso. Un principe. O un angelo, come già lo avevo soprannominato. Ci conoscevamo da poco tempo, ma sembrava che le nostre vite fossero, in un qual modo, connesse. Averlo incontrato mi stava ridando quella speranza che mi mancava. Come una boccata d’ossigeno dopo esser stata per molto tempo soffocata dalle profondità di un oceano e in balia delle correnti. La sua simpatia, la sua voce ch’era esattamente come ricevere una carezza, mi donavano ciò di cui in quel momento avevo bisogno. Il sorriso. Il suo sorriso. Sospirai e subito distolsi lo sguardo dal suo volto. Sebastian terminò di parlare e si rivolse a me. «Occhi aperti Samanta. Guarda chi è appena entrato» indicò con un gesto svelto della mano. Un uomo a qualche metro da noi stava sorseggiando del vino in un flute, mentre comodamente si adagiava su uno dei divanetti in seta. I lineamenti genuini mi ricordarono quelli di un famoso attore, ma non ne riconobbi le simmetrie. «Chi è?» chiesi. «Leonardo D’Augusto. E’ un produttore cinematografico in pensione». Trattenni il respiro. «Caspita!». «Non agitarti. Torno subito». «Aspetta dove vai?» domandai afferrandolo per una mano. Sebastian abbassò lo sguardo ad ammirare le nostre dita intrecciate. Solo per un istante mi sembrò strano. Sentii una scossa percuoterci, come un fastidio. Poi sorrise. «Vado a parlargli. Aspettami al bancone» mi fece l’occhiolino e scomparve dietro ad un gruppetto di gente. Rimasi sola. Feci qualche passo verso il barista che ora mi guardava sconcertato dalla mia presenza. Forse si chiedeva che cosa ci facessi lì. O forse perché non era abituato a vedere una ragazza senza compagnia. In fondo era così. Nessuno in quell’ambiente era mai solo. O almeno, così sembrava. Ordinai un cocktail e non appena mi volsi per cercare Sebastian tra la folla il mio sguardo fu rapito da un ragazzo. Da due occhi in realtà. Due sfere luminose nelle quali iridi era impresso il cielo. Un cielo al tramonto quando i colori si fanno più scuri e vivaci. Erano di un azzurro sconvolgente. Lo osservai per un tempo indefinito, quando il suo volto marcato da un’espressione accorta si volse e inevitabilmente sobbalzai. I nostri sguardi si incrociarono e capii che anch’esso, per qualche frazione di secondo, si ritrovò indeciso. Perché quell’aspetto mi era tanto famigliare? Quei occhi.


Erano qui nella mia mente. Ma chi era? Abbozzò un sorriso. Giusto un accenno delle labbra e un guizzo del sopracciglio per l’inaspettato incontro. E infine si mosse. In breve mi fu davanti, vestito del suo completo – una camicia bianca e dei pantaloni grigi – e distinto da un fascino indecifrabile che non riuscivo a comprendere fino in fondo. I capelli leggermente biondi, ma più sui toni dei castani, mi ricordarono i torrenti di montagna. Indomati e lucenti. «Poetessa!» esclamò quando fu esattamente al mio fianco. Poggiò il gomito al bancone e porse il flute che aveva in mano al barista. «Ci conosciamo?» chiesi disorientata dai suoi modi tanto confidenziali. Continuavo a guardare i suoi occhi come se potessero suggerirmi qualcosa. O meglio, qualcosa che non ricordavo. Il ragazzo sogghignò scuotendo la testa. «L’alcool deve avere proprio un effetto negativo su di te!» commentò. «Come scusa?». «I miei occhi sono ancora come due lampadine?». Avvicinò il viso al mio. Il suo sguardo era penetrante e profondo, e senza rendermene conto mi persi per un momento ad esaminare quel bagliore remoto che splendeva nei meandri più bui delle sue pupille. Avevo sempre pensato che questi fossero lo specchio dell’anima. La fonte di verità più assoluta. E i suoi avevano quel qualcosa di indefinito, sfuggevole, ma attraenti. Non erano occhi normali. Il solo fatto di non riuscirne a leggere la realtà effettiva che vi si celava, mi rendeva inquieta. «Non capisco di cosa parli» affermai ritraendomi. Il ragazzo non smise di guardarmi e ancora una volta si limitò a sorridere sardonico. «Sembra che tu abbia perso la memoria, poetessa. Eppure pensavo che ti ricordassi di me» continuò. «Dovrei?». «Probabilmente si. O forse no?». Gli lanciai un’occhiata accigliata. Non avevo mai apprezzato i ragazzi che parlavano per enigmi. Qualcosa mi diceva che avrei fatto bene a stargli lontana, alla fine si rivelavano sempre la compagnia peggiore. «Ad ogni modo, noto un bel cambiamento» constatò gettando gli occhi sull’abito che indossavo. «Non ricordo di averti mai mostrato chi sono» replicai, e più mi sforzavo di collocare quegli occhi nella mia memoria più una fitta nebbia si impadroniva della mia mente, offuscando i ricordi.


«Hai ragione» rise. Il barista oltre il balcone allungò un bicchiere nel quale era stato versato un liquido aranciato, con ghiaccio e fragole. Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio lo afferrò al posto mio e iniziò a sorseggiarlo. «Dolce. Già qualcosa imparo sul tuo conto, poetessa!» affermò porgendomi il cocktail. Lasciai che scivolasse sul balcone senza farci caso. «Non sono una grande compositrice di parole» gli feci notare. Quel nomignolo era insopportabile, e non ne capivo il senso. «Sì, me ne sono accorto». «E quindi?» domandai su di giri. «E quindi, cosa?». «Perché ti ostini a chiamarmi così?». «Intendi “poetessa”? Non ti piace?». «No». Il ragazzo sollevò le spalle e alla fine si volse verso la folla che si stava raggruppando in mezzo alla sala. I suoi modi non mi piacevano. Era presuntuoso, beffardo e sfrontato. Tipico di chi aveva vissuto una vita a sperperare i soldi di papà, divertendosi per locali. Mi chiedevo solamente se conoscesse la parola lavorare. Ad occhio e croce poteva aver benissimo la mia età, pareva solamente di qualche anno più grande. Forse frequentava l’università. O forse non ne aveva bisogno perché aveva già tra le mani un lavoro che poteva benissimo gestire come voleva. Ad ogni modo non avrei comunque avuto voglia di iniziare questo tipo di conversazione. «Comunque sia non ricordo il tuo nome» dissi ad un certo punto. «Non ricordo di averlo mai detto. Tu che pensi?». «Penso che tu ci stia provando e che in verità noi non ci siamo mai incontrati prima». «L’ho detto che mi eri simpatica. E vorresti?». Piegò il capo. Il suo sguardo glaciale mi scrutò malizioso e deciso. «Che ci provassi? Spiacente, sono in compagnia!» affermai sollevandomi dal balcone. Feci per allontanarmi. Ma dov’era finito Sebastian? Sentivo un’urgente bisogno di ritrovarlo al più presto. Il mio controllo non riusciva più a sostenere quello scontro. Non potevo davvero sopportarlo. Percepivo delle vibrazioni scomposte, inarticolate che mi avrebbero fatto divampare da un momento con l’altro se solo avessi ancora udito una sola parola. Il ragazzo mi afferrò per la mano d’un tratto. Mi attirò a sé e improvvisamente quell’atmosfera soffocante che avevo percepito un attimo prima, fu soprafatta dal suo profumo. Un aroma frizzante, avvolgente, che sapeva di mare e di menta.


La musica sembrò fermarsi per un tempo che mi parve infinito. Ero come caduta nella trappola di un ragno, tra le sue braccia forti e sicure. Calde. Ma ciò che più mi fece rabbrividire fu la sua voce improvvisamente più bassa e carezzevole. Scostò delicato i capelli dal mio orecchio e bisbigliò: «Il mio nome è Devon. Colt Devon» e in fine si dileguò anch’esso, come era apparso. Serpeggiò tra le persone e buttandomi un’ultima occhiata, se andò lasciandomi con il cuore palpitante che non voleva saperne di smettere di tremare. Solo allora mi ridestai dall’incantesimo che era riuscito a calare su di me. Corsi subito dopo a cercare Sebastian. Non volevo passare un attimo di più lontana da lui e quando scoprii che era andato all’ultimo piano con D’Augusto, lo raggiunsi. Presto mi ritrovai in un attico, un’elegante spazio architettonico ma non terminato, considerando che non avevano ancora ritirato pennelli e trapani, e le pareti emanavano un odore pungente di vernice appena stesa. Infondo alla stanza la finestra era aperta. Dava su un balcone e lì, in piedi, sotto i raggi della luna si stagliava una figura. Gli occhi scesero ad incontrare una pozza vischiosa e tumefatta. Mi guardai le punte dei piedi e vidi che si stava espandendo a lentamente. Il vento ululava e la pioggia si era fatta più impetuosa. L’acqua sul terrazzo si era colorata di un rosso scarlatto acceso. Ora il cielo e la città sotto di esso, non apparivano più come l’attrazione migliore della serata. Erano state sostituite da qualcosa di ben più terrificante. Spaventoso. Un fulmine tuonò squarciando il cielo. Sussultai. E fu allora che lo vidi. Un uomo steso a terra, senza vita, gli occhi vitrei e il petto dal quale sgorgava sangue. Lo avevo visto da troppo lontano e per poco tempo, per pensare che si trattasse di D’augusto. In piedi d’innalzi a lui la figura si volse: Sebastian. Gli occhi sembravano in fiamme, rossi come non li avevo mai visti. Le labbra erano macchiate dell’essenza vitale dell’uomo, come se fosse stato lui la causa preponderante di tutto quel sangue. Come se avesse voluto di proposito strappargli la pelle a morsi. Ero terrorizzata ma quando feci per aprir bocca non uscì alcun suono. La voce si bloccò in gola e il cuore riprese a battere ferocemente nel petto, stavolta per la paura di ciò che stavo assistendo.


Capitolo 10

Mi ritrovavo come in una paralisi mentale. Una di quelle che non ti fanno più capire niente e gli occhi non vogliono connettersi col cervello per trasmetterti le informazioni necessarie a mettere insieme i pezzi del puzzle, o semplicemente per comprendere cosa sta succedendo in quell’istante. Il suono del vento mi otturava le orecchie rendendo ovattati tutti gli altri rumori. Lontano, dentro me, udivo un campanello d’allarme, troppo distante perché ci facessi caso. I miei lunghi capelli ramati furono scossi violentemente e in un baleno si ritrovarono bagnati dalle raffiche che la poca tettoia dell’attico non riusciva a riparare. Quella sera venni a conoscenza di un inquietante segreto. La mia mente non riusciva ancora a focalizzare la scena, seppure mi trovassi di fronte ad un’inequivocabile situazione, e per tanto la confusione che aleggiava nella mia testa mi impediva di comprendere la gravità di tutto questo. Il corpo dell’uomo esanime giaceva come un pupazzo a terra sul terrazzo del palazzo, privo di ogni vitalità, con la pelle tumefatta e raggrinzita. Gli occhi di Sebastian, come due tizzoni ardenti, di un bagliore scioccante, quasi riflettessero le fiamme dell’inferno. E poi tutto quel sangue. La sua bocca sporca, intrisa di quel liquido. Sebastian fu sorpreso di vedermi, non si aspettava che lo raggiungessi. Poi la sua espressione mutò. Ero sempre stata meravigliata da lui, dalla sua cordialità, dalla sua simpatia. Non so cosa pensavo, in fondo lo stavo ancora conoscendo. Non sapevo niente di quell’uomo. Nulla. E d’improvviso tutto quel fascino che lo distingueva scomparve nel giro di qualche secondo, scaraventato lontano insieme alla tempesta. Sorrise e le sue labbra si allargarono in una mezzaluna distorta. Nella penombra il brillare dei suoi denti non venne annerito dal sangue che si stava riversando a fiumi sul collo. Erano come quelli di uno squalo bianco, affilati come lame e mostruosamente grandi. Ma soprattutto, quel sorriso, non aveva più niente di umano.


«Samanta» mormorò. Udire la sua voce fu come ricevere una scossa. Una voce profonda e gracchiante, che ricordava quasi uno sfregamento tra due rocce. Deglutii. «Che piacere averti qui. Non mi aspettavo che mi avresti raggiunto così presto». Scrutai le crepe che pigramente si stavano facendo largo tra la pelle dell’uomo, come serpenti striscianti, sempre più scure e larghe. Gli occhi divennero neri poco dopo, spegnendosi di quell’aura rossastra, e si fecero grandi come due palle da bigliardo incastrate nell’orbita. Ora le splendide sfumature dorate e verdognole dei suoi occhi non erano più visibili. Quegli occhi sottili e rassicuranti avevano perso totalmente ogni colore, ogni vivacità e splendore, erano divenute come pozzi bui, vuoti, nei quali solo una piccola luce maligna luccicava. E questo era spaventoso. «Co... Cosa...» balbettai a fatica, il fiato spezzato. Sebastian sogghignò divertito. «Samanta, sei così ingenua. Cosa credevi di concludere?» mi scrutò con gli occhi di un predatore. Estremamente calmo e risoluto. «Cosa intendi?» domandai. «Il vestito, il mondo dello spettacolo, la bella compagnia...» soppesò le ultime parole con una feroce ironia. Mi ero illusa, solamente illusa. Le sue buone maniere non erano altro che una maschera per nascondere una verità ben maggiore: Sebastian era un mostro, un assassino. Non potevo crederci. L’innaturale forma delle labbra, il corpo insolitamente scomposto, la pelle cinerea attraversata da venature violacee. Non era più lui, il Sebastian che avevo conosciuto, che mi aveva aiutata fino ad ora. «Tutto meraviglioso, vero? Ma purtroppo non è reale. Ti ho solamente sfruttata, piccola, inutile sciocca. Sei stata solamente il mio passatempo e allo stesso tempo il mio progetto. Ora la luna piena splende e potrò utilizzarti un’ultima volta» sollevò le dita al cielo e ripulì i polpastrelli dal sangue gocciolante. Un progetto? Ero stata questo per lui? Avvertii una fitta. Era una ferita che si stava aprendo all’interno del cuore. Qualcosa si era frantumato. E faceva più male di quanto pensassi. Perché? «Vedi, Samanta. Io non sono come te. Non sono come nessun’altro su questa ridicola terra popolata da mortali. Siete tutti così fragili, così innocui. Mentre io…». Un fremito percorse l’uomo da testa a piedi, la mascella scioccò, un suono simile ad un osso spezzato. Chiuse gli occhi. Per un attimo sembrò lottare con sé stesso, ma presto riprese il controllo gettando gli occhi alla luna, che ci osservava silenziosa in un cielo scuro tartassato dai lampi e dai tuoni. Le tenebre calarono fitte facendo apparire l’ombra di Sebastian più grande e minacciosa di quel che fosse.


Ad un certo punto il suo volto iniziò a trasformarsi, lentamente e quasi impercettibilmente, fin quando i lineamenti arzigogolati di una creatura si mostrarono in tutto il loro temibile aspetto demoniaco. Dal capo si fecero largo due corna enormi attorcigliate ad una filamentosa massa nera, e infine, la pelle si squamò abbandonando la finta maschera di un ragazzo per bene e acquisendo quella di un’orribile bestia. «Sebastian!» mugugnai sconvolta. Le gambe erano come due piombi pesanti che mi ancoravano al pavimento. La mente presa da un’improvvisa euforia adrenalinica, non smetteva di elaborare ogni sorta di pensiero. Strinsi le mani per non tremare. «Il tuo dolore è così invitante. Sento il sangue bollirmi nelle vene, ogni mia parte del corpo vorrebbe divorarti in questo istante. Ma non lo farò. Almeno, non subito. Prima voglio dirti perché ho scelto te, Samanta» annunciò sorridente mentre passo dopo passo percorreva la distanza che ci separava. «Sebastian» ripetei più decisa, quasi implorante. «E’ stato giusto l’altro giorno nel parco. Tu mi hai visto, ho meglio, hai visto l’anima che avevo divorato di quell’uomo. Non comprendo ancora come tua abbia potuto. In qualche modo esso è sfuggito al mio controllo e ha cercato di avvertirti. Si, ha cercato, Samanta. Ma non l’hai ascoltato». L’uomo. Il fantasma. Santo cielo! Non era stato frutto della mia pazzia, era tutto reale? Una sensazione angosciante mi trapassò. Un fremito gelido e disarmante. Arretrai di un passo ma inciampai nel cellophan inzuppato. Scivolai a terra con un tonfo senza staccare gli occhi terrorizzati di dosso a Sebastian. Ascoltai fino in fondo. «E poi il nostro incontro in metropolitana fortuito dal mio intervento fulmineo. Quel ragazzo ti avrebbe derubata, non è così? Il ragazzo che ti avrebbe derubata se solo non fossi intervenuto». Mi suonava in modo strano. «Cosa?» bisbigliai incerta, pensando per un attimo che quello che era accaduto quel giorno non era stato poi così casuale. «Poi ti ho dato ciò che di più al mondo avevi bisogno in quel momento: la speranza. E l’ho nutrita fino a farti risplendere sotto una nuova luce. Ti ho fatto credere che potessi essere al centro delle mie attenzioni. E alla fine ho attuato il mio finale facendo uscire di scena Sebastian. Spezzandoti il cuore. Esattamente come necessitava il mio piano» rivelò senza scrupoli. Lo sentii rimbombare quel cuore spezzato. Un piccolo, soffice e fragile pezzo di carne, simbolo di vita, che era stato usato e poi gettato. Esattamente come succede con un fiore sbocciato e in seguito appassito.


«Hai pianificato ogni cosa» compresi con un filo di voce e la gola secca. «Tutto, hai pianificato tutto. Da quell’incontro in metropolitana, e poi al parco. E infine qui, sull’attico». La terribile presa di coscienza mi fece capire quanto ero stata stupida. La bestia batté le mani confermando i miei sospetti. «Anche il licenziamento in quella squallida topaia. Mi piace lo spirito del tuo ex capo, sa come godersi la vita. Ma è solo questione di tempo prima che mi prenda anche lui. E poi, magari, passerò alla tua adorabile mamma. Il suo dolore è una squisita tentazione». «NO!» urlai. «Perché ci devi fare questo? Perché?». Mi rialzai da terra rapidamente e senza pensare afferrai uno dei mattoni che serravano al pavimento il foglio di plastica su cui ero caduta, e lo lanciai. Sebastian lo afferrò a mezz’aria e come fosse stato un pezzo di cenere, si sbriciolò in tanti granelli di polvere, spargendosi nel vento impetuoso del temporale. «Perché, cara Samanta, il vostro dolore è il mio nutrimento. E un cuore spezzato è il mio piatto preferito» il suo tono si accese e vidi lo sguardo percorso da un insaziabile desiderio. Con uno scatto si lanciò in avanti tendendo il braccio e affilando i lunghi artigli della mano. Vissi quegli attimi a rallentatore. La morte che sopraggiungeva e aveva il viso di un demonio. Il bianco accecante diffuso da un altro lampo. La luna piena che ora si stava tingendo del colore del sangue. Un artiglio affondato nella carne e nello stucco della parete. Un sapore ferroso in bocca e un odore acre che mi pizzicò le narici. Con mia grande sorpresa ero riuscita a sgattaiolare via per un pelo, mi resi però conto di non aver spostato la spalla in tempo. Un dolore allucinante mi fece gridare e stringendo la pelle lacerata e sanguinante, mi trascinai lontano dalla fame assassina della bestia. Le tegole tutt’intorno erano riposte in file ordinate, delimitate da delle assi in legno e delle impalcature. Barcollai, la vista annebbiata e d’un tratto incappai in un calcinaccio. Sbattei le braccia contro la balaustra in legno dei lavori sul margine esterno della balconata. Udii semplicemente un debole scricchiolio e la balaustra cedette sotto l’urto. E precipitai. Successe tutto così in fretta. Le gocce di pioggia che mi sferzarono il viso, le braccia, le gambe distrutte. Il senso di vuoto sotto di me. L’impotenza. Il rimorso di aver solamente pensato di arrendermi, di lasciare la mamma e Ginevra a loro stesse. Il rimpianto di non aver potuto regalare a loro una vita più gioiosa. E tutti quei ricordi, quegli affetti che avevo provato. Rivissi il giorno che strinsi tra le braccia la mia sorellina appena nata. Uno di quei ricordi che si conservano nel cuore e nella memoria per sempre, carichi ancora delle emozioni provate. Indimenticabili. Rivissi il mio primo giorno di scuola, le dita intrecciate a quelle dei miei genitori, e i


loro baci, le loro carezze, le loro attenzioni. E infine gli occhi verdi di mio padre il giorno del mio saggio teatrale. CosĂŹ fieri e unici. Dissi addio a tutto questo e pregai solamente che potessero star bene anche senza di me. Addio mamma, addio Ginevra. Vi voglio bene.


Capitolo 11

Una luce. Calda e avvolgente. Bianca. Scaturì dal cielo come un proiettile dorato arrivando a me in un batter d’occhio. Stavo ancora precipitando eppure non parve più così. Tutto si fermò. Il tempo arrestò il suo inesorabile flusso. Intorno a me osservavo la città nel caos per via della tempesta, i palazzi illuminati e le persone immobili. Sbattei le palpebre e trovai ad osservarmi due occhi sottili. Bellissimi. Ebbi la sensazione di conoscerli da sempre, pur non avendoli mai visti prima. Era solamente una massa luminosa indistinta, ma fra tutto quel bagliore vidi una piuma di uno splendido candore. La presi e ne constatai la morbidezza. Se non avessi guardato poi oltre, probabilmente non me ne sarei mai accorta. Due ali mi circondarono nel loro delicato e confortante abbraccio. Un abbraccio che mi ricordò la fresca libertà dell’aria in alta montagna; il selvaggio cavalcare delle onde; e il sereno silenzio dell’alba. Mille piume argentee si fecero largo nel bagliore dorato che era sprizzato in quella sera senza stelle. E in fine un’enorme senso di pace conquistò ogni mia inquietudine, ogni mia paura e delusione. Il volto della creatura alata scambiò un ultimo sguardo con me, e poi… il buio calò inesorabilmente, facendomi precipitare in un sonno profondo.


PARTE II Capitolo 12

Nell’aria si respirava un dolce profumo. La mamma aveva nuovamente sfornato una torta, una di quelle soffici con le gocce al cioccolato che ci piacevano tanto. Avevo appena fatto il mio ingresso in cucina per notare come questa fosse meravigliosamente luminosa, arredata dai piani in marmo beige e i mobili bianchi che la mamma aveva tanto desiderato quando ci trasferimmo in centro. Dei girasoli ci guardavano e diffondevano una gioiosa allegria con il loro colorito giallo, così caldo e delizioso che ricordavano i raggi del sole. Vi era la finestra aperta e un lieve venticello sollevava le tende gonfiandole come vele in una danza leggiadra e soave. Fuori si prospettava una bellissima giornata. Notai papà seduto alla sua solita sedia al balcone che picchiettava le lunghe dita da pianista sulla tastiera del suo portatile, mentre fugacemente gettava qualche occhiata alle carte che teneva al suo fianco. Era come sempre indaffarato, carico di pratiche da svolgere e scartoffie da revisionare. Mi avvicinai e mi diede un bacio. La mamma mi sorrise e poggiò la torta sul piedistallo in cristallo in mezzo alla tavola. «Ho invitato il tuo amico a colazione oggi. Ha avvisato che arriverà tra qualche minuto. Sai il traffico!» annunciò pimpante. Le sorrisi a mia volta spremendomi le meningi per immaginare a chi si stesse riferendo. Un attimo dopo udimmo un tonfo e con un balzo Ginevra percorse gli ultimi gradini del corridoio comparendo in cucina più bella che mai. Aveva da poco accorciato i capelli, era splendida.


