Hzine - La musica e le arti

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hzine La musica e le arti

Mensile - Anno 1 Numero 00 Gennaio 2014



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Numero 00 - anno 1

L’editoriale

di Salvatore Spampinato

hzine La musica e le arti

Arte e musica sono elementi culturali fondamentali per una crescita sociale ed economica sostenibile e duratura nel tempo. L’arte è una forma di dialogo tra culture diverse. È possibile che idee, immagini o eventi culturali possano ispirare e influire sulla creazione di una musica, senza però che diventino oggetto di una vera e propria descrizione. L’editoriale Hzine si pone come obiettivi quello di essere un punto di riscontro tra musica e arte, cercando di incuriosire il lettore verso una lettura disinibita e libera da ogni imposizione, il connubio tra arte e musica rappresenta al giorno d’oggi una delle forme di curiosità che affascina maggior mente un pubblico giovanile, sempre più curioso. Hzine fa un tuffo indietro nel tempo, mostrando quali correnti artistiche abbiano influito nel mondo della musica, e viceversa come la musica sia entrata a far parte di essa. Opinioni e interviste dal mondo dell’arte e della musica; le ultime pagine si dividono in sezioni dedicate alle rubriche ed alle recensioni.

Ferocemente satirico, Gerald Scarfe, spesso nelle sue vignette usava trattare argomenti (la scuola, l’esercito, il progresso) che si avvicinavano molto a quelli cari a Roger Waters, con cui collaborò per la realizzazione delle animazioni del tour


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hzine Mensile

#00 / Gennaio 2014

Progetto grafico Salvatore Spampinato salvo_spampy@hotmail.it

Coordinatore Marco Lo Curzio Editore Accademia di belle arti di Catania Via del Bosco, 34/A Tel 095 7335027 Fax 095 338181

Stampa Ritmo Edition Via Mulino a Vento, 15 Catania, Italy Website www.hzine.com Tipografia Chalkduster, Cooper Black, AvantGarde Bk

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Indice

6 - Beatles Yellow submarine

24 - Rubriche libri - fumetti - games

10 - kandinskij Il legame con la musica

27 - Intervista Kraftwerk, arte sonora

14 - Intervista a Philip Glass

28 - Infart Urban art & music festival

16 - John Cage Tra estetica e musica

30 - Recensioni cinema

21 - Singing ringing tree la natura compone la musica


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Beatles Yellow Submarine Una surreale favola musicale di Gianni Lucini

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l 17 luglio 1968 al Pavillion di Londra viene presentato per la prima volta il film d’animazione “Yellow submarine”, una surreale favola musicale diretta da George Dunning che ha come interpreti le effigi disegnate dei Beatles. Il lungometraggio, il primo a disegni animati prodotto in Inghilterra dopo “La fattoria degli animali” di Halas e Batchelor del 1957, racconta la storia della lotta di Old Fred, direttore della Sergeant Pepper’s Lonely Heart Club Band, e di quattro ragazzi di Liverpool, John, Paul, George e Ringo, contro i Biechi Blu, che hanno conquistato Pepperland e sono intenzionati a far scomparire per sempre la musica e i colori dal mondo. La sera della prima c’è molta curiosità attorno al nuovo film targato Beatles, dopo il clamoroso fiasco del confusionario - psichedelico “Magical Mistery Tour”, stroncato dalla critica e accolto tiepidamente dal pubblico. In più il gruppo attraversa una fase contraddittoria e incerta sia nei rapporti interni che sul piano musicale, caratterizzata da un lungo periodo di meditazione in India. Al Pavillion la band si presenta senza Ringo Starr, ufficialmente impegnato altrove, ma in realtà polemicamente incline a marcare le distanze nei confronti delle suggestionii spiritualistiche dei compagni. Ispirato all’omonima canzone, “Yellow Submarine” si conclude con un appello dei quattro ragazzi di Liverpool alla pace universale e, come rileva la critica dell’epoca, “propone una morale edificante, ma non tediosa,

moderna e piacevole”, in sintonia con un periodo di speranze e di cambiamenti annunciati. Nei disegni di Heinz Edelman, John Cramer e Gordon Harrison, ricchi di citazioni si possono ritrovare fuse insieme con fantasia e originalità le espressioni figurative di moltissime correnti di questo secolo. Non si tratta di un capolavoro, ma di una geniale fusione tra colori, musica, immagini e idee, proposta con garbo e ironia e destinata a ottenere un buon successo di pubblico.

