Primavera o fiori o estate non sarà mai più così. Charles Bukowski
CLAUDIO MARINI Fratelli di sale
Book
a cura di by Italo Bergantini testi di texts by Michele Ainis Gianluca Marziani Ugo Pastorino Gabriele Simongini Riccardo Vannucci collana book series Romberg Project progetto e realizzazione project planning and production Italo Bergantini coordinamento coordination Maria Cristina Mangiapelo ufficio stampa press office ROMBERG Arte Contemporanea, Latina crediti fotografici photographic credits Emanuela Sambucci, Velletri per le opere / for works
Marcello Scopelliti, Latina per la copertina e le immagini d’allestimento / for the cover and set-up images
traduzione translation Paola Romagnolo, Latina
Palazzo Collicola Arti Visive Comune di Spoleto Š 2016 ROMBERG Edizioni
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Liturgie Gianluca Marziani Ripartire dal punto (cascame) in cui ci siamo lasciati alcuni anni fa. Ritrovare il filo rosso (nel caso di Claudio Marini i fili hanno senso “filologico”) che unisce le energie umane oltre i varchi del tempo lineare e il muro dello spazio percepito. Riprendere un racconto espositivo che avevamo intrapreso negli anni Novanta… nel frattempo non dimentico nulla delle esperienze assieme: Italo Bergantini che ci ha presentati, le mostre da Romberg e in alcuni spazi pubblici, l’Italia e la Croazia, le personali e le collettive a tema, i cataloghi come taccuini etici. Un viaggio che aveva le sue pause naturali nel borgo storico di Velletri, tra lo studio di Claudio e le hosterie in cui cenavamo per parlare di progetti e calcio (Lazio in particolare), donne e altri cazzeggi: la vita vera per capirci, quella che rende l’arte una possibilità, un varco, una promessa… quella vita che puzza e profuma, ferisce e abbraccia, sporca e ripulisce, unisce e distrugge: è la vita che Marini ipnotizza sui quadri per ridarci una lettera figurativa, un epistolario drammaturgico del tempo reale. Parlo di carne viva pensando alla naturale spontaneità dell’artista, al suo modo “contadino” di asciugare la complessità delle cose, tornando al valore della terra e delle materie pulsanti, intrise di gesti e fatica, consumate dal lento dispiegarsi del presente. Qui, tra l’Appia e le colline velletrane, guardando il mare dall’alto di una piccola finestra, qui tra le impronte di antiche gesta romane, sentendo l’interstizio dei luoghi sospesi, qui Claudio Marini sente profondamente le voci di dentro, ascoltando il rumore baritonale della Storia e la possibilità di un’isola ideale. Chi altri poteva essere il preferito di Claudio se non Robert Rauschenberg, un gigante che nobilitava lo scarto con l’indole dell’archeologo metropolitano: entrambi sembrano “cucinare” sull’opera, come se bruciassero l’amalgama degli elementi riciclati, usando fili nascosti con cui tessere il mosaico delle differenze sociali e culturali. Rauschenberg e il “figlio” Marini cuciono lo scarto per dare senso agli eventi, per la necessità del ricordare attraverso il frammento sopravvissuto: perché solo così sopravvive la civiltà della memoria, solo così alcuni uomini con il cuore dentro gli occhi offrono al ricordo la certificazione di un’eredità. L’arte è una formidabile possibilità per ricordare, un dono in cui l’opera si pone in perenne e rinnovabile sintonia emotiva con il lutto, la perdita, la ferita aperta. Creare impone contenuti diversi per ogni artista, ovvio, ma per tutti significa mappare il cuore di un’emozione, entrando nel labirinto dei sentimenti, varcando soglie inconsuete e dolorose, camminando al buio per afferrare i brandelli di luce fuggevole. Questa mostra, senza alcuna casualità, inizia dove si formula la dimensione del lutto privato, nell’epicentro visivo in cui Claudio rimembra Giancarlo, il fratello morto di recente: è la perdita come filo di luce che traccia mappe nel
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nero catramoso. Le zone luminose somigliano a vele ma anche a polmoni, non a caso due forme che hanno bisogno di aria, di un flusso continuo per gonfiarsi e vivere. Volendo condividere il peso della memoria, l’artista ha inserito alcuni foglietti su cui sono appuntati numeri riguardanti faccende personali, momenti privati che saldano la fratellanza collettiva con una silenziosa frequenza dell’infinito leopardiano. Un altro nome a cui penso, guardando le opere di Marini, è proprio Giacomo Leopardi. Il poeta marchigiano sentiva la Natura in tutta la sua feroce crudeltà, mescolandola alle gesta dei piccoli uomini che in quel paesaggio lottavano come uccelli nel vortice di un uragano. La natura di Leopardi e Marini si trasforma in uno spessore, un pack geopolitico dai molti strati d’esperienza e battaglia. Tutto diviene duro come pietra lavica, le bruciature si trasformano in croste, le urla in canti cosmici, le lacrime in sorgenti rigenerative. Le loro catarsi sono l’urlo munchiano del dolore arcaico, sono l’eco del pianto nelle caverne del tempo perduto. La loro rabbia prosegue oltre la pagina, oltre la tela, oltre la tavola… colpendo il cuore di chi capta la grammatica formale, capendo i verbi figurativi, scoprendo sostantivi colorati e aggettivi scurissimi, assorbendo frasi che s’incidono tra le onde del comune destino. La tragedia di un uomo si trasforma nella tragedia di un’epoca, una generazione, una storia
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Vista di allestimento della sala Stelle Cadute Palazzo Collicola Arti Visive, Spoleto
collettiva. Quelle vele bianche indicano il varco di luce perpetua, la speranza di un necessario futuro, la celebrazione silente del dolore privato. Ci conducono verso la nostra grande madre, verso un Mediterraneo che conserva, nel ricordo mai sopito, le antiche gesta filosofiche, etiche, civili, culturali… le vele di Marini sospingono adesso verso l’età senile di un mare che vorrebbe rigenerazione liquida, un mare affaticato che non vorrebbe sentire il galleggiamento insostenibile della giovinezza perduta. Il Mediterraneo chiede che la vita riapra le sue vele e gonfi i suoi polmoni, quasi a connettere “Omaggio a Giancarlo” con le tragedie della recente cronaca: il privato e il collettivo dentro l’energia della lotta incessante per uscire dal nero, per riprendere ossigeno nella luce, per ribadire nel gesto pittorico la rivalsa della vita vera. La liturgia di Claudio Marini possiede una sua musicalità orchestrale, sottotraccia si sente un’armonia ideale di metalli e legno, tra crepitii del fuoco e biologie in azione. Le opere sembrano muoversi sotto la superficie, somigliando a organismi ibridi che armonizzano i frammenti raccolti. Il suono immaginato è una melodia nomade e melanconica, un flusso di archi e percussioni che corre verso il mare di Sabaudia, carezzando le dune poco prima di tuffarsi nel Tirreno, dove andrà a vestire i resti solitari di una tragedia collettiva. Noi siamo qui, dalla parte dei quadri, dalla parte dei sopravvissuti, sulla terraferma della sfida. Ascoltiamo le opere di Claudio, ci sintonizziamo sul loro canto liturgico, lasciando che i pensieri catturino l’ossigeno del domani. Siamo noi le vele bianche, siamo noi i polmoni bianchi…
