Falesia

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FALESIA Ricerca del mare a San Nicola Arcella

Roberta Siciliani Relatore: Prof. Maria Grazia Eccheli Correlatore: Arch. Eleonora Cecconi



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UniversitĂ degli Studi di Firenze Scuola di Architettura Corso di Laura Magistrale a ciclo unico in

Architettura

Anno Accademico 2014/2015





A Giacomo e Anna Giuliana



FALESIA Ricerca del mare a San Nicola Arcella

INDICE PREFAZIONE IL PERIPLO DI ULISSE il viaggio le torri costiere il Palazzo del Principe LA RIVIERA DEI CEDRI il territorio il Parco Marino Riviera dei Cedri il giardino di Calipso e Alcino ARCHITETTURA dalla terra al mare orizzonti verticali falesia DISEGNI

DIDASCALIA IMMAGINI BIBLIOGRAFIA





PREFAZIONE È quando si pensa di esser arrivati alla fine che tutto ha inizio. Proprio come i viaggi, che si sa come e dove iniziano, ma non si sa per certo dove, come e se mai finiscono. Un periplo, un ritorno alle origini, alle proprie radici, ha portato alla riscoperta di una terra, che con i suoi lati positivi, come negativi, ancora sorprende. Un percorso personale che ha portato alla scalata di una vera e propria montagna, tramutatasi in una silenziosa discesa al mare fatta di esperienze e riflessioni. Due capitoli in cui il lettore è coinvolto prima in echi del passato per comprendere al meglio l’itinerario paesaggistico del secondo. La pittura, la letteratura, la scultura e il cinema, sono i compagni di viaggio che porteranno al capitolo conclusivo: Architettura. Ed è così che dalla terra al mare, rocce, suggestioni, orizzonti, diventano strumenti necessari al fine di arrivare ad un unico elemento, che proteso sul mare, respira : Falesia



IL PERIPLO DI ULISSE Come Ulisse ho viaggiato per 7 anni in cerca della mia Itaca... gli approdi che via via mi vedevano rifocillarmi alle altrui fonti non facevano altro che allontanarmi sempre più dalla mia patria, e sempre più smarrita mi scoprivo.... infine... l’ho trovata.... la mia Itaca... (...) e mi accorsi... quanto sia vantaggioso essere un uomo nuovo... solo... quasi senza avi... un Ulisse senz’altra Itaca che quella interiore... Memorie di Adriano Marguerite Yourcenar



IL VIAGGIO Calabria, Alto Tirreno Cosentino, il territorio si presenta aspro e inospitale: alti sistemi montuosi sulla linea di costa hanno limitato nel corso del tempo l’insediamento umano anche per un’agricoltura improduttiva. Grotte, cavità naturali, cale, diventano garanzia di abitabilità e difendibilità: casa. Le baie e le insenature sono porti naturali usati come terminali costieri per le imbarcazioni; solo piccoli approdi hanno caratterizzato fin dalla preistoria questi luoghi così inadatti alla vita. Una continua lotta per la sopravvivenza, non solo per le avverse condizioni idrografiche e morfologiche, ma anche al passaggio di una fitta rete di popoli, ha fatto di questa terra un luogo complesso dal punto di vista storico, archeologico e topografico. Pochi studi e poche ricerche sono il motivo dei numerosi capitoli oscuri che caratterizzano la storia di questa zona. Durante l’età arcaica, periodo di colonizzazione greca, questi luoghi sono approdi intermedi, gli unici scali molto frequentati lungo le rotte commerciali del Tirreno, che consentivano alle imbarcazioni possibilità di approdo e riparo in caso di tempesta. Numerose notizie letterarie, culti di eroi, personaggi della mitologia, descrivono la visibilità di questi luoghi dal mare. ( In alcuni passi omerici sembra essere messa in risalto proprio


la visibilità del mare dei luoghi sui quali sorgono i culti eroici; si veda ad esempio Iliade-VII, vv.84 ed Odissea-XXIV, vv.80) Nello stesso periodo, in rapporto alle attività commerciali, appaiono insediamenti indigeni, come la Petrosa da cui provengono numerosi ritrovamenti satelliti sia sul promontorio di S. Nicola Arcella che sulle isolette poste di fronte. In età classica, una volta conquistata l’emancipazione, Brettii e Lucani s’impadroniscono dei territori e per tre secoli si inseriscono nell’attività economica, politica e culturale della Magna Grecia. Grazie a Strabone si conoscono particolari della vita selvaggia dei Brettii, che nelle aree interne si occupavano di caccia e attività pastorali, mentre compivano razzie sulle coste. All’età ellenistica corrisponde un livello di documentazione più ricco. Vi è una scissione tra i Lucani e i Brettii che, abbandonata la vita selvaggia e, acquisito lo stile di vita greco, raggiungono un equilibrio territoriale, politico e sociale. Senza abbandonare la loro attività principale, la pastorizia, si rivolgono ai siti costieri, individuando sbocchi sul mare importanti per il commercio. Gli insediamenti corrispondono a quelli arcaici: alcuni sorgono alle foci principali dei fiumi tra due corsi d’acqua, altri su alture costiere difese naturalmente. Si considerano tre centri principali, tutti con le stesse caratteristiche: Blanda, Laos e Temsa. A Laos i siti rurali, dispiegati a ventaglio sulle alture collinari, sono documentati dal rinvenimento di frammenti ceramici e laterizi; alla Torre del Porto di S. Nicola Arcella e all’isola di Dino, le possibilità di attracco e di scalo sono analoghe a quelle dell’epoca neolitica e arcaica. Nel III secolo, però, i Brettii, coinvolti nel conflitto romano - cartaginese, decadono in quanto avversari di Roma. Anche in questo caso, gli effetti archeologici di questi eventi bellici sono devastanti, perché tali siti cadono nell’abbandono. “E costoro (i Lucani) come i Brettii ed i Sanniti loro progenitori, soggiacquero a tante sventure che oggi è difficile persino


