Bugie L’essenza delle Ombre -Lucedi Elisa Gentile © Tutti i diritti riservati all’Autore Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il preventivo assenso dell’Autore. Febbraio 2014
Anche le onde si infrangono Esattamente come il cielo azzurro durante una tempesta di pioggia. Il vento arriva a ululare, il lampo squarcia l’azzurro diventato nero, ma nulla è come le onde. Loro cambiano di secondo in secondo: diventano prima acqua salata, corrono alla rincorsa della fuga e poi si distruggono, trovando la libertà contro la battigia o uno scoglio roccioso. Si sente il loro grido, da qui. Almeno io lo sento bene. Seduta sulle scale in legno di una casa di mare, avvolta da un plaid che ha tutta l’aria di essere caldo e confortevole, ascolto il suono terrorizzato del mare. Urla, non canta. E’ il canto dei gabbiani che confonde. Perché loro scendono verso l’acqua salata, afferrano la loro preda e la portano via, sfamandosi loro e i propri piccini. Chissà quanto lontano è il loro nido. Non ho mai avuto paura del grido del mare, anzi mi è sempre piaciuto ascoltarlo. Sa di libertà, sa di gioco. Sa di evasione e di nuovo di libertà. Perché tutto gira attorno a questo: la libertà. Le onde si rincorrono; prima ne parte una, l’altra la vede e le corre dietro, curiosa su dove stia andando. E così via tutte le altre, che prima criticano l’amica avventuriera e poi perdono tempo nel decidere che fare. Io avrei dovuto farlo prima. Avrei sofferto di meno. Sicuramente. La schiuma bianca della prima onda si fa grossa, spumosa. Ringhia la propria rabbia, poi scoppia in un urlo straziante e si infrange, pregando l’ultimo dolore. E’ finita per lei, ma ne è felice. Chissà quanto ha sofferto, fino a qui. Chiudo gli occhi sul mare, allargo le narici e respiro fino a fondo: che profumo meraviglioso ha tutto questo? La corsa, la rimonta, lo strazio. E poi il coraggio. E infine la morte. Mai sofferta. E’ cercata. La salsedine ha appiccicato le ciocche dei miei capelli, alcune mi sono finite sul viso, graffiandomi il labbro. Non le scanso, anzi. Mi piace sentire il sale sulle labbra, è un sapore buono. Lecco le punte dei capelli come farebbe una bambina durante una lezione noiosa a scuola, o magari all’asilo. Io non l’ho mai fatto davanti alle maestre perché Amelia mi ha insegnato che non sta bene, che una signorina non lo fa. Hanno un sapore buono i capelli, quando sanno di mare. Lentamente, ascolto ancora quella voce stridula che mi arriva alle orecchie come fosse carta vetrata. Quella donna ha grandi orecchini e un piccolo microfono appuntato sulla camicetta celeste. Crede che non si veda la scollatura. Si sbaglia e suo marito glielo farà notare, non appena tornerà a casa. E probabilmente lei ci riderà su, mentre sforna dal microonde un pasto riscaldato. Avrà già dimenticato di aver dato il via alla mia, di morte. All’ultimo grido disperato, prima che tutto finisca. E cenerà con il proprio marito e i bambini piccoli, attorno a una tavola imbandita da bibite e caraffe di vino. Forse mangerà del pollo, stasera. O del sushi, per il quale non ci sarà bisogno del microonde. O forse suo marito ordinerà una pizza e poi si congratulerà con lei per l’ottimo lavoro svolto: ha rovinato Selvaggia Pirelli, gettandola in mezzo alla fossa dei leoni per poi richiudere in fretta la gabbia per non farla scappare. O perlomeno, lei crede io non abbia scampo.
Io invece la via d’uscita ce l’ho. Ed è talmente facile, che mi stupisco di non averla intrapresa prima. Ogni cosa va a finire al mare. Come i messaggi in bottiglia. Come le ceneri di un defunto cremato. Le poche immagini di un video che credono sia mio, che tutto il mondo crede essere il vero volto di Selvaggia, non stuzzicano la mia curiosità. Mi sciolgo dall’abbraccio del plaid e trovo la forza di fare un passo avanti, scendendo le scale in legno della casa. E’ un legno che mi graffia la pianta del piede, un legno che non viene mai trattato, o che è semplicemente rovinato dalla salsedine e dal vento. Poi accarezzo la sabbia morbida e affosso di poco fino alle caviglie, avanzando verso il mare. Il vento scuote i miei capelli prima a sinistra poi a destra, impedendomi di guardare bene il mare e i gabbiani volare lì sopra. Ma è così bello, non sento nemmeno i brividi percorrermi il corpo: non sento più dolore. Nemmeno qui dove dei tagli netti mi hanno lacerato la carne e fanno scorrere la rossa linfa vitale che esce e macchia la sabbia, con grosse e dense gocce. Quelle anche resteranno impresse, come impronte. Per scomparire cancellate dal vento o dall’acqua. Quanto è piacevole la brezza tra i capelli, quando l’acqua calda del mare ti accarezza i piedi e capisci di essere pronta a infrangerti anche tu. A prendere la rincorsa, guardare avanti senza pensare più al passato. Ci sarà solo il benessere, da ora. Ci saranno la luce e il bianco a raccogliere il mio sangue, il mio respiro e i miei occhi chiusi. E ci sarà la mia bambina, pronta a corrermi incontro. Potrò riabbracciarla, perché non ci ho pensato prima? “Sarà bellissimo, amore mio.”, penso e sorrido. Sarà perfetto come avrebbe sempre dovuto essere. Mi faccio pesante, perché le mie vesti bianche si inzuppano di acqua, già piene di sale e schiuma. Mi immergo, straziandomi solo per un istante per il bruciore sui tagli ai polsi. Ma tanto passa. E’ il sale. Non mi volto indietro. Penso che finalmente sta finendo tutto. Finalmente. Qualche onda rinascerà, più forte di prima. Loro hanno la forza di ricominciare, di rinascere dopo essere morte. Loro possono farlo. Io non voglio. E non potrò.
PARTE I Capitolo 1 Jayden Mi fiondo tra le porte scorrevoli del Pronto Soccorso senza attendere che si siano aperte del tutto. C’è troppa confusione, ho l’impressione di soffocare non appena mi giro per localizzare la reception. Sarà per la vista annebbiata dalle lacrime, ma anche per le mani che mi tremano. Le chiavi della macchina mi scivolano a terra, perdo tempo a raccoglierle, impreco e corro verso il bancone d’informazione alla mia destra, dove c’è una donna impeccabile, con i suoi occhiali da vista calcati sul naso. «Selvaggia Pirelli, mi dica dove posso trovarla, per favore!» «Mi perdoni, ma se non è un parente non le posso dare questa informazione.» «La prego, mi ascolti.» appoggio i gomiti sul bancone senza nascondere il viso rigato dalle lacrime. Qualunque cosa pur di vederla, anche implorare questa cazzo di donnina con gli occhiali da vista «Devo vederla, la prego. Per favore, la supplico.» Le sopracciglia della donna si incurvano verso l’alto, sembra combattuta ma scuote nuovamente la testa con decisione. «Mi dispiace. Ci è stato dato ordine di non far passare nessuno. Può aspettare qui se lo desidera. Non posso fare altro, sono spiacente.» Sembra dispiacersi davvero, abbassa lo sguardo sullo schermo del pc e batte qualcosa sulla tastiera. «Allora?» mia sorella mi arriva contro, ha il fiatone e Joel è dietro di lei. «Non ci fanno passare, non mi dicono dov’è.» le spiego, cominciando a sentire il magone montarmi in gola «Oddio! Oddio, Selvaggia!» Non posso credere a quello che sta accadendo! Tremo all’idea di quello che lei può aver fatto, la parola suicidio è così dura, bestiale, al punto da lasciarmi senza fiato. Sento mia sorella implorare la donna dietro il bancone, porto le mani sui fianchi e comincio a singhiozzare come un bambino. Come ho potuto farle tutto questo? Come ho fatto a non capire, a non rendermi conto che quella donna non poteva essere lei? Sono stato così cieco e talmente plagiato da Monya, da non osservare con occhi attenti la donna che ha riempito la mia vita per due anni? Mi si ferma il cuore se solo penso a quanta sofferenza le ho creato, per che cosa poi? Sono stato uno stupido per non aver capito che ci doveva essere per forza qualcosa che non andava in tutta quella faccenda. Perché non mi sono posto quelle domande fondamentali che mi avrebbero fatto aprire gli occhi in tempo, ancora non me lo spiego. So solo che quando Ava mi ha messo davanti Cristal, ho come riaperto gli occhi dopo un sonno lunghissimo fatto di incubi. Ho capito l’errore, troppo tardi. Rischio di cadere rovinosamente a terra, vittima di un furioso giramento di testa. Vorrei mettermi a gridare di farmi vedere Selvaggia perché lei ha bisogno di me, ma mi chiedo se sia davvero la realtà. Perché dovrebbe volermi vedere, in fondo? Io sono stato il suo carnefice, colui che le ha rovinato la reputazione e la vita. Mi sono vendicato per qualcosa che non esisteva. Le ho strappato via la vita, uccidendo la nostra bambina. Se solo l’avessi ascoltata, se mi fossi fermato a ragionare… lei non ha mai concepito il tradimento, come avrebbe potuto farlo? Perché sono stato tanto cieco? La disperazione lascia spazio alla rabbia, quando mio fratello entra dalle porte dell’ospedale, tenendo per mano Faith.
E’ successo tutto a causa sua. Non appena incrocia il mio sguardo si blocca e si nasconde dietro la schiena di Zayn, gli occhi che mi scandagliano impaurita. Conosce questo mio sguardo, sa cosa vuol dire. Ma non ha certo idea di cosa sarò capace di fare, adesso. «Ci sono novità? L’avete vista?» scuoto la testa continuando a fissare gli occhi spaventati della sua donna «Ma che diavolo è successo?» «Ha tentato il suicidio.» rispondo scandendo le parole tra i denti. Mio fratello sembra gelarsi sotto le mie parole. Lo vedo allentare la presa alla mano di Faith e impallidire. «Che hai… detto?» «Selvaggia ha tentato il suicidio.» ripeto e stavolta lo guardo dritto negli occhi, lasciando scivolare via un’altra lacrima amara «Ha cercato di ammazzarsi.» Zayn resta attonito, muove gli occhi per cercare una qualche spiegazione, ma non riesce più a parlare. Faith invece emette un gemito e china il capo. Colpevole, disperata per la prima vera volta in tutta la sua vita. «Non è possibile. Perché?» Da questa domanda di Zayn, mi accorgo che non posso dare tutta la colpa a Faith e Monya. Per gran parte è solo mia: io l’ho umiliata, l’ho costretta a una punizione troppo severa che comunque nemmeno meritava. «La colpa è mia.» confesso, gettandomi nello sconforto. Come Faith, abbasso il capo e cerco di immaginare gli occhi grandi e verdi della piccola Selvaggia, disperati mentre compie quel gesto estremo. Non mi sono neanche chiesto come l’abbia fatto, perché è inconcepibile anche solo provarci. «Che cazzo hai combinato ancora? Non ti bastava, eh?» mio fratello mi afferra per il bavero della camicia, strattonandomi verso di lui con ferocia «Che cazzo le hai fatto, bastardo?» Non ho la forza di respingerlo. Anzi, dentro me lo prego di picchiarmi a sangue, di lasciarmi agonizzante a terra. Me lo merito. «Zayn, calmati. State calmi, siamo in un ospedale.» Ava allenta la presa di mio fratello, guardando me con rimprovero e cautela. «E tu chi sei?» azzarda Zayn, indicandola con un cenno del capo, poi si gira istintivamente come fa spesso, cercando Faith che rimane alle sue spalle. «Sono Ava Ramirez, l’avvocato di Selvaggia.» si toglie un giacchetto leggero e lo piega sul braccio, guardando prima me e poi lui «Voi due non potete stare qui se volete battervi. Siamo qui per lei, non per cercare un litigio tra fratelli, giusto?» I suoi tacchi risuonano fino al bancone, dove mia sorella sta ancora cercando di convincere la donna della reception a lasciarci passare, inutilmente. Mio fratello trattiene un impeto di rabbia ma so che è solo questione di tempo e scoppierà, come il peggiore dei tuoni. Ho la sensazione che il volto di Faith si sia fatto scarno e che patisca un paura rimossa fino ad ora. Me ne accorgo nel momento in cui Ava nomina la parola avvocato e la squadra per pochi istanti decisivi. Quel tanto per farle capire che lei sa, che è solo questione di minuti. Poi la bella maschera da donna insensibile le scivola via, all’improvviso. Si copre il volto con le mani e comincia a piangere forte, tanto che i suoi singhiozzi rimbombano nell’atrio. «Tesoro! Tesoro, andrà tutto bene.» Zayn non immagina, non sa. Nemmeno pensa che la sua donna possa essere così cattiva, perfida e calcolatrice. Vendicativa, come forse neppure una vedova nera. La consola stringendola a sé e a me viene da sorridere, per la pietà che provo per lui. «Selvaggia è in rianimazione, Ava sta chiedendo di poter passare…» anche Lily aggrotta le sopracciglia davanti alla reazione fin troppo strana di Faith. Io scuoto la testa, sdegnandola. E’ accaduto tutto perché lei l’ha voluto, ha saputo tessere una trappola perfetta ma non poteva immaginarsi un risvolto simile, alla fine dei giochi.
«Vattene, Faith. O ti si scioglierà tutto il trucco, così.» il mio tono è pungente e cinico, quanto basta per farle alzare gli occhi e lasciarle capire: so tutto. Le tremano le spalle e scivola tra le braccia di Zayn, aggrappandosi a lui. «Jade, non qui.» Ava mi afferra per un braccio stringendo i denti e la presa, per calmarmi «Verrebbe tutto a galla, Jayden. Ragiona.» Nella sua voce c’è qualcosa di oscuro, che non afferro immediatamente. Ma le basta farmi un cenno con gli occhi verso Zayn perché io capisca: verrebbe fuori la mia relazione con lei, i tradimenti verso mio fratello. E lui ne morirebbe. Purtroppo so che è solo questione di tempo. Mi allontano dandole un’ultima occhiata e, con le mani ancora sui fianchi, resto con la schiena ricurva e la testa affollata dai pensieri. Ora che tutti i pezzi di questo folle puzzle sembrano essersi rimessi in ordine, formando un quadro agghiacciante, non desidero altro che vedere Selvaggia. Non importa se non vorrà ascoltarmi, o se mi crederà pazzo, o ancora una volta mi darà del patetico: mi metterò ai suoi piedi, striscerò finché non otterrò il suo perdono. Ma prima deve uscire da qui con le sue gambe, deve stare bene e deve… Dio mio, mi scoppia il cervello! Mi sento talmente stupido che rido di me stesso e, scuotendo la testa, immagino di liberarmi di tutto questo, fingendo che non sia mai esistito. Quando Cristal ha confessato di essere stata pagata per impersonare Selvaggia e Ava mi ha parlato di intercettazioni tra Monya e Faith, ho sentito il cuore pomparmi di nuovo nel petto: non ho mai voluto ammetterlo a me stesso ma ho sempre sperato che tutto fosse falso, che ci fosse qualche spiegazione logica a quelle fotografie. Ma ora che ne ho la prova, mi sento il primo condannato nel mondo. Io ho creduto al falso, ho cancellato due anni tra i più belli di tutta la mia vita per inseguire una menzogna. Non mi sono mai preoccupato che potesse esserci alternativa, era rimasta solo una mera speranza in fondo alla mia mente. Se solo avessi ascoltato quella voce, se solo avessi dato retta a quella parte di petto che mi gridava di credere a Selvaggia, di indagare meglio, ora non saremmo qui a trepidare per il suo gesto estremo. Io non l’avrei mai sputtanata con tutta New York, la nostra bambina sarebbe viva e probabilmente saremmo felici insieme. Perché ora è anche chiaro come il ritorno di Monya sia stato architettato nei minimi dettagli, per gettarmi nella confusione più assoluta. Guardo nuovamente in direzione di quella maledetta donna abbracciata a mio fratello e comincio a farmi chiaro il quadro che lei stessa ha creato. Aveva riconosciuto Selvaggia, l’odio per ciò che è accaduto alla madre non l’ha mai abbandonata e, quando ha capito che lei non sarebbe stata una semplice avventura per me, l’ha colpita nel peggiore dei modi. Ha fatto leva sul mio punto debole: Monya. Ha escogitato il modo di farla riavvicinare, di farmi patire la sua lontananza e alla fine di precipitare giù. E Monya è stata così furba da fare un ottimo lavoro, di stregarmi come aveva fatto un tempo fino a riottenere il suo ruolo di rilievo al mio fianco. Tutto questo per ferire Selvaggia e farle pagare un prezzo che a lei non spettava, quando lei non c’entrava niente! Mi è sempre stata evidente la superbia di Faith, ma che arrivasse a essere tanto cattiva non l’avrei mai immaginato: avrei preferito che colpisse me, per la nostra relazione clandestina alle spalle di Zayn, non Selvaggia. Questo non posso accettarlo. Ha commesso un grave sbaglio e lo pagherà caro. L’ultima cosa a terrorizzarmi, adesso, è il timore che Zayn venga a conoscenza di tutto. Non mi importa, non me ne fotte un cazzo: pagherò un prezzo ancora più alto se Selvaggia non si salverà. Sospiro agonizzante un magone di pianto, appoggiato al muro freddo dell’atrio. Voglio correre da lei, voglio guardarla negli occhi e chiederle perdono: voglio giurarle che mi dispiace e che posso rimediare, voglio rimediare. Voglio un’altra possibilità.
