Raccontami una storia Racconti per passione Musei di Santarcangelo di Romagna
Museo 2.0 - 2012
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Raccontami una storia / 1 È vietata la riproduzione non espressamente autorizzata anche parziale o ad uso interno o didattico con qualsiasi mezzo effettuata
Si ringraziano gli autori dei racconti, che hanno partecipato all’iniziativa Raccontami una storia (luglio / agosto 2012 – Museo Storico Archeologico di Santarcangelo) e resa possibile questa pubblicazione.
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INDICE Il California
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Francesco Faedi Le Olimpiadi
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Federico Flamigni Scufiètt
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Rino Salvi Leonardo, il cane ramarro
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Morena Zoffoli Un folletto per amico
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Amedeo Blasi e Silvio Biondi Chicco di grano
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Loris Dall’Acqua I tre fratelli
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Erica Angelini Topo Geremia cerca moglie
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Francesca Mairani Foglia riccia
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Paolo Miserocchi Goccia e il primo viaggio
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Laura Bartolini Atti, la città al contrario
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di Laura Bartolini La tartaruga triste
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Patrizia Della Valle I colori del camaleonte
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Fosca Farnedi Il potere della fantasia
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Nicoletta Verzicco La capra e il sole
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Sara Balestra
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La scrittura infatti lega le parole e gli esseri, gli esseri tramite le parole, il lettore all’autore e i lettori tra di loro. (Marc Augè).
I racconti di questa pubblicazione sono stati scritti da scrittori per passione e rivolti al mondo dell’infanzia. Si tratta di narrazioni presentate dagli stessi autori in occasione dell’iniziativa Raccontami una storia, promossa dall’Istituto dei Musei Comunali, svoltasi presso il Giardino del mandorlo del Museo Storico Archeologico di Santarcangelo nell’estate 2012, nell’ambito della rassegna Favole d’agosto.
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Il California Francesco Faedi Eric, il mio caro amico, mi raccontò la più grande avventura di suo zio John, il capitano della nave “California”. Fu costruita nel 1927 e fu una nave considerata “la più grande macchina della velocità” perché riusciva a superare la velocità fino ad allora raggiunta da altre navi. Per la sua prima traversata dall’America doveva arrivare alla Spagna, e a volte in lontananza i marinai di vedetta videro degli scogli. Ma non li colpirono. Il capitano della nave avvistò un iceberg alle 23.55 di martedì notte, così ordinò di virare a destra ma la nave viaggiava alla massima velocità e il timone era un po’ troppo piccolo per quella velocità. Così si schiantò. Due ore dopo l’incidente, il California aveva imbarcato 6778 litri d’acqua e i marconisti inviarono molte richieste d’aiuto. Fortunatamente arrivarono degli elicotteri a salvarli. Ben presto arrivarono sul ponte di salvataggio i passeggeri che non avevano avuto problema a raggiungere il ponte, al contrario di quelli di terza classe perché la loro strada era stata allagata dall’acqua. L’acqua ruppe i vetri della sala da ballo inondandola completamente. Alle prime ore del mattino la parte dietro della nave si alzò a 30 metri dal mare, dopo la nave si girò e tornò in acqua. Così si spezzò in due dopodiché il California affondò nelle acque dell’Atlantico. 1034 persone morirono quella notte su un totale di 2114 passeggeri. Così terminò la grande avventura di John Petersen, il capitano della nave che decise di affondare col suo “California”, al contrario del capo progettista che scappò da codardo nell’ultimo elicottero rimasto.
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Le olimpiadi Federico Flamigni In quel tempo Roma conobbe un periodo di grande splendore e ricchezza assoluta: erano numerose le sue conquiste e le popolazioni ad essa sottomesse. I Greci, gli Egizi, i Galli e i Vichinghi parteciparono alle grandi olimpiadi che si tennero a Olimpia. Il figlio di Cesare voleva partecipare alle Olimpiadi ma il padre non era d’accordo perché non lo riteneva un eroe. Ma Cesare che era molto testardo ci andò lo stesso, furono delle giornate bellissime, ogni giorno c’era una gara diversa e lui partecipava a tutte. Vinse anche molte gare e tutti si chiedevano come facesse. Anche i Galli andarono in Grecia e si iscrissero ai giochi olimpici e vinsero molte gare, e quando chiesero al re dei galli come avessero fatto, lui rispose che il figlio di Cesare aveva dato loro una pozione magica. Finalmente Cesare considerò suo figlio un eroe perché aveva aiutato i nemici a vincere.
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Scufiètt Rino Salvi Era stata sua nonna a farle quella mantellina rossa col cappuccio. “Beella!”, ha pensato intanto che se la metteva e non se l’è più tolta. I santarcangiolesi, a vedere quel mezzo metro di bambina in giro per il paese col cappuccio rosso sempre in testa, al posto di “Maria Teresa”, si sono messi a chiamarla “Scufiètt”. I più istruiti, quelli che parlavano sempre in italiano, la chiamavano “Cappucetto”, ma per tutti gli altri era “Scufiètt”. Era piccola “Scufiètt” ma era tosta, non si faceva montare sui piedi da nessuno, e quando si arrabbiava erano dolori, ma quando ti guardava con quegli occhi blu, con le lentiggini attorno al nasino e ti sorrideva non le potevi resistere. «Cappuccetto! Cappuccetto!» urla la sua mamma dalla finestra quel giovedì pomeriggio, ma Cappuccetto non risponde perchè è impegnata a picchiare un bambino più grande di lei che l’ha chiamata “Scufietta - mezza calzetta”. È stato lui a sentire le urla di sua madre e, per fermare quella gragnuola di pugni e calci che l’hanno quasi intontito, le dice: «Ma non senti che ti chiama tua mamma?» “Scufiètt” si gira con la testa per aria. «Ehh, cosa vuoi ma?» «Porta questo cestino alla nonna!» «Ma porca miseria proprio adesso che l’avevo quasi steso?» «Adesso, adesso, che fra un po’ è notte e io a quell’ora ti voglio a casa!» La nonna della bambina abitava in cima al poggio di “Pirèta”, in una casina vecchia sotto l’ombra delle robinie, proprio di fianco al convento dei Cappuccini. Tra i frati del convento c’era un mattacchione che si chiamava “frate Lupo”, gli piaceva un mondo fare gli scherzi alla gente e, quando vede venir su per la stradina quella bimba col cappuccio rosso in testa e il cestino tra le mani, non gli pare vero e si nasconde dietro un angolo delle mura. «Ciao Cappuccetto». Lei si ferma di botto e poi lo riconosce, «Oh, siete voi frate Lupo? mi avete fatto prendere un accidente dallo spavento!» «Mi dispiace tesoro!» le risponde frate Lupo ridendo sotto i baffi, «dove vai di bello con quel cestino?» «Lo porto alla mia nonna.» «Ma perchè non le porti anche un bel mazzolino di fiori, guarda lì in quel campo quanti ce ne sono!» Cappuccetto che era ruvida come un maschiaccio ma voleva un gran bene alla sua nonna, si ferma nel campo a cogliere un mazzolino di fiori. Intanto frate Lupo correndo come una lepre, con quei sottanoni che sbattono da tutte le parti, arriva bagnato fradicio per la sudata da “Pirèta” e bussa. «Entra, la porta è aperta!» dice la nonna pensando fosse la sua bambina. Quando invece si trova davanti quel frate tutto in disordine, rosso come un peperone, che ansima come un cagnaccio, si
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impaurisce e, pensando a chissachè, salta dal letto, alza la botola sul pavimento, si infila a tutta velocità giù per la scala di legno che porta nello scantinato e la chiude col catenaccio. Frate Lupo pensa che è meglio così, in quattro e quattr’otto si traveste da nonna e s’infila nel lettone per fare uno scherzo grandioso a Cappuccetto. Appena in tempo che già Scufiètt bussa alla porta. «Chi è?» «Sono io nonna, ti ho portato da mangiare!» «Entra pure tesorino, è aperto» «Accidenti nonna che orecchie grandi hai!» «È per sentirti meglio.» «E che occhi grandi!» «È per vederti meglio.» «Anche la tua bocca è molto grande!» Frate Lupo che non ce la fa più a stare serio, urla con un gran vocione: «È per mangiarti meglio...!». Non l’avesse mai detto: pugni sul naso, calci negli stinchi... «Aiutoo!» urla il povero frate. Sentendo tutto quel fracasso salta fuori dallo scantinato la nonna e col bastone si mette a picchiare anche lei come una matta. Frate Lupo mezzo morto dalla paura e intontito dalle botte, con un gran salto riesce ad arrivare alla porta ma, appena la apre, si trova davanti un cacciatore che gli allunga un gran pugno sul naso… un male, un male! «Ecco cosa succede al frate burlone, si becca un pugno sul nasone!» gli sta dicendo il suo angelo custode seduto sulla sua spalla, ma frate Lupo non lo sente perchè gli è arrivato un gran buio agli occhi ed cade a terra come un sacco di patate. Quando si sveglia gli altri stanno mangiando tutti a tavola, si avvicina, si guardano in faccia... e scoppiano in una gran risata. «Venga frate Lupo» gli dice il cacciatore «venga, mangi qualcosa con noi.» Mangiano allegri tutti insieme quando sentono bussare alla porta. «Avanti» dice la nonna a bocca piena «la porta è aperta!» Entra il lupo, quello vero, nero, brutto, con gli occhi rossi, la bava alla bocca... e se li mangia tutti uno dietro l’altro.