distinguere i loro insediamenti” – Strabone. Con la fase post - bellica, di carattere repressivo, i Brettii vengono ricacciati nelle aree interne: ciò favorisce una riorganizzazione romana sia territoriale che amministrativa, ricreata dalle colonie costiere ubicate in posizione strategica per il controllo delle comunicazioni marittime e terrestri. Solo dal II - I secolo cominciano a comparire numerose ville lungo il litorale, allineate su terrazzi marini lungo il tracciato della strada costiera: ville su promontori rocciosi protesi sul mare, per lo più senza retroterra coltivabile, ma con stupende posizioni panoramiche, quindi con funzione soprattutto portuale, dato il consistente ritrovamento di materiale anforico. La sporgenza della Torre del Porto di S. Nicola, infatti, ospita ancora i resti di una villa marittima che guarda in direzione della sua dirimpettaia in contrada Tufo; attorno si ricreano semplici addensamenti paracostieri, che non corrispondono assolutamente alla classica urbanizzazione romana. Dal punto di vista architettonico le città sono prive di fortificazioni, infatti, l’edificato è costituito da paramento in opera incerta reticolata, malta e tegole. Risulta comunque impossibile arrivare a caratteristiche tipologiche e planivolumetriche a causa di documentazioni mai esplorate. Per quanto riguarda la viabilità, la disposizione delle ville costituisce un filo rosso, perché individua l’esistenza di un asse costiero inequivocabilmente attestato nella Tabula Peutingeriana, che, oltre a riportare il tracciato con un segno rosso, ne indica le principali stazioni, difficili da ubicare dettagliatamente per mancanza di documenti archeologici. Simile a quello della nuova SS18, il tracciato di tale asse, obbligato e arduo a causa della situazione geomorfica, corre ai margini della costa frastagliata, attraversa le ville su incombenti massicci calcarei fino ad arrivare alla piana di Lamezia. Quando si raggiunge il promontorio preso in


esame, sopraggiungono le difficoltà: oltre al forte dislivello, vi sono improvvise fenditure a strapiombo che rendono tortuoso il percorso. Ancora oggi, lungo la statale SS18, i tratti con altissimi viadotti vengono chiusi al traffico per il forte vento. Anche il re Costante II scese lungo questa strada nel suo viaggio verso Siracusa, nella speranza di far fronte alla pressione degli Arabi e Longobardi ormai in procinto di spartirsi il Sud Italia. Con la minaccia araba, il sistema si sgretola. La fascia costiera diventa insicura e la mancata riuscita di garantire la sicurezza degli scali ne determina il conseguente spopolamento. In conclusione possiamo dire che è difficile immaginare un vero e proprio percorso antico, ma soprattutto che non si è mai affermato il concetto di centro urbano strutturato, stabile e tradizionalmente fissato. Non vi è mai stata un’organizzazione insediativa evoluta, non per difetto di cultura urbana, ma per i continui mutamenti dei popoli di passaggio e per mancanza di presupposti necessari e indispensabili: un retroterra produttivo che ne garantisse il sostentamento.




LE TORRI COSTIERE Corifeo_E qual nuncio poté giunger sí rapido? Clitennèstra_Efesto, che lanciò dall’Ida un rutilo primo fulgore; ed una fiamma accese l’altra fiamma sin qui, grazie all’araldo fuoco. L’Ida all’Ermèa rupe di Lemno: da Lemno poi l’Atòo, picco di Giove, terzo accolse la gran fiaccola; ed alta sovra il dorso del pelago, la furia della lampada in corsa, allegra scaglia la vampa d’oro del Macisto ai vertici simile a un sole: né il Macisto indugia, né la sua parte di messaggio oblia, vinto dal sonno o smemorato. Ed oltre, alle fluenti dell’Eurípo, giunge il balenio del rogo; e del Messapio giunge ai custodi, che sul fuoco gittano un mucchio d’arida erica, e rispondono col fuoco al fuoco, ed oltre il nunzio inviano. E non illanguidita, anzi piú valida, la face, a guisa di lucente luna, valica il pian dell’Asopo, e sui vertici del Citerone, un nuovo passo suscita del messaggio di fuoco. E la custodia non repudiò la peregrina luce, anzi ne incese una maggior che l’altre. E il bagliore volò su la palude Gorgonia, e giunto ai picchi d’Egipanto, scosse le guardie, sí che non mancasse la vampa: accendon quelle, e con grande impeto oltre inviano una gran barba di fiamma, ch’arda e la vetta superi imminente sopra il varco Saronio; e irruppe, e giunse su la cima aracnèa, che incombe vigile su la città. Di lí venne alla casa degli Atridi, la luce a cui fu avolo il fuoco d’Ida. Per me dunque arse tale corsa di fuochi: l’uno all’altro trasmise il segno; e vinse il primo e l’ultimo. La prova eccoti e il segno della nuova che lo sposo da Troia a noi mandò. Eschilo, Agamennone


E’ a causa del ripetersi di un dolore antico, causato da diversi incursori lungo il corso dei secoli, che ne persistono ancora le conseguenze. Seppure a secoli di distanza, il rinnovarsi delle ferite su una terra continuamente dilaniata ne protrae il tempo della guarigione e quindi un possibile atto di prevenzione: la difesa della stessa attraverso fortificazioni. Dopo lo splendore magnogreco, la Calabria diviene preda di una decadenza così grave impossibile da risanare nei secoli successivi. Le incursioni turche, sempre più numerose di anno in anno, e gli attacchi dei pirati, sempre più violenti, producono una tale desolazione delle coste che la maggior parte dei luoghi vengono disertati, completamente abbandonati. Il popolo, stanco di essere bersaglio dei continui attacchi dal mare, se ne allontana nella speranza di trovare rifugio nei paesi interni. Dai tempi degli Svevi e degli Angioini si è tentato di organizzare un sistema uniforme e completo di difesa. A guardia dell’intera costa si eleva una serie di torri, posizionate in corrispondenza di cale e porti naturali dove i pirati possono facilmente approdare. Le torri, visibili l’una dall’altra, oltre a essere un sistema difensivo, sono un servizio di segnalazione: comunicano tra loro di giorno attraverso i segnali di fumo e di notte con i fuochi, per dare così l’allarme di possibili minacce all’orizzonte. Diminuita la pressione ostile, il sistema decade e solo nello scorcio del ‘500, in seguito al ritorno delle incursioni, viene ripristinato come utile strumento di difesa. L’attacco della Turchia comincia ad avanzare: Don Pedro di Toledo, Viceré spagnolo di Napoli, tenta la difesa e realizza lungo le coste una catena di sicurezza fortificata per cercare di proteggere il Regno. I lavori non vengono eseguiti con celerità pari alla necessità: difficoltà di vario genere ne rallentano la costruzione, si cerca quindi di risolvere il problema del trasporto del materiale