Allungai la mano per farle il solletico ma con un risolino si scostò andando infine ad ammirare la torta al centro della tavola apparecchiata. «Chi viene oggi? Ho sentito qualcosa poco prima di scendere» chiese sogghignando divertita quando la mamma la scacciò con il mestolo lontana dalla sua creazione. «L’amico di Samanta, quel ragazzo così gentile». «Ah, quel figo? Penso di essermi innamorata di lui, Samanta. Se non ti metti tu con lui, mi ci metto io!» sospirò la mia sorellina. «Credo che sia un po’ troppo grande per te Ginevra» ribadì papà abbandonando le sue pratiche e mettendosi a tavola nell’attimo esatto in cui suonò il campanello. Un trillo delicato che ricordava la melodia classica di un famoso pianista. La mamma andò ad aprire al nostro ospite e lo accolse all’ingresso. Quando tornò era accompagnata da un giovane uomo elegantemente vestito. «Sebastian è arrivato» proclamò la mamma. «Scusate il ritardo, purtroppo passare per il centro è più difficile di quanto pensassi. Per via del traffico limitato. Praticamente ovunque!» disse e la sua voce mi parve troppo mielosa, troppo falsa. Un tono distorto che non ricordavo gli appartenesse. Poi mi si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia. «Grazie Samanta di avermi permesso di entrare in casa tua. Non sai da quanto aspettavo questo momento» mi sussurrò all’orecchio e le ultime parole uscirono basse, con un suono gutturale e graffiante. Sollevai lo sguardo per incontrare i suoi occhi rossi e il suo sorriso soddisfatto. Sebastian si volse e procedette verso la mamma che nel frattempo aveva posto le tazze in tavola. La porta della cucina si chiuse di scatto con un colpo secco ed io rimasi fuori. Poi le grida si alternarono. Prima quelle della mamma, poi quelle di Ginevra e di papà. Non potevo più far nulla per loro. Era tutta colpa mia. Mia. Ero stata io a far entrare Sebastian in casa nostra. Ed ora non potevo più far nulla. Mi sentivo così impotente. Mi svegliai di soprassalto nel panico più assoluto. Quel sogno era stato veramente tremendo. L’odore del sangue mi arrivava ancora alle narici in una sensazione sgradevole. Il suono ormai lontano delle voci straziate dal dolore. Il disagio che mi attanagliava era stato amplificato dall’ansia di quelle ultime immagini. Un incubo. Eppure sembrava così vero, ma non poteva esserlo. Prima di tutto papà non c’era più da diversi anni, e questo bastava per rendermi conto che la mia fantasia aveva lavorato più del solito.


Mi sollevai dalle lenzuola candide del letto matrimoniale in cui mi ero sdraiata dalla notte precedente e come un fulmine a ciel sereno, mi balenarono immediatamente i ricordi fugaci della notte passata. Mi diedi un pizzicotto per constatare che ero effettivamente viva e vegeta. Ma com’era possibile? Scattai in piedi avvolta ancora nelle lenzuola e non appena passai di fronte allo specchio, che troneggiava in mezzo alla grande camera da letto, vidi che indossavo solamente una lunga camicia da uomo. La testa mi doleva e lo stomaco cominciava a reclamare. Non riuscivo davvero a capire. La stanza era sontuosamente arricchita da tendaggi scuri in seta spessa e le poltrone ai lati del letto erano fastosamente decorati da linee sinuose e barocche. Non riconoscevo quella stanza, ma sicuramente chi ci abitava doveva essere un estimatore di quello stile tanto dispendioso. «Ti sei svegliata!» fece una voce cristallina e un po’ canzonatrice. Un ragazzo entrò nella camera a petto nudo vestito solamente di un paio di jeans sgualciti. Quando terminò di asciugarsi i capelli gettò l’asciugamano sulla poltrona scoprendo così un volto ormai famigliare. Il ragazzo dagli occhi azzurri come il ghiaccio. Ricordai il suo nome perché me lo aveva sussurrato al nostro ultimo incontro: Colt Devon. «Tu!» esclamai avvilita arretrando di un passo. «Stammi lontano». «Ma che ti prende?» chiese il ragazzo. Corsi verso il piccolo caminetto dall’altro lato dalla stanza e afferrai tremante l’attizzatoio volgendolo nella sua direzione. «Stammi lontano» ripetei puntando il ferro con più decisione. «Che diavolo vuoi fare? Darmelo in testa?» sogghignò. Le labbra sollevate in un sorriso arrogante. «Che cosa è successo?» chiesi allora mentre, lentamente, la nebbia che mi offuscava la mente si diradava ricordo dopo ricordo. Erano figure sconnesse che si alternavano senza alcuna logica apparente: casa mia era vuota, mia madre non c’era e mia sorella neppure. Il sangue invadeva ogni spazio, ogni angolo e ogni mobile della casa. Un’orrenda visione di morte. Ma loro non c’erano. Che diavolo era successo? Colt Devon mosse qualche passo, la sua camminata leggera come quella di un ghepardo, e presto fu dinnanzi al carrellino in argento degli alcolici. Si versò un liquido ambrato in un bicchiere e infine aggiunse del ghiaccio dalla vaschetta. Ne bevve un sorso e mi lanciò un’occhiata. «Tranquilla qui sei al sicuro» disse. «Ma che diamine...». «Sei qui solamente perché ho voluto salvarti, se così si può dire» mi interruppe.


«Salvarmi? MA COSA E’ SUCCESSO?» gridai sconvolta e l’eco dei ricordi mi scosse con violenza. Il pensiero del sangue e della scomparsa di mia madre mi uccidevano come cento coltellate nel petto. E poi Ginevra... dov’era? Portai le mani alla testa. «Calmati» fece con voce ferma. «Credo che tu sia diventata preda di un demone. E non uno qualunque, purtroppo per te. L’ho percepito dal giorno in cui ti ho incontrata in quella discoteca per umani. Poi ieri sera al party. Il tuo profumo era indubbiamente sormontato dal suo» spiegò. «Come?». «Non è una cosa che una persona normale può sentire, ovviamente. E soprattutto non tu. Quel demone vuole il tuo sangue, chissà perché?» sorrise maliziosamente. Il demone di cui parlava era Sebastian. Non potevo credere che una persona così gentile e affabile potesse nascondere un segreto così spaventoso. Ecco cos’era quella bestia: un demone. Non ero mai stata una gran credente. Angeli e demoni erano, per me, solamente degli stereotipi frutto di una fantasia sviluppata negli anni da scrittori e poeti. Non credevo nell’inferno di Dante ne potevo immaginare un paradiso dove le persone buone andavano dopo la morte. Anche dopo aver assistito alla demoniaca trasformazione di Sebastian, non ci credevo. Era tutto innaturale e sbagliato. «Sei uno psicopatico, lasciami andare subito!» gridai dirigendomi verso la porta. «No, non direi psicopatico. Sociopatico, forse, ma non psicopatico: non mi si addice» replicò lui. A quel punto iniziai a correre e non appena giunsi alla porta l’aprii senza esitazione. Un leggero vento mi investì facendomi esitare, quando davanti a me mi ritrovai faccia a faccia con il ragazzo dagli occhi di ghiaccio. Ci scambiammo uno sguardo per un istante e subito dopo la mia mano scattò in avanti colpendolo con il ferro. Il ragazzo si coprì il volto con il braccio e la mia arma sprizzò in tutte le direzioni come le schegge di un legno spezzato. Guardai incredula l’impugnatura piegata rimasta nella mia mano e infine osservai il suo braccio squarciato rimarginarsi, quasi non fosse stato di carne. «Avevo appena fatto la doccia!». «Che cavolo sei?» sbottai. «Solitamente si chiede “chi sei”, sai per educazione» disse con il suo tono arrogante richiudendo la porta dietro di sé. Il ragazzo mi guardò ancora una volta divertito. «Mi chiamo Colt Devon e sono un demone. Mezzo-demone a dir il vero, sto ancora aspettando la mia opportunità di diventarlo per intero». «Mezzo.. che?» esclamai confusa.


«Mezzo-demone hai capito bene. Sai quegli esseri mezzo di qua e mezzo di là, non siamo ben visti da entrambi le fazioni, ma soprattutto dagli angeli. Già, gli angeli; sono molto furbi non si fanno mai vedere, sanno bene che il loro sangue è prezioso. Si diventa demoni completi bevendo il loro sangue. Magnifico no?» fece come se ciò di cui stava parlando fosse la cosa più naturale del mondo. Le gambe mi cedettero tutto d’un tratto e mi ritrovai a terra più debole che mai. Tutto ciò a cui riuscivo a pensare in quel momento non riguardava niente di positivo. Mi trovavo in una stanza con un ragazzo dai seri problemi ma soprattutto che non potevo minimamente ferire. «Cosa vuoi farmi?» chiesi temendo però di conoscere già la risposta. «Io? Niente. Ti ho solamente seguita fino a casa tua. C’era sangue da tutte le parti e una strana aurea che aleggiava tra le pareti» si avvicinò accovacciandosi vicino a me. Scoppiai a piangere dalla disperazione. Portai le mani agli occhi e mi appoggiai al muro, sperando che Colt Devon mi lasciasse una volta per tutte in pace come desideravo. Dovevo assolutamente riordinare i pensieri. Com’era possibile tutto ciò? «E dove sono mia mamma e mia sorella?» chiesi ormai scoraggiata e cominciando a pensare al peggio. «Non ne ho idea, ma non erano lì quando sono arrivato» rispose. Non erano lì. No, non poteva essere. Sentivo il cuore battere impazzito e un dolore atroce al petto. Il ricordo sbiascicò nella mia memoria. Quell’orrendo volto di quell’uomo che mi aveva tanto aiutata. Era stato così gentile, disponibile e affabile. Avevamo passato del tempo insieme e poi... aveva mostrato il suo vero volto. Un demonio. Un’orribile bestia demoniaca. Mi alzai dal freddo marmo bianco che ornava tutta la camera. Mi ci volle qualche minuto prima di abituarmi al senso di vertigine che stava prendendo possesso di tutto il mio corpo. Poi crollai nuovamente ma stavolta non scivolai sul pavimento. Colt Devon mi afferrò al volo alle spalle. Il suo tocco era inaspettatamente caldo, quasi bollente, come le fiamme dell’inferno. Lasciai che i capelli mi ricadessero di lato nascondendomi il viso sfigurato dalle lacrime. Come se potessi allontanarmi per qualche secondo dall’inquietante sguardo magnetico del mezzo-demone. Colt Devon rise d’un tratto come colto alla sprovvista. «Guarda, guarda. Sembri essere divenuta più appetibile di quel che pensavo» sogghignò fissando il mio collo nudo. Con un gesto rapido delle dita scostò una ciocca di capelli dalla mia schiena e rimase in contemplazione. Diedi uno strattone e sciolsi la sua presa ricadendo sul letto qualche metro più in là. «Non c’è nessun dubbio» rise.


«Parla chiaro!» sibilai senza voce. Mi fece segno di guardarmi il retro del collo. Corsi subito al grande specchio in mezzo alla stanza e voltandomi intravidi un piccolo segno proprio lì. Erano una sorta di linee sinuose e sottili, come dei raggi concentrici che si espandevano chiaramente sopra la pelle. «Ma cos’è?» chiesi sfregandomi la pelle esterrefatta. «E’ estremamente raro da vedere» disse meravigliato. «E’ una runa che segnala la sua presenza angelica. Solamente enti soprannaturali come me possono vederla». «Cosa?!» borbottai confusa. «Qualcuno da lassù deve aver voluto graziarti, poetessa. Chissà cos’hai fatto di tanto importante per meritarti un tale potere» commentò scrutandomi con quegli occhi luminosi e innaturali. «Davvero, io non capisco» affermai irritata. «Non capisco cosa tu voglia dire. Mi sento veramente presa in giro. Una presenza angelica, dici?» sbuffai. «Ovvero un angelo? No, non ci credo. Non ci credo per niente». «Dovresti invece. Soprattutto dopo quello che ti è accaduto. Un angelo è dentro di te ora» rispose zelante. «Un angelo? Ma di che cavolo stai parlando, non ci capisco nulla. Demoni... Angeli...» brontolai sempre più con la testa nel pallone. Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio sospirò portando gli occhi al cielo e ringhiò: «Perché voi esseri umani non sapete mai niente? Vuol dire quello che ho detto: un angelo è caduto ed ora è dentro di te, fine della storia. Per questo faresti bene a startene lontana da quel demone. Sei diventata più invitante proprio per questo». «Sebastian...» mormorai. «Scordati quel nome. Ogni demone ha un nome di riserva per non farsi trovare». «Ha rapito lui mia madre e mia sorella...» dissi stringendo gli occhi per non piangere. «E’ scaltro. Sa che le cercherai e a quel punto ti catturerà. E’ questa la fregatura: dì addio alla tua famiglia. Credimi è meglio» fece portandosi davanti ad un armadio laccato di nero e estraendone una camicia bianca. «A proposito, il tuo vestito di ieri sera era sporco di sangue così l’ho buttato via». «Ma non posso lasciarle morire!» esplosi rabbiosa consapevole del triste destino che spettava ad entrambe. Era vero che non avevo quel rapporto straordinario con mia madre e che molte volte avevo dovuto litigare con mia sorella Ginevra per farle indossare qualcosa di più sobrio di una maglietta corta e di una minigonna, ma non potevo lasciarle morire così: erano tutto ciò che rimaneva della mia famiglia. La mia vita. Rimansi a piangere e a rimuginare a lungo quando improvvisamente una strana idea si fece largo tra i miei pensieri.


Mi sollevai dalle morbide lenzuola e guardai dritto negli occhi Colt Devon. Lui fece lo stesso ricambiando lo sguardo con severità. Un brivido mi percorse da capo a piedi. Poi dissi: «Aiutami». Il ragazzo sollevò un sopracciglio e iniziò a scrutarmi con interesse. «Aiutami a salvarle, ti prego» lo supplicai. «E io che cosa ci guadagno in tutto questo? Non è una cosa da nulla mettersi contro un demone del genere, sai?» ribatté arcigno. Riflettei per un momento. «Hai detto che ti serve un angelo. Se mi aiuterai, io aiuterò te» proposi a malincuore. Colt si avvicinò a passo lento al letto e senza smettere di fissarmi si portò d’innalzi a me. «Sai questo cosa significa vero?» chiese con un luccichio nello sguardo. Si sedette al mio fianco e sorrise. Il profumo speziato del suo shampoo mi avvolse. Era incredibilmente buono e sebbene lui non si presentasse come una delle persone più affidabili di questa terra, per quel poco che fu, mi sentii leggermente confortata. «Non ne sono sicura» risposi deglutendo. «Significa che se io dovessi accettare la tua proposta, tu diventi mia. Per sempre» disse scostando i miei capelli sulle spalle e accarezzandomi il collo. Presi un bel respiro cercando di non rabbrividire a quel tocco e cominciai a pensarci bene. Dopotutto non mi rimaneva più niente. E ad ogni modo, avevo come il presentimento che anche se mi fossi rimangiata la parola lui mi avrebbe lo stesso tenuta prigioniera e che il mio desiderio di rivedere sane e salve mia madre e mia sorella sarebbe svanito con uno schiocco di dita. Mi serviva il suo aiuto, lui sapeva cosa stava succedendo alla mia vita. Lui sapeva chi era Sebastian veramente. Solo poche parole mi sarebbero servite. Solo poche parole. Feci nuovamente un profondo respiro. Il cuore incominciò a battere forte e lo sguardo glaciale di Colt Devon penetrò infine le mie ultime difese. Ormai avevo perso ogni cosa. «Accetto» confermai. Avevo appena venduto la mia anima al diavolo.


Capitolo 13

Le luci lampeggianti delle auto dei carabinieri lanciavano delle chiazze bluastre sulle mura delle case vicine. Vi erano due agenti che con fare deciso stendevano un nastro rosso e bianco davanti al cancelletto di casa – la mia casa – e a quello dei vicini, mentre tre uomini attendevano alla macchina della guardia medica aspettando indicazioni. Quel giorno il vento si era fatto più freddo e nell’atmosfera si potevano già avvertire i primi geli dell’inverno sopraggiungere lentamente, nonostante un pallido sole cercasse di farsi largo tra le nuvole grigiastre e inconsistenti. Mi strinsi nel cappotto di Colt Devon, lui non ne aveva bisogno a quanto pare. Vidi il suo sguardo protrarsi oltre studiando tutto ciò che riteneva degno di attenzione. Infine si volse verso me con una smorfia. «Ebbene sì: abbiamo un genio tra noi!» affermò divertito. Lo guardai perplessa e sbigottita allo stesso tempo. Eravamo rimasti fermi senza dir nulla ed era tutto ciò che sapeva dire, ora? Non sopportavo quel suo fare presuntuoso. Esasperata mi risedetti sul sedile in pelle dell’auto, una di quelle che basta una sola occhiata per capire che ci sarebbero voluti un sacco di soldi per averne una. Un’auto dalle simmetrie sportive e arrotondate, color rubino, con gli interni neri e rossi. E’ inverosimile pensare quanto quell’auto si addicesse tanto ad una personalità dinamica come quella di Colt Devon. «Un genio? Ti riferisci a te?» chiesi con disappunto. «Poetessa non contraddirmi. Mi riferivo al tuo Sebastian. Ha ucciso il tuo vicino di casa e ha contraffatto le prove» confermò indicando un corpo disteso su una barella e coperto da un telo bianco mezzo sporco, che giaceva da pochi minuti davanti al cortile del nostro vicino. Due operatori lo trasportarono via verso l’ambulanza e chiusero le porte. «Santo cielo!» portai una mano alla testa, sentivo le tempie pulsare. Mi sentii inevitabilmente in colpa. «Io direi più un mostro che un genio».


«No, no. Un genio! Ha ucciso il tuo vicino di casa e a fatto sì che la colpa ricadesse su di te. O meglio sulla tua famiglia. Per la polizia tu e la tua famiglia siete spariti dopo l’omicidio» chiarì mentre con una mano si spettinava i piccoli ciuffi che gli ricadevano sulla fronte. I suoi capelli al sole avevano tutta un’altra tonalità. Erano più biondi, mentre alla sera si facevano più scuri. Così come i suoi occhi diventavano più blu, invece che il solito azzurro acceso. «Ti sta mettendo alla prova. Conosce le tue abitudini e non ti ritiene in grado di grandi gesta. Pensa che andrai dalla polizia a testimoniare. E questo gli permetterà di trovarti prima del tempo. E’ il suo piano». Con gesto rapido della mano si rimise gli occhiali da sole, sedendosi infine al volante della sua auto. Accese il motore e spinse il piede sull’acceleratore fin quando non ci trovammo lontani dal quartiere residenziale. «Non andrò dalla polizia. Voglio solamente trovare mia madre e mia sor…» mi bloccai. Un pensiero. Uno stramaledettissimo pensiero percorse la mia testa. Come avevo potuto dimenticarmelo? Colt Devon mi volse un’occhiata fugace. «Che c’è?» domandò. «Com’è potuto venirmi in mente solo ora?! Mia sorella!» esclamai tutto d’un fiato. «Non può essere tornata a casa! No. Aveva detto che andava dalla sua amica e poi sarebbero andate al Metropolitan insieme. Lei era solita dormire da Daniela quando andava in discoteca, perché il giorno dopo aveva scuola» tirai un sospiro di sollievo. «Dev’essere da lei o a quest’ora si starà preparando per andare a scuola. Ti prego, andiamo a vedere!» lo scongiurai. «Adoro quando mi preghi in questo modo, poetessa» sogghignò e un attimo dopo partimmo in direzione della casa di Daniela. Daniela non era in casa. La madre ci disse che era andata a scuola, ma che Ginevra non era con lei. Mi prese un tuffo al cuore. Ci avevo sperato veramente che fosse lì. Per una volta avevo sperato che non fosse tornata a casa. Salutammo la donna, che ricambiò con un piccolo sorriso, e ce ne andammo. «Perché insisti tanto? Dovresti lasciar perdere. Se tua madre e tua sorella sono state rapite da quel demone non avranno avuto poi tante speranze di sopravvivere. Saranno già morte da un pezzo!» disse Colt Devon quando tornammo all’auto. Come una furia gli scagliai contro un’occhiataccia rabbiosa. «Non dire più una cosa del genere!» gli premetti un dito al petto, urlante. «Tu non sai cosa abbiamo passato. Non ci meritiamo una fine del genere. Ho lottato! Ho sempre lottato per tener in piedi la mia famiglia. Ho lottato e non ho mai mollato, e certamente non mollerò ora. Ne mai. Preferisco morire. Ma loro non si meritano una cosa del genere. Capito!?». I


miei occhi si puntarono nei suoi con un tale impeto che lo vidi sobbalzare dallo stupore. «Ok, ok! Non volevo offenderti. Stavo solamente dando un consiglio». «Tieniti i tuoi consigli per te Colt Devon. A me non servono. Abbiamo un patto, la mia famiglia per l’angelo rinchiuso qua dentro» portai la mano aperta al petto. «quindi niente commenti!». Rientrai in macchina arrabbiata, sbattendo la porta. Non aggiunsi più nient’altro, né lui aprì più bocca. Quasi certamente il ragazzo dagli occhi di ghiaccio si stava pentendo di aver stretto un patto con me. Io sicuramente. Ma non avevo altra scelta se volevo affrontare un ente pericoloso come Sebastian. Arrivammo al Metropolitan che erano quasi le dieci di mattina. Stranamente in quel locale c’era sempre gente. La sera bene o male perché veniva frequentato per il locale notturno. Di giorno perché veniva ripulito dall’agenzia di pulizie e veniva riordinato per la sera seguente. Non ero sicura che Ginevra potesse trovarsi lì. Non ero sicura di niente. Nemmeno di quello che stavo facendo. Ma una cosa la sapevo: non avrei mai permesso che Sebastian toccasse la mia famiglia. Camminammo fino al bancone d’ingresso dove una ragazza stava conteggiando ancora le entrate della serata e ci fermammo. «Un buon guadagno!» esordì Colt non appena quest’ultima sollevò il volto per guardarci. Sorrise. «Non c’è male. Avete bisogno?» chiese lei. «Abbiamo dimenticato una cosa dentro. E’ importante». «Non posso farvi entrare così, mi spiace». «Ma è importante!» enfatizzai agitata e Colt allungò un braccio per zittirmi. Si appoggiò con i gomiti al bancone e sollevò un sopracciglio. «E’ importante» sottolineò quasi in un sussurro. Uno di quelli bassi e seducenti. La ragazza sorrise nuovamente e fece un rapido cenno di consenso. Non capii mai come riusciva a farlo. Non era una magia la sua, era carisma. Un carisma prorompente e senza eguali, che poteva usufruire a suo vantaggio tutte le volte che voleva. Eppure ai miei occhi rimaneva sempre un insopportabile arrogante. «Andiamo» mormorò e mi trascinò oltre l’entrata. Corsi in tutte le direzioni chiamando a gran voce il nome di Ginevra e sperai con tutto il cuore che potesse sentirmi. Era solo una sensazione, ma sapevo che la mia sorellina non poteva essere tornata a casa. La conoscevo bene. L’avrei cercata anche in capo al mondo se ne avessi avuto l’opportunità. Percorsi i corridoi riccamente arredati della discoteca e in seguito spalancai i bagni femminili dove un’inserviente stava lavando il pavimento. Alzò la testa incuriosita dalla mia risolutezza e in seguito allungò il braccio in direzione dell’uscita di sicurezza.


