Mr Sbatticuore cerca casa

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Prologo

Era il periodo più bello, il periodo più bollente... Dicembre Non avevo mai passato un Natale lontano dalla mia famiglia. Il Natale per me significa famiglia: quella d’origine, quella allargata e, più tardi, quella creata. Parenti e amici si riuniscono, gli alberi vengono addobbati, i regali incartati, il liquore preparato... e consumato senza remore. È un puro Norman Rockwell, con tanto di zio ubriaco. Non lo cambierei con niente al mondo. A parte quell’anno. Quel Natale era stato tutta un’altra cosa. Sempre Rockwell, ma con un retrogusto di Sbatticuore. Come fotografo freelance, Simon aveva un mestiere davvero cool. Girava il mondo per il “National Geographic”, per il Discovery Channel o per chiunque avesse bisogno di mandare un fotografo nei luoghi più remoti del pianeta. Quel Natale doveva immortalare le città europee nel pieno delle feste, e sarebbe stato via per quasi tutto il mese di dicembre. Da quando eravamo ufficialmente diventati un “noi”, avevamo stabilito una nostra routine. Lui aveva continuato a viaggiare per lavoro, in tutto il mondo: Perù, Cile, Inghilterra, persino un weekend lungo a Los Angeles per scattare un servizio alla Playboy Mansion... Una faticaccia, già. Ma quando il mio Sbatticuore giramondo era a casa, era a casa davvero. A casa con me, nel mio appartamento o nel suo. A casa con me per cenare con Jillian e Benjamin, o giocare a poker con 7

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le altre due coppie dei nostri migliori amici. A casa con me, nel mio letto o nel suo, nella mia cucina o nella sua, sul mio piano da lavoro o sul suo... a casa, insomma. A quanto pareva, però, a Natale, Simon era sempre via. Aveva accettato lavori a Roma, per gli scatti della messa in piazza San Pietro. Nelle isole Vanuatu del Pacifico meridionale, il primo fuso orario a festeggiare. Un anno era persino andato al Polo Nord, e a mezzanotte si era rotolato nella neve. Strano, dite? Non proprio. I suoi genitori erano morti in un incidente d’auto quando era all’ultimo anno delle superiori. A diciotto anni, tutto il suo mondo era stato stravolto. Non avendo altri parenti, aveva lasciato Filadelfia pochi mesi dopo per andare a studiare a Stanford, e non si era più voltato indietro. Insomma, Natale per lui era un momento delicato. Iniziavo a capire il mio Sbatticuore, al di là dell’uomo, del mito, della leggenda. Le feste in generale erano spinose. E dato che eravamo una coppia così recente, il Natale con i miei sarebbe stato un vero e proprio affare di Stato. Lui non li aveva nemmeno conosciuti, e forse un Natale con la famiglia Reynolds non era il momento migliore per fare il grande passo. Dunque, non restai sorpresa quando iniziò a progettare di stare via per tutto il mese. La sorpresa fu tutta sua quando, con una certa faccia tosta, mi autoinvitai. «Da Praga andrò a Vienna, poi a Salisburgo, dove probabilmente passerò il Natale. Hanno un festival in cui...» «Vengo.» «Di nuovo? Caspita, sono proprio uno schianto. Abbiamo finito un’ora fa...» Una delle sue splendide mani si appoggiò tra le mie gambe. Eravamo sdraiati a letto, in una sera di inizio dicembre. Lui era a casa per pochi giorni tra un viaggio e l’altro, e ci stavamo coprendo di coccole. «No, caro, voglio dire che vengo in Europa con te. Mi piacerebbe passare effettivamente insieme il nostro primo Natale insieme. Sarebbe divertente!» «E i tuoi genitori? Non ci resteranno male?» «Certo, ma se ne faranno una ragione. Ci sarà la neve?» «Neve? Oh sì, sicuramente. Ma sei sicura? Ho passato quasi sempre il Natale da solo negli ultimi anni. Non è un gran problema. Non mi dispiace stare solo» disse, senza incrociare il mio sguardo. 8