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Leonardo - Il cane-ramarro Morena Zoffoli Per trovare la tana bisogna guardare bene, spostare qualche filo d'erba e il dente di leone che ha messo le sue radici proprio davanti all'entrata. Il passaggio è stretto, fra la roccia e il terreno e l'interno è umido e in penombra. Una forma bianca e arrotondata luccica in fondo. Una leggera vibrazione la scuote. Dopo alcuni minuti il tremolio si ripete, ma più forte. Nel cunicolo si sente un rumore secco, come un ramo che si spezza. Ancora silenzio, poi un altro ramo che si spezza e dal guscio sbuca un musetto verde. «Sono qua'» urla una voce squillante. «Dove siete tutti? » ripete. Scuote il musetto per uscire dal suo involucro. Prima sbuca una zampa e poi un'altra zampa. Si dimena, il resto del corpo fatica a uscire, si contorce su se stesso. Sdraiato sul terreno riesce a far forza sul guscio e a liberare l'ultima parte del corpo, poi finalmente appaiono altre due zampe e una lunghissima coda verde. «Forte!!!!» dice rimirando la lunga coda. La agita in aria, la dimena un po', la batte sul terreno a destra e a sinistra, poi la punta colpisce un frammento di guscio che rimbalza in aria e gli piomba in testa. «Aiuto! Qualcuno vuole rapirmi.» inizia a saltellare sulle quattro zampe. Un salto “ahi” un altro salto «Ahi». La testa urta contro la roccia, solo dopo il terzo salto il guscio si rompe e si apre come un cocomero maturo. «Ah!» esclama imbarazzato, guardando i resti del suo involucro, «mi sembrava di averlo già visto da qualche altra parte! » Prova a muovere qualche passo, ma le zampe non si muovono come dovrebbero e perde l'equilibrio. Si ritrova sdraiato sulla schiena, con le zampe in aria che si agitano inutilmente. Cerca di girarsi, di mettersi ritto sulle quattro zampe, ma è tutto inutile. Con il musetto cerca di afferrare qualcosa per far leva e girarsi, ma attorno a lui non c'è nulla a cui aggrapparsi. Solo dopo diversi tentativi, zampe all'aria e coda volante riesce a girarsi e a mettersi ritto in piedi. «Che fatica nascere! » esclama agitando la coda di qua e di là per ripulirsi dalla polvere. Si ricompone. Sporge il muso in fuori, tira la pancia ben sotto le zampe e ricomincia. «Allora! Una zampa avanti, poi l'altra ancora avanti e .... » ma non riesce a finire la frase che le zampe si aggrovigliano, cade in avanti e con una capriola si ritrova ancora pancia in su. «No!!! Non ancora!! » Con le zampe inerti, guarda il soffitto e le pareti, ma ancora niente che possa aiutarlo ad alzarsi. All'improvviso un'idea. La lingua passa sui denti, gli occhi saettano vispi e soddisfatti, e le zampe si ritirano per prepararsi a un combattimento o a un lungo salto. «Questa volta ci riesco!» dice alla parete di sassi. Un urlo, o meglio uno strepito, esce dalla sua gola, mentre spicca un balzo che solleva polvere,
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teste, zampe e code. Il corpo rimbalza e per un attimo si eleva oltre la cortina di fumo che ha sollevato, poi ripiomba nella fitta nebbia. Silenzio. Pian piano la polvere si dissolve, svanisce. Una zampa e poi l'altra si muovono nell'aria, mentre si guarda attorno sconcertato. «Eppure questa volta ero sicuro di riuscirci!» Rimane a guardare il soffitto, riprende fiato, poi decide di provare ancora. Solo dopo alcuni tentativi riesce a mettersi in piedi. «Finalmente! Oramai non ci speravo più.» Si guarda le zampe. Prima quelle davanti. «Sembra tutto a posto.» Poi, con uno scatto della coda, si gira per guardare la zampa posteriore destra. «E' verde» dice « come il resto del corpo.» Sembra riflettere. «Ma a guardare bene il colore sembra un po' più scuro. Forse non è venuta bene come quelle davanti». Altro scatto della coda e si gira per guardare la zampa di sinistra. «Ecco l'inghippo» grida trionfante. «questa ha un colore scuro, forse non è a norma per camminare.» Ancora silenzio. Gli occhi fissano la roccia del soffitto. Le palpebre si abbassano leggermente mentre la lingua rossa pende da un lato della bocca. «Ecco, ci sono!» esclama. Fa un balzo in avanti spingendo contemporaneamente indietro tutte e quattro le zampe. Una piccola nuvoletta di polvere si solleva, ma già spicca un altro balzo e raggiunge l'uscita della tana. «Uau» dice «non mi divertivo così da....... da prima!» Balza sopra un ciuffo d'erba, sopra un tratto di terreno asciutto e spoglio e sopra una zolla di terra secca. Qui si ferma. Le zampe scivolano, ma riesce a tenersi aggrappato alla zolla puntellandosi con la coda sul terreno. Il musetto si allunga e con quanto fiato ha in gola lancia un grido «Sono qui! C'è qualcuno?». Solo il silenzio e il frinire delle cicale rispondono al suo appello. “Wof.” Un rumore improvviso alle spalle gli fa perdere l'equilibrio e lo riporta zampe all'aria. Appena riapre gli occhi la prima cosa che vede è una cosa informe di pelo marrone a chiazze bianche. Due occhi neri e lucidi, grandi quasi quanto il suo corpo, lo guardano curiosi. «Ma tu che animale sei, che rimbalzi come una palla?» gli dice l'animale col pelo. «Guarda cosa hai combinato! Adesso per rimettermi in piedi mi ci vorrà un sacco di tempo!». Il cane capisce al volo le difficoltà dello strano animaletto e con una zampa lo aiuta a sollevarsi. «Facile. Come hai fatto? » poi lo guarda e gli dice «E tu, che animale sei?» «Sono un cane. Tu invece cosa sei e come ti chiami?» Con le zampe ben piantate sul terreno gonfia il petto in fuori, alza la testa e prende un bel respiro per dare una presentazione adeguata. Gli occhi saettano a destra e a sinistra, la fronte si increspa e il petto si sgonfia un poco.
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Poi il muso si affloscia al suolo con un lungo sospiro. «Non lo so. Sono appena arrivato, non posso sapere tutto!» Il cane lo guarda a lungo. «Mmh, assomigli a qualcuno che ho già visto, ma non ricordo chi. Prima o poi mi verrà in mente.» Gironzola attorno all'animale, lo squadra dall'alto in basso. «Però un nome lo devi avere, ce l'hanno tutti!» L'animaletto muove lentamente la coda a destra e a sinistra mentre guarda sconsolato il terreno. Il cane vede lo sconforto del suo nuovo amico e cerca di rincuorarlo. «Va bene, non è niente di grave, un nome possiamo sempre inventarlo. Quale nome ti piacerebbe avere?» «Non so» dice l'animaletto «non me ne intendo di nomi, ma il tuo mi piace molto. Cosa ne pensi se decido di chiamarmi Cane come te?» «No, no per carità! Io mi chiamo Bongo, cane non è il mio nome, è il mondo a cui appartengo. Anche il mio babbo e la mia mamma sono cani, e i miei cugini e tutti i miei parenti.» L'animaletto inizia a saltellare intorno a Bongo agitando la coda. «Anch'io voglio essere un cane, anch'io voglio essere tuo parente!» Il cane lo guarda confuso. Abbassa le orecchie e storce il muso da un lato. «Ma non si può fare. Io sono nato cane, non lo sono diventato.» «Si può fare, si può fare! Chi dice che non si può fare!?» Il cane abbassa la testa e inizia a grattarsi dietro un orecchio. «Beh, in effetti....non so.» «Allora, è fatta. Sarò un cane.» E con un ultimo salto finisce sopra un piccolo mucchio di terra. La terra si sgretola sotto il suo peso e il “nuovo cane” atterra per l'ennesima volta di schiena sopra un ciuffo di erba cipollina. Starnutisce. Il cane oramai conosce le difficoltà dell'amico e lo aiuta di nuovo a rimettersi in piedi. «Grazie, amico mio, se non ci aiutiamo fra noi cani! Ma perché quest'erba puzza così?» Bongo strappa qualche filo e la mastica lentamente. «L'erba cipollina è buona e toglie i vermi, anche tu dovresti mangiarla ogni tanto.» «Ah si? Buono a sapersi.» Si avvicina, annusa l'erba, e storce il muso. «Mmh. Penso che la mangerò più tardi.» «Fa come vuoi. Però dobbiamo darti un nome. Non posso chiamarti Ehi tu! o animaletto. Tutti hanno un nome. Fammi pensare......avevo uno zio che si chiamava Fido, che te ne pare?» Scuote la testa. «Fido. No, Fido....non mi piace come suona, e poi è un nome piccolo. Io voglio un nome grande, avventuroso. Un nome importante.» Bongo si sdraia sull'erba, con la testa fra le zampe, e pensa a un nome importante per il suo nuovo amico. «Dunque. Lessie...Rin Tin Tin...no...troppo comune. Leo.... » improvvisamente alza la testa. «Ho trovato! Leonardo.»
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«Evviva! Mi piace Leonardo! Leonardo, Leonardo..... ». Poi si zittisce, sembra riflettere e si gira verso Bongo. «Ma sei sicuro che Leonardo è un nome importante?» «Sicuro! E' il mio padroncino che lo dice. Quando guarda la scatola nera, a volte delle tartarughe combattono fra di loro e lui dice sempre che Leonardo è il più forte, che è un grande.» «Allora da oggi sarò Leonardo.... il grande.» Improvvisa una danza, fa una giravolta e in men che non si dica si rovescia, come sempre. Bongo gli porge la zampa senza quasi rendersene conto. «Bene » dice «adesso che hai un nome posso andare.» «Andare?» dice Leonardo «andare dove?» «Devo tornare a casa, mi aspettano. E' già da un po' che sono via. Allora ciao, e a presto.» Mentre Bongo si avvia verso i campi, Leonardo lo segue a piccoli balzi. «Ma, ma......non puoi lasciarmi qui da solo, io conosco solo te.» « Devi insegnarmi altre cose, non conosco niente, non sapevo nemmeno il mio nome» Bongo si gira e guarda Leonardo che continua a guizzargli intorno. «Se vuoi venire con me non c'è problema. Dove abito io c'è posto, uno in più o in meno non fa differenza.» «Forte!» e si avvia saltellando accanto al suo amico. Dopo pochi passi Bongo si ferma vicino a un cespuglio, alza la zampa e getta un piccolo spruzzo. La stessa scena si ripete dopo alcuni minuti, ma il bersaglio questa volta è un ramo caduto sul sentiero. Leonardo guarda ammirato il suo compagno e prova ad alzare la zampa e a fare la stessa cosa, ma finisce quasi per capovolgersi. Il rituale si ripete e, dopo pochi metri, Bongo alza la zampa e spruzza le radici di un albero. Leonardo non si arrende e riprova ad alzare la zampa, ma questa volta si sbilancia. Un tonfo e un rumore di foglie secche fanno girare il cane che vede Leonardo per l'ennesima volta rovesciato sulla schiena. Mentre si aggrappa a Bongo per rimettersi in piedi chiede «Ma perché fai quella cosa con le zampe?» «Quale cosa? » chiede il cane. «Quando alzi la zampa e schizzi dappertutto.» « Ah, quella cosa! E' una questione di territorio, per far capire ad un altro cane che qui sono passato io e deve stare attento.» «Allora» dice Leo «devo imparare a farlo anch'io!» Saltando davanti al suo amico adocchia un cespuglio, si concentra e con impegno lancia un piccolo schizzo di saliva che atterra appena un poco più in là della sua zampa. Soddisfatto guarda il suo successo, gonfia gongolante il petto e prosegue saltellando il suo cammino. Ogni tanto inspira profondamente poi lancia il suo piccolo schizzo verso un ciuffo di erba, un cespuglio di margherite o un insetto volante che continua protestando il suo volo.