Liturgy Gianluca Marziani Starting again from (“cascami” draping) where we left off a few years ago. Finding the common thread (in Claudio Marini’s case the threads have a “Philological” sense) that unites human energies beyond the boundaries of linear time and the wall of perceived space. Resuming an exhibitive narrative which we had undertaken in the nineties...in the meantime I have not forgotten anything about our experiences together: Italo Bergantini introduced us, the exhibitions in Romberg and other public spaces, Italy and Croatia, the personal and collective themed exhibitions, the catalogues like ethical notebooks. A journey that had its natural pauses in the historic town of Velletri, between Claudio’s studio and the pubs where we would have dinner and talk about projects and football (Lazio in particular), women and other crap: real life, which makes art a possibility, an opening, a promise...that life which smells and scents, injures and embraces, dirties and cleans up, unites and destroys: it is this life which Marini hypnotizes in his pictures to give us a figurative letter, a dramatical epistolary of real time. I talk about living meat when I think about the artist’s natural spontaneity, his “farmer’s” way of wiping the complexity of things, going back to basic land values and those of the pulsating materials, steeped in gestures and effort, consumed by the slow unfolding of the present. Here, between the Appian Way and the Velletri hills, looking at the sea from a small window on high, here among the footprints of ancient Roman deeds, feeling the interstice of suspended places, here is where Claudio Marini listens profoundly to his inner voices, to the baritone noise of History and the possibility of an ideal island. Who else could be Claudio’s favourite if not Robert Rauschenberg, a giant who ennobled waste with the disposition of a metropolitan archaeologist: they both seem to “cook” their works of art, as if they were burning the amalgam of recycled elements, using hidden threads to weave the mosaic of social and cultural differences. Rauschenberg and his “son” Marini sew the waste to give meaning to events, because of the need to remember through the surviving fragment: because this is the only way the memory of civilization survives, this is the only way that some men, with their hearts in their eyes, can offer the certification of an inheritance to memory. Art is a formidable possibility for remembering, a gift in which the artwork is in constant, renewable and emotional harmony with grief, loss, open wounds. Creating imposes different content for each artist, obviously, but for all of them it means mapping the heart of an emotion, going into the labyrinth of feelings, crossing unusual and painful thresholds,
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walking in the dark to catch the fleeting bits of light. This exhibition, not randomly, begins where the dimensions of private mourning are formulated, in the visual epicentre where Claudio remembers Giancarlo, his brother who died recently: it is this loss that, like a ray of light, traces maps in the tarry black. The bright areas resemble sails but also lungs, not coincidentally two forms that need air, a continuous stream to swell and live. Wanting to share the burden of memory, the artist has inserted some sheets on which are noted numbers which regard personal matters, private moments that weld the collective brotherhood with the silent frequency of Leopardi’s infinity. Another name that comes to mind while looking at Marini’s artworks is, in fact, Giacomo Leopardi. The poet from the Marche felt nature in all of its ferocious cruelty, blending it into the exploits of those little men who, in that landscape, fought like birds in the vortex of a hurricane. Leopardi’s and Marini’s nature is transformed into a thickness, a geopolitical pack made up of many layers of experience and battle. Everything becomes as hard as lava stone, the burns turn into scabs, the screams into cosmic chants, the tears into regenerative fonts. Their catharsis is Munch’s scream of archaic pain, it is the echo of the cry in the caves of lost time. Their rage goes beyond the page, beyond the canvas, beyond the panel...striking the heart of those who see the formal grammar, understand the figurative verbs, discover colourful nouns and very dark adjectives and absorb phrases that are engraved among the waves of common destiny. The tragedy of one man becomes the tragedy of an era, a generation, a collective story. Those white sails indicate the openings of perpetual light, the hopes for a necessary future, the silent celebration of private grief. They lead us towards our great mother, towards a Mediterranean that conserves, in its never fading memory, the ancient philosophical, ethical, civil and cultural exploits… Marini’s sails now push us towards the senile age of a sea that would like liquid regeneration, a tired sea which would not want to feel the unsustainable floating of its lost youth. The Mediterranean asks life to reopen its sails and inflate its lungs, almost connecting “Homage to Giancarlo” to the tragedies in recent news: the private and the collective inside the energy of the never ending struggle to get out of the blackness, to catch our breath in the light, to reaffirm in the gesture of painting the revenge of real life. Claudio Marini’s liturgy possesses its own orchestral musicality, there is an undercurrent of ideal harmony of metal and wood, among the crackle of fire and biologies in action. The artworks seem to move beneath the surface, resembling hybrid organisms that harmonize the collected fragments. His image is a nomadic and melancholic melody, a flow of strings and percussion that runs down to the sea of Sabaudia, caressing the dunes just before diving into the Tyrrhenian sea, where it will dress the solitary remains of a collective tragedy. We are here, on the side of the pictures, on the side of the survivors, on the mainland of challenge. We listen to Claudio’s artworks, they tune us into their liturgical canto, allowing our thoughts to capture the oxygen of tomorrow. We are the white sails, we are the white lungs…
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Salvarsi dal naufragio Gabriele Simongini Chi si ferma è perduto. Ce lo dimostra per contrasto Claudio Marini, un artista che non si perde perché si mette in gioco, senza considerarsi mai completamente soddisfatto dei risultati raggiunti anche se poi capita, a chi lo conosce bene, di cogliere all’improvviso, furtivamente, un suo timido sorriso che è un’implicita conferma del buon lavoro compiuto. É fatto così, Claudio: ci sorprende ogni volta con opere di nuovo necessarie, anche se stavamo ancora pensando ai lavori ammirati poche settimane prima, quelli che altri pittori meno inquieti avrebbero portato avanti chissà per quanto tempo. E poi Claudio ha l’occhio lungo, vede prima e meglio degli altri, intuendo in anticipo, con una sorta di sensibilissimo sismografo interiore, l’evoluzione quasi apocalittica ed emergenziale di eventi e fenomeni inizialmente sottovalutati da tutti, soprattutto dai cosiddetti poteri forti, gli stessi che hanno dato una spinta determinante a scatenarli. Ecco allora l’inquinamento ambientale planetario, lo spietato terrorismo dell’Isis, i sanguinosi scontri etnici, e soprattutto l’immane afflusso di migranti che non conosce limiti, trasformando il Mediterraneo, come è stato detto, da “mare nostrum” in “mare monstrum”, svelando così la colpevole indifferenza di tanti. È da alcuni anni, con i vari cicli delle bandiere, che Claudio Marini ha chiamato a raccolta tutto il mondo non più tramite i vessilli ufficiali e da bella parata ma con i suoi stendardi inquieti e liquidi, in continuo mutamento, capaci di rispecchiare sia i flussi migratori da un continente all’altro di esseri umani