Tutto questo perché sono rinato una seconda volta nel momento in cui ho scoperto che non era lei quella donna meschina nelle fotografie e nel video. Ho capito di amarla. Spero solo non sia troppo tardi per ammetterlo. Mia madre e mio padre arrivano di volata in ospedale, seguiti da altra gente che ho intravisto alla festa in maschera. I flash e i giornalisti armati di telecamere fuori dalle porte mi infastidiscono: non ne hanno mai abbastanza? Mentre si aprono e richiudono le porte scorrevoli, sento una donna accennare, in un collegamento, al video che circola già da ore sul web e di come questo potrebbe aver inciso in un modo definitivo su Selvaggia. Tremo all’idea che possa aver tentato il suicidio dopo aver visto quel video. Sarebbe dunque solo colpa mia, come tutto, del resto. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, facendola capitolare giù, fino a schiantarsi nel fondo di quel burrone profondo e buio. Ha cercato di evitarlo così a lungo durante gli anni e proprio io le ho dato la spinta decisiva per gettarsi. Oddio, mi sento morire. No, no, no! Non può essere vero, non deve finire così! Abbasso la testa e ricomincio a singhiozzare, schiacciandomi gli occhi con l’indice e il pollice di una mano. L’altra è affossata dentro la tasca dei pantaloni del completo, alla ricerca di un modo per non tremare, di non farlo notare. La mia piccola Selvaggia. Come ho potuto credere di non amarla più? Non ho mai sentito il mio cuore battere in questa maniera, si è gonfiato e schiaccia contro la gola, cercando un modo per uscire. Preferirei morire piuttosto che restare con questo magone mentre attendo un verdetto amaro e inquietante: l’ho tradita nel peggiore dei modi, l’ho delusa come nei suoi peggiori incubi. Anche se uscisse di qui ora, so che dovrei patire le pene dell’inferno per avere il suo perdono. Soffrire non mi spaventa, vorrei solo poterla stringere, farlo subito, portarla via e convincerla che la amo, che l’ho sempre amata, dirle che ancora non sapevo, non capivo. L’ho negato per mesi, dicendomi che era stata una cosa di passaggio, ma in realtà so che è sempre stata lei: l’unico mio amore. Solo quando le cose cui tieni ti scivolano dalle mani e ti vengono strappate via, capisci quanto valore avessero. E io a lei ci tengo, io vivo per lei. Nulla ha più importanza se lei non esce di qui e non mi perdona. Stavolta, però, resterò in silenzio quando mi dirà che sono patetico o anche peggio: mi merito tutto, anche la disgrazia del suo odio eterno. Ascolto mia madre gemere di disperazione tra le braccia di mio padre. Lui ha chiuso gli occhi su di me, non mi guarda da quel pomeriggio a villa Stewart. Ora men che meno vorrebbe cercare uno scontro con me. E’ dilaniato, tagliato a metà e io lo sono quanto lui. Anche peggio, perché ho capito che ha sempre avuto ragione, che non avrei mai dovuto voltargli le spalle e anzi mi sarei dovuto affidare a lui per proteggere Selvaggia e non lasciarmi ingannare. Mi domando solo come la prenderà mia madre quando scoprirà chi ha architettato tutto; è affezionata a Faith, l’ha accolta in famiglia come una figlia e non si è mai preoccupata di avere alcun dubbio su di lei. Resterà squarciata in due, si sentirà ferita e delusa. E non oso immaginare la reazione di Zayn a tutto questo. Lo guardo da lontano e non riconosco lo sguardo consapevole e fiducioso che da sempre gli disegna un viso così diverso dal mio. E’ preoccupato e l’afflizione per Selvaggia lo fa piangere da ore, ma nei suoi occhi c’è anche lo smarrimento nel vedere la propria donna così disperata. Una reazione che non si aspettava. Le accarezza la schiena confortandola ma non è convinto: la guarda in continuazione, ne studia i lineamenti senza capire. E’ confuso, ma non credo che sappia cosa lo aspetti tra poco. Non sarò io comunque a informarlo dei fatti.
«Cazzo.» sbianco non appena le porte scorrevoli si aprono facendo largo a un uomo alto, capelli biondi e occhi celesti. Dietro di lui, cinque agenti in divisa mortalmente seri. Ava deglutisce al mio fianco, è anche lei attonita ma sa di non poter fare niente per evitarlo; avrebbe voluto avere più tempo, come me, per spiegare tutto alla mia famiglia e ai media. L’uomo in giacca e cravatta avanza, fermandosi davanti a Zayn e Faith, che ancora tenta di nascondersi dietro le spalle muscolose di mio fratello. «Miss Wood, la prego di seguirmi.» tossicchia per non dare troppo nell’occhio. «Come dice, prego? E lei chi è?» si fa avanti Zayn, ignaro di tutto. L’uomo allenta l’apertura della sua giacca e dalla tasca interna estrae un distintivo della Polizia, lucido da brillare controluce. «Sono il detective Turner.» gli risponde deciso, per poi alzare con uno scatto il mento e rivolgersi direttamente a Faith «La dichiaro in arresto, Miss Wood» «Come? Che stronzata è? Per quale motivo?» Faith geme terrorizzata, e si aggrappa alla giacca di Zayn, implorando con gli occhi verso il detective e agli uomini che le si avvicinano «Non toccatela! Non avete alcun diritto.» tende un braccio e allontana Faith dai poliziotti, facendola indietreggiare. Il detective lo guarda corrucciato. Io posso capire quello sguardo di sfida di mio fratello ma lui no. Vorrei gridare a quell’uomo di non farlo così, di dar tempo a mio fratello perché non ne sa niente. «La sua fidanzata è accusata di diffamazione, persecuzione privata aggravata, produzione di materiale pornografico falso, calunnia e omicidio colposo.» Sul volto di mio fratello cala il gelo, diviene un cadavere. Tutti noi restiamo in silenzio. Io e Ava siamo consapevoli, sappiamo bene che quello che dice il detective è vero, ma fatico ancora a crederci. Mia madre è allibita, si avvicina incerta nei passi guardando sconcertata Faith e poi il detective. «Che sta dicendo? C’è… c’è uno sbaglio, vero? Vero, Faith?» mia madre mi fa pena: la implora con lo sguardo, cercando una spiegazione che però non trova in quel celeste acceso. «Nessuno sbaglio, Mrs. Stewart; la signorina è coinvolta nello scandalo che ha travolto Miss Pirelli. Miss Hell ha fatto il nome di Miss Wood, accusandola di essere la mente di tutto.» Penso immediatamente che Monya non si smentisce mai. Non mi sono minimamente preoccupato di che fine abbia fatto, fino a ora, ma credo di averlo compreso adesso: è stata portata via dagli agenti giunti a villa Wood quando io ero già diretto in ospedale. «Zayn! Zayn, mi dispiace.» «E’ vero?» ruggisce mio fratello incredulo. «Mi dispiace, te lo giuro. Io non pensavo… io non volevo, te lo giuro, amore!» Faith piagnucola, ma a niente serve perché mio fratello sembra essersi fatto di marmo. Un poliziotto l’afferra per un braccio e le porta i polsi dietro la schiena agganciando le manette. Lo scatto che fanno rimbomba nella mente di ognuno di noi. Zayn continua a guardarla, stavolta senza più amore o preoccupazione. E’ in piedi dritto sulle sue gambe, ma non sa di esserlo sul serio. Nei suoi occhi chiari passano lampi di orrore, incredulità, rammarico. Ma anche atrocità, devastazione e tutto il dolore che questa cosa gli sta arrecando. «Mi dispiace tanto. Mi dispiace.» «Mamma!» io e mio padre afferriamo alla svelta mia madre che si accascia su una sedia, sconvolta. Scuote la testa poi scoppia in lacrime coprendosi il viso, fregandosene dei mille flash che immortalano Faith, mentre esce dall’ospedale scortata e ammanettata dalla Polizia.
«Dovremmo fare anche qualche domanda a lei, Mr. Stewart.» si rivolge a me il detective. Poi si schiarisce la voce, indicandomi con lo sguardo mio fratello e mia madre «Ma non mi pare questo il momento. Si tenga comunque a disposizione.» «Che fine ha fatto quell’altra?» chiedo gelidamente, accarezzando le spalle a mia madre. E’ ghiacciata, temo possa svenire da un momento all’altro. «E’ stata arrestata poco prima di Miss Wood. Ora, vogliate scusarmi.» si congeda facendo un ultimo cenno ad Ava. Mi inginocchio davanti a mia madre, guardandola come spesso facevo da bambino. Non mi è mai piaciuto vederla piangere, il suo viso si fa così… piccolo e sofferente. So che non piange per Faith ma per suo figlio: accetterebbe qualunque cosa ma non la sofferenza dei propri figli, lei. Ha sempre preferito sacrificarsi, pur di non veder piangere me, Lily o Zayn. «Mamma, calmati. E’ tutto a posto.» Zayn si accovaccia al mio fianco. Singhiozza brevemente e poi ingoia un groppo, accarezzandole il volto rigato di lacrime «Ehi, va tutto bene.» «Zayn! Amore mio, tesoro.» l’abbraccio con cui travolge mio fratello è straziante: lui si solleva di poco appoggiando un ginocchio a terra per accogliere meglio le braccia di mia madre. Lei lo stringe forte, tremando. Si fidava di Faith, ci fidavamo tutti di lei e di certo non la credevamo possibile di tanto orrore. Mio padre mi tocca una spalla, stringendo di più finché io non alzo lo sguardo. Mi fa un cenno invitandomi ad avvicinarmi al muro dov’ero appoggiato prima. «Hai chiesto al detective di Monya: c’è qualcosa che dovrei sapere, Jayden?» Tengo gli occhi puntati a mia madre e Zayn, che si siede al suo fianco e lascia che lei appoggi la testa sulla sua spalla, ma parlo deciso. Ormai non ha più alcun senso rimandare. «Faith credeva di avere un conto in sospeso con il padre di Selvaggia. E’ lei che architettato tutto: le fotografie, i video, lo scandalo. E Monya è stata sua complice.» «Cristo.» mio padre chiude gli occhi abbassando la testa sconfitto. Io guardo mio fratello strofinarsi gli occhi, le spalle larghe gli tremano mentre ancora una volta piange e viene abbracciato da mia sorella «Si è inventata tutto, per cosa?» «Una vendetta contro il padre di Selvaggia.» che è qui. Lo so perché ne ho avuto conferma da Ava. Penso che prima o poi mi si spezzeranno i denti per come li digrigno con forza: non posso pensare che i genitori di Selvaggia siano stati gli stessi fautori della sua infelicità, prima di me. «Ora capisci che ho sempre avuto ragione, Jade?» mormora mio padre con la voce incerta per il pianto. Mi volto verso di lui e vedo una lacrima rigargli gli angoli spigolosi del viso. E’ colpito nel vedere sua moglie soffrire in questo modo atroce. E anche lui farebbe qualsiasi cosa per rendere la vita facile a noi figli. «Vorrei solo che mi perdonasse, adesso.» sono afflitto dal più profondo odio per me stesso, non trattengo il pianto che scoppia ogni qualvolta io ripensi a come abbia potuto confondere una donna totalmente diversa con lei «Dio, lei… lei è troppo importante, papà!» Non spero in una parola di conforto, che infatti non arriva. Piango solo e in silenzio. La notte è diventata alba. Le prime luci del giorno rischiarano il buio del cielo e una brezza fresca allontana il caldo di un’intera notte passata tra dentro e fuori l’ospedale. Zayn è ancora piegato su una sedia, le mani intrecciate tra loro e lo sguardo perso nel vuoto. Sembra un animale abbattuto, in agonia per il colpo che gli hanno inferto.
Non avrebbe mai dubitato di Faith, lui ne era davvero innamorato. Voleva sposarla, santo Dio, mentre lei pensava solo a vendicarsi di Carlo Pirelli colpendo sua figlia. Non mi sono mai avvicinato, per rispetto al suo dolore. E perché sarebbe troppo per me guardare quegli occhi di solito decisi, piangere e disperarsi e continuare a chiedersi il perché di una cosa così folle. Mia madre è scivolata in un sonno agitato assieme a Lily, eppure nessuno di noi ha deciso di lasciare l’astanteria del pronto soccorso. Non abbiamo avuto notizie di nessun genere; la donna dietro alla reception si è limitata a offrirci un caffè caldo e una coperta leggera per Lily e mia madre, ma ha scosso vigorosamente la testa quando l’ho implorata ancora una volta di farmi accedere al reparto dov’è ricoverata Selvaggia. L’unica che ha avuto modo di avvicinarsi è stata Ava, salita più di un’ora fa. Mi sto trattenendo dal telefonarle per avere almeno da lei qualche notizia. Ha detto che sarebbe scesa non appena avesse saputo qualcosa ma i minuti si sono fatti ore interminabili. Ore in cui non ho dormito, in cui ho allentato la mia camicia sul petto e ho continuato a passeggiare tra le porte scorrevoli e il cortile dell’ospedale. Ho terminato le sigarette, ma l’uomo che era accanto ad Ava questa sera me ne ha offerte diverse per tamponare la mia disperazione. E’ il suo uomo, il suo compagno di vita. Vive con lei, dorme con lei. La ama e la rispetta. Proprio come io avrei dovuto fare con Selvaggia. Non riesco a darmi pace, mi sembra di impazzire! Risvegliatomi da un incubo durato mesi, mi sono reso conto di amarla ancora, di rivolerla al mio fianco. Non è solo senso di giustizia o bisogno di riscatto: io ho bisogno di lei. Ho bisogno della sua presenza costante e dei suoi sorrisi, di quegli occhi di un verde abbagliante e dei suoi capelli lucenti, che avevano il potere di riflettere il sole. Lei era riuscita a rendermi un uomo migliore e non era stato solo un miraggio: lei ci era riuscita davvero. Rientro di nuovo in ospedale, ascolto un messaggio all’altoparlante rivolto al personale medico e mi avvicino a mio padre, seduto accanto a mia madre. Mi alzo i calzoni sulle cosce e mi accomodo anch’io, sentendo di colpo la stanchezza. Mio fratello non alza mai gli occhi su di me né su nessun altro. E’ immerso nel suo mondo, non sembra neppure presente qui. Non si desta nemmeno quando le porte di un ascensore si aprono e ne escono Ava e un gruppo di infermieri al cambio turno. «Ava! Allora?» Balzo in piedi, con me mio padre. Mia madre e Lily sembrano avvertire la sua presenza e si avvicinano assieme a Joel e a Matt, l’uomo di Ava. Ha gli occhi lucidi e gonfi: ha pianto e non poco. Inoltre è turbata e impietrita, incapace di emettere un solo fiato senza che le labbra le tremino. Mi basta questo per gettarmi nuovamente nel panico e intuire che c’è qualcosa che non va. Poi, una frustata di puro dolore al cuore che mi uccide. «Selvaggia è in coma.»