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Sorrisi e gli sollevai il mento. «A me invece dispiace, okay? E poi ho una settimana di ferie tra Natale e Capodanno, quindi vengo. È deciso.» «Sei prepotente, Miss Reynolds» osservò, spostando la mano decisamente a sud dei miei fianchi. «Sì che lo sono, Mr Parker. Non smettere di fare quello che stai facendo... mmh...» E fu così che mi trovai proiettata in una favola natalizia. Volai a Salisburgo, dove alloggiammo in un romantico alberghetto nel centro storico: la neve cadeva, gli alberi erano illuminati da migliaia di lucine bianche e Simon era adorabile nel suo berretto da sci con un pompon in cima. Volendo fare il turista da perfetto turista, aveva organizzato una corsa su una slitta trainata da un cavallo, con le campanelle tintinnanti. La vigilia di Natale, raggomitolata su Simon sotto una calda coperta, intravedevo dalla finestra la città e il riflesso della luna sul fiume. «Sono così felice che tu sia qui» sussurrò, per poi mordicchiarmi l’orecchio. «Sapevo che lo saresti stato.» Feci una risatina mentre lui mi infilava una mano sotto il maglione. «Ti amo» mormorò, la voce piena di dolcezza. «Io di più» risposi, con gli occhi lucidi. Nuova tradizione? Chissà... 14 febbraio sms

da Simon a Caroline:

Ho appena parcheggiato, sei pronta? Quasi. Mi devo ancora vestire. Vieni pure. Sto salendo. Faremo tardi. Non è vero. Basta che tieni su i pantaloni. Questa non l’ho mai sentita. Piantala di prendermi a calci la porta ed entra! 9

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Schiacciai invia, poi mi appoggiai al ripiano della cucina. Sentendo la sua chiave girare nella serratura, soffocai una risata. Dovevamo incontrare la banda per una cena romantica di lì a venti minuti. Con il traffico, avremmo avuto fortuna se ce l’avessimo fatta in quaranta. Con un po’ di fortuna in più, non saremmo arrivati per niente. «Piccola! Che stai facendo? Dobbiamo andare» chiamò. Sentii che lasciava cadere la borsa nell’ingresso. Quando fu nel corridoio, feci un sospiro teatrale e risposi: «Non ho più voglia di uscire stasera. Non mi sento troppo bene». Lo sentii fermarsi, e avrei scommesso la mia casseruola Le Creuset che si stava passando la mano tra i capelli, deglutendo. Lo avevo tormentato per settimane perché mi portasse fuori a San Valentino, e avevo insistito per passare la serata con i nostri amici. Ma era tornato appena da una settimana, e sapevo che aveva solo voglia di stare in casa, a oziare sul divano e dormire con la sua ragazza. “La sua ragazza.” Quando penso a queste parole, mi viene ancora la pelle d’oca. Sono la ragazza di Simon. Un tempo era il sultano dell’harem, e adesso sono la sua ragazza. Così, dopo averlo punzecchiato da metà gennaio perché si assicurasse di essere a casa per San Valentino, e aver trascorso ore al telefono con Sophia e Mimi a progettare la perfetta serata romantica, la mia decisione dell’ultimo minuto di restare a casa doveva spingerlo a chiedersi perché mai avesse voluto una ragazza. «Sei sicura? Pensavo che ci tenessi a...» Entrando in cucina, restò di sasso. Ero appollaiata sul bancone, con indosso un grembiule, un sorriso, e i tacchi a spillo. E una torta di mele in grembo. «Ci tengo a festeggiare» gli dissi. «Non però in un ristorante affollato. Come potrei presentarmi vestita così?» Saltai giù dal bancone e mi girai. Eh, già, indossavo il grembiule, e solo quello. E le scarpe... non dimentichiamo le scarpe. «Caroline. Accidenti» farfugliò. Il mio sorriso diventò ancora più grande. «Ho una cosa deliziosa per te.» «Non ne dubito.» 10

