sverre fehn villa norrkรถping
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�Nel mondo piatto, costruire significa trovare una scala in una scala data� Sverre Fehn
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”Una volta ho costruito una casa che, a detta di tutti, Palladio mi aveva ispirato. A dire il vero a quel tempo non pensavo a Palladio. Tuttavia più avanti lo incontrai. Osservando la pianta della mia casa, disse: ‘La Rotonda, come sai, fu uno scherzo… a quel tempo noi perdemmo la percezione dell’orizzonte come mistero. Fu uno shock per tutti scoprire che il mondo era una sfera e che era possibile misurarlo. Trasformai, quindi, la terra in un labirinto costruendo una casa con quattro facciate uguali. Quando si lascia la casa rivolti a ovest e si gira attorno al mondo, si torna alla facciata da cui si era partiti’ ” Con queste parole e lo schizzo in copertina, Sverre Fehn accompagna il progetto della Villa a Norrköping in Svezia terminata nel 1964. Questa sua volontà di sottolineare la carica poetica di un progetto, capo saldo del suo fare architettura, attraverso l’uso simbiotico di aforismi e schizzi, lo accompagnò per tutta la sua carriera. All’interno della Villa a Norrköping, S.F. materializza l’intento di spazializzare il tempo per mezzo della costruzione. Una casa con una superficie di 150 mq, per una famiglia reale costituita da quattro persone. La soluzione proposta presenta un impianto compositivo apparentemente classico, dalla forte centralità, eppure estremamente moderno nell’anticipare temi - come la flessibilità d’uso in relazione all’ordine compositivo rigoroso - propri della cultura architettonica europea degli anni sessanta e settanta.
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La casa è costituita da quattro ambiti realizzati in mattoni a vista, posti ai vertici dei due assi ortogonali e uniti tra loro da quattro bow-windows angolari. Ne risulta un impianto a croce greca che conferisce una certa monumentalità alla composizione; quest’effetto si stempera però grazie all’organizzazione interna dello spazio. Qui, infatti, i diversi ambienti della casa non si configurano come vani rigidamente definiti - una successione di stanze chiuse, di scatole intercluse - ma paiono piuttosto frammenti di un unico spazio continuo che, attraverso pannellature di legno scorrevoli, può essere suddiviso nei modi più disparati: i cinque ambienti e le quattro logge angolari possono essere aggregati e disaggregati secondo combinazione molteplici. Inoltre le logge, completamente vetrate, costituiscono la fonte luminosa degli ambienti più interni e nel contempo rappresentano un luogo di mediazione della casa con l’esterno. Scintillano e diffondono luce con il sole, e, come lanterne, rivelano la casa nell’oscurità della notte, rimarcando il fondamentale ruolo di tale soluzione d’angolo. Si materializza così una sorta di dinamica centrifuga che dall’interno, come un vortice incontenibile nella precisione geometrica dell’abitazione, conforma il perimetro della casa sino a disegnarne i pergolati, che esplodono al di fuori dell’involucro. Il cuore della casa accoglie in unico blocco i servizi disimpegnati da un passaggio attrezzato con armadiature. Questa zona prende luce dall’alto grazie allo sfalsamento tra la sua copertura e quelle degli ambienti che lo circondano.1
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Esiste qualcosa di presente ma silente, celato nello sviluppo delle volumetrie ma manifesto nell’impostazione planimetrica, a regolare magicamente la poesia compositiva di questo spazio. L’intero sistema si imposta su una griglia che fa della sua placida semplicità la sua potenza. Quest’ultima è composta da una successione di sei quadrati che, accostati e reiterati sul sistema cartesiano, danno vita ad un quadrato più ampio, che, svuotato negli angoli ma riempito di luce, perde la sua perfezione matematica e si avvicina al mondo del naturale. Il sei non è un numero casuale, è il numero del perfetto equilibrio, il generatore di ordine. Il numero sei indica l’universale, la dimensione macrocosmica, la fusione tra ciò che è cielo e ciò che è terra. Cosa è l’orizzonte per Fehn se non questo? Un limite, un confine. Ma anche la perfetta fusione tra sfera terrestre e sfera celeste. Non è dunque un caso che Villa Norrköping sembri essere perfettamente soppesata, misurata e calibrata per la vita dell’uomo, tanto quella fisica quanto quella spirituale. Non è dunque un caso che Villa Norrköping possa essere trattata come un tempio, un luogo sacro per onorare l’Esistenza. È bene riflettere sul legame che pone in relazione la creazione di Fehn con la Rotonda di Palladio. Impostate sul medesimo sistema di griglia, vive in queste opere distanti secoli un’esistenza simultanea. Abita in queste opere uno spirito di armonia che le rende, citando Kubler, ”forma del tempo”, e dunque immortali. Non siamo di fronte ad architetture caduche.