La targhetta appesa alla porta La grande casa sulla spiaggia è immersa nel silenzio. Solo il rumore delle onde rompe il meraviglioso suono dello scricchiolio del parquet a terra. Non è molto nuovo, ma la zia lo ha laccato di bianco poco prima dell’estate e ora sembra rinascere sotto il lucido attacco della vernice. Mi piace camminare a piedi nudi sul parquet verniciato; con le dita, in punta sento l’appiccicaticcio della salsedine e le fughe che delimitano le assi di legno mi solleticano la pianta, facendomi sorridere. Il sole irrompe prepotente dalle persiane appena accostate. Mi è sempre piaciuto il profumo di questa casa: mare, peonie e lavanda. La zia ha sempre lasciato aperte le finestre per far entrare l’odore del mare, ma non ce n’è davvero bisogno; l’imponente casa si affaccia sull’oceano, di notte se ne sente il suono e le mura sono intrise di delizioso profumo. Vedo tende velate e bianche? La zia non le aveva messe di un rosso vivo, l’ultima volta? Ma sono passati anni, probabilmente le ha cambiate questo inverno. Mi piacciono, comunque: risaltano la purezza di questa casa. Mi attacco al passamano della scala, accarezzo con le dita il legno lucido e levigato e arrivo al corridoio del reparto notte. Non c’è nessuno in casa. Ci siamo solo noi: io e la mia bambina. So che è qui, la sento cantare. Con quella vocina lieve e sottile, stona la sua ninna nanna, ma azzecca tutte le parole. Attraverso il corridoio inondato di sole godendomi il suo canto e quello del mare, delle onde che si infrangono contro gli scogli a metà oceano; mi fermo a osservare questo spettacolo da una finestra aperta. Che colori stupendi: la schiuma è bianca e spumosa, il celeste accompagna l’ultima corsa, mentre il blu intenso prepara il mare a muoversi e prender forza. Amelia mi ha sempre raccontato che, dove il mare è più blu, ci vivono i delfini. E le sirene che di notte si affacciano agli scogli cercando qualche umano da poter ammaliare con la propria bellezza. Io sogno di vederne una, un giorno. E chiederle di portarmi con lei in quel luogo incantato che è il fondo del regno marino. Gioia si divertirebbe tanto. La sento intonare un’altra strofa, sbaglia una parola ma continua riprendendosi subito. La mia piccola, meravigliosa cantante. Avanzo fino alla porta di quella che era la mia stanzetta, quando venivo qui in vacanza con Amelia. «Oh!» la zia ha lasciato tutto com’era, non mentiva. La targhetta di legno appesa con un chiodo dorato è ancora affissa alla porta bianca. Le varie bancarelle di zona non vendevano targhette col mio nome. In effetti, non molte donne qui in America portano il nome Selvaggia ed è sempre stato un grosso problema. La zia, tenendomi per mano, aveva rifiutato di comprare targhette con il nome SALLY, o SAL. Lei mi ha sempre chiamata “Selvaggia”, o “gioia mia”, ma mai Sally. Un indiano l’aveva quasi convinta ad acquistare una di queste targhette e lei mi aveva guardata dispiaciuta. Non sapeva disegnare, non avrebbe potuto farmene una lei. Ma poi aveva alzato gli occhi e aveva notato un piccolo banchetto peruviano dove una donna, dai lunghi capelli intrecciati, disegnava con un pennello dalla punta sottile delle targhette da affiggere alle porte o al muro. Si era avvicinata, tentando l’ultima possibilità. «Quanto vuole per il nome Selvaggia?»
La donna peruviana, dagli occhi neri come la notte, mi aveva guardato e aveva sorriso. Aveva preso una lastra di legno compensato, vi aveva tracciato due linee con la matita, e poi aveva cominciato a dipingere il mio nome, riempiendolo di farfalle e colori. Ne era uscito un capolavoro. Lo aveva lasciato asciugare e poi si era alzata in piedi, vi aveva legato un cordoncino che serviva per appenderla e me l’aveva poggiata tra le mani. «Hai un nome bellissimo: porterai amore, calore e luminosità a chi avrai accanto. Tu hai un dono.» Mi aveva regalato la targhetta, dicendo che per lei era stato un onore dedicare tanto tempo a disegnare il mio nome. La zia l’aveva affissa subito alla mia porta e lì è rimasta fino a ora. Il colore non si è sbiadito ma il compensato ha risentito della salsedine e si è un po’ corroso. La voce di Gioia mi fa spingere di poco la porta ed entro nella stanzetta che mi ha ospitata per anni: è rimasta com’era. La grande libreria a sinistra è ancora intatta, nonostante gli anni e il forte terremoto di tempo fa. Amelia l’aveva fatta fare a suo figlio; nove cubi, perfettamente uguali e incastrati tra loro, che io avevo riempito di libri di fiabe e pupazzetti colorati. Cavoli, quanti peluches! Ne conto trentadue solo sulla libreria. A terra e fino al letto si stende il grande tappeto anch’esso peruviano, colorato di rosso, verde e blu. Ama i colori, la zia. E’ sfilacciato, ormai lisato dal tempo, ma ancora lucente e colorato quasi fosse nuovo. Sulla scrivania a fianco del letto c’è Yo, il simpatico asinello amico di Winnie the Pooh. Quello me lo regalò il figlio di Amelia tornando da una delle sue avventure. Lo aveva comprato in una stazione ferroviaria e me lo aveva regalato per il mio quinto compleanno. E’ bellissimo, con il codino che dondola fuori dalla scrivania, il muso sorridente e gli occhioni che ti guardano. Appoggiato sulla scrivania c’è anche un barattolo di metallo che avevo raccolto dalla spiaggia, quando ero piccolina. Accidenti, quanto si era arrabbiata Amelia quando mi aveva vista arrivare a casa con quel pezzo di latta arrugginito. Mi aveva sgridato moltissimo, rimproverandomi che avrei potuto tagliarmi. Ma poi mi aveva aiutato a decorarlo con pietre di mare e conchiglie e lo avevamo riempito con una gomma per cancellare, due matite, i colori pastello e due penne. Sono ancora lì, ma di certo le bic non funzioneranno più. Un momento! Io scrivevo tantissimo quando venivo qui! Avevo un quadernone che conservavo gelosamente. Il rumore del mare qui si sente più forte e Gioia, seduta sul letto e rivolta verso la finestra, confonde il suo canto con quello delle onde. La ascolto e mi ricordo che, quando ero piccola, Amelia si sedeva proprio in quel punto e mi leggeva una fiaba, prima che io mi addormentassi. Apro il cassetto centrale della scrivania mettendo un po’ di forza e il rumore dello scatto fa voltare Gioia verso di me. Ha i suoi stessi occhi blu che mi fermano il cuore; ma il mio sorriso che mi fa tornare a respirare. «Continua, amore mio.» lei annuisce, si volta e riprende, muovendo i piedini avanti e indietro, a penzoloni sul letto. Eccolo! Ancora intatto, anche se invecchiato, c’è il quadernone! Sempre di Winnie the Pooh, la copertina è scarabocchiata di colori intensi e il mio nome è scritto dalla mia mano piccola. Avevo sì e no cinque anni quando lo scrissi. Lo ricordo bene perché dimenticavo sempre la “i” prima della “a”. Lo porto con me fino al letto e poi mi siedo, assaporando la morbidezza del materasso.
Il piumone è a fiori, come quelli che tanto piacciono alla zia. Comincio a sfogliare le pagine riempiendomi gli occhi di ricordi. Che scrittura buffa e ordinata! Amelia voleva che io scrivessi bene e restava sempre al mio fianco, anche quel giorno quando scrissi del nostro arrivo qui al mare. “20 giugno 1999 – siamo arrivate! Caro diario, oggi Amelia ed io siamo arrivate dalla zia. E’ stato un viaggio lungo ma James si è fermato qualche volta e mi ha comprato anche un gelato. Era al gusto di mirtillo e mi è piaciuto tanto. Sono stata molto attenta e non ho sporcato il vestitino nuovo color avorio che mi ha regalato Amelia, sono stata brava. Ora mi cambierò e metterò il costumino nuovo per fare un tuffo, ho voglia di nuotare con Bea!” Avevo anche disegnato una piccola barchetta e le onde del mare, con i pastelli blu e marroni. Bea è stato il mio primo cucciolo di cane, arrivata prima di Venere quand’ero bambina, l’avevo disegnata più come un orsetto che un cane, ma era ugualmente la mia Bea! «Selvaggia! Selvaggia! Oh, mio Dio! Selvaggia!» La voce acuta e terrorizzata di Amelia non mi preoccupa. Però la mia piccola Gioia smette di cantare e si guarda attorno spaesata. «Non è niente, amore. Continua.» la invito. Mi distendo fino ad appoggiarmi su un gomito e sfoglio il quadernone, restando accanto alle gambine della mia bambina. «Carlo! Carlo, corra qui! Presto!» Amelia grida il nome di mio padre, mi strattona forte ma io sono già qui. Io sono già qui e sento solo pace. «Selvaggia! Selvaggia, apri gli occhi! Amelia, chiama un’ambulanza, presto! Selvaggia, svegliati!» Anche papà mi strattona. Per la prima volta mi accarezza il viso e io chiudo gli occhi, sentendo quel tocco. La sua mano è ruvida e trema. Crede che io non lo senta ma invece lo vedo, addirittura. E’ spaventato, sta piangendo. Ma piangendo per cosa, poi? Oh, no! «Oh, accidenti!» ho macchiato il quadernone di sangue, non ci voleva! Il sangue si impregna tra le pagine e poi sul piumone, colorando tutto di rosso. «Ti sei fatta male, mammina?» «No, amore mio.» mi tampono con una mano prima il polso sinistro e poi quello destro, coprendo i tagli profondi agli occhi della mia bambina «Non mi sono fatta male. Sto benissimo.» Amelia e papà continuano a gridare. Laggiù. Ma qui c’è solo il sole. E la pace. E i tagli non bruciano.
Capitolo 2 Selvaggia è in coma. La ragazza che ho ferito, umiliato, spezzato in due e gettato in pasto ai leoni, è in coma. Che cos’è il coma? Il coma è un letto piumato per chi si è addormentato pesantemente. Per chi sta a guardare è un letto di spine, che trafigge, taglia, graffia e… uccide. Strappa le ali all’angelo che vi è riverso sopra e non le permette di riaprire gli occhi brillanti. Chi spinge verso il coma è talmente vigliacco da cantare una melodia dolcissima, incantevole. Che ti ipnotizza e ti impedisce di volerti svegliare o anche solo di provarci. Il coma è l’anticamera della morte. Il coma potrebbe essere la fine di tutto. Resto soffocato dalle mie lacrime, non respiro bene dalla gola. Tutto si è fermato non appena Ava ha pronunciato quella parola. Quattro lettere. Quattro banali lettere messe una a fianco all’altra. Ma così pesanti, agghiaccianti e definitive, paurose. Mi terrorizza, quella parola. Come quando ero bambino e restavo terrorizzato da un incubo; sudato e freddo, piangevo raggomitolandomi sotto le coperte. Poi mi riaddormentavo ai primi bagliori dell’alba non appena avvertivo che c’era luce e quindi il buio non poteva più spaventarmi. Ma ora non c’è luce. Selvaggia ha chiuso gli occhi, lasciandosi travolgere dal buio e sprofondando all’inferno. Quelle spine del suo letto mi si conficcano in corpo come fossero pugnali, il senso di colpa mi dà la nausea, mi gira la testa. Mi appoggio al muro per non cadere a terra. Il mio cuore sta correndo all’impazzata ma io resto fermo qui, dove rimarrò finché lei non si sveglierà. Ascolto il pianto di mia madre, cui è stata strappata una figlia, e di Lily, che piange per una sorella riversa su un letto d’ospedale. Ma sono gli occhi impietriti di mio padre e quelli assenti di Zayn a farmi più paura. Mio fratello è ancora perso nel dolore di aver scoperto la vera natura della donna che aveva al proprio fianco; ne era follemente innamorato, l’amerà ancora per molto tempo anche se il suo cuore ormai è danneggiato per sempre. Forse non si è nemmeno reso conto di quanto stia accadendo a Selvaggia, non ha capito. Non ha afferrato. Non mi tirerà un pugno come qualche settimana fa, quando Selvaggia perse la nostra Gioia. Stavolta è innocuo. Ha il suo dolore cui badare ora, che la fa da padrone, adesso. «Com’è successo, perché?» «Io… io non lo so..» un rombo mi scoppia nelle orecchie, immagini di sangue e di qualunque cosa possa tagliare mi si aprono davanti come fossero reali «Si è imbottita di farmaci, tranquillanti, credono. E…» anche Ava si lascia travolgere dalla disperazione. Scoppia in lacrime tra le braccia del proprio compagno, getta a terra la giacca che cade assieme a un forte rumore di chiavi. Ho sempre sentito dire di come la vita ti passi davanti come un film, quando si arriva alla soglia della morte. Quando si è davanti a quella grande e oscura signora che ti guarda con una falce tra le mani e ti sorride malvagia. Io la sto vedendo anche se il mio cuore continua a battere: è quella che si sta, silenziosamente, portando via Selvaggia. Sotto le mie palpebre chiuse, perché non sopporto la luce, rivedo tutti i più bei momenti trascorsi con lei; le sue risate spontanee, quelle che mi facevano pensare alla vita, alla gioia. I suoi occhi grandi e luminosi, che avevano lo stesso colore della speranza. Il suo sapore, i suoi baci, le sue carezze. Tutto. Tutto svanito, tutto così lontano e fragile da non poterlo raggiungere più. «La trasferiranno comunque al Presbyterian. Suo padre vuole così.» Vorrei poter gridare, adesso.
«Lui vuole così?» mio padre mi precede, lasciandomi boccheggiare in lacrime «Suo padre si sta interessando a lei? O vuole solo allontanare chi le vuole veramente bene?» E’ il pensiero di tutti noi, questo. Suo padre non ha mai alzato un dito per sua figlia, mentre ora pretende di farla trasferire, ma per cosa? «Lì avrebbe un’assistenza migliore che in questa struttura, che è efficiente sì, ma non adeguata a una lunga degenza, casomai fosse il caso di Selvaggia. E starebbe più al riparo da curiosi e paparazzi. Sarà sicuramente per questo, caro.» «Non ha il diritto di farlo!» lo scoppio di rabbia di mio padre mi impressiona, anche gli occhi di mia madre si sgranano e Lily singhiozza contro la spalla di Joel, per niente turbata o sorpresa «Noi l’abbiamo accolta come una figlia, Alena! Noi l’abbiamo amata davvero e le siamo rimasti accanto quando è morta Gioia. Lui e sua moglie dov’erano? Dove cazzo erano?» Mi sento male, papà. Sento le gambe cedermi e divenire tremolanti, non reggono più il mio peso. Coma. Coma. Coma. COMA. Non c'è altra parola che gira nella mia testa. Immagini confuse e veloci di flebo, aghi, piastre, maschere di ossigeno... e tutti quei tubi, quelle pompe che fanno un rumore assurdo, lenzuola bianche e pesanti, occhi chiusi. Dio, ho un cerchio alla testa! Un dolore bestiale che mi stringe e soffoca le meningi! Stanno per esplodere, mentre la figura del piccolo corpo di Selvaggia mi si para davanti, distesa su un anonimo letto di questo ospedale. Voglio vederla. E voglio farlo prima che la intubino, o forse lo hanno già fatto? Forse ha già quelle flebo e tubi fastidiosi e avrà dolore dappertutto, povera piccola mia! Sarà spaventata: non appena aprirà gli occhi si ritroverà sola e con delle enormi sonde infilate giù per la gola, sarà terrorizzata! Vorrà sicuramente qualcuno accanto e probabilmente ora lei sarà in una stanza da sola, senza Amelia vicino. Vorrebbe qualcuno vicino. Lei ha il terrore dei medici, ha sempre avuto paura anche di un semplice controllo. E con lei c’è sempre stata Amelia, magari ora non le permetteranno di assisterla. Se la stanno preparando per un trasferimento non faranno entrare nessuno, ci saranno solo medici e infermieri attorno a lei a organizzare tutto nei minimi dettagli. Lo staranno facendo con metodo, con freddezza. Con fretta. «Lei ha paura.» Mi ritrovo tutti gli occhi puntati addosso. Ora anche quelli di Zayn; punto le mani sulle ginocchia e mi alzo lentamente in piedi, cercando di tenermi in equilibrio. «Lei ha paura. Lei ha… bisogno di qualcuno accanto.» Lei sarà terrorizzata. Sentirà tutti quegli aghi, quei tubi. E sicuramente, per trasportarla in elicottero, la immobilizzeranno con delle cinture a una barella. Lei odia sentirsi in trappola. Lei detestava anche solo la cintura di sicurezza in auto, come potrà sopportare tutto insieme! «L’hanno coperta bene?» perché fa freddo a quest’ora del mattino «Lei potrebbe sentire freddo e se poi si ammala… se si ammala lei starà male. Lei ha… la gola delicata, prende facilmente il raffreddore.» riusciva ad ammalarsi sempre, Selvaggia. «Jade, amore.» le mani di mia madre si posano sul mio petto. Cerca di appoggiarci anche la testa. Almeno credo. In realtà non ho altro obiettivo se non quello di raggiungere gli ascensori e raggiungere il reparto di rianimazione. Il mondo si è fatto di piombo, o sono i miei piedi a essersi appesantiti di colpo? Guardo i pannelli di acciaio davanti a me. Li dovrebbero pulire.