disperati, alla ricerca di un’altra vita, che la stessa metamorfosi dell’idea e dell’identità di nazione. Il nostro sguardo penetra in profondità, nelle viscere di queste bandiere sconvolte, senza restare sulla superficie dell’immagine: e in ogni opera pare di veder riflessi i sogni, le tragedie e le sofferenze di un’umanità lacerata, diversa in ogni paese ma in fondo uguale nel suo aspetto universale. Le bandiere di Marini fremono di convulsioni irrefrenabili, la loro pelle si raggrinzisce e contorce per il dolore, smascherando ogni retorica ipocrisia e violenta sopraffazione travestite da orgoglio nazionalistico. Nella sfilata di questi vessilli tormentati, il mondo appare agitato da un vento d’apocalisse che sembra possedere la forza di un giudizio universale laico. Intuendo la crisi morale di un’Europa fragile, già nel 2005, con una visione lungimirante, Marini aveva dato immagine a un’Unione Europea quanto mai debole, disunita, con quelle stelline tremolanti dei paesi fondatori che non davano sicurezza né valore stabile, quasi sul punto di affogare nel marecielo azzurro e blu. Potremmo accostare questo profetico vessillo alla foto, salita recentemente agli onori della cronaca, con i corpi di dodici migranti morti che galleggiano nel mare, in cerchio, dando quasi immagine a una tragica bandiera dell’UE con i cadaveri al posto delle stelle. È una foto, peraltro modificata, che molti media hanno attribuito al celebre street artist Banksy mentre essa era stata utilizzata, già nel maggio 2015, da
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un’organizzazione spagnola che si occupa di diritti umani, la CEAR (Comisiòn Espanola de Ayuda al Refugiado). Se lo scatto fotografico, pur in tutta la sua efficacia, è l’immagine mediaticamente perfetta per illustrare le cronache di questi giorni, le bandiere nere di Marini e il suo ciclo “Mediterraneo” dedicato ai migranti hanno già una propria forza storica e morale che va al di là dell’attualità per l’osmosi profonda fra formalizzazione materica e sostanza d’impegno etico, nella perfetta identificazione di tecnica e “contenuto”, senza scollamento sociologico o illustrativo. Come lo scrivente ha notato in un’altra occasione, in ognuna di queste opere sono prima di tutto i sommovimenti ansiosi della materia e la potenza ineffabile della pittura a metterci in contatto con drammi e tragedie, ingiustizie e violenze in modi che non hanno relazione con la comunicazione verbale o mediatica. E così Claudio Marini non illustra alcunché, né la sua pittura ha bisogno di apparati esplicativi e teorici ormai indispensabili per far esistere tante, troppe pseudo-opere contemporanee legate ad una costruzione narrativa che le preceda e le giustifichi. La sua ricerca, in autonomia linguistica, fa da soglia e da ponte fra il ricordo delle vittime dimenticate e la nostra esperienza visiva ed emotiva. “Voglio far sentire l’anima senza spiegazioni”, diceva Yves Klein, e certo Claudio potrebbe condividere questa intenzione. Nella mostra di Spoleto il lavoro di Marini assume la dimensione di una sinfonia che inizia con toni gravi, quelli di una tragedia individuale e intima (la perdita dell’amato fratello) evocata in modi pacati e misurati, mai personalistici, tanto da tramutarsi quasi spontaneamente e poi saldarsi all’apocalisse collettiva delle bandiere nere e delle opere dedicate ai migranti con il recupero di oggetti trovati sulla battigia. I movimenti sinfonici cambiano, però, nella seconda parte del percorso, pur nella profonda unità emotiva e concettuale del progetto espositivo, per lasciare spazio alla speranza e al gioco, affioranti nei marosi dell’inquietudine perennemente messa in stato di allarme. Ecco allora i “Paesaggi Marini”, come li ha ribattezzati Italo Bergantini con un acuto calembour che coinvolge il cognome dell’artista e quindi le bandiere dense di colori appassionati che chiudono la mostra. Nell’oceano dei “Paesaggi Marini” galleggiano lettere-isole, cascami tessili dagli andamenti vorticosi e imprevedibili, lacerti increspati di panneggi residuali, di bandiere lacerate, di sipari malridotti. Nel caos sofferente di esistenze disperse e frammentarie, sono le lettere-giocattolo a indicare una possibile direzione, una traiettoria da mettere alla prova, un’eventuale via d’uscita. Ciascuna è un seme di speranza, un elemento o un mattone per un’ipotetica ricostruzione, una zattera di salvataggio dal naufragio. Ma è anche emblema della necessità di azzerare per ripartire, un po’ come, fatte le dovute proporzioni, il suono “da da” che ha dato origine alla parola dadaismo. Non sbeffeggia nessuno, però, Claudio Marini, né fa anti-arte, anzi da quel mare insanguinato di petrolio o da quelle minacciose bandiere nere fa emergere, come un prestigiatore dello sguardo, la lettera-segno rigeneratrice ed enigmatica, componendo un gigantesco puzzle in divenire che ci parla dei nostri tempi, delle nostre paure oscure e in nero (l’inquinamento ambientale? La crisi economica? Il terrore scatenato dalla feroce violenza dell’Isis? L’onda inarrestabile dei migranti?...) da superare con slancio vitale. Su quelle “lavagne”, mosse dalla rinnovata esistenza dei residui tessili ritemprati dalla forza dell’arte, può cominciare la genesi di una scrittura ipotetica, carica della speranza che
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accompagna ogni inizio. Un inizio annunciato e agitato da una specie di vento nascosto che mette in movimento le materie tessili, le contorce, le tende e poi le abbandona, trasformandole in sipari impazziti per uno spettacolo impossibile. Fino a che, comunque, non arrivano gli attori, quelle lettere dal colore e dalla voce squillante, netta, perentoria, la cui apparizione improvvisa ipnotizza il nostro sguardo e ci indica l’avvio di un percorso avventuroso, che vale la pena seguire. Un itinerario pieno di domande e punti interrogativi, perché Claudio coltiva il dubbio e diffida di ogni certezza. Per lui tutto si esplicita nel fare e certo potrebbe condividere questa riflessione di Paul Valéry: “Non so, non posso sapere che cosa ho voluto dire, quello che so è che ho voluto fare”. Con una sorta di sintetica e coraggiosa summa delle sue ricerche precedenti (dai cascami alle bandiere nere) Marini prende energia dal gioco e dall’ironia, si diverte in senso etimologico, volgendo altrove quel senso di dramma e tragedia che promana dai suoi vessilli neri. Quelle lettere solitarie e disperse sono le matrici potenziali di un nuovo dialogo da cui si può ripartire per dare senso all’insensato, significato all’insignificante, un minimo d’ordine al caos infinito, un po’ di conforto contro l’orrore dilagante. Sono le lettere di tante lingue che s’incontrano e si mescolano nella Babele contemporanea, come i popoli diversi che vengono in contatto tra loro e che nei decenni a venire creeranno nuovi incroci di esistenze, storie, razze, genti. Sono lettere da rimescolare con speranza. C’è scritta in controluce la trascinante e invincibile forza della vita che spinge i migranti ad attraversare mari su imbarcazioni di fortuna, a scalare muri, a nascondersi nel cofano di una macchina per viaggi ad altissimo rischio, a percorrere centinaia di chilometri a piedi col timore fondato di essere respinti. Te le immagini una di seguito all’altra, queste opere, con ritmi serrati, quasi senza respiro e cerchi di comporre con curiosità e speranza la tua parola chiave (indifferenza oppure solidarietà? Paura o desiderio d’accoglienza?) e ti accorgi che stai cercando