«Grazie!» con foga mi buttai sulla maniglia antipanico e in un battibaleno mi trovai in un vicolo nel retro del locale. Il vento mi sferzò il viso. Osservai il cielo plumbeo spuntare in una fessura tra due palazzi e uno stormo di uccellini volare via. La strada era deserta e un odore sgradevole arieggiava tra le pareti sporche di terra e muschio. Vi erano solamente cumuli di immondizia accatastati contro un cassonetto e questo mi fece venire in mente le bottiglie di alcolici in cucina che avrei dovuto portare via da casa, prima che succedesse tutto questo. Ero certa che la polizia le avrebbe notate e avrebbe così tirato le somme, alla fine. Un pensiero che mi faceva terribilmente innervosire. Ad un certo punto udimmo un rumore e ci voltammo. Era stato come un singhiozzo breve e soffocato. Poi un fruscìo e notai qualcosa muoversi dietro al cassonetto. Vidi spuntare la sagoma di uno stivaletto e non mi diedi neanche un attimo per riflettere che ero già corsa nella sua direzione. Ed eccola: Ginevra era seduta a terra con la schiena contro un sacco pieno di spazzatura. I vestiti stropicciati, la pelle pallida, il trucco sbavato in sottili scie lasciate da un pianto non ancora esaurito del tutto. Gli occhi gonfi e rossi. «GINEVRA!» urlai in preda allo spavento. «Cosa ti è successo?!». Ginevra sollevò lo sguardo sofferente e un momento dopo esplose a piangere. Nella mano stringeva il cellulare ormai spento per la batteria esaurita. Sul vetro vi era una crepa che trapassava da parte in parte lo schermo. «Gine…». «Non mi hai risposto. Ti ho chiamata» sibilò tremante. Piegò la testa e portò le ginocchia al petto. Notai che sulla nuca aveva un bozzolo rosso. «Non mi hai risposto» rimarcò con un filo di voce. «Mi spiace così tanto. Cosa è successo?». Ebbe un fremito così mi tolsi il cappotto di Colt e glielo poggiai sulle spalle nude. Le accarezzai il braccio e capii che doveva aver patito il freddo per ore. Rimase immobile scossa dai singhiozzi, ma cercò comunque di parlare e di raccontarmi. «Luca» iniziò a dire. «Stavamo passando una bella serata quando...» Gli occhi le divennero come due torrenti in piena, selvaggi e burrascosi, distorti dalle lacrime che non ne volevano sapere di fermarsi. «Cosa... Cosa è successo?» la incoraggiai. «Ha iniziato a strattonarmi e poi a baciarmi. Mi sono liberata e me ne sono andata ai bagni, ma lui mi ha seguita» spiegò. Prese un breve respiro. «Mi ha colpita con qualcosa. Mi ha fatto male e poi mi ha spinta. Non sono più riuscita ad alzarmi da qui». «Senti dolore alle gambe?».


«No, non è per quello. Ho paura!» strillò stremata e con l’ennesimo spasmo si piegò in avanti dove, finalmente, potei stringerla tra le braccia. Pensai che avrei dovuto far più spesso la sorella maggiore. Ce l’avevo con me stessa per essere stata così poco comprensiva con lei in tutti questi anni. Dopotutto era mia sorella, la cosa più simile alla mia anima che esistesse. L’amore non è una cosa semplice, soprattutto se hai quindici anni. In realtà non è mai semplice. E’ solo che quando si è adolescenti si guarda il mondo da un’altra prospettiva. Ci si emoziona almeno il triplo di un adulto, si scopre quanto possa esser bello legarsi ad un’altra persona. Le prime cotte. Le sere passate fino a tardi a scambiarsi messaggi. E poi il primo bacio. Sensazioni che conoscevo bene, perché anche io, come Ginevra, ero stata adolescente. Forse un’adolescente che aveva dovuto diventar grande troppo presto, ma pur sempre una ragazzina. Mentre lei stava solo ora iniziando a scoprire cos’è l’amore. E la capivo fin troppo bene. La spinsi tra le mie braccia e strinsi forte. Così forte che quasi potevo percepire la sua angoscia annidata nel suo cuore palpitante e frenetico. La strinsi talmente forte che sperai per un momento di recuperare tutto il tempo perso e pensai all’abbraccio che avrei dovuto regalarle il giorno della morte di papà, invece che starmene in disparte a vederla piangere, senza dir nulla. La mia sorellina. E fu in quell’istante che compresi quanto effettivamente le volevo bene e tenessi a lei. Più di quanto credessi. Non si può sostituire l’amore di un genitore, ma neanche l’amore di un fratello. Qualunque cosa accada saprai sempre che una parte del tuo cuore è già stata affidata ad esso. E nessuno potrà strappargliela. Resterà un custode devoto, per sempre. Inaspettatamente Ginevra si strinse più vicina e nascose il viso nel mio petto. «Oh, Gine. Ti prometto che non ti succederà più niente. Te lo prometto. Davvero!» pronunciai quelle parole e dentro me sapevo che erano più sincere di quanto il tono della mia voce tremolante potesse dimostrare. Quasi le lacrime presero il sopravvento, ma le ricacciai indietro perché in quel momento Ginevra necessitava di una figura che la sostenesse e che le dicesse che sarebbe andato tutto bene. Una persona forte, come mi aveva detto di essere mio padre. Ed era ciò di cui avevo bisogno anche io. Sii forte, Samanta. Sii Forte. «Andiamocene, ora. Avrete tempo di parlare più tardi» si intromise dopo un po’ Colt Devon, che in silenzio, aveva assistito. Odiavo che mi dicesse cosa fare, ma aveva ragione: Ginevra aveva urgenza di fare un bagno caldo per riscaldarsi, e di riposare per almeno un paio d’ore o anche più. Tornammo dunque all’auto e presto fummo nuovamente nell’appartamento di Colt all’ultimo piano di un moderno palazzo appena fuori dal centro città.


Capitolo 14

La stanza in cui Ginevra stava riposando profumava di lavanda. Ve ne era un mazzolino riposto in un vaso antico a pochi passi da me, su una cassettiera color avorio. Me ne restai lì, in piedi ad osservare il sonno – ora tranquillo – della mia sorellina e pensai come in casa, una volta, eravamo soliti a comporre un centrotavola con i fiori freschi. Per lo più peonie perché a mia madre piacevano quelle, e perché racchiudevano un significato bellissimo: matrimonio felice e prosperità. Come era stato quello dei miei genitori. Secondo, invece, la tradizione cinese la peonia era considerato un fiore magico dalle proprietà rigeneranti e curative, tanto che la chiamavano “Erba beata” e nell’antichità si diceva rappresentasse un simbolo di eternità. Ginevra sospirò. Ora sembrava in pace con sé stessa. Chissà cosa aveva patito, non doveva esser stato facile per lei comprendere che non tutti i ragazzi hanno la testa sulle spalle. Era inevitabile che mi sentissi in colpa. E poi avevo ancora le sue parole tra i miei pensieri: “Ti ho chiamata ma non hai risposto”. Per questo, ora che l’avevo trovata, non riuscivo a staccarmi un attimo da lei. E ero grata di ogni respiro che le sue labbra producevano perché voleva semplicemente dire che stava bene. Ora avrei solamente dovuto cercare mia madre. Ma lo sapevo, accidenti se lo sapevo: non sarebbe stato facile. Anche se avessimo trovato Sebastian, e in un qualche modo immaginavo che fosse con lei, cosa avrei fatto? In che modo Colt Devon mi avrebbe aiutata? Ci sarebbe stato bisogno di lottare? O sarebbe stato inutile? Erroneamente, nella mia testa, frullavano un sacco di modi per salvare la vita di mia mamma. La prima che pensai fu il suicidio, perché così non ci sarebbe stato più bisogno di cercarmi; ma sarebbe stata la scelta più sciocca e insensata, poiché non sarei riuscita in nessun modo, neanche tentando, di salvarla. In secondo, avevo in mente di lottare, compiere un gesto folle e disperato di salvataggio; eppure anche


questa opzione non si staccava molto da quella precedente. Però almeno non me ne sarei rimasta ferma a guardare. No. Non erano scelte che potevo fare, sebbene la mia mente non riusciva ad elaborare nient’altro e pensai per un attimo che avrei fatto bene a chiedere consiglio a Colt, anche se quest’ultimo mi aveva già ripetuto due volte di lasciar perdere. Eppure lui conosceva questo mondo parallelo. Era stato lui a schiarirmi le idee sui fatti accaduti e sebbene non fossi ancora del tutto certa di ciò che stava accadendo, sapevo che almeno lui potesse riservare qualche buona spiegazione sul come uccidere un demone. “Demone”... Santo cielo! Mi faceva uno strano effetto pensare a quella parola, come se da un giorno con l’altro avessi accettato la cruda realtà dei fatti e l’esistenza di quelle creature. Era esattamente come credere nei fantasmi, ma diversamente perché incutevano una paura ben diversa. Sebastian era stato scaltro e aveva pianificato una strategia per i suoi fini più oscuri. Scopi che non capivo minimamente quale senso potessero avere. Era un essere intelligente. Però era malvagio e crudele, e questo mi bastava. Il cuore che mi aveva spezzato non poteva più essere rimarginato. Ed ero così arrabbiata e delusa da lui. D’un tratto la porta si aprì e Colt entrò nella stanza. «Vieni» mi disse e con un cenno del capo mi invitò a seguirlo. Ci sedemmo in salotto, un ambiente aperto ben illuminato per via delle ampie vetrate a tutta parete, ben arredato dai mobili sicuramente molto singolari di uno stile classico ma dai colori e dalle rifiniture vivaci e rimodernate. Mi offrì qualcosa da bere e infine si adagiò su una poltrona in fronte a me. «Devi raccontarmi cosa voleva da te Sebastian» pretese discretamente. «Solitamente i demoni di quel calibro non scelgono a caso le loro prede. E non sono sicuro che fosse per via del marchio che hai. O sbaglio?». «Non so come sia comparso questo coso sul collo, ma non ce l’avevo prima che cadessi giù dall’attico del palazzo, ieri notte» asserii con fermezza. «Cosa?» Colt mi guardò accigliato. «Ho detto che non ho mai avuto una cosa del genere sul collo. Un tatuaggio poi! I miei me lo hanno sempre proibito. E io in questo periodo, certamente non sarei andata a spendere soldi che potessero servirmi per pagare le bollette o il mutuo» sopirai. «No, intendevo quell’altra cosa. Sei precipitata giù dall’attico?». Il suo sguardo esprimeva un punto interrogativo. «E non sei morta...» Sollevai le braccia a mezz’aria in un gesto nervoso. Ancora adesso non riuscivo a capire cosa fosse successo quella sera. Il calore avvolgente che avevo percepito, il


tempo che si era arrestato per pochi secondi (o forse era stato di più?) e la luce candida e dorata, quasi accecante. «Non lo so. Cioè, non ne sono sicura» risposi sollevando le spalle. «Dev’essere per questo, allora». «Che cosa?» lo guardai perplessa. «L’angelo» bevve un sorso del suo drink continuando a fissarmi. «Qualcuno lassù vuole che tu resti viva. Dovresti essere felice di essere benedetta da un angelo». Sentii come una punta di risentimento nella sua voce e il suo sguardo lo confermava. «Ehi, non l’ho scelto io» appoggiai il bicchiere sul tavolo, abbandonando l’idea di ingerire un liquido dall’odore così pungente. Ne avevo abbastanza dell’alcool. «No, certo. Ad ogni modo dimmi cosa voleva il demone». Colt lasciò il discorso da parte con un gesto impaziente della mano, e tornò a guardarmi con il solito fare arrogante di sempre. «Dolore, penso.» risposi. «Dolore?». Annuii. «Che tipo di dolore?». «Che tipo di dolore? E io che ne so?» sbuffai. «Non capisco nemmeno perché abbia indugiato così tanto per uccidermi. Se era il dolore che voleva bastava farla finita no?». «E’ quasi divertente starti a guardare mentre ti crogioli nell’ignoranza» affermò sarcastico. Gli lanciai un’occhiataccia incerta. «Smettila di trattarmi così». «No, dico sul serio.» Si sollevò dalla poltrona e mi sorpresi di seguirlo con lo sguardo, finché, ad un certo punto non si trovò esattamente dietro di me, più velocemente di quel che pensavo avessi visto. Io di tutto riscontro rimasi seduta e immobile. Si piegò e portò le labbra vicino al mio orecchio. La sua voce uscì delicata e inquietante allo stesso tempo. «Esistono tanti tipi di dolore, Samanta. Il demone non ti ha uccisa perché attendeva il momento ideale per farlo. Ti ha raggirata, ti ha illusa e infine ti ha usata. Ha giocato tutte le sue carte solamente per uno scopo, e quello scopo era di ottenere il dolore che gli serviva. La sua gradazione di dolore preferita». Un brivido mi percosse da capo a piedi. Mi accorsi che era la prima volta che non mi chiamava “Poetessa”, ma soprattutto che le parole di Colt erano tremendamente esatte. Sebastian si era servito di me: ora ricordavo. La nebbia che fino quella mattina mi aveva accecato la mente si stava diradando a poco a poco, e la terribile realtà stava sopraggiungendo inevitabilmente. Sebastian voleva un dolore ben preciso. Era un demone e amava quell’orrenda sensazione. «Un demone del dolore» affermò Colt soddisfatto dal mio sguardo attonito. La sua voce mi fece sobbalzare. «Tu sei troppo ingenua. Non sai cosa ti aspetta là fuori. Non sai cosa si nasconde nell’ombra ogni notte. Ogni creatura che tu riesca ad


immaginare, dalle fattezze immonde e grottesche, o bellissime e rigogliose, esiste. I demoni esistono. I mostri esistono. Spaventosi oltre ogni immaginazione umana. Si nutrono di sangue e sentimenti. La corruzione che sono capaci di infondere in un animo umano è quasi ammirevole. E il dolore non è l’unico nettare che gli piace assaporare ad un demone. Gli piace stare a guardare mentre un ragazzo getta via la sua vita legandosi ad una dipendenza come la droga o il gioco d’azzardo, per poi assaporarne il gusto goccia dopo goccia. Ho visto demoni divorare persone per una piccola parvenza di egoismo, o per egocentrismo. Ma più di ogni cosa, tutti i demoni sono attratti in modo irresistibile dal sangue di angelo. E’ l’ambrosia più pregiata e succulenta, capace di amplificare cento volte di più i poteri di qualsiasi creatura demoniaca. Ma gli angeli non si trovano facilmente in giro, almeno, non come i demoni. Di demoni il mondo ne è pieno». Mi volsi a guardare quale espressione potesse avere una persona che parlava di demoni con così tanta leggerezza e compiacenza. Colt sorrise. «E tu invece?» chiesi improvvisamente conquistandomi la sua attenzione. «Tu che demone sei?». Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio distolse lo sguardo e poco dopo si sedette al mio fianco appoggiando il braccio sullo schienale del divano dove ero adagiata. «Mi sembra di averti già detto che sono mezzo-demone. Non ho ancora i poteri di un demone completo» parve insolitamente inquieto, ma quella sensazione scomparve immediatamente ritornando il solito beffeggiatore di sempre. «Li avrò quando questa storia sarà finita e finalmente avrò ciò che mi spetta. Giusto?» fece scivolate la mano e con le dita accarezzò una ciocca dei miei capelli. I suoi modi di fare erano sempre stati così freddi, sebbene il suo sangue ribollisse a temperature elevate rispetto a quello di una persona umana. E quando mi accarezzò la sensazione fu quella di essere stata toccata dalle dita rachitiche di uno scheletro. Assolutamente angosciante. Da brividi. Però c’era sempre un qualcosa in lui. Ogni volta che i suoi occhi ricapitolavano nei miei, mi sentivo avvampare, come se non fosse lo sguardo di un ragazzo ma ben sì di un predatore pronto a balzare sulla sua preda. Mi sentivo in continua soggezione e in costante pericolo al suo fianco. Ma non mi arrendevo comunque. «E quali poteri possiedi in questo momento?» chiesi deglutendo, ma non ero certa che volevo conoscere la risposta. «Non ti basta sapere che sono incredibilmente agile e forte?». «Mmm…» borbottai insoddisfatta. Colt allora ci pensò su e quando lo ebbe fatto fissò lo sguardo su uno dei mazzi di rose rosse che ornavano la sala. Sembrò quasi immobile, ma vidi un leggero movimento della mano.


Dal nulla udii un lieve rimbombo echeggiare tra le mura come un soffio delicato e piacevole. Il vento soffiò per il salotto serpeggiando armoniosamente tra i mobili senza colpire nulla fin quando una lama trasparente tranciò di netto i petali delle rose che Colt stava osservando. Mille splendidi puntini scarlatti si sparsero in tutte le direzioni, illuminati da bagliori splendenti che appartenevano alle scie dei venti. Studiai la scena stupefatta e incredula. Rimasi così a lungo, anche dopo che tutti i petali furono caduti a terra. «Che... Come... Cos’è stato?» esclamai del tutto confusa e incerta su ciò ce era appena successo. «Era come...». «Ora hai più dubbi sulle mie capacità?» mi interruppe e i suoi occhi ritornarono a fissare i miei, senza esitazione e con impazienza. Non risposi ne dissi nulla. Avevo dubitato di lui fin dal primo momento in cui avevamo stretto quell’accordo e Colt lo sapeva, e aveva capito che cercavo di conoscere un po’ meglio la sua vita e tutto ciò che lo riguardava. Non sembrava arrabbiato, eppure era scocciato dalla mia intraprendenza. Era chiaro come non gli piacesse che una rompiscatole come me ficcasse il naso tra le sue cose. Ma ne volevo sapere di più. Era tutta una realtà nuova e temibile che non vedevo di buon occhio, e volevo essere pronta e sapere come avrei potuto affrontarla nel caso in cui mi fossi ritrovata a far i conti con un ente soprannaturale. Era tutto così strano e d’un tratto il mondo mi sembrava diverso da come lo conoscevo. «Bene, ora che hai capito di cosa sono capace, ti pregherei di non fare pazzie, del genere non andare a raccontare in giro cosa sono e cosa hai visto poco fa. Sarebbe pressoché... problematico. Capisci?» mi scrutò con un’espressione calma e posata, ma sempre con un barlume di sarcasmo di sottofondo. E quel suo modo di guardare la gente esprimeva tante cose, come se vi fossero altre parole sottintese che non diceva ma erano del tutto chiare. «E a chi pensi che vada a dirlo? Non ho più nessuno a cui raccontare di te» replicai ricambiando il cinismo del suo sguardo. «Dimentichi chi sta riposando in questo istante nella camera affianco?». «Ginevra? Come potrei non dirle dove ci troviamo? In casa di chi, per lo meno? Vorrà sapere il tuo nome». «E tu le dirai solo questo, il resto potrà dedurlo dalle mie fotografie appese in tutta la casa». Alzai il viso e posai gli occhi sulla miriade di immagini che ornavano le pareti. Vi erano poster e gigantografie di locandine di film nel quale si vedeva Colt ritratto, importanti firme della moda per cui aveva fatto da testimonial e pezzi di canzoni trascritte tra una cornice e l’altra. Sue canzoni. Mi sollevai dal divano e raggiunsi la parete dove era appeso un disco di platino in una cornice lineare di color nero. Compresi immediatamente del perché Colt era stato


presente a quella festa, e come era stato possibile incontrarlo. Colt Devon era famoso nel mondo dello spettacolo, eppure se ne andava in giro come niente fosse, e mai nessuno lo fermava o lo riconosceva. Uno dei tanti suoi poteri? E da lì compresi anche in che modo potesse permettersi tanto sfarzo e una macchina da centinaia di euro. Tuttavia non smettevo di pensare che tutto ciò fosse frutto di un inganno e che per lui, far soldi, fosse stato più facile di quel che la gente potesse immaginare. Per via dei suoi misteriosi poteri, ovviamente. «Bene, non dirò nulla. Però almeno dovrò raccontarle cosa sta succedendo. Che cosa è successo a nostra madre e perché non possiamo tornare a casa» sostenni con decisione. «Sta a te se raccontarle in quale terribile e spaventoso mondo abita, o meno. L’importante è che tu lo faccia con discrezione. Per esempio non le direi che un angelo è legato alla tua anima in questo momento. Sai per sicurezza». Colt Devon aveva ragione: per Ginevra sarebbe stato troppo pesante venire a conoscenza di questi fatti sconcertanti tutti insieme. Avrei dovuto chiarirle la questione su nostra madre, dirle che c’era ancora speranza di salvarla – come io stessa credevo – e che avremmo dovuto cambiare vita d’ora in avanti. E poi c’era la questione di Sebastian. Non avevo la più pallida idea di come dirle di lui. Probabilmente le avrei raccontato una bugia, o almeno avrei distorto la realtà dei fatti per non spaventarla troppo. Come se un feroce assassino non fosse già spaventoso di suo. «Farò quel che devo, tu nel frattempo mantieni la promessa e cerca Sebastian». Colt reclinò la testa incuriosito dalla mia risolutezza e senza che me ne accorgessi si avvicinò nuovamente. Voltandomi a guardarlo mi trovai faccia a faccia con i suoi zigomi marcati e proporzionati. «Niente è come l’abisso, il mare non eleva le sue vele senza la spinta del vento, e io non precipito nel baratro dell’assenza. Mi ergo stabile e senza dubbi: Dovresti ricordartela questa frase» fece indicandomi le parole appese al muro. «Abbi fede, poetessa!». Abbi fede, aveva detto. Due parole che dette da lui sembravano come una presa in giro. Il Diavolo che ti consiglia di avere fede. Che sciocchezza. Eppure era stato proprio Colt a pensare a quella frase per una delle sue canzoni. Quella frase esprimeva molta forza e determinazione. Chissà, in fondo magari non era così arrogante come faceva vedere. Dopotutto aveva salvato me e mia sorella, magari era una persona migliore di quel che credevo. Quel pensiero svanì un istante dopo quando Colt si avvicinò ancora di più a me e, senza smettere di fissare il suo sguardo nel mio, disse: «E ad ogni modo, non mi piace che mi si dia degli ordini. Ricordatelo» sibilò con voce bassa e severa.