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«Sciocchino, ho cucinato per te. La tua amata torta di mele. Devi solo venire a prenderla.» Staccai un pezzo di crosta e la passai nella poltiglia zuccherata alla cannella che colava dai bordi. Voleva prima la torta, o moi? Risultò che voleva entrambe. Aprile «Insomma, ormai pensavo che stessimo facendo progressi. Guardiamo insieme il baseball, ogni tanto ti faccio avere il burro di arachidi, e tu mi combini una cosa del genere? Perché? Perché continui a farlo? E soprattutto, perché io continuo a permettertelo?» Ero in cima alle scale, quando sentii la conversazione filtrare dal mio appartamento. Simon era a casa da solo, forse al telefono. Una volta dentro, però, sbirciai dall’angolo e lo vidi seduto al tavolo, di fronte al mio gatto, Clive, la sua felpa di Stanford in mezzo. Clive aveva “marcato il territorio” su quella felpa diverse volte all’inizio della nostra storia, ma da qualche tempo non aveva più sentito il bisogno di ricordare a Simon che il vero uomo di casa era lui. Pensavamo entrambi che l’avesse finita con quelle sue marachelle. A quanto pareva, non era così... Soffocai una risata per la serietà con cui Simon guardava Clive, e la scarsa serietà con cui Clive sembrava prendere la faccenda, dato che sbatteva la coda quasi fosse staccata dal corpo. Tornai indietro in silenzio, e poi armeggiai rumorosamente con la maniglia, per avvertire i due che ero a casa. Quando feci ritorno in soggiorno, trovai Simon intento a leggere il giornale come se niente fosse. Non accennò alla conversazione che aveva avuto con il gatto. Per rispetto della sua dignità, finsi di non notare, qualche ora dopo, la felpa nel cestino della spazzatura. Maggio Un rumore riecheggiò nella camera da letto, lacerando il buio e martellandomi i timpani. Uno stridore assordante, un frastuono di origine ignota mi strappò ai miei sogni su Clooney. Stavo soffocando, con un corpo molto caldo avvolto al mio, da dietro, 11

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e quegli orribili rumori che si riversavano fuori dalla sua bocca, trapanandomi il cervello. Cercai un punto fresco sul cuscino, ma il suo calore mi arrivava a ondate, mentre il suo russare – santo cielo, quanto russava! – mi rimbombava dentro. Persino Clive aveva ripiegato in un rifugio sicuro in cima al cassettone. Con una perfetta mossa da stronzetta, caricai sulle gambe e calciai quella massa sudata e sonora che mi riempiva il letto e non mi lasciava dormire. «Uff!» Lui si svegliò di soprassalto, e senza volere premette ancora di più contro di me la pelle bollente. Io mi alzai dal letto e brandii il cuscino, che ormai aveva perso ogni centimetro di freschezza. «Piccola, che stai facendo? Mi hai dato un calcio?» Si rigirò come un millepiedi. «Devi smetterla!» urlai. «Smetterla? Di far cosa? Dài, su... torna a letto» mormorò, già scivolando nei sogni, dove sembrava far la parte del tagliaboschi. «Non ti azzardare a addormentarti! Devi. Smetterla. Di. Russare!» esclamai, furiosa dentro e fuori. Essere privata del mio prezioso sonno mi trasformava in un’indemoniata. «Russare? Andiamo, non può essere così grave, che cavolo!» Gli rubai il cuscino, facendogli rimbalzare la testa sul letto. «Se io non riesco a dormire, non dormirà nessuno! Fai un casino terribile, e poi sei bollente!» strillai. «Be’, del bollente sapevamo, no?» «Aaaarghh!» «Aspetta, hai la sindrome premestruale?» chiese lui, per poi assumere un’espressione spaventata, non appena si rese conto del suo errore. Simon finì la nottata al di là del pianerottolo, nel suo appartamento. Avevo bisogno di dormire. Luglio «Cielo, Caroline, è stato bellissimo.» «Eh, sì» miagolai, lo avvolsi con le gambe e lo strinsi ancora più forte, sentendo che si fermava dentro di me. Il suo respiro era sincronizzato con il mio, e si rilassava mentre gli grattavo 12