te stesso, mettendoti alla prova. Le lettere sembrano inseguirsi, chiamarsi e rispondersi di opera in opera, come note di musica jazz, tracciando traiettorie instabili come le rotte caotiche dei migranti. E poi Claudio sfida ancora una volta l’imprevedibile nel desiderio pungente di mettere in cortocircuito gli echi dell’esistenzialismo informale (non di rado gli inquieti drappeggi di Marini sembrano tessere un dialogo a distanza con l’elegante terribilità dei “panneggi” materici di Burri) con le tracce mediatiche e consumistiche dell’eredità pop. Angoscia e speranza (e perfino un pizzico di divertimento) convivono nella stessa opera, con un mirabile ossimoro visivo innervato dalla tensione fra opposti. A noi tocca decidere chi avrà la meglio. E non sarà una scelta facile. In alcuni lavori più grandi, spira addirittura la tempestosa e notturna immensità di un Sublime che sovrasta le lettere, piccole e sperdute ma vitalissime come esseri umani posti di fronte all’immane mistero dell’esistenza. Del resto, questi “Paesaggi Marini” sono paesaggi interiori di Marini che diventano anche spazi marini su cui tutto galleggia alla deriva, verso un altrove ipotetico. Ogni volta, in quest’avvincente sinfonia pittorica presentata a Spoleto, il nostro artista affronta l’opera come un naufrago che cerca un nuovo approdo… e forse tutte quelle lettere a cui aggrapparsi alla fine formerebbero per infinite volte una sola frase: PITTURA COME LIBERTÀ E TESTIMONIANZA.
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Saving yourself from shipwreck Gabriele Simongini Whoever stops is lost. Claudio Marini shows us this by contrast, he is an artist who does not get lost because he continually puts himself back in the game, never being completely satisfied with the results he has reached even if people who know him well can suddenly, furtively catch one of his shy smiles which is an implicit confirmation of having accomplished something good. This is Claudio: he surprises us each time with newly necessary works, even if we were still thinking about the pictures we admired a few weeks ago, those which other, less restless painters, would have carried on with for who knows how long. Claudio is far sighted, he can see before and better than others sensing in advance, with a sort of extremely sensitive interior seismograph, the almost apocalyptic and emergency evolution of events and phenomena which were initially undervalued by everyone else, especially by the so-called super powers, those who actually gave the decisive push that triggered them. So we find planetary environmental pollution, the ruthless terrorism of Isis, ethnic clashes which are ever more violent and bloody and above all the appalling, devastating influx of migrants which knows no limits, transforming the Mediterranean, it has been said, from “mare nostrum” into “mare monstrum” and exposing the guilty indifference of so many. It is some years now, with his various flag cycles, that Claudio Marini has mustered the whole world not through the official parade flags but with his uneasy, liquid banners, continuously changing, capable of mirroring both the shocking migratory flow from one continent to another of poor, desperate human beings looking for another life and that same metamorphosis of the idea and the identity of country. Our gaze penetrates deeply into the bowels of these shaken flags, never staying on the surface of the image and in every work of art we think we see the reflection of the dreams, tragedies and suffering of a lacerated humanity, different for each country but basically the same in its universal aspect. Marini’s flags throb with irrepressible convulsions, their skin wrinkles and writhes in pain, exposing any rhetorical hypocrisy or violent oppression masquerading as nationalistic pride. In the striking procession of these tormented banners, the whole world seems to be shaken by a wind of apocalypse which seems to also possess the force of a secular universal judgement. Sensing the moral crisis of a profoundly fragile Europe, as early as 2005, with far-sighted vision, Claudio Marini had already depicted a European Union which was ever weaker and disunited, with those trembling stars of the founding members who gave no security nor stable value, almost drowning in the sea-sky blue. We could place this prophetic vessel next to the photograph, which has recently hit the headlines, of the twelve dead bodies of migrants floating in the sea, in a circle, almost depicting a tragic EU flag with the dead bodies in the place of the stars. It is, moreover, a modified photograph, which most of the media
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had attributed to the well-known street artist Banksy while it had already been used in May 2015 by a Spanish organization which deals with human rights, CEAR (Comisiòn Espanola de Ayuda al Refugiado). If the photo shot, in all of its effectiveness, is the perfect media image to illustrate current affairs, Marini’s black flags and his cycle entitled “Mediterraneo” dedicated to migrants have their own historical and moral strength which goes beyond current affairs to a deep osmosis between formalization of matter and substance of ethical commitment, in the perfect identification of technique and “content”, without any sociological or illustrative detachment. As the writer noted on another occasion, it is primarily the anxious turmoil of matter and the ineffable power of painting which puts us in touch with dramas and tragedies, injustices and violence in ways which have no relation with verbal or media communication. So Claudio Marini does not illustrate anything, neither does his painting need explanatory and theoretical devices which now have become indispensable for the existence of so many, too many pseudo-contemporary works related to building a narrative that precedes and justifies them. His research, in linguistic autonomy, acts as a threshold and bridge between the memory of the forgotten victims and our visual and emotional experience. “I want to make the soul felt without any explanation”, said Yves Klein, and Claudio could certainly share this intention. In the Spoleto exhibition Marini’s work takes on the dimensions of a symphony that begins with severe tones, those of an individual and intimate tragedy (the loss of a beloved brother) evoked in a quiet and measured manner, never personalized, so as to be transformed spontaneously and then welded to the collective apocalypse of the black flags and the works dedicated to the migrants with the recovery of objects found on the shoreline. The symphonic movements change, however, in the second part of the journey, still within the profound, emotional and conceptual unity of the exhibition project, and they leave space to hope and play, emerging in waves of anxiety perpetually in a state of alarm. These are the “Paesaggi Marini” (Seascapes), as Italo Bergantini renamed them with an acute wordplay which takes in the artist’s surname and the flags dense with passionate colours which close the exhibition. In the ocean of “Paesaggi Marini” float islands of letters, textile wastes moving and swirling unpredictably, crinkled residual fragments of drapery, of lacerated flags and bedraggled curtains. In the chaos of scattered and fragmentary existences the toy letters indicate a possible direction, a trajectory to try out, a possible way out. Each one is a seed of hope, an element or a brick for a hypothetical reconstruction, a life raft to save us from shipwreck. It is also an emblem of the need to reset in order to restart, a bit like, with due proportion, the sound “da da” which gave rise to the word dadaism. Claudio Marini, however, does not mock anyone, he makes it anti-art, from that sea bloodied in oil or from those menacing black flags, like a magician of the eye, he brings out the regenerating and enigmatic signal letter, composing a gigantic puzzle in progress that speaks of our times, of our dark fears in black (pollution of the environment? The economic crisis? The terror unleashed by the ferocious violence of Isis? The relentless wave of migrants?…) which must be overcome by vital force. On those “blackboards”, moved by the renewed existence of the fabric residues invigorated by the force of art, the genesis of a hypothetical script can