I protagonisti, i beatles


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Yellow submarine è inoltre una compilation disorganica di brani di epoche diverse - si va dal 1965 di “Nowhere man” e “Think for yourself” al 1969 delle canzoni scritte appositamente per il film e dei due brani del singolo “All you need is love” / “Baby you’re a rich man”. un album di (quasi tutte) belle canzoni. Su questo non è lecito dubitare. Ma - e qui arriviamo al nocciolo - di canzoni “diverse” da come tutti le ricordiamo per averle ascoltate decine o centinaia di volte. Non stiamo qui nemmeno a discutere se siano “migliori” o “peggiori” le versioni originarie o quelle rimixate. E cerchiamo di non farci velare il giudizio dalla nostalgia per il passato, dall’irragionevole (ma comprensibile) rimpianto passatista per il suono del vinile, della puntina, della fonovaligia stereo degli anni Sessanta. Queste versioni sono “diverse”: più pulite, più nitide, più dettagliate, più leggibili (persino i testi risultano più facili da capire anche per chi non sa benissimo l’inglese). Ma non sono le stesse canzoni. Certi effetti, certi suoni, certi particolari che adesso spiccano come in rilievo, nelle versioni originarie non c’erano. O meglio, c’erano ma

non si sentivano così tanto. E allora, qui si apre una grande questione filologica, che è - scusate l’ardire - né più né meno quella della quale si è tanto discusso a proposito di certi restauri di opere d’arte. “Il Giudizio Universale” di Michelangelo, “L’ultima cena” di Leonardo, ripuliti e smacchiati e ripristinati, sono diversi da come li avevamo conosciuti.

Diversi, perché la patina del tempo è stata eliminata; diversi, perché sono stati riportati - per quanto si è potuto - a com’erano quando sono stati creati. E qui le scuole di pensiero possono scontrarsi a piacimento. Ma queste canzoni dei Beatles - che siano arte o anche semplice artigianato, che siano già antiquariato o semplicemente modernariato - così come sono riportate su questo nuovo disco non sono “come erano”: sono come non sono mai state. Il risultato era, per dirla con

una parola d’effetto, un’atmosfera sonora: un’atmosfera suggestiva, magari un po’ confusa nei particolari, magari poco “pulita”, ma inconfondibile, emozionante, magica. Ripubblicare l’album del soundtrack di “Yellow Submarine” così com’era, giusto per sottolineare la riedizione in versione restaurata del film, eventualmente arricchendolo di un booklet con informazioni, fotografie, immagini inedite. E, se proprio il nostro destino dev’essere quello di ricomperare per l’ennesima volta ogni singolo album della discografia dei Beatles, meglio sarebbe stato avviare l’operazione di rimixaggio “profondo” partendo dall’inizio, o dalla fine, o dal mezzo della discografia beatlesiana, ma rispettando l’integrità di ogni singolo disco. Così che ognuno potesse, volendo, ascoltare entrambe le edizioni, confrontarle, valutarle, scegliere la preferita. Filologicamente: forse anche un po’ maniacalmente, ma almeno nel rispetto della Storia (e qui la lettera maiuscola ci vuole proprio). Rockol.it


Una piccola storia fra due anime creative... un piccolo tassello in più in ricordo di Lucio Bologna, gennaio 2007. Tra gli stand di ArteFiera la scena è spassosa. Il fotografo, un metro e 95 di altezza, se ne sta in posizione ginnica, quasi in spaccata, per essere più basso. Il musicista impellicciato, un metro e 60 con le scarpe, lo sfotte in dialetto bolognese: “Ma mi stai facendo una Tac? E quanto sei alto! Dovrei saltare fino al cielo per essere come te”. Maurizio Galimberti e Lucio Dalla si erano conosciuti qualche anno prima in vacanza a Sorrento, amici di amici. Immediata la sintonia tra i due e la stima reciproca: discorsi su Duchamp e il Futurismo, sulla sperimentazione nei rispettivi ambiti, Lucio che paragona Maurizio all’amico Luigi Ghirri, Maurizio che, come tutti, lo considera un mito. All’inizio del 2007 Dalla ha pronto un nuovo album, ancora senza titolo. Per la copertina pensa a un suo ritratto e lo vuole realizzato dal “fotografo senza il quale la Polaroid sarebbe morta”, come definisce Galimberti, detto anche, per via della statura, “un De Gregori senza barba”. Per accordarsi, i due si danno appuntamento per un caffè ad ArteFiera. Lì per lì, invece, decidono di improvvisare. La foto è fatta subito, Lucio con pelliccia e Galimberti che gli appoggia addosso la fotocamera, e subito pronta, stregoneria della Polaroid. “Mi vedo al contrario!” è il primo commento del musicista. Oltre all’immagine di copertina nasce così anche il titolo dell’album, Il contrario di me. Come sempre in queste vicende, c’è anche un’ultima telefonata. La mattina del 1° marzo Maurizio sbaglia numero (chi lo conosce sa che è possibile) e fa partire inavvertitamente una chiamata per Lucio. Se ne accorge e chiude in fretta. Due ore più tardi, il musicista che tanto ammira muore. Chissà… Cose che capitano, quando per comunicare si usa anche l’anima. Di Sabina Spada


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Kandinskij Il legame con la musica di Alessandra Pino