Il suo viso era stato così vicino al mio che potevo sentire il suo respiro, come una carezza sulle mie labbra. La cosa che più mi spaventò non fu la minaccia velata dietro ad un falso sorriso, ma la sensazione che percepii. L’interesse che avevo avuto nel vedere le nostre labbra a pochi centimetri e l’infrenabile voglia di saggiarne la morbidezza. Fu solo un attimo e poi sparì. Colt mi guardò un’ultima volta e alla fine tornò nella sua stanza lasciandomi sola con i miei pensieri.


Capitolo 15

Verso sera Colt Devon uscì e mi ritrovai sola con Ginevra, che nel frattempo si era svegliata. Ci sedemmo al tavolo della cucina – che si trovava in linea retta con il salotto e divisa solo da una serie di arcate che ricordavano il portico di qualche bella villa al mare – e preparammo qualcosa da mangiare, malgrado quello che il frigorifero di un mezzo-demone potesse offrire. Mi domandai di cosa si cibasse Colt e sperai vivamente che il sangue non fosse compreso per la maggior parte nella sua dieta alimentare. Lo speravo davvero. Passai qualche ora con mia sorella a spiegarle principalmente il perché avremmo dovuto rifarci una vita da capo non appena avremmo trovato la mamma. Ipotizzammo che sarebbe stato meglio andare a vivere all’estero, luoghi in cui non avremmo avuto più di questi problemi. Ma ancor di più speravo di trovare un luogo sulla terra dove non vi fosse nemmeno l’ombra di un demone. Ma questo lo tenni per me perché non volevo terrorizzarla, o almeno, non volevo sembrarle fuori di testa. Rivelarle ciò che da poco tempo avevo scoperto non era così semplice. Forse un giorno lo avrei fatto, ma non lì e non in quel momento. Alla fine del nostro discorso Ginevra sembrava spaventata e disorientata. Solamente a guardarla potevo capire come fosse dubbiosa e non sapeva se credere a quello che le stavo raccontando. Ridacchiò innervosita dall’idea che un assassino potesse essere alle nostre calcagna, ma sapevo che la sua reazione non era altro che una profonda preoccupazione per ciò che ci aspettava da lì in poi. Comprendeva benissimo che non avrebbe più potuto vedere i suoi amici, che non avrebbe più potuto tornare a scuola e che, soprattutto, non avremmo mai più rivisto casa nostra. Era frustrante pensare a quanti ricordi avremmo dovuto lasciarci alle spalle. Ma almeno eravamo insieme e stavolta glielo dissi chiaramente: «Non ti lascerò mai, Gine. Per ogni cosa io ci sarò. Ma dobbiamo impegnarci, capito?». Lei annuì e infine scoppiò a piangere.


Fu solamente quando Ginevra si fu calmata che Colt ritornò a casa e per un attimo sospettai che avesse aspettato fuori dalla porta per non interrompere il nostro discorso. Con sé aveva un fiore, un’orchidea. Sorpassò il salotto e senza degnarci di uno sguardo entrò in una delle stanze in cui ancora non ero stata. Svoltò appena prima della zona cucina e sparì. Allora mi alzai e lo raggiunsi. Dopotutto era uscito con l’intento di cercare informazioni e morivo dalla voglia di sapere. Lo seguii e non appena giunsi nella camera un’ondata di aria gelida mi investì facendomi tremare. Era un’altra camera da letto ma molto più sobria, riordinata dalle linee pulite e geometriche dei mobili, e elegantemente rivestita da una chiara carta da parati arabescata. Vi era un profumo leggero che sovrastava l’ambiente e immaginai immediatamente che dovesse essere emanato dalle tante orchidee che erano sparpagliate per tutta la stanza. Orchidee di tante variazioni diverse e colori. Colt si piegò su un vaso nel quale alcune di esse erano ormai appassite e le sostituì con quell’unica, bella e solitaria orchidea che reggeva tra le dita. Buttò le altre. Infine si volse e incontrò il mio sguardo incerto. «Non pensavo fossi un collezionista di orchidee» gli dissi, ma notando la sua espressione cupa mi pentii subito di avergli detto una cosa del genere. «Non sono mie» spiegò dopo un po’. «Sono per mia sorella». «Tua sorella? Hai una sorella?». «Ti sorprende?». «No, insomma. Non pensavo. E poi perché tutti questi fiori?». «Perché è morta, poetessa» mi zittì, il suo tono di voce graffiante come vetro scheggiato. «Non lo sapevo, scusa» feci quasi in un sussurro, mentre con una mano accarezzai uno dei petali. Era vellutato come un velo di seta e la fantastica gradazione di rosa mi ricordava i colori freschi e vivi di un cielo che non vedevo ormai da molto tempo. «E li cambi sempre quando appassiscono?». «Ti interessa davvero?» era divenuto più scontroso del solito e con una mano mi spinse fuori dalla porta lasciando la fredda atmosfera della stanza oltre la soglia. Lanciò un’occhiata a Ginevra che ci osservava con i suoi occhi da bambina, poi parlò: «C’è una persona a Milano che può aiutarmi a scoprire dov’è Sebastian». «Veramente? Chi?». «Il suo nome è Alan Greenwood, ho contattato un suo collaboratore poco fa, e mi ha detto dove si trova stasera. Andrò a parlarci e poi ti dirò se ho scoperto qualcosa» si girò verso l’attaccapanni e afferrò il lungo cappotto grigio, lo mise e si protrasse verso l’uscita. «Aspetta!» la mia mano scattò in avanti. «Vengo anche io. Se è solo per parlare, alla fine, potrei venire anche io con te».


«Assolutamente no! Non è solamente una chiacchierata. Alan Greenwood vive tra i demoni, li conosce e ci sa trattare. Non è così semplice come credi» mi ammonì. «Ma devo venire, non posso stare qui ad aspettare un tuo responso. Non posso restare qui ferma. Fammi venire con te» lo supplicai. Colt mi trascinò dietro l’angolo nel quale era situata la porta d’ingresso e mi guardò negli occhi. «Ti scoprirebbero subito, il tuo odore umano è percepibile a miglia di distanza. Sai non è un bene che io ti porti con me» bisbigliò per non farsi sentire da Ginevra. «Perché rovinerei la tua reputazione di mezzo-demone?» ribattei con disappunto. «Perché è in un posto per demoni che stiamo andando e i demoni mangiano le persone. E come se non bastasse ora porti dentro di te un angelo e quindi sarebbe ancora più pericoloso. Dormivi quando ti ho spiegato che effetti ha il sangue di angelo sui demoni?». «Quindi è per questo! Non vuoi che il tuo prezioso angelo ti sia portato via». Colt Devon si accigliò e dopo pochi attimi il suo sorriso si allargò come una mezza luna lucente e bianca. Fece una mezza risata sprezzante e infine disse: «Si, poetessa è anche per questo. Ma ancora di più non voglio incappare in casini che ci ritroveremmo a dover sistemare, non so se mi spiego» il suo sopracciglio ebbe un guizzo e la sua espressione beffeggiatrice non lasciava trapelare nessun particolare che potesse aiutarmi a capire veramente. «Cosa intendi dire?». «Intendo dire che sarebbe pressoché inopportuno attirare l’attenzione su di noi, quando sai benissimo che il tuo amato Sebastian ti cerca e ti vuole». Storsi il naso alla parola amato. Ma capii che Colt cercava di depistarmi per convincermi a mollare la presa. «Quindi cosa pensi di fare?». «Cosa penso di fare? Qualunque cosa io faccia è meglio che tu resti qui e ti assicuri che la tua sorellina non ficchi il naso in parti della casa che non le interesserebbe vedere». «Basterà dirle di rimanere in camera sua. E ad ogni modo non farei nulla di avventato. Non si accorgeranno neppure che esisto: te lo prometto!» assicurai decisa e scambiando il mio sguardo con il suo, sperai che potesse capire. Non ero certamente la principessa che lui credeva, non sarei rimasta a guardare e attendere che tornasse per darmi novità su mia madre. Anche se dopotutto Colt non aveva torto e sapevo bene che avventurarsi nel mondo di Colt Devon non mi avrebbe portato alcuna gioia. Ma era solamente una sensazione.


Il ragazzo tacque e rimase a fissarmi. Dalla sua espressione potevo capire che stava pensando alle mie parole e stava valutando sul da farsi. Ad un certo punto sollevò le spalle. «Infondo è una questione tua, giusto?» disse e io annuii. «Ma sappi solamente una cosa, non dovrai per nessuna ragione parlare con nessuno. Altrimenti addio bella chiacchierata e addio mamma. Chiaro?» mi puntò il dito. «Aspettami qui un attimo torno subito» e detto questo scomparve nuovamente nella stanza delle orchidee. La mezzanotte arrivò più velocemente di quanto pensassi. La luna, quella notte, risplendeva nel cielo nuvoloso e nero come fosse un faro che segnalava la presenza di scogli e di pericoli. Pericolo, già. Fino a un attimo prima mi ero messa in testa che sarebbe andato tutto bene, che Colt avrebbe parlato e si sarebbe risolta la questione. Ma nel momento esatto in cui giungemmo ad una vecchia fabbrica abbandonata, nella zona nord della città, le gambe iniziarono inevitabilmente a sbattere tra loro e udii quasi le mie deboli ossa scricchiolare. Pensai più che altro che fosse per i corti vestiti che Colt mi aveva procurato – ovvero un vestitino succinto e attillato in pelle scamosciata dalla tinta molto vivace e degli stivaletti bassi da motociclista – che non mi coprivano per niente, e senza dubbio, con la brutta stagione che sopraggiungeva, avrei preferito indossare qualcosa di più caldo e confortevole. Stirai la gonna che arrivava a metà coscia e Colt notando quel mio gesto inibito sogghignò. «Non preoccuparti poetessa, andrai benissimo» mi assicurò mentre serrava il freno a mano e spegneva il motore della sua auto. «Non pensavo che per “abiti da demone” mi avresti dato una cosa del genere. Invece che mascherare l’odore da umana mi da l’impressione che lo accentui maggiormente. Come dire: “Eccomi sono umana con un angelo dentro di me, ora mangiatemi!”» blaterai indispettita, ma il mio sarcasmo non fece altro che incentivare lo sguardo malizioso e arrogante del mezzo-demone. «Si, mi spiace, sono un cattivone. Effettivamente volevo godermi un po’ la serata». «Facendomi morire congelata? Strano gusto del divertimento Colt!». Gli occhi di Colt Devon mi scrutarono per pochi secondi con una strana espressione deliziata. «Che c’è?» chiesi interrompendo il silenzio. «Niente, andiamo». Uscimmo dalla macchina e percorremmo silenziosi un tratto di strada che dall’asfalto si riduceva a cumoli di detriti seminati qua e là. Oltrepassammo delle vecchie cabine


arrugginite, avendo costantemente la sensazione che qualcuno ci stesse osservando, ma Colt sembrava semplicemente non farci caso e andammo avanti. «Avanti dimmelo» esordii allora. «Cosa?». «Cos’era quella faccia di prima? Cosa ci attende dentro?» domandai ormai capendo che saremmo entrati nel grande edificio in fronte a noi, una palazzina in mattoni di inizio ‘900 dalle finestre sbarrate con delle assi di legno e con un’unica flebile luce che emanava deboli fasci di luce ad intermittenza. Un odore sgradevole si fece man mano più forte, come di carne bruciata e immondizia lasciata a marcire. Una puzza tremenda. Colt bussò due volte alla porta in legno sulla quale era stata intagliata una grande “X”. «Nulla di ché. Era la prima volta che qualcuno di umano usava il mio nome. E’ bizzarro». «Perché bizzarro? Non ti chiamano così in giro?». Un uomo aprì la porta. Involontariamente trattenni il respiro: il suo viso era sfigurato da una profonda e orrida cicatrice che gli deformava il volto, e gli occhi sfavillavano di una luce sinistra. Evitai di guardarlo in faccia. Il mezzo-demone gli rivolse uno sguardo freddo e distaccato. I suoi occhi brillarono di azzurro nella penombra. Non appena comprese la nostra natura ci fece passare e fummo dentro in men che non si dica. «Non al lavoro» terminò di dire Colt. Lasciammo in disparte quel discorso che presto si dissolse dai nostri pensieri come una nuvola di fumo. Ma per tutto il tempo che camminammo tra la folla, non smisi di pensare a come potesse essere la favolosa e misteriosa vita di Colt Devon. Così bello, famoso ed eterno, e nessuno che conoscesse veramente il suo nome. Niente amici, niente fidanzata, anche se avevo la forte impressione che a lui non gliene servisse una, visto che poteva portarsi a letto ogni donna che voleva con un solo sguardo. E niente famiglia. Che razza di persona avrebbe mai voluto vivere una vita simile? Entrammo in un grande spazio scarsamente illuminato da qualche neon qua e là, che creavano un’atmosfera nefasta dai colori del rosso e dei viola. Fu come essere catapultata in una realtà che neppure avevo mai sognato. La gente non era come ero solita a vederla tutti i giorni e la musica martellante di sottofondo sembrava rendere irreale la scena ai miei occhi. La parola “Demone”, ora, mi appariva più definita e ben coincisa. Capii cosa Colt aveva cercato di spiegarmi con il dire che la mia natura umana sarebbe stata immediatamente scoperta. Non ero certa di aver riflettuto a fondo quando decisi che avrei dovuto accompagnare Colt a parlare con Alan Greenwood. Non sapevo cosa mi aspettasse, non ne avevo la men che minima idea.


Eppure l’esperienza con Sebastian mi aveva segnata particolarmente, così da rivalutare tutta una serie di cose che credevo non esistessero. E i demoni erano una di quelle. Gli occhi mi caddero sulle figure esili e snelle di due ragazze. Quando le osservai in volto vidi che la loro pelle era iridescente e nelle loro iridi vi erano miscelati colori splendenti come l’azzurro e il viola, quasi vi fosse racchiusa all’interno l’aurora boreale. Mentre i loro capelli simili a fili argentati rispecchianti un cielo notturno sembravano non accusare della gravità terreste, svolazzavano in aria come fossero immersi nell’acqua. Più in là colsi i lineamenti animaleschi di un gruppetto di persone. Il volto era completamente ricoperto da una folta peluria rossiccia, gli occhi nerissimi e il corpo possente. Stavano strappando a morsi qualcosa di sanguinolento, ma a nessuno interessava particolarmente ciò che stavano facendo, ne tanto meno che il sangue stesse ricadendo in grosse gocce sulla moquette del pavimento. Per loro era tutto così stramaledettamente normale. Sussultai e ritornai a guardarmi in fronte da dove Colt, mi lanciava occhiate di rimprovero. «Diamine, smettila di fissare la gente!» mi afferrò la mano e mi trascinò oltre una massa di demoni accatastati contro il bancone del bar: un bar molto rudimentale costruito con assi di legno riciclate e dipinto da una mano di vernice che si stava già sbriciolando e cadendo. Giungemmo ad una porta dall’altra parte del salone e senza indugio due creature ci bloccarono la strada. Colt sollevò lo sguardo e improvvisamente sbiascicò delle parole in una lingua che non avevo mai sentito prima d’ora. Sicuramente non apparteneva a questo mondo. I due sembravano aver capito e un attimo dopo uno dei aprirono la porta lasciandoci passare. Oltre la soglia venimmo accolti da un’atmosfera ben diversa, l’aria era almeno più respirabile e le luci un po’ più luminose rispetto al tetro salone dal quale eravamo appena usciti. L’arredamento pareva più curato e ricercato. Le pareti erano state tinte di scuro, solamente quello che un tempo doveva essere stato il bocchettone dell’aria era stato risparmiato e ora giaceva inutilizzato e in parte arrugginito. Un lungo divano in pelle serpeggiava per la stanza e davanti vi erano stati posati dei tavolini in vetro. Ci misi un po’ ad accorgermi delle persone sedute in fondo. Una mano si alzò a mezz’aria in modo talmente plateale da sembrare falso e due donne dalla dubbia natura si sollevarono e uscirono dalla stanza. «Colt Devon» sibilò tranquillamente la voce dell’uomo che sedeva ancora con la mano sollevata. «Alan» le labbra del mezzo-demone si allungarono in un sorriso stiracchiato.


Cercai di focalizzare il volto di Alan Greenwood ma la luce alle sue spalle rendeva quasi impossibile capirne i lineamenti. Fu il corpo naturalmente umano che mi trasse in inganno. Aveva le mani di un uomo adulto, la corporatura magra e il modo di vestire non poteva che appartenere ad una persona sola. «Non pensavo saresti venuto» quella voce rievocava nella mia mente un ricordo sgradevole, come se già conoscessi di chi fosse. Una canzone smielata e malinconica. Quando l’uomo si piegò in avanti il suo viso mi apparve davanti agli occhi e fu terribilmente spaventoso. Il cuore mi balzò nel petto quasi fosse stato scaraventato a cento km/h da un’auto in corsa. Seduto d’innanzi a noi avevamo Sebastian in persona.


Capitolo 16

Non riuscii neppure a gridare e quando aprii le labbra per dire qualcosa, scoprii che in realtà non avevo niente da dire. Il mio cervello sembrava non elaborare alcun dato, era paralizzato e non aveva alcuna voglia di collaborare. Sebastian se ne stava in piedi ad osservarci. Quando poggiò gli occhi sulla mia espressione esterrefatta essi brillarono di una luce sinistra. «Colt» mugolai. Sollevai la mano e strinsi tra le dita la manica della sua camicia. «E’ solamente un incantesimo, non è reale. Ti fa vedere la persona che più detesti al mondo. In realtà lui è Alan Greenwood» mi bisbigliò da sopra la spalla. Corrucciai la fronte e scrutai meglio l’uomo senza capire. Un incantesimo? In tutto e per tutto assomigliava a Sebastian, aveva il suo stesso portamento, la sua stessa voce decisa e il suo elegante aspetto. Il dubbio mi attorcigliò lo stomaco e per un secondo mi chiesi se tutto ciò non fosse altro che uno scherzo. L’uomo scoppiò in una fragorosa risata. «La tua amica sembra aver visto un fantasma!» esclamò risedendosi tra i cuscini. In realtà non era stata una di quelle risate piene di soddisfazione. Vi era una punta di amarezza velata da una vena di sarcasmo. Era come se non fosse felice di vederci. «Perché non sarei dovuto presentarmi, Alan?» la voce arrogante di Colt riempì la stanza e Alan Greenwood gli lanciò un occhiata irritata. Se ciò fosse stato vero, che l’incantesimo di quell’uomo aveva il potere di mostrare una persona sgradita, chissà cosa vide Colt. Ma in quel momento la mia attenzione non era altro che rivolta al volto angelico, e allo stesso modo diabolico, di Sebastian che ad ogni sguardo mi faceva sobbalzare il cuore nel petto. «Dimmi meticcio, cosa vuoi?» domandò l’uomo con una smorfia. Il mezzo-demone rimase impassibile all’insulto che aveva appena ricevuto, mentre io fui sconcertata dal suo comportamento indelicato. Avevo un brutto presentimento. Colt, fin dalla prima volta che ci eravamo incontrati, lo avevo giudicato come un insopportabile prepotente incapace di accantonare un tale affronto. Il termine meticcio mi risuonò


nella mente antisonante e offensivo. E sicuramente Colt ebbe la stessa impressione. Ma non fece nulla che potesse compromettere l’incontro. Capii che non ci trovavamo al cospetto di un individuo qualunque. Colt Devon sogghignò. «Da che pulpito» fece tra sé, ma si ricompose subito dopo. «So che vedi cosa c’è dentro di lei. I tuoi occhi sarebbero in grado di scarnare l’anima se solo potessi esserne in grado». «Non credevo che le creature celestiali abbassassero ancora lo sguardo su noi mortali. Per quanto io veda, non mi è capitato spesso di ritrovarmi in fronte un Bozzolo». I suoi occhi lucenti mi studiarono partendo dal volto fino ai piedi. «Un bozzolo?» la voce mi uscì strozzata e oltraggiata. Colt mi trafisse con lo sguardo: mi aveva avvertita di non aprir bocca. Compresi più avanti che avrei fatto bene a seguire il suo consiglio. «Già, buffo come queste cose capitino ancora al giorno d’oggi. Vero Alan?» replicò Colt saccente. La sua mano scivolò sulle mie spalle fino a cingermi a sé. Greenwood rimase impassibile alla sua provocazione. Per quanto esso potesse assumere innumerevoli sembianze nulla nascondeva la sua vera personalità, come di un uomo che ne aveva viste tante nella vita. Pareva ai nostri occhi stanco e nervoso, seppur tranquillo. «E quindi sei qui per sapere come estrarre l’essere dal suo corpo? Divertente». «Per quanto questo sia ovvio, in realtà sono venuto a chiederti un’altra cosa. Stiamo cercando qualcuno». «Molta gente cerca qualcuno» ribatté l’uomo senza distogliere lo sguardo. «Un demone». «Un demone» Alan Greenwood non era per niente sorpreso della richiesta. La cosa più evidente di quella situazione era che l’uomo che ci trovavamo di fronte era abituato a quel tipo di pretese. Aveva a che fare con i demoni da sempre e, se ai miei occhi sembrava la cosa più incredibile di questo mondo, per loro era chiaramente normale. «Lo sai che non posso aprir bocca a tale proposito» disse Greenwood. «Ne sono certo. Dopotutto non dev’essere facile avere una tale reputazione. Un vescovo scomunicato e costretto sulla terra nel purgatorio tra inferno e paradiso. Condannato da Lucifero in persona. Poetico» il volto di Colt si accese di un’espressione derisoria. Non sapevo se stesse facendo la cosa giusta provocandolo, ma di certo stava girando fin troppo il dito nella piaga. Avevo paura che mandasse tutto all’aria per il suo orgoglio da mezzo-demone incallito. Lo venni a sapere solo in seguito, ma Alan Greenwood era sempre stata una figura contraddittoria. La sua fede era stata spezzata dall’amore incondizionato per una donna e sebbene proferisse la castità d’animo, e la sua posizione nella chiesa gli


impedisse di avere rapporti con il gentil sesso, egli aveva abbandonato la sua professione da vescovo in Sud America, in seguito alla scoperta di quella terrificante nuova realtà, e si era trasferito in Italia, dove ironicamente era divenuto un punto di riferimento per il conclave. Ma anche per le creature soprannaturali. Colt non aveva proferito il nome di Lucifero per niente. Sapeva bene che quell’incantesimo era stato scaturito dai poteri dell’Angelo Caduto. Alan Greenwood aveva spezzato la promessa fatta a Dio cadendo nei piaceri carnali, e Lucifero lo aveva punito: l’amore della sua vita non lo avrebbe visto se non con il viso della persona che più odiava sulla faccia della terra. Così come il resto del mondo. Poetico, come aveva detto Colt. Ma anche terribilmente triste. «Non quanto esser rifiutato dal cielo, mezzo-demone» rincarò Alan Greenwood. Sbuffai stanca di quel battibecco che mi avrebbe mandata solo in confusione. Se quell’uomo avesse potuto dirci veramente di più su Sebastian, pensai, lo avrebbe già fatto. Ero caduta nello sconforto più assoluto in pochi secondi e già percepivo un lieve mal di testa sopraggiungere come il tamburellare insistente di un picchio. Colt si irrigidì. «Ad ogni modo non potrò aiutarvi. La mia posizione mi obbliga ad essere neutrale e a non immischiarmi nei fatti altrui. Soprattutto in questo caso» Grenwood mi guardò nuovamente e capii che si stava riferendo a me con quell’ultima frase. I suoi occhi erano spossati e un po’ amareggiati, quasi mi stesse compatendo per tutta la sfortuna che mi era piombata addosso. Mi domandai fino a che punto potevano vedere le suoi iridi incantate. Una mano si sollevò a mezz’aria e l’uomo tacque. Le labbra di Colt Devon si piegarono in un sorriso sardonico e i suoi appuntiti canini si mostrarono senza ritegno. «Non credo che ci siamo capiti Greenwood» ringhiò ormai scocciato da quel gioco di ruoli durato tanto. Con le dita si grattò la poca peluria chiara che gli ricopriva le guance e il mento. «Tu ci dirai dov’è questo demone». «Dammi una buona ragione» Alan Greenwood sollevò le spalle non curante della minaccia e lo incalzò sorridendo anch’esso. Afferrò il bicchiere sul tavolino in cristallo al suo fianco e bevve. Allora Colt si sedette lasciandomi interdetta ed in piedi come un soldatino, puntando i freddi occhi color ghiaccio sul bizzarro individuo in fronte a sé. «Puoi tenerti i tuoi segreti prete. Io non vado cercando un demone qualsiasi. Ha aggredito una persona, e per persona intendo il senso umano del termine. Presumo sia di diritto ad un povero cristiano riprendersi ciò che gli appartiene».