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la nuca e gli tracciavo piccoli disegni sulla schiena con le dita. Dopo qualche minuto, si appoggiò su un gomito e gli accarezzai i capelli. «Non sei venuta, eh?» «No, tesoro, ma è stato fantastico lo stesso.» «Fammi ricambiare» insistette e allungò la mano, restando sorpreso quando lo fermai. «Che c’è, piccola?» «Non ruota tutto sempre attorno a quello. Può essere comunque fantastico, sai? Certe notti, solamente stare qui, stare vicina a te è tutto quello che mi serve» dissi, attirandolo verso di me per un altro bacio, lento e dolce. «Ti amo così tanto» gli sussurrai nell’orecchio e il sorriso con cui rispose mi riempì il cuore. Dopo la Grande Latitanza dell’Orgasmo, così come, nella mia testa, era conosciuta a livello nazionale, adesso l’orgasmo era sempre a disposizione? No, certo, non ogni volta. Anche se quasi sempre, e spesso pure in versione multipla, e a volte si portava persino dietro il punto G. Quelle erano le notti in cui rischiavo di svenire dal piacere. Ma per quanto adorassi il sesso sul bancone della cucina, il sesso nella doccia, il sesso sul pavimento e il sesso sulle scale – be’, okay, quell’unico episodio di sesso sulle scale –, il sesso tradizionale restava il mio preferito. Quando Simon stava sopra, facendomi sentire tutto il suo peso e tutto il suo amore, dentro, e tutto intorno. E se di tanto in tanto O non si faceva vedere, per me andava bene lo stesso. Sapevo che sarebbe tornato. Simon tornò verso il letto portando con sé una bottiglia d’acqua, con Clive alle calcagna. Clive aveva la saggezza di stare alla larga durante i nostri incontri; una volta aveva attaccato, rischiando di beccarsi un calcio. Quindi adesso si teneva a debita distanza. Simon che andava a prendere l’acqua era il segnale che poteva tornare a farsi accarezzare. Quando Simon mi passò la bottiglia, accesi sul notiziario per vedere le previsioni del giorno seguente e capire se mi sarebbe servito un ombrello. Ognuno sul suo lato del letto, con Clive in mezzo a noi, guardammo il meteo. Le nostre mani erano strette attorno al cuscino nel mezzo. Davvero una favola. 13

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Agosto «Dài, so che muori dalla voglia di dirlo.» «Non penso che sia necessario, Caroline. I tuoi gemiti dicono tutto.» «No, no, so che lo vuoi dire. Avanti.» «Okay. Te l’avevo detto.» «Ti senti meglio ora?» «Sì.» «Bene. Adesso taci e lasciami tornare ai miei noodles.» Simon rise mentre mi gustavo il mio pho, una deliziosa zuppa vietnamita. Per anni avevo pensato che la cucina vietnamita non mi piacesse. Forse il fatto di mangiare il pho in Vietnam faceva la differenza. Ancora una volta, essere la ragazza di Simon si era rivelata una fortuna. Mi aveva invitato a seguirlo in un viaggio nel Sudest asiatico: Laos, Cambogia e per finire Vietnam. Non mi ero potuta unire a lui nel suo lungo viaggio, ma riuscii a incontrarlo ad Hanoi e a passare una settimana con lui mentre scattava per il “National Geographic”. Visitammo città e villaggi, spiagge sabbiose e silenziose montagne. Ogni giorno mangiavamo cibi deliziosi, e ogni notte ci amavamo con passione. Il nostro attuale momento di gloria ci vedeva galleggiare nella Baia di Ha Long, consumando un pasto delizioso che era stato cucinato sulla houseboat in cui dormivamo. Guardai le isolette, che spezzavano la superficie dell’acqua come groppe di dragoni emersi dagli abissi. Il sole stava tramontando, e per rinfrescarsi dal caldo afoso, Simon aveva fatto un tuffo dalla poppa della barca. L’acqua gli gocciolava addosso, i pantaloncini gli si appiccicavano alle gambe e il suo torso nudo mi faceva venire l’acquolina ancora più del pho, insomma, la vita era bella. Di tutti i viaggi che avevo fatto con lui, dai rapidi weekend alle lunghe vacanze in posti esotici, quello mi aveva conquistato più di ogni altro. Il Vietnam era magico, inebriante e splendido. Volevo già tornarci. Volevo che lui mi ci portasse di nuovo. Continuai a gustarmi i noodles mentre lui si stappava una birra, e gli sorrisi. I mesi passati insieme avevano creato un’intimità in cui non c’era bisogno di parole. Mentre mi giravo per guardare il tramonto, mi attirò sulle sue ginocchia. Eravamo caldi e 14