«Ava. Ava?» chiamo a bassa voce, continuando a guardare il mio riflesso appena accennato e ombroso contro l’apertura dell’ascensore. E’ un’ombra: è quello che io sono davvero? Un’ombra? Qualche bambino si sarà appoggiato con le manine unte di patatine fritte o sporche di cioccolato, mentre aspettava con la propria mamma. Ci sono impronte di manine piccine ovunque, mi domando perché le mamme permettano di toccare qualunque cosa ai propri bambini: non sanno che possono contrarre germi o batteri? Dovrebbero essere sempre munite di salviettine detergenti. Selvaggia ne sarebbe stata sempre provvista, con Gioia. Lei stessa è sempre stata attentissima a certe cose. Lo sarebbe stata anche con la nostra bambina. «Non so a che piano è.» mormoro, notando la sagoma di Ava riflessa nel pannello della cabina «Dove devo fermarmi con l’ascensore?» «Non te la farebbero vedere comunque, Jayden.» «E’ al quarto piano?» continuo alzando gli occhi sul piccolo display sopra le porte, che conta i piani «O al sesto? Forse è nei sotterranei. No, lì ci sono… le sale macchine, le cucine.» Sono in trance: sto piangendo, me ne accorgo solo perché sento le lacrime bagnarmi le guance. La mia voce esce così soffocata, ma anche leggera, come se io stessi parlando nel sonno. Riflesso nel pannello vedo anche il suo volto sofferente, le mani delicate appoggiate al ventre vuoto e quello sguardo deluso, pieno di odio per me. Questo mi spinge ad aprire e chiudere la bocca, intento a dire qualcosa che non esce, che resta muto nella mia gola. E’ un fantasma. Non è realmente Selvaggia o, a quest’ora, l’avrei già abbracciata e sarei crollato ai suoi piedi, implorandole perdono. «Jade, ascolta Ava: vieni via, partiamo subito per il Presbyterian, saremo là ad accoglierla al suo arrivo.» Lily mi accarezza una spalla. Poi la sua carezza diventa insistente e mi attira a sè, appoggiandosi con la testa sulla mia spalla dopo essersi alzata sulle punte. Aspettare? Aspettare di attraversare mezza città? Da quando in qua Lillian è diventata così egoista? Perché sarei un egoista bastardo se ora prendessi la macchina e guidassi fino a laggiù, aspettando di vederla attraverso un vetro. «A che piano è, Ava?» insisto, corrucciando lo sguardo verso quel pannello e quel display che ora indica il nono piano. «Jayden, dalle retta. Per favore tesoro, partiamo subito.» «Mamma, no!» ruggisco in faccia a mia madre, piangendo come un bambino. Non l’ho mai affrontata così, dopo le chiederò scusa «Lei ha paura.» «Lei chi, Jayden? Che stai dicendo?» «Selvaggia!» mi sorprendo di Lily. La guardo allibito, come se lei davvero non capisse le mie parole. E’ forse diventata pazza? «Parlo di Selvaggia: lei ha paura dei dottori.» ringhio scontroso. Possibile che nessuno si renda conto che lei ha sempre avuto il terrore di restare sola in un ambulatorio medico? «Quando la intuberanno, vorrà qualcuno al suo fianco.» «L’hanno… già intubata, Jayden. E’ stata la prima cosa che hanno fatto.» Ava scuote la testa. Sono in confusione, fa un movimento così strano, sembra cadere giù e accasciarsi a terra. O forse sono io? Sento voci concitate e poi braccia che mi afferrano, mia madre che grida il mio nome e mio padre che mi sostiene per le spalle. Stavo cadendo io a terra? «Figliolo, siediti. Aspetteremo che ti riprendi e poi andiamo. Non te la faranno vedere, la stanno preparando e non possono perdere tempo con noi.» «Ma lei ha bisogno di qualcuno a fianco! E’ sola lì dentro?» scanso mia madre per guardare Ava negli occhi. Sta ancora piangendo. Sembra disorientata, tutti lo sembrano mentre mi fissano «Allora, che cazzo avete? Ava, era da sola?»
«Sì. Sì, prima c’era Amelia ma poi l’hanno fatta uscire per prepararla. Hanno dovuto rianimarla.» «Ri… rianimarla?» sfuggo alla presa di mio padre, batto forte la mano sul pannello degli ascensori e mi reggo per non cadere con le ginocchia a terra «Che significa?» «Jade, per favore: vieni a sederti. Va a prendergli un bicchiere d’acqua, Lily.» Mia madre ha un modo tutto suo di snocciolare ordini. E’ dolce, ma pretende obbedienza. Solo questo. Improvvisamente, le gambe e le spalle finiscono per cedermi. Vengo travolto dalla stanchezza. Mi lascio sospingere fino alle sedie scomode accanto alla reception, dove la ragazza con gli occhialini mi guarda con preoccupazione, prima di rispondere di nuovo al telefono, professionale e seria. Io crollo, tutto il mio corpo sente il contraccolpo quando mi siedo in modo pesante. Lily mi dà un bicchiere di acqua ma ne prendo solo un sorso, non riesco a bere. Riesco solo a sentire un dolore viscerale, sembra quasi mi stiano sventrando vivo: Selvaggia è in coma, si è tagliata le vene dopo essersi imbottita di farmaci. Ha commesso questo gesto per che cosa? E’ stata colpa mia? Certo che è colpa mia! Tutto questo è solo colpa mia, della mia ingenuità, del mio essere cieco e volermi fidare delle persone sbagliate! Ancora una volta ho lasciato guidare il gioco a Monya, mi sono dato a lei. E mi ha ingannato un’altra volta. Ma stavolta mi ha ucciso, mi ha ridotto in cenere perché ha colpito lei. Cazzo! Cazzo, cazzo! Non avrei mai dovuto permetterlo. Invece è bastato così poco per spingerla a combinare tutto, ad aiutare Faith in questo folle piano! Dio, Selvaggia è riversa su un letto d’ospedale e sono stato io a darle la spinta per andarci! Ho ucciso nostra figlia e ora sto facendo la stessa cosa con lei. «Per favore. Per favore.» non mi accorgo di pregare ad alta voce. Tutti mi fissano, mia sorella continua ad accarezzarmi le cosce credendo di infondermi coraggio. E’ il contrario: mi sento un fallito «Per favore, fatemela vedere! Vi prego.» sfrego la mia fronte contro i pollici, sto digrignando i denti e continuo a singhiozzare come un bambino disperato. Dio, non portarmela via! Sono pentito, mi dispiace! Prendi me al suo posto ma lasciala qui! Non lo merita, Selvaggia deve vivere! Sono io il peccatore, non lei. Io ho sbagliato, io dovrei pagare. Lei deve vivere e deve crescere come un meraviglioso fiore. La voglio accanto a me come una volta. Anzi, meglio di prima: sarà tutto diverso. La renderò felice, le ricorderò ogni giorno quanto la amo, mi sveglierò ogni mattina baciandola. Farò tutto, tutto quanto per renderla una donna felice. Tutto. «Alzati.» Mio padre mette di lato Lily e mi porge una mano. Mi basta alzare gli occhi per vedere la determinazione nel suo sguardo: è infuriato con me ma questo non lo fermerà affatto. «Avanti, alzati! E muoviti. A che piano è Selvaggia, Miss Ramirez?» «Mr. Stewart, la prego…» mio padre è irremovibile. Con un sospiro pesante e arrendevole se ne rende conto anche Ava «Venite con me, vi accompagno io.» L’ascensore si ferma a non so quale piano, non sono stato attento. Il suono all’apertura delle porte è basso, credo per rispetto del silenzio tombale che regna nel reparto di rianimazione. Ho l’impressione di essere in un mondo parallelo. E’ così diverso dall’entrata dell’ospedale: silenzioso, in penombra. Luci appena soffuse e sagome lunghe nei corridoi, che danno perfettamente l’idea di quanto sia straziante stare qui. Dietro a Ava e mio padre, avanzo trattenendo il respiro. E’ un incubo, qui.
Ascolto il pianto soffocato di una donna davanti a una porta chiusa, forse piange per il marito o addirittura per un figlio. Non mi soffermo a guardarla, ma cattura la mia attenzione. Non ho ancora visto Selvaggia ma saperla qui, in questo luogo così silenzioso, mi smembra vivo, mi uccide. Ava continua fino a metà del corridoio, arrivando davanti a una porta socchiusa. Una tenda abbassata e pesante non mi permette di vedere all’interno, dove c’è qualche luce. Forse si stanno ancora occupando di lei. «La stanza è quella, Mr. Stewart. Ma non credo vi faranno entrare.» Ava ci indica la porta a fianco; anch’essa illuminata, è aperta e c’è un viavai di infermieri con la mascherina che si muovono veloci ma silenziosi. Sento il suo profumo. Lo riconoscerei ovunque: è il profumo dell’amore. Passo in mezzo a mio padre e ad Ava, i miei occhi non si staccano da quella porta aperta, di colore celeste. E se la vedessi? Se mi avvicinassi mi caccerebbero? «Dove cazzo pensi di andare, ragazzo?» Il ruggito che mi ferma è quello di un uomo duro, mai stato presente nella vita di sua figlia. «Voglio… voglio vedere Selvaggia.» balbetto incespicando nella semplice frase. «Non penso proprio. Tu non vai da nessuna parte, sta lontano da mia figlia!»
Voci Le setole morbide della spazzola passano lentamente tra i capelli scuri di Gioia. Le crescono tantissimo, sono come i miei: ha la frangetta lunga, povero amore, e credo abbia difficoltà a vedere bene. «Amore, girati.» la mia piccola bambina mi fa un sorriso splendido e i suoi occhioni blu mi mozzano il fiato: sono come i suoi. Identici ai suoi. Con un paio di forbici raccolte da un vecchio cassetto della zia, le pareggio i capelli sugli occhi mentre lei resta immobile. Nel farlo, non posso fare a meno di notare i miei polsi. «Stai bene, mammina?» «Sì, amore mio. Mamma sta bene.» concludo il mio lavoro sui suoi capelli, poi la lascio andare e lei torna a giocare con un orsetto bianco, inginocchiata a terra. Non mi piace che stia così, ma in fondo il pavimento in parquet è caldo e non è ancora calata la sera. In effetti qui non scende mai la sera; il sole si regge forte e prepotente sul mare, accompagnando il suono delle onde. Appoggio la spazzola e riprendo in mano il vecchio quadernone, continuando a sfogliarlo. Avevo una scrittura davvero molto curata quando ero piccolina, spero solo che anche Gioia possa ereditarla, un giorno. Miss Traveck mi diceva sempre che avevo del talento e che dalla mia calligrafia si leggeva quanto io fossi una bambina educata e raffinata. Un complimento dietro l’altro solo perché io ero la figlia di Carlo Pirelli, uno dei benefattori dell’Istituto. Parlo di lei in qualche pagina ma poi vado oltre, liquidandola con un “Cattiva maestra dagli occhiali ridicoli.”. Non mi era mai stata troppo simpatica, lo ammetto. «Dai, piccola! Forza!» non alzo gli occhi, sentendo quella voce. Ho imparato a conoscerla bene e non mi spaventa affatto. Anzi, mi rassicura. “Va tutto bene”, sembra mormorarmi, quando tutti se ne sono andati e io piombo in un sonno profondo. «Passami quelle cazzo di piastre! Sbrigati!» continua ansimando verso un collega più giovane di lui «Selvaggia, non farci questo: resisti.» Mi preme il petto con entrambe le mani, poi vedo il mio corpo alzarsi dalla lettiga dell’ospedale, quando mi dà una forte scossa al cuore. Un “bip” continuo mi ferisce le orecchie. «Di nuovo. Libera!» «Adam, è pericoloso.» «Ho detto libera, cazzo!» Di nuovo io mi sollevo e, di nuovo, lui impreca. Non serve che io distolga lo sguardo dal mio quadernone colorato e allegro di bambina: è qualcosa che ho già vissuto, è qualcosa che io so. «Eccola.» il “bip” fisso si trasforma in uno ritmato, molto lento «Chiama Sarah, dobbiamo intubarla.» «Abbiamo bisogno del consenso di suo padre, Adam. O finiamo nei casini.» «Consenso?» ruggisce e io mimo le sue parole con le labbra, senza farmi sentire da Gioia «E’ in coma! Di che consenso parli?» Volto pagina e ritrovo la mia bellissima Venere, in una fotografia di pochi anni fa. Amore mio, quanto era bellina! Piccola e tutta pelo!
I suoi occhioni scuri già mi incantavano, in quest’immagine siamo nel grande giardino di villa Pirelli e io la porto a issarsi su due zampe per afferrare un nastro colorato tra le mie mani. Sono scalza, come spesso amo stare. Come sono anche ora: amo il contatto con le cose, mi fa sentire viva. Giro la fotografia e vi leggo sopra una frase scritta da me, in una scrittura più adulta meno raffinata di un tempo. Si legge la mia età, qui sopra, e anche un sorrisetto alla fine, dopo il punto. “Tu sei l’unica forza che mi resta. Senza te non sarei niente. =)” Questo prima che qualcuno mi riconducesse dalla mia bambina, prima che avessi avuto l’opportunità di sentirla scalciare dentro il mio ventre. Prima di lui. Prima della fine. «Mammina?» «Dimmi, amore mio.» sfoglio le pagine senza alzare lo sguardo a Gioia. «Lui non ti porterà via, vero?» «Cosa?» La mia bambina sembra imbambolata davanti alla grande finestra che dà sul mare. L’oceano è macchiato di varie sfumature di blu e il cielo è rosso, anche se il sole è ancora molto alto. Mi avvicino a lei, affacciandomi anche io. Sulla spiaggia, a piedi nudi e le mani che gli coprono il viso rigato dalle lacrime, c’è mio padre. Alto, dalle spalle larghe e i capelli appena brizzolati, sussulta scosso da un pianto disperato. «Selvaggia! Selvaggia, bambina mia.» “Bambina mia”? Mio padre non mi ha mai chiamata bambina mia. Non mi ha nemmeno mai chiamata per nome. Ci siamo sempre visti troppo poco, perché avesse il modo di chiamarmi. «Lui ti lascerà qui, vero?» «Ma certo, amore mio.» Abbracciando la mia piccola Gioia, seduta sul letto, posso osservare i tagli netti sui miei polsi: mi immergo nei ricordi di mio padre che grida forte il mio nome, sollevandomi dal letto in preda al panico. Si è macchiato la sua bella e immacolata camicia, nel farlo, ma io ero già qui abbracciata alla mia piccola bambina. La mia bellissima, stupenda bambina dai lunghi capelli neri. «Io resto qui con te, amore di mamma.» la tranquillizzo, spostandole una ciocca di capelli dietro l’orecchio leggermente a sventola «Ora andiamo in cucina e ti preparo un bel succo d’arancia: lo vuoi?» «Tu lo bevi con me?» «Ma certo, tesoro. Vieni.» Mi alzo in piedi e la prendo per mano. Insieme ci incamminiamo lungo il corridoio e le scale, per scendere in cucina. A me non è mai piaciuto il succo d’arancia.
Capitolo 3 Carlo Pirelli, il padre di Selvaggia, è davanti a me. Forte, con i pugni chiusi e gli occhi che incendierebbero chiunque, mi sfida a non avvicinarmi a quella che ora chiama figlia. Dovrei essere felice per Selvaggia: c’è suo padre qui con lei. E’ al sicuro. Ma non lo è, lei non sarà mai al sicuro se suo padre resta qui. Non c’è mai stato, non è mai esistito nella sua vita, non si è mai preoccupato di farle una carezza, un complimento, un regalo dettato dal cuore. Mentre ora è qui. E mi impedisce di vedere la donna che ho capito d’amare. La ragazzina che è riversa su un letto d’ospedale per colpa mia, è difesa dall’uomo che la ignora da vent’anni. Che senso ha tutto questo? «Mi lasci passare, Carlo.» sbatto gli occhi, ingoiando la nausea che provo. «Sei diventato sordo oltre che bastardo? Tu non vai da nessuna parte, vattene.» dietro di lui, abbattuta da un dolore straziante, ci sono Amelia, crollata su una sedia piccola e suo figlio. Lei soffre davvero. Suo padre ha gli occhi gonfi, ma per cosa? Perché piangere per una figlia che non hai mai degnato di uno sguardo? «Cos’altro vuoi? Le hai già rovinato abbastanza la vita, non trovi?» E’ distrutto dal dolore, questo lo noto: il pizzetto è perfettamente pettinato su quella mascella quadrata, ma gli occhi sono stanchi, la camicia stropicciata e… macchiata di sangue. Il sangue di Selvaggia. Mi istiga, tanto da portarmi a stringere i pugni lungo i fianchi e scattare la mascella in un moto di rabbia. Aggrotto le sopracciglia e mi obbligo a respirare a fondo, guardando negli occhi quello che io considero solo la debole ombra del padre della ragazza in coma. Non voglio provocare una rissa proprio qui davanti al suo capezzale. Non voglio farlo per lei perché so che ci starebbe male, perché so che ne soffrirebbe enormemente e non mi perdonerebbe nemmeno questa. Selvaggia ha bisogno di tranquillità, adesso, non di due persone che si azzannano a vicenda. «Almeno lui ha fatto notare la propria presenza.» La voce di mio padre irrompe come un tuono, alle mie spalle. Mi sorprende con quel timbro deciso che fa vibrare le pareti, getta paura ovunque quando parla con questa voce. Ma solo girandomi e scoprendo il suo volto, mi accorgo di quanto sia efferato e quanto il dolore per quello che sta succedendo a Selvaggia lo stia portando alla pazzia. I suoi occhi sono di pietra, duri come poco fa, di un celeste acceso che delimita lo strazio che invece porta nel cuore e nell’anima: con Selvaggia sta rischiando di perdere anche una figlia. «Prego, Mr. Stewart?» lo sfida Carlo, senza ancora sapere contro chi sta rischiando di mettersi. Il sorrisetto sadico che appare sulle labbra di mio padre non ammette repliche e lo schiocco di quella bocca assetata di giustizia per quella ragazza, è veleno verso Mr. Pirelli. «Mi spiegherò meglio, Carlo.» mastica il nome come fosse disgustato, ma non sposta mai gli occhi contro quelli di lui «E’ meglio un ragazzo bastardo deciso a rimediare qualcosa di irrimediabile, o un padre assente da tutta una vita?» La sua domanda spiazza me e tutti i presenti. Mia madre sembra non respirare più, ma in fondo sa quanto mio padre abbia ragione. Mr. Pirelli resta pietrificato, probabilmente mio padre gli ha strappato l’ultimo barlume di impertinenza.