«La vendetta non è contemplabile, Colt Devon. Tu più di qualunque altro dovresti saperlo» rispose arcigno l’uomo. «E chi ha mai parlato di vendetta?». I due si scrutarono silenziosi. Nello sguardo dell’ex vescovo si poteva leggere una leggera titubanza benché fosse un uomo totalmente fedele alle regole. Porsi esattamente nel mezzo tra l’inferno dei demoni e il paradiso degli angeli, questo era diventato il suo credo da anni. Il “Dono” di Lucifero gli aveva dato la strabiliante qualità di un San Pietro alle porte del mondo. Ad Alan Greenwood non sfuggiva mai niente, ne chi entrava nell’atmosfera terreste, ne chi ne usciva. Demone o angelo che fosse. «Un povero cristiano» sbuffò l’uomo come se il solo fatto di associare quell’appellativo al mezzo-demone fosse una cosa ridicola. «E tu mi stai domandando aiuto per una cosa che ti è stata tolta?». «Sbagli di nuovo, prete. Stiamo parlando di una vita» lo interruppe Colt seccato. «Una vita che appartiene a... chi?» chiese lentamente Alan mentre i miei occhi speranzosi si riunivano ai suoi, e sperai che l’uomo potesse guardare oltre alla semplice apparenza. Avevo assolutamente bisogno del suo aiuto. «Mi pare di averti già aiutato una volta a tal proposito, e ricordo che la questione fu più problematica di quanto tu avessi immaginato Colt Devon. O sbaglio?» con uno scatto ritornò sul ragazzo che ora sedeva con le mani strette a pugno in un’insolita calma. Colt non accennò a rispondere. Il pensiero che Greenwood avesse già avuto a che fare con lui per delle questioni personali, mi fece riflettere. Adesso era chiaro il perché i due sembravano già conoscersi. E afferrai il perché Colt dosava le parole più del solito. Compresi la magnificenza che arieggiava intorno all’uomo. Colt aveva dovuto contattare un suo sottoposto prima di giungere al suo cospetto. Era una figura importante e non a tutti veniva concesso una tale onore. Ciò nonostante al ragazzo dagli occhi azzurri come il ghiaccio era stata data una seconda chance, e questo mi faceva credere che ad Alan Greenwood importasse del mezzo-demone molto più di quanto faceva trapelare il suo duro carattere. O almeno così sembrava. Colt prese un bel respiro. Le sue mani si strinsero rabbiose. «Questa volta non è per me, Alan» digrignò i denti. «E’ per me!» mi intromisi esclamando, e all’instante fui pervasa da un senso di vergogna per non aver tenuto a freno la lingua. Colt portò una mano alla testa e scosse i riccioli sulla fronte scompigliandoli. «Che diamine, poetessa!» ruggì, zittendomi. «No» scattò il vescovo, puntando la mano per fermare Colt. «Voglio sentire cos’ha da dire». Nelle sue iridi uno zampillo di curiosità balzò evidente nel suo sguardo. Mi


fece rabbrividire. Non è facile aprire i propri sentimenti ad una persona che non si conosce, vi era solamente il cinquanta percento di probabilità che l’uomo capisse. Guardinga, cercai lo sguardo di Colt, ma non ottenni nulla. Solamente un gesto di imperturbabilità. Mi ero messa nel sacco da sola ed ora avrei fatto bene ad uscirne con le mie forze. Non ero stata nei piani che Colt Devon aveva stabilito. «Cerco un demone che ha rapito mia madre e ha minacciato la mia vita. Farei qualunque cosa» esordii seria ma timorosa allo stesso. «Gli umani dicono sempre così: farei qualunque cosa. Ma per lo più delle volte non sanno quello che dicono». «Io so solo che sono caduta da un grattacielo nel tentativo di fuggire e ora questa cosa è dentro di me!». «Quella cosa, ragazza, è un angelo. La creatura più pura che esista. E ti ha salvata come nessuno avrebbe mai potuto fare. Sei stata graziata dal cielo. Sii consapevole» mi ammonì Greenwood, alzandosi dal divanetto e avvicinandosi a me con estrema risolutezza. Le sue dita svolazzarono davanti al mio viso. Allungò la mano per toccare la mia pelle ma si fermò e di colpo tornò indietro. «Tua madre hai detto» mormorò. «E di grazia, chi è questo demone che tu temi tanto?». «E’ un Demon doloris» asserii con certezza Colt Devon citando l’antica lingua ecclesiastica: il latino. «Un demone dalla sofferenza» tradusse l’uomo. «E di quale dolore va cibandosi?». «Della frustrazione». Alan Greenwood staccò gli occhi dai nostri e rimase in silenzio a contemplare il ghiaccio sciogliersi nel bicchiere. «Non mi è parso di avvertire alcun potere demoniaco di questo tipo ultimamente» ci disse alla fine. Un fragore assordante interruppe ogni parola rimasta in sospesa. La grata che giaceva sul soffitto arrugginita venne sbalzata al suolo e si ruppe sparpagliando pezzi di metallo per tutta la sala. Osservai un brandello riflettere il mio volto sconcertato e un attimo dopo lasciai che la mia attenzione si posasse sulla esile ragazza che era piombata agile e flessuosa sotto i nostri sguardi. Seguì un silenzio assordante. L’espressione di Colt mutò, così come i suoi occhi persero ogni vivacità che li caratterizzava. La ragazza piegò la testa e sorrise. Le labbra scoprirono due canini affilati come lunghe spine, e se non fosse stato per il volto armonioso e senza tempo, avrei creduto si trattasse di un demonio. Gli occhi sgargianti di un blu intenso e iridescente, i capelli selvaggi e neri come piume lucenti di un corvo raccolti in una lunga coda di


cavallo. La pelle era talmente bianca e perfetta da ricordare quasi una bambola di porcellana. Vestiva di abiti in pelle nera che le conferivano un aspetto eccessivamente stravagante per i miei personali canoni umani. Ma lei non era certamente umana e non sembrava il tipo da preoccuparsi di ciò che pensava la gente. Con uno salto deciso fu in poco tempo addosso ad Alan Greenwood. Affondò i denti nella carne lacerando le fibre alla base del collo. L’uomo strinse i denti e l’afferrò per i capelli scaraventandola lontano. Colt le fu davanti con uno scatto e la bloccò al muro. «Ma che diavolo...» borbottò, ma immediatamente la ragazza si liberò giungendo faccia a faccia con la sotto scritta. «Ossequi, carissima. Sebastian ti sta aspettando» sentenziò, la voce simile al sibilo di un serpente velenoso. Un viso così bello per un demone così crudele. Mi guardò con un inquietante sorriso stampato sulle labbra, i suoi occhi mi ipnotizzarono e poco dopo si dileguò sgattaiolando dalla porta d’ingresso lasciandomi con lo sguardo nel vuoto. Il suo avvertimento aveva avuto lo stesso effetto di una puntura anestetizzante. Mi era entrato in circolo e la paura, in quel momento, mi stava divorando dall’indentro senza scampo. Colt si piegò su Alan Greenwood che giaceva a terra con il fiato mozzato e una mano sul collo sanguinante. Bisbigliò qualcosa. Aveva cercato di parlare ed era stato fermato. Ecco il perché di tanta riluttanza. «Andatevene!» mugugnò e dalla sua bocca fuoriuscì un liquido cremisi che cadde sulla sua camicia immacolata. Colt allora mi afferrò per un polso e mi costrinse a correre. I demoni fuori dalla porta ci avevano osservato curiosi e non avevano badato alla bella ragazza fuggita via un attimo prima. Tutti gli occhi erano rivolti in un solo punto: al sangue che trasbordava da Alan Greenwood. «Andatevene!» ripeté con più decisione l’uomo ormai sul punto di morire. Mi accasciai contro il petto di Colt Devon quando una mandria di demoni infervorati capitolarono nella sala occupandola totalmente da cima a fondo. Creature di ogni specie sciabordarono verso l’angolo in cui il prete stava ora dicendo le sue ultime preghiere e presto il boato spense anche le ultime grida di quell’uomo che, in un attimo di compassione nei miei confronti, aveva deciso di porgere la mano e aiutarmi. Una lacrima cadde leggera e veloce in un battito di ciglia e mi rigò la guancia come un segno lasciato sulla carta da una matita. Colt non aspettò altro tempo e mi trascinò oltre la soglia, sfruttando quello spiraglio che non si era ancora subissato dei corpi deformi dei demoni, e con un ultimo balzo arrivammo fuori da quel casino più velocemente di come eravamo entrati.


Affrettammo il passo verso il viale logoro e risalimmo in macchina. Ma esattamente in quell’istante venni brancata e stramazzai al suolo lontana dalla portiera dell’auto. La sera si era fatta più pungente e le nubi offuscavano il bagliore della luna, l’unico punto di luce che potevo sfruttare per capire cosa mi costringeva al suolo. Sentii un movimento viscido e scomposto ostruire il movimento delle braccia. Poi un suono gutturale simile a mille scarafaggi zampettanti. Ad un certo punto, la creatura venne scaraventata in aria e vidi Colt sopraggiungere e issarmi in piedi. Mi diede le chiavi dell’auto e disse: «Sali in macchina e non ti fermare». E senza replicare le afferrai e accesi il motore. Premetti il piede sull’acceleratore e sprizzai sulla strada fino a ritornare sulla via principale che collegava il centro cittadino con la periferia. Guardai per un secondo la sagoma in penombra del ragazzo dagli occhi di ghiaccio rimpicciolirsi man mano e fui travolta da un senso di nausea e di terrore. Se la sarebbe cavata? In quel momento pensai veramente che non avrei più rivisto Colt Devon. Lo spavento che avevo preso, non aveva più permesso alle lacrime di liberarsi, eppure percepivo una strana sensazione. Ero maledettamente preoccupata. Scossi la testa per liberarmi di quei pensieri e il mio sguardo si distrasse solo per un momento. Davanti alla corsa spericolata dell’auto comparve un ragazzo. Premetti il piede sul freno con quanta forza avevo in corpo ma la favolosa carrozzeria sportiva non si fermò in tempo e investii il ragazzo con un colpo. Le mani vacillavano e gli occhi ancora sgranati non smettevano di trasmettermi quell’orrenda visione. Scesi dalla macchina nel panico più assoluto e svoltai verso il corpo esanime sull’asfalto. «Cazzo. Ricordami di non farti mai più guidare la mia auto» grugnì una voce famigliare. Colt si rialzò sulle ginocchia e notai che il volto era segnato da dei graffi vivi che si stavano ancora rimarginando. «Oh, Santo Cielo!» esclamai accorrendo ad aiutarlo. «Lascia da parte il cielo e risali in macchina. Guido io» inveì risistemandosi il cappotto sgualcito e il colletto della camicia firmata. Se il tempo che avevamo trascorso insieme mi aveva fatto conoscere abbastanza Colt Devon, ero pronta a giurare che me l’avrebbe fatta ripagare quella dannata camicia. Ma dopotutto gli dovevo più di quello. Gli dovevo la vita, anche questa volta. Dopo qualche minuto passato nell’assoluto silenzio, l’automobile rosso rubino terminò la sua corsa nel garage dell’appartamento di Devon. Il suo respiro si era fatto irregolare, in corpo l’adrenalina stava allentando le sue tenaglie e il volto del ragazzo si distendeva in un’espressione più tranquilla. Le ferite tardavano a guarire. Lo guardai senza fiatare, quando vidi una scheggia di metallo conficcata della sua gamba. Sussultai e allungai la mano verso la ferita.


«Ecco perché, maledizione!» proferì e con un rapido movimento si strappò il pezzo e lo lanciò dal finestrino. «Il metallo limita i miei poteri» spiegò in seguito e io annuii. Come se la cosa fosse ovvia. Colt sollevò il mento e fui colta alla sprovvista. I nostri sguardi erano più vicini di quanto pensassi, invece i nostri fiati si scontravano a ritmi alternati in una danza seducente. Percorsi ogni millimetro del suo viso, soffermandomi sugli occhi accesi di un ardore celeste, sulla pelle splendidamente rosea e sulle labbra. Cavolo le labbra. La morbidezza scultorea di queste mi attraevano come un dipinto di cui volevo assaporarne ogni aspetto e particolare. L’imperturbabile scorrer del tempo sembrò non fare caso a noi due e tutt’intorno il mondo rallentò il suo proseguire inesorabile. Tenevo ancora la mano sulla sua gamba ed egli me lo fece notare con un sorriso ironico. Imbarazzata mi allontanai, aprii la portiera e uscii alla volta dell’ascensore. Colt Devon non mi avrebbe mai intrappolata nel suo incantesimo.


Capitolo 17

Santo cielo: cos’era stata quell’ultima emozione così ambigua? Era come se in un breve lasso di tempo mi fossi dimenticata di ciò che mi stava intorno. Davanti a me vi erano solamente due occhi, così belli e dannati da farmi oscillare. E quasi subito ebbi un dejàvou. Il silenzio che si era creato tra noi era stato così intenso e palpabile, denso e delicato come miele. Se avessi dovuto dar un senso e un colore a quella scena avrei scelto sicuramente l’azzurro come le iridi fulgidi del suo sguardo. Una tonalità tenue che cominciavo ad apprezzare. Se avessi dovuto descrivere con una canzone il momento, avrei scelto la melodia ondeggiante e lieve del suo respiro. Eppure in tutto questo una voce lontana mi diceva di non abituarmi a tanta meraviglia, e sapevo bene anche il perché. Avevo provato sulla pelle che di un demone non ci si poteva fidare, ed ora mi chiedevo fino a che punto avrei dovuto dar retta ad una persona boriosa come Colt Devon. Ma quel silenzio... Quel silenzio... aveva detto più cose di quanto delle parole pronunciate ad alta voce non potessero esprimere. Quando rientrammo all’appartamento, la luce della luna trapelava dalle ampie vetrate e un vento fresco trasportava nell’atmosfera un’aria profumata e frizzante. E inspiegabilmente anche odore di zolfo. Muovemmo qualche passo e immediatamente ci arrestammo ai piedi di un letto di petali. Gambi di fiori, vasi svuotati della loro terra e boccioli di orchidee, erano sparsi da ogni dove il mio sguardo si posasse. Il pavimento, le superfici dei mobili: tutto era ricoperto da puntini rosa e bianchi. Un clima lugubre e spezzato. Poi più in là Ginevra era appoggiata contro la vetrata con un’espressione sconvolta. Non muoveva un muscolo tanto che pareva una statua di cera. Ci avvicinammo e all’improvviso un’ombra si sollevò dall’elegante divano in jersey. Rimanemmo allibiti quando capimmo di chi si trattava.


«Ciao Colt» la ragazza dai lunghi capelli corvini piegò la testa e sorrise. Le labbra erano ancora macchiate del sangue di Alan Greenwood che qualche attimo prima aveva orribilmente trucidato e dato in pasto ai demoni. La sua presenza non prometteva nulla di buono e il solo fatto che, in qualche modo, fosse relazionata ai perversi desideri di Sebastian, mi incuteva una paura allucinante. «Catt» il ragazzo pronunciò quel nome alla stessa maniera in cui si saluta una persona che si conosce da sempre. «Non pensavo fossi uscita dal tuo buco all’Inferno». «Oh, Colt. Tu stesso vorresti andarci in quel buco. E comunque sono risalita in superficie per venirti a trovare. Un uccellino mi ha detto che mi sei venuto a cercare, per un lungo periodo. Poverino: non immaginavo che fossi in questo stato. E’ deprimete» stuzzicò con la lingua gli acuminati canini, mentre tra le mani trovava deliziosamente divertente strappare i petali ad una bellissima orchidea tigrata. Strinse il pugno e quando lo rilasciò, sul pavimento cadde una foglia marrone e risecchita. La sua indole graziosamente letale le permetteva di nuocere ad una vita senza il ben che minimo riguardo. Rabbrividii. Portai gli occhi su Ginevra che non dava segno di vita, al contrario, rimaneva fissa alla finestra con lo sguardo perso nel vuoto. Il petto le si gonfiava a ritmi lenti, e da lì compresi che stava bene, anche se a vederla non lo si poteva affermare con certezza. Mossi un piede nella sua direzione. «Orchidee, Colt. Le mie preferite. E le hai raggruppate tutte nella mia stanza. Con che grande premura. Che sciocco che sei» affermò. D’un tratto si volse verso di me e mi osservò ripugnante. Si allontanò dal divano imbandito di orchidee mezze sbrindellate e si portò proprio in fronte a Ginevra. Con un leggero tocco delle dita le accarezzò la guancia. Aveva delle mani affusolate e delle unghie lunghe e acuminate, simili ad artigli, dipinte con uno smalto scarlatto. «Non toccarla!» ringhiai. «Non ci hai ancora detto perché sei qui» notò Colt trattenendomi e portandomi alle sue spalle. Catt abbassò la mano. «Non è ovvio?». I due si scambiarono degli sguardi che non compresi. «Perché non ce lo dici tu?» chiese il mezzo-demone. Si tolse il cappotto sgualcito e lo appese. Si sistemò la camicia e arrotolò le maniche a metà braccio, infine si appoggiò con le mani allo schienale del divano. Tutto con estrema calma. La ragazza si lisciò le punte dei capelli e ostentò un altro dei suoi inquietanti sorrisi. «Il mio padrone vuole ciò che gli appartiene». Non domandai a chi si riferisse con quel termine. Era logico che si trattasse di Sebastian, ed ora il rapporto tra loro mi appariva più chiaro. Forse involontariamente,


o forse no, Catt si era scoperta. Lavorava per Sebastian e certamente lei sapeva dove si trovava il demone in quel momento. «Dimmi dov’è quel bastardo!» gridai senta frenare la rabbia. «Samanta» mi riprese Colt. «Se ha fatto del male a mia madre giuro che gliela farò pagare». Sentii il viso ribollire di un rancore mai provato prima e anche se visibilmente ero spaventata, non riuscivo a fermarmi. Mi slanciai in avanti e allungai il braccio per afferrarla. Ma inevitabilmente Colt mi bloccò, stringendomi a sé per calmare il mio bisogno di prenderla a pugni. Era stato come una furia che si impossessava di me. Scalciavo e urlavo, ma il ragazzo mi teneva salda al suo corpo, e mi intimava di finirla. «Che caratterino» sogghignò Catt camminando verso l’armadietto degli alcolici e prendendo una bottiglia dall’etichetta antica. «Un Brandy del ‘59. Posso?» fece, ma senza attendere una risposta si servì. Buttò giù il liquido in un sorso e schioccò le labbra. «Se è il dolore che vuole glielo darò, ma sarà lui a rimetterci» continuai imperterrita. La ragazza scoppiò in una risata amara. «Sembri sicura. Ma non giocherei troppo con il fuoco, se fossi in te. Prima o poi ci si scotta, dico bene?» ribatté arcigna. «Comunque sono qui per barattare». «E cosa?» Colt corrugò la fronte e le rivolse un’espressione accigliata. «Il mio padrone ha deciso che non è più la ragazza che vuole». La frase mi investì con inaspettato stupore. La speranza di una soluzione mi piombò tra le mani. Smisi di agitarmi e rimasi in ascolto. «Piuttosto, ha deciso, che vuole il sangue dell’angelo rinchiuso in essa» terminò, le labbra si sollevarono e i canini si scoprirono. Deglutii disorientata. Non aveva mai avuto la ben che minima idea di lasciarmi andare. Non riuscivo a concepire il perché di tanta ferocia nei miei riguardi. E mia madre? Che fine aveva fatto? «Ma come... Oh, ma certo. Hai ascoltato la conversazione con Greenwood. Fantastico!» comprese Colt nell’attimo in cui la sua mente tornò all’incontro con l’uomo. Non aveva mai citato di un angelo, ma di una creatura. Ma per lei non vi erano dubbi. «E’ stato in quell’istante...» mormorai attonita, ricordando gli occhi luminosi della ragazza e la terribile sensazione che avevo provato, come se mi stesse strappando l’anima. «Ma brava» batté le mani Catt. «E in cambio di cosa vorresti barattare?» domandò il ragazzo dagli occhi di ghiaccio. Gli lanciai un’occhiataccia. Non potevo credere che fosse disposto a trattare con una


