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Storia della Costituzione in Italia Gli statuti preunitari Costituzione Siciliana del 1812 La Costituzione Siciliana del 1812 fu la​ ​costituzione​ adottata quell'anno nel Regno di Sicilia dal re Ferdinando III di Borbone in risposta alla rivolta scoppiata nell'isola e all'avanzata napoleonica. Storia Il 22 dicembre 1798, a seguito della invasione francese del regno di Napoli, il re Ferdinando IV (III di Sicilia), abbandonò Napoli rifugiandosi nella capitale del Regno di Sicilia, Palermo. I siciliani, inizialmente soddisfatti delle assicurazioni date da Ferdinando nel discorso di apertura della sessione parlamentare del 1802 riguardo alla sua intenzione di mantenere la corte a Palermo, concessero donativi oltremodo ingenti. In realtà Ferdinando e la sua corte non desideravano altro che tornare a Napoli e, appena gli accordi con Napoleone lo resero possibile, lo fecero nel giugno del 1802. Quando però i reali di Borbone tornarono ancora a Palermo nel 1806, l'atmosfera che li accolse fu tutt'altro che festosa, non volendo il popolo siciliano sottostare al loro predominio né pagare ulteriori gabelle all'esclusivo fine di mantenerli. Stando così le cose, Ferdinando, nel 1810, riunì il Parlamento Siciliano domandando personalmente aiuti adeguati per la salvaguardia del regno minacciato dai francesi. Dopo lunghe discussioni il governo ebbe un donativo appena sufficiente ai bisogni immediati, dovendo così imporre una gravosa tassa sulle entrate. La rivolta esplose. A farsi arbitro della situazione un emissario del governo inglese nell'isola, Lord William Bentinck, la cui flotta proteggeva il regno di Sicilia dalle invasioni del regno di Napoli napoleonico. Egli invitò Ferdinando ad abbandonare il governo, nominando il figlio Francesco suo reggente nel gennaio 1812. E così fu. Al giovane rampollo venne accostato un governo esclusivamente siciliano presieduto da un consigliere di Stato anziano (una sorta di primo ministro). L'attribuzione del comando militare, con il titolo di ​Capitan Generale de' Reali Eserciti di Sicilia. La Marina Siciliana​, andò allo stesso Bentinck. Obiettivo fondamentale fu la ratifica di una nuova costituzione. L'idea trovò non pochi seguaci e prevalse l'idea che il testo sarebbe stato elaborato dai Bracci, le antiche istituzioni parlamentari di derivazione normanna. La promulgazione La Costituzione Siciliana fu promulgata il 12 luglio 1812 sul modello iberico della Costituzione di Cadice, adattato alle esigenze locali. Le dodici basi o principi generali, dopo la loro approvazione da parte del parlamento, furono sottoposte al re, che, pur molto lontano dall'entusiasmarsene, fu costretto ad accettarle. La Costituzione venne approvata dal parlamento (fu perciò votata e non ottriata, proprio come quella di Cadice) e promulgata dal reggente Francesco. Appena poté, tuttavia, il re evitò di applicarla. Tornato a Napoli dopo la caduta di Gioacchino Murat, non convocò più il Parlamento Siciliano e così, anche senza


