Una donna migrante in mezzo alla crisi di Duska Kovacevic

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Duska Kovacevic

[Croazia]

UNA DONNA MIGRANTE IN MEZZO ALLA CRISI Il viaggio ora mi rivolge un sardonico sorriso. Il mio tentativo di resistere a guardare oltre la nebbia ormai è monco. Mi sto proiettando dentro di essa, nelle sue fauci candide e marmoree e mi dolgono gli occhi. Vedo soltanto uno spettrale muro e sento il freddo che esala. L’umido mi penetra dentro le ossa, le avvolge, le spaventa, come un tiranno imbizzarrito. Mi sento come quel buffo treno che quest’estate mi ha portata dall’Aquila verso Roma: un esemplare di locomotiva quasi da museo, desolato e antiquato, che serpeggiava audace e lento attraverso le montagne. A ogni minimo incurvamento dei binari cigolava tutto, e si fermava, con gran fracasso, in ogni paesino apparentemente dimenticato da Dio, ma forse proprio da lui tenuto in considerazione, vista la selvaggia e attempata bellezza che lo contraddistingueva. Si è fermato nel punto in cui per lui i binari non esistevano più: tentare di spingersi oltre non sarebbe stato alla sua portata. La sua missione consisteva ancora solo nel ripercorrere le pittoresche tappe del ritorno all’Aquila. Per raggiungere Roma bisognava affidarsi ad altri binari e a mezzi più idonei. Perché, in questi giorni imbronciati, non faccio altro che paragonarmi a quel treno? Nessun paragone umano mi affiora sulla coscienza, nessun ricordo più lieto, magari altrettanto poetico ma più incoraggiante, no, la mia nostalgia si identifica solo con quella scatolina di lamiera prossima a un definitivo fine corsa e non cerca altri appigli. Mi sento stanca e superata: superata da me stessa. La parte che voleva andare avanti ha finito per impigrirsi e impaurirsi, è invecchiata anzitempo. È avvenuta una brutta metamorfosi, una farfalla ha retrocesso. Se apro le finestre, inspiro lo stagno dei miei indugi. Quello che era bello, e che bello è, vive la sua bellezza lontano dalle mie percezioni. Sono grigia, come questo pomeriggio, e spaventata, come quelle poche foglie raggrinzite che tremano sull’albero del cortile, che mi spia astioso, come se volesse chiedermi: “Sei ancora qui?”. E dove vuoi che vada?! Ho intrapreso diversi viaggi, fuori e dentro di me, ma ora sto subendo una sgradevole battuta di arresto e di confusione. Ne consegue un allargamento: si allargano il mio vuoto, le mie proporzioni corporee, le mie abbuffate seguite da rimorsi. Pure il torpore si allarga, è una molecola all’interno delle macchie di frustrazione che finiscono per imbrattare tutto ciò che credevo di essere. Le chiazze di unto cambiano consistenza e forma, fino a diventare un sudiciume indistinguibile che imbratta la tela dei miei sogni e dei miei sforzi. Non le pulisco, le tracce di resa, sono stanca. Avrei bisogno di aprire una finestra nuova, che dà su un altro cortile, magari con un albero meno beffardo. Odio il silenzio intorno a me. Mi sconcerta costatare che coloro sulle cui spalle credevo avrei potuto piangere se la sono svignata per primi. Evidentemente, sono diventata un bruco pesante. Come sono pesanti le paure di chi comprende di essere giunto al capolinea senza intravedere né altri binari, né altri treni. No, altri binari io, qui, proprio non li vedo. E quello che non vedo mi spaventa. Mi spaventa l’idea che gli anni siano passati senza essere riusciti ad insegnarmi nulla. Questo stop mi terrorizza. Ho incontrato molte donne, viaggiatrici belle e coraggiose, che ce l’hanno fatta, e so che molte altre ce ne saranno, là fuori, oltre i rami spavaldi del mio albero quasi nudo, a farcela ancora, a fornire esempi, a viaggiare sorridenti. Ora le ammiro tutte, e nel contempo le odio, o meglio no, non le odio, l’odio è una passione, è intensa, si fa sentire e io non sento niente, non le odio quindi, soltanto invidio o, forse, venero, e qualche volta cerco di incontrarle nelle mie preghiere. Quando prego, supplico il senso. La consapevolezza. Ormai non chiedo più che non faccia male; è sciocco il tentativo di sfuggire alla sofferenza. Sofferenza e ombra devono essere fatte dalla stessa pasta, perché si comportano nella stessa maniera: non ti abbandonano. In certi momenti non si fanno vedere, ma non è altro che un escamotage, una piccola illusione ottica e percettiva che ti concedono quando sanno che la tua soglia di tolleranza è allo zenit.


Eppure, quel trenino era così simpatico. Divertiva, la consapevolezza di viaggiare in un pezzo di storia consumata dal tempo pur rimanendo affascinante. Il verde intorno a noi pochi in quel piccolo serpente di lamiera era così intenso, il cielo così azzurro, e i sedili così plasmati dalla mole di sagome che vi si accomodava, che il viaggio finiva per diventare un autentico rapimento. L’ho amato: lo spostamento da una dimensione all’altra, l’esilarante fattore sorpresa, il fascino dell’ignoto, l’autentico stupore. Mi meravigliavo a bocca aperta, come solevo fare da bambina e come di certo da tempo non avevo più fatto. Ah, quanto era intrigante la sensazione che aveva rievocato: quella di un’imminente fine a cui sarebbe seguito un passaggio, un cosiddetto salto di qualità. Vorrei toccare un tasto, ora, quello della macchina del tempo. Vorrei riattivare il display e vedere qualche lucetta che brilla. Ho bisogno di qualche segnale. Dov’è il prossimo treno? Dove iniziano gli altri binari? Dove sorge il sole? L’invisibile filo d’oro ci deve pur essere, non posso essere sospesa nel vuoto. Sarà soltanto una sensazione. Talvolta capita.


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