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Siamo di fronte a sistemi costruiti sull’essenzialità dell’impianto, reso complesso dallo sviluppo dell’alzato. Siamo di fronte ad idee costruite, ben radicate tra forma, funzione ed umana necessità. Siamo di fronte alla misura di tutte le cose, che si concretizza nella scala umana. In un meccanismo così perfettamente esatto la variazione, anche minima, di un singolo ingranaggio, di un piccolo tassello, non sembrerebbe poter essere possibile. Eppure c’è qualcosa di infinitamente flessibile nella rigidità della griglia impeccabile utilizzata da Fehn. E’ una griglia che ammette addizioni e sottrazioni, svuotamenti e riempimenti, scavi ed aggetti. E’ una griglia che consente movimenti, slittamenti, scorrimenti. E’ una griglia che riempita, resa piena può manifestare la sua gravitas, ma svuotata, liberata da ogni peso, mostra la delicatezza e fragilità del suo esile ed effimero scheletro. E’ una griglia adatta a quell’interscalarità tanto cara al mondo dell’architettura che sottolinea l’inaspettata flessibilità delle geometrie pure. Il compromesso tra micro e macro, la dicotomia tra grande e piccolo. Un oceano di nuove configurazioni possibili che danno vita a nuove aurore architettoniche, aprendo i limiti a fantasia e creazione, consentendo il gioco, intellettuale e non.
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Quella che segue è quindi una storia immaginata, un gioco della mente, come lo stesso Fehn insegna, per spiegare in modo esplicativo le potenzialità che si celano dietro la villa di Norrköping. Potenzialità che vogliono essere raccontate attraverso i grandi e curiosi occhi di un bambino che osserva ciò che lo circonda e sfrutta l’immaginazione per carpire l’essenza delle cose che costituiscono il suo mondo. Forse siamo stati influenzati dalle fotografie della villa in cui la figura del bimbo biondo è li per trasmettere la carica emotiva dei diversi ambienti di quella che potrebbe essere giudicata, apparentemente, come una semplice abitazione. La sua presenza sopra quel tavolo di legno è di fondamentale importanza. E cosi abbiamo dato voce ai nostri pensieri prendendo in prestito lo sguardo del fanciullo.
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Sul bordo del tavolo di legno accostato alla grande vetrata, sedeva un bimbo biondo e, con la testa china verso il basso, guardava la macchinina di metallo che aveva tra le mani. Faceva scivolare la macchina sulla superficie del tavolo, avanti e indietro. Ascoltava con attenzione il suono che producevano i due materiali nel toccarsi, il metallo del giocattolo e il legno del tavolo. Toccò i due materiali, la macchinina fredda sembrava solcare il legno, caldo e quasi materno, e questo sembrò stupirlo. Poi, in modo fulmineo, come illuminato da un nuovo gioco apparsogli in mente, alzò lo sguardo, scese dal tavolo e lo fece scorrere fino a farlo toccare al telaio della vetrata e di nuovo, su sullo sgabello per poi salire in piedi sul tavolo. L’altezza della stanza era conforme alla sua statura ed era come se il tavolo fosse svanito. Quando si è piccoli non si conosce il concetto di proporzione. Si, si conosce il grande e il piccolo, ma con quella sfrontatezza che permette di affrontarli senza remore. Il tavolo, grazie alla sua immaginazione e ad un pizzico di coraggio, era diventato il pavimento e la stanza aveva le proporzioni giuste per la sua scala. La scala umana, o per meglio dire la scala del cucciolo d’uomo. Ora, con