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appiccicaticci, salati per l’acqua e il sudore. Io vivevo in bikini verde e sarong da quasi due giorni, e lui mi avvolse i fianchi con le mani, affondando i pollici sotto la stoffa. «È bello, no?» chiese. «Troppo bello.» Guardai il sole affondare nella baia, poi mi girai a baciarlo, sentendo le farfalle che non erano più andate via dal mio stomaco. Speravo che non lo avrebbero mai fatto. Settembre «Ehi.» «Ehi, tu.» «Sei sveglia?» «Non proprio. Aspetta, cosa ci fai qui?» «Ho preso il volo prima. Mi mancavi.» «Mmh, anche tu mi mancavi.» «Vediamo un po’, Caroline. Cosa indossi... o non indossi?» «È troppo caldo per i vestiti.» «Ottima cosa» sussurrò. Il calore del suo corpo sdraiato dietro di me era celestiale nonostante l’afa. Le sue mani si spostarono lungo i miei fianchi, facendomi inarcare mentre gemevo alla sensazione di lui, il mio corpo già pronto a rispondere al suo tocco sulla pelle. Si fermò un attimo per spogliarsi e io mi spinsi contro il suo corpo quando tornò di nuovo vicino, ansioso e pronto ad amarmi. Mi accarezzò il seno, con movimenti decisi ed eccitanti. Conosceva la reazione istantanea che avrebbe suscitato. Infilandosi tra le mie cosce, mi mise una delle gambe sopra la sua, aprendomi per lui. «Sì?» chiese, il suo respiro caldo nel mio orecchio. «Sì.» Annuii, allungando una mano per toccarlo, le mie dita tra i suoi capelli. Con un grugnito, affondò dentro di me. Sospirai sentendo che, insistente e tangibile, era tornato a casa.

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«Oh.» Sbam. «Oh, cavolo.» Sbam-sbam. «Caroline, non fare questi versi quando sono così lontano.» Simon ridacchiò con voce roca. Eccitante come non mai. «Stupido, sto solo rispondendo ai colpi sull’altro lato del muro.» «Chi c’è dall’altra parte del muro?» «Il tizio con il martello. Dovresti vederlo. È enorme.» «Dovrò chiederti per favore di non parlare del martello degli altri.» «E allora torna a casa e tramortiscimi con il tuo.» Risi, chiudendo la porta del mio ufficio per attutire il rumore. Comunque, non sarebbe rimasto il mio ufficio ancora per molto. Stavo per trasferirmi, anche se solo dall’altra parte del corridoio. Era quello il motivo dei colpi sul muro: la ristrutturazione del mio nuovo spazio. Ufficio più grande, ufficio all’angolo – una bella fortuna! – proprio di fianco a quello di Jillian, mio capo e proprietaria dello studio. Migliore vista sulla baia e quasi due volte le dimensioni del mio ufficio di prima, con una piccola anticamera per un’eventuale futura stagista. Un giorno forse avrei avuto una mia stagista. Com’era possibile che quella fosse proprio la mia vita? «Domani sarò a casa. Pensi di poter rimandare ad allora i 17