utilizzando come cava le antiche rovine, che vengono così sacrificate alle necessità del momento. Nel 1565 la maggior parte delle torri sono terminate. Nella seconda metà dello stesso secolo si registrano 69 torri nella Calabria Ulteriore e 33 nella Calabria Citeriore, per un totale di 102 registrate anche nell’elenco delle fortificazioni del Regno di Napoli. Si è potuto redigere un elenco di 121 nomi in totale; se si parte dai confini occidentali della regione, la torre di S. Nicola Arcella è la quarta. La torre di S. Nicola è situata su una porzione di roccia a uncino, circondata da grotte, che protegge la baia del porto naturale del paese. Si presume sia stato il punto dove, per mezzo di un oleodotto, avveniva l’imbarco dell’olio direttamente da un oleificio posto sulla costa, oltre ad essere un’infrastruttura per il commercio. L’alta scalinata che porta al primo e al secondo piano della torre, rappresenta uno degli elementi più importanti di tutta la costruzione. Vi sono blocchi di pietra 50 x 20 cm, sorretti da due grandi archi sovrapposti. Sopra la torre, un terrazzo da cui ora si può ammirare l’orizzonte. Ai primi del ‘900, per circa 25 anni è stata il buen retiro estivo del celebre scrittore e poeta Francis Marion Crawford, noto soprattutto per i suoi romanzi storici e del mistero. Qui scrisse il romanzo ‘For the Blood is the life’, dove si riconoscono luoghi e personaggi sannicolesi. Nel corso del tempo la torre, paragonata come tutte le altre a una medicina che potesse curare un male (in questo caso le orde dei pirati), una volta domato e scomparso il male, è stata dimenticata. E’ per questo motivo che le torri, rimaste alla mercé dei venti e di mani rapaci e incompetenti, hanno subito un rapido deterioramento non solo come mezzo di difesa, ma anche


come patrimonio architettonico. La torre, oggi, dopo aver cambiato parecchi proprietari, appartiene ai signori Calia di Napoli che hanno presentato un progetto per trasformarla in museo. Le torri, nate dal bisogno della comunità di difendere il territorio, diventano veri e propri landmark. Segni, che rendono distinguibili le une dalle altre, non solo le città sviluppatesi ininterrottamente lungo la costa per l’espansione edilizia degli anni ‘60, ma anche le baie che accolgono, appunto, i porti naturali. L’aspetto di questi luoghi è visibile non solo attraverso le planimetrie, perché è possibile percepire le triangolazioni delle torri osservando semplicemente la costa sia dal mare che percorrendo la statale.

Per me la Calabria significa categoria morale, prima che espressione

geografica.

Calabrese,

nella

sua

miglior

accezione metaforica, vuol dire rupe, cioè carattere. E’ la torre che non crolla giammai la cima pel soffiar dei venti. Leonida Rèpaci




IL PALAZZO DEL PRINCIPE Non ci si dovrebbe stupire, se, mutando variamente la Fortuna il suo corso, in uno spazio di tempo infinito i medesimi avvenimenti si ripetono. Vita di Sertorio Plutarco

Plutarco in questa frase, annuncia ciò che spesso succede alle persone, alle cose, agli edifici. È inevitabile che la storia si ripeta, ed è inevitabile che un edificio venga utilizzato, dimenticato, per poi essere nuovamente riutilizzato e magari abbandonato. È il caso del Palazzo del Principe di San Nicola Arcella, che non trova pace e destinazione dopo la sua prima funzione del XVIII. Residenza estiva degli Spinelli, signori di Scalea, fu costruito nella contrada Dino, sulla probabile ex platea di una villa romana, al margine settentrionale dell’altopiano che volge verso capo Scalea. “[…] ho fabbricato un palazzo con mio proprio danaro, con molti comodi necessari, a S. Nicola Arcella nella Scalea per cui ho speso ducati 22.000 circa […]” Il principe Scordia Pietro Lanza Branciforte, appartenente al


ramo dei principi di Trabia, dell’antica nobile famiglia siciliana dei Lanza di Palermo, ereditò tutto il feudo sposando il 29 giugno 1832 Eleonora Caracciolo Principessa di Scalea, Marchesa di Majorca, ultima erede degli Spinelli. La tipologia planimetrica segue un impianto quadrangolare e simmetrico, costituito da stanze passanti attorno alla corte interna. In essa è situato un corpo scala dall’andamento curvilineo, con due rampe simmetriche racchiuse da un avancorpo. Da esso si accede al piano superiore adibito a residenza, ove si notano tracce di caminetti. Il piano terra serviva da deposito di prodotti alimentari; pur essendo adibito a tale uso, non mancano nell’imponente struttura elementi architettonici di grande pregio, come il portale d’ingresso al di sopra del quale è situata la loggia con triplice arcata della grande sala. Il palazzo è stato costruito prevalentemente con pietre di roccia circostante, che venivano poi modellate e poste in opera secondo la loro destinazione, come le mensole dei balconi, le bocche di scarico dell’acqua piovana scolpite a forma di maschera, svuotate all’interno, l’una diversa dall’altra, ma di uguale dimensione, poste a distanza regolare lungo il cornicione esterno e quello interno del cortile. La pietra tufacea, prelevata in contrada Tufo, nota per la presenza di cave tufacee, si trova nei basamenti delle quattro soluzioni angolari esterne, in quelli delle lesene della facciata del corpo scala, sulle pedate della scala, nella soglia della loggia esterna e nelle soglie architravi e stipiti delle finestre. La destinazione originale del palazzo era di tipo residenziale estivo ma, nel contempo, legata alla produzione agricola (olio, vino) del feudo, allora molto fertile. Nella prima sala a destra, accanto all’ingresso, vi era un tunnel sotterraneo collegato al porto naturale che consentiva un sicuro e rapido imbarco merci. Secondo fonti del luogo, quando i coloni del principe lo lasciarono, il palazzo abbandonato divenne pian piano un rudere in cui i pastori lasciavano il bestiame. Negli anni ’80, per interessamento dell’Amministrazione Comunale,


è stato annesso ai Beni Culturali e sottoposto a restauro nel 1991 dal Ministero per i Beni Culturali e Ambientali, e dalla Soprintendenza per BB.AAS. della Calabria con uno stanziamento di 12 miliardi di vecchie lire. I lavori dopo essersi bloccati ancora sono in stato di definizione. Da poco il comune ha nuovamente proposto una rivalutazione, con la richiesta di adibirlo a centro ricreativo, con annessa biblioteca e alcuni uffici del municipio. Oggi è in stato di abbandono.