il naso ben puntato all’insù, misurava la distanza che lo separava dal soffitto e con le punta delle sue dita riusciva quasi a toccare le assi di legno, dove qualche ragno aveva tessuto delle ragnatele. Sentiva un cambiamento in quell’ambiente. Rivolse lo sguardo al di la delle vetrate, tra le betulle che popolavano il bosco oltre il giardino di casa sua. Il padre e la madre erano fuori e tagliavano l’erba e il suo orizzonte visivo ora era alla stessa altezza di quello dei genitori. Voleva sentirsi ancora più alto. Prese lo sgabello e lo poggiò sul tavolo e vi salì sopra in piedi. Rischiò di sbattere 20
la testa al soffitto. Ora percepiva quello spazio opprimente, come se comprimesse il suo corpo. Ma i suoi occhi erano ad un’altezza tale che poteva vedere i nidi degli uccelli sulla terza fila di rami delle betulle e guardava il mondo come se fosse affacciato dalla finestra della casa sull’albero. Era un semplice gioco per lui, un passatempo, ma questo continuo cambio di scala lo stava divertendo e inconsciamente gli mostrava le cose da un punto di vista a lui sconosciuto. Non era solo la vista che aveva mutato le sue percezioni ma anche l’udito, sentiva i rumori terreni più lontani e nel respirare sentiva l’aria più pesante. Tutta l’aria calda della casa sembrava essersi accovacciata sul soffitto come fosse inerme alla forza di gravità. Inconsapevole di aver raggiunto l’essenzialità dell’architettura, dove il materiale del costruito, le percezioni sensoriali e le proporzioni che definiscono un ambiente rispetto ad un altro si intrecciano, voleva andare oltre. E allora, come fosse su di una mongolfiera scese dallo sgabello, sentì lo spazio dilatarsi, poi dal tavolo con un balzo atterrò sul pavimento e con la macchinina di metallo ancora tra le mani, prima si inginocchiò e poi si sdraiò a pancia in giù portando le mani sotto il mento. I muri erano diventati ancora più alti. Tutto era diventato irraggiungibile se non allo sguardo. E si sentiva ancora più piccolo e percepiva lo spazio più dilatato e dispersivo. Davanti a lui, il tessuto della moquette appariva come alti fili d’erba di un prato e le pareti in mattoni a vista non erano più muri di semplici pareti interne della casa, ma alti palazzi, come quelli che aveva visto in città e i quadri appesi ai muri erano delle logge da cui sembravano affacciarsi gli 21
inquilini dell’alloggio. Il focolare, con lo scricchiolare della legna consumata dal fuoco, con una forza centripeta attirava verso di se l’attenzione delle panche e delle poltrone nel soggiorno aveva assunto un nuovo ruolo nell’immaginazione del bimbo, era una grande loggia a doppia altezza dove erano stati piantati degli alberi e le panche a loro volta andavano a costituire delle terrazze pensili che offrivano viste sul contesto. E la macchinina di metallo giocattolo che era li sul pavimento, ora aveva acquisito le proporzioni della macchina dei genitori. Si immedesimò nei panni di un pilota, con la piena convinzione di stare dentro la macchina che sfrecciava ad alta velocità tra le strade della grande città ed improvvisamente, sbalzato dall’alta velocità finì nel sedile posteriore. Poteva adesso vedere fuori dal finestrino la strada lambita da ampi parchi verdi. Ed era così che i muri erano diventati edifici e il vuoto dove scorreva la vita domestica mutò aspetto, diventando così il vuoto urbano scandito dall’affluire dei cittadini. Il sole sorgeva sempre dallo stesso punto e bagnava il costruito sempre nel medesimo modo facendone