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tuoi pensieri sul mio martello?» mi chiese. Guardai il calendario sulla scrivania, dov’era cerchiata la data del ritorno di Simon. «Farò del mio meglio, tesoro, ma dovresti vedere quant’è grossa la sua cintura degli attrezzi. Non ti prometto niente.» Simon grugnì e io risi ancora più forte. Adoravo torturarlo da un fuso orario all’altro. «E non dimenticare il mio regalo.» «L’ho mai fatto?» «No, sei un tipo premuroso, vero?» «Tu invece non dimenticare il mio» disse, di nuovo con la voce roca. «Il babydoll rosa è pronto; quando torni a casa, ci sarò dentro.» «E poi ci sarò dentro io, e sopra, e sotto, e... ops, devo andare, è arrivato il taxi.» «Continueremo il discorso di persona. Ti amo» dissi. «Anch’io, piccola» rispose, e riattaccò. Fissai un attimo il telefono, immaginando Simon dall’altra parte del mondo, a Tokyo. In pochi mesi aveva accumulato più miglia aeree di quante le persone ne accumulassero in una vita, ed era già prenotato fino alla fine dell’anno. Stavo ancora sorridendo al telefono quando Jillian bussò e si intrufolò dentro, andando a sedersi all’angolo della mia scrivania. «Hai qualcosa in mente, Jillian?» domandai, togliendo un petalo marrone dal vaso di rose screziate color corallo vicino al punto in cui aveva posato il didietro foderato di cachemire. «Vedo che tu, piuttosto, hai qualcosa in mente. Era Simon, al telefono?» chiese, vedendomi sorridere. «Solo lui può farti risplendere così.» «Hai qualcosa in mente, Jillian?» ripetei, pungendola con la matita. «Ho una cosa in mente che potrebbe farti risplendere ancora di più, anche se adesso sei di un interessante color zuppa di pomodoro» mi prese in giro. «Il tuo fidanzato ti trova irritante come tutti quelli che lavorano per te?» «Molto, molto di più. Sei pronta per la grande notizia, o preferisci continuare con le tue insolenze?» «Spara» dissi con un sospiro. Adoro il mio capo, ma ha un gusto malato per i colpi di scena. Come l’anno scorso, quando si è divertita ad accoppiarmi con 18

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Simon, facendo la finta tonta fino all’ultimo. Ma il suo cuore era dalla parte giusta. Oltre ad appartenere al cento per cento a Benjamin, un venture capitalist. Stavano insieme da anni, e finalmente, entro poche settimane, avrebbero suggellato la loro unione, in un matrimonio che era sulla bocca di tutta San Francisco. Benjamin era un rubacuori patentato che rendeva me e le mie amiche svenevoli e balbuzienti ogni volta che si faceva vedere. Jillian sapeva che avevamo tutte una cotta non troppo nascosta per il suo uomo, e ogni volta che poteva la sfruttava per provocarci. Ora finalmente stava per sposare il nostro uomo dei sogni, e partire per una luna di miele da favola in Europa. «Allora, ricordi il lavoro che abbiamo fatto la scorsa primavera per Max Camden? La villa vittoriana sul mare, prima che sua figlia si sposasse?» «Sì, gliel’ha donata come regalo di nozze. A chi verrebbe in mente di fare una cosa del genere?» «A Max Camden, ecco a chi. Comunque, è proprietario del Claremont Hotel di Sausalito, e sta cercando un nuovo studio di design per rimetterlo a nuovo e dargli un sapore più moderno.» «Fantastico! Hai già fatto il progetto?» chiesi, visualizzando la proprietà. A pochi passi dalla strada principale di Sausalito, il Claremont era lì dall’inizio dell’ultimo secolo, uno dei pochi a sopravvivere al Grande Terremoto. «No, perché il progetto lo farai tu. Sarai la responsabile del lavoro, se riesci ad aggiudicartelo» spiegò. «Come pensi che possa sobbarcarmi un impegno del genere, subito prima del mio matrimonio? Non ho voglia di rinunciare alla luna di miele per lavoro... ho già rinunciato a troppe vacanze nel corso degli anni.» «Io? No, no, no, non sono pronta, tu non sei pronta per una cosa del genere, cosa ti viene in mente?» farfugliai, sentendo il cuore in gola. Stavolta si giocava pesante. «Per favore, ce la puoi fare.» Mi diede un calcetto. «Lo senti questo? È il mio piede, che ti calcia fuori dal nido.» «Mmh, sì, è da un po’ che sono fuori dal nido, ma stavolta è diverso» protestai, masticando la matita. Lei me la sfilò di bocca. «Pensi davvero che ti assegnerei questo lavoro se non fossi pronta? E dimmi la verità, non sei almeno un po’ tentata?» Mi aveva beccato. Avevo sempre sognato di occuparmi di un 19