LA RIVIERA DEI CEDRI Girovagare tra le bellezze artistiche della riviera dei Cedri. Scoprire il significato dei luoghi, corrosi dal tarlo del tempo. Ascoltare i colori delle tele sfiorate dal magico suono di organi antichi, tessere il senso di storie locali e di ataviche memorie, racchiuse nello scrigno della riviera. Aggirarsi tra i vicoli di piccoli paesi del Tirreno Cosentino. Esplorare sentieri intagliati nella roccia di alte falesie. Ammirare un patrimonio culturale custodito nelle chiese, nelle torri, nei castelli, nelle piazze, nei palazzi. Paesi che si specchiano nel mare e s’aggrappano ai monti. Patrimonio artistico di pregio, spesso però ignorato persino dai residenti. Storie di incontri fortuiti e fecondi di artisti e di scrittori con la terra dei cedri, baciata dal sole e dall’arte. Una striscia serpentina che collega il Museo archeologico di Tortora, il Palazzo seicentesco di San Nicola Arcella, i colorati Murales di Diamante e molti altri luoghi inglobati in un unicum naturalistico che non ha eguali. Una striscia di parchi, di fiumi, di leggende di briganti, di culture e di linguaggi che bisbigliano il palpito del territorio. Un mosaico, in alcuni punti frammentario, ma vivo, alla mercĂŠ di residenti distratti. Concentrarsi, puntare i riflettori sui profumi di cedriere che sussurrano il senso di un luogo ormai trascurato. Abbiamo, ma non sappiamo.



IL TERRITORIO La Calabria sembra essere stata creata da un Dio capriccioso che, dopo aver creato diversi mondi, si è divertito a mescolarli insieme. Guido Piovene

Riviera dei Cedri è il toponimo che identifica una fascia di territorio dell’Alto Tirreno Cosentino in Calabria che comprende, tradizionalmente, anche una parte del territorio montano che si trova immediatamente a ridosso della zona costiera. Il nome deriva dalla diffusa coltivazione del cedro principalmente coltivato e lavorato nella fascia che va da Tortora a Belvedere Marittimo. La produzione avviene ancora attuando antiche tradizioni, come per esempio la salagione eseguita con l’acqua del mare. La caratteristica peculiare è quella di produrre frutti completamente dolci o completamente aspri. Così come la costa, che alterna punti di estremo interesse naturalistico a situazioni di forte degrado, panorami unici a interventi speculativi, fondali incontaminati a compromettenti inquinamenti.


I principali punti di interesse naturalistico sullo sviluppo costiero considerato di circa 50 km sono molti: fauna e flora dell’Isola di Dino, le falesie di San Nicola Arcella e Scalea, la foce del fiume Lao e il suo excursus storico, i fondali dell’Isola di Cirella, la scogliera dei Rizzi e lo scoglio della Regina. Tesori sommersi, punti di osservazione, siti naturali, tradizioni marinare, racconti antichi, panorami, compongono il patrimonio complessivo di questo territorio. Questi aspetti convivono con varie forme di degrado. I centri abitati sono per lo più costituiti da un nucleo storico, sorto in posizione elevata, mentre lungo la fascia litoranea, a partire dall’inizio degli anni ’70, tonnellate e tonnellate di cemento si sono riversate su tutta la fascia costiera, violentandone le caratteristiche ambientali; le pianure alluvionali sono state completamente invase dall’espansione edilizia incontrollata, selvaggia e velocissima; così è avvenuto per le aree collinari subito retrostanti, dove appunto alle culture specializzate di cedri (o anche di viti e di ulivi), spesso si sono sostituiti complessi alberghieri e villaggi turistici che limitano ormai di molto le possibilità di condurre estese campagne di identificazione territoriale. All’inizio degli anni ’60 la necessità di dotare la Calabria di un sistema di infrastrutture di trasporto adeguato alle nuove necessità indusse a programmare un sistema di assi viari lungo le coste (SS18, SS106). In riferimento all’area di studio, la SS18 collega tutti i paesi costieri, garantendo il collegamento lungo la direttrice N - S. Per una scelta progettuale non felice, la strada è stata costruita in prossimità della linea di costa, facendo sorgere spontaneamente un’ edificazione incontrollata ai bordi della strada. Perciò la strada, realizzata per consentire il traffico veloce sulle distanze medio - lunghe, si è trasformata in una strada di attraversamento urbano, con deflusso spesso interrotto da semaforizzazioni e paralizzazioni del traffico


soprattutto nei periodi estivi, per l’incremento del traffico turistico. Anche il tracciato ferroviario, che costeggia il mare, ha molto contribuito al degrado con le opere di difesa realizzate, così che in alcuni punti i massi a mare si presentano in una sequenza pressoché ininterrotta. Le cave rimaste aperte, monumento allo sfregio ambientale; l’erosione della costa in aumento; gli incendi, in prevalenza dolosi, che distruggono la macchia, impedendone uno stadio più evoluto di vegetazione; l’inquinamento del mare, infine, derivato in prevalenza dai liquami fognari: tutto ciò concorre a determinare il progressivo degrado ambientale del territorio



IL PARCO MARINO RIVIERA DEI CEDRI La creazione di un Parco Marino sulla costa tirrenica della Calabria risponde a due esigenze fondamentali: in primo luogo tutelare una fascia di mare che ad insostituibili valori naturalistici accoppia un livello di degrado non riscontrabile altrove; in secondo luogo la razionalizzazione dell’uso del territorio e delle risorse marine potrà finalmente avviare quel circuito virtuoso basato sull’ecoturismo e su un utilizzo oculato del patrimonio esistente che garantirà uno sviluppo equilibrato e, quel che più conta, continuo nel tempo. Fulco Pratesi