vibrare la superficie e le ombre che marcavano i vuoti. Anche il vento soffiava sibilando, rompendo il silenzio dell’aria. E alla fine della giornata, il tramonto adornava di colore le masse realizzate dallo sforzo umano. È questo il momento del giorno nel quale l’edificio si fa visibile dall’orizzonte nei soli contorni del suo profilo. È così che l’edificio si fa riconoscibile anche per un semplice passante che ne riconosce i contorni appena accennati, sfocati dalla distanza e dal vespero che inonda fluidamente lo spazio. È in questo preciso istante che si presenta la distanza tra 22
l’uomo e l’opera, uomo che non è più misura del suo spazio ma parte dello spazio esteso. E così la dimensione estende i propri confini, facendosi circolare, divenendo sfera, pur rimanendo governata da chi abbraccia. In quel preciso istante, nel limbo tra giorno e tenebre, tra contorni e perdita della misura, nel passaggio tra la luce naturale emanata dal sole e luce artificiale effusa dai lampioni che corrono lungo le strade, ripetuti ritmicamente a scandire il percorso notturno che accompagna il lavoratore verso la strada di casa, il bimbo biondo ora non era più seduto nel sedile posteriore della macchina, bensì su una panchina di marmo freddo. Sopra la sua testa sentiva le foglie accarezzarsi tra loro, la brezza dei fiordi si spingeva fino nel centro della città sussurrando all’animo dell’essere umano che lui è parte della natura, cosa di cui troppo spesso perde il ricordo. Al di là delle fronde degli alberi, gli occhi curiosi frugavano nel cielo le lontane costellazioni. Piano piano lo sguardo si abbassò, lasciò scivolare la mano sul marmo e incominciò a scrutare le panche. Formavano un recinto all’interno del quale l’albero, come un obelisco, imponeva la propria presenza. Quella disposizione a croce, quella stessa forma, la sentiva vissuta nel suo grande animo di esploratore del mondo. Era come se le stanze che disegnavano la sua casa fossero improvvisamente diventati dei volumi pieni lasciando i muri svanire e diventare il vuoto che separava le quattro panche. E l’albero era al centro proprio come la cucina. La cucina dove era solito trascorrere il tempo con i suoi genitori, il luogo dove apprendeva come cucinare. L’albero sotto le cui fronde è nato l’atto dell’insegnare. Dove gli anziani, al riparo dal caldo, tramandavano il loro sapere ai più giovani. 23
Vi era un richiamo mistico, indescrivibile, dove forma e l’agire dell’essere umano si incontravano nuovamente. Era come se il tempo non avesse avuto nessun tipo di influenza nel modificare la conformazione di un ambiente. Ma il mondo dei sogni aveva richiamato il bimbo biondo a cui avevamo preso in prestito i suoi grandi occhi curiosi. Si era addormentato, li disteso sulla moquette. La macchinina giocattolo di ferro ancora nelle sue mani, non più fredda perché riscaldata del tepore del corpicino. I muri erano ritornati ad essere muri e nel focolare la legna ardeva nuovamente. I genitori avevano riportato il bimbo biondo sotto il piumone e nei sogni si lasciava incantare ancora da quella sua strana casa, da quella apparente rigidezza che la caratterizzava. Ora, nei suoi sogni, la villa che prima si era trasformata in una città e poi in un ambito urbano, era diventata una scacchiera, e lui era li che vi giocava con suo nonno che non c’era più, sotto l’albero, al riparo dal sole e dal caldo, accompagnati dal cinguettio degli uccelli e dal vento che continuamente gli faceva andare i capelli davanti gli occhi.
