Beatrice Orini
[Italia]
CAMMINADO CONTROVENTO Mi ha colpito il velo, innanzitutto. Subito dopo, mi sono stupita del mio stupore. Anche un po’ vergognata, credo. Ci siamo sorrise e presentate. Ed ecco che mi sono sorpresa per la terza volta in un minuto. Perché ha una voce che incanta, Latifa. Così calda e chiara, così armoniosa. Mi spiega che è qui, in questo istituto di lingua, per migliorare il suo italiano, in modo da poter trovare un lavoro, magari qualcosa di utile per gli altri, come la mediazione culturale. Mi chiarisce, in un italiano già molto buono, su che cosa vorrebbe rafforzarsi. Abbiamo trenta ore davanti a noi. Poco più di trenta sono anche i nostri anni. Io insegnante, lei allieva: quasi coetanee, forse amiche, alla fine. Ad ogni lezione, Latifa svela un pezzo di sé. Ha lasciato il Marocco dieci anni fa e ora abita in un paese della vasta provincia lombarda. «Sono passati dieci anni e mi sembra di non aver fatto niente», mi dice un giorno. In realtà, ha imparato a parlare e a orientarsi in un Paese nuovo, ha conseguito la licenza media, si è sposata, ha messo al mondo due bimbe, ha conosciuto associazioni per cui fa volontariato. Latifa, in dieci anni italiani, ha fatto moltissimo, anche un po’ di quello che io vorrei ma chissà. Capisco, però, cosa intende: ha una laurea marocchina in Economia che qui non può spendere, non ha un lavoro che la renda autonoma, si sente sola. Non è serena, soprattutto se si paragona all’amatissima sorella maggiore che abita in Francia. Ha provato anche a raggiungerla, a ricominciare là. Ha iscritto le figlie in una scuola francese, mentre lei è tornata sui banchi dell’università, usufruendo di una serie di agevolazioni, dall’affitto alle tasse universitarie. Dopo qualche mese si è arresa ed è tornata in Italia dal marito: un matrimonio a distanza non era possibile. Ora, di fronte a me, Latifa racconta di un pezzetto di cuore lasciato, ancora una volta, altrove. E io mi lascio trasportare oltralpe dalla sua voce che incanta e mi emoziono ripensando ai miei, di anni francesi. Al dilemma resto o non resto, alla scelta del ritorno. Agli amici che invece sono rimasti, percorrendo la strada che avevo immaginato per me. Penso al lavoro che ora loro hanno là e al fatto che io qui colleziono esperienze, sommo lavori, resto incastrata in un precariato sempre più cronico. Penso a Latifa che ha scelto qui una nuova vita ma che è delusa e che vorrebbe andarsene. Poi smetto di pensare e torno alle strutture grammaticali, ben più rassicuranti. È bravissima in grammatica, Latifa. Ma anche nel resto, è precisa, curiosa, attenta. Per quanto mi riguarda, l’ascolterei e basta: ogni volta è uno spunto di riflessione, una scoperta. Ogni volta sono piccoli grandi stupori. Un giorno le porto un articolo che mi era piaciuto sulla condizione femminile in Italia. Lei mi ringrazia: – Questo è un argomento che mi tocca molto –. Ne parliamo a lungo. – Mi chiedo da quando sono piccola – dice – perché se mio fratello ha sete, io devo portargli un bicchiere d’acqua, ma non viceversa. Io e mia sorella ci siamo sempre rifiutate di portarglielo, questo bicchiere d’acqua. Ma siamo state fortunate: lui rideva, ci prendeva in giro e la cosa finiva lì. In altre famiglie sarebbe stato diverso… In ogni caso, lui ora in Marocco si è trovato una moglie che glielo porta, il bicchier d’acqua. Anche Latifa ha sposato un connazionale, destinato però a soddisfare la sua sete per conto proprio. È un uomo che ha accettato il fatto che la sua sposa può prendersi cura di lui e delle figlie, occuparsi della casa e della famiglia, senza però servirlo in quanto lui uomo, lei donna. – Io sono un po’ rivoluzionaria –, puntualizza Latifa con tono garbato. Le credo subito: dietro al velo chiaro e ai modi dolci, non si può non scorgere una luce battagliera. Gentilmente battagliera. – Mia sorella ha sposato un francese e per lei è stato più facile, ha trovato una mentalità già aperta – prosegue –. Per me non è stato così. Ora mio marito mi aiuta in casa, però quando stendiamo i panni, lo sento che in realtà si vergogna, che ha paura che qualcuno lo veda…