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andinsky si interessa fin da bambino alla musica e all’arte e impara a suonare il violoncello e il pianoforte. Più tardi, nel 1896, come racconta egli stesso nello scritto autobiografico Sguardo al passato, ascoltando il Lohengrinal Teatro Bolscioi ha l’impressione di vedere la sua Mosca “dipinta musicalmente” da Wagner: “vidi nella mente tutti i miei colori, erano davanti ai miei occhi.” t in questo modo che Kandinsky, grazie alle sue non comuni capacità sinestetiche, ha una delle intuizioni più importanti per lo sviluppo della sua pittura, comprende cioè la valenza musicale del colore e l’importanza del rapporto fra musica e pittura. Torna su questo tema nello Spirituale nell’arte dove, attraverso continui rimandi alla musica, al teatro, alla danza e alla poesia, enuncia il progetto di sintesi delle arti, che diviene la finalità della sua ricerca artistica soprattutto nel periodo monacense, ma continua anche negli anni del Bauhaus. Secondo Kandinsky le diverse arti sono equivalenti fra loro in quanto tutte manifestazioni dello spirito umano e la loro interazione ne aumenta la forza espressiva; di conseguenza anche il coinvolgimento dell’osservatore diventa più intenso. A sostegno delle sue tesi, in particolare sulla comparazione fra gli effetti del colore e del suono, cita esperimenti di educatori, psicologi e musicisti, soprattutto russi, volti a “vedere cromaticamente i suoni e udire musicalmente i colori”. Negli stessi anni che vedono svilupparsi le riflessioni teoriche dello Spirituale nell’arte, nascono i primi dipinti astratti i cui titoli rivelano chiaramente gli interessi e gli studi di Kandinsky. Appartengono a questo periodo, fra l’altro, le Composizioni, Impressione

III, che ha come sottotitolo Concerto e Con l’arco nero che è, come afferma lo stesso artista, la dimostrazione pittorica della “dissonanza”. In questi quadri l’autore si propone di suscitare emozioni attraverso il potere evocativo di forme e colori, il cui accostamento non intende comporre un racconto, ma va inteso come pura espressione. Anche le opere teatrali Suono giallo, Suono verde, Nero e bianco, e infine Viola, per il quale Kandinsky scrive personalmente alcune melodie, sono il frutto del lavoro di questo momento particolarmente creativo. Queste composizioni sceniche, nelle quali l’artista si propone di realizzare un’opera d’arte totale attraverso l’interazione di musica, luce, colore, movimento e parola, superano la mimesi del reale e creano dimensioni autonome non oggettive. Sempre allo stesso periodo infine risalgono le poesie che, non a caso, Kandinsky intitola Suoni


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È soprattutto in due importanti scritti teorici che il rapporto tra le due arti viene affrontato in maniera compiuta:in Dello spirituale nell’arte e in Punto e linea nel piano. In Dello spirituale nell’arte, pubblicato a Monaco nel 1912, la musica assume la funzione di vero e proprio modello “spirituale” nei confronti della pittura: musica è infatti per Kandinsky il dominio del non figurativo e dell’immateriale. Essa è pertanto l’arte più adatta a parlare direttamente all’anima umana, a influenzarne i comportamenti scavalcando l’accidentalità del fenomenico. Per questo motivo l’attenzione dell’autore si concentra sulla ricerca di analogie tra i principi della composizione musicale e i mezzi pittorici (ritmo, ripetizione cromatica, movimento, ecc.) fino a giungere all’elaborazione di una vera e propria “teoria armonica dei colori” i cui diversi timbri vengono associati a vari strumenti musicali (il giallo alla tromba, il celeste al flauto, ecc.).

In questo contesto interpretativo il rapporto con la musica si fa più stretto ed entra a far parte integrante della struttura dell’opera. La divisione tradizionale tra le due arti (la musica come arte del tempo, la pittura come arte dello spazio) viene superata dalla definizione programmatica del punto come “la forma più coincisa dal punto di vista del tempo”. Il tempo (nel senso di misura del movimento) diviene così, accanto allo spazio, l’orizzonte di possibilità della creazione pittorica: l’attenzione per la grafia musicale, accostata alle modalità dell’espressione grafica del punto pittorico; l’analisi della linea musicale (altezza, colore) quale elemento dinamico in rapporto al movimento della linea pittorica ne sono una chiara testimonianza. L’interesse per la musica è dunque un fatto significativo nella pratica artistica e teorica di Kandinsky (si pensi anche alla stima e all’amicizia per il compositore viennese Arnold Schönberg e alla ricerca espressiva

in direzione dell’opera d’arte totale nel lavoro teatrale Il suono giallo o nello scritto Sulla composizione scenica). Tuttavia non deve essere inteso come relazione diretta e biunivoca tra le due discipline artistiche, nel senso di una traduzione di fatti musicali in specifiche opere pittoriche o viceversa. Il valore di questo confronto consiste, infatti, proprio nella consapevolezza di una necessaria distinzione delle due dimensioni artistiche. In entrambe, la creazione formale è conquistata e raggiunta solo attraverso il mantenimento della specificità del proprio linguaggio espressivo: “Un’arte deve imparare da un’altra in che modo quest’ultima proceda coi mezzi che le sono propri e deve imparar ciò per usare poi nello stesso modo i propri mezzi secondo il proprio principio, cioè nel principio che a essa sola è peculiare” (Dello spirituale nell’arte).


La storia dell umanità secondo Milo Manara. Questo pezzo s’intitola “Bolero” e appartiente ad una pubblicazione del 1999.“Bolero”, è un tipo di musica che, come da titolo, dà un tocco ironico a quello che resta, se è che resta qualcosa, di romantico nel nostro divenire: eros e violenza.