Il quadro che ne deriva non è di certo tra i più confortanti, ma l’istituzione del Parco Regionale Riviera dei Cedri, in piena attività solo dal 2009(che in questi ultimi tempi ha ricevuto numerosi tagli e minacce di chiusura), pone con urgenza la costruzione di un piano integrato che si raccordi con il Parco Nazionale del Pollino e che trovi elementi di dialogo con tutte le altre iniziative di protezione operanti e programmate (SIC, SIN, parchi fluviali, parchi archeologici, la costa della vicina lucana Maratea, etc.). Il Parco, infatti, può rappresentare un’uscita d’emergenza


e offrire una chiave di risoluzione non solo ai problemi del degrado e dell’inquinamento, ma anche dello sviluppo della zona. E’ anche soprattutto un percorso sociale, che va discusso con la gente, al fine di sacrificare interessi individuali a favore di una mentalità più rispettosa dell’ambiente e della crescita del territorio. Nell’area del Parco Marino vivono particolari specie di uccelli protetti; sulle parti emerse vi sono oltre trecento specie vegetali appartenenti alla macchia mediterranea e tra queste alcuni rari endemismi, come la Primula di Palinuro e il Garofano delle Rupi; nei fondali si trovano una foresta di paramuricee (gorgonie), un ricco posidonieto e numerose specie di pesci. La riserva, ha nel piano lo sviluppo di alcuni servizi di supporto che garantiscono il progresso del progetto. Le infrastrutture del bando che dovranno sorgere sono le seguenti: i centri visita, l’aquarium con annesso un centro di recupero fauna marina e centro di ricerca scientifica curato dall’Università della Calabria, un museo del mare in rapporto alle tradizioni marinare, la rivalutazione delle torri costiere, i percorsi ecologi e marini, denominati sentieri verdi e blu e le oasi botaniche che promuovono la protezione della vegetazione spontanea sia su spiagge sabbiose che su promontori su cui si inerpica la macchia mediterranea.




IL GIARDINO DI CALIPSO E ALCINOO La lingua greca, come quella latina, non ha una parola per definire il giardino: il termine greco kopos e quello latino hortus indicano infatti semplicemente il recinto per la protezione di un’area coltivata. Si trova il concetto di recinzione per particolari addomesticazioni animali e vegetali, ma non quello di giardino, semanticamente inteso come luogo di piacere per gli occhi e per l’odorato. Il mondo greco, non aveva spazio per i paradisi e per il piacere contemplativo, a causa delle vaste città compatte e zone adibite alla pastorizia, ma anche il mondo romano che intendevano la campagna unicamente come fonte di sostentamento e ricchezza. Dunque il giardino ha il sapore di un recinto, in cui cose buone e cose belle crescono e prosperano insieme senza distinzioni. I primi giardini di cui siamo a conoscenza però, sono quelli scritti da Omero, che possiamo identificare secondo due filoni interpretativi: quello della fecondità e quello degli dei. I primi sono rappresentati da quello di Alcinoo, i secondi appartengono a quello di Calipso. Nell’Odissea la bellezza e la ricchezza del giardino di Alcinoo sono i suoi frutti, scintillanti di aromi e colori, tanto da bandire le stagioni all’interno del recinto e ipotizzare in quel microcosmo


un ritorno all’età dell’oro. Si accenna a un cortile, a una soglia, precisamente a quella di un palazzo.

Ma di fianco alla reggia un orto grande, Quanto ponno in dì quattro arar due tori Stendesi, e viva siepe il cinge tutto. Alte vi crescon verdeggianti piante, Il pero e il melagrano, e di vermigli Pomi carico il melo, e col soave Fico nettáreo la canuta oliva. Né il frutto qui, regni la state, o il verno, Pêre, o non esce fuor: quando sì dolce D’ogni stagione un zeffiretto spira, Che mentre spunta l’un, l’altro matura. Sovra la pera giovane, e su l’uva L’uva, e la pera invecchia, e i pomi e i fichi Presso ai fichi ed ai pomi. Abbarbicata Vi lussureggia una feconda vigna, De’ cui grappoli il sol parte dissecca Nel più aereo ed aprìco, e parte altrove La man dispicca dai fogliosi tralci, O calca il piè ne’ larghi tini: acerbe Qua buttan l’uve i redolenti fiori, E di porpora là tingonsi e d’oro. Ma del giardino in sul confin tu vedi D’ogni erba e d’ogni fior sempre vestirsi Ben culte aiuole, e scaturir due fonti Che non taccion giammai: l’una per tutto Si dirama il giardino, e l’altra corre, Passando del cortil sotto alla soglia, Sin davanti al palagio; Diversi sono i giardini degli dei, come quello di Calipso, ove la natura non è più solo la feconda produttrice di frutti e di fiori, ma è essa stessa fonte di bellezza e di armonia fra l’uomo


e il paesaggio che lo circonda. Il prato, la vite rampicante, i boschetti dove nidificano gli uccelli e il cipresso odoroso, gli ontani e i pioppi, compongono un’atmosfera dove tutto è grazia e anche un dio non può non ammirare la perfezione di quel luogo dove la natura, al servizio di una divinità, si manifesta in forme armoniose e piacevoli.

Un bosco intorno alla grotta cresceva, lussureggiante: ontano, pioppo e cipresso odoroso. Qui uccelli dall’ampie ali facevano il nido, ghiandaie, sparvieri, cornacchie che gracchiano a lingua distesa, le cornacchie marine, cui piace la vita del mare. Si distendeva intorno alla grotta profonda una vite domestica, florida, feconda di grappoli. Quattro polle sgorgavano in fila, di limpida acqua, una vicina all’altra, ma in parti opposte volgendosi. Intorno molli prati di viola e di sedano erano in fiore; a venir qui anche un nume immortale doveva incantarsi guardando, e godere nel cuore. L’organizzazione del Parco marino, metterà in moto un sistema che sia i giardini d’Alcinoo che i giardini di Calipso potranno prender forma. Oltre ad avere delle aree che faciliteranno la produzione di alimenti tradizionali del luogo ( come per esempio i cedri ), saranno delle vere e proprie oasi botaniche in cui una ricca e assortita flora spontanea che da sempre caratterizza il litorale preso in esame. In mare vi sono praterie di Posidonia, dal cui studio è possibile avere un quadro piuttosto attendibile della qualità ambientale delle acque marine costiere. La natura selvaggia, sotto forma di macchia mediterranea, favorisce sulle rupi la nidificazione di alcuni importanti rapaci, come il Falco della Regina e il Falco Pellegrino.