«Sbaglio o non è mai stato presente nella vita di sua figlia, Carlo?» alza la voce, perdendo il sorriso perverso. Diviene serio in un modo cattivo, da far paura «Sbaglio o quando Selvaggia compì diciotto anni, c’eravamo io, mia moglie e i miei figli, come sua famiglia? Sbaglio o sia lei, Mr. Pirelli, che la sua ex moglie, non vi siete mai degnati di preoccuparvi per lei in tutti questi fottuti anni?» Si sente un ronzio attorno a noi, è il rimbombo della voce di mio padre. I suoi occhi si riempiono di lacrime amare mentre Mr. Pirelli resta in silenzio. Non saprebbe comunque come difendersi: è tutto vero ciò che dice mio padre, tragicamente vero. Affronta il suo sguardo finché non ce la fa più e abbassa gli occhi, sconfitto. Mio padre avanza, superando anche me, e si ritrova a lato di Carlo; è più alto del padre di Selvaggia, quel tanto che basta per lasciar trapelare arroganza e comando anche davanti a un uomo potente come lui. «Si faccia delle domande prima di giudicare mio figlio. Ha sbagliato e io non lo perdonerò mai. Ma ha reso felice Selvaggia, anche se per breve tempo. Non se ne dimentichi, Carlo.» gli mormora con una voce sottile ma alta quanto basta, poi gli si avvicina di più, stavolta dicendogli qualcosa che io non afferro. So solo che Mr. Pirelli alza lo sguardo su di me, deglutisce e si sposta di lato con riluttanza, appoggiando un pugno sulla parete fredda del corridoio. Ho avuto l’impressione che sia trasalito quando mio padre gli ha parlato. I suoi occhi si fanno vitrei e gli trema il labbro, rendendo quel pizzetto ben curato quasi ridicolo. Lo guardo senza però provare la compassione che dovrei: in due anni che sono rimasto accanto a Selvaggia l’avrò visto sì e no un paio di volte, senza mai notare il minimo affetto verso sua figlia. Perché provare tenerezza per quest’uomo tanto freddo, verso chi le ha fatto da sempre del male? «Jade.» mio padre mi fa un cenno con il capo, intimandomi di avvicinarmi alla stanza di Selvaggia. Non appena avanzo, superandolo, lo sento indietreggiare e appoggiare una mano sulla spalla di Carlo. E’ mio padre, è semplicemente lui: il gigante buono, quello che fa tanto il duro e poi ha il cuore di un bambino. Amelia ha lo sguardo chino, le dita intrecciate tra loro e scuote la testa piangendo disperata. E’ in uno stato di shock, un rosario avvolto tra le mani la sta aiutando a sopportare il dolore lancinante. Singhiozza silenziosamente muovendosi avanti e indietro, leggermente, con le spalle. Come fosse una donna sola, abbandonata in una stanza di qualche manicomio. Potrei dirle qualcosa ma scelgo di non farlo. I rumori dentro la stanza di Selvaggia mi distraggono, tanto da girarmi con tutta la mia attenzione verso quella porta aperta e vederla. Sono qui per questo: non rinuncerei per niente al mondo, voglio stringerla e dirle che ci sono. Non mi basterà farglielo sapere. Un’infermiera minuta si fa largo, scostando ulteriormente la porta che racchiude tutto l’orrore di questa notte senza luce; il letto è posto in mezzo alla stanza, varie macchine lampeggiano e suonano con i loro lamenti riecheggianti, mentre alcuni dottori e altri infermieri si muovono, facendomi solo intravedere il profilo della piccola Selvaggia. Stesa su quelle lenzuola bianche, macchiate del suo stesso sangue, è pallida e immersa in un abisso di paura. Non si muove, non respira. Intubata, come nel mio peggior incubo, le palpebre abbassate e quei lunghi capelli neri a fare da cornice alla più terribile delle immagini mai viste prima. Non ricordo di aver mai avuto così tanta disperazione nel mio cuore. Si ferma, non riparte più. Non dà segni di vita, resta in silenzio mentre riesco a guardarla meglio quando un dottore si sposta: il collo lungo non batte a ritmo del suo cuore, le braccia sono stese lungo
i fianchi e delle bende bianche le avvolgono i polsi. Si è tagliata le vene, ha cercato di togliersi la vita con dei medicinali. Mi accorgo di traballare sulle mie gambe, di non aver abbastanza equilibrio per non scansarmi, quando un altro dottore esce da quella dannata stanza e mi sbatte contro. «E’ tutto pronto. L’elisoccorso è atterrato e possiamo portare via la ragazza.» La lettiga si muove, spinta da alcuni infermieri, ma io mi faccio avanti: ho bisogno di toccarla o rischio di impazzire. «Ehi, no! Aspetti, non può entrare.» mi ferma, premendo sulle mie spalle. «Devo vederla. Devo… toccarla.» «Non può. Dobbiamo portarla via. Non appena l’avranno sistemata al Presbyterian, potrà vederla.» «Ma lei è sola, Selvaggia ha paura.» singhiozzo, implorando con gli occhi questo dottore. Sembra commuoversi, ha l’espressione di pietà che Selvaggia non vorrebbe mai vedere negli occhi di nessuno. Mi lascia andare, appoggiandomi una mano sulla spalla sinistra. Sembra volermi confortare. «Non è sola: ci occuperemo noi di lei. Voi andate a casa, sarebbe inutile restare qui e sicuramente prima che la sistemino passerà parecchio tempo anche nell’altra struttura.» si rivolge con un sorriso mesto ad Amelia e a Carlo, che si è avvicinato assieme a mio padre «Andate a riposare, ne avete tutti bisogno.» Forse crede che io me ne andrò, perché lascia la presa spostandosi di lato per l’avvicinarsi della lettiga. «Selvaggia! Selvaggia, piccola.» «Per favore, la prego!» ringhia, bloccandomi di nuovo, stavolta aiutato da mio padre. Ferma gli infermieri e non mi permette di vederla. Ma è così piccola e indifesa, addormentata come una bellissima Principessa. «Jade, andiamo. Torneremo domani mattina. Sta tranquillo.» «Cazzo, no!» sbotto furioso. Perché nessuno vuole ascoltarmi? «Voglio vederla, solo un attimo. Per favore.» «Maledetto.» tra i denti, Amelia esprime tutto il suo disprezzo per me; è solo un borbottio, niente altro. Ma all’interno c’è tutto il veleno e il rammarico per quello che io e solo io ho fatto alla sua bambina. Ci sarà tempo di mettere a posto le cose con lei ma non ora. Ora voglio solo vederla, dirle quanto mi dispiace e sussurrarle che la amo, che l’ho capito ora e che voglio continuare ad amarla. «Sarò costretto a chiamare la sicurezza se non si farà da parte, Mr. Stewart.» sento il respiro di mio padre sul collo; si appoggia con la bocca contro la propria mano, cerca di inalare quel poco di respiro che gli resta «Sarebbe una perdita di tempo troppo prezioso, per Selvaggia. Ha bisogno di urgenti cure intensive.» il dottore mi guarda con indulgenza, scuote appena il capo. Sono sicuro sia a conoscenza di quello che sto provando ma allo stesso tempo teme di non arrivare in tempo per salvare la vita a Selvaggia «Ci lasci passare: la potrà vedere domani in terapia intensiva, glielo assicuro.» Come un bambino, mi lascio andare. Obbedisco, allentando la tensione tra i muscoli. Mio padre se ne accorge e mi cinge un braccio con la mano, portandomi indietro con sé lungo il corridoio buio. Mi lascio cadere su una piccola sediolina che cigola, mi sta scoppiando il cuore e ho il respiro ansante. Non la vedo passare, mi rifiuto di farlo perché temo di morirne. E’ intubata, immobile. E se io mi avvicinassi farei perdere altro tempo prezioso. L’unica cosa che faccio è intrecciare le dita e poi appoggiarle alla mia fronte. Sussurro il suo nome disperatamente, ascoltando il pianto sommesso di Amelia. Poi mi alzo e mi preparo per tornare a casa.
Non ho mai sentito il minimo ronzio all’accensione delle luci nel mio attico: stanotte le sento. I faretti attorno al soffitto del salone illuminano in modo accecante e improvviso la stanza, lasciando intravedere solo alcune ombre vicino al divano o alla consolle. Niente è in ordine: sembra sia passato un uragano. So quello che è successo e me ne sto fregando. In un tentativo finale di fuga Monya ha cercato di portarmi via qualcosa da casa, raccogliendo le sue cose. Questo prima che l’arrestassero. Non importa se ha cercato di portarmi via qualcosa di prezioso. L’unica vera cosa che conta adesso è la persona più importante della mia vita, riversa su un letto d’ospedale, che lotta tra la vita e la morte. Non c’è altro senso, non penso ad altro. Sbatto la porta con noncuranza ed entro in casa mia, avvertendo quel malessere che non mi lascia respirare da ore. Getto le chiavi nello svuota tasche, ascolto il frastuono e chiudo istintivamente gli occhi infastidito; mi scoppia il cervello come se fossi stato investito in pieno da un treno in corsa. Non sento altro che il mio dolore, il silenzio assoluto lasciato da un vuoto incolmabile che lei rischia di lasciarmi dentro. Al solo pensiero vengo colto da un brivido che mi percorre dalla punta dei capelli, giù per la schiena e fino ai piedi. Morirei. Mi lascerei cadere nel vuoto e sarei felice di schiantarmi al suolo. “Non mi puoi lasciare, piccolina. Non puoi.”, mormoro nella mia testa, incapace di trattenere le lacrime. Mi trascino sul divano e sento il magone liberarsi, mentre mi getto tra i cuscini morbidi. Mi prendo la testa tra le mani e mordo le labbra fino a farmi male, trattenendo il più possibile il pianto. Che senso avrebbe avuto scoprire la verità se Selvaggia morisse? Dio, mi sta scoppiando il cuore, la gola è in fiamme per le lacrime e sento l’odore della paura avvolgermi come un profumo invitante, uno di quelli che non puoi evitare di sentire. Mi è capitato di rado di piangere in un modo simile. Di solito succedeva quando combinavo qualcosa da bambino e nemmeno la mamma poteva difendermi da papà, oppure quando Zayn ha avuto quell’incidente e ha rischiato di rimanere paralizzato. Un dolore simile. Ma mai tanto acuto e devastante. Potevo controllarlo; piangevo da solo, mi confortavo dicendomi che c’era di peggio, che si sarebbe risolto tutto. Ma ora? Ora non c’è niente di peggio, ora c’è solo l’immagine di Selvaggia sdraiata su quel fottuto letto d’ospedale, l’ossigeno infilato in bocca e la flebo a bruciarle nel braccio. Non c’è niente che possa confortarmi, stavolta. Non posso aggrapparmi a niente. Né a nessuno. Mi distruggo, solo e abbandonato in un pianto senza precedenti, resto seduto solo per poco ma poi la smania e il bisogno di spaccare qualunque cosa prende il sopravvento e scatto in piedi, accanendomi contro le prime cose che trovo. Scaravento a terra il mio pc portatile rimasto aperto sul tavolino basso, al centro del tappeto. Con lui finisce a terra il bicchiere di cristallo ancora mezzo pieno di brandy e delle riviste di motori. Mi scaglio poi contro la consolle, gettando tutta la mia rabbia sui ripiani laccati che vado a graffiare, con le cornici fotografiche e alcuni soprammobili. Tutte cose inutili, se lei non torna indietro. Le immagini di me e Black finiscono a terra frantumandosi assieme al vetro incorniciato, un rumore simile al mio scoppio d’ira irradia per tutto il salone, squarciando il silenzio della notte. Continuo esasperato, la mente e gli occhi annebbiati dal dolore lancinante e dalle immagini della mia Selvaggia. Sbatto con violenza un vaso a terra, si frantuma anche lui e insisto,
fino a quando il campanello non comincia a suonare insistentemente e qualcuno batte forte contro la mia porta. «Jayden! Jayden!» David sibila il mio nome da dietro la lastra di legno battendo ancora il pugno e Black abbaia. Sa bene che sono io, o avrebbe già chiamato la polizia. «Ho sentito le notizie, amico…» David entra non appena gli apro la porta. Quando però si guarda attorno, ha un attimo di smarrimento e i suoi occhi si impietriscono davanti al casino che ho fatto «Che cazzo è successo?» Black mi corre incontro ma non riesco a dargli retta, le braccia inerti lungo i fianchi senza più alcuna forza nel reagire. Guardo il mio amico con gli occhi appannati dalle lacrime, non mi accorgo di come mi sia tagliato una mano, scaraventando a terra una piccola cornice in vetro e osso. Me ne rendo conto solo quando lui si avvicina e il bruciore mi risveglia dal mio stato di shock. «Jade, stai bene? Cazzo, chiamo Pamela, aspetta.» osservo casualmente Black che strofina il suo muso scuro contro la mia gamba, non credo però di capire quello che sta succedendo. Sento David parlare sottovoce sul pianerottolo del palazzo, la sua compagna entra in casa mia coprendosi la bocca con una mano, scoprendo il casino lasciato dalla mia sfuriata. «Jayden, stai bene? Ho sentito di Selvaggia, ci sono novità?» scuoto la testa, allungandole la mano ferita quando lei si avvicina cauta «E’ un brutto taglio. Credo avrai bisogno di punti. Dobbiamo portarlo all’ospedale, David» «No.» guaisco, peggio di un cane in agonia. Tengo gli occhi bassi e accarezzo la testa a Black con la mano sana «Devo farmi una doccia e tornare all’ospedale.» «Per fare cosa?» David mi sguarda spaesato, senza capire «Jayden, sono le quattro del mattino. Va a dormire, sei sconvolto.» «No, merda!» stavolta sbraito e Pamela si affretta a chiudere la porta d’ingresso «Cazzo, ma perché nessuno mi sta a sentire?» mi allontano di qualche passo, sforzandomi di liberarmi dalla giacca senza macchiarla di sangue «Selvaggia è in viaggio verso il Presbyterian ed è sola.» «In viaggio? Ma che dici? E’ solo un breve trasferimento.» Pamela zittisce il proprio compagno facendo continuare me, uno sguardo compassionevole che mi fa imbestialire ancora di più. «Sì! Sì, devono trasferirla là, e… ahi, cazzo!» vado a scontrarmi con il polsino dell’altro braccio, esattamente sulla ferita e impreco. Pamela ci mette poco a convincermi di sedermi in cucina e lasciarmi medicare. E’ un’infermiera professionale e, nonostante servano dei punti, riesce a tamponarmi la ferita e chiuderla con sticks adesivi, cotone e garza. «Devo farmi una doccia e andare subito.» «Jade, aspetta domani. E’ notte, tra poche ore sorgerà l’alba: non te la farebbero vedere comunque.» «Non mi interessa!» batto debolmente l’altro pugno sul tavolo, facendo rimbalzare il centrotavola in acciaio «Io devo stare con lei.» Mi accorgo degli sguardi sospetti che si scambiano: sono gli stessi che si scambiarono mio padre e Carlo quando arrivai in ospedale per vedere Selvaggia. Dio, la mia piccola. Nessuno potrebbe mai capire quello che sto provando e sono sicuro mi stiano prendendo per pazzo, o magari pensano che questo è solo un fottuto senso di colpa. «Sono stato una merda con lei. E con la bambina.» «Era quindi figlia tua?» annuisco a David, che si strazia immaginando cosa io possa provare in questo momento. «Se solo le avessi dato retta, Dio mio! Se solo le avessi creduto, bastava guardare meglio quelle cazzo di fotografie per accorgersi di tutto.» Ancora una volta i due si guardano straniti, mentre Pamela finisce di bendarmi la mano ferita.