L’illustratore italiano Milo Manara, riconosciuto come una delle icone dei fumetti erotici, ha creato le seguenti vignette per illustrare La storia dell’umanità in una sfolgorante processione di personaggi da Neanderthal ai giorni nostri...Eros e violenza, le poche costanti del genere umano. Questo pezzo è in realtà intitolato Bolero , ed appartiene ad una pubblicazione del 1999. Oltre al valore indiscusso dei disegni del maestro bolognese, la scelta delle strisce sequenziali, senza baloon, rende i disegni ancora più eloquienti, descrivendo gli usi e i costumi dei popoli che si sono avvicendati nei secoli di storia umana e le varie amenità che gli esseri umani sono stati capaci di produrre.


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Philip Glass

A mio parere esistono essenzialmente due categorie di compositori: quelli che inventano nuovi linguaggi e quelli che si limitano a riciclare delle formule preesistenti


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i sono opere che, nonostante siano datate,riescono ad emozionare, non solo a un livello puramente sonoro, e al contempo, pur essendo prive di qualsiasi riferimento scritto, trasmettono idee, analisi, suggestioni. L’artista statunitense ha riproposto uno dei suoi più grandi capolavori, Koyaanisqatsi. Life out of balance, realizzato nel 1983 per l’omonimo film che porta la regia di Godfrey Reggio. Il progetto, per l’epoca, era visionario, pioniere di un linguaggio artistico in cui musica e immagini sono in totale, stretta simbiosi: i suoni rafforzano l’estetica e i contenuti visivi si susseguono seguendo i movimenti delle note. Glass, affiancato da una grande orchestra formata da musicisti di alto spessore, ha riprodotto simultaneamente la colonna sonora del film, mentre le immagini di Koyaanisqatsi scorrevano sullo schermo, in perfetta sincronia con le note del pentagramma. La forza dell’opera e del concerto va oltre la fusione concettuale e ritmica fra suoni e immagini. Come ogni opera d’arte, anche lo straordinario Koyaanisqatsi può essere interpretato a seconda della prospettiva con cui lo si guarda, a seconda della sensibilità dell’osservatore/ascoltatore. La musica e le immagini tratteggiano proprio questo significato, partendo dalle armonie e dalle bellezze della natura, coi suoi incredibili spazi e paesaggi, raccontati con sonorità pacate, cadenzate e sincopate, ma tranquille.

L’instabilità e le inquietudine della società umana entrano lentamente, attraverso ambientazioni fisiche e musicali urbane, industriali, meccaniche, computerizzate. Il primato della tecnologia surclassa l’equilibrio tra uomo e natura, creando quella “vita senza ordine” che ha dato l’input alla genesi dell’opera. Non servono commenti o spiegazioni del processo creativo e dei significati sottintesi. L’arte non possiede un significato intrinseco: in questo sta la sua potenza, il suo mistero e, di conseguenza, il suo fascino». È indubbio, tuttavia, che un attento spettatore sa cogliere le dinamiche che la musica e il film sviscerano, imperniate sul continuo sfruttamento della Madre Terra da parte della civiltà umana e sui tentacoli di dipendenza che la società informatizzata, sempre più digitale, porta con sé. Philip Glass, con questa scelta, si è dimostrato ancora una volta un artista complesso, profondo e sensibile, confermandosi inoltre un compositore non solo precursore dei tempi, ma anche attento ai cambiamenti che investono socialmente e culturalmente l’umanità. La sua personalità geniale, nel corso del live, si è espressa poi “mimetizzandosi” con l’orchestra, senza mai atteggiarsi da primo attore. La grandezza non ha bisogno di essere esposta troppo sotto i riflettori. di Silvia C. Turrin


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John Cage Tra estetica e musica di Giampiero Cane

J Vent’anni fa moriva a New York il grande compositore novecentesco più discusso, trasversale e forse ancora poco assimiliato dal grande pubblico

Gregori Antonin Mail Art di chiamata su John Cage

ohn Cage (1961): “A chiunque possa interessare: I ‘quadri bianchi’ vennero per primi: il mio pezzo silenzioso venne più tardi”. I quadri bianchi, così come quelli neri, erano di Robert Rauschenberg. Lo racconta Cage nell’Autobiografia: “Un giorno Bob venne da me e mi portò un dipinto che aveva appena finito. Era un nuovo quadro dei ‘black paintings’. Ebbi il dubbio che si aspettasse da me maggior entusiasmo. Avevo sempre avuto la massima ammirazione per il suo lavoro e poteva aver pensato che fossi in qualche modo deluso. Mi accorsi subito che era terribilmente turbato, quasi sul punto di piangere. Mi chiese se secondo me c’era qualcosa che non andava nel dipinto. Per questo lo rimproverai, semplicemente dicendogli che egli non doveva dipendere dall’opinione di nessuno, che non avrebbe mai e poi mai dovuto cercare quel tipo di appoggio da un’altra persona”. In Cage c’era certo un diletto per la pittura, ma anche una maniera di valutarla che sembra farne un’arte un poco minore nei confronti della musica. Non è la sua semplicità: “Credo che le arti visive contemporanee ci forniscano numerosi esempi di situazioni che raggiungono una straordinaria semplicità. Penso, a esempio, ai ‘white paintings’ di Robert Rauschenberg che sono assolutamente privi di immagini”. È il semplicismo cui si applica, per esempio, Jackson Pollock, ed esso ha una rilevanza che è significata dallo scarto che s’interpone nella valutazione di Cage tra quest’ultimo e Mark Tobey. Con Pollock è in atto, infatti, un automatismo comportamentale che, secondo Cage, produce un ripiegamento su se stessi, sulle proprie sensazioni, che è proprio ciò da cui ognuno dovrebbe liberarsi. Tutto l’espressivo è un qualcosa dell’io che risulta limitante, nocivo, alla produzione artistica: surrealistico o espressionistico che sia, esso porta la soggettività nell’opera. Non si tratta solo di insensibilità nei riguardi dell’umanesimo e di quanto lo ha seguito fino al romanticismo, ma in Cage è attiva una sorta di continua attenzione a respingere il progetto umano di farsi misura delle cose e del mondo, di creare dei o demoni a propria immagine e somiglianza, di antropomorfizzare la natura.