Le specie che vi vegetano sono: erica erborea lentisco alloro mirto ginepro llatro ginestra agave finocchietto selvatico rosmarino leccio fioritura rara come Primula di Palinuro giglio di mare (a rischio estinzione)




ARCHITETTURA DALLA TERRA AL MARE E’ nei giorni più limpidi, liberi da ogni umidità che il golfo si svela. Dalla baia, giù al mare, l’orizzonte si mescola con le montagne più lontane, più ovattate. Poi, via via l’immagine diventa più nitida. Le falesie protese sul mare incombono e quel senso di protezione, di nido è nell’aria. La baia azzurra, protetta a sud dalla piccola penisola della Torre di S. Nicola e a Nord dal promontorio dell’Arco Magno, resta inerme, riparata, protetta dai venti. Davanti agli occhi mare, alle spalle montagne, ed è da qui che nasce il desiderio di salire su, sempre più su. Avere una prospettiva più ampia, che dia la possibilità di osservare un secondo paesaggio, non finito, ma infinito. Inizia la scalata: sentieri intagliati nella roccia, sentieri incisi nel terreno, sentieri tortuosi di cui non si vede la fine; si sale, si sale, sapendo che l’ascesa porterà i suoi frutti. Ma nel momento in cui ci si sente un tutt’uno con la natura, nel momento in cui il giallo della ginestra esplode o il profumo del mirto inebria, lo sguardo è come catturato da spicchi di blu, e non si sa più se quello sia mare o cielo. Una più vasta geografia di coste si rivela, il paesaggio si estende, il golfo di Palinuro appare come d’incanto, quasi


come se fosse a pochi metri, mostrando giardini, case, alberi e quant’altro si trova sulla costa, come se fosse il miraggio di una fata Morgana che tra leggende e miti difese la sua terra. La baia che appare ora non è più una madre protettiva ma tende le braccia all’ignoto. Da qui la necessità di misurarla. Le torri del Porto di San Nicola, di Fiuzzi e dell’Isola, sagomano un distretto visibile ai nostri occhi, una triangolazione che avvia una sorta di rete di comunicazione non solo difensiva, come si faceva ai tempi delle rotte saracene, ma soprattutto visiva. L’Isola di Dino è una balena addormentata, il mare non è più calmo, ma s’increspa, si alza, s’arriccia. L’orizzonte è una linea blu, infinita, dietro cui si nascondono nuovi mondi. Un raduno di alture edificate si scrutano l’un l’altra sul precipitare dei declivi, come terrazze di un unico smisurato palazzo. Da qui la contraddizione di un uomo che nel passato esige di abitare nell’abisso di cavità sotterranee e marine e poi pretende d’insediarsi sull’alto di picchi inedificabili. Sul punto più alto del promontorio, a 100 m sul livello del mare (slm) vi è il Palazzo del Principe, acquattato, impassibilmente a riposo, simbolo di affermazione di un uomo che s’impone sulla natura. Così come l’Acropoli di Atene, che controlla il suo territorio, il palazzo osserva il suo feudo, con i suoi ulivi, i suoi coloni, il suo mare. Un fossile imponente, ormai sopraffatto dal passare del tempo. Incuriositi dal fascino immortale di un rudere, si è inevitabilmente presi dalla voglia di

esplorarlo.

Una corte, maschere in pietra sul punto più alto della cornice, una scala che si addentra sempre di più. E in quel preciso momento in cui si pensa che il cielo, inquadrato dai muri alti della corte, sia l’unica via di fuga, si intravedono due passaggi posti simmetricamente ai lati opposti. Stretto, alto, un corridoio da cui è possibile scorgere il blu del mare. Come un canto di sirena che ammalia, un estremo bisogno di discendere pervade l’animo. E’ da qui che una più diretta discesa al mare diventa architettura.




ORIZZONTI VERTICALI Il Palazzo, simmetrico e di pianta quadrangolare, è costituito da due anelli sovrapposti che abbracciano una corte, uniti da un nucleo distaccato in contrapposizione con l’ingresso principale. Il progetto prevede che i due piani, che ospitavano un magazzino di derrate alimentari e il piano nobile, vengano destinati rispettivamente i locali del parco marino, con due sale espositive, e la caffetteria; al livello superiore, alcuni uffici del Municipio e la Sala Consiliare rappresentata dalla loggia tripartita. Il nucleo a sé stante, in doppio volume sui due livelli, rappresenta il fulcro dell’edificio: la biblioteca. Qui i muri si fanno legno, gli scaffali si fanno libri, piccole aperture inquadrano il paesaggio esterno. Le stanze laterali diventano studioli privati. Tra il setto della biblioteca e il muro esterno, lo spazio di scarto diventa stanza: un piccolo boudoir intimo, nascosto. Unica vista: il mare. Entrando dall’ingresso principale, la prima sala a destra ospita una piccola botola, la cui funzione era quella di arrivare a un tunnel, che collegava la torre del porto al palazzo al fine di facilitare il carico e lo scarico delle merci. Si ipotizzano, quindi, degli spazi sotterranei da cui poter ricavare una cisterna di raccolta dell’acqua al centro della corte. Dalla corte si può accedere ad altre due stanze che fungono


da ingressi. Qui lo spazio è sospeso tra interno ed esterno. È soglia. Un prolungamento della corte, anche se già stanze interne del palazzo. Qui la natura entra e si fa interno. La stanza a destra è la reception. Un alto ascensore di cristallo arriva al ballatoio che attraversa la stanza, poi un lucernario, così come gli skyspaces di James Turrel, crea un varco quadrato sul soffitto. Il visitatore è invitato a guardare quella porzione di cielo come se fosse un dipinto variabile: ora un monocromo blu, ora una notte stellata. Sono quadri che mutano nel tempo e che non sono mai uguali a sé stessi, poiché inquadrano una porzione del reale. In questo caso, è il cielo a porsi, virtualmente, sul medesimo piano del soffitto, creando l’illusione che esso sigilli lo spazio sottostante. La stanza a sinistra, invece, oltre ad avere l’entrata diretta alla caffetteria, è l’ingresso dell’orto dei cedri. Collocato a circa 90 cm dalla linea d’entrata, è stato ricavato dai frammenti di muro superstiti, letti da foto aeree antiche. Il sistema dei frammenti crea le condizioni per sottolineare situazioni esistenti attivando nuove relazioni. L’unico muro reduce dai cambiamenti del tempo sembra essere il muro contro terreno attestato alla villa, che con un’accurata analisi è stato dichiarato di nuova fabbricazione. Così, come Barragan, nei suoi giardini, o Claudio Silvestrin, in Villa Neuendorf, creano stretti varchi d’accesso, questo muro si discosta dalla lesena ad angolo del palazzo e crea una fenditura: delle lente scale salgono al livello stradale rendendo accessibile dall’esterno il giardino segreto solo attraverso questa rottura nel terreno. L’altra parte del quadrangolo, che racchiude il giardino, è una lunga panca, disegnata da un rialzo del bordo, una modanatura, una perimetrazione che avvia alla natura selvaggia. Nella corte interna, è situato un corpo scala di andamento curvilineo con due rampe simmetriche racchiuse da un avancorpo. Due ballatoi esterni, congiunti al pianerottolo della scala, facilitano la fruibilità del secondo piano.