formale abrogazione, la Costituzione Siciliana cadde disapplicata, avendo soppresso nel 1816 il Regno di Sicilia. Il primo esempio in Italia di statuto costituzionale si ebbe a Palermo, quando il 19 luglio 1812 il Parlamento del Regno di Sicilia​ ​borbonico​ riunito in seduta straordinaria, promulgò la Costituzione Siciliana del 1812. Era una carta sul modello spagnolo (Costituzione di Cadice). La Costituzione prevedeva un Parlamento bicamerale formato da una Camera dei Comuni, composta da rappresentanti del popolo con carica elettiva, e una Camera dei Pari, costituita da ecclesiastici, militari ed aristocratici con carica vitalizia. Le due camere, convocate dal sovrano almeno una volta l'anno, detenevano il potere legislativo, ma il re deteneva potere di veto sulle leggi del parlamento. Fu soppressa di fatto nel dicembre 1816 con la nascita del Regno delle Due Sicilie.​ ​Nel 1848 con le rivoluzioni scoppiate durante la primavera dei popoli furono concessi dai sovrani di alcuni stati italiani alcuni statuti: quello Napoletano, quelli del Ducato di Parma e dello Stato della Chiesa, quello Siciliano (non ottriato, dal francese ​octroyée​, cioè non concesso dal sovrano) e, in Piemonte, quello Albertino.​ ​ Lo statuto Napoletano, su ispirazione della Seconda Repubblica francese, prevedeva che il potere legislativo fosse condiviso tra Re e Parlamento. In Sicilia, invece, si era formato un regno autonomo la cui​ ​Costituzione​ rendeva per la prima volta le due camere elettive mentre conferiva il potere esecutivo al Re che lo esercitava per mezzo dei ministri responsabili, da lui nominati, che sottoscrivevano ogni suo ordine. Veniva riconosciuta la libertà di parola, di stampa nonché di insegnamento. Tale carta costituzionale era "rigida", in quanto per effettuare modifiche era necessaria una procedura aggravata che prevedeva il concorso di due terzi dei votanti presenti di ciascuna camera. Anche lo Statuto dello Stato della Chiesa conteneva norme simili alle altre carte coeve. Fatta salva la dichiarazione della Religione Cattolica come Religione di Stato e il potere di censura ecclesiastica preventiva sulle pubblicazioni religiose, erano recepite le libertà fondamentali del cittadino: la magistratura era indipendente dal potere politico, i tribunali speciali erano aboliti, era garantita la tutela della libertà personale e l'inviolabilità della proprietà. Per la prima volta nello Stato della Chiesa, i laici erano ammessi sia nel ramo esecutivo che legislativo. L'iniziativa legislativa apparteneva ai ministri, che erano di nomina Pontificia. Le leggi erano formate tramite un sistema bicamerale perfetto, costituito dall'"Alto Consiglio" e dal "Consiglio dei Deputati".​ ​ I membri del primo erano nominati a vita dal Pontefice, senza limitazione di numero, quelli del secondo erano eletti. Le leggi, dopo l'approvazione, dovevano essere controfirmate dal Pontefice. Nell'esercizio delle loro funzioni i membri delle due Camere erano "inviolabili" e, se condannati, potevano essere arrestati solo con il consenso del Consiglio di appartenenza. La Sicilia era di colpo diventata pienamente indipendente, sebbene del tutto impreparata: un re che si considerava ospite e che voleva solo tornare a Napoli, che governava per mezzo di fuoriusciti dell’Italia meridionale da un lato, e la protezione ingombrante e interessata degli Inglesi dall’altro. Adesso il Re si occupa direttamente del Regno di Sicilia e trovava insostenibile la Costituzione, il Parlamento, le Autonomie civiche. I rapporti tra Corona e Parlamento andarono sempre a peggiorare. Nel 1803 tornò a Napoli, che aveva nel frattempo riconquistato, ma non nominò più un “Viceré proprietario”: governò da lontano, per mezzo di un Luogotenente. Ma nel 1806 dovette fuggire di nuovo in Sicilia, e sembrava non potesse tornare più. A un certo punto tentò di sbarazzarsi del Parlamento Siciliano con un colpo di stato: impose delle tasse senza convocare il Parlamento, e, alle proteste dei Siciliani, fece confinare i capi del partito parlamentare. Intervenne la Gran Bretagna che, temendo disordini, fece liberare i confinati e riconvocare il Parlamento.Il Re fu recluso al


Bosco della Ficuzza e costretto a cedere provvisoriamente i suoi poteri al figlio. A questo punto successe una cosa incredibile, una pagina gloriosa nella storia di Sicilia.