«Che significa?» David non è un uomo curioso: siamo amici da anni, da ancora prima che io mi trasferissi qui. Non credo mi abbia mai visto in queste condizioni, vorrebbe solo rendersi utile. «Quelle fotografie scabrose e quel video, non riprendevano Selvaggia. Era una donna che le somiglia molto, imparruccata e vestita come lei. E’ stato... un inganno.» «Santo cielo!» Pamela appoggia il disinfettante nella piccola cassetta del pronto soccorso «E come lo hai scoperto?» «E’ stata l’avvocato di Selvaggia. Ha trovato la donna che era stata pagata per impersonarla e l’ha portata davanti a me durante una festa in maschera a casa dei Wood.» «Pazzesco.» David sembra davvero scosso dalle cose che gli sto dicendo. Accavalla le gambe come è solito fare e si accarezza il mento «Questo cambia davvero tutto. Cosa farai, adesso? Hai intenzione di denunciare qualcuno?» «Hanno già arrestato i responsabili.» «Monya, non è vero?» Pamela non mi sorprende: anche lei, come molti, non ha mai visto di buon occhio Monya, ed è una donna fin troppo intelligente per non arrivarci da sola a questa conclusione. «Non solo.» annuncio, abbassando il capo sconfitto «Anche la compagna di mio fratello. E io, ovviamente.» «Faith ha fatto questo?» David sgrana gli occhi, come se gli avessi parlato di qualche fantasma. «Tu hai solo creduto alle persone sbagliate, Jayden. Non sei colpevole.» «E invece lo sono, Pam!» prendo respiro, mi riempio i polmoni e incamero quella che si dice vergogna: mi vergogno di me stesso, di quello che ho fatto a Selvaggia e alla nostra bambina «Ho fatto pubblicare io quelle foto e quel cazzo di video, ho voluto io la sua rovina! Se fossi stato lucido e ci avessi ragionato su, avrei capito che non era lei, merda!» Mi alzo con uno scatto girando attorno al tavolo. Gli sguardi confusi di David e Pamela mi percorrono la schiena, mentre io sento solo il senso di colpa disintegrarmi l’anima e il cuore. «Sono stato il compagno di Selvaggia per due anni, come ho potuto credere che lei potesse fare una cosa così allucinante? Io avrei dovuto capire, vedere subito che quella donna non era lei! E invece ho infierito, sono andato oltre e l’ho uccisa. Ho ucciso la nostra bambina, ho causato… la sua morte.» Il mondo mi è crollato sulle spalle con questa verità e colgo, solo adesso, un pensiero che mi balena in testa: io ho provocato la morte della bambina. Se Selvaggia non si fosse stressata in quel modo e non si fosse agitata, tormentata, e io non avessi fatto nulla per danneggiarla, ora terremmo tra le braccia la nostra piccola Gioia. Oddio, che cosa ho fatto? Non è solo la vergogna di aver creduto a una cosa tanto irreale, o il senso di colpa a annebbiarmi il cervello, ma ora anche la consapevolezza di aver dato il colpo di grazia alla sua giovane vita. Le ho strappato via la bambina con forza, senza darle modo di difenderla. Ho provocato io tutto, io sono l’unico colpevole di tutto questo. Ho nuovamente bisogno di distruggere qualcosa per smaltire la rabbia. Ma mi trattengo per via di Pamela e David. Piuttosto, scelgo di mandare giù un grosso sorso di acqua fresca e mi impongo di calmarmi per il bene di tutti. «Devo andare a prepararmi. Puoi occuparti di Black anche oggi, David?» «Certo. Non è un problema.» mi risponde, tentennando «Dacci il tempo di prepararci e ti accompagniamo.» «No. Non serve, grazie.» lo fermo mentre si alza, pronto a rientrare nel suo appartamento per prepararsi «Vado con mio padre e poi non saprei a chi lasciare Black se tu vieni con me.» scrollo le spalle. Lo faccio come se fosse un gesto casuale, ma in realtà non vedo l’ora che loro se ne vadano per potermi cambiare e correre da lei.
Non desidero altro e, come ogni cosa che si vuole, non so stare fermo; sciacquo sotto il getto del rubinetto il bicchiere, passando le dita sui bordi e bagnandomi la garza sulla ferita e poi lo ripongo nello scolapiatti, chiudendo l’anta. «Ti chiamo appena so qualcosa comunque, promesso.» «Sai bene che ci sono quando vuoi, Jade. Chiama a qualsiasi ora.» Lui mi dà una pacca sulla spalla, mentre Pamela mi abbraccia, portano via con sé la valigetta del pronto soccorso e Black, che sembra triste. Non ti sto abbandonando, piccolo. Mi chiedo come reagirebbe Venere, se Selvaggia non tornasse subito a casa. Voglio pensare anche a lei, potrei portargliela se la sua convalescenza si dilungasse. Questi pensieri mi catapultano di nuovo nella disperazione: lei deve svegliarsi. Deve farlo per sé stessa, perché non merita il sonno in cui è piombata. Lei merita di irradiare il mondo con i suoi splendidi occhi verdi, non di tenerli chiusi e soffocati. Arrivato in camera da letto mi guardo intorno, inorridito dal casino che quella stronza ha lasciato. I cassettoni dell’armadio sono spalancati, ci sono molte mie magliette a terra assieme ai jeans e a delle giacche. La valigia ancora aperta sul letto; il detective non mi ha detto con esattezza quando è stata arrestata, ma certamente ha avuto il tempo di tentare una fuga. Non mi occupo di sistemare, ci penserà Erin. Calpesto alcuni dei suoi abiti e getto a terra quelli che indosso, fiondandomi in bagno. Mentre mi sbottono la camicia, apro l’acqua nella doccia e aspetto che si riscaldi. Dovrei forse portarmi un cambio, potrei mettere qualcosa dentro la sacca della palestra e portarla con me in auto. Non intendo lasciare Selvaggia da sola, resterò lì per tutto il tempo che ci vorrà, non ascolterò ragioni. Quell’uomo che predica di essere suo padre, quando invece non si è mai impegnato ad esserlo, non mi allontanerà di nuovo. Le dita mi tremano quando cerco di slacciare la mia cintura attorno alla vita. «Oh, merda!» impreco, tirando. I passanti dei pantaloni sembrano bloccarla, ma poi scivola fuori e posso gettarla a terra senza arrotolarla. La stanza da bagno si riempie di vapore profumato, mi libero di scarpe, calzini e pantaloni, infine dei boxer e sono finalmente nudo e pronto per una doccia veloce. Oh, grazie al cielo! Lo scroscio dell’acqua è confortante solo per pochi istanti. Tutto cambia non appena chiudo gli occhi e li riapro contro la parete umida. Sarà già arrivata? L’avranno già sistemata in camera? Sarà sola o con qualche altra paziente? Sarà ancora addormentata? Forse si è risvegliata uscendo dal coma e i suoi occhioni verdi sono già spalancati su un mondo che non riconosce: oddio, sarà spaventatissima. Le sembrerà di essere stata abbandonata e avrà conati di vomito per quel tubo che le ho visto in bocca. Lei ha sempre avuto il terrore di soffocare, un giorno o l’altro. Oh, Cristo! Io l’ho stretta per il collo senza considerare la sua folle paura. E l’ho schiaffeggiata talmente forte da farle sanguinare il labbro. Tutta la collera che tentavo di controllare esplode: batto un pugno contro la parete bagnata, con violenza, avendo poi l’impressione che tremi. «Selvaggia, vita mia!» mi lamento ricominciando a piangere. I miei occhi bruciano di dolore vivo, una lama tagliente mi sta passando da parte a parte, ricordandomi tutto quello che io ho fatto passare a Selvaggia. Frammenti penosi del nostro trascorso mi si scagliano davanti, dipingendo il terrificante mostro che sono stato. Prima tutte le bugie, gli inganni per liberarmi di lei, per allontanarla qualche notte e vedere Monya. Poi la mia scelta catastrofica, quelle dannate fottutissime fotografie, il video, la gravidanza.
La nostra piccola Gioia e la disperazione di non averla accettata, di averle negato un padre amorevole e un compagno dolce per sua madre. Ho sbagliato tutto, ho distrutto tutto. Offuscato dal tormento di aver provocato il suo tentato suicidio, non faccio altro che pensare a quegli occhi grandi, immensi, lucidi e buoni. Amavo ammirarli appena si svegliava. Il suo sorriso era morbido e rilassato fin dai primi minuti, sapeva… illuminare tutto solo soffiandomi tra le labbra il proprio amore incondizionato. Non ho fatto altro che tentare di cancellare questi ricordi, accusandoli di essere amari e odiosi; ora, invece, darei la mia vita per riaverli. Afferro la spugna, la bagno di sapone liquido e in fretta mi insapono, continuando a versare lacrime infelici che portano il suo profumo. Quante volte abbiamo fatto l’amore qui, appoggiati a questa parete. E quante volte mi diceva che mi amava, che avrebbe voluto fosse per sempre. Quante volte… Tutte cose che io ascoltavo a malapena, perché contavo i secondi che mi separavano dall’errore più grande della mia vita. Prendevo la scusa di una riunione o di una nuova causa, per liberarmi di lei e mandarla a casa. E poi aprivo la porta a Monya, lasciandola entrare nel mio letto, dove ancora il profumo di Selvaggia aleggiava come una misteriosa ombra. Mi sentivo in colpa ma non abbastanza da fermare quel circolo vizioso e dirmi che dovevo smetterla, che Selvaggia non meritava tutto questo. Poi, il precipizio. La sua condanna a morte. Il mio essere spietato, talmente tanto crudele da non sentire altro che il bisogno di vendetta. Tornare quello di un tempo, accanirmi contro chi non lo meritava. Rovinare tutto e distruggerlo, strizzare il suo cuore tra le mani e farne ciò che più volevo. Un mostro. Io sono stato un mostro. E se lei mi perdonerà, se anche solo vorrà ascoltarmi e offrirmi un barlume di speranza, te lo giuro Dio, la renderò felice. Più di quanto merita, le darò tutto, non dovrà mai implorare o chiedere niente. Avrà il sole ogni mattina e la luna nel letto, ogni notte. Mi avvolgo l’asciugamano attorno ai fianchi e non perdo tempo a radermi: voglio solo andare da lei. Lascio la stanza da bagno così com’è e a piedi scalzi raggiungo la cabina armadio, ne esco un jeans comodo e una camicia, assieme a una giacca in pelle usurata. Abbandono tutto sul letto e mi fermo un secondo: Selvaggia adorava vedermi indossare questa giacca. Diceva che mi faceva sexy e amava scorrere le dita sulla pelle, all’altezza delle mie spalle. Mi sforzo di inghiottire il magone e mi avvicino al comò grande, aprendo il primo cassettone. Scelgo a caso un paio di boxer e un paio di calze, senza badare a niente se non al fatto di fare in fretta per arrivare il prima possibile. Poi, il mio sguardo si posa lì; dove per mesi non ha mai voluto appoggiarsi. La piccola e quadrata scatola in velluto è a malapena nascosta dalla biancheria. Il regalo di Selvaggia: il suo anello per me. Dio mio, all’improvviso ogni ricordo dell’ultimo Natale passato insieme mi tormenta con immagini veloci e vivide. Lei era talmente bella appena sveglia quella mattina e con la sua voce dolce mi aveva augurato buon Natale, porgendomi poi il cofanetto tra le mani. Mi aveva lasciato sorpreso, senza parole. Sapevo di dovermi aspettare qualsiasi cosa da lei, perché è sempre stata imprevedibile in tutto; ma saperla così innamorata e piena di fiducia per me, mentre io solo poche ore prima avevo scopato con la mia amante. Se ci ripenso, sento chiaro quell’amaro in bocca che mi faceva gridare “Fottuto bastardo, sei un perfetto imbecille!”. Prendo tra le mani la scatoletta, accarezzando il velluto con il pollice. E’ morbido come allora, quando ho avuto la lucidità di appoggiarlo qui, nascosto
dal mondo e di non gettarlo via come qualcosa di inutile. Me la sto immaginando, ora, la mia piccola Selvaggia mentre sceglieva questo anello per me, che luccica alla luce artificiale dei faretti. Sicuramente accompagnata da qualche sua compagna di classe, avrà studiato due o tre anelli. O forse avrà scelto subito questo, sicura che mi sarebbe piaciuto. E in effetti è bellissimo: largo e con la grossa pietra nera che spicca tra l’oro bianco. Non un classico anello da fidanzamento ma qualcosa che lei sperava io avrei portato con orgoglio. Piccolina mia. Tutto il suo amore è racchiuso qui dentro, in questo cerchio che si apre e chiude sul diamante nero. Oddio! Oddio… «Ti amo, Jade. So che sei tu. So che sei tu l’uomo che io voglio al mio fianco, per sempre. So che… tu farai tutto quello che è in tuo potere per rendermi felice.» mi aveva detto, guardandomi negli occhi. L’agghiacciante senso di vuoto sotto i miei piedi mi colpisce il petto, tanto da costringermi ad appoggiare i gomiti sul comò per non cadere a terra. Lei mi amava. Io ero il suo mondo e aveva voluto dimostrarmelo con questo anello. E con quegli occhi sinceri, puri, colorati di intraprendenza e di una bontà che non avevo mai visto in nessuno, prima di lei. Lei aveva talmente tanta fiducia in me da lasciarmi spazio, da concedermi il proprio corpo senza riserva. Mi aspettava raggomitolata sul divano per serate intere, con una mano sul manto scuro di Black, o addormentata con quel viso d’angelo. Mentre io la tradivo, mentendole con scuse sempre diverse; facevo leva sulla sua totale fiducia e ho giocato fino a che la corda non è diventata sottilissima e poco elastica. Ho distrutto tutto. Non ho mai indossato questo anello. Solo quel pomeriggio, a Londra, quando gli occhi di Selvaggia si erano illuminati, emozionati. Questo cerchio al dito lo sentivo così stretto, soffocante, mi bruciava sulla pelle. Intrecciavo le mie dita alle sue e mi sentivo salire la nausea, perché indossavo qualcosa di unico e le mentivo, giurandole l’amore che lei meritava, ma che io non ero stato capace di darle. Poi, non l’ho indossato mai più. Libero l’anello in oro bianco dal fermo in velluto e appoggio la scatoletta vuota sul comò. Studio ancora una volta l’incisione al suo interno, roteando il gioiello tra il dito indice e il pollice. “Sei la mia luce e il mio fuoco. Ti amo, S.” Non ha fatto scrivere una banale data, o solo il suo nome. Vi ha marchiato sopra tutto il suo amore per me, senza sapere che io lo avrei preso e buttato al vento. Mi sento bene mentre lo indosso lentamente, facendolo scivolare sul mio anulare sinistro. Non lo avevo mai fatto, l’unica volta che lo avevo indossato era stato alla mano destra. Ora, però, ho bisogno di sentirlo mio e di avere la mia piccola Selvaggia vicino, lontana come può essere ora. E’ una sensazione bellissima averlo indosso, mi completa ma getta nello sconforto il mio cuore: voglio raggiungerla subito, perché lei lo veda e possa esserne felice. Svelto, mi rivesto, indosso l’orologio che Selvaggia mi ha regalato anni fa e raccolgo la giacca in pelle. Scendo le scale in fretta, telefonando a mio padre. Lo prego di sbrigarsi, ma insisto di voler partire da solo e subito per il Presbyterian Hospital. Me lo impedisce, intimandomi di restare calmo. Lo faccio versandomi un bicchiere di scotch ma non basta, Così ne bevo un altro e mi ricordo di tornare in camera da letto. Nel comodino accanto al mio lato del letto, frugo finché non trovo il caricabatteria del mio iPhone. Mentre lo faccio mio padre mi telefona e, finalmente, sono pronto a lasciare il mio attico per correre dalla mia donna.
L’attesa rende tutto più angosciante. Il tormento al cuore non accenna minimamente ad andarsene. Mi sembra di scoppiare, di disintegrarmi. Non ci danno notizie, i dottori vanno e vengono da un reparto all’altro senza degnare me, mio padre, mia madre e Lily di un solo sguardo. A poca distanza c’è Amelia: la sua disperazione è palpabile, la sento anche solo con gli occhi. Stringe tra le dita lunghe e rugose un rosario, ma le sue labbra non si muovono anche se sono certo stia pregando per la sua bambina. Mr. Pirelli sembra improvvisamente invecchiato di almeno vent’anni, ricurvo su una sedia in plastica, attende un verdetto che forse mai si sarebbe voluto trovare davanti. Mi chiedo da quanto tempo sia qui in città, se sia mai andato al cimitero dalla nostra bambina e se sia rimasto accanto a Selvaggia, durante la fase depressiva che l’ha colpita duramente. Tutto quello che so è che ancora non ho potuto vederla. Seduto in un angolo, con i gomiti appoggiati alle ginocchia, mi obbligo a restare calmo e non fare scenate, ma in realtà odio questo modo di fare dei medici: non si rendono conto di come siamo disperati e di come abbiamo bisogno di risposte? L’unica cosa buona di questa tragedia è che ancora la stampa non ha saputo del ricovero qui. La lasceranno in pace, forse. Cazzo, non riesco neppure a inghiottire senza sentire un conato di nausea che mi sale e brucia la gola. Non posso pensarla in quelle condizioni, preferirei morire che saperla ferma e immobile su un letto d’ospedale. Non ho mai desiderato così tanto i suoi occhi aperti come ora, né i suoi sorrisi e la sua voce. «Ha un accento tutto suo.» mia sorella si volta incuriosita verso di me corrucciando le sopracciglia «Selvaggia, dico.» le spiego, tossicchiando. Poi mi passo un dito sotto il naso e sorrido. Anche se ho lo sguardo perso sul pavimento, colorato di un verdino chiaro, non vedo altro che il prato di Central Park, il grosso albero dove lei si appoggiava sempre con la schiena e la sua chioma nera, mentre leggeva un libro di poesie. «Ha un accento italiano.» Lily si porta una mano sotto il mento e appoggia il gomito su una gamba, ascoltandomi anche lei sorridente. Ma di quei sorrisi malinconici, che portano con sé un ricordo che teme non si possa afferrare mai più. «Quando mi ha parlato per la prima volta, l’ho capito subito che non è americana.» gioco con i miei pollici: li giro assieme. Cavolo, da quant’è che non facevo questo gioco? «Ha sempre avuto un modo di parlare così… fresco, attento. Mi ricordo di come ero rimasto impressionato dal modo che aveva di muovere le labbra, come se studiasse attentamente ogni sillaba.» «E’ nata qui in America, vero?» «Sì. A Manhattan.» tiro su col naso, raddrizzandomi con le spalle. Capisco che ho bisogno di rilassarmi, così mi spingo indietro e scivolo con i fianchi lungo la sedia in plastica scomoda, accomodo una caviglia sull’altro ginocchio e continuo a ricordare Selvaggia «Ma c’era qualcosa nella sua voce… me ne sono innamorato subito, Lily.» confesso a mia sorella. Penso che ci si possa innamorare di qualsiasi cosa di una persona, ma che è raro innamorarsi della voce. Quella cambia a seconda se uno ha un raffreddore o un mal di gola. La voce della mia Selvaggia invece non cambia mai; può diventare dura, arrogante, più dolce o più ruvida. Ma quel tono, quell’accento che ho sempre adorato, non l’ha mai perduto. «Quando si è presentata, quel giorno, aveva un modo così… così curioso di muoversi. Continuava a spostarsi i capelli dietro le orecchie.» «Lo fa quando è imbarazzata. Me ne sono accorta anch’io.»