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Mi resi conto che non esiste una reale e oggettiva separazione tra suono e silenzio, ma soltanto tra l’intenzione di ascoltare e quella di non farlo.

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Cage liquida un po’ tutti insieme i pittori della Pop Art, “poco interessanti come il Surrealismo”, anche se non è un surrealismo dell’individuo, ma della società Uscito da una mostra di Tobey alla Willard Gallery “stavo aspettando l’autobs – racconta – all’angolo della Madison Avenue; guardai la superficie del marciapiede e mi resi conto che quel che vedevo mi dava la stessa sensazione che avevo avuto guardando i dipinti di Tobey. Proprio la stessa, così come il piacere estetico che mi procurava era altrettanto alto”. Così Cage ne parla: “Era un dipinto che non raffigurava nulla [...] era per così dire completamente astratto. Non aveva riferimenti simbolici. Si trattava di una superficie che era stata completamente dipinta: ma non era stata dipinta in modo da suggerire quell’astrazione geometrica che allora m’interessava. [...] Quello che abbiamo nel caso di Tobey, come in quello della superficie del marciapiede, e come in gran parte dell’Espressionismo astratto è proprio una superficie assolutamente priva di qualsiasi centro d’interesse. [...]Possiamo guardare prima una parte e poi un’altra, e per quanto ci è possibile avere un’esperienza dell’insieme. Ma quest’insieme è tale che non sembra delimitato dalla cornice. Sembra che possa proseguire, espandendosi oltre la cornice. In altre parole, è come se non stessimo parlando di pittura, ma di musica, di un’opera che non ha inizio, né parti intermedie, né fine, ed è priva di punti focali”. Ricordando che non ha un titolo e che non necessariamente ha questa durata, cos’altro serve a spiegare Tacet, o 4’33” ? Cage lo chiama “il pezzo silenzioso”, dicendo che di fatto ciò che lo spinse a scriverlo non fu il coraggio, ma l’esempio di Robert Rauschenberg, dei suoi ‘white paintings’.“Non appena li vidi mi dissi: Sì devo farlo, altrimenti rimango indietro, altrimenti la musica rimarrà indietro”. La distanza tra arte e vita è superata dallo svolgersi di un’esperienza. Questa non può consistere per il libero arbitrio anarchico nel farsi prendere per mano e farsi guidare a comprendere. Cage non tanto imputa di fare ciò ai movimenti realistici, sìmbolici/surrealisti, quanto li dice poco o affatto interessanti perché questo fanno. Egli vuole che si sviluppi la coscienza personale e si modifichi nell’esperienza sensibile, come nel caso raccontato del marciapiede all’angolo della Madison. Per sé vuole crescere con le sue proprie esperienze, farsi. Vuole frequentare Duchamp e imparare a giocare a scacchi. Duchamp gli chiede se già sa come si muovano i pezzi e, data la risposta positiva, cominciano a frequentarsi attorno alla scacchiera. Mai dalle parole di Cage risulta una sua crescita in qualche modo eterodiretta.

Anche se nell’opera di Duchamp, i dati immediati della sensazione, il guardare dell’occhio è reso inconsistente sia dalla trasparenza dell’oggetto che, e soprattutto, dalla necessità di trascorrere dalla percezione visiva a quella intellettuale, Cage non valuta per questo negativamente quell’arte, ma elabora una strana teoria per la quale “per la musica vale il contrario di ciò che è vero nelle arti visive”. “In altre parole – ci dice Cage – ciò di cui si aveva bisogno nell’arte quando Duchamp fece il suo ingresso sulla scena non era attinente alla fisicità del vedere, mentre ciò di cui si sentiva la necessità nella musica, quando io feci il mio ingresso, era l’esigenza di una fisicità relativa all’atto di ascoltare


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I suoni se ne stanno nella musica per rendersi conto del silenzio che li separa.

Preso atto del salto, quel che emerge dal silenzio è una sorta di contraddizione che Cage non ha mai apertamente affrontato. Che senso ha ricorrere all’analisi e battersi per la lettura della sua musica come fa James Pritchett, qualora si condivida il sospetto di Joseph Kosuth Che “per Cage, la musica fosse un luogo di lavoro piuttosto che qualcosa di utile all’esecuzione”? “I sensi non assistiti – ha scritto Cage – ci permettono di percepire, diciamo, il cinque per cento di quello che esiste. Mediante il micro-questo, micro-quello, tele-questo, tele-quello esploriamo il resto. Ora, benché angosciati dalla povertà, abbiamo avuto un’impressione

di abbondanza. Non possiamo supporre con una certa sicurezza, ora che abbiamo più di quanto possiamo utilizzare, che qualunque cosa è, in qualunque luogo, in qualunque momento, per chiunque?”.