assassina del genere, ma dopo tutto, mi dissi a me stessa, Colt Devon apparteneva ai demoni e non poteva essere coscienzioso come io speravo. Anche lui aveva un lato oscuro. «Di mia madre» intervenni, ma lei scosse il capo. «No, piccola illusa. La tua sorellina». «NO!» il mio gridò echeggiò disperatamente rimbalzando tra le mura di quell’appartamento maledetto. «Ti prego, ti prego. Non lei, non Ginevra». Mi prese un nodo alla gola. Avevo le lacrime agli occhi ma non volevo mostrare la mia debolezza. «Hai me non ti basta?». «Hai davvero così tanta premura di morire?» infierì la ragazza acidamente. Allora cercai di liberarmi dalla presa di Colt per saltarle addosso, con l’odio che mi palpitava nel petto come una cacofonia irruenta. Ma ancora egli mi strinse più forte. «Non sembra poi uno scambio così equo, non credi?» le fece presente il mezzodemone. «No, infatti. E’ per questo che ho anche una proposta per te, caro il mio Colt Devon». «Che diamine vai dicendo? Lo sai bene che tutti i punti sono a mio favore. Ho tra le mie mani l’angelo che mi farà diventare un demone completo. Cosa posso desiderare di più?» ribadì per l’ennesima volta, e dovetti soffocare la voglia infrenabile di schiacciarli un piede per ripicca. «E’ così che la pensi? Beh, sbagli caro il mio mezzo-demone. Non è il sangue di un bozzolo che ti farà diventare un demone completo. E conosci la procedura: per estrarre un angelo è necessario che il suo portatore prima muoia. Ma in questo modo i poteri dell’angelo perdono di valore e ritorna nel suo luogo d’origine». «Non capisco dove tu voglia arrivare». «Voglio dire che non diventerai mai un demone in questo modo. Ma potresti diventarlo comunque. Il mio padrone ti trasformerà e finalmente saremmo di nuovo insieme e con pari poteri. Ti basterà accertarti che l’umana mantenga la sua parola e si presenti al cospetto del mio padrone». Non potevo ascoltare un’altra parola. Con che diritto potevano barattare delle vite innocenti in quel modo? Chi erano per rivendicare il dolore di una famiglia già straziata dalle ingiustizie del mondo? Provavo una profonda tristezza e pena per Colt. I suoi occhi mi facevano capire che stava ascoltando e valutando quell’offerta, e lui non era il tipo da farsi scappare certe opportunità. Demone voleva diventare e demone sarebbe divenuto. Digrignai i denti e strinsi i pugni. Le braccia del ragazzo si allentarono solamente per poco, ma ormai avevo perso ogni volontà di lottare e non mi strappai al suo abbraccio. Anzi, le gambe tremavano talmente tanto che dovetti sfruttare il suo


appoggio per non cadere e rimanere quindi in piedi. E con mia grande sorpresa, Colt mi cinse a sé risparmiandomi l’umiliazione di farmi precipitare sul parquet della sala. «Presentatevi alla vecchia rimessa dei treni fuori città, domani notte. Almeno non saremo sotto occhi indiscreti, e solo allora ti darò l’antidoto per tua sorella». «L’antidoto?» sottolineai con sospetto e la ragazza mi volse un’occhiata indifferente. «Non ho intenzione di portarmi appresso un peso morto. E’ più divertente guardarla morire tra le tue braccia, mentre il veleno che le ho iniettato con la mia magia entra in circolo e si espande nelle sue vene, fino a ridurla un involucro raggrinzito e inerme. Faresti bene a pensarci su, cara» spiegò con tono sarcastico e compiaciuto. Il potere di quel demone, Catt, era spaventoso, e il suo metodo perverso quanto lo fosse stato quello di Sebastian nel tendermi una trappola. Ancora adesso potevo sentire un vago sentore di sangue e un sapore acre tra i denti. Era disgustoso. «E’ per quello che sembra in catalessi?» domandò Colt con un mezzo sorriso. «Esattamente. Fantastico vero? Riflettici su Colt: anche tu avresti tali poteri» e mentre lo diceva si mosse verso la finestra aperta dal quale provenivano getti di aria ghiacciata. Fuori il tempo era statico come in una fotografia. Anonima e grigia. La nebbia era scesa sulle strade e dall’altro dell’appartamento non si riusciva a vedere la base dei palazzi. Tutto era avvolto da una tetra atmosfera e da un cielo plumbeo dal quale la luna proiettava ombre mettendo così la città in penombra. Una nottata perfetta per quei dannati demoni, pensai. La ragazza si mosse rapidamente e saltò giù dalla balconata che dava sul giardino interno del condominio. Restammo a guardare la sua sagoma sparire nella coltre di nebbia e poi cademmo in un insopportabile silenzio. Mi lasciai andare e scivolai ai piedi di Ginevra in lacrime, con una rabbia repressa che avrei voluto sfogare spaccando ogni cosa mi passasse sotto mano. «Ma chi diavolo è quella stronza?» alzai la voce di colpo attirando immancabilmente l’attenzione di Colt. Era sciupato in volto, come se i troppi pensieri gli avessero tolto il sonno. Ma per lo più, immaginai che dovesse essersi snervato per la visita imprevedibile di Catt. Sembrava che la conoscesse bene e infatti poco dopo confermò la mia ipotesi. «Catt. E’ mia sorella» rispose spiazzandomi. «Tua... sorella? Ma è morta. Me lo hai detto proprio questo pomeriggio, ricordi?». «Ogni persona è morta nel momento in cui attraversa le porte del paradiso o dell’inferno. Lei ha scelto queste ultime, alla fine». «Ma lei è come te. Non capisco».


«Lei non è più come me!» sbraitò sdegnato e con una velocità esasperante, mi raggiunse e mi costrinse ad alzarmi. Le sue mani si chiusero attorno ai miei avambracci senza permettermi di sfuggire dal suo sguardo selvaggio e incontrollato. «Dal momento che ha rinunciato alla sua vera natura, è morta. E’ morta per sempre. Ed ora vengo a sapere che è pure al cospetto di un demone». «Non me ne devi fare una colpa delle scelte sbagliate di tua sorella!» risposi stizzita e con uno strattone mi liberai dalla sua presa. «E’ colpa sua e di nessun altro. Le vere vittime di tutta questa questione sono mia madre e mia sorella. E oltretutto, ora sta morendo sotto l’effetto di una ma...». Magia avrei voluto dire, ma pronunciare a voce quelle cinque lettere era troppo difficile ed inverosimile. Non riuscivo ad accettare la realtà dei fatti e soprattutto non riuscivo a capacitarmi dell’esistenza della... magia. Dire quella parola significava approvare quella verità. Ed io ero sempre stata una persona molto oggettiva. Ma dal momento in cui i miei occhi si posavano sulla mia sorellina, tutto ciò a cui pensavo di credere crollava nel medesimo istante. Era orrendamente frustrante. «Ed è qui che la questione si complica, perché non le rivedrai più. Te ne devi fare una ragione. E sei solo una stolta nel pensare che salverai qualcuno, se prima di tutto non riesci neppure a salvare te stessa» le sue parole mi avevano colpito come un pugno in faccia. Il dolore era quasi lo stesso, eppure il mio caratteraccio mi portò solamente a controbattere a quell’umiliazione. «Certo, perché è ovvio che ti assicurerai che io vada da Sebastian, perché tu sei solamente un mezzo-demone e io solamente un bozzolo. Ed è chiaro che non ti servo più, ma a te serve l’aiuto di un POTENTE demone per diventarlo tu stesso». «Perché non dici esplicitamente quello che pensi, Poetessa?». «Mi chiamo SAMANTA. E sì, te lo dico cosa penso, apri bene le orecchie. Sei uno stronzo e sei indubbiamente, e squallidamente, un egoista e un opportunista. Se solo avessi il fegato di salvare delle vite con i poteri che ti ritrovi, saresti molto di più di un demone da quattro soldi. Ecco cosa penso. Ma il tuo egocentrismo ti annebbia la vista, Colt Devon» ruggii con l’adrenalina che era salita alle stelle e mi stava dando alla testa. Colt serrò la mascella. Sembrò aver accusato il colpo. All’improvviso mi spinse e cademmo all’indietro sul divano. Il suo corpo sovrastava il mio e i suoi occhi erano fissi nei miei. «Vuoi che sia più altruista, eh?» bisbigliò con un’improvvisa voce bassa e carezzevole. «Non immagini neppure di cosa sono capace quando mi sento generoso». Il suo sguardo esprimeva malizia pura. Avvicinò le labbra alle mie e il cuore iniziò a battermi nel petto impazzito. Ebbi un brivido.


La mano scattò forte e decisa contro la sua guancia. L’eco dello schiaffo durò pochi secondi ma il suo suono rimbombava ancora nelle nostre orecchie. Il suo volto si contrasse e subito dopo rimase immobile a guardare il pavimento. Mi pentii immediatamente di quel gesto. Colpire una creatura demoniaca: cos’ero impazzita? Sorrise. Un sorriso contrito. Il suo orgoglio era appena stato scalfito e scaraventato via come oggetto inutilizzabile. Infine si sollevò e fece per andarsene. «Beh, guarda almeno il lato positivo: abbiamo in comune una sorella ingrata» ridacchiò, e un attimo dopo entrò in camera sbattendosi la porta alle spalle.


Capitolo 18

La mattina dopo giunse inevitabilmente come ogni dì. Tra i mille pensieri che mi affollavano la mente le parole di Colt riuscivano inspiegabilmente a ergersi su tutti gli altri. Ero arrabbiata con lui, ma riconoscevo che non aveva torto dicendo che non avrei mai salvato qualcuno se prima non avessi salvato me stessa. Come se per tutto questo tempo, le faccende domestiche, il lavoro, le bollette e quant’altro mi avessero portato a non pensare più a me stessa. Ponevo sempre al primo posto la mia famiglia. Ora mi rendevo conto con più concretezza che stavo vivendo una vita non mia, ma quella di mia madre e della mia sorellina. Ogni cosa che avevo fatto fin adesso era stato esclusivamente per loro. E ancora una volta il “Sii forte” di mio padre non poteva che ribadire il mio impegno e la mia perseveranza. Non avrei mai voluto deludere le sue aspettative, e quelle due parole suonavano come una promessa che avevo stipulato silenziosamente nell’ultimo istante di vita che gli rimaneva. Quanto avrei voluto che fosse lì a consigliarmi cosa fare ancora una volta. Il sospiro di Ginevra mi destò dai miei irruenti pensieri e sperai che quello fosse stato un buon segnale e che in realtà fosse in buona salute. Ma spensi il mio entusiasmo immediatamente vedendo che le sue palpebre calavano a poco a poco. «Mi spiace tanto Gine» mormorai, le lacrime ancora non ne volevano sapere di asciugarsi e sulle gote iniziavo ad avvertire un pizzicore. L’abbracciai e una goccia cadde sul suo viso. La guardai espandersi e brillare. «Ti voglio bene» bisbigliai alla fine. Quel giorno Colt Devon non si prese nemmeno la briga di uscire dalla sua camera. Udii solo qualche rumore come lo scrosciare dell’acqua nella doccia, il cigolio dell’armadio, oppure il suono del ghiaccio in un bicchiere (e io sapevo quanto gli piacesse bere un buon Martini quando era inquieto).


Fuori il tempo era terribile, rispecchiava quasi il mio umore nero e non dava segni di voler smettere. La pioggia scendeva incessantemente e il sole, nascosto dalle nubi, si perdeva in un cielo color fuliggine. Triste e spento. Mi sollevai dal divano sul quale mi ero inavvertitamente addormentata un paio di ore prima e decisi che avrei dovuto aver qualcosa da fare per smettere di pensare a Ginevra, almeno per un po’. La casa si trovava ancora in pessimo stato e i fiori che occupavano l’ambiente erano appassiti con il trascorrere della notte. Presi una scopa dall’armadietto in cucina e spazzai le foglie e la terra nella paletta. Raccolsi qualche gambo ancora verde, ma era inutile provare a salvarlo mettendolo in un vaso. La sua vita era stata segnata dal momento in cui era stato lasciato cadere per terra. Una metafora crudele che mi amareggiò ineluttabilmente. Dopo un po’ tra le mani mi giunge il vaso di un’orchidea ancora intatta. La guardai e anche quella mi parve una metafora: c’era ancora veramente speranza? Sollevai il viso e mi trovai di fronte ad un ritratto di Colt. Nella fotografia sembrava ancora più giovane e la pelle era luminosa e più bronzea del solito. Interpretava un marinaio, sul capo aveva un berretto con una spilla a forma di ancora e lo sguardo si protraeva all’orizzonte dove il mare si stagliava incontaminato. Al suo fianco una ragazza si stringeva a lui con gli occhi socchiusi e un’espressione assorta in volto: era Catt, la sorella di Colt. Osservai la sua chioma dorata, diversa da quella che le avevo visto il giorno precedente, che invece era scura come le tenebre. Sebbene noi due non avessimo avuto modo di parlare di lei, non ci misi molto a comprendere l’enorme legame che c’era tra loro. Colt non avrebbe mai riempito un’intera stanza del fiore preferito dalla sorella se non gliene avesse importato gran ché. E come io, in fondo, volevo bene a Ginevra, anche lui ne voleva a Catt. La porta della stanza del mezzo-demone di aprì alle mie spalle facendomi sussultare. Colt ne uscì vestito in maglietta e pantaloni di una tuta. Si sistemò i capelli chiari con una mano. Gli occhi erano assonnati tanto che immaginai avesse passato la notte in bianco. Mi sorprese a guardare la sua fotografia e per un istante rimase in silenzio a contemplarmi. Feci per appoggiare il vaso dell’orchidea che avevo tenuto fino a quel momento tra le mani, ma mi fermò. Lo prese e si diresse sul balcone. Con foga lo scagliò lontano nel cielo e oltre due isolati. Avevo già assistito alla sua forza sovrumana, ma pensai che si fosse accentuata grazie ai suoi poteri con i quali governava le correnti d’aria; e quella giornata ne era carica. «Non mi sono mai piaciute le orchidee. Decisamente le rose sono meglio» disse rientrando e chiudendo la portafinestra.


Quello che successe dopo mi stupì più di ogni altra cosa. Si avvicinò a Ginevra, e dopo averla studiata brevemente, la prese tra le braccia e la sollevò da terra. La portò nella camera della lavanda, dove già Ginevra aveva riposato e la adagiò delicatamente sul letto. Lo aiutai con le coperte e insieme la coprimmo con un morbido piumone sul quale si intrecciavano le linee sinuose e naturali di fiori e piante in splendidi disegni moderni e colorati. Infine rimanemmo uno al lato opposto del letto dell’altro. Poggiavo seduta al pavimento con la testa sulle coperte, mentre Colt era rimasto in piedi, ed entrambi osservavamo i lineamenti pallidi e sciupati di Ginevra che nel frattempo si era lasciata andare ad un sonno ristoratore, e temevo che non avrebbe mai più riaperto i suoi splendidi occhi verde acqua. Avevo la gola secca e inaridita quindi non lo ringraziai subito della cortesia. Ma poi trovai il coraggio e parlai. «Mi spiace per lo schiaffo» esordii spezzando quella contemplazione. «Hai fatto bene. Ma non prenderci troppo la mano» rispose e il suo sorriso si illuminò con un piccolo movimento all’insù dell’angolo della bocca. Accennai anche io un sorriso per ricambiare, ma subito tornammo seri. «Sai, non vedevo mia sorella da vent’anni». «Vent’anni? E’ tantissimo tempo. Ma scusa quanti anni hai?». In verità non era così ovvio. Probabilmente era colpa della natura demoniaca che non aveva ripercussioni sul tempo. Non aveva mai pensato a come ci si sentisse con una ruga fuori posto o impazzire per l’acne giovanile. Tutte cose che, invece, io avevo testato. «Circa cinquanta. Ma sulla terra ho il viso di un ventiduenne» disse e nella sua risposta percepii un’insolita nota di malinconia. «E come mai vent’anni? Cioè, non che voglia farmi i fatti tuoi, tua sorella mi sembra proprio una a cui non darei mai fiducia. Ma mi sembra un tempo veramente lungo. E poi ti capisco se non vuoi rispondere» balbettai e mi accorsi che stavo iniziando a divagare. Io e Colt non avevamo mai parlato così apertamente uno in fronte all’altro. Fece una smorfia. «La storia è triste e lunga, non sembri essere in vena per certe cose. Non adesso». «Già. Ma tu provaci lo stesso. Al massimo posso sempre fermarti». «Al massimo puoi sempre tirarmi uno schiaffo per farmi tacere» sogghignò ironico. Abbassai lo sguardo dispiaciuta. «D’accordo, stavo scherzando, non te la prendere. Per prima cosa devi sapere che Catt era un mezzo-demone esattamente come me. Stessi poteri, stesse qualità e stessi occhi». «Per qualità intendi quel modo sarcastico di approcciarsi alla gente? E’ terribile» commentai e fui splendidamente felice di averlo detto. Colt 1, Samanta 1.


«Divertente. In ogni caso, io e Catt eravamo inseparabili. Siamo nati gemelli allo stesso tempo e il nostro legame è sempre stato molto forte». «Ma lei è diversa da te. Per esempio prendi i capelli, sono neri». «Ricordati che non è più lei. Una volta aveva dei capelli dorati molto belli, ma la trasformazione li ha deteriorati e con il tempo si sono inscuriti. Si tende ad assomigliare al demone padre quando veniamo trasformati». Mentre Colt mi spiegava, mi tornò alla memoria i capelli corvini, lunghi e lucenti di Sebastian, la prima volta che lo incontrai in metropolitana. Oltre agli occhi luminosi erano la seconda cosa più ammirevole che avevo trovavo in lui. «Venne trasformata dal tuo demone vent’anni fa. Andai da Greenwood per chiedergli aiuto e insieme la cercammo, visto che lui poteva percepire gli spostamenti dei demoni, dei mezzi-demoni e qualche volta degli angeli. Ma non la trovammo mai e poi compresi il perché: avevamo sempre cercato un mezzo-demone, ma lei era diventata un demone completo. Mi spiazzò un po’ la cosa. Non pensavo che desiderasse diventarlo». «Ed è per questo?» domandai ingenuamente e gli occhi color ghiaccio di Colt Devon si posarono sui miei con un evidente punto interrogativo. «Cosa?». «E’ per questo che vuoi diventare un demone?». Il suo viso si rabbuiò come se avesse scoperto solo in quell’attimo il vero motivo della sua esistenza. Colt Devon era, in realtà, la persona più sola che io avessi mai conosciuto. E la perdita tragica della sorella lo aveva spinto a guardare oltre. «Forse. Ma lo faccio perché voglio diventare più forte. Agli occhi della gente non sono visto che come un meticcio, un bastardo. Ed ogni volta che uno di quegli sguardi mi scrutano provo...». «Cosa?». «Imbarazzo» lo disse come se si fosse tolto un peso che da anni aveva contribuito alla sua imperturbabile corazza e al suo egocentrismo. «Forse perché io non ti capisco, ma non mi sembri poi tanto diverso da me. A parte i super poteri, intendo» osservai. «Non è da te che devo essere diverso. Non sono nato umano». «E quindi cosa saresti per la precisione?». «Sono metà demone e metà...» ma si interruppe. Cosa c’era in lui che mi attraeva tanto da starlo ad ascoltare non riuscivo proprio a spiegarmelo, ma in un qualche modo, e tralasciando che da lì a poco sarei morta per mano sua, sentivo che eravamo più o meno simili.


«Metà angelo». La realtà della sua storia mi fece prendere il volo e mi sentii quasi come se le miei viscere avessero eseguito un salto mortale all’indietro, senza atterrare in piedi. Ora si spiegavano molte cose. In primis il viso angelicato e i capelli perennemente scompigliati color biondo cenere. E secondo, i suoi occhi nelle cui iridi era intrappolato un cielo sereno senza nuvole. «Ho il potere del vento perché sono per metà angelo, mentre ho questa forza rigenerativa per via della mia parte demoniaca. Ma sono molto limitato in entrambi i casi. Non vado in giro a spiattellarlo ai primi quattro demoni che mi capitano sotto braccio, se capisci cosa intendo» disse con un sorriso sprezzante. «No, però lo stai dicendo a me». «E’ vero. E faresti bene a portarti questo segreto nella tomba. Sempre che ci finirai in una tomba. Ma tralasciamo la pessima battuta di spirito». Era la prima volta che commetteva una gaffe del genere e cercava di rimediare senza offendermi. Apprezzai molto il suo sforzo. Risi e lui mi seguì a ruota. «Piuttosto parliamo di te. Perché ci tieni tanto a salvare tua madre a tua sorella?» chiese ed era assolutamente serio. Nessuna ironia, nessun sorrisetto ambiguo. «Penso già di averti detto il perché, ma non importa. Tu cosa faresti se sapessi che un tuo gesto potrebbe salvare le sorti delle persone che ami?». «Beh, penso che farei quel gesto suppongo. Sebbene io non conosca bene il significato di quella parola». «La parola amare?». «Si». Le gambe cominciarono a solleticarmi in quella posizione, così mi alzai. Con lenti passi mi portai davanti allo specchio che era attaccato alla parete al lato opposto del letto, dove si trovava anche Colt. Mi osservava in attesa di una risposta. «Amare significa condividere ogni giorno e ogni attimo con una persona in particolare, presumo. Significa che non si è mai stanchi di vivere per essa, il dolore talvolta diventa solamente la forza e la spinta per andare avanti. E quando si ama si farebbe qualunque cosa per essa. Ci si alza presto la mattina per poter portare a casa qualche soldo per mangiare, e poi si mangia insieme e ci si aspetta che tutto questo basti per essere felici. Per questo io morirei per chi amo» asserii e quelle parole mi uscirono dal cuore. Ma immediatamente Colt ebbe da ridire a tal proposito, e la sua risposta mi lasciò un segno indelebile e profondo. «No, Samanta. Tu vuoi trovare qualcosa per cui morire. Ma trovare qualcosa per cui vivere è meglio. Credimi» replicò con un sussurro. Colt mi fissò negli occhi quasi a voler penetrare la mia dura corazza forgiata negli anni dal dolore. Impercettibilmente cadde una lacrima. Piccola, fugace e salata.