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commence, one laden with the hope that accompanies every beginning. A proclaimed beginning and one shaken by a sort of hidden wind which puts the textile materials in motion, it twists them, it stretches them and then abandons them, transforming them into insane curtains for an impossible performance. That is until the actors arrive, those letters which have bright colours and voices, clear, peremptory, their sudden appearance hypnotizes us and point us towards the start of an adventurous journey, well worth taking. An itinerary which is full of interrogatives and question marks, this is because Claudio cultivates doubt and distrusts all certainty. For him everything is explicit in the making and he could certainly share Paul Valéry’s observation: “I do not know, I cannot know what I wanted to say, what I know is that I wanted to make.” With a sort of synthetic and courageous summary of his previous research (from the “cascami” waste to the black flags) Marini takes energy from play and irony, he enjoys himself in an etymological sense, turning elsewhere for that sense of drama and tragedy that emanates from his black banners. Those scattered, solitary letters are the potential matrix of a new dialogue from which we can start to make sense of what is senseless, give meaning to the meaningless, a minimum of order to the infinite chaos, a little comfort against rampant horror. They are the letters of many languages which meet and mingle in our contemporary Babel, like different nationalities who come into contact with each other and who, in decades to come, will create new intersections in life, history, race, people. They are the letters to reshuffle with hope. In the back light we can see the writing of that compelling and invincible force of life which drives the migrants to cross seas on makeshift boats, to climb walls, to hide in the boot of a car to travel at a very high risk, to travel hundreds of kilometres on foot with well-founded fear of being rejected. Among these successive images, these fast paced works of art, almost without breathing we try, with curiosity and hope, to compose our keyword (indifference or solidarity? Fear or the wish to welcome?) and we realize we are looking for ourselves, putting ourselves to the test. The letters seem to chase each other, they call out and reply to each other from work to work, like jazz notes, drawing trajectories as unstable as the chaotic routes of the migrants. And then Claudio once again challenges the unpredictable in his pungent desire to short circuit the echoes of informal existentialism (it is not infrequent that Marini’s disquieting draping seem to weave a dialogue at a distance with the elegant dreadfulness of Burri’s “drapery” of matter) with the mediatic and consumerist traces of pop legacy. Anguish and hope (and even a pinch of fun) coexist in the same work of art, with a wonderful visual oxymoron innervated by the tension between opposites. We have to decide who will win. And it will not be an easy choice. Some of his larger works even expire that stormy and nocturnal immensity of a Sublime looking over the letters, small and lost but extremely vital like human beings facing the immense mystery of existence. After all, these “Paesaggi Marini” (Seascapes) are Marini’s internal landscapes which also become marine spaces upon which everything floats adrift, towards a hypothetical somewhere else. Each time, in this fascinating pictorial symphony presented in Spoleto, our artist faces his work like a shipwreck looking for a new landing place...and maybe all of those letters to cling onto would eventually endlessly form one sentence: PAINTING AS FREEDOM AND TESTIMONY.
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Michele Ainis per Claudio Marini Michele Ainis L’esperienza artistica si può definire in molti modi. Tuttavia c’è un attributo che l’umanità pose in risalto fin dai tempi antichi: l’arte è fonte di piacere. Determina un urto emotivo in chi le si avvicina, lo scuote, lo coinvolge. E l’emozione estetica può ben essere più intensa di quella sentimentale. D’altronde, proprio da questo suo connotato hanno tratto origine le condanne dell’arte, che nella storia umana si sono spesso ripetute. Perché quest’ultima fomenterebbe le passioni, perché ci introdurrebbe in un mondo fittizio, d’idoli e di sogni, annebbiando la ragione, nutrendo gli istinti e gli appetiti. Così, Platone bandì i poeti dal suo Stato ideale; Plutarco dissuadeva i giovani dall’arte figurativa, consigliando viceversa attività più nobili e sublimi; come lui Senofonte, ma pure Cicerone; Seneca paragonò le opere della pittura e della scultura ai sassolini cui s’affezionano i fanciulli. Questo rigetto dell’arte era per l’appunto un rifiuto nei confronti del piacere. «Aut prodesse volunt aut delectare poëtae», diceva Orazio. Non a caso riaffiora nel pensiero di grandi puritani: Sant’Agostino, Pascal, Kant, Tolstoj. Avevano ragione? Davvero l’arte, in nome del bello, ci distoglie dal bene? E se anche fosse, può nascere piacere dalla rappresentazione del dolore? L’opera di Claudio Marini offre un buon banco di prova per questa somma d’interrogativi. In lui pulsa una vena tragica, drammatica; che però vibra per i drammi collettivi, non per gli infortuni esistenziali. Da qui un’intonazione politica, che percorre tutti i suoi lavori. Nei quadri di Marini s’intravedono periferie degradate, immigrati in viaggio sui loro barconi, piazze in rivolta, la sofferenza dell’uno o l’altro popolo impressa come una decalcomania in una sfilza di bandiere logore e sdrucite. Sono le lacerazioni del nostro tempo, che l’artista converte in immagini a propria volta lacerate, come altrettante ferite incise sulla tela. Eppure quest’intenzione drammatica genera immancabilmente effetti lirici, talvolta giocosi. Succede con il ciclo Paesaggi Marini: teli incollati sulla tavola, uno sfondo nereggiante, ma poi sul pathos della raffigurazione cade una pioggia di letterine colorate, come quelle usate dai bambini. La grazia e la disgrazia. Sono queste letterine gialle verdi blu le damigelle d’onore di questi lavori? No, loro funzionano come un’evocazione, un’allusione. Danno fiato al bambino che tuttora abita in Marini, e danno forma al gioco. Gioco anche linguistico, non soltanto in questo caso. In Paesaggi Marini l’aggettivo è il cognome dell’artista, sicché non capisci più se rappresentano un paesaggio esterno ovvero interiore. Ma in queste faccende Marini è recidivo; qualche tempo fa firmò alcune «provette d’artista», dove la prova artistica consiste nei suoi inconfondibili cascami infilati in una provetta da laboratorio.