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Un folletto per amico Biondi Silvio – Blasi Amedeo La figlia di un mugnaio giocò tutta l’estate con un osso di pesca. Ma una mattina l’osso le scivolò dalle mani e si infilò tra le assi del pavimento. Si gettò a terra frugando con le dita sottili nelle fughe del solaio per tentare di riprenderlo, ma nulla da fare, non vi riuscì e perse il suo osso per sempre. OHHH ! com’era triste Martina. Grazie a Dio voi bimbi fate presto a passare dalla grande tristezza all'irresistibile gioia; e quando la mamma rassicurò Martina che avrebbe certamente trovato un altro osso di pesca ancora più grande, ella tornò ad avere il suo dolce sorriso, il sorriso della speranza. Arrivò l’ora di andare a dormire; Martina e le sue sorelline Giuliana e Luciana si avviarono in camera spedite e s’infilarono nel letto. Arrivò la mamma a rimboccare le ruvide lenzuola di canapa, recitarono una preghierina e dopo una carezza, un dolce sorriso e un bacione: buonanotte bambine mie. Ad occhi chiusi Martina ascoltava il respiro delle sorelle aspettando che si addormentassero. Poi, come un topolino, sgusciava lentamente fuori dal letto attenta a non far scricchiolare troppo il pagliericcio di foglie di granoturco ed in punta di piedi si avvicinava alla finestra che guardava la vecchia stazione ferroviaria di Poggio Berni, apriva le ante, spalancava i vetri e con un saltello si sedeva sul davanzale. Nella notte alta, Martina ha il nasino all’insù, guarda la luna, conta le stelle, quando il profumo delle ginestre le solletica il nasino e l’umidità sale dalla Marecchia scende e corre sotto le lenzuola. Una domenica pomeriggio, mentre giocava a nascondino con gli amichetti del borgo della “Buratelà”, a Martina balenò l’idea che le cambiò la vita. Rino ad occhi chiusi prese a contare per permettere agli altri di andare a nascondersi, in pochi istanti tutti sgattaiolarono via come ratti impazziti. Martina no restò lì impalata non sapendo dove andare a nascondersi. «Questa volta non ci vado nel solito cassettone della farina!» disse tra sé e sé. Intanto Rino, che conosceva la matematica un po’ a modo suo, tra uno sfrombolone e l’altro era riuscito a contare fino a trentatré! «Caspiterina devo decidermi» pensò Martina, e in tutta fretta discese gli scalini vicino al pozzo che portano al fossato, si tolse gli zoccoli, approfittò della mancanza d’acqua ed entrò all’interno del tunnel sotterraneo che conduce alla sala ritrecine: il luogo più nascosto e misterioso del mulino. La poca acqua rimasta le ricopriva i ginocchi ed ogni tanto, mentre camminava, i pesciolini le guizzavano via da sotto i piedi. La luce si fece sempre più fioca, giunta a metà strada, Martina ebbe paura di proseguire. Si fermò volgendo lo sguardo indietro e fu quasi tentata di ritornare: «No! Voglio andare a scoprire cosa c’è là sotto » disse con se stessa. La voglia di far “tana libera tutti” e vincere finalmente a nascondino; magari era proprio questa la volta buona. Giunse in fondo al sotterraneo, entrò nella sala ritrecine, c’erano ragnatele e ragni dappertutto, quattro pipistrelli e decine di farfalloni notturni. L’aria odorava di legno bagnato, di muschio e di umido. Spiragli di luce affilati filtravano dalle aperture esterne che davano sulla pancia del “bottaccio”;
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un contenitore pieno d’acqua simile ad una piscina. Martina uscì coi piedi fuori dall’acqua e approfittò per dare un’occhiata in giro. Dopo una manciata di minuti, allungando l’orecchio, udì le voci dei compagni diventare sempre più lievi, quasi impercettibili. «Chissà se Rino li ha già scovati tutti!» pensò Martina. Decise di aspettare ancora un po’ sedendosi in un angolino con la schiena appoggiata alla parete quando all’improvviso, non si sa come, si ribaltò all’indietro come se il muro alle sue spalle avesse ceduto. « Aiutoooo!!! » urlò dallo spavento e un brivido le corse lungo la schiena. Ancora pochi istanti di paura poi si calma, aveva aperto involontariamente, una porticina nascosta nel muro del sotterraneo; una porta misteriosa che nessuno conosceva, forse nemmeno suo padre Pietro. MMMMM troppo buio per vedere cosa ci fosse all’interno, sembrava una piccola stanza ricavata chissà come… da chi? E perché? Provò ad allungare il braccino quando… improvvisamente si sentì afferrare la manina destra. «Aiutoooo!!! » strillò per la seconda volta, ma subito una vocina di fanciullo le sussurrò: «Non aver paura Martina non ti farò del male». Tutta tremante non credeva alle sue orecchie. «Chi sei?» domandò Martina all’essere misterioso con un coraggio che nessun bambino al mondo avrebbe mai trovato. «Sono Geppino, il folletto del mulino» rispose la piccola ombra che ancora non si faceva vedere. Martina rimase col fiato sospeso. «Un folletto? Veramente!? Ma dai che i folletti non esistono». Geppino, ancora nascosto, si rattristò e con una vocina un po’ malinconica rispose: «Non sto scherzando, sono proprio un folletto vero! Mah… chissà quante ne avrai sentite raccontare sul mio conto, ad esempio che sono dispettoso e pazzerello! Dimmi Martina, cosa sei venuta a fare qua sotto? » «Veramente giocavo a nascondino con gli amici e…» «Complimenti! » fece lui « sei riuscita a far tana al folletto! ». E si fecero una bella risata! «Hai mai visto Martina la casa di un folletto? » le chiese Geppino «entra e chiudi la porta. » Martina entrò a fatica nella stanzuccia chiudendo la porticina dietro di sé, poi si sedette sul pavimento perché le sedie erano troppo piccole per lei. Per fare un po’ di luce, il folletto accese un mozzicone di candela e lo posò sul tavolino, Martina stupita notò un lettino ricavato da una corteccia d’albero, un comodino, un armadiuccio in legno di olivo, una simpatica poltroncina di tela rosa, un orologio a cucù, qualche quadretto, infine un minuscolo caminetto; il più piccolo che si sia mai visto. Geppino raccontò alla bambina episodi piacevoli e curiosi come quando si diverte ad annodare i pigiami dei bambini…ma anche tristi, come la ricerca della sua mamma che non ebbe mai avuto modo di conoscere.
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«Vedi Martina, le fate mi han detto che il roseto che cresce dietro al mulino Sapignoli nasconde un segreto che mi appartiene, forse un giorno troverò la mia mamma. » «Certamente Geppino, sono sicura che ci riuscirai, ogni bambino ha il diritto di conoscere la propria mamma! Piuttosto dimmi esistono davvero le fate? » «Certo amica mia che esistono, abitano lontanissimo, in cielo, nel Regno delle fate.» «E come sono le fate?» chiese Martina al folletto tirandolo insistentemente per la manica della giacchetta di velluto. «Le fate sono creature stupende e possiedono ali grandissime, sono anche infinitamente buone; sai che ogni notte di luna piena scendono con la loro carrozza magica qui al mulino Sapignoli a macinare la farina per il loro Regno?» «Veramente ???! » rispose Martina. «Certo che sì! » la rassicurò Geppino accarezzandosi con la manina il mento «forse un giorno te le farò pure conoscere! Adesso è arrivato il momento che tu vada, i tuoi amici staranno in pensiero per te; prima però devo chiederti una cosa importante: vuoi diventare la mia sorellina?» «Certo Geppino ne sarei felicissima!». E si abbracciarono. «Prima di andare Martina, devo farti un’ultima raccomandazione» l’ammonì Geppino «non rivelare a nessuno che mi hai incontrato, altrimenti dovrò lasciare il mulino per sempre; è una regola delle fate. Questo sarà il nostro patto segreto, qua la mano! » Geppino porse la mano a Martina che la strinse, sul palmo il folletto teneva un osso di pesca. Martina al vedere quell’osso ebbe un sussulto. «Quest’osso magico arriva dal Regno delle Fate» le disse Geppino «te lo regalo; addio sorellina!» Martina si incamminò verso l’uscita del tunnel tenendo stretto il suo osso in mano; quasi non credeva a quello che aveva visto e sentito. Dentro di lei una vocina la interrogava: «E se questo è proprio l’osso di pesca che hai perso?» «Fosse vero!» esclamò lei sorridendo. «E’ così Martina» la rassicurò la voce. La bambina iniziò a saltellare di gioia, non era proprio convinta che fosse il suo osso ma le piaceva credere che quella vocina avesse ragione, prese a correre dalla felicità e pareva un missile, Rino sgranò gli occhi incredulo con le gambe che gli facevano giacomo giacomo: - TANA, TANA LIBERA TUTTI !!!! – Martina ci era riuscita, aveva vinto. - Chicchirichì, Chicchirichì Martina si svegliò all’improvviso nel suo letto, dalla persiana filtrava un gentile raggio di sole che le premeva di sbieco sugli occhi ancora stanchi di sonno. Si rigirò guardandosi intorno: «Ma allora ho sognato!?» disse dispiaciuta. Si distese nuovamente a guardare il soffitto e a pensare quando… dalla tasca del pigiama spuntò un osso.
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Chicchi di grano La macinazione vista da un chicco di grano Loris Dall’Acqua Me ne stavo immobile dalla mattina alla sera a prendere il sole in un campo di grano assieme a tutti gli altri chicchi, questa la mia bella vita fino all' inizio dell'estate, poi una volta che eravamo belli, asciutti e "maturi" il contadino veniva nei campi con una trebbiatrice che ci raccoglieva, ci seleziona e infine ci sistemava nei sacchi di iuta. Una volta entrati nei sacchi, venivano poi sistemati in magazzino in attesa di essere macinati e trasformati in farina, venivamo tenuti al fresco e all' asciutto, altrimenti, la presenza dell'acqua o dell'umidità avrebbe sollecitato il nostro istinto naturale a germogliare. Quando il contadino stava per finire le scorte di farina, caricava i sacchi di grano sul carro e ci portava al mulino, il luogo in cui si faceva la farina, che sarebbe servita poi a fare il pane, la pasta e tante altre cose. Arrivati sotto al portico del mulino, il contadino sistemava il cavallo o il somaro che ci aveva trainato fin lì e quindi scaricava i sacchi di grano e ci consegnava al mugnaio. Il mugnaio ci prelevava dal sacco con una paletta e ci metteva in un secchio, nel frattempo apriva le chiuse del bottaccio, che era un piccolo laghetto che stava dietro al mulino, affinchè l'acqua arrivasse alle pale e le mettesse in movimento e quindi iniziava la macinazione. Quando il mugnaio mi ha fatto uscire dal sacco per versarmi nel secchio fortunatamente mi ha preso tra gli ultimi, così ho potuto sbirciare quello che faceva per preparare le macine, ed ho imparato un sacco di cose che nemmeno immaginavo... Credevo bastasse far girare le macine e invece ci sono tante altre cose a cui il mugnaio deve mettere le mani: deve regolare la distanza tra le due macine che non devono girare ne troppo vicine, ne troppo lontane, deve regolare la velocità delle macine in base all'apertura delle chiuse e anche la velocità con cui dobbiamo correre verso le macine inclinando la sessola che è quello scivolo che ci manderà dentro l' occhio della macina. Ecco! Arriva il nostro turno! Il mugnaio prende il secchio in cui ci sono anch'io e ci versa nella tramoggia, una sorta di imbuto a forma di piramide rovesciata fatta di legno posta sopra alle macine in movimento. Dal foro sottostante finivamo sulla sessola, che era simile a un coppo rovesciato che il mugnaio inclinava affinchè noi scendessimo alla velocità giusta, ne troppo in fretta ne troppo lentamente. Da quella finivamo poi dentro all'occhio della macina quel foro centrale che ci permetteva di entrare e correre tra le due macine e scorrendo tra quelle due enormi pietre mentre erano in funzione venivamo schiacciati e trasformati in polvere, quella polvere che tutti chiamano farina. Una volta diventati farina finivamo nel cassettone, da dove il mugnaio ci raccoglieva con una paletta e ci metteva ancora dentro ai sacchi, quindi si tornava a casa. Eravamo partiti "chicchi" e siamo diventati farina. Questo il viaggio che compivano tanti anni fà, milioni di chicchi di grano. Non venivamo distrutti, le macine ci trasformavano. E poi volete mettere la consapevolezza di essere parte della catena
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alimentare e di sfamare milioni di persone? Se il motto più gettonato di voi bambini è «Da grande farò il pompiere» il nostro è «Da grande farò il panino.»