«Come fai a dirlo? Come fai a dirmi una cosa del genere?» domandai sconvolta. «Certe cose le capisci dal momento in cui accetti che la tua vita sia cambiata. Che le abitudini a cui eri affezionato mutano un giorno con l’altro e se prima non ti importava nulla di nessuno, poi non è più così. E’ come aprire gli occhi per la prima volta e vedere un qualcosa di talmente stravolgente da farti capire che stai sbagliando tutto. E il tuo desiderio più grande non è più quello che stai rincorrendo, ma diventa un altro. E sai che è così. Punto e basta». Con estrema prudenza si era avvicinato e la sua voce mi era parsa più morbida. Aveva abbandonato totalmente il suo tono arrogante e quel sorriso che usava spesso per mascherare i suoi stati d’animo. «Stiamo ancora parlando di me?» mormorai. I nostri respiri si fecero improvvisamente più agitati, guardai il suo petto alzarsi a ritmi lenti e misurati. E irrimediabilmente i nostri sguardi caddero sulle nostre labbra. Le mie non smettevano di tremare travolte dagli spasmi del pianto. Quelle di Colt, invece, rimanevano composte e favolosamente rosee. Quanto avrei voluto trovare conforto in quella situazione. E sentivo che anche per lui era così. Due anime destinate ad essere dannate, ma anche dannatamente simili. Due cuori che non avevamo mai provato amore al di fuori della loro famiglia. Due persone divise a metà, che non avevano mai trovato la loro parte con il quale ricongiungersi. Io non sapevo se Colt Devon fosse ciò che aspettavo, ma ero consapevole di quello che mi serviva in quel momento. Ed era lui. «Penso che la cosa valga per entrambi. Ma io parlavo di come ci si sente a stare in mezzo, è come essere deboli. Io voglio essere forte. Per questo vorrei diventare un demone completo». E allora risposi: «Anche se questo vuol dire perdere te stesso? O perdere... qualcuno?». Colt mi guardò indifeso. I suoi occhi trasmettevano quella insicurezza che si portava dentro. Mi avvicinai ancora un po’, adagio, senza staccargli gli occhi di dosso. «No... non farlo» disse sbigottito. «Che cosa?». «Non compatirmi» mugugnò. E quando fui abbastanza vicina sentii le labbra ardere e Colt fremere. «Io non ti compatisco, Colt Devon». Il ragazzo dagli occhi di ghiaccio mi afferrò e con una mano sulla schiena mi strinse a sé. Quel toccò mi riscaldò come il bacio che mi diede subito dopo. Ricco di desiderio e di trepidazione. Non mi ero mai soffermata a pensare come potessero essere le labbra di un mezzo-demone. All’inizio non provavo nulla per lui e, anzi, la cosa mi disgustava un po’. Ma ora che mi trovavo lì, tra le sue forti braccia e quel calore soprannaturale donatogli dalla sua natura di angelo, mi sentii cullare come trasportata


dalle onde del mare. E il suo profumo inebriante diventò la mia quinta essenza preferita. Menta e salsedine. Già avevo avuto a che fare con queste sensazioni. Ed erano fantastiche, uniche e sensazionali. Colt mi prese il viso tra le mani e mi baciò ancora. E io baciai lui. Fin quando quella smania non si trasformò in qualcosa di più e lui mi sollevò e mi appoggiò sulla cassettiera in rovere. Avrei voluto che quel momento durasse di più, e che potessimo assaporarci a vicenda, e conoscerci meglio. Ma ancor prima che potessimo uscire dalla camera, Ginevra rinvenne con un tempismo esasperante.


Capitolo 19

«Ma che cavolo state facendo?» brontolò Ginevra. «Oh, mi Dio. Ginevra! OH, MIO DIO!» strepitai. Sicuramente non ci aspettavamo una sua miracolosa guarigione e ciò ci fece rimanere sbalorditi. Guardammo perplessi la ragazzina che si sollevava dalle coperte in modo stanco. «Come è possibile?» chiesi rivolgendomi a Colt che ancora teneva le mani sulle mie gambe. «Ci ha preso per il culo!» affermò spiazzato accennando un sorrisetto. Si riferiva a Catt, ovviamente. «Che... che fine ha fatto... c’era una tizia» gli occhi di Ginevra vagarono per la stanza atterriti. «Era... qui». Poi d’un tratto balzò nel letto e si afferrò la gola come se avesse smesso di respirare in quell’istante. «Mi ha fatto qualcosa. Ho visto una nuvola strana e mi ha investita. No!» annaspò con le mani nelle lenzuola. Potevo quasi udire il suo battito scuoterle il petto. Si agitò e pianse. Colt si allungò e la bloccò nel letto per calmarla, ma questo la fece ancor di più spaventare e inavvertitamente scalciò colpendolo in pieno petto. Il ragazzo traballò. Poi con un rapido movimento le affondò il palmo della mano sulla fronte e Ginevra ricadde tra le sue braccia svenuta. «Ma che fai?» sbraitai. «Era troppo agitata e...». «Non è questo il modo giusto per tranquillizzare una quindicenne in pieno attacco di panico» lo rimproverai spingendolo via e adagiando nuovamente il corpo addormentato di Ginevra nel letto. Le accarezzai la fronte sulla quale era rimasto un segno rosso. «Calmati un attimo e guarda» disse indicandomi un puntino sulla guancia pallida di lei. Un piccolo segno bianco era disegnato come un tatuaggio ed aveva la forma di una goccia. Passai le dita sopra di esso ma questo pareva essere tutt’uno con la pelle, e non appena lo sfiorai non successe nulla.


«Cos’è?» domandai impaurita. «Una lacrima. E’ stata questa a guarirla. Ma non durerà molto, il veleno di un demone è più potente di quanto si pensi». «Una lacrima? Com’è possibile?» e subito dopo ricordai quella mattina. Non avevo fatto altro che disperarmi di fronte alla paralisi di Ginevra, l’avevo abbracciata e le mie lacrime le avevano inumidito il viso inespressivo. Allora capii. «Hai dei poteri di angelo in te, adesso. Ricordi? Una tua lacrima ha potuto ristabilire momentaneamente la salute di tua sorella». «Quindi mi basterebbe...». «Aspetta, non saltare a conclusioni affrettate» mi interruppe Colt. «Se stai pensando di strizzarti fuori tutte le lacrime che riescono a produrre i tuoi bei occhietti, ti sbagli di grosso. La lacrima di un angelo è un dono magico, non succede sempre una cosa del genere» spiegò. Mi diedi della stupida da sola per averlo solo immaginato, e fu chiaro quanto poco ne sapessi sugli angeli. «Ma tu... Colt ti prego!». «Non sono un angelo. I mezzi demoni non piangono» proferì stizzito. Strinsi il morbido cotone delle coperte nei pugni. «Quindi è davvero l’unico modo? Devo andare da Sabastian» mormorai sempre più consapevole di ciò che mi aspettava. Colt, sebbene fosse d’accordo, non annuii ne mosse un muscolo. Ma poco dopo replicò: «Non baratterò la tua anima. E neanche tu dovresti farlo». «Ma cosa... Come puoi dire una cosa del genere?». «Non ti farò andare, Samanta». «Devo andare». «Potrebbe esserci un altro modo». «Non so se c’è un altro modo, Colt. Per ora questo è l’unico e devo stare alle sue regole. Voglio che questa storia finisca» mi mordicchiai il labbro. «E non hai paura?». Sollevai lo sguardo e vidi che i suoi occhi color ghiaccio mi scrutavano ora con più dolcezza. La sensazione di malinconia che provai, in quel momento, assomigliava ad una caduta nel vuoto. Mi sentii letteralmente precipitare, e per la prima volta in vita mia mi sentii apprezzata e ... amata. Questa volta per davvero. «Si. Ho terribilmente paura» gli risposi, crollando con il volto sulle coperte e sperai che il suo caldo tocco angelico potesse confortarmi. Ma quel gesto non arrivò mai. «Colt, non capisci? E’ la mia famiglia. La mia famiglia» mi sembrava di aver ripetuto troppe volte quella parola. «Non voglio perdere nessun altro». «Anche se questo vuol dire perdere te stessa?» sorrise ironico.


La sua domanda mi aveva indubbiamente sorpresa. Stava utilizzando le mie stesse parole contro di me. «Sei sleale» sospirai con disappunto. Il silenzio cadde tra noi. Potevo sentire gli occhi del mezzo-demone sfiorare ogni parte del mio corpo, e fu come ricevere una carezza al quale, però, non potevo cedervi. «Mi spiace Colt. Io andrò». Volsi il viso per guardarlo in faccia. La sua espressione era affranta. Era arrabbiato. Senza più aggiungere una parola mi sollevai da terra e uscii dalla stanza con in mente un solo posto dove andare: da Sebastian. Vidi Colt con la coda dell’occhio afferrare il vaso di fiori di lavanda e scagliarlo dall’altra parte della stanza. Questo si ruppe in mille pezzi. Infine mi guardò uscire senza dire niente. La mezzanotte era appena giunta. La vecchia dismessa dei treni, appena fuori Milano, si presentava come una massa informe di ferramenta, modellata dalle ombre in movimento di un salice piangente, le cui foglie si erano arrese all’inevitabile inverno. Chissà perché ai demoni piacevano simili luoghi? Guardai con sarcasmo alla luna piena che risplendeva nel cielo. Era sempre stata con me, quella maledetta, e ogni cosa che mi era successa, non era mai andata nel verso giusto. E come se non bastasse, mi trovavo in quel luogo inquietante per un buon motivo. La mia morte sarebbe arrivata prima ancora di quanto mi aspettassi. Camminai lungo le rotaie. Intorno a me una lieve nebbiolina si sollevava dal terreno. Avanzavo lentamente a passi moderati, quasi le mie gambe non ne volessero sapere di muoversi più rapidamente. Nella testa mi frullava ancora quell’espressione sconvolta che avevo visto sul volto di Colt. Non ero abituata a questo suo nuovo lato, e pensai, che non lo fosse nemmeno lui. Allora mi venne in mente la sensazione gradevole e gratificante che avevo percepito quando le nostre labbra si erano congiunte, il calore che emanava il suo corpo, l’inarrestabile impulso di sentire le nostre pelli sfiorarsi e toccarsi. Il suo respiro. I suoi occhi. Non riuscivo a smettere di pensare a tutto ciò. Mi poggiai con la schiena ad un vagone di un treno ormai arrugginito dal tempo, e ripresi fiato. Lasciai che quell’immagine strisciasse fuori dalla mia testa e mi focalizzai sul motivo per il quale ero venuta. Era terribilmente vanificante. Quanto avrei voluto passare più tempo con lui. Il mio cuore mi spingeva a tornare indietro e a trovare un’altra soluzione, ma la mia mente, più concretamente, mi costringeva a proseguire dritta per la mia strada. L’unica strada che potevo ormai percorrere. Presi una bella boccata d’aria e ritornai a seguire le rotaie che si dilungavano oltre una secca vegetazione.


Quando sorpassai una serie di alberi e arbusti, giunsi in una zona ancor più deserta e luminosa, dove le linee dei binari si intrecciavano fino al grande edificio in cemento e vetro di fronte a me, che una volta fungeva da deposito per i vagoni. Rimasi immobile ad ascoltare il vento che ululava tra i rami. Non riuscivo a scorgere nient’altro. Improvvisamente, però, udii uno schiocco ripetuto e non appena aguzzai la vista, notai un’ombra lontana camminare verso di me. Stava battendo le mani e ad ogni colpo il mio cuore strillava allarmato. La luce della luna gli scoprii il viso, ma non vi erano dubbi di chi si trattasse. Sebastian continuò la sua discesa, sulle labbra un sorriso carico di soddisfazione e entusiasmo. Non era nelle sembianze di demone, ma si presentava in un elegante completo gessato e con la camicia rossa aperta sul torace. Era esattamente come me lo ricordavo dall’ultima volta, solamente che gli occhi scintillavano di una luce più terrificante. Notai subito come le iridi cremisi riflettessero la mia sagoma. Non aveva altro per la testa. Smise di battere le mani e disse: «Sono semplicemente sorpreso, Samanta. Sei venuta veramente». Il tono della sua voce risuonò disgustosamente lusinghiero ma antisonante, come fosse amplificata nell’aria. Deglutii, ma non appena feci per parlare il suono mi si strozzò in gola. «Non puoi immaginare quanto io sia desolato per il nostro ultimo incontro. Avrei preferito che le nostre vite siano state ricongiunte molto prima. Ma il tempo ha cambiato le cose e ora c’è ben altro in gioco. Tu puoi capirmi vero?». No, che non capivo. Sebastian parlava come se gli appartenessi, come se il mio destino non potesse che divergere in un’unica direzione. Non ero sua. La mia vita e la mia famiglia non gli appartenevano, e questo mi fece divampare di rabbia. «Sebastian» esordii. «Sono qui, ora lascia in pace la mia famiglia. Libera mia madre». Mi stupii dell’ardore con il quale avevo detto quelle parole, ma a Sebastian non sembrò importare. Sul suo viso si aprì un largo sorriso, i denti aguzzi. Un ghigno agghiacciante. «Tua madre…» sibilò ad occhi spalancati. «Non ha nemmeno lottato. La disperazione che la imprigionava si è accesa delle fiamme dell’inferno ancora prima di quanto credessi. Non ha pensato a nessuno che a sé stessa. Voleva smettere di soffrire, Samanta. Voleva smettere di pensare e il suo fragile cuoricino si è raggrinzito implorandomi di aiutarla. Quale occasione migliore? Chi oltre a me poteva darle quello che voleva? Abbiamo semplicemente fatto un piccolo scambio: le ho strappato il dolore cosicché lei non ne sentisse più l’inesorabile peso. E’ stato uno scambio equo» le sue braccia si sollevarono a mezz’aria in un gesto di sufficienza. La sua risata rimbombò come il gracchiare acuto di un corvo.


«Cosa?» la voce stavolta non uscì come avevo creduto succedesse. Avevo perso ogni traccia di coraggio. Non riuscivo a capire: dov’era mia madre? «Ella non soffre più. La sua essenza vive dentro me, ora» rispose al mio sguardo perplesso. Le mie labbra si mossero lente incapaci di connettersi con la voce. Non uscì alcun suono da esse ma, in quell’attimo, mimai due parole che mi lasciarono senza fiato. E’… Morta. Ebbi l’impressione di venire schiacciata da una forza invisibile e di essere investita da uno schiaffo talmente potente da stramazzare al suolo. Ma ero ancora in piedi e tutto stava succedendo dentro la mia testa. La prima cosa che udii fu un eco che già conoscevo come di un qualcosa che si stava rompendo nel profondo incavo del petto. Ancora quel terribile sentimento di agonia e frustrazione. Però c’era qualcosa che non quadrava. «Non ti credo» mormorai. Avevo la gola secca le labbra che mi tremavano. «Come?». «Ho detto che non ti credo!» asserii con più decisione. Il sorriso sardonico di Sebastian scomparve e i suoi occhi demoniaci mi scrutarono incuriositi. Piegò la testa con uno scatto. Raccolte la terra nel pugno e rialzandosi la lasciò cadere. Mille granelli di sabbia si sparsero trasportati da una corrente ascensionale. D’un tratto tutto tremò. Le rotaie si spaccarono e di fusero ritirandosi, le pietre si sbriciolarono come cenere sul fuoco e le piante caddero in un baratro che si aprì in quell’istante. Dalla spaccatura proveniva un’accecante luce. Parai una mano in fronte agli occhi ma non smisi di guardare. Lamenti come echi striscianti e disperati si innalzarono nel cielo diffondendosi nella notte. Tutto si era colorato del colore del sangue, o meglio… delle fiamme dell’inferno. Mi sporsi solo per un attimo e vidi ai miei piedi un tunnel che si apriva verso una natura arida e bollente. La lava scorreva come fiumi e la terra nera era attraversata da migliaia di creature che non avevo mai visto: demoni. Non potevo crederci. Lì a pochi passi da me si apriva la via per l’inferno. Sebastian ritornò su di me. «Ho avuto pietà di tua madre. Sebbene la sua anima fosse incredibilmente interessante, ho deciso solamente di cibarmi del suo dolore» disse. «Lei… lei si trova laggiù?» i miei occhi si trascinarono sulle pareti rocciose osservando quel panorama quasi surreale. «Ho dovuto mandarla da qualche parte» tagliò corto lui. «Lei si trova LAGGIU’?» gridai sconvolta e le gambe, ormai indebolite da quel duro colpo, si lasciarono andare e precipitai al suolo. Scoppiai a piangere. Gli occhi cocenti di quel supplizio, il respiro affannato e scosso da singhiozzi inarrestabili.


Riaprii gli occhi e la mia attenzione fu catturata da una figura in fondo al tunnel. Era in piedi e tendeva la mano verso l’alto. I suoi capelli ramati volteggiavano dell’incandescente atmosfera infernale e i suoi occhi ormai cupi mi lanciavano segni di supplica. «Mamma» sospirai allungandomi sul dirupo. Rimasi in quella posizione per un tempo che mi parve infinito. Tutta la sofferenza, i rimpianti e l’amarezza che avevano forgiato la mia armatura non potevano essere paragonati a ciò che stavo provando ora. Un folle desiderio di ricongiungermi con mia madre si fece largo dentro il mio cuore ma, non appena presi la spinta e mi lasciai andare, qualcosa mi bloccò. Alzai il viso e mi ritrovai faccia a faccia con Colt Devon. Era ancora vestito della stessa tuta che gli avevo visto qualche ora prima. La sua fronte era perlata di sudore, come se avesse corso per degli isolati interi, e i suoi occhi azzurri rispecchiavano magnificamente la luminescenza della luna stessa. Posai lo sguardo sulle sue dita che mi stringevano la spalla impedendomi di fare la cosa che più desideravo in quel momento: morire.


Capitolo 20

Colt mi guardò. Sembrava che il suo sguardo mi mandasse dei segnali per farmi ragionare. Sollevò la mano e con una carezza mi asciugò le lacrime. Quel tocco mi rigenerò e mi diede straordinariamente la forza per riprendere lucidità. Aveva detto che non sarebbe mai venuto, dunque, cosa ci faceva lì? Toccai il petto del mezzo-demone e le mie dita trovarono un caldo conforto. Fui sollevata nel constatare che non era frutto della mia immaginazione. Mi aiutò a rimettermi in piedi e mi sorresse per quel tanto che bastava a ritrovare l’equilibrio e il controllo di me stessa. «Per lei è troppo tardi, Samanta. Però potremmo sicuramente trovare un accordo per la tua piccola sorellina, non credi?» fece Sebastian riportandomi alla realtà. Io e Colt lanciammo un’occhiata al di là del cerchio infernale e notammo la presenza di Catt che sopraggiungeva nell’ombra, portandosi infine al fianco del suo padrone. Vestiva ancora di abiti in pelle che le aderivano sulle cosce e sulla vita. I capelli stavolta erano sciolti e le ricadevano scompigliati sulle spalle. «La sua vita in cambio dell’angelo» concluse il demone. Improvvisamente, nel mio corpo, il sangue ribollì furioso. Iniziai a tremare di una rabbia incontrollabile. Bugiardo! Pensavo. Come poteva prendersi gioco così di una persona? Sapeva bene che l’angelo che portavo dentro era legato a me. Maledetto bugiardo e assassino. Mi aveva presa in giro per tutto questo tempo, fin dal primo nostro incontro. Chi era lui per farmi questo? Nessuno. La risposta balzò nella mia testa convincendomi che avrei fatto bene ad agire. Non avevo più nulla da perdere. «Non hai nessun diritto di chiedermi una cosa del genere. Sei uno sporco bugiardo, avevi promesso che mia madre si sarebbe salvata se io fossi venuta. E invece è morta!» gli gridai ancora in lacrime, i pugni sollevati e scossi da tremiti.


«Promesso? Io non faccio mai promesse che non possa mantenere» sorrise. Ripensai a cosa mi aveva detto Colt quando mi parlò dei demoni. Sebastian avrebbe dovuto perire se non avesse mantenuto la parola data, ma lui non aveva mai promesso nulla. Che stupida ero stata. «Non meriti nulla da me». «Ma così Ginevra morirà» pronunciò il nome di mia sorella con una lentezza esasperante, gustandosi la mia espressione attonita. Allora fece un cenno del capo e Catt scomparve nella nebbia, agile come un gatto, oltre le fronde degli alberi. Colt mi rivolse uno sguardo fugace. «Non fare nulla di cui potresti pentirti» mi sussurrò stringendomi un braccio. Le sue labbra fremevano, avrei voluto che mi baciasse, ma non lo fece. Corse via incontro a Catt ancor prima che potessi dirgli addio. Guardai le due sagome allontanarsi ad una velocità inverosimile e tuffarsi nel cielo nero della notte. «Un mezzo-demone non potrà mai battere una mia creatura, piccola illusa. Ti ho dato un’opportunità e tu non l’hai accolta, così mi costringi ad agire. Sei la prima umana che non fa quello che gli dico. E’ pressoché... irritante» la pelle perlacea di Sebastian si crepò di tante linee violacee e sinuose. Avevo già visto quelle vene serpeggiargli sul viso poco prima che diventasse una bestia. Eppure il mio pensiero non andò a lui, ma ben sì a Colt e pensai a quanto fosse resistente e a come se l’era cavata l’ultima volta nel momento del bisogno. A come mi aveva salvata, per l’ennesima volta. Avevo fiducia in lui. Sapevo che avrebbe fatto di tutto per salvare Ginevra e fermare la sorella Catt. «Non hai mai avuto l’intenzione di mantenere i patti. Dovresti marcire all’inferno!» tremavo impaurita, ma lo sguardo era fermo sui lineamenti dell’uomo che lentamente si stava trasformando. Vidi due grandi corna spuntare e la pelle squamarsi e diventare rossa. La sua statura crebbe a dismisura diventando più alto e grosso di quel che ricordavo. «La luna è alta nel cielo, insulsa umana. Avrò quel che voglio e te lo strapperò come la vita che ho rubato dalla tua debole madre. I miei poteri si incrementeranno e presto diventerò ciò che Lucifero in persona non è mai riuscito a diventare: l’incubo di Dio!» la voce profonda e grave mi giunse all’orecchio allo stesso modo di una sentenza di morte. Il suo volto si deformò assumendo una forma animalesca e mostruosamente raccapricciante, con gli occhi che pulsavano di un’energia plasmata dalle tenebre. «Sei solamente un mostro e spero che Dio ti fulmini per tutto il male che hai provocato a della povera gente innocente!» gridai con foga.


Poi Sebastian si mosse talmente veloce che non lo vidi neppure arrivare. Lo spostamento d’aria mi colpì lanciandomi indietro di qualche metro. Ricaddi sul legno sgretolato delle rotaie e una fitta alla schiena mi attraversò come una scossa elettrica. Piansi dal dolore ma cercai lo stesso di rialzarmi. Con lo sguardo cercai Sebastian, potevo avvertire la sua presenza vicino a me, ma avevo la vista offuscata, i capelli appiccicati alle guance fradice e ai lati degli occhi non vedevo altro che ombre. Inevitabilmente lui mi fu subito addosso. Sollevò la mano e la scagliò verso di me. Mi spostai immediatamente rotolando su me stessa. Ero più che sorpresa di scoprire quanto in verità avevo voglia di vivere, ma sapevo che non avevo nessuna possibilità contro un demone. Consapevole di ciò mi buttai lo stesso addosso a Sebastian con tutto il corpo. Esso traballò ma fu inutile. Mi afferrò alla gola e posò i suoi occhi color pece sul mio viso pallido e terrificato. Non volevo morire. Desiderai così forte di avere una seconda possibilità. Dentro me vi era un’incomprensibile smania di continuare a lottare, di non arrendermi e di tentare, per lo meno, un’ultima disperata impresa per salvare l’anima di mia madre. Non me lo sarei mai perdonato, lei non meritava di stare all’inferno. Scalciai colpendolo più e più volte, ma il demone non mosse un passo. Con le mani afferrai le sue possenti braccia e cercai di fare leva. Le forze mi stavano abbandonando poco a poco. Come se il cielo mi avesse ascoltato, Sebastian mollò inaspettatamente la presa con un gemito e io scivolai a terra. Sbattei le ginocchia sul terreno freddo e roccioso. Digrignai i denti costringendo il mio corpo a muoversi. Sii forte. In lontananza un urlo squarciò quell’attimo di pausa e la mia mente volò a Colt che stava lottando contro Catt. Chissà se ce l’avrebbe fatta? Sebastian rincarò la dose. I suoi artigli si serrarono attorno alla mia caviglia. Lanciai un urlo di panico e immediatamente mi partì un calcio. La sua mano scivolò via e io potei finalmente sgattaiolare lontano. Corsi con quanto fiato avevo in corpo. Sapevo bene dove dovevo andare e non appena fui ai margini del dirupo saltai. Udii un grido e con un’ultima occhiata vidi Sebastian protendersi in avanti per riprendermi, ma ero ormai già lontana dalle sue grinfie. Precipitavo con grande velocità verso l’infermo e non appena vidi mia madre ancora con la mano sollevata, feci lo stesso e tesi il braccio nella sua direzione. L’atmosfera infuocata e l’odore di zolfo si fecero più insopportabili man mano che mi avvicinavo a lei, la vista si oscurò completamente. Mi riparai con l’avambraccio ma il calore fu tale da farmi perdere i sensi un secondo dopo. Precipitai senza poter fare nulla.