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progetto così importante. Ma essere addirittura la responsabile della ristrutturazione di un hotel? «Mi rendo conto che ti chiedo molto... dovrai già mandare avanti la baracca quando sarò in viaggio di nozze. Pensi davvero che sia troppo tutto in una volta?» «Io... solo che... cavolo» risposi, facendo un respiro profondo. Quando mi aveva chiesto se potevo prendere in mano l’ufficio in sua assenza, si trattava di cose come assicurarsi che ogni sera fosse inserito l’allarme e che Ashley ordinasse il caffè solubile. La lista si era allargata in fretta a mano a mano che i progetti si accumulavano, ma era ancora tutto sommato gestibile. E questa novità? Contemplai l’idea per un momento. Ero in grado di farlo? Jillian sembrava pensare di sì. «Mmh...» Mi immaginai l’hotel: luce fantastica, posizione fantastica, ma aveva bisogno di un rimaneggiamento drastico. Stavo già pensando alle possibili palette di colori, quando lei mi diede un colpetto con la matita sulla testa. «Pronto, Caroline. Ci sei?» disse, agitandomi la mano davanti alla faccia. Sorrisi. «Ci sto, proviamoci» conclusi, la testa già piena di idee. Lei ricambiò il sorriso e mi diede un pugno scherzoso. «Dico alla squadra che sarai tu a fare la presentazione.» «Probabilmente, presenterò il mio vomito» dissi, scherzando solo a metà. «Basta che non stoni con le tende e siamo a posto. Ora festeggiamo scegliendo una canzone per la mia entrata in chiesa.» Tirò fuori l’iPod dalla tasca e iniziò a scorrere la sua playlist. «Era tra le mansioni previste dal mio ruolo?» «Che tu assecondi ogni mio capriccio? Sì, verifica pure il contratto. Dunque, mentre incedo verso l’altare, quale canzone dovrei...» Era impossibile fermarla una volta che era scivolata in modalità Wedding Planner, quindi mi rilassai, anche se la mia testa girava come una trottola. Era una commissione molto impegnativa, ma potevo farcela. Vero?

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Passai il pomeriggio a buttare giù un abbozzo di presentazione per Max Camden. Mentre guardavo foto d’archivio dell’hotel e della zona circostante, le idee iniziarono a fioccare. Seppure non ancora ben del tutto definite, delineavano quello che poteva essere un approccio abbastanza interessante per scommettere su una giovane designer. Sapevo che la forza delle mie idee sarebbe stata sostenuta dalla reputazione di Jillian; chiunque fosse abbastanza bravo da lavorare per lei di solito aveva qualche possibilità in più. Alla fine, però, si trattava solo di vedere chi avesse le idee migliori... e io volevo che il mio progetto fosse epocale. Mentre giravo la chiave nella serratura, ancora riflettendo sul progetto, sentii un tonfo sonoro, seguito da un clic clic clic che si avvicinava. Clive. Appena varcata la soglia, fui accolta dal mio splendido gattone, il mio piccolo frammento personale di paradiso felino. In un lampo di pelo grigio, le mie caviglie furono circondate da fusa e spintarelle insistenti. «Ehi, bel ragazzone, hai fatto il bravo oggi?» chiesi, chinandomi a grattargli la morbida pelliccia. Lui si inarcò contro il palmo della mia mano, come per rispondere sì, che era proprio un bel ragazzone, e aveva anche fatto il bravo. Rimproverandomi per averlo lasciato solo per mille anni, tubò e cinguettò, sospingendomi verso la cucina. Parlammo mentre gli preparavo la cena, compito per cui ero stata espressamente messa su questa Terra, e la nostra conversazione toccò i soliti argomenti. Quali uccelli aveva visto oggi dalla finestra, se da sotto il letto erano venuti fuori dei “gatti” di polvere, e se avrei trovato dei giochini nascosti nella punta delle mie ciabatte. Sull’ultima domanda, fece il vago. Una volta