Il Parlamento, convocato ancora secondo le antichissime regole del 1296, si intestò l’idea di dotare la Sicilia di una nuova Costituzione, si trasformò cioè in Assemblea Costituente. La Sicilia così si dotò, nel lontano 1812 della ​prima costituzione liberale italiana​, di cui oggi ingiustamente in Italia molti si sono dimenticati. La Costituzione siciliana del 1812 era modellata su quella inglese, di cui condivideva le lontane origini normanne, ma riprendeva anche la vecchia Costituzione del Vespro, adattata ai tempi. I tre poteri furono nettamente distinti. Il “potere legislativo” fu affidato a un Parlamento di due Camere: la Camera dei Comuni, in cui erano rappresentati tutti il territorio siciliani e non più solo le 42 città demaniali del Regno; e la Camera dei Pari, in cui i Pari Temporali e quelli Spirituali erano gli stessi che avevano fatto parte dei vecchi “Bracci” militare ed ecclesiastico. Il “potere esecutivo” fu affidato al Re, ma i Ministri erano posti sotto il controllo del Parlamento. Il potere giudiziario alla “magistratura”, soggetta solo alla legge e alle sentenze della Camera dei Pari costituita in Alta Corte. Furono introdotti i Consigli civici e le Magistrature elettive in tutti i comuni dell’isola. Fu abolito il feudalesimo e con esso ogni forma di servitù o sopravvivenza addirittura di schiavitù. Furono riconosciute le libertà e i diritti civili che ancora oggi figurano nella nostra Costituzione. La politica fiscale fu posta sotto il controllo della sola Camera dei Comuni, con il solo potere di ​veto da parte della Camera dei Pari; per contro la politica estera era messa sotto il controllo della Camera dei Pari. Tutti i cittadini maschi non analfabeti con una rendita minima di 18 onze annuali (un reddito bassissimo, paragonabile a circa 10.000 euro l’anno di oggi) erano elettori della Camera dei Comuni, mentre, per essere eletti il reddito dove essere più alto (150 onze annuali, e quindi bisognava essere benestanti, anche se non proprio ricchi). La Camera si rinnovava ogni 4 anni, come i vecchi Parlamenti di Sicilia. A ciascun cittadino spettava, per mezzo di un Parlamentare, il diritto di fare domande, di presentare querele o, addirittura, di presentare “disegni di legge”. L’ammissione invece alla Camera dei Pari, oltre che per diritto ereditario, poteva avvenire per nomina regia, ma bisognava essere cittadini siciliani ed avere una


rendita annua stratosferica, corrispondente a diversi milioni di euro di oggi; la Camera dei Pari era ancora l’Assemblea dei vecchi “gattopardi” di Sicilia, dei suoi potentissimi e ricchissimi baroni. Lo Stato si impegnava a far conoscere a tutti la Costituzione. Così recitava un suo passo: «Ogni cittadino siciliano sarà in dovere di conoscere la Costituzione del regno; così fù obbligo dei parroci e dei magistrati municipali [Sindaci di oggi] istruire della Costituzione del 1812, tutti coloro che appartengono ai loro quartieri ed al loro comune; come egualmente sarà dovere della Università e delle scuole pubbliche e private il leggere due volte l’anno la Costituzione.» Purtroppo, dopo solo un anno e mezzo, il Re, uscito dal confino della Ficuzza prese di nuovo il potere e svuotò questo documento preziosissimo. Nel 1815 il Parlamento fu sciolto definitivamente. L’anno dopo la Costituzione, che sanciva la perpetua indipendenza della Sicilia e che, se il Re fosse tornato in possesso del Regno di Napoli, avrebbe dovuto lasciare la Sicilia al figlio, fu tradita e stracciata: il Regno di Sicilia, dopo sette secoli di vita, veniva cancellato con un semplice decreto e fuso con il Regno di Napoli nel “Regno delle Due Sicilie”, un regno unitario di nuova costituzione. Le libertà, i diritti civili, le autonomie municipali, tutte le conquiste del 1812 in una parola, furono revocate e fu instaurato uno “stato di polizia” che i Siciliani non avevano mai sperimentato, se non forse nei lontani giorni della “Mala Signoria” degli Angioini. L’unica conquista che fu mantenuta fu l’abolizione del feudalesimo e, anzi, va detto che per rafforzare il potere centrale la lotta a ciò che del feudalesimo sopravviveva fu sempre portata avanti, sia pure con molta lentezza, dal nuovo potere borbonico. Ma, al di là di qualche buon provvedimento paternalistico, la Sicilia era stata cancellata dalla carta geografica. Costituzione di Sicilia stabilita nel generale straordinario Parlamento del 1812.