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I tre Fratelli Erica Angelini C’erano una volta tre fratelli di nome Alba, Mezzogiorno e Tramonto. Pur essendo fratelli erano molto diversi fra loro: Alba era frizzante e giocosa, piena di buoni propositi per la giornata che stava arrivando e premurosa verso i suoi fratelli. Mezzogiorno era il più focoso fra i tre, affrontava con energia ed intraprendenza lo scorrere delle giornate, era anche molto intelligente ma si accendendeva troppo facilmente in ogni discussione. Tramonto era tranquillo e sempre sorridente, annunciava con calma e serenità l’avvento della notte a tutti gli abitanti della terra, aveva però molto spesso la testa fra le nuvole. I tre fratelli guardavano il mondo, giocando e discutendo nell’alto del cielo. Mentre Tramonto spesso giocava anche da solo, Alba e Mezzogiorno non ne erano capaci e passavano le giornate a inventare giochi e situazioni divertenti; Tramonto allora vedendo i fratelli divertirsi tanto, si inseriva nei loro giochi, senza avere pretese di comandare o decidere: sapeva bene quale era il suo posto! Così tutti e tre insieme, dandosi la mano, facevano tutti i giorni un bel giro intorno al mondo. Alba, che era la più grande, aveva sempre un occhio di riguardo per Tramonto, perché, essendo l’ultimo dei fratelli, lo vedeva più fragile e delicato di Mezzogiorno, e, anche se Tramonto non si sentiva affatto debole, perché la sua forza stava nel sapersi adattare, accettava tranquillo le cure della sorella grande. Mezzogiorno invece, notando che l’attenzione di Alba non era tutta per lui si accendeva di invidia e cercava di escludere Tramonto dai giochi; solo quando erano soli, lui e Tramonto, giocavano tranquilli. Un giorno, quando durante un gioco Alba alzò la voce in difesa di Tramonto, Mezzogiorno si infuriò e decise di pensare ad un modo per avere Alba tutta per sé. Il giorno dopo invitò i fratelli a giocare e mentre Alba non vedeva fece a Tramonto una bruttissima boccaccia; Tramonto che era tranquillo, ma non tonto, si arrabbiò e disse a Mezzogiorno che era un maleducato a quel punto Mezzogiorno rivelò ad Alba di aver agito così perché aveva visto Tramonto barare al gioco: i due cominciarono a bisticciare e Alba , che non aveva visto come erano andate le cose, non potè dire nulla; a quel punto Mezzogiorno la coinvolse «Vero Alba che le regole vanno rispettate?», «Certo è vero» rispose Alba… «Ma io non ho barato..» provò a dire Tramonto « Smettila fregone!! oltre a barare sei anche un gran bugiardo!» disse Mezzogiorno con aria focosa e quando Tramonto provò nuovamente a difendersi, Mezzogiorno gli chiuse la bocca con una bella linguaccia! Tramonto se ne andò di corsa infuriato, non era da lui arrabbiarsi così e sulla terrà si notò il cambiamento: quella sera le nuvole cominciarono a coprire i raggi del sole e un vento gelido iniziò a soffiare fra le case e gli alberi, il Tramonto, che precede la pace del sonno e del riposo, si era trasformato in Tempesta! Tutta la notte il vento sferzò furibondo e la pioggia cadde senza tregua sulla terra. Alba preoccupata più volte provò ad avvicinarsi al fratello che però, era infuriato e non la ascoltava più!
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Allora decise di parlare con Mezzogiorno per capire cosa fare. Mezzogiorno intanto se ne stava rintanato da una parte spaventato dalla reazione del fratello, che aveva sempre creduto essere tranquillo e pacifico. Quando Alba gli si avvicinò per chiedere spiegazioni scoppiò in lacrime e rivelò il suo inganno; Alba lo ascoltò arrabbiata ed infine lo obbligò a seguirla per scusarsi con Tramonto. Tramonto accettò le scuse e dopo poco tornò la pace anche sulla terra. Da quel giorno Mezzogiorno, pur sempre focoso e irascibile, imparò sia a rispettare il fratello, che si era rivelato determinato e temibile, sia a dividere con lui le cose e le persone della sua vita.
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Topo Geremia cerca moglie Francesca Mairani C’era una volta un topino grigio che abitava nella soffitta di una grandissima casa. Era un topino molto fortunato, perché aveva un buon posticino dove dormire – il fondo di un baule, pieno di vecchi e morbidi vestiti – e un comodo abbaino tramite il quale poteva entrare ed uscire a suo piacimento. La soffitta era fresca e asciutta e non mancavano mai cose da fare: vecchi giornali da rosicchiare, dischi in vinile da far rotolare sul pavimento, molle arrugginite sulle quali dondolarsi. Topo Geremia – questo era il suo nome – trascorreva delle giornate molto piacevoli. Ma, quando arrivava sera, e il sole tramontava tingendo di arancione l’orizzonte, gli veniva un po’ di malinconia. Si sentiva solo. Veniva da una famiglia numerosa, il suo papà e la sua mamma, due topi molto perbene, avevano avuto decine di figli e se anche qualche volta a tavola mancavano persino le briciole, tutti erano molto allegri e felici in compagnia. Lui, invece, aveva il pane e il companatico. Ma nessuno con cui giocare. Nessuno con cui fare due chiacchiere prima della nanna. Nessuno a cui raccontare i suoi sogni al mattino. Fu così che Topo Geremia, un giorno, prese il coraggio a quattro mani e decise di andare a cercarsi una moglie. La grande casa dove viveva era divisa in piani. In alto c’era la soffitta. Sotto le camere da letto. Sotto ancora sala e cucina. E in fondo la cantina. Topo Geremia pensò di iniziare proprio dal piano sottostante. Sapeva che abitavano altri topolini, nella casa, ed era molto curioso di fare la loro conoscenza. Chissà che fra loro non si potesse trovare anche la sua anima gemella! Così uscì dall’abbaino, scese con attenzione dalla grondaia e si infilò nella finestra della camera da letto dei padroni di casa. Era una stanza molto grande e arredata con eleganza. Un letto con una coperta ricamata a grandi rose rosse. Un lampadario con perline di tanti colori. Un armadio enorme di legno chiaro e due comodini. E proprio dall’armadio vide uscire una topina con un bottone dorato fra le zampe. La topina si accorse di lui e gli fece un grande sorriso. «Ciao sconosciuto. Che ci fai lì impalato?» «Mi chiamo Topo Geremia. Vengo dalla soffitta.» «Oh… il famoso topo della soffitta. Ci chiedevamo spesso quando ti saresti deciso a farci visita.» La topina era veramente graziosa. Aveva il pelo lucido, dei baffetti folti arricciati sulle punte e, avvolto alla codina, un nastro di seta rosa con un grande fiocco. Topo Geremia la guardava affascinato. «Io mi chiamo Chantal e vivo qui nella camera da letto con alcuni cugini e cugine. Adesso gli altri sono fuori, in cerca di cibo. Io invece stavo riordinando la mia collezione di bottoni.» «Bottoni?» «Certo, bottoni. Ne ho di tutti i tipi, sai? Rosicchio i fili che li trattengono alla stoffa e poi li ripongo in quella scatola sotto la scarpiera. Ho bottoni di plastica, di metallo, bottoni di strass che sembrano gioielli, bottoni ricoperti di cuoio, bottoni piccoli come caramelline, grandi come monete, bottoni lisci, ruvidi, opachi, lucidi e i più belli, i bottoni di madreperla.»
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«E fai questo tutto il giorno? Riordini bottoni?» «Nooo. Mi occupo anche di altre cose. Mi liscio il pelo, mi arriccio i baffetti, mi spazzolo la coda. E poi ho dei nastri bellissimi. Ti piace questo rosa? Ne ho anche di azzurri, verdi, gialli, viola e blu. E uno speciale che quando lo muovi alla luce cambia colore.» Topo Geremia pensò che una topina così raffinata non si sarebbe adattata a vivere nella sua soffitta. Non si sarebbe divertita giocando a nascondino fra vasi di fiori sbeccati o sfogliando vecchi album di cartoline illustrate. Così la salutò con un inchino compito e riprese la sua ricerca. Sempre scivolando lungo la grondaia, Topo Geremia arrivò in cucina. La stanza era piena di luce e di profumi deliziosi. Sul pavimento alcune briciole attirarono la sua attenzione. «Serviti pure, amico. Ma stai attento. Qualche volta passa di qui Gatta Pasquina e allora è meglio trovarsi nascondiglio sicuro.» Topo Geremia si girò di colpo e si trovò di fronte una graziosa topina, con una bella panzarotta rotonda, le guanciotte piene e un’ombra di zucchero a velo sopra i baffetti. Il suo pelo emanava un delizioso odore di vaniglia. «Io mi chiamo Crostatina e sono nata qui in cucina. Tu chi sei?» «Mi chiamo Topo Geremia. Vengo dalla soffitta.» «Oh… il topo della soffitta! Abbiamo sentito parlare di te. Sei venuto a visitare la casa?» «Beh… più o meno» disse il topino mantenendosi sul vago. «Questa stanza è la più bella di tutto il piano. Sì, certo, c’è anche la sala, con i divani di pelle e il tappeto persiano. Ma non ci sta mai nessuno, è di una noia mortale. Invece qui in cucina ci sono sempre un sacco di cose da fare. E di cose da mangiare! Vedi, quella lassù è la scatola dei biscotti. Ce ne sono alle mandorle, al cioccolato e persino con la marmellata di albicocche. Vicino al forno c’è il frigorifero: non è facile da aprire, ma dentro puoi trovare i formaggi, il latte e, con un po’ di fortuna, anche qualche avanzo di budino. Se hai i denti buoni, nel cestino sul tavolo c’è la frutta secca. Ti consiglio i pistacchi, sono davvero deliziosi». Topo Geremia pensò che quella topina era abituata a mangiare cose molto appetitose e difficilmente si sarebbe accontentata degli avanzi che rimediava lui uscendo dall’abbaino. Non se la vedeva proprio a rosicchiare semi di grano o pezzetti di pane secco. No. Evidentemente neanche Crostatina era la topina adatta a lui. Si accomiatò con un inchino compito e poi intraprese la via del ritorno, ormai rassegnato all’idea che, almeno per il momento, non fosse possibile per lui trovare una compagna. Quando aveva già iniziato la sua risalita dalla grondaia, gli venne però in mente che mancava un piano, alla sua esplorazione. Non aveva infatti visitato la cantina. La cantina si trovava nei bassifondi della casa e non aveva buona fama, fra i topi. Si diceva che vi vivessero ratti grossi come gatti, con il pelo nero e sporco e occhi rossi per vedere anche al buio. Si diceva anche che nessun topo perbene si fosse mai spinto così lontano e chi ci aveva provato non aveva più fatto ritorno. L’idea di un posto così poco ospitale non attirava certo Topo Geremia, ma si era ripromesso di visitare tutta la casa e così avrebbe fatto. Invertì la direzione di marcia e con aria risoluta si diresse verso la cantina.
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Là sotto era buio davvero, ma Topo Geremia non si lasciò intimidire. Dopo qualche minuto i suoi occhi si abituarono all’oscurità e riuscì a muoversi con una certa sicurezza. L’aria era fresca e umida, ma l’odore non gli dispiaceva. Un misto di carta bagnata, fiori appassiti e legno stagionato. Proprio dietro un vecchio armadio tarlato, vide una topolina con un tappo si sughero fra le zampe. Aveva il pelo molto scuro, con un ciuffettino bianco proprio sotto la gola. Era piuttosto spettinata ma non sporca, con due grandissimi occhi neri che lo guardavano divertiti. «E tu da dove spunti? Sembri un damerino dei piani alti.» «Mi chiamo Topo Geremia. Vengo dalla soffitta. Forse hai sentito parlare di me.» «Oh, noi non abbiamo molti contatti con gli altri topi della casa. Ci considerano troppo rozzi. Meglio così, a noi non piacciono i pettegolezzi. Vuoi un po’ di torsolo di mela? Ne ho trovato uno rosicchiato solo a metà che è una delizia.» Topo Geremia accettò di buon grado. Erano diverse ore, ormai, che non metteva nulla nello stomaco. La topina, il cui nome era Nerina, lo fece accomodare in una scatolina di cartone con della stoppa dentro. Era morbida e odorava di erba secca. Topo Geremia si sedette mentre la topina si sistemava sul tappo di sughero davanti a lui. Chiacchierarono a lungo. Nerina gli raccontò di tutte le cose divertenti che si potevano fare in cantina. C’erano chiodi arrugginiti e vecchi bulloni con cui giocare alle costruzioni. La sella della bicicletta, di cuoio morbido, su cui saltellare. Le bottiglie di vino impolverate su cui disegnare buffi ghirigori. Anche Topo Geremia raccontò a lungo della sua bellissima soffitta. Della luce del mattino che entrava di sghembo dell’abbaino. Delle fotografie in bianco e nero con signore ingioiellate. Di un vecchio paio di bretelle su cui si poteva fare l’altalena. Parlarono così a lungo che arrivò sera. Nerina chiese al nuovo amico se voleva fermarsi a cena e Topo Geremia accettò ringraziando. A patto, però, che lei gli restituisse presto il piacere di una visita. Era sicuro che Nerina sarebbe stata entusiasta della sua soffitta. E chissà… forse avrebbe deciso di fermarsi per sempre.