Ridiamo tutti e due, io mi mordo le labbra. «I suoi occhi mi hanno incatenato subito.» ricordo ogni istante, soprattutto quando lei aveva scostato i grandi occhiali da sole e mi aveva illuminato con quelle iridi enormi, fatte di prato «Sono stato fottuto dal primo momento che li ho visti.» «E poi che è successo, Jade?» Lily sembra incupirsi, il suo tono si abbassa, non c’è più un sorriso «Perché sei arrivato a odiarla, a rinnegarla al tuo cuore?» Resto muto, non perché non ho sentito la domanda di mia sorella, ma perché sto ancora cercando dentro me una valida ragione per il mio comportamento. Tutto era perfetto. Sarebbe durato per sempre, avremmo superato qualunque cosa, saremmo stati tutto quello che lei aveva sempre sognato. «Non lo so.» mormoro sconfitto. Osservo le fughe bianche tra una mattonella e l’altra, ritrovandomi davanti la mia Selvaggia che mi cammina incontro, il giorno del nostro primo appuntamento. Con quell’andatura maliziosa e lenta, inconsapevole di quanto fosse deliziosamente sexy «Se potessi tornare indietro, Lily, ti giuro che non la lascerei mai sola, neppure un secondo. La terrei sempre stretta a me, le farei sentire la mia presenza costantemente e manterrei finalmente la mia promessa.» «Quale promessa?» mi domanda, incuriosita e di nuovo sorridente. «Portarla in Italia.» la guardo, tenendo per ultimo la parte più pazza del nostro folle sogno «In moto.» «Un viaggio dall’altra parte del mondo in moto? Ma sei matto?» mia sorella scoppia a ridere, nascondendosi la bocca in una mano. Io annuisco leccandomi le labbra. «Lei non ha mai visitato l’Italia e le avevo promesso che ce l’avrei portata io, ma in moto.» «E’ una cosa folle, Jayden!» «Sono stato un folle io a lasciarla, Lillian.» diveniamo di nuovo seri improvvisamente. Scuoto la testa: ho ancora tante lacrime da versare, ma voglio mostrarle solo a lei «Ma ti giuro su Dio e sul mio nome che combatterò con le unghie e con i denti per riprendermela e darle quello che le avevo promesso.» Sembra soddisfatta, Lily; mi accarezza una mano e mi annuisce orgogliosa, poi si appoggia con la testa nell’incavo della mia spalla e io le lascio un bacio tra i capelli scuri. Lo facevo spesso anche con Selvaggia, ad ogni istante: adoravo quando lei si appoggiava al mio petto mentre eravamo nudi e sudati, dopo aver fatto l’amore per una notte intera. «Tesoro? Jade? Venite.» mia madre compare sulla porta della piccola sala d’aspetto del reparto rianimazione, facendoci cenno di seguirla. Non mi piace vederla piangere, ma con un fazzoletto di carta continua a tamponarsi le guance, gli occhi cerchiati di rosso e umidi di dolore. La seguiamo fino al corridoio in penombra, illuminato dai raggi di sole che penetrano dalle finestre protette da tende pesanti e moderne. Alcuni dottori sono attorniati davanti alla stanza in fondo al reparto. Un medico alto, dal viso giovane e i capelli ingellati tirati indietro, sta gesticolando mentre parla con Amelia. Mi fanno paura le lunghe ombre che si proiettano a terra e che incombono come notizie funeste che potrebbero darci di Selvaggia. Avvicinandoci, ci rendiamo conto di come non ci sia un solo sorriso a disegnare i volti tesi di Amelia, suo figlio, Carlo e mio padre. Questo mi fa tremare: no, piccolina! No! «Chiedo la massima collaborazione di tutti voi, signori: come sempre accade, un coma non è una cosa da prendere alla leggera. I colleghi del pronto soccorso hanno fatto un ottimo lavoro e credo che lei, Mr. Pirelli, non abbia potuto fare scelta migliore portando qui sua figlia.» Carlo annuisce, ma non sembra affatto orgoglioso. I suoi occhi sembrano aver pianto, sono afflitti come non mai «Nonostante questo, purtroppo, non ho notizie buone per voi.»
Tutti noi restiamo senza fiato, evitiamo di guardarci negli occhi, l’unico sguardo che seguiamo è quello del dottore e le sue mani che continuano a gesticolare, mentre stringe tra le dita una stilografica preziosa, che porta delle iniziali scritte in corsivo. «Il quadro clinico della paziente non è tragico come temevamo ma questo non deve confortarvi. I colleghi che le hanno prestato il primo soccorso hanno svolto un ottimo lavoro, suturando le ferite ai polsi e eseguendo immediatamente una lavanda gastrica per espellere gran parte degli ansiolitici ingeriti da Selvaggia.» «Noi non…» mia madre si guarda un attimo in viso con Ava, che le annuisce e prende coraggio «Noi non sappiamo in che modo Selvaggia ha tentato il suicidio.» Il dottore sembra per un istante in imbarazzo, cerca il consenso negli occhi di Carlo che però non registrano altro che uno stato catatonico, dove c’è dipinta solo l’immagine di una figlia disperata. «Selvaggia si è imbottita di farmaci, sicuramente ansiolitici. Poi, con la mente appannata, si è tagliata le vene procurandosi ferite così profonde da causare una copiosa emorragia che l’avrebbe portata alla morte se non fosse intervenuto in tempo suo padre.» Si è tagliata le vene. Si è avvelenata. Ha preferito cercare la morte, da sola, piuttosto che sopportare ancora tutto il peso della situazione che io l’ho costretta a vivere. Vorrei poter chiudere gli occhi per non vedere quel piccolo corpo martoriato dai tagli e dal sangue, ma le immagini che mi passano davanti sono forti, terrificanti, tali da mettermi paura. Ha trovato il coraggio di porre la parola fine a tutto, disperata e sola, come io l’avevo costretta a essere. Mi sento mancare, le ginocchia mi tremano mentre il suo sorriso triste mi passa sotto agli occhi, le sue lacrime e i suoi singhiozzi riempiono le mie orecchie fino a farle scoppiare. Era arrivata al limite. E ha scelto la via della disperazione. «Selvaggia è entrata in coma anche a causa del protrarsi dello shock ipovolemico causato dalla grave emorragia. La cosa che ci preoccupa di più e che non ci permette di intervenire immediatamente, è il sospetto che il suo cervello sia rimasto senza ossigeno per un tempo indefinito. Potremo valutare eventuali danni collaterali, se ce ne saranno, solo quando la paziente si risveglierà.» annuncia cupo. Restiamo impietriti, fingendo di non aver capito che cosa sottintenda. Avvertiamo solo tanta disperazione, palpabile, vera e concreta. La stessa in cui è stretto il mio cuore, che è impedito nel pompare e respirare bene. Tutto diventa nero, asfittico, ancora una volta sento di soffocare. Riesco a deglutire ma solo a fatica; sento Lily aggrapparsi a me nel tentativo di non cadere a terra. «Siamo in un momento molto critico, La prognosi è assolutamente riservata, non possiamo valutare né la durata né la gravità di possibili lesioni.» «Che significa?» la domanda spettava a Carlo. Ma sembra incatenato a uno stato di trance, completamente assente e pietrificato davanti a una possibile condanna a morte della figlia. Si fa avanti, invece, mio padre, stringendo ancora di più al proprio fianco mia madre, ma raggelandosi nella voce. «Significa che non possiamo sapere né quando né se ci sarà un risveglio della paziente.» Un’unica spinta. E precipito giù per il burrone.
Impronte sulla sabbia «Mamma, mamma! Un’altra!» Sollevo il piccolo corpo della mia bambina trattenendola sotto le braccine sottili. I piccoli piedini nudi accarezzano solamente la schiuma del mare, prima che io ne venga avvolta, piroettando attorno a me stessa con lei abbracciata a me. Si ancora alle mie mani, stringe gli occhi e il suo sorriso da bambina riempie l’aria, combattendo contro il ruggito delle onde. Quando il mare si fa di nuovo indietro, riprendendo la sua rincorsa, la rimetto a terra e mi diverto a vederla affossarsi fino alle caviglie sulla sabbia appesantita dall’acqua. «Dai, forza!» la incito. Ricomincio a correre davanti a me, seguendo i passi che prima avevamo stabilito. Non si vedono più le nostre impronte sulla sabbia, ma io so che ci sono: loro ci saranno per sempre. Mi piace quello che vedo davanti a me: la spiaggia, il mare. Degli scogli in lontananza che tentano di fermare le onde, che però rinascono più forti di prima. I gabbiani sono in volo, compiendo dei cerchi che sembrano seguire me e la mia bambina. Il loro canto non mi disturba, anzi; mi piace alzare gli occhi e vedere quelle ali spesse sbattere contro il cielo luminoso. Diventano piccole sagome nere quando si incrociano con il sole cocente, alto e bellissimo, ma continuano a cantare. Poi precipitano giù, accarezzando l’aria in volo. Mi guardo indietro mentre rincorro il vento e tra i capelli neri vedo la mia piccola Gioia saltellare, evitare la schiuma delle onde e tentare di afferrarmi. Non corro troppo veloce, non la metterei mai a disagio o davanti alla stanchezza. Ci gioco, come fa ogni buona madre. «Ti prendo, mamma!» «Vieni qui, lumachina.» mi inginocchio a terra di colpo e allargo le braccia davanti a lei. E’ a pochissimi metri, così vicina che posso scorgere quegli occhi così accesi e… vivi. Solari. Mi ricordano il sole, i suoi occhi. Il cielo. Il suo respiro affannato mi fa sorridere e alla fine si getta tra le mie braccia, allacciandosi con le sue al mio collo. Mi piace quando mi stringe così: mi fa sentire completa. Che buon profumo ha il mio tesoro. I capelli sono morbidi, l’essenza dolcissima della camomilla li accarezza come fossero appena stati spazzolati. Neri come i miei, hanno la setosità che solo una bambina può permettersi. Oh, che meraviglia stringere contro di me questo corpicino così caldo, sapere che è reale e solamente mio. Con movimenti lenti e circolari, accarezzo la sua schiena mentre Gioia mi cinge ancora più forte il collo e sospira beatamente. Non c’è niente che possa separarci o interromperci, adesso: né il rumore del mare, né quelle voci che arrivano da laggiù, dove ho lasciato solo dolore e rabbia. Ora ci siamo solo io e la mia bambina. Le onde, i gabbiani, il sole e il cielo a proteggerci. Gioia si tira indietro, appoggiandomi le manine piccole sul petto. Resto a guardarla concentrarsi con lo sguardo e la trattengo per la vita, mentre le sue dita minuscole disegnano qualcosa. Sorrido, non appena capisco: la mia piccola, meravigliosa bambina innamorata della sua mamma. «Anche io ti voglio bene, amore mio.» «Tanto tantissimo?»
«Tantissimissimo!» la stringo di nuovo e mi sforzo di alzarmi sulle ginocchia, allargando le sue gambe e ricominciando a camminare sulla spiaggia. Lasciamo dietro di noi l’impronta dei suoi piccoli piedi e ora ci sono i miei piedi a formare un piccolo sentiero. Gioia si stringe a me riempiendomi la guancia di piccoli baci. «Mhh!» sembra disgustata, strizza un occhio e si passa un pugnetto chiuso sulle labbra «Sei salata, mammina!» «Non sono salata, amore. E’ il mare. Anche tu sei salata, è lui che fa tutto.» le spiego ridendo. E’ davvero buffa e per nulla convinta: si guarda la manina, si lecca un dito e l’appoggia sulla sua guancia, poi torna a mettersi il dito in bocca. «E’ vero!» si illumina. «Che ti dicevo?» unisco le mani sotto il suo sederino tondo e mi appoggio con la fronte contro la sua «Il mare è salato e il vento forte porta su la sua essenza, che viene chiamata salsedine.» «E perché c’è così tanto sale? Chi ce l’ha buttato?» Mi sorprendo di questa domanda. Gioia è una bambina e ogni bambina chiede ai genitori del perché il mare sia salato. Avrei sempre voluto domandarlo anche io, quando ero piccina, ma non avevo nessuno a cui chiederlo. «Le Sirene.» mormoro immaginando una risposta che io avrei voluto avere, se mai lo avessi domandato. Le ho sempre immaginate bellissime, dotate di una lunghissima coda a pesce e di una voce così straordinaria da incantare il più bel Principe vivente sulla terra. «Perché piangono?» domanda, incoraggiandomi a darle una risposta in più. Le piace questa storia. E anche a me. «Sì, amore mio. Le Sirene piangono ogni notte.» continuo a fissare un punto preciso al centro dell’orizzonte dove un alto scoglio si erge, torreggiando sul mare blu «Lo sai cosa succede di notte?» Gioia scuote la testa ma non è per niente impaurita, lo sa che non le racconterei mai una storia dell’orrore. E’ invece curiosa e mi fissa con quegli occhioni celesti, tanto uguali ai suoi. «Ogni sera, quando cala la notte, una nave con tutto il suo equipaggiamento passa su queste acque, bevendo vino e suonando buona musica, sparano tanti fuochi d’artificio in aria. Questa musica piace tanto alle Sirene che arrivano apposta dal fondo del mare, per sentirla e per scegliere chi, tra i marinai, sarà il loro promesso sposo. Restano così tutta la notte ancorate alla nave e seguono ogni ballo, si innamorano e finiscono per desiderare di portare con sé il proprio uomo giù in fondo il mare, scatenando l’ira di Re Tritone. Lui allora scatena una tempesta che fa naufragare l’imbarcazione, uccidendo ogni uomo.» «E la Sirena perché piange? Per il suo uomo?» «Sì.» studio ancora l’orizzonte, ammirando il mare farsi più chiaro in alcuni punti «Lei piange e intona un canto disperato, perché il suo re ha ucciso l’unico grande amore.» Rattristata, Gioia si stringe di più a me e affonda la testolina tra il collo e la spalla. Vorrei che anche lei credesse nelle Sirene e anche nelle Fate e nei piccoli Folletti che abitano i boschi. Osserviamo a lungo l’orizzonte assieme, gustandoci il sole alto che mai tende a calare, mentre la schiuma delle onde mi bagna i piedi e cancella le impronte lasciate indietro. «Mammina?» «Mmh?» «Le Sirene cantano solo di notte?» «Sì, amore mio. Solo di notte.»