Dal lato opposto del corpo scale sono state introdotte delle quinte che riproducono una controcorte. Anch’esse celano, dietro la loro forma, delle scale più dirette servendosi delle finestre del secondo piano. Un espediente utilizzato anche da Carlo Scarpa nel Palazzo Abetellis a Palermo o nella Querini Stampalia a Venezia con il ponte abbassato sul canale. Le scale portano agli uffici e alla Sala Consiliare del piano superiore, le quinte occultano due ballatoi sospesi e i servizi igienici. La realizzazione di questa controcorte ha portato ad accentuare le geometrie del palazzo, infatti, già dalla corte si rendono visibili i due passaggi laterali: corridoi, individuati nel prospetto esterno come delle fessure: tagli di luce che penetrano il palazzo. Usciti dal palazzo, grazie a dei gradini incastonati tra i muri si arriva su un podio. Le misure sono quelle della corte sommata al nucleo della biblioteca. Qui una prima terrazza diventa teatro, una macchina per vedere, per definire un orizzonte. Lo spazio è delimitato dalla morbida discesa del terreno e dalle gradinate che, come il teatro

all’aperto di Libera del Palazzo dei

Congressi a Roma, raggiungono una parete. La stessa parete che Giovanni Colacicchi, poeta musicofilo del ‘900 armato di pennello, dipinge in “Allegoria della danza, della musica, della commedia, della filosofia e della poesia per un cinematografo”. Egli concentra in questo dipinto la sua estetica: l’ammirazione per la bellezza del corpo umano, l’amore per la natura, per tutte le arti, per i rapporti ideali tra le forme suggeriti dalla sezione aurea, la divina, rinascimentale proporzione di Luca Pacioli e Piero della Francesca. L’Allegoria è trionfo delle arti. È summa di una pittura ricca di sole e sensualità mediterranee, melodiosa nella sua apparente semplicità, perfetta nella sua geometrica armonia. In questo spazio è possibile perdersi nella magia dei versi, nel misterioso fascino


del suono, cavalcare l’incerto spessore dei sogni. E come nel vario alternarsi di note e pause di uno spartito musicale, colori e sfumature danno ritmo alla forma. La geometria di direttrici verticali, che diparte dal palazzo, prosegue fino al mare. La misura della larghezza della struttura traccia un confine, un limite da cui non è possibile uscire. Come la tendenza a espandersi dei dipinti di Rothko mette in tensione i bordi della tela, così questi assi arginano ciò che è imprevedibilità della natura, carattere ed espressività del suolo. Ciò non è come limitare un dipinto alla superficie della sua tela, bensì produrre una spazialità in cui l’individuo si veda immerso. Alla domanda del perché dipingesse su tele di formato tanto grande, Rothko rispondeva che era per raggiungere quell’intimità, quel corpo a corpo che il piccolo formato non gli permetteva di ottenere […] affinché lo spettatore potesse tuffarsi nel quadro e questo non risultasse un fatto esterno e neutrale, ma un’esperienza che lo superasse e nella quale si sentisse inevitabilmente implicato.” L’artista e l’architetto hanno in qualche modo bisogno di sentirsi la “soglia mediatrice” tra l’uomo e la natura, entrambi hanno il desiderio di “dare un nuovo ordine al disordine” e di “proporre nuovi modelli di accoglienza e soprattutto di adattabilità nei confronti dell’ambiente che lo circonda”. Questo concetto trova corrispondenza nell’ambito teatrale e cinematografico, in cui il “luogo incluso” appartiene al mondo della finzione vissuto attraverso la recitazione. In questa dimensione l’attore è al riparo dal susseguirsi di eventi imprevedibili: egli vive azioni programmate. La soglia, che lo tiene al riparo da ciò che non è conosciuto e previsto, racchiude il palcoscenico oltre il quale vi è il “luogo escluso e selvaggio”. Nel teatro gli attori si muovono attraverso soglie artificiali, che imitano quelle costruite all’esterno. Talvolta gli attori di teatro e del cinema si orientano sul palco sfruttando linee tracciate a terra, “segni sul suolo”, soglie che


definiscono spazi immaginari, costruzioni invisibili. Come sul palcoscenico il segno disposto sul terreno determina punti, linee, superfici che insieme congiungono e dividono, così, in questo caso, alcune volte si tramutano progettualmente in passaggi, tramiti, soste, individuati dall’esistenza reale della sezione del terreno e dall’appartenenza virtuale delle curve di livello. Accanto al teatro, alla fine del podio, un solco è tracciato nel suolo. Una soglia, da cui ha origine un percorso, traccia generatrice del progetto, che solcherà uno spazio camminato e scolpito dal vuoto. Oteiza, il cui lavoro scultoreo si basa su un processo di sottrazione, con cui coincide la realizzazione di un vuoto attivo, scopre che non esiste il vuoto allo stato puro. Infatti, lo spazio esterno penetra nella scultura e conseguentemente lascia impresse le tracce di questo processo di eliminazione della massa. Accade la stessa cosa a questo passage, che presenta delle scale scolpite nella roccia, così come i bizantini sfruttavano i passaggi delle vicine vie istmiche per arrivare nella piana di Sibari sul Mar Ionio. Qui l’individuo è portato a eseguire una pratica di vita importante: passeggiare. Quest’azione è una pausa rispetto all’agire. Essa ci consente di immergerci nel paesaggio accarezzandolo, respirando con il suo respiro. L’individuo diventa insider, ma al tempo stesso outsider, spettatore impegnato nel guardare, con lo scopo di girare senza meta alla maniera del flâneur baudelairiano, o con il preciso fine di visitare questo luogo. Arrivati a una sosta, il passeggiatore ha la possibilità di ritornare sulla strada esistente, perdersi nel paesaggio circostante o continuare il viaggio attraverso il percorso in scavo. La roccia viva viene levigata, ammorsata e reincorporata nella montagna. Alternanza di sopraelevazione del suolo, muri, rampe, penetrazione nella roccia, eco e tutto sembra perdersi in direzione del mare.