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Singing ringing tree La natura compone la musica

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inging Ringing Tree e’ una scultura musicale composta da una serie di tubi di acciaio galvanizzato di lunghezza variabile e sovrapposti. Ubicata in cima ad una collina nelle vicinanze di Burnley, nell’area dei Monti Pennini nel Lancashire, contea del nordovest dell’Inghilterra, l’opera fa parte del progetto Panopticons patrocinato dall’East Lancashire Environmental Arts Network. L’obbiettivo del progetto Panopticons, e’ mirato alla creazione di una serie di strutture da collocare sui punti piu’ elevati delle colline del Lancashire per poter analizzare il ruolo del valore dell’arte nella rigenerazione. Il progetto del Singing Ringing Tree, albero che canta e suona, nasce dall’idea dei progettisti, Mike Tonkin e Anna Liu, di trasformare un’architettura-scultura in un’installazione che trasformi il vento in suoni o, nella definizione degli autori, “in sibili al limite del fastidio”. Quando soffia il vento, che arriva a soffiare in questo luogo fino a 170 chilometri all’ora, la pila di tubi ispirata alla forma degli alberi, emette una canzone a bassa frequenza. Questo e’ reso possibile dall’alchemica unioni della sovrapposizione asimmetrica dei tubi accordati su frequenze di risonanza differenti e dalla diversa lunghezza degli stessi che da’ luogo a una serie di accordi musicali diversi a seconda delle condizioni del vento. Cosi’, tutte le volte che ci si siede ai piedi della struttura si possono sentire canzoni diverse, dipende solo da che parte soffia il vento. Gli architetti Mike Tonkin e Anna Liu anche con questo lavoro, al pari di gallerie, case, appartamenti, promenade create durante la loro carriera, hanno voluto sottolineare la loro speciale predilezione per la natura e i sentimenti dell’uomo. Un lavoro che ha come base un indagine sul luogo, le persone e la cultura, proprio per favorire il naturale processo

delle cose, senza intralci, ne stonature con uno stile sobrio, minimalista e funzionale. Singing Ringing Tree ha ottenuto il RIBA Award 2007, premio nazionale per la migliore architettura inglese che viene designato ogni anno dal Royal Institute of British Architects.


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Cultura del verde Fino a quando il “verde” sarà considerato un “servizio” non saremo in grado di fare un salto di qualità. E’ necessario spostare l’attenzione dal come e dal cosa al perché. E’ necessario cominciare a parlare di piante, alberi, mondo vegetale come di qualcosa di intrinsecamente connesso alla natura dell’uomo e in quanto tale non sostituibile con nulla, qualcosa di irrinunciabile, “geneticamente” connesso alla nostra specie, al nostro essere biologico e culturale. Per la maggior parte della nostra evoluzione il nostro ambiente è stato quello delle foreste, si può affermare che più dei 9/10 della vita dell’Homo Sapiens sia trascorsa con una connessione più che intima con i boschi e le praterie, con quello che oggi chiamiamo “la natura”. Il senso di “spaesamento” tipico dei nostri tempi deriva dall’abbandono pressoché completo del mondo naturale a totale vantag gio di quello artificiale. In questo panorama, il “verde” assume un’importanza ben diversa che non quella di un semplice “servizio”. Si carica di significati che affondano le proprie radici nella nostra evoluzione di specie umana e ci offre al contempo una possibilità di soluzione concreta agli inquinamenti e ai problemi peculiari della modernità e postmodernità. (immagine: Singing Ringing Tree, Crown Point, Inghilterra, progetto Studio Tonguin Liu, RIBA Award 2007)



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Rubriche Libri Libri in uscita, le novità di gennaio 2014

I solchi del destino - di Paco Roca e F. Gnetti Editore: Tunué (2013) Collana: Prospero’s books

Addio, Monti - di Michele Masneri Editore: Minimum Fax (2014) Collana: Nichel

La prima profezia. Gregor: 1 di Suzanne Collins Editore: Mondadori (2013)

Io e Proust - di Michaël Uras Editore: Voland (2014) Collana: Intrecci

Pastoralia - di George Saunders Editore: Minimum Fax (2014) Collana: Mini

Odessa Star - di Herman Koch Editore: Neri Pozza (2014) Collana: Bloom


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Fumetti I fumetti piĂš attesi del 2014

Qualunque cosa farĂ Zerocalcare (Bao Publishing)

Rat-Man 100 di Leo Ortolani (Panini Comics)

Dylan Dog 338 di Roberto Recchioni & Nicola Mari (Sergio Bonelli Editore)

Lukas di Michele Medda, Michele Benevento, AA.VV. (Sergio Bonelli Editore)

Space Dumplins di Craig Thompson (Rizzoli Lizard)

Sin Titulo di Cameron Stewart (Bao Publishing)


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Games I Giochi pi첫 Attesi del 2014