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Foglia riccia Paolo Miserocchi Riccia, la foglia che scartoccia, fa i capricci e arriccia il gambo e tira il braccio a padre Ramo. «Troppo fitte siamo ed io vorrei volare». «No, tu qui devi restare e metterti a dormire». Sentenzia rude l’albero che ombra vuol gettare sull’era tanto amata, e mai far ricadere su quei morbidi capelli, rugiada del mattino o troppe foglie libere a coprire il bel cammino. Sul tappeto verde, dove indugia pure il vento, quale affronto può valere una foglia col suo pianto? Ma commosso, il signor Cielo, muove placide carezze che son nuvole allargate a sospinger fiere gocce e pioggia fitta pioggia. Impazza la tempesta, s’alzano le braccia a stringersi la testa, padre Ramo ondeggia. Tutte quante urlano le figlie pazzerelle che Riccia forte gira, fugge,
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e libera veleggia. Ora frulla nei ruscelli, dell’acqua impara il dialogare, di vortici e gorgheggi, fino a un salto verso il mare. Riccia è grande, non ha atteso la secchezza. Ăˆ viva, vola, e dall’alto tutto il mondo abbraccia
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Goccia e il primo viaggio Laura Bartolini Goccia nacque in cielo una mattina di inizio di primavera. «Gelido basta soffiare, sento freddo» strillò. Gelido fece finta di non capire. Non voleva smettere, anzi, si stava proprio divertendo. Allora soffiò ancora più forte. Così Goccia chiamò le sue vicine accanto a sé per scaldarsi. Ma divennero troppo pesanti. «Aiutoooo!!! Precipitiamo!!!» Ma dov’è Goccia? Nell’impatto Goccia si separò dalle sue compagne. Ancora stordita corse velocemente cercandole. Ma… dov’è ora Goccia? Quando finalmente ritrovò le altre gocce, la strada finì in un burrone. «Scivolo! Non resisto, questo vento è troppo forte!!» gridò Goccia nel frastuono. Poi Goccia cadde e si sporcò tutta… «Lo sapevo, dovevo portarmi impermeabile e stivali di gomma» pensò. Pian piano, fra le sue vicine, iniziò a crescere un brusio. «Che bello, ne arriva un’altra» «Si ora tocca a me! Afferriamoci per mano, anche io voglio provare!». Goccia era curiosa di sapere cosa mai stesse arrivando… quando un’onda enorme la travolse e lei volò lontano. «Uaoooo che bel salto!» disse Goccia raggiante. Poi tutt’attorno diventò buio. Ma dov’è Goccia? Cosa succede? Stremata da tante emozioni, Goccia si addormentò felice… e sognò. Sognò di essere cullata, trasportata in un luogo tiepido e profumato. Finchè una mattina Goccia si risvegliò all’aria aperta, accarezzata dalla tenue luce dell’alba. Aveva la sensazione di essere stata utile a qualcuno… ma a chi? Comunque ne era orgogliosa. Poi ascoltò la signora Semiotus, la farfalla, bofonchiare: la posa delle uova l’aveva disidratata seccandole la gola. A Goccia non andava proprio l’idea di diventare “troppo utile”. «Sole ti prego, puoi scaldarmi?» chiese Goccia. Sole sorrise e disse si, poteva scaldarla, ma aveva anche tanta voglia di vedere l’arcobaleno. Allora Goccia prese la giusta posizione e si illuminò di iride. Sole era soddisfatto e mantenne la promessa. Ma Goccia evaporò. Come si era trasformata? Da lassù si vedeva proprio un bel panorama, e dall’alto vide un granchio dispettoso sulla spiaggia. Sul più bello arrivò quella dispettosa di brezza marina. Agitando il suo ventaglio raffreddò lei e le altre rispedendole giù. «Ah, ah, scusate goccioline, vorrei rimanere un po’ sola!» disse ridacchiando. Goccia atterrò sulla fronte di un ciclista, da lì poteva ammirare e scoprire un sacco di cose nuove e colorate. Improvvisamente il ciclista si fermò tossendo. Goccia invece fu assalita da strani esseri: erano gli Smog! Per fortuna arrivò Fazzoletto, salvandola appena in tempo. Goccia si addormentò ancora una volta e sognò. Viaggiò pedalando sulla sua bicicletta, in alto, tra le nuvole azzurre e soffici, verso altre avventure meravigliose.
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Àttic la città al contrario Laura Bartolini Un giorno Arturo, che viaggiava in cerca di strani paesi, arrivò in una città davvero curiosa. Il suo nome era Àttic, la città al contrario. Subito provò a girare il cartello ed esclamò: «Ma come sono messi? Non si può mica scrivere un nome al contrario!» Ma più si addentrava ad Àttic più si accorgeva che tutto era straordinariamente al contrario. Le persone viaggiavano per strada con le barche a ruota e navigavano in mare con la bicicletta a remi. Per camminare avevano inventato dei guanti rinforzati, perché loro camminavano sulle mani. Invece, per dormire, si appendevano a testa in giù come i pipistrelli. Quando pioveva poi, tutti uscivano di casa cercando di bagnarsi il più possibile. Mentre se c’era il sole tutti uscivano con il cappotto e il cappello, correvano a rifugiarsi sotto gli ombrelli e a chiudere ogni finestra. Anche gli animali erano strani, come ad esempio il gallo: lui cantava prima di addormentarsi, dopo il tramonto, proprio un attimo prima di fare l’uovo. Le mucche invece giocavano a carte con le pecore tutte le sere e dalle loro mammelle si mungeva del succo di frutta alla pesca, mentre dalle mammelle delle pecore usciva un buon vino d’annata. Ma il più al contrario di tutti era il cane: quando doveva uscire di casa, metteva il collare al padrone lo teneva al guinzaglio e lo portava a spasso; ma appena arrivati al parco il cane impazziva, perché doveva stare attento agli alberi che volevano fargli la pipì addosso! Un vero dramma! Arturo si fermò a chiedere spiegazione ad un signore che gli passava accanto e lui gli disse: «Questa città è al contrario? Guarda come cammini tu, con i piedi a terra! Come ti chiami vecchietto?» «Ehi! Mica sono vecchietto,» disse Arturo «ho dieci anni. Comunque il mio nome è Arturo» «Stranissimo nome! Sei tu quello al contrario!» disse il signore mentre puliva gli occhiali alle scarpe. «Da noi ti chiameresti Orutra, ma da che paese te ne vai?» «Come “da che paese me ne vado? Forse voleva dire da quale paese arrivo!» «Ma pensa un po’…proprio impertinenti i vecchietti di ieri l’altro!» e se ne andò a schiacciare le cacche dei cani e a prendere al volo quelle degli uccelli. Arturo a quel punto pensò di aver visto abbastanza e se ne andò in giro per il mondo a cercare un altro strano posto.
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La tartaruga triste Patrizia Della Valle Ai limiti della città di Normali c’è una piccola foresta chiamata Runwood, abitata da tante creature diverse. Oggi vi racconterò di Pitula, la tartaruga. Pitula viveva vicino al piccolo stagno, sulle cui rive si poteva incontrare la diga di Rina la castora, il rifugio di Tonia la rana e di Gino il rospo, il nido di Pina la papera e dei suoi piccoli: Pipo, Lila e Biba. Era bello vivere in quel luogo e a Pitula piacevano i suoi vicini: sempre allegri e disponibili anche quando erano impegnati nelle noiose faccende quotidiane. C’erano giorni però, in cui lo stagno le sembrava troppo piccolo e sentiva di dover partire alla scoperta di nuove strade e nuove amicizie. Un giorno lungo il prato delle barbabietole incontrò una lepre. «Ciao, io sono Pitula, la tartaruga dello stagno. Tu chi sei?» «Ciao, io sono Lunotto. Vuoi giocare con me?» «Volentieri.» «Dai allora, seguimi!» la esortò Lunotto «Facciamo il giro del prato». La lepre scattò via veloce grazie al corpo leggero e alle lunghe zampe. La tartaruga lo inseguì spingendo sulle zampette corte. Sapeva che non c’era paragone fra loro. Ma non le importava, aveva trovato un nuovo amico e il divertimento alla fine la ripagava della fatica. In breve i due divennero inseparabili e Pitula conobbe anche la compagnia dei leprotti con cui Lunotto giocava. La vita di Pitula scorreva serena e spensierata, fra gli amici dello stagno e quelli del prato delle barbabietole. Spesso seguiva i leprotti nelle loro lunghe corse in giro per la foresta e ai ritrovi con gli altri abitanti del bosco. Erano interessanti i raduni, perché si potevano incontrare tante creature diverse con le quali correre o camminare, giocare, ridere e scherzare. Un giorno, mentre percorreva i sentieri del bosco, si scontrò con un cinghiale uscito di corsa da una siepe. Pitula non
riuscì ad evitarlo, e a nulla potè la dura corazza. Il cinghiale travolse la
tartarughina, che dopo un interminabile rimbalzo in aria cadde violentemente a terra. Pitula era disperata, aveva un forte mal di testa e tutto le girava intorno. Quando arrivò all’ospedale del bosco le diedero un dolore ancora più grande: l’impatto era stato talmente forte che un enorme bitorzolo rosso e molliccio faceva bella mostra di sé sulla sua piccola testa. I dottori le dissero che per un lungo periodo non sarebbe più potuta andare a giovare con i leprotti, né con gli amici dello stagno. Doveva rimanere rintanata dentro la sua corazza, senza mai metter fuori la testa fino a che non fosse completamente guarita. “Se almeno arrivasse l’inverno potrei andare in letargo” pensava Pitula. Poi cercava di distrarsi immaginando ciò che avrebbe potuto fare una volta guarita. Ma quei giorni tristi e solitari sembravano non passare mai. Dopo alcune settimane il dottore passò a visitarla e finalmente le annunciò che era guarita. Ora poteva uscire e rivedere i suoi amici: Tonia e Gino, la Pina con i piccoli, la Rina e i leprotti. Così una mattina mise la testa fuori dal guscio e cominciò a sgranchirsi le zampe. Ma arrivata sul bordo dello
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stagno, si accorse di non riuscire a prendere il sentiero per il prato delle barbabietole: il timore che un altro cinghiale spuntasse all’improvviso era troppo forte. Fu così che rimase immobile, al lato del sentiero, aspettando che succedesse qualcosa. Quando per caso, passò di lì Lunotto, a Pitula non parve vero e pianse di gioia. Il leprotto era sorpreso e non capiva, così lei cercò di spiegargli la situazione. «Ma Pitula, che problema c’è? Ti accompagno io al prato delle barbabietole. Tutte le volte che vuoi!». Pitula era contenta: finalmente avrebbe rivisto gli amici leprotti e avrebbe corso e giocato con loro nel grande prato. Ma ben presto si accorse che senza aiuto non riusciva ad allontanarsi da casa o ad attraversare il sentiero. Bisognava trovare una soluzione! Doveva chiedere soccorso: ma a chi? Ci pensò su, finchè non trovò la risposta: “Il gufo – sì – devo rivolgermi al gufo!”. Bufo era saggio e avrebbe certamente saputo cosa fare. Il giono dopo, Lunotto la accompagnò dal vecchio gufo. I due parlarono a lungo. Ascoltò e interrogò Pitula. Poi si chiuse nel suo albero e pensò… pensò… ed infine dichiarò: «chiama tutti i tuoi amici. Il loro aiuto è essenziale». Le spiegò poi che un pizzico di coraggio, un pugno di pazienza e tanti amici erano gli ingredienti giusti per superare la paura. Ma non doveva perdersi d’animo, perché sarebbe stato un percorso lungo e difficile. A Pitula gli ostacoli non la spaventavano: dopotutto, non era stata lei che aveva avuto il coraggio di lasciare lo stagno e addentrarsi nel bosco? E poi c’erano gli amici. Ne era sicura!! Ce l’avrebbe fatta!! Lunotto, per incoraggiarla la convinse a partecipare ad un importante raduno dove si sarebbero sfidati leprotti, topolini, ippopotami, gazzelle, tartarughe e tante altre creature provenienti dalle foreste vicine e lontane. “Perché no!?”, pensò Pitula, “Potrebbe essere l’idea giusta per ricominciare”. Così riprese gli allenamenti. Ma il terrore per le ignote strade del bosco, ancora presente, la costrinse a correre solo intorno al piccolo stagno. O al prato delle barbabietole, quando Lunotto la veniva a prendere. Era dura preparare la grande corsa girando in tondo sempre nello stesso posto… Inoltre, avrebbe dovuto allenarsi su un sentiero più simile a quello della gara, ma senza Lunotto e gli altri leprotti non le era possibile. “Devo farcela”, si ripeteva. Ma ben presto le sue certezze cominciarono a vacillare: anche i leprotti si stavano allenando per il grande raduno. E quando le lepri fanno sul serio, le tartarughe non riescono a stargli dietro. La piccola tartaruga divenne ogni giorno più malinconica e i suoi sforzi inutili. In quell’occasione, si scoprì che quando la tristezza invade il cuore, si impadronisce di tutto il corpo: se i pensieri diventano pesanti, anche le zampe diventano pesanti; e così gesti e propositi appaiono impossibili. Anche i suoi occhi divennero pesanti e le lacrime cominciarono a uscire. Ma, in quelle gocce di tristezza che fluivano copiose, non c’era sollievo. «Pitula, perché piangi?» le chiese Lunotto un giorno che la vide triste. «Sono tanto infelice. Gli sforzi che faccio per prepararmi al raduno sono inutili: un grande peso schiaccia il mio cuore e mi impedisce di correre come vorrei. E poi… come posso affrontare il raduno se non riesco ad affrontare la foresta?» gli rispose Pitula senza riuscire a fermare le lacrime. Lunotto la ascoltò, ma non capiva il