FALESIA Lì dove un serpentino sentiero a mezzacosta segna il punto in cui la pendenza del declivio cambia precipitosamente, le scale del percorso scoprono una piazza, una terrazza allungata sulla falesia. Le misure del palazzo ritornano riproponendo le stesse superfici. È una seconda terrazza, un secondo podio, un secondo orizzonte. La piazza è assediata dal continuo trasformarsi dell’ambiente circostante, l’invasione dei caratteri mutabili del sito sono all’assalto. L’architettura come misura del fluire delle cose. È il luogo in cui nulla è rassicurante, conforme e si accetta, invece, lo scontro con il mutevole, come il cespuglio che s’impadronisce di quell’angolo o la labilità del bordo che appare e non appare accanto alla terra di riporto sulla stradina. A una delle due estremità, dietro l’arrivo della scala scultura, vi è un’architettura invisibile all’esterno, tagliata nella roccia, fatta di echi e di ombre. Un pozzo, costruito come le grandi cisterne del passato e i tunnel della terra di Erode. Un’architettura sotterranea che pesca in basso nella profondità di 50 m. e collega l’intero edificio: cavità e antri. Un tunnel verticale dove l’ascensore di cristallo e la fresca penombra sono protagonisti, schiusi unicamente verso il cielo. La piazza diventa sopraelevazione del luogo, copertura


dell’edificio. L’edificio sottostante colma il vuoto che c’è tra il piano artificiale della copertura e la linea naturale della sezione rocciosa. L’unica relazione tra i due elementi sono delle aperture quadrate, che irrompono all’interno, e le scale d’ingresso che riprendono la geometria seguita dall’inizio del percorso. Le scale giungono in uno spazio sospeso: la copertura grava pesantemente mentre un nuovo scenario a 360°, dato dallo svuotamento dell’angolo, rende da un lato la piazza fluttuante. Qui il percorso si divide a causa delle funzionalità private e pubbliche. Il percorso privato consente l’accesso al centro ricerca progettato con le stesse misure di un braccio laterale del palazzo. I tre laboratori sono rispettivamente di biologia, con strumenti piccoli come microscopi, di monitoraggio del parco marino, con strumenti di vivisezione, e un laboratorio chimico, con strumenti grandi e uscita facilitata al montacarichi. Gli spazi serventi, come servizi igienici e deposito rifiuti chimici, sono ricavati nel muro abitato che ospita anche la scala di accesso. Le misure della corte e dell’altro braccio laterale del palazzo, invece, costituiscono l’aquarium e i servizi annessi. Il percorso è quasi interamente scavato nella roccia della falesia e in alcuni punti l’edificio diventa grotta, completamente ipogeo. Grossi setti murari simulano l’entrata di caverne, mentre rendono strutturalmente saldo l’insieme. Invasi scavati nella roccia contengono l’acqua, svelando un mondo fatto di riflessi, immagini mutevoli con una poliedricità di effetti che la luce solare, dosata dai lucernari, crea cadendo dall’alto sul pelo dell’acqua. Suggestioni di una scultura viva, lontana dai rumori del mondo. Come nelle architetture di Francesco Venezia, l’importanza dello scavo è ricorrente, l’obiettivo finale nelle architetture di Zumthor è quello di creare spazi emotivi. Eduardo Chillida è riuscito nel suo progetto scultoreo a


integrare entrambi i concetti nell’opera della Montagna Tindaya, dove lucernari e tunnel lasciano filtrare la luce con effetti affascinanti e consentono di avere in determinate condizioni dell’anno visuali inusuali del sole e della luna. Il piano inferiore, che ospita la caffetteria e il resto dell’acquario, è una sorta di pausa tra interno ed esterno. La visione delle vasche riesce a creare l’illusione di essere in acqua, mentre la roccia che ostinata entra dentro, crea l’unico spiraglio di luce, da cui non si riesce a comprendere se ciò che si vede sia cielo o mare. Dal pozzo si accede all’ultima parte del progetto. Un tunnel porta alle grotte, dove l’acqua corre nei canali, irrompe nelle piscine del centro recupero animali e giace sotto volte e fenditure. Così come le Piscine delle Maree di Siza a Porto, o le antiche Grotte di Tiberio a Sinalunga, vi è un tentativo di realizzare un’architettura integrata nell’ambiente naturale in cui è inserita. Importante ne è la ricerca di un’ armoniosa integrazione tra artificiale e naturale. La roccia è dura e quasi impenetrabile, ma un tunnel di trasporto merci dismesso delle ferrovie, interamente scavato nella roccia, nella falesia accanto, riesce a colmare la possibilità d’impresa anche in questa parte di promontorio. I locali del veterinario del centro recupero animali sono a stretto contatto con le piscine regolate da un sistema di dighe. Gli spazi per i sub sono costituiti da una serie di grotte che comprendono i centri informativi dei sentieri blu, stoccaggio di bombole e vigilanza dei mari del parco. L’ultimo frammento della geometria principale dei percorsi del palazzo è nel piccolo molo proteso verso il mare, lì dove la discesa al mare è compiuta.


Prof.

Arronax:

Voi

amate

il

mare,

capitano?

Nemo: Sì! L’amo! Il mare è tutto. Copre i sette decimi del globo terrestre. Il suo respiro è puro e sano. È l’immenso deserto dove l’uomo non è mai solo, poiché sente fremere la vita accanto a sé. Il mare non è altro che il veicolo di un’esistenza soprannaturale e prodigiosa; non è che movimento e amore, è l’infinito vivente, come ha detto uno dei vostri poeti. Infatti, professore, la natura vi si manifesta coi suoi tre regni: minerale, vegetale, animale. Ventimila leghe sotto i mari




DISEGNI




































DIDASCALIA IMMAGINI Panoramica ai confini della Brettia e della Lucania, Roberta Siciliani Polifemo, statua delle Grotte di Tiberio Tabula Peutingeriana “blu”, Roberta Siciliani “file rouge”, Roberta Siciliani “tra”, Roberta Siciliani “la sedia”, Roberta Siciliani “L’isola che non c’è”, Roberta Siciliani Foto aerea San Nicola Arcella - archivio IGM particolare tratto da un disegno del Museo del Mare, Aldo Rossi Acqua Selvaggia, Poul Klee Schema delle essenze - macchia mediterranea “camaleonte”, Roberta Siciliani scena tratta dal film “L’Avventura”, Michelangelo Antonioni Allegoria della commedia e della musica, Giovanni Colacicchi


Blu verde e marroni, Mark Rothko scena tratta dal film “Le Mèpris”, JL Godard Monte Tindaya, Edoardo Chillida


BIBLIOGRAFIA W. H. Adey, K. Loveland, Dynamic aquaria : building living ecosystems, San Diego, Academic press, 1991 C. Andreoli, Arte in riviera – Panorama d’arte e di cultura del Tirreno Cosentino, Paola, Laboratorio Sperimentale “Giovanni Losardo”, 2008 P. Baldeschi, Paesaggio e territorio, «Riferimenti», 2, Firenze, Le Lettere, 2011

Collana

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