The evil within - Shinji Mikami Generi: Survival horror Sviluppo: Tango Gameworks Pubblicazione: Bethesda Softworks

The Elder Scrolls online - Matt Firor Generi: Fantasy Sviluppo: ZeniMax Online Studios Pubblicazione: Bethesda Softworks

Watch Dogs Genere: Azione, Stealth, Avventura dinamica Sviluppo: Ubisoft Montreal, Ubisoft Reflections, Ubisoft Romania Pubblicazione: Ubisoft

Destiny Genere: Sparatutto in prima persona, fantascienza Sviluppo: Bungie Pubblicazione: Activision

Halo 5 Genere: Sparatutto in prima persona, fantascienza Sviluppo: 343 Industries Pubblicazione: Microsoft Studios

Tomb Raider - Definitive Edition Genere: Avventura dinamica Sviluppo: Crystal Dynamics Pubblicazione: Square Enix


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ARTE SONORA di Silvia Anna Barrilà

La danza come ambito di indagine visuale per le avanguardie storiche, partendo dal Futurismo e spingendosi fino a Dada. Al Moderna Museet di Stoccolma si creano inedite connessioni, portando in mostra anche il mito elettronico dei Kraftwerk Hanno cambiato il panorama musicale globale, innescando quella visionaria rivoluzione elettronica che avrebbe aperto le strade alla techno e a ogni possibile genere di ibridazione pop. I Kraftwerk hanno scritto una pagina fondamentale nella storia della cultura e del costume: non è dunque una sorpresa trovarli ospiti di uno tra i più importanti musei d’arte contemporanea d’Europa. La meraviglia, semmai, sta nello scoprirli nell’inedita veste di artisti visuali. Dal MoMA alla Tate passando per la natia Germania: la celebre band elettropop è di casa nei musei Foto: Kraftwerk - the man machine copertina cd (in alto), Kraftwer at work (sotto)

Foto: Kraftwerk 2013, courtesy Sprüth Magers Berlino

Dopo più di vent’anni i Kraftwerk tornano a esibirsi a Düsseldorf, la loro città natale, e lo fanno in una location particolare: il museo Kunstsammlung Nordrhein-Westfalen . Non è la prima volta che questi pionieri della musica elettronica si esibiscono in un luogo riservato all’arte. L’anno scorso erano stati chiamati al MoMA , e celebrati come opera d’arte totale; dal 6 al 14 febbraio, invece, saranno alla Tate di Londra. La formula è sempre la stessa: otto concerti in otto serate consecutive (dall’11 gennaio in poi, in questo caso), in ognuna delle quali viene presentato un album della loro carriera in ordine cronologico in una combinazione di suoni, immagini, animazioni e proiezioni 3D. A Düsseldorf i biglietti (a 50 euro l’uno) sono volati via nei primi minuti della prevendita, così come a Londra, ma c’è ancora la possibilità di aggiudicarsi una delle 3.333 special-box con i CD degli otto album, oppure di visitare la mostra di fotografie firmate da Peter Boettcher, che da 20 anni documenta le performance del gruppo tedesco. La mostra, aperta fino al 30 gennaio al centro per l’arte NRW Forum , punta su un particolare aspetto dell’opera dei Kraftwerk, quello del rapporto tra uomo e macchina. “È bello sentirsi parte di una macchina”, ha detto Ralf Hütter, noto membro della band, “è un sentimento liberatorio. Anche se io stesso mi considero un individuo. Noi manovriamo le macchine e le macchine manovrano noi”.


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Infart Urban Art & music festival

Infart Urban Art & Music Festival è un evento dedicato alla street art e alla musica. Si tiene ogni anno a Bassano del Grappa, il primo weekend di settembre. Il progetto Infart è nato nel 2007 con due prime edizioni lampo (rispettivamente a giugno e settembre dello stesso anno) che hanno ospitato alcuni dei migliori artisti emergenti della street culture italiana. L’evento, in entrambe le edizioni, è stato realizzato in puro stile underground all’interno di una casa privata a Cittadella, data in uso all’associazione per l’esposizione per un intero weekend. Il fabbricato è stato svuotato e trasformato in oggetto d’arte a 360 gradi affinché un selezionato pubblico di amatori e conoscitori, coinvolti grazie a mirati inviti diffusi soprattutto via web, potesse godere dei lavori di alcuni dei migliori street artist realizzati direttamente sull’architettura. Alla prima edizione 600 persone arrivano quasi per gioco e diventano 1.500 nell’edizione di settembre. La terza edizione (denominata per l’occasione Say yes! to Infart) si è svolta a Bassano del Grappa il 6 e 7 settembre 2008 ed ha coinvolto 87 artisti tra nazionali (Milano, Roma, Torino, Veneto...) e provenienti dalle maggiori capitali europee (Londra, Barcellona, Madrid, Vienna, Parigi). L’evento è stato il primo in Italia per estensione degli spazi adibiti al disegno e numero di presenze: 1.300 m² di superficie dipinta, 350 m² di spazi espositivi, 50.000 visitatori nei due giorni. L’edizione 2010 (Infart Hello Nasty!) ha fatto parlare ampiamente di sé, grazie al successo derivato dalla qualità degli ospiti italiani ed europei giunti in terra veneta e dalla grande affluenza di pubblico che ha invaso la città di Bassano del Grappa per tre giorni consecutivi tra il 3 e il 5 di settembre 2010. La quinta edizione di Infart (In Infart We Trust), svoltasi il primo weekend di settembre 2011 è stata una manifestazione che ha visto la partecipazione di quasi 10.000 persone giunte da tutta Italia. 3 giorni di assoluto fermento creativo: Djset, concerti live e le performance artistiche di decine di artisti provenienti da tutta Europa.