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dolore che si era insinuato nel suo cuore. Per non deluderla, le consigliò un periodo di riposo. Pitula decise di seguire le indicazioni di Lunotto, anche se in fondo sentiva di dover continuare a lottare. I giorni seguenti preferì rimanere in casa, concedendosi solo qualche breve uscita quando gli amici chiedevano la sua compagnia. Il tempo passava. Il fardello di un’anima turbata non si dissolve come la neve al sole. Ma la vita intorno a sé la reclamava. Un po’ alla volta riprese a passeggiare intorno allo stagno. Qualche volta andò a trovare Lunotto che continuava ad allenarsi insieme ai leprotti e ai conigli. La tristezza era ancora aggrappata alla sua anima, ma fortunatamente ogni giorno che passava, allenta i suoi artigli. “Ho voglia di correre” pensò una mattina, scoprendo che la felicità era tornata a bussare alla porta del suo cuore. Ricominciare non è facile: ci vuole molto impegno, più che mantenere i risultati ottenuti nel tempo. Lei lo sapeva ma questa volta era diverso: si accorse che la vita nella foresta era andata avanti senza di lei. Gli amici avevano trovato nuovi compagni con cui condividere le loro passioni, trascurando i vecchi compari. A questo punto, l’entusiasmo di Pitula si attenuò: senza più compagni di giochi e con il peso della fatica, lo sconforto faceva capolino in quell’anima sensibile. Sarà stata la delusione. Sarà stata la fatica, ma una notte Pitula fece uno strano sogno. Si trovava nel campo delle barbabietole e si stava allenando. Era una giornata torrida, ciò nonostante aveva deciso comunque di affrontare l’allenamento. Cominciò a correre intorno al campo delle barbabietole, ma si sentiva pesante come se la sua corazza fosse improvvisamente diventata di ferro. Durante la corsa incontrò prima i leprotti e poi i topolini che la salutarono festosi. Ma all’improvviso gli amici scomparvero e al loro posto apparvero le gazzelle. La loro corsa, bella ed elegante, metteva a dura prova anche i leprotti. Presto raggiungevo Pitula ma non avevano buone intenzioni. Il passo lento della tartaruga le innervosiva e cercarono di farla uscire dal percorso gettandola nel campo. Pitula si ritrovò a terra ma ancor più grave, si sentì improvvisamente inadeguata e fuori posto. Questa sensazione l’accompagnò anche dopo il risveglio. Per giorni ripensò a come era giunta alla corsa, agli amici leprotti e al campo delle barbabietole. Il senso di disagio però non l’abbandonò, era così forte che Pitula non volle più andare al campo delle barbabietole: aveva paura che il sogno si realizzasse. A nulla valsero le insistenze di Lunotto: la decisione era presa. Pitula si era convinta che la corsa non è cosa per tartarughe e che gli unici, veri amici fossero i compagni dello stagno. I mesi seguenti, Lunotto continuò a recarsi allo stagno e qualche volta persuase Pitula ad accompagnarlo ai raduni, ma non riuscì più a convincerla a correre. Lunotto era molto triste per questo, ma era affezionato all’amica e accettò la sua scelta. Oggi Pitula continua a fare lunghe passeggiate, ad accompagnare Lunotto e a frequentare gli amici dello stagno. Ma non corre più. In lei è ancora viva la nostalgia per i tempi andati e la spensieratezza di quel periodo. Il desiderio di riviverli è forte, ma Pitula è consapevole che ciò che è stato non può tornare e affronta la sua nuova vita cogliendo le splendide e inaspettate avventure che il
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futuro ha in serbo per lei. Ed è certa che un giorno tornerà ad avventurarsi oltre il bosco, alla scoperta di luoghi e amici inattesi, ma per il momento, l’avventura più grande è cogliere la felicità intorno a sé.
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I colori del camaleonte Fosca Farnedi In una giungla lontana, molto lontana da qui, viveva un camaleonte che i genitori avevano chiamato Laocoonte. Laocoonte non aveva fratelli, non aveva cugini, non aveva nessuno con cui giocare e passava le sue giornate sempre solo con i genitori e con la nonna. La nonna raccontava a Laocoonte storie meravigliose sulla capacità dei camaleonti di cambiare colore della pelle ma lui rimaneva sempre dello stesso colore grigio; grigio come i sassi, grigio come il cielo quando piove. Laocoonte provava e riprovava a cambiare il suo colore, come facevano i suoi genitori e la nonna; strizzava gli occhi, si concentrava, si sforzava ma non c’era nulla da fare. Il suo colore era grigio e grigio restava. A causa della sua solitudine e del suo colore, Laocoonte era triste e spesso se ne andava in giro per la giungla senza una meta, immerso nei suoi pensieri. Un giorno che si era spinto un po’ più in là del solito, gli parve di sentire un suono strano, uno stridio che veniva da dietro le foglie… si avvicinò piano piano, spostò una grande foglia e… «Ciao!» disse una voce squillante. Laocoonte spaventato si era nascosto dietro la grande foglia e non ci pensava proprio ad uscire da lì. «Ciao!» ripetè la voce squillante, «perché ti nascondi? Non devi avere paura, io sono Carletto e sono un parrocchetto!». Laocoonte non aveva mai visto un parrocchetto e quando spostò la grande foglia si rese conto che era un piccolo uccello con il becco da pappagallo e di un colore tutto giallo. «Oh!» disse il camaleonte «come sei bello, così tutto giallo!». Carletto il parrocchetto gli chiese se volesse giocare con lui e Laocoonte disse: «Certo! Arrivo subito!». Giocarono insieme per molto tempo e Laocconte non si era accorto che mentre giocavano il suo colore era cambiato, tutto giallo era diventato. Non stava in sé dalla felicità. «E io che credevo di non poter cambiare colore! Almeno giallo so diventare!». Continuando a giocare insieme Laocoonte e Carletto arrivarono nei pressi di quella che sembrava una grande striscia blu. «Che cos’è?» chiese il piccolo camaleonte. «Non lo so!» rispose Carletto «Proviamo ad avvicinarci!». Con un po’ di timore i due amici si avvicinarono e allungarono le loro zampette per toccare quella striscia blu. «E’ fredda!» «E’ bagnata!» «Si muove!» dissero in coro Laocoonte e Carletto, e mentre dicevano questo caddero dentro la grande striscia blu. Si resero subito conto che su quella cosa si poteva galleggiare e se si muovevano le zampe si poteva anche avanzare o spostarsi… «Che bello!» disse Laocoonte, «come mi diverto!». «Cosa sarà questa striscia?» chiedeva Carletto. «Ma è acqua, acqua del fiume!» rispose la voce di un pesce tutto blu anche lui. Laocoonte si accorse che mentre nuotava nell’acqua del fiume era diventato blu e gli sembrava di non aver mai provato una gioia più grande. “Chissà come sarà contenta la nonna quando glielo racconterò” pensava.
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Un giorno Laocoonte il camaleonte si avventurò in un’altra parte della giungla. Siccome era da un po’ di tempo che non mangiava, decise di salire su un albero per cercare qualcosa da mettere sotto i denti. Mentre si guardava intorno in cerca di formiche o insettini da sgranocchiare, sentì qualcuno che diceva: “Ehhh… hop! Ehhh… hop!”. Si porse con la testa per vedere cosa fosse e vide un animale grassottello, peloso e di colore arancione che si dondolava con le braccia dal ramo di un albero. «Cosa fai?» chiese Laocoonte che non aveva più paura di niente. «Faccio l’altalena!» rispose il grassottello peloso. «Come si fa?» chiese ancora Laocoonte. «Si fa così!» rispose l’altro continuando a dondolarsi con le lunghe braccia pelose e arancioni «prova anche tu!». «Ma io non ho le braccia!» disse il piccolo camaleonte. «Però hai la coda! » rispose l’altro «Prova ad arrotolarla intorno al ramo e lasciati andare… ehhh… ho!». Allora Laocoonte arrotolò la sua coda al ramo accanto al suo nuovo amico e si lasciò andare al dondolio. Si rese subito conto che era una gioco molto divertente e che non ci si stancava mai di dondolare, specialmente in compagnia. Alla fine della giornata Laocoonte era diventato arancione come il suo compagno di altalena. «Io mi chiamo Laocoonte e sono un camaleonte. Tu chi sei?» chiese. «Io sono Durango, un orangotango» rispose l’amico arancione. Un’altra volta Laocoonte era uscito a passeggio in una brutta giornata. Il cielo era grigio, pieno di nuvoloni neri e il sole non si vedeva neanche un po’. Gli era venuta voglia di fare di nuovo l’altalena come aveva fatto con Durando l’orango ed era alla ricerca di un ramo che facesse al caso suo. Mentre saliva e scendeva da tronche e rami che erano troppo grossi o troppo sottili per dondolarsi, sentì un rumore improvviso, cupo e spaventoso. «Cos’è?!» si chiese Laocoonte ma non sapeva dare una risposta. Dopo un po’ sentì di nuovo quello scoppio provenire dal cielo, che nel frattempo era diventato quasi nero, e cominciò a sentire delle piccole goccioline di acqua che gli cadevano sulla testa e sulla coda. «Pioggia!» disse il camaleonte «devo trovare un riparo». Così, salì sopra un albero di banane che aveva delle grandissime foglie verdi sotto le quali poteva ripararsi dalla pioggia. Ne scelse una particolarmente grande e ci si mise sotto nell’attesa che la pioggia smettesse di cadere. Ma la pioggia non cessava e non cessavano neppure quei rumori spaventosi che ogni tanto sembravano esplodere dal cielo. «Mamma mia! Che paura!» strillò Laocoonte quando il cielo fece di nuovo quel rumore. «Non avere paura, sono soltanto tuoni che provengono dalle nuvole!» disse una voce vicino a Laocoonte. «Chi ha parlato? Non vedo nessuno qui vicino a me!» disse Laocoonte ancor più spaventato. «Non mi vedi perché sono del colore delle foglie, sono diventata verde, per nascondermi!» rispose la voce. Guardando meglio Laocoonte si accorse che proprio vicino a lui c’era un altro camaleonte tutto verde. «Anche tu sei verde come me!» disse il nuovo camaleonte. «Mi chiamo Flora» disse, «E tu?»