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Non è forse questo il senso dello spazializzare? Non del fare spazio, ma del farsi spazio, del divenire spazio, del controllare lo spazio. Heidegger scrisse: “Il dire originario, che infonde il moto al quadrato del mondo, aduna ogni cosa nella prossimità dell’esser l’uno di fronte all’altro, e questo adunare è silenzioso, come silenzioso è il temporalizzare del tempo, lo spazializzare dello spazio, come silenzioso è il gioco dello spazio del gioco temporale”. Quando parliamo di architettura, parliamo primariamente di spazio da vivere, spazio configurato e settato a seconda di esigenze sempre specifiche. E’ proprio la specificità a rendere l’architettura un fatto tanto circostanziato quanto soggettivo. Cosa significa dunque spazializzare? Progettare lo spazio in maniera eminentemente fisica o progettare uno spazio che sia relazione tra uomo, movenze e sensazioni generate dal mutuo scambio tra materiali, luce e respiro? Il nostro bambino è piena dimostrazione di quanto sfere sensoriali, percezione, ma anche proporzione, misura, calore debbano convivere tanto nel progetto architettonico, quanto in quello urbano e paesaggistico, ma in primo luogo è piena dimostrazione di quanto la sensibilità umana debba in primo luogo passare dalla punta della matita di chi lo spazio lo pensa. Quel che rimane all’architetto è infatti la proprietà del pensiero, ma non la proprietà dello spazio. Quest’ultima è di chi lo spazio lo vive, di chi ne fruisce. La storia è adesso giunta al termine e oltre al voler condividere le innumerevoli possibilità compositive che possiede la Villa a Norrköping, l’intento risiede nel porre l’attenzione riguardo la vostra immaginazione. 26
L’immaginazione, nella sua istintività possiede un potere critico che vi aiuterà a discostarvi dalla superficialità, dai simulacri. Quindi preservatela, nutritila con il giusto modo di osservare il mondo, non abbiate timore di allontanarvi da ciò che si discosta dall’armonia che l’architettura possiede. Non vi sono nuovi linguaggi, nuovi stili, nuove tecnologie. Se pensate che l’originalità del nuovo sia migliore della stabilità del vecchio, la messa a fuoco del vostro obiettivo ha perso la corretta gradazione; state perdendo di vista la corretta visione di ciò che è alla base di quella disciplina che, per facilità di comunicazione, abbiamo nominato architettura. Sverre Fehn con questo suo progetto sembra voler lasciare in eredità il suo credo in cui, con il termine “perfezione”, non intende una forma ideale, immutabile, ma il disvelarsi dell’atemporalità in forme temporali. E solo in questo senso l’architettura può essere “anonima”: in quanto non è invenzione, ma è scoperta di quel che è. Vivere è scoprire e identificarsi con quel che si scopre.2 Ed è cosi che il bimbo, in cui ci siamo immedesimati, scoprì come il cambio di scala aveva trasformato la casa prima in una città, poi in un ambito urbano e infine in una scacchiera. E’ un mondo che ancora sa stupire quello del nostro bambino, il piccolo ed ingegnoso Gulliver. Un mondo dove il piccolo si fa grande, ed il grande si riduce fino a divenire talmente piccolo da poter essere stretto nel pugno della mano di un bambino. Esiste un mondo, più concreto della nostra fantasia, dove cucchiaio può divenire città: è il mondo dell’architettura. 27
“C’era un Architetto molto ingegnoso che aveva escogitato un nuovo Metodo per costruire Case, cominciando dal tetto, e lavorando all’ingiu’ fino alle Fondamenta. I viaggi di Gulliver” Il nostro bambino con il crescere scoprirà altre combinazioni possibili della sua villa ed in ognuna di esse si sentirà sempre a casa perché quella determinata composizione formale ha inciso nella sua memoria un’atmosfera ben precisa. Atmosfera in cui il materiale influisce imprescindibilmente: mattone, cemento, legno e vetro. Atmosfera dove gli elementi costruttivi sono usati rispettando il lessico architettonico, dove il muro è muro e il pilastro è pilastro, cosi come il pavimento è pavimento e il soffitto è soffitto e le proporzioni con cui vengono composti tra loro definiscono un ambiente a misura d’uomo. Il nostro bambino con il crescere diventerà uomo. Non sarà solamente la sua scala fisica a cambiare. Cambierà la scala del suo pensiero, la sfera delle sue emozioni e con ogni nuova configurazione della propria essenza scoprirà una nuova combinazione di scorci e panorami, carichi nei loro valori percettivi mutati e mutabili, carichi nei loro sentimenti colorati da sfumature sempre differenti, immersi in nuovi modi di vedere e vivere le cose.
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In fondo sta solo a noi, dal punto in cui osserviamo noi le cose che queste a loro volta cambiano, perché hanno la potenzialità di mutare in qualcos’altro senza perdere la loro natura. In questo caso, nel pieno parlare di architettura l’essenziale è visibile agli occhi. In questo caso, l’essenziale, svelato nella scenografia concreta dell’architettura, arriva all’anima.
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Bibliografia 1 Sverre Fehn, opera completa, Christinan Norberg-Schulz e Gennaro Postiglione, Electa II edizione 2009, pp. 105 2
ibidem, pp. 41
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