Street-artist all’opera durante INFART 2011 (sopra) Graffiti all’Arena Cimberle-Ferrari, location dell’evento (sopra) A fianco il logo di Infart


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Recensioni Cinema

Ritorna il grande cinema d’animazione giapponese di Hayao Miyazaki Miyazaki e il suo Studio Ghibli, con questo film, regalano al loro pubblico un capolavoro assoluto. Uno sguardo sul Giappone realistico e malinconico. Presentato alla 70esima edizione del Festival di Venezia, il regista si distacca dal minimalismo di “Ponyo sulla scogliera” e cerca di riunire, in una sola opera, tutti gli stili adoperati nel corso della sua carriera. Questi sono per noi i film più attesi del 2013-2014, una lista che esclude necessariamente alcuni titoli interessanti, come nel caso dell’ultima prova registica di Wong Kar Wai, ma che potrete ampliare a vostro piacimento in base ai vostri gusti.

Si alza il vento (Kaze tachinu) Regia: Hayao Miyazaki durata: 126 min Casa di produzione: Studio Ghibli, Toho

Il film racconta la vita e la tragica storia d’amore di Jirō Horikoshi, l’ingegnere aeronautico che durante il secondo conflitto mondiale progettò numerosi aerei da combattimento utilizzati dai giapponesi nelle azioni di guerra contro gli americani, tra i quali il Mitsubishi A6M “Zero”,utilizzato nell’attacco di Pearl Harbor. Da ragazzo il protagonista incontra nei propri sogni l’ingegnere italiano Giovanni Battista Caproni,pioniere dell’ingegneria aeronautica.


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Maleficent Regia: Robert Stromberg durata: 135 min Casa di produzione: Moving Picture Company, Roth Films Distribuzione: Walt Disney Pictures

Il nuovo anno si preannuncia come particolarmente ricco di buon cinema, dai grandi kolossal fumetto al ritorno dei sandaloni senza dimenticare il cinema italiano

Per ogni favola che si rispetti c’è una strega, una fata cattiva o una fattucchiera da temere. Disney presenta Maleficent, la storia mai raccontata di una delle più amate cattive delle favole Disney, tratta dal classico del 1959 La bella addormentata nel bosco. Malefica, una bella e giovane donna dal cuore puro, vive una vita idilliaca immersa nella pace della foresta del regno, fino a quando, un giorno, un esercito di invasori minaccia l’armonia di quei luoghi. Malefica diventa la più fiera protettrice delle sue terre, ma rimane vittima di uno spietato tradimento ed è a questo punto che il suo cuore puro comincia a tramutarsi in pietra. Decisa a vendicarsi, Malefica affronta una battaglia epica contro il successore del re invasore e, alla fine, lancia una maledizione contro la piccola Aurora. Quando la bambina cresce, Malefica capisce che Aurora rappresenta la chiave per riportare la pace nel regno e, forse, per far trovare anche a lei la vera felicità

Il 2014 sarà un grande anno di cinema. La fanno da padrone, come ormai di consueto nelle ultime stagioni, i kolossal fumetto: Capitan America-Il soldato d’inverno (che arruola Robert Redford) e The Amazing spider-man 2- Il potere di Electro (che arruola Jamie Foxx) e poi c’è X-men - Giorni di un futuro passato che riunisce i fan delle due saghe. Ma la grande sfida Marvel-Dc Comics è rimandata al 2015 quando Batman e Superman se la vedranno con The Avengers-Age of Ultron. Prosegue l’onda lunga delle fiabe, sempre per adulti e con attori e registi d’altro profilo: Kenneth Branagh firma Cenerentola con la matrigna Cate Blanchett, Meryl Streep fa la strega e poi c’è il francese La bella e la bestia con Lea Seydoux e Vincent Cassel. Disneyana la storia di Saving Mr.Banks, ovvero come zio Walt convinse Pamela Lyndon Travers a cedergli i diritti cinematografici di Mary Poppins. Sul fronte “autore” la consueta commedia firmata Woody Allen e l’inconsueta firmata da Martin Scorsese, Wolf of Wall Street. E quella alla Lubitsch firmata dal delicato Wes Anderson, The Grand Budapest Hotel. Ondata di sandaloni hollywoodiani da Pompei a 300 l’alba di un impero, doppio Hercules (La leggenda ha inizio e The Tracian Wars) e poi i biblici Noah e Exodus. Per l’Italia subito Un boss in salotto di Luca Miniero e Paolo Virzì con Il capitale Umano e poi Tutta colpa di Freud, firma Paolo Genovese. Grande attesa per Nanni Moretti con Mia madre e per Ferzan Ozpetek che con Allacciate le cinture promette una grande, commovente storia d’amore.



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