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Intanto la pioggia aveva smesso di cadere e il cielo cominciava a tornare sereno. Flora uscì da sotto la foglia e chiede si nuovo: «Come ti chiami?». Laocoonte non aveva mai visto una camaleonte tanto bella e si accorse che da verde era diventato tutto rosso per l’emozione. «Mi chiamo Laocoonte» rispose. «Un bel nome per un camaleonte!» disse Flora, «giochiamo insieme?». «Sicuro!» rispose Laocoonte. Tutto rosso e beato pensò: “Forse mi sono innamorato”.
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Il potere della fantasia Nicoletta Verzicco Nella stanza di Giulia troneggia un pacco, un enorme pacco rosso. E’ talmente grande che le sue cose, i suoi peluche, i suoi giocattoli, il suo letto, la sua scrivania sembrano ammassati ai lati della stanza, spinti e addossati alle pareti come se il pacco si fosse fatto largo all’interno della camera. Non si sa come possa essere entrato nella stanza perché esso è più grande della porta, che sia una magia? Mah! La carta con la quale il pacco è stato confezionato non permette di capire se sia una scatola di cartone o qualcosa d’altro, l’unica cosa certa è che di quel pacco non c’è alcuna certezza. Giulia? Giulia dov’è oggi? Giulia è da un’amica e tornerà fra poco. Eccola! Sento la chiave che gira nella serratura. La porta si apre, Giulia accende la luce nel corridoio, si toglie il cappotto e lo appoggia all’appendiabiti. Va in cucina, prende un bicchiere, apre il frigorifero, afferra la bottiglia dell’acqua, riempie il bicchiere, ripone la bottiglia, chiude il frigorifero e si dirige verso la sua camera…. …..accende la luce…. …..la sua bocca si apre senza emettere un suono, i suoi occhi si spalancano e rimane lì, immobile ed esterrefatta a pochi centimetri da quel pacco che ha preso possesso della sua stanza. «Cos’è?» dice con un filo di voce. Giulia guarda la sua camera, guardare effettivamente è difficile, tutto si è come…. come rimpicciolito, si vede solo quell’enorme, maestoso, imponente pacco rosso. Dopo i primi attimi di smarrimento Giulia torna in cucina per appoggiare il bicchiere. «Sicuramente ho sognato ad occhi aperti, tornerò di là e sarà tutto come sempre». Si passa una mano sul viso e si dirige nuovamente verso il suo rifugio, la sua stanza. «Santo cielo!» Il pacco è lì, altro che sogno! Giulia si avvicina ad esso e cerca di osservare attentamente la carta rossa brillante che tinge tutta la stanza. Le pareti appaiono rosa, un rosa macchiato dalla luce rossa che si riflette dalla carta con cui è confezionato il pacco, tutto ha assunto quel colore quasi come se il luogo in cui troneggia facesse parte di esso. Giulia non riesce a vedere la parte superiore del pacco, lei è più piccola. “Tornerà papà” pensa “e mi aiuterà ad aprirlo”. “Forse è papà che lo ha portato qui. Ma certo! Papà ha voluto farmi una sorpresa. E che sorpresa!” Giulia si siede sul tappeto e aspetta. Guarda il pacco con curiosità e la curiosità ha ormai preso il posto dello stupore. «Che cosa ci sarà dentro? E’ talmente grande! Forse ci sono tante cose o forse un enooooooorme peluche!» «Magari ci sono i colori, il cavalletto da pittore e le tele che chiedo da qualche tempo. »
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«Ma sono oggetti piccoli! Forse ci sono il cavalletto, i colori, le tele, il peluche e….anche la bicicletta che mi serve e forse anche dei vestiti. Ideeeaaa! » «E se ci fossero i mobili nuovi per la mia camera? Certamente ci starebbero lì dentro». «Mi sa che ho scoperto cosa contiene questo enorme pacco! Sì, però sarebbero smontati, anche il letto…smontato. E se nel pacco ci fosse un animale? No! Si muoverebbe, sentirei qualche rumore e invece niente». «Tante caramelle e cioccolata? No!» Sorride Giulia «Sarebbero talmente tanti che potrei aprire un negozio e venderli». «E se nel pacco ci fosse anche qualcosa per papà e mamma? Potrebbe essere, è tanto grande». Giulia è ormai ammaliata da quella carta lucida nella quale vede riflessa la sua immagine. E’ talmente immersa nel fantasticare sul contenuto del pacco che si è dimenticata delle sue dimensioni. Ha ormai scordato gli interrogativi del “come” “quando” e “chi”. Giulia si alza e, faticosamente, prova a girare attorno al pacco. Lo tocca. Si avvicina ad esso e appoggia un orecchio per ascoltare eventuali suoni all’interno. Resta appoggiata alla carta rossa, in attesa, senza quasi respirare. Silenzio assoluto. Prova a spostarlo. Troppo pesante, troppo grande, troppo alto…troppo! Giulia prende dal letto il suo amico orso, lo abbraccia e con esso si siede nuovamente sul tappeto, vicina al pacco. “ Potrebbero esserci tanti pacchi e in ogni pacco qualcosa di interessante. Non è una cattiva idea! O magari
c’è un pacco e dentro il pacco un pacco più piccolo, poi un altro più piccolo e così
via…divertente...ed ogni pacco ha un colore diverso...bello!” Giulia ha gli occhi che brillano, riesce quasi a vedere ciò che immagina, vede i colori delle cose, la forma di esse, lei stessa è, con l’immaginazione, dentro il pacco. Attorno a lei le cose hanno perso di importanza perché anche il più piccolo oggetto conosciuto è diventato qualcosa di misterioso, impacchettato da una carta rossa. Pensa Giulia: “Credo che qui dentro potrebbe esserci una casetta tutta per me, ci starebbe e papà potrebbe aiutarmi a sistemarla qui, nella mia la stanza. Potrei metterci la scrivania. Anzi….no! Meglio ancora potrebbe diventare il mio vero rifugio, ci metterei tutte le mie cose più preziose...e tutti dovrebbero bussare alla porta della casetta prima di entrare…bellissimo! Non mi farei trovare…mai! Solo quando vorrei io! Sì, sì. Ci deve essere per forza una casetta, la mia!” “Però…non sarebbe male se ci fossero un po’ di libri lì dentro, sarebbero così tanti che per moltissimo tempo non dovrei chiedere a papà e mamma di comprarmene. E se ci fossero, invece, tante cose per la mamma? Sarei contenta, potrei vedere la sua gioia ed io ne sarei tanto felice. Il pacco è nella mia stanza, ma io non voglio essere egoista. Mi piacerebbero troppe cose…ma quando arriva papà?” Giulia si alza, esce dalla sua stanza con il suo orso accoccolato in braccio.
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Torna indietro di scatto quasi per paura che il pacco svanisca. Il pacco è ancora lì Giulia, non preoccuparti. Giulia va in salotto e guarda l’orologio. «Fra poco arriva papà e mi aiuterà ad aprire il pacco». Poco dopo suona il campanello. «E’ lui!» «Papà? Sei tu? Vieni su, fai presto!» Si apre la porta e Giulia come un fiume in piena racconta al papà ciò che c’è in camera sua. «Giulia, per favore, non esagerare con la fantasia!» «Papà, è tutto vero! Vieni con me, ti prego!» Il papà fa un sospiro e con la mano nella mano di Giulia si lascia, letteralmente, tirare verso la camera. «SANTO CIELO! MA E’ VERO! GIULIA! CHI E’ STATO????» Il papà di Giulia è un po’ arrabbiato. «Adesso Giulia mi devi dire chi hai fatto entrare in casa? Ti ho insegnato e raccomandato centinaia di volte che non devi assolutamente aprire la porta di casa a chicchessia! E poi…come ha fatto ad entrare questo pacco qui dentro? E’ più grande della porta!». Giulia sorride. «Papà, io non ho fatto entrare proprio nessuno. Lo sai che sto attenta e sono ubbidiente. Quando sono tornata a casa il pacco era già qui!». «Dai Giulia, non vorrai farmi credere che questa…”cosa” sia entrata dalla finestra??». «Papà, ti giuro che io non so da dove venga, non so chi l’abbia portato, non so cosa sia, non so….!» Il papà di Giulia è stupito, allibito, non sa cosa pensare. Osserva quella…che lui definisce….”cosa” poi guarda Giulia che ricambia lo sguardo con occhi sprizzanti curiosità e saltando e battendo le mani: «Dai papà! Dai dai! Ti prego, apriamolo!». «Giulia, in realtà, non so se possiamo farlo. Guardiamo se c’è un biglietto». Anche lui si è dimenticato ormai gli interrogativi “come”, “quando”, “chi”. Il papà di Giulia sale in piedi sul letto e a malapena riesce a vedere sopra il pacco…niente! Nessun biglietto. «Prendo le forbici Giulia, aspetta». Tornato con le forbici inizia a tagliare la carta rossa brillante del pacco e, aiutato da Giulia, la strappa per poter vedere se ci sia una scatola con un coperchio. Mano a mano che la carta è strappata, tutto nella stanza torna al suo colore naturale e più nessuna macchia di rosso brillante si riflette sugli oggetti, sui giochi, sui peluche. Tutto riprende il suo colore originale, tutto ritorna normale. Sotto la carta effettivamente c’è una scatola bianca con tanti punti di domanda….? ? ? ? ? ? ?? ? ? ? ??? ? ?? ?? una infinità di punti di domanda! La curiosità cresce in Giulia e nel suo papà. «Come facciamo ad aprirla? Proviamo a togliere il coperchio?». «Sì papà».