«Allora io non le sentirò mai.» è delusa. La guardo: i suoi occhi non sembrano mai tristi. Anzi, sono sereni e vivaci come sempre «E se invece canti tu per me?» «Vuoi che sia la tua Sirena?» annuisce in modo vistoso, muovendo contro il vento quei suoi morbidi capelli neri «E che canzone vorresti?» «La ninna nanna che mi cantavi sempre quando ero qui dentro.» passa una manina tra i nostri corpi e mi accarezza l’addome, poi torna a guardarmi, mentre io sono esterrefatta «Mi piaceva tanto. Me la ricanti?» «Tutte le volte che vuoi, Gioia mia.» Mi incammino di nuovo, con lei in braccio e le impronte ricominciano sulla sabbia. Mentre intono la sua ninna nanna…
Capitolo 4 Sto precipitando da un grattacielo altissimo. E’ tutto veloce, il vento mi schiaffeggia il viso, i miei occhi sono spalancati verso il vuoto e vedo quel terreno cementato su cui sto per schiantarmi. Selvaggia potrebbe non risvegliarsi mai più. La piccola e fragile ragazza che versa tra la vita e la morte, in una stanza a pochi passi da me, rischia di non riaprire mai gli occhi e di restare per sempre attaccata a una macchina, o di morire ancor prima di aver compiuto vent’anni. «Da quanto ci è stato riferito dalla dottoressa che l’ha in cura, Selvaggia soffriva di depressione ultimamente. Questa temo sia stata una delle cause che ha provocato questa frattura che l’ha portata al suicidio.» non sento cosa stiano domandando né chi lo stia facendo. Non vedo il dottore, non vedo gli altri attorno a me. Sento la mia testa girare, la gola chiudersi e lo stomaco gridarmi che è tutta colpa mia, che avrei dovuto crederle e che avrei potuto evitare tutto quanto. Non respiro più. O forse sono io a non volerlo fare. Se smettessi di respirare e morissi forse Dio prenderebbe me al suo posto e lascerebbe Selvaggia qui? Potrei farlo, se mi giurassero che lei si sveglierà. E tornerà quella che ho conosciuto, bellissima e innocente. Stupenda ragazza dai lunghi capelli neri e occhi verdi. Sarei disposto a dare la mia vita, ma ridatela alla mia Selvaggia. Ho bisogno di aria. Ho bisogno di allontanarmi da qui e correre a vomitare, comincio a tossire violentemente, cercando di prendere respiro. Non ci riesco, non c’è più niente nei miei polmoni. Mia sorella e mia madre cercano di aiutarmi ma le scanso, correndo a nascondermi nella prima toilette che trovo, affacciata sul lungo corridoio. Non mi preoccupo di chiudere le porte, mi appoggio alla parete con le braccia e vomito. Fiotti di bile lasciano il mio stomaco completamente vuoto, ho la sensazione che qualcuno stia tirando con forza le mie viscere e me le stia strappando, gridandomi “Figlio di puttana, non hai visto cosa le hai fatto?” Il mio viso si bagna di lacrime amare, non mi accorgo di singhiozzare finché del catarro non mi impedisce di reprimere un altro conato forte, che mi porta a liberarmi ancora lo stomaco. Chiudo un pugno contro la parete fredda del bagno, poi gratto le mattonelle con i polpastrelli e chino il capo, digrignando i denti. «Selvaggia!» sento il suo nome graffiarmi le corde vocali, piango talmente tanto da sentirmi soffocato da un senso di malessere mai provato prima. Lei rischia di non svegliarsi mai più. Io rischio di non rivedere mai più quei grandi occhi verdi. Rischio di non avere il tempo di dirle quanto in realtà io la ami e quanto voglio solo il suo perdono, il suo amore, le sue carezze e ciò che una volta eravamo. Anzi, mille volte di più. Mille volte meglio, per renderla felice e mai rattristarla, per donarle tutto e non farle mancare mai niente. Per portarla in Italia, in Spagna, in Messico, Francia, Austria, Texas. Ovunque lei voglia: a patto che si svegli. Basta che sia di nuovo con me, affacciata alla vita. Crollo a terra, spalle contro il muro e ginocchia piegate contro il petto. Improvvisamente sento freddo, mi tremano le mani: nello spazio ristretto di un bagno non sento altro che l’odore acre del mio vomito e il peccato del mio passato. E le grida disperate di Selvaggia, che imploravano di crederle, il riecheggiare di quello schiaffo che sono stato capace di darle, le angherie che le ho fatto patire. Sento tutto ed è un casino enorme che mi impedisce di vedere cosa c’è intorno.
Ho ascoltato tante volte Selvaggia suonare il pianoforte. Battere quei tasti bianchi e neri con tanta passione, amore e disperazione, da restarne coinvolto. Tante volte mi sono domandato cosa provasse mentre suonava una melodia triste che mi aveva fatto ascoltare pochi giorni prima che partissimo per Londra. Dava l’impressione di fluttuare tra le note, si lasciava trasportare via, chiudeva gli occhi e riusciva a ricordare i tasti a memoria, intonando anche con la voce ciò che aveva bisogno di comunicare con la musica. Cosa suoneresti adesso, amore mio? Che musica sceglieresti, se potessi vederti? Come faresti a spiegarmi che i tuoi occhi si sono chiusi, quando invece tu avresti solo voluto tenerli aperti? Risento quella musica così dolorosa, così triste da portarmi a piangere. Quando me la fece sentire, non ho mai pensato neppure per un istante che non fosse adatta a lei. Qualunque cosa andava bene, perché lei riusciva a renderla unica e bellissima, lei riusciva a trapassarti l’anima mentre suonava il pianoforte. Le mie gambe si muovono pesanti verso una stanza che ancora non ho potuto vedere, quando sento quella musica che invade i miei ricordi. Come quella pioggia che batteva violenta contro le finestre, o la luminosità dei grandi lampadari di villa Pirelli mentre lei suonava solo per me. Si ancorava a quel pianoforte, quando cercava il modo di dirmi qualcosa. Si aggrappava a un modo tutto suo di esprimersi. Non mi accorgo di come le mie dita si muovono, imitando le sue mentre suonava, finché non smetto di camminare e mi ritrovo davanti alla vetrata grande e spessa che separa Selvaggia dal resto del mondo. Non sento il bisogno di respirare più, perché lei non lo sta facendo da sola. Piccola e fragile, indifesa come una bambina appena venuta al mondo, è stesa su un letto bianco, il cuscino forse troppo gonfio sotto la sua testa. Il suo profilo così perfetto da sembrare lo splendido dipinto di una bellissima dea. Le braccia nude ferme lungo i fianchi magri. E fili. Fili di flebo, tubi che corrono lungo il suo corpo piccolo. Delle coperte, troppo bianche e pesanti per lei, la tengono calda e le offrono magari conforto. O forse le danno fastidio. Mia madre le sta accarezzando una guancia, piangendo. Le sta mormorando qualcosa. Mio padre, dietro le sue spalle, le accarezza una mano impaurito di farle del male e piange anche lui. Come si piange per una figlia. Un solo raggio di sole la aiuta a illuminarsi davanti ai miei occhi: la colpisce sotto lo sterno, lì dove una volta cresceva e batteva il cuoricino della nostra Gioia. Le sue mani sono ferme. Non suonano più. Sono immobili, senza smalto, senza anelli. Lei non ne ha mai avuti. “Ma te ne regalerò di bellissimi, amore.” le prometto, tenendo per me il pensiero. Non penso ad Amelia, che potrebbe fermarmi o a Carlo, che potrebbe ostacolarmi di nuovo. Mi sposto verso sinistra e spingo in avanti la porta che mi separa da lei assieme alla vetrata. Non sento il profumo adulto di mia madre, né quello di mio padre. Io sento il tuo, amore. Sento quelle note accarezzarmi l’anima mentre tu le proietti in aria e lasci andare tutto quello che senti. Ho paura ad avanzare ma mi accorgo di farlo ugualmente, con le ginocchia che tremano e il cuore che ha smesso di battere. Fluttuo nell’aria sotto un raggio di sole che mi guida come fosse una via sicura, verso il piccolo angelo riverso su un letto anonimo.
Mia madre mi guarda solo per pochi istanti, poi fa leva su mio padre e si scansa, mettendosi di lato e lasciando a me il posto. Dio, quanto sei bella, amore mio. Sembra distesa, serena. La sua fronte non è corrucciata né ha le palpebre strizzate. E’ tranquilla, come se dormisse. Il suo volto è più magro di come lo ricordavo, pallido da sembrare trasparente, ma le labbra sono violacee, leggermente dischiuse dal respiratore che l’aiuta a riempire i polmoni di quello che le serve per combattere e sopravvivere. Il collo elegante è scoperto dai capelli neri, messi di lato sulle spalle. E’ immobile, come lei era abituata a starsene per una notte intera. Era capace di non muoversi per tutto il tempo, di respirare piano piano e non far pesare mai la sua presenza. Le braccia sembrano tormentate all’altezza dei gomiti: è talmente magra che le flebo le hanno lasciato profondi lividi e macchie scure, che resteranno a lungo e le tracceranno questi giorni di agonia come un tatuaggio sulla pelle. Temo di morire quando invece vedo quelle grandi fasciature ai polsi. Mi si mozza il fiato, dimentico di dove sono e non c’è altro che la disperazione di un gesto simile, sotto ai miei occhi. Quante volte avrai strizzato forte gli occhi, lasciando andare delle lacrime pesanti? Le dita sono più magre, le mani più belle che io abbia mai visto sono ferme e non accennano a muoversi, nemmeno per accarezzare il tessuto ruvido delle lenzuola. Tutto è fermo, tutto è bianco. Tutto è imperfetto. Quanto dolore hai dovuto patire, amore mio? Non sono mai stato coraggioso come lei. Nemmeno ora, che crollo seduto accanto al piccolo corpo immobile. Accarezzo l’idea di sfiorarla, magari con calma, piano, per paura di farle male. Ma poi recedo: rischierei di ferirla ancora una volta, di ucciderla, stavolta. Accetto la sconfitta, invece. Chino la testa e piango il suo nome fino a che la gola non mi brucia. Fino a che il mio cuore non comincia a sanguinare.
E’ sempre giorno, qui «A me non piacciono i biscotti al miele, mamma.» «Nemmeno a me, tesoro mio. Ma ti fanno bene per crescere.» tuffo un altro biscotto chiaro e farinoso dentro la grande tazza di latte. E’ la stessa tazza in cui bevevo sempre io la mia colazione, quando ero qui dalla zia. Lei mi svegliava sempre con il profumo del latte e io facevo i capricci: a me non è mai piaciuto molto neppure il latte, a dire il vero. Non mi sorprendo che mia figlia abbia i miei stessi gusti, è fatta a mia immagine e somiglianza. E nemmeno a Jade piace il miele, in effetti. Qualcosa di lui c’è pure. Purtroppo. Appoggio la tazza in ceramica, con disegnata una simpatica coccinella rossa e nera, sulla tovaglietta davanti a mia figlia e vi metto accanto il cucchiaio con il manico in plastica. «Mfh!» Gioia arriccia le labbra in un moto di disgusto ma sa bene che deve mangiarlo se vuole andare a giocare con Venere «E se ti prometto che più tardi mi mangio il panino con il prosciutto?» «Niente da fare: prima devi mangiare latte e biscotti. Ora.» «Uffi!» oh, la mia stessa espressione quando afferravo di malavoglia quel cucchiaio e me lo portavo alla bocca. Io tendevo sempre ad annusare il latte arricciando il naso, ma non era mai una scusa sufficiente per convincere la zia a farmi evitare lo zuccheroso miele. Finivo sempre per doverlo mangiare tutto, inghiottendolo per forza. Ma finiva sempre per piacermi. Spero la stessa cosa anche per Gioia: il latte con il miele non potrà farle che bene. «A pranzo cosa vorresti, amore?» «Uhm… posso scegliere?» «Certo.» assicuro, versandomi una tazza di caffè bollente direttamente dalla moca «Vuoi della pasta? O preferisci qualcos’altro?» «Ma pranzo a che ora è?» Guardo mia figlia concentrarsi sulla luce che penetra dalle finestre aperte della cucina. Stringe gli occhi celesti contro il sole e sembra così seria e pensierosa. In effetti, il sole non è mai calato. E’ alto, arriva quasi a tramontare e poi risale su. E’ sempre giorno. Non si capisce mai quando sia ora di dormire e Gioia la prende come un’ottima scusa per giocare assieme a me. «Tra qualche ora.» scrollo le spalle, mi appoggio con i fianchi contro il piano della cucina e bevo un sorso del mio caffè amaro. Ma che ore sono? Non c’è un solo orologio in tutta la casa. Ovvero: c’è, ma è fermo al giorno 8 settembre, alle ore 23:49. Il momento in cui i miei polsi sono stati lacerati e io ho viaggiato fino a qui. E’ tutto fermo ad allora ed è stupendo. C’è tanta pace, quella pace che ho sempre cercato e non ho mai afferrato meglio di ora. Il fatto che non arrivi mai il buio, mi piace: io ho paura del buio. Di notte ho sempre temuto di essere inghiottita dal nulla. Ora che c’è sempre luce però, mi sento al sicuro. «Io non so cos’è la notte, mamma.» guardo mia figlia sorpresa: come può capire cosa penso? «Qui è sempre giorno e io sapevo che ti sarebbe piaciuto.» Beve direttamente dalla tazza, poi l’allontana e mi viene da ridere: si è fatta i baffetti con il latte. Anche se cerca di arrivarci con la lingua, non ce la fa e quindi restano là. «Se ti cucinassi pasta italiana con peperoni e pomodori?» mi avvicino, le pulisco le labbra con un tovagliolo di carta e mi siedo di fronte a lei «O preferisci, che so, hamburger e patatine?»
«Patatine fritte?» spalanca i suoi grandi occhi celesti, in modo così allegro e speranzoso che sorrido a denti stretti e annuisco, sapendo di farla felice «Possiamo tocciarle dentro il ketchup e la maionese?» «Ma certo, amore mio.» Le accarezzo le guance, così rosse e calde. E’ talmente bella, la mia bambina. I capelli neri raccolti in due trecce le evidenziano leggermente le orecchie, non ancora bucate. «Allora ti aiuto a impastare la carne. Cosa ci vuole?» «Ci vuole che prima devi terminare il latte, furbacchiona!» la rimprovero. Resta per un po’ a bocca aperta, poi le sue fossette si accentuano ancora di più e le mani piccoline prendono la tazza, gigantesca per lei, e finisce il latte, ritrovandosi di nuovo i baffetti sotto il naso. «Fatto!» annuncia trionfante e, in effetti, è vero: ottima cosa per farla mangiare! Anche io finisco il mio caffè, poi mentre lei va in bagno a lavarsi i denti come le ho insegnato, lavo le nostre tazze e le lascio gocciolare lungo la rastrelliera dei piatti. “E’ sempre giorno qui”, mi ha detto. E c’è un sole meraviglioso, che splende cristallino sul mare calmo. Mi fermo a osservarlo con sguardo sognante, tendendo le braccia sul piano di lavoro della cucina. Questo è un bellissimo posto per crescere la mia bambina. C’è la pace che tutte le mamme cercano e poi c’è la musica del pianoforte, le onde del mare e il canto dei gabbiani. Tutto perfetto per far crescere bene la mia Gioia. «Eccomi!» si asciuga le manine sulla gonnellina verde che le ho fatto indossare, trascina una sedia fino ai fornelli e poi ci si arrampica su, in modo da ritrovarsi in piedi quasi alla mia altezza «Che faccio?» «Tu ti occupi delle uova.» «A che ti servono le uova, mamma?» corruga la fronte, perdendo il suo sorriso infantile. Ma io so come farglielo recuperare al volo. «Prepariamo i pancakes e una bella torta ai mirtilli, ti va?» Gli occhi di mia figlia si illuminano ancora di più, il sorriso le arriva alle orecchie e scoppia in un battito di mani, felice come non l’avevo vista mai. Dal frigorifero prendo la caraffa di latte, le uova e i frutti di bosco. Poi, da un’anta sopra il lavandino, prendo lo sciroppo d’acero e un piatto assieme a una ciotola in vetro. «Qui ci mettiamo le uova, ok?» «Posso romperle?» «Sì, ma attenta a…» non faccio in tempo a finire di parlare, che la mia bambina ha spaccato le uova e non le ha divise come si deve. Mi metto a ridere, appoggio la farina già setacciata e l’aiuto a capire. «Scusa, mamma.» «Non fa niente, amore. Qui ci andava solo il rosso, ma non importa.» gioco con lei, toccandole il nasino all’insù con il dito sporco di farina. Ride, rallegrando tutta la casa invasa solo dal rumore del mare e da un aleggiare leggero di pianoforte che suona. Le insegno a dividere tuorlo e albume e poi la lascio fare quando le sbatte, a modo suo. «I pancakes quando li mangiamo?» «Quando vuoi, amore.» le accarezzo la testa con un bacio, poi mi metto alle sue spalle e l’aiuto a reggere bene il setaccio per la farina e lo zucchero «Qui devi fare così: sbattilo bene, con forza, così la farina scende meglio.» Le sue manine battono contro il bordo del setaccio, segue tutta la procedura con massima attenzione. La vedo serrare le labbra assieme, corruccia quelle sopracciglia sottili e si concentra. E’ buffissima.
La cucina si riempie presto di profumo dolce e speziato, versiamo insieme lo sciroppo d’acero su due pancakes e la mia piccola Gioia si inginocchia sulla sedia, mangiandosene uno da sola. Assaggio qualche frutto di bosco osservandola: è bellissima. Così educata, composta, anche se tutta sporca di farina. Ce l’ha pure sulla fronte, è possibile? «Ora posso andare a giocare con Venere?» si asciuga le manine sulla gonnellina, non più verde. «Sì, vai.» «Posso stare quanto voglio fuori?» mi fa chinare, per stamparmi un bacio sulla guancia. «Sì, quanto vuoi.» Tanto è sempre giorno, qui.