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Ecco, i cascami. Lui chiama così quella lanugine grezza, bucata qua e là da macchie di colore, che cresce sui suoi quadri fin dal 1977. Un tratto distintivo, questi gomitoli di lana. Un elemento gentile e al tempo stesso oscuro, forse quello che più connota la cifra di Marini. Sicché quando lo conosci, e insieme a lui conosci i suoi cascami, poi lo ri-conosci, come riconosceresti una pagina di Italo Calvino o un’incisione di John Coltrane. Ogni artista è unico, se è davvero un artista. Ricrea il mondo daccapo. In caso contrario sarà soltanto un artigiano, abile a disegnare l’ennesima copia lucidata dei mondi altrui. Ma nel caso di Marini l’immagine non si lascia mai fermare in uno scatto fotografico, è piuttosto un video in movimento. Continuo e discontinuo viaggiano nella stessa carrozza ferroviaria. Il treno di Marini si è fermato già in molte stazioni. Perfino sulla luna, con la serie Moon del 2009-2010. E poi Children (1978), Il mondo è grigio, il mondo è blu (1983-1984), Oscillorum (1989), Teche (1991), Cementi (1990-1992), Shopping (1992-1993), Cassonetti (1994), Guaine (1999), Madri (2000), L’ottava notte (2001-2003), via via fino a Mediterraneo (2014), di cui il ciclo Paesaggi Marini non è che una prosecuzione. Ma in realtà ogni quadro di Claudio Marini è prosecuzione e interruzione rispetto al quadro precedente. Ogni approdo è sempre provvisorio, è punto d’arrivo e stazione di partenza per il viaggio successivo. Ed è anche un gioco, il rimettersi perennemente in gioco. Come i giochi di parole con cui Marini designa le proprie collezioni. Lui infatti lavora per titoli, per aggregati. Quando avvista un tema, è come se lo guardasse e riguardasse di lato, di fronte, di sguincio. Così ne tira fuori una serie, una sequenza. Applica varianti plurime allo stampo originario, lo ridice, lo riduce, infine lo traduce. Qual è il padre, qual è il figlio? Non lo sai più, rimani prigioniero in un labirinto di specchi, come quello immaginato da Borges. Lo specchio di Claudio Marini s’accende di colori che ti bucano l’iride, dal rosso fuoco al nero quasi assoluto. Riflette la fisicità della materia – il cemento, lo smalto, la plastica, le stoffe. Si spezza in due con uno squarcio, un taglio sulla tela. Però c’è sempre una costante, un motivo pittorico che ogni volta si ripete nei quadri di Marini: l’antica arte del drappeggio. Praticata dagli Egizi, poi dai Greci, dai Romani, dagli Etruschi. Nel Rinascimento il drappeggio diventò una vera e propria disciplina, tanto che Leonardo vi dedicò un capitolo nel suo Trattato della pittura. Ora Marini rielabora drappeggi e panneggi attraverso i suoi cascami. Isole compatte che si scompongono in mille filamenti. Grumi di tessuto nei quali si raggruma la nostra esperienza collettiva. Ed è qui che l’artista deposita il suo sguardo sulle cose: la cifra di Claudio Marini è la densità, la concentrazione del molto nel poco.
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Michele Ainis for Claudio Marini Michele Ainis An artistic experience can be defined in many ways. There is, however, one attribute which humanity has emphasized since ancient times: art is a source of pleasure. It causes an emotional shock to whoever approaches it, it shakes them, draws them in. An aesthetic emotion can be more intense than a sentimental one. It is in fact from this very connotation that the condemnations of art originated, and have occurred repeatedly in history. Because art stirs up passions, it introduces us into a fictitious world of idols and dreams, obscuring reason and nourishing our instincts and appetites. This is why Plato banished poets from his ideal state; Plutarch dissuaded young people from figurative art, advising more noble and sublime activities; Xenophon did the same, as did Cicero; Seneca compared paintings and sculptures to the pebbles which children grow fond of. This rejection of art was in fact a refusal of pleasure. «Aut prodesse volunt aut delectare poëtae», as Horace said. It is no coincidence that it resurfaces in the thought of great Puritans: Saint Augustine, Pascal, Kant, Tolstoj. Were they right? Does art really distract us from goodness in the name of beauty? Even if that were so, can pleasure spring from the representation of pain? Claudio Marini’s work offers us a good benchmark for all of these questions. A tragic, dramatic vein pulsates inside him; one which vibrates for collective drama, not for existential injuries. From here springs a political intonation which runs throughout his work. In Marini’s work we catch glimpses of suburban slums, immigrants travelling on their boats, riots in town squares, the suffering of one or other nation imprinted like a transfer in a row of worn out and ragged flags. They are the lacerations of our times which the artist converts into lacerated images, like so many wounds etched onto canvas. And yet this dramatic intention invariably generates lyrical effects, sometimes even playful. This happens in his cycle Paesaggi Marini (Seascapes): cloths glued to the work-piece on a blackish background, but then a rain of coloured letters, like those used by children, falls over the pathos of the representation. Grace and disgrace. Are these yellow green blue letters the maids of honour of these works of art? No, they work as an evocation, an allusion. They give breath to the child who even now lives in Marini, they also give shape to the playing. It is also a linguistic playing, not only in this case. In Paesaggi Marini (Seascapes) the adjective is the artist’s surname, therefore we do not understand if they represent an external landscape or an internal one. But in these matters Marini is a recidivist; a while ago he signed some “artist’s test tubes”, where the artistic test consists in his unmistakable cascading waste stuck into a laboratory test tube.
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“Cascami”. This is what he calls that rough wool, peppered here and there with stains of colour, that grows on his pictures since 1977. These balls of wool are a distinctive trait. A gentle element but at the same time a dark one, one that perhaps most distinguishes the figure of Marini. Therefore, when you meet him and with him meet his “cascami”, you then recognize him as you would recognize a page by Italo Calvino or an engraving by John Coltrane. Every artist is unique, if he really is an artist. He recreates the world from scratch. If not, then he is merely an artisan, skilful in drawing the umpteenth polished copy of the worlds of others. However, in Marini’s case, he never allows himself to be caught in a photo shot, he is a moving video. Continuous and discontinuous travel in the same railway carriage. Marini’s train has already stopped at many stations. Even on the moon, in his series Moon from 2009-2010. Then there is Children (1978), Il mondo è grigio, il mondo è blu (1983-1984), Oscillorum (1989), Teche (1991), Cementi (1990-1992), Shopping (1992-1993), Cassonetti (1994), Guaine (1999), Madri (2000), L’ottava notte (2001-2003), up to Mediterraneo (2014), of which the cycle Paesaggi Marini (seascapes) is but a continuation. In reality each of Marini’s pictures is a continuation and interruption in relation to his preceding picture. Every landing is always temporary, it is a point of arrival and a station of departure for the next journey. It is also a game, perpetually getting back in the game. Like the play on words which Marini uses to design his collections. He works by titles, by aggregates. When he spots a theme, it is as if he looks at it from all sides again and again. In this way he draws out a series, a sequence. He applies multiple variants to the original mould, he repeats it, he reduces it and ultimately translates it. Who is the father, who is the son? We no longer know, we remain prisoners in a labyrinth of mirrors, like the one imagined by Borges. Claudio Marini’s mirror lights up with colours that pierce your iris, from flaming red to almost absolute black. It reflects the physicality of matter - cement, enamel, plastic, fabrics. It is split in two by a gash, a tear on the canvas. There is, however, a constant, a pictorial motive which is continually repeated in Marini’s pictures: the ancient art of draping. Practised by the Egyptians, then by the Greeks, by the Romans, by the Etruscan. In the Renaissance draping became a real discipline, so much so that Leonardo dedicated a chapter to it in his Trattato della pittura. Now Marini elaborates draping and drapery through his “cascami”. Compact islands that break down into a thousand filaments. Clumps of fabric which clot into our collective experience. This is where the artist fixes his gaze: the figure of Claudio Marini is density, the concentration of a lot in a little.