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Il papà sale nuovamente sul letto e con difficoltà apre la scatola. Il papà osserva nella scatola, all’interno è buio, pian piano la luce vi filtra e…«E’ vuota! No! C’è un biglietto sul fondo!» «Prendilo papà, per favore!». «Come faccio? Dovrei entrare nella scatola per prenderlo...però…ho un’idea! Vieni qui Giulia! Adesso Giulia ti sollevo, ti faccio entrare nella scatola, prendi il biglietto e poi ti faccio uscire». «Sì papà, splendida idea!» Il papà solleva Giulia, e la pone letteralmente dentro il buio, ormai non più tale, di quella “cosa” tanto misteriosa. «L’ho preso!» «Bene tesoro. Ti faccio uscire» Con il biglietto stretto nelle sue mani Giulia si sente tanto piccola lì dentro. Le sembra di essere in un altro mondo, ma allo stesso tempo, si sente protetta. In quella scatola è tutto ovattato; lo sono i rumori, le luci ed anche i pensieri, Giulia non vorrebbe più uscire. Ma…..il biglietto…..cosa ci sarà scritto nel biglietto? Guardando in alto vede il viso del suo papà che la osserva protettivo e, allo stesso tempo, desideroso di sapere. Il papà la solleva di nuovo e Giulia è fuori. «Dai tesoro! Non sto nella pelle!» Giulia sorride e pensa…”Anche i “grandi” sono curiosi, anche i “grandi” a volte sono come i “bambini”” «Dai papà, vieni, sediamoci!» Quel biglietto è un foglio, in realtà, chiuso con minuziosità. E’ un foglio bianco, i caratteri sono bellissimi ed il loro colore è rosso. «Su papà, leggi, dai!» Il papà legge: “ Questa scatola è “il” dono. Questa scatola contiene la fantasia. Questa scatola accoglie tutti i tuoi pensieri. La sorpresa è più bella del desiderio, ciò che si spera non sempre si realizza. I tuoi pensieri, ciò che hai sperato ci fosse qui dentro non si è materializzato, ma mai come oggi hai potuto sognare, fantasticare, sperare. Sì, questa scatola è il dono. Questa scatola contiene la magia del sogno e della fantasia che non devono mai morire. Questa scatola sarà tua per sempre e ti aiuterà a ricordare che vivrai veramente la tua vita se continuerai a sognare.” PFFFFFFFFF! Per magia la scatola si rimpicciolisce, la carta rossa brillante si ricompone e riappare come un oggetto meraviglioso…la scatola dei desideri! Suonano alla porta.
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«Papà, è la mamma!» Giulia è stranamente felice, non importa che nel pacco non ci fosse ciò che lei aveva immaginato. La magia esiste, la magia è dentro di noi. «Maaaammmmmaaaa! Non crederai mai che cosa è accaduto oggi! Adesso ti racconto……»
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La capra e il sole Sara Balestra C’erano una volta tante e tante stelle. Erano a milioni e brillantissime, tutte quante. Ognuna di queste stelle si affacciava su un mondo fatto di pianeti e una di loro in particolare era molto cara ad un pianeta che si chiamava terra, sul quale abitavano tante creature che tra loro si chiamavano uomini o animali. Gli uomini e gli animali ogni giorno guardavano felici quella stella brillante che splendeva durante il giorno e decisero di chiamarla Sole. «Com’è bello il sole!» Diceva una capretta mentre brucava l’erba. «Sei sempre la solita sciocca» – le disse un serpente che la guardava mangiare, mentre lui penzolava lentamente da un grande albero – il sole non è bello! «Come non è bello, guarda!» «Sei sempre la solita sciocca, il sole non si deve mai guardare altrimenti ti fa male agli occhi. Sai cosa ti dico invece, il sole non è affatto bello, il sole non serve a nulla! Se lo guardi dritto dritto fa male agli occhi, d’estate scotta tanto e bisogna sempre stare attenti a coprirsi dai suoi raggi… a volte è poi così prepotente che non fa mai spazio alla pioggia e senza acqua tutte le piante si seccano, anche l’erbetta che tu ami tanto mangiare». La capretta non sapeva che dire. Lei amava il sole, ma il serpente pareva così sicuro e sembrava saperla molto più lunga di lei. Quella sera s’incamminò verso casa molto pensierosa. Si accuccio nella sua tana ed invece di dormire pensò alla notte. «Di notte il Sole non c’è e tutto continua a vivere. I fiori ci sono anche col buio. Gli alberi pure. Gli orsi e i lupi anche. L’erbetta rimane sempre al suo posto. Il fiume continua a scorrere. E quando c’è la luna piena c’è una luce così forte che quasi quasi si potrebbe uscire dalla tana come se fosse giorno. Non è che il serpente.. oh oh!forse il serpente ha davvero ragione! Ho deciso, domani parlerò con gli altri animali e se saranno d’accordo con me, per il sole non ci sarà più posto». La mattina dopo la capretta si alzò di buon umore e, sicura di sé, si avviò verso le rive del grande Lago dove tutti gli animali si ritrovavano la mattina presto per bere l’acqua fresca. «Buongiorno a tutti» – belò – «Come va? Che bella giornata vero? Ma da domani tutto potrebbe essere ancora più bello... » «Ancora più bello?» – le chiese l’anatra. «Certo, però solo se manderemo via il sole!» «Mandare via il sole? Ma che dici!» – grugnì l’orso. «Perché no? A cosa ci serve il sole!Se lo guardiamo dritto dritto ci acceca con la sua luce, d’estate scotta tanto che dobbiamo rimanere tutto il giorno nelle nostre tane, a volte poi è così prepotente che non fai mai spazio alla pioggia e senza acqua tutte le piante si seccano». Gli altri animali cominciarono a bisbigliare e a confabulare fra loro.
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«E poi pensateci bene» belò fiera la capra con la voce sicura di chi ha capito tutto nella vita «ci rimane sempre la luna che quando è piena illumina il mondo come se fosse giorno. Il sole non ci serve, pensateci bene». Quella notte gli animali si incamminarono verso casa pensierosi. Si accucciarono nelle loro tane ed invece di dormire pensarono a ciò che la capra aveva detto. Pensarono soprattutto alla luce della luna e se sarebbe potuta bastare loro per vivere felici. In più quella notte, quasi si sentisse osservata, la Luna diede il meglio di sé, sprigionando tanta luce che, riflessa nel grande lago, illuminò così tanto la foresta che sembrava quasi una città con accessi un milioni di lampioni. La mattina dopo gli animali si svegliarono di buon umore e sicuri di loro si ritrovarono tutti al grande lago. «Buongiorno a tutti» belò la capra «avete dormito bene questa notte? Avete visto quanto splendeva la luna?» «Sì, Sì» risposero tutti gli animali in coro. «Pensiamo tu abbia ragione capra» disse l’orso a nome di tutti «dunque ti incarichiamo di andare a parlare col sole. Spiegagli il nostro punto di vista e, gentilmente mi raccomando, chiedigli di andare da un’altra parte nello spazio». La capra si sentì orgogliosa di avere avuto lei quella splendida idea che avrebbe reso tutti più felici. Partì allora al trotto e cominciò a scalare veloce la montagna per arrivare in alto in alto, là dove il sole l’avrebbe potuta sentire. Arrivata in cima belò: «Sole! Sole! Mi sente?» «Chi mi chiama… ah… buon giorno capra, che piacere vederla, qual buon vento la portata fin quassù?» disse il sole con il suo fare educato. «Mi spiace disturbarla, ma ho una richiesta da farle e a nome di tutti gli animali.» «Prego, se posso aiutarvi lo farò volentieri ». «Ecco» tentennò la capra «volevo riferirle che ci siamo consultati e… dopo tanto parlare e riflettere e pensare… siamo arrivati alla conclusione che… insomma…» «Avanti capra non sia timorosa». «Ecco, noi vorremmo che lei, che lei…» «Che io? » «Che lei…ma a lei piace qui? Non è che per caso ci sarebbe qualche altro pianeta su cui le piacerebbe andare a splendere con i suoi potenti raggi?» «Ma veramente qui mi trovo molto bene, voi no?» «Certo, io e tutti gli animali ci troviamo bene ma vorremmo che lei…insomma che lei se andasse. La prego ora non mi guardi così, cerchi di capirci… Se la guardiamo dritto dritto ci acceca con la sua luce, d’estate scotta tanto che dobbiamo rimanere tutto il giorno nelle nostre tane, a volte poi lei è un po’ prepotente e non fa mai spazio alla pioggia e senza acqua tutte le piante si seccano. Anche l’erbetta che mi piace tanto». «Capisco» disse il sole con voce triste «ma come farete senza il giorno?»
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«Guardi, ci basterà la luna». Il sole, non disse più nulla, girò le spalle alla capretta e guardando verso lo spazio se ne andò via deciso a raggiungere le stelle sue sorelle. Di colpo la notte calò sul mondo, sulla foresta e sul grande lago. Ma non era la notte che tutti si aspettavano. Era buia, così buia che più buia di così proprio non lo si riesce a immaginare. Nessuno vedeva più nulla. Il fiume, i fiori, l’erbetta probabilmente c’erano ancora, ma nessuno li vedeva più. La capra a fatica riuscì a scendere dalla montagna e a tentoni cercò di raggiungere il grande lago. Anche gli altri animali fecero lo stesso. «Capra! Ma che è successo? » urlavano tutti, spaventati e arrabbiati. Capra non sapeva che dire. «Amici miei non capisco, davvero non capisco. Io ho detto a Sole di andarsene, ma non a Luna, non capisco dove sia finita». «Sei sicura di avere fatto bene? Lo sappiamo tutti che sei un po’ scorbutica a volte, e magari senza volerlo hai parlato male di luna e lei ti ha sentito». «Parlare male? Io? Ma quando mai? Io non ho mai parlato male di nessuno». «Veramente del sole l’hai fatto» disse ridendo il serpente. Capra rimase zitta e pentita di tutto quello che aveva detto. Aggiunse però: «Comunque luna doveva rimanere…» «Ma io sono qui» disse una vocina leggera leggera. Era luna e se ne stava lì al buio come tutti gli altri. «Che fai al buio?» belò la capra un po’ seccata «cosa aspetti ad illuminarti? ». «Io non posso illuminarmi da sola, la luce che vedete la notte me la presta il sole, non lo sapevate?» Nessuno lo sapeva, né l’orso, né il lupo e nemmeno il serpente. Ed ora? Come avrebbero fatto? Bisognava assolutamente richiamare il sole indietro, ma oramai se ne stava nello spazio insieme a tutte le altre stelle e lì nessuna montagna poteva arrivarci. Fortunatamente la capra era una tipa tosta che non si lasciava abbattere dalle difficoltà così pensa e ripensa, rifletti e rifletti ancora, metti in piedi idea su idea.. «Ah ecco la soluzione! Idee su idea, dobbiamo tutti salire sulla montagna, metterci uno sulla groppa dell’altro e, se ancora non basta, aggiungeremo tutte le scale, le sedie, i sassi e qualunque cosa possiamo trovare». Gli animali non se lo fecero ripetere due volte e in men che non si dica si trovarono tutti uno sull’altro, formando una scala che sembrava non finire più ed in cima stava la capra con la bocca aperta e gli occhi stupiti man mano che saliva, perché lo spazio non lo aveva mai visto da così vicino. C’erano tante e tante stelle. Erano a milioni e brillantissime, tutte quante. Ognuna di queste stelle si affacciava su un mondo fatto di pianeti e una di loro in particolare era molto bella e luminosa, era la più illuminata e la più triste di tutte e si chiamava sole. Capra raggiunse sole e gli fece un sorriso, poi disse: «Ci siamo veramente sbagliati di grosso, senza di te nulla può esistere amico sole. Torna con noi».
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Sole fu stupito di vedere capra nello spazio e ancora di più lo fu a vedere quella enorme piramide che gli animali avevano formato per raggiungerlo. Questo bastò a convincerlo che davvero i suoi amici lo volevano ancora con loro e pochi minuti dopo con i suo raggi illuminava la più bella giornata di sole che si fosse mai vista. «Com’è bello il sole! » Diceva dunque una capretta mentre brucava l’erba.
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Pubblicato a Santarcangelo di Romagna a cura dell’ Istituto dei Musei Comunali ottobre 2012
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