Quello che accadde in seguito non capii mai se fu frutto della mia immaginazione o meno. Riaprii gli occhi e mi scoprii in piedi in un giardino sconfinato che si espandeva in tutte le direzioni. I fiori bianchi modellavano le colline che disegnavano delle curve come le onde di un oceano, e il profumo che si sentiva nell’aria fresca era il più buono che avessi mai provato, simile all’unione di tante fragranze. Riuscii a riconoscere l’odore del muschio e della terra, poi quello pungente della pioggia e l’aria carica di sale tipico delle località marittime. Annusai l’aroma delle spezie orientali, il gelido sapore invernale della neve e il calore della sabbia del deserto. Essenze provenienti da tutto il mondo che mi trasportarono dolcemente e mi cullarono. Se dovevo essere morta, sicuramente quello era il paradiso, mi dissi. Non avevo mai visto prima d’ora un posto così meraviglioso. L’energia della luce mi accarezzava con la sua mano gentile e mi sentii pienamente appagata e sicura di me. D’un tratto un fascio dorato brillò nel cielo e ricadde al suolo. Tante piume di un colore candido e scintillante si librarono nell’aria sfiorandomi su tutto il corpo. Il dolore alla schiena era sparito senza che me ne accorgessi. Mi volsi intorno e il mio sguardo si posò su due individui pochi passi più in là. Riconobbi subito i lineamenti duri di Alan Greenwood che straordinariamente apparivano più addolciti e armoniosi. Alle sue spalle si ergevano imponenti due enormi ali bianche dalle striature dorate che lo avvolgevano sulle spalle fino ai piedi. L’uomo sorrise quando i nostri sguardi si incrociarono. Ero strabiliata di trovarmelo di fronte, ero sicura fosse morto. Quell’idea fu subito spazzata via quando compresi che effettivamente non apparteneva più al nostro mondo. Non era più umano. Adesso era un angelo. Fu, invece, più traumatico quando passai da Alan alla seconda persona. Non lo riconobbi subito. Anch’esso pareva più in forma, sereno, avvolto in una luce dorata. Osservai le sue ali che mi sfiorarono invitandomi ad avvicinarmi di più a loro. Le toccai e la loro morbidezza mi solleticarono la pelle. Era una bella sensazione. Gli occhi dell’uomo si illuminarono lieti di quel gesto. Allungò la mano e io l’accolsi stringendola. Una lacrima percorse il mio viso senza che potessi fermarla e solo dopo riconobbi l’uomo in tutta la sua magnificenza. Era mio padre. I suoi capelli castani e folti, il suo volto cordiale e il suo sorriso così famigliare. Mi accolse tra le braccia e io mi rannicchiai contro il suo petto. Non ci eravamo mai separati veramente, ora lo sapevo. Il suo ricordo era sempre vissuto dentro di me come una nuvola sfuggente ma tangibile allo stesso tempo, e le volte in cui affiorava nella mia mente, lui era più vicino di quanto pensassi. Forse anche troppo vicino, ma io ero stata troppo cieca per accorgermene. Non servivano parole per spiegare ciò che


era successo dal momento in cui ero precipitata giù dall’attico in quella sera maledetta, sfuggendo alla fame demoniaca di Sebastian. Quella luce, quel candore e la sensazione che avevo percepito. Era lui, mio padre. L’angelo che portavo dentro di me era mio padre. Colui che aveva vegliato su di me per tutto questo tempo. Colui che aveva guarito con una lacrima Ginevra. E colui che ora si mostrava ai miei occhi. Papà. Lui mi guardò e mi accarezzò la guancia. Poi si strappò una piuma e me la porse. L’accolsi con il palmo aperto. La sua consistenza era vellutata come un fazzoletto di seta e apparentemente non sembrava risentire della gravità. Levitava nella mia mano emanando una bellezza indescrivibile. Chiusi le dita e la piuma scomparve. Quando le riaprii, al suo posto vi erano delle linee dorate e luminescenti che si intersecavano sul palmo della mano come i segni di un tatuaggio, ma non avevo percepito alcun dolore, anzi, mi sentivo più forte di prima. Sono fiero di te Samanta, ora non dovrai più preoccuparti di nulla. Udii quella frase nella mia testa poiché esso non aveva aperto bocca. Sapevo, in un qualche modo, che non mi stava mentendo. Il Sii forte a cui ero abituata da tempo era stato sostituito da quest’ultima bellissima frase. E mi sentivo così felice. Poco dopo si alzò un vento impetuoso che scosse i petali dei fiori del giardino e le piume tutt’intorno ritornarono da dove erano venute: nel cielo abbagliante. Guardai un’ultima volta il volto dei due uomini sorridermi e posai gli occhi sulla mano destra sulla quale vi era stato impresso il ricordo irremovibile di un incontro che avrei rimembrato per sempre. O almeno, nel mio inconscio. I miei capelli furono scossi dalle correnti d’aria e mi ricaddero sulla faccia, coprendo la vista. Quando alzai lo sguardo essi non c’erano più. Piuttosto trovai un’altra persona. Lo riconobbi: era l’uomo che avevo incontrato all’inizio di quegli strani eventi che mi avevano portato fin qui. Il fantasma che aveva cercato di mettermi in guardia da quell’orribile demone. Sorrideva anch’esso. Reggeva un biglietto e sopra vi erano scritte delle parole. Una calligrafia maschile e disordinata che già avevo visto. Vi era scritto: “Grazie mille... Samanta” e allora capii. «E di che cosa?» mormorai. La luce si fece più accecante fin quando non fui completamente sbalzata fuori da quella realtà straordinaria e non vidi altro che bianco intorno a me. Il profumo celestiale si dissolse e sotto i piedi sentii mancarmi il terreno. Il cuore ricominciò a battere tutto d’un colpo. La mia gola accolse un’abbondante boccata d’aria. E miei occhi si schiusero su un nuovo mondo.


Epilogo

La prima cosa che vidi al mio risveglio furono le foglie di un albero in controluce. Poi i fasci del sole che penetravano tra i rami e per ultimo una figura in piedi su un masso. Colt Devon si volse all’istante avvertendo il mio respiro e mi osservò con un’espressione indecifrabile sul volto. Lasciai che i suoi occhi azzurri mi avvolgessero e mi studiassero premurosi. Gioii nel vedere il suo solito sorrisino riaffiorargli sulle labbra, coscienzioso del fatto che fossi rinvenuta e stavo bene. Mi sollevai seduta. Guardai la natura che ci circondava e che sormontava interamente l’edificio della vecchia rimessa dei treni. Rimasi per un attimo sbigottita da quella scena. Il cielo risplendeva dei colori tenui del mattino, una serie di striature color pastello tra il violetto, l’azzurro e un arancione fulgido. L’erba era cresciuta facendosi largo tra le macerie. Il vento risuonava melodioso e leggero trasportando nell’aria un profumo primaverile, seppure ci trovassimo alle porte dell’inverno. Tutto era cambiato. Dove un momento prima era stato aperto il varco per l’inferno, ora, si stagliava un giardino rigoglioso con innumerevoli margherite che tinteggiavano vivacemente la zona di puntini bianchi e gialli. Era splendido. «Sei dura da far fuori, poetessa» ridacchiò Colt piegandosi verso di me. Mi allungò un fiore e ne studiai i petali, assaporandone il profumo inebriante. Ero viva e non riuscivo a spiegarmelo. Subito mi tornò in mente quello che era successo e mi agitai. «Cos’è successo? Dov’è Sebastian? Mia madre? Cosa...». Avevo un’emicrania terribile, il corpo indolenzito. Smisi di parlare. Portai una mano alla tempia. «Ehi, tranquilla» mi rassicurò Colt poggiandomi le mani sulle spalle. «E’ tutto finito, ok?». «Cos’è successo Colt?» chiesi confusa.


«Ce l’abbiamo fatta. Sebastian è stato rispedito da dove è venuto e penso proprio che non tornerà tanto facilmente. Catt se ne è andata. Siete salve ora, tu e Ginevra. Lei sta riposando a casa mia, andremo a trovarla più tardi, quando ti sarai un po’ ristabilita». Ginevra era dunque salva. Avevo talmente tanti pensieri in testa che non riuscivo a metabolizzarne nessuno. Ma poi ripensai al mio tuffo nel baratro e al calore soffocante che mi aveva fatto chiudere gli occhi. «Mi sono lanciata dentro al...» borbottai con la bocca secca. «Volevo salvare mia madre. L’ho raggiunta, sono sicura. L’ho toccata per un istante ma sono svenuta subito dopo» sollevai la mano e la strinsi in un pugno. Colt corrugò la fronte. «Sei caduta dentro al portale?» domandò accigliato e io annuii. «Non so cosa è accaduto. So solo che mi sono risvegliata un attimo fa qui con te. Ma non capisco, tu cosa hai fatto?». Osservai le ferite sulle sue guance che non si erano ancora rimarginate. Il veleno di Catt contro la quale aveva combattuto doveva avergli fatto veramente male. Ma tutto sommato sembrava passarsela benone. «Dopo che ho rincorso Catt, ho dovuto scontrarmi con lei. Ci ho quasi rimesso le penne, ma fortunatamente Alan Greenwood prima di morire mi ha dato una mano». Il nome del vescovo mi rievocò qualcosa che non riuscivo a ricordare, come una macchia indistinta che si incrementava nella mia mente. «Alan Greenwood?». «Si, ricordi quando Catt ci ha attaccati? Il momento prima che la stanza venisse invasa dai demoni Greenwood mi ha detto una cosa, una cosa molto importante. Mi ha sussurrato il vero nome demoniaco di mia sorella: Cattleya. Dovevo immaginarlo visto che è anche il nome di un’orchidea». Ricordai il giorno che entrai in quella stanza e la vidi immersa nel profumo di tante orchidee, e di come Colt mi aveva raccontato ch’era il fiore preferito di Catt. «Così ho potuto liberarla dal dominio di Sebastian e le ho ordinato di dirmi il vero nome del demone che la controllava» spiegò e sul suo volto si aprì un’espressione compiaciuta. «Il vero nome di Sebastian? E’ così che lo hai respinto all’inferno?». «Esattamente!». «E poi cosa è successo?» «Ho liberato Catt dal mio controllo e dopo che abbiamo parlato per un po’ ha deciso di prendere una strada tutta sua: andrà in India; a quanto pare lì ci sono molti che collaborano con i demoni. Non potranno mai cambiare le cose, ma ha detto che cercherà di rimediare agli sbagli che ha fatto. E infine sono tornato qui e ti ho ritrovata svenuta esattamente là al centro, dove Sebastian aveva aperto il portale» Colt indicò il cerchio di margherite in fronte al grande edificio in cemento. Il portale infernale aveva lasciato una leggera traccia di lava solidificata in mezzo al prato.


Sarebbe sempre stato un simbolo di ciò che accadde quel giorno e in seguito decisi che sarebbe divenuto il luogo in cui avrei portato i fiori a mia madre. La mamma. Il suo volto rievocò il dolore che avevo accostato fino a quel momento. Era morta per mano di un demone crudele e bugiardo. Soffrivo immensamente ma sapevo che il suo ricordo sarebbe vissuto in me e in Ginevra, come quello di nostro padre. Sospirai e lanciai un’occhiata allo stormo di uccelli che stavano prendendo il volo. Non riuscivo ad immaginare cosa sarebbe successo d’ora in avanti. Cosa avremmo fatto? Dove saremmo andate? Sicuramente non avremmo più potuto vive a Milano, ma probabilmente nemmeno in Italia. Sentivo il bisogno di ricominciare da un’altra parte. «Quindi è tutto finito» dissi. «Si. Ora potrete fare quello che volete». «Già» confermai con un sorriso, sebbene ci fosse un qualcosa che mi premeva nel petto. Una sensazione nostalgica. «Non riesco solamente a spiegarmi una cosa: come cavolo ho fatto a uscirne viva dall’inferno?» una domanda che rivolsi più a me stessa che al ragazzo in fronte a me. «Ci ho pensato a dir il vero. Più che altro al fatto che Sebastian ti abbia teso così tante trappole e tu non ci sia cascata nemmeno una volta». «Che vuoi dire?». «Fin dall’inizio eri tu lo scopo di quel demone. Ha rapito tua madre e pensava che bastasse a farti uscire allo scoperto. Ma non l’hai fatto. Allora ha dovuto ripiegare su tua sorella e per questo ha mandato Catt. Pensava che non saresti mai venuta, che avresti pensato a te stessa. Così il dolore e l’angoscia del risentimento ti avrebbe bruciata dentro, e quando sarebbe arrivato il momento giusto, tu ti saresti presentata da lui chiedendo di restituirti la tua famiglia. E’ così che si stipula un patto con il diavolo, Samanta. Ma tu, incredibilmente non hai mai avuto dei ripensamenti». In verità erano state più le volte in cui mi trovavo indecisa sul da farsi ad avermi fatto vacillare. Non mi ritenevo così forte come affermava Colt. Ma nemmeno pensavo che fosse stata solo fortuna. Probabilmente il mio angelo custode mi aveva aiutata più di quanto immaginassi. «Ti sei gettata tra le fiamme dell’inferno per salvare l’anima di tua madre, pur sapendo che per lei non c’era più niente da fare. Questo, agli occhi del cielo, è considerato uno dei più grandi doni che una creatura possa compiere: il sacrificio. Sebastian non ha potuto torcerti un capello per questo motivo. L’egoismo in cui sperava gli si è ritorto contro dal momento in cui gli hai mostrato quanto si sbagliava sul tuo conto. Ammirevole per una piccola umana» sogghignò divertito. Era tornato il solito arrogante di sempre, ma le sue parole erano state così gentili da lusingarmi. «E così i nostri accordi sono stati portati a termine» continuò lui.


«Ma non posso darti nulla in cambio, non ho più l’angelo dentro di me» scostai i capelli e gli mostrai il retro del collo. Quella consapevolezza si era insidiata nella mia coscienza dal momento esatto in cui avevo riaperto gli occhi. Il tatuaggio era scomparso. Colt sollevò le spalle e fece una smorfia. «Me ne farò una ragione. Magari un giorno ci rincontreremo e avrai la tua occasione per ripagarmi il favore» disse ironico. «Hai fatto molto di più di un semplice favore, Colt» mormorai posandogli una mano sul braccio. Ci guardammo nuovamente e ancora una volta sentii il mio cuore palpitare. Mi morsi il labbro abbassando lo sguardo. Non potevo permettere ai miei sentimenti di giocarmi brutti scherzi, non potevo legarmi a lui in quel modo. Avevo paura delle conseguenze e di ciò che poteva comportare una tale relazione. Sempre che di questo si trattasse. Alla fine ci eravamo baciati una sola volta e non ero ancora sicura che fosse effettivamente per una reale attrazione, o che si trattasse dei poteri persuasivi del mezzo-demone. Inaspettatamente Colt mi prese il mento tra le dita e mi alzò il viso inducendomi a guardarlo. I suoi occhi trafissero il mio animo autoritario facendo vacillare ogni concretezza. «L’ho solo fatto perché mi sei piaciuta fin dall’inizio, da quella volta al Metropolitan. Ho sempre e solo incontrato donne indifese, ma tu eri diversa. Sei diversa» bisbigliò. «In discoteca?» domandai perplessa. Avevo un vago ricordo che frullava nel cervello ma non riuscivo a metterlo a fuoco del tutto. Quella sera ero ubriaca, il capo mi aveva appena licenziata. Era stata una serata terribile. E avevo incontrato quegli occhi, uno sguardo inequivocabile che mi era rimasto impresso. Era lui, dunque. Era Colt. «Quella sera ci siamo incontrati per la prima volta, anche se probabilmente non te lo ricorderai: eri veramente fuori di te. E’ stata una scena veramente patetica, poetessa». «Ma che cavolo...» arrossii strabuzzando gli occhi per l’imbarazzo. Gli tirai un pugno sul braccio e Colt cadde seduto all’indietro. Non smetteva di ridere, ma per una volta, pensai, che non lo stesse facendo con cattiveria. «Alla fine mi sono offerto di riaccompagnarti a casa perché non riuscivi davvero a stare in piedi. Hai rifiutato più e più volte. Volevi solamente scolarti un altro drink e così...». «E così?» gli chiesi sperando che non mi raccontasse nessun particolare sconvolgente. Dopotutto ero stata una sciocca a voler a tutti i costi bere un cocktail ben sapendo che il mio povero fegato non avrebbe mai retto. «E così ho dovuto portarti con la forza. Eri stanca e ti sei addormentata su una panchina fuori dal locale, ti ho svegliata e ti ho caricata in macchina». «E’ per questo che sapevi dove abitavo» constatai comprendendo molte cose che mi erano sfuggite. Già da un pezzo mi era tornato in mente il ricordo straziante di


quell’orrenda notte. La notte in cui scoprii il segreto di Sebastian. Colt mi aveva seguita, come mi aveva raccontato in precedenza, e mi aveva ritrovata circondata dal sangue al centro del salotto di casa mia. «Mi ero fatto dire l’indirizzo da te prima che ripiombassi svenuta. In seguito non mi sarei mai immaginato di ritrovarti ai piani alti nel bel mezzo di un party di gente famosa. Quando ti ho vista uscire dal retro, fradicia e inzuppata di sangue, ho capito che c’era qualcosa che non quadrava. Ti ho seguita per curiosità, e infine è successo quel che è successo» raccontò. «Non avevi nessuna ragione di salvarmi. Mi hai accolta nel tuo appartamento e allo stesso modo hai aiutato Ginevra. Ti saremo per sempre riconoscenti». Rimasi a fissare le iridi di Colt cambiare di tonalità con la luce del sole e spegnersi lentamente. Ne ero maledettamente affascinata, soprattutto dalle venature più chiare che addolcivano i suoi lineamenti e lo rendevano, bene o male, più umano. Smise di ridere. Allungò la mano e le sue dita mi sfiorarono le labbra e la guancia. Il sole alle sue spalle gli donava un aspetto insolito: i capelli spettinati vibravano di un chiarore celestiale e tutto il suo corpo parve rilassarsi con quel breve contatto tra le nostre pelli. Improvvisamente capii: avevo pensato a Sebastian come ad un angelo, la prima volta, ma mi ero sbagliata. E contrariamente avevo pensato a Colt Devon come ad un diavolo, e mi ero sbagliata nuovamente. «Probabilmente essere una creatura per metà angelo fa questo effetto» sussurrò riferendosi al fatto che mi avesse salvata. Ma sapevo che non era solo per quello. Colt appariva presuntuoso e sicuro di sé, agli occhi della gente comune, ma io avevo visto di più. Ero riuscita a leggergli nell’animo e ciò che avevo visto era semplicemente favoloso. Risi a quell’ultima sua affermazione, ripensando a quanto coraggio l’angelo dentro di me mi aveva donato negli ultimi giorni. «Si, credo di sì» confermai. «Ma dimmi una cosa...». Colt piegò la testa incuriosito. «Qual era il vero nome di Sebastian?» domandai e avevo una voglia tremenda di conoscere la risposta. Colt di tutto avviso scoppiò a ridere. «Non te lo dirò mai!» rispose. Si sollevò da terra e fece per tornare alla sua auto sportiva rosso fiammante. Sorrisi. Con uno scatto lo raggiunsi e gli sbarrai la strada mettendomi in fronte a lui. «Allora dimmi un’altra cosa» pretesi lanciandoli un’occhiata divertita. Lui alzò gli occhi al cielo. «Avanti sentiamo». «Cosa faremo d’ora in poi? Cioè, dove andremo? Dove vivremo?».


Colt ricambiò lo sguardo e vidi aprirsi sul suo viso il più bel sorriso mai visto prima. «Dove vogliamo, poetessa» il tono cristallino della sua voce mi convinse che i miei problemi erano ormai finiti del tutto e appartenevano al passato. Ora poteva esserci solamente un nuovo meraviglioso inizio. Lanciai uno sguardo al palmo della mia mano segnato da un disegno, prima di sollevarmi sulle punte e sporgermi verso lui. Con slancio poggiai le mie labbra sulle sue in un bacio sorprendentemente carico di emozione, che lui ricambiò.


Postfazione

Chasm è il frutto di un progetto personale. Ispirato principalmente da un sogno fatto una notte d’estate nel quale compariva una ragazza, un angelo, ch’era stata presa di mira dalla crudeltà di un demone. Quel demone in seguito si innamorò di lei. Non seppi mai come andò a finire tra loro due, ma l’emozione che mi aveva trasmesso il sogno mi spinse a scriverne la storia. Nasce così Samanta e tutto il mondo legato ad essa. Il progetto per il quale Chasm è stato scritto non si basa solamente per una soddisfazione personale, ma anche nel regalare gratuitamente, a chi lo volesse leggere, la stessa emozione provata. E sebbene non sia il primo romanzo scaturito dalla mia fantasia, ma è effettivamente il primo romanzo pubblicato, ho ritenuto fondamentale non trarne alcuna fonte di guadagno. Spero che questo breve romanzo vi sia piaciuto e vi abbia fatto passare dei bei momenti. Vi ringrazio immensamente per essere arrivati fino a questo punto. Dopotutto è grazie alla mente dei lettori se i personaggi di un libro possono prendere vita e far provare emozioni. Grazie a tutti voi! Roberta Dellabora


Indice

Prologo

PARTE PRIMA Capitoli 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 PARTE SECONDA Capitoli 12 13 14 15 16 17 18 19 20

Epilogo



ROBERTA DELLABORA

Nata a Pavia nel 1992. Laureata all’Accademia di belle arti di Brera in Progettazione artistica per le imprese. Attualmente frequenta i corsi di specialistica in Product Design, con l’intento, un giorno, di intraprendere la professione di designer. Amante di tutto ciò che riguarda il design, la fotografia, la grafica, l’artigianato e la letteratura. E’ blogger e scrittrice di ben due blog e altri a cui partecipa attivamente. E’ l’ideatrice del blog creativo “Il Giardino Segreto” e del blog letterario “Dolci&Parole”.


Indirizzi web

Visita il sito e i blog dell’autrice.

❥ Sito web: http://robertadellabora.weebly.com/ ❥ Blog Dolci&Parole: http://dolcieparole.blogspot.it/ ❥ Il Giardino Segreto: http://robertadellabora.blogspot.it/


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