Re Ferdinando di Borbone Il Regno di Sicilia aveva mantenuto da sempre la propria indipendenza. Molte dominazioni e molti Re si erano succeduti sul trono siciliano durante il passare dei secoli. Anche se Ferdinando di Borbone era contemporaneamente re di Sicilia e re di Napoli, ciò non ne modificava l’autonomia e l’indipendenza dell’isola. Il 23 gennaio 1806, occupata Napoli da parte di Napoleone, Re Ferdinando si rifugiò a Palermo. In un periodo di grandi cambiamenti, dovuti all’azione dirompente di Napoleone e del suo portato rivoluzionario rispetto allo status quo precedente, l’Inghilterra e la Sicilia rappresentavano un baluardo inattaccabile ad opera dei francesi. Il Parlamento siciliano, pur accogliendolo e ospitandolo con grandi onori (ma non come otto anni prima)), a denti stretti, il 10 luglio 1806, votò un finanziamento straordinario di ben centomila ducati a suo favore. La Sicilia e l’Inghilterra si accollarono le spese della guerra. Pochi sanno che la parte orientale dell’isola divenne, in pratica, un protettorato Inglese, che ne garantiva la difesa, specie dopo i trattati del 30 marzo 1808 e del 13 maggio 1809, e, soprattutto dopo il tentativo di Murat, del settembre 1810, di sbarcare in Sicilia. Questi tentò un colpo di mano a Santo Stefano, nelle vicinanze di Messina, ma venne ricacciato in mare dall’intervento armato dei contadini e degli abitanti del luogo. Per tutta risposta Ferdinando, invece di ringraziarli, gli chiese di consegnare le armi. Ferdinando I, nonostante i finanziamenti degli inglesi per il rafforzamento dell’esercito borbonico, che, tuttavia, rimaneva in gran parte inesistente, chiese al Parlamento siciliano, nel 1810 un ulteriore somma di 360mila onze. Il Parlamento presieduto da Carlo Cottone, principe di Castelnuovo, gliene accordò solo 150mila. L’anno successivo, con


tre decreti del 14 febbraio 1811, per tutta risposta, Ferdinando impose tre nuove tasse ai siciliani. Il 19 luglio 1811, ai parlamentari insorti a questa decisione proditoria, fece arrestare ed esiliare nelle isole minori siciliane, quali sovversivi dell’ordine pubblico, gli esponenti maggiori del Parlamento. Tra gli altri: i principi Cottone di Castelnuovo, Ventimiglia di Belmonte, Alliata di Villafranca, Riggio d’Aci e il duca Gioeni d’Angiò. La nuova tassa decretata dell’1% su tutti i pagamenti e le operazioni bancarie che si svolgevano in Sicilia, danneggiava, però, anche gli interessi commerciali inglesi nell’isola. Giudicando che fosse venuto il momento di mettere un freno alle invenzioni del Re borbonico, il Foreign Office inglese, il giorno successivo l’emanazione del decreto, inviò a Palermo, come ministro plenipotenziario, Lord William Bentinck, che, forte di 14.000 soldati, non ebbe difficoltà a far capire a Ferdinando che la situazione era mutata. Dopo aver richiamato a Palermo gli esiliati e abolita la legge, alla Regina, che gli si opponeva, ordinò di ritirarsi in una villa a Mezzo​monreale. Anche Ferdinando, dopo avere nominato vicario generale il figlio Francesco, si ritirò in una villa nel Parco della Ficuzza. Su suggerimento di Lord Bentinck, il giurista siciliano Paolo Balsamo si mise al lavoro per una nuova Costituzione. Essa venne redatta in 12 articoli, prendendo a modello la Costituzione inglese. Dopo averla esaminata e approvata, il Parlamento Siciliano la emanò il 19 luglio 1812. Ferdinando, con grande magnanimità, la sanzionò l’anno dopo, il 25 maggio 1813 (anche se è chiamata “del 1912”). In realtà quella siciliana era una costituzione più moderna, borghese e liberale di quella inglese. L’atto fu tale che divenne subito, ovunque, esempio di liberalità per i tempi.I primi avversari della nuova Costituzione furono i siciliani stessi. A causa della carestia del 1812-13, dei cambiamenti sull’assetto latifondista, delle avversioni intestine tra città siciliane e dei principi stessi, il Parlamento era percorso da tensioni dirompenti. Si vennero a creare al suo interno due distinte fazioni, quella dei «Cronici» (i costituzionalistici, che facevano capo al giornale «La cronaca di Sicilia») e quella degli «Anticronici», che gli si opponeva. La regina Maria Carolina tentò insieme al marito di fare ritorno a Palermo per approfittare della situazione creatasi, ma Bentinck impedendogli il ritorno, di fatto li confina prima a Castelvetrano, poi a Mazara del Vallo. La regina vista la situazione impossibile per le sue mire, partì facendo ritorno in Austria (14 giugno 1813), dove morì l’anno seguente.

E. Pontieri, ​Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento​, Roma, Perella 1945,

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