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Senza titolo 2014 dalla serie Alfabeti Migranti (Paesaggi Marini) tecnica mista su tavola cm 71 x 71
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Senza titolo 2015 dalla serie Le Domande Colorate smalto su tavola cm 130 x 130
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Tracce di vita Paesaggi di Claudio Marini Ugo Pastorino Ho amato dal primo istante i cascami che Claudio Marini componeva alla fine degli anni 70’, recuperi di lane colorate impastate con un colore denso, materiche come sculture primitive e al contempo piene di mistero. Poi mi ha commosso con le sue città in guerra che gridavano l’orrore della morte e della distruzione, con quel rosso vivo come sangue che è stato un elemento di forza in tutto il suo lavoro. Infine mi ha stupito con la sistematica meditazione sul tema delle bandiere, affrontando con coraggio questi simboli di un’identità culturale che si staccavano energicamente dal linguaggio informale che conoscevo. Qui si è misurato prima con i colori originari, resi più violenti dall’impeto espressivo che lo contraddistingue, per giungere alle variazioni del nero quasi assoluto, che ritroviamo nelle bandiere più recenti. Ma cosa dire dell’ironia delle sue “provette d’artista”, con cui si è preso gioco del mercato dell’arte contemporanea con una leggerezza e fantasia meravigliosa, e che fanno il verso ad altri più famosi barattoli? Anche nelle sue provette io vedo delle tracce di vita, un messaggio affidato a una micro-bottiglia, affinché il mare la porti dove vuole. I paesaggi marini mi ricordano le dune di Sabaudia, quella costa meravigliosa tra Latina e Gaeta, che ignoravo e ho conosciuto grazie al comune amico Italo Bergantini. Lui mi ha fatto scoprire la Ciociaria, le città proibite dell’agro pontino, i borghi antichi sui monti Lepini, e le fonti del giardino di Ninfa. Con Italo sono entrato per la prima volta nello studio di Claudio, nel centro storico del borgo medievale in cima a Velletri vecchia. Una sorta di fucina di Vulcano, dove Claudio spruzzava le tele con il cemento e lo smalto, per poi bruciarle col fuoco. E non potrò mai dimenticare la finestrina sulle scale ripide che portavano allo studio, da cui come per miracolo nei giorni di sole appariva il mare. Sapere che Claudio era anche un grande amico di Gian Maria Volonté, che abitava a due passi da lui, e con cui ha più volte lavorato, ha accresciuto la nostra vicinanza culturale. Un po’ di anni fa, Italo propose a Claudio una mostra collettiva chiamata “Terapia di gruppo”, a metà strada tra il mutuo soccorso e la seduta psicoanalitica tra amici-artisti. Chiese anche a me di partecipare, come medico non-artista, e presi molto seriamente la sua offerta, non senza una piccola speranza di beneficio personale, in un momento molto difficile della mia vita. Ero già allora convinto, e lo sono ancor più oggi, che l’arte abbia uno straordinario potere di alleviare la sofferenza del vivere, come una sorta di medicina dell’anima. Da quell’esperienza è nato un progetto di lavoro sull’umanizzazione dei luoghi di cura attraverso l’arte (www.artemedicina.com), che ottenuto risultati per molti versi incoraggianti. Qualcuno pensa che sia meglio non conoscere gli artisti, che le opere vivano di vita propria e siano sempre migliori di chi le ha prodotte, ma io non sono d’accordo. Grazie di cuore Claudio, la tua cura con me ha funzionato.
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Traces of life Landscapes by Claudio Marini Ugo Pastorino From the very first moment I loved the draping that Claudio Marini put together at the end of the seventies, bits of coloured wool pasted in a dense colour, materials like primitive sculptures, and yet at the same time full of mystery. He then moved me with his cities in war, which screamed out the horror of death and destruction, with that bright red, like blood, which has been a strong element in all of his work. Finally he amazed me with his systematic meditation on the theme of flags, courageously addressing these symbols of cultural identity, which moved energetically away from the informal language I recognized. This is where he first measured himself with the original colours, rendered more violent by the expressive impetus which characterizes him, he then reaches those variations of almost entirely black, which we find in the more recent flags. But what can we say about the irony of his “artist’s test tubes”, with which he made fun of the market for contemporary art with a lightness and imagination which is absolutely amazing, and which mimic other more famous cans. Even in his test tubes I can see some traces of life, a message entrusted to a micro-bottle so that the sea carries it where it wants. The seascapes in this exhibition remind me of the dunes in Sabaudia, that beautiful coastline between Latina and Gaeta, which I knew nothing about and which I got to know thanks a mutual friend Italo Bergantini. He introduced me to “Ciociaria”, the forbidden cities of the Pontine marshes, the ancient hill towns of the Lepini mountains, and the sources of the gardens of Ninfa. It was with Italo that I first entered Claudio’s studio, in the old centre of the medieval town which lies at the top of old Velletri. It was like Vulcan’s forge, where Claudio was spraying the canvases with cement and varnish and then burning them with fire. I shall never forget the small window on the steep stairway which led to the studio, where, when the sun shone, the sea appeared, like a miracle. Knowing that Claudio was also a great friend of Gian Maria Volonté, that he lived just around the corner and that he had worked with him on many occasions increased our cultural proximity. A few years ago Italo suggested Claudio take part in a group exhibition called “Group Therapy”, halfway between mutual aid and a psychoanalytic session between artists-friends. He also asked me to take part, as a non-artist doctor, and I took his offer very seriously, and not without a slight hope of personal benefit, as it was a very difficult moment in my life. I was already convinced then, and I still am now, that art has an extraordinary power in alleviating the suffering of living, like a sort of medicine of the soul. From that experience a project emerged, a project of working on the humanization, through art, of places where people go to be treated (www.artemedicina.com), which in many ways has had encouraging results. Some people feel that it is better not to know the artists, that the works of art live their own life and that they are always better than whoever produced them, but I don’t agree. Heartfelt thanks to you Claudio, your cure worked on me.
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Il costruttore Riccardo Vannucci Spesso, per definire l’opera di un artista, si ricorre alla metafora del “lavoro”. Il lavoro in senso esteso, anche quando si tratti di un prodotto essenzialmente intellettuale. Nel caso di Claudio Marini il lavoro non è escamotage retorico, e neanche, per una volta, categoria economica quanto piuttosto pratica concreta, legata a una imprescindibile componente materica che costituisce la cifra predominante dell’artista. Una materia “lavorata”, appunto, impura, contaminata, forzatamente tridimensionale: ad esempio, anche nei momenti di più potente espressività cromatica, il colore rimane colore di una determinata materia fisica, concreta e tangibile, tutt’altro che astratta. Il lavoro sulla e con la materia prevede una gestualità governata dall’esercizio, ciò che chiamiamo mestiere, e tecnica: fatalmente, il gesto lascia il segno ed è segno. Dal punto di vista di un architetto, il combinarsi di matericità, tridimensionalità, e conseguente spazialità, ha un connotato specifico, e peculiare: riguarda la costruzione, il suo ambito d’elezione, molto più e molto prima della rappresentazione, con buona pace degli architetti ‘disegnatori’. In tale luce, il costruire [etimologicamente parlando un accatastare, fare mucchio] è ciò che segna la produzione di Marini nel tempo, nel susseguirsi delle stagioni, periodi o cicli che dir si voglia. I materiali di partenza [semilavorati, non a caso] sono riconoscibili, trasfigurati magari, ma individuabili, e il loro giustapporsi è tutt’altro che casuale: al di là della pretesa, fintamente ingenua, dell’artista, di essere montati a caso, anzi a casaccio, i materiali rispondono a una “composizione”, altro concetto che evoca la pratica architettonica. Il richiamo alla costruzione in alcune circostanze abbandona il piano immaginifico per farsi citazione letterale attraverso l’utilizzo di materiali edilizi, neanche troppo dissimulati: guaine, cementi e gessi, ferri da armatura, smalti. Quest’approccio non è esclusivo di Marini, ma in lui assurge a dimensione preponderante: si fa l’opera nel senso che la si costruisce. I “quadri” [possiamo ancora definirli in tal modo?] nascono allora per successiva stratificazione di spessori, oggetti, avanzi e ricicli, e diventano “plastici”. L’equilibrio, di forze, pesi, masse e colori, è la componente tettonica, e dinamica, in cui l’architetto, ma non solo lui, si riconosce, ricostruendo mentalmente la sequenza di operazioni che ha condotto alla strutturazione degli oggetti artistici. Che potrebbero, se necessario, essere ri-prodotti, come
Vista di allestimento della sala Le domande colorate Palazzo Collicola Arti Visive, Spoleto
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prototipi da sviluppare, circostanza peraltro attuata nei cicli in cui si organizza la ricerca artistica di Marini. Ma il loro scopo, e l’esito ultimo cui pervengono, è un altro: ci riportano alla capacità, tutta umana, di dare forma, mediante la costruzione, al mondo. Un richiamo di solida attualità in tempi di crescente egemonia del virtuale sul reale, di progressivo analfabetismo manuale, di pervasivo consumismo iconico [e non solo]. In questo contesto, l’artista che non voglia solo rispecchiare ciò che esiste ma ne intenda dare lettura critica, può offrirci, tra le tante strategie possibili, un’esperienza di materialità [cosa altra dal materialismo], può obbligarci a fare i conti con quel mondo che dovremmo cambiare attivamente piuttosto che subire, più o meno interattivamente. È ciò che Claudio Marini fa “costruendo” le sue opere.
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The Builder Riccardo Vannucci Very often, in order to define the work of an artist we resort to the metaphor of “work”. Work in an extended sense, even when we are dealing with something which is essentially intellectual. In Claudio Marini’s case, however, work is not a rhetorical escamotage, and not even once is it an economical category but rather concrete practise, linked to an essential material component which is the dominant figure of the artist. A material which is “worked on”, impure, contaminated, forcibly three-dimensional: for example, even when it is at its strongest chromatic expression, colour remians the colour of a specific physical material, concrete and tangible, anything but abstract. Working on and with material means gestures governed by practise, what they call craft and technique: fatally, the gesture leaves a sign and it is a sign. From an architect’s point of view the combination of materiality, three-dimensionality and consequent spatiality has a specific and peculiar connotation: it is to do with construction, its elected sphere, much more and much earlier than its representation, with all due respect to the “designer” architects. In this light, building (etymologically speaking a stacking, a piling up) is what marks Marini’s production in time, in the succession of seasons, periods or cycles or whatever you prefer to call them. His starting materials (semi finished, not by chance) are recognizable, maybe transfigured, but identifiable, and their juxtaposition is anything but casual: going beyond the artist’s falsely naive claim of being randomly put together, haphazardly even, the materials respond to a “composition”, another concept which evokes architectural practice. The recall to construction in certain circumstances abandons the imaginary plane to become a literal citation through the use of building materials which are not even that disguised: protective sheathing, cement and plaster, supporting irons, enamels. This approach is not exclusive to Claudio Marini, but with him it rises to a predominant dimension: the work of art is made in the sense that it is built. The “pictures” (can we still call them that?) which are created through the successive stratification of thickness, leftover and recycled objects, become “plastics”. The equilibrium of forces, weights, mass and colour is the tectonic and dynamic component in which the architect, but not only him, is recognized, mentally reconstructing the sequence of actions which has lead to the
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structuring of the artistic objects. These could, if necessary, be reproduced as prototypes to be developed, a circumstance which is carried out in the cycles where Marini’s artistic research is organized. Their purpose, however, and the final outcome attained, is another: they take us back to to that totally human capacity of giving form to the world through constructing. A recall which is solidly topical in these times of growing hegemony of the virtual onto the real, of progressive manual illiteracy, of pervasive iconic consumerism (and not only). In this context, the artist who does not want to merely mirror what exists but intends to present a critical reading, can offer, among the many possible strategies, an experience of materiality (which is different to materialism), he can make us come to terms with that world which we should actively change rather than suffer, more or less interactively. This is what Claudio Marini does by “constructing� his works of art.
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Senza titolo 2014 dalla serie Alfabeti Migranti (Paesaggi Marini) tecnica mista su tavola cm 35 x 30
Senza titolo 2014 dalla serie Alfabeti Migranti (Paesaggi Marini) tecnica mista su tavola cm 35 x 30
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Senza titolo 2014 dalla serie Medi...Terra...Neo tecnica mista su carta cm 76 x 56
Senza titolo 2014 dalla serie Medi...Terra...Neo tecnica mista su carta cm 76 x 56
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Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
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Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
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Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
Senza titolo 2013 dalla serie Stelle Cadute tecnica mista su tavola cm 140 x 160
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Senza titolo 2013 dalla serie I conti non tornano tecnica mista su tavola cm 40 x 40
Senza titolo 2013 dalla serie I conti non tornano tecnica mista su tavola cm 40 x 40 singola opera
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Claudio Marini è nato a Velletri (RM).
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Claudio Marini Fratelli di sale Printed in Italy Questo volume è stato stampato nel mese di febbraio 2016 presso gli stabilimenti della Tipografia Monti, Cisterna (LT) copyright © per le foto Emanuela Sambucci e Marcello Scopelliti © per i testi gli autori Tutti i diritti riservati. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta o trasmessa in qualsiasi forma o con qualsiasi mezzo elettronico, meccanico o altro senza l’autorizzazione scritta dell’editore.
© 2016 ROMBERG Edizioni Romberg s.r.l. Corso della Repubblica, 298 04012 Cisterna di Latina Viale Le Corbusier 39 04100 Latina Tel. +39 0773 604788 www.romberg.it Collana Project volume 5
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