Le sorrido, perché di nuovo penso ai miei, di panni. Penso al mio ragazzo che mi aiuta volentieri a stendere il bucato. Non si vergogna per niente. Poi, però, se non lo tolgo io, resta per l’eternità a far parte dell’arredamento. Nella nostra camera, infatti, ci sono un letto, due comodini, un cassettone, una poltroncina. E uno stendino sempre aperto. Che non dà mica fastidio, direbbe lui, aggiungendo togliti l’elmetto, che sei sempre in guerra! Comunque, la responsabilità è soprattutto delle donne, sostiene Latifa. – In Marocco – racconta – le donne non fanno niente per cambiare la loro situazione: l’accettano, anzi l’appoggiano. Le donne, in Marocco, spesso camminano con il vento. Mentre l’ascolto, mi rendendo conto che provare a camminare controvento, come fa lei, non è per niente facile. – Mio marito – rivela – sa che io potrei stare benissimo da sola, che non ho bisogno di un uomo per vivere. Ma questo non solo non si può dire, non si può neanche pensare nel mio Paese. Non che qui in Italia sia facile. Quando va a prendere le sue bimbe a scuola, le maestre comunicano con lei a gesti… – Pensano che siccome ho il velo non capisco niente! Ride, Latifa, mimando le maestre che mimano. Rido anch’io. Poi torniamo serie: – Non è colpa delle maestre. La verità è che tante donne mussulmane non sanno l’italiano e non hanno studiato neanche prima. Troppe donne non hanno proprio niente tra le orecchie… Rido di nuovo, per le sue espressioni buffe che avvolgono di grazia anche i pensieri cupi. Intanto passano le settimane, scorrono le nostre trenta ore. I verbi e i nomi, i pronomi e le preposizioni. Il lessico. Le canzoni, i video, le letture. Dopo le attività, Latifa scrive brevi riflessioni. Sulle orme di Carboni, tratteggia quasi una poesia su La mia città: la mia gioia, la mia nostalgia. Dopo l’ascolto di Vorrei, narra del suo desiderio di tornare una bambina senza pensieri né doveri, della voglia di riascoltare la voce di sua madre che chiacchiera con la terribile vicina. A metà della canzone Io non mi sento italiano, mi chiede: – Lo sai che in Marocco se uno scrive una cosa così, va, come si dice… In carcere? Ci mettiamo a parlare di libertà. Poi deviamo sul Pinzimonio femminile della Littizzetto, senza riuscire a risolverci sull’ardua questione: ma noi, esattamente, che donna verdura vorremmo essere? Un giorno le regalo un vecchio dizionario di italiano, perché a casa lei non ha quello monolingue e viene sempre mezz’ora prima in istituto per consultarlo. È felice. La volta dopo mi porta dei dvd per conoscere meglio la sua religione: sa che non so niente. Sono felice. Un giorno mi presento a lezione con gli occhi rossi e la faccia scompigliata. Le racconto che mi hanno appena telefonato per dirmi che la supplenza che stavo facendo in un’altra – lontanissima – scuola è finita, così, d’improvviso, senza neppure il tempo di salutare i ragazzi. Lei mi guarda con un’espressione che non dimenticherò. Dentro quella giornata triste, per qualche ora con lei mi affaccio a una finestra felice. La volta dopo, è Latifa ad essere turbata. Su proposta di alcuni concittadini, ha chiesto al Comune uno spazio dove insegnare arabo. Abbiamo scritto insieme il suo curriculum, ha preso un appuntamento con l’assessore, che ha accolto la proposta, ma solo in linea teorica perché mancano i soldi per pagare il riscaldamento del locale. Ora mi racconta che, in Comune, l’hanno mandata a parlare con una seconda persona. Una donna. Mi dice che non è andata bene, che la signora, quando ha visto il velo, si è quasi spaventata e ha iniziato a fare dei discorsi sulla religione che Latifa nemmeno ha capito…«Sempre con questo velo! – esclama, alterata – Cosa c’entra la religione, con la mia richiesta di insegnare la lingua araba? Proprio a me, parlano di religione!». In effetti, Latifa è molto credente e allo stesso tempo molto critica verso certi aspetti dell’islamismo, verso un’interpretazione a suo avviso non sempre autentica del Corano. «In realtà Allah ama le donne», mi ha detto una volta… E, come ogni volta, io l’ho ascoltata, sorridendo ai suoi occhi gentilmente battaglieri. Le nostre trenta ore sono quasi terminate, ma mi piace pensare che questo sia solo l’inizio della nostra conoscenza. Vorrei non perderla, la mia allieva rivoluzionaria. E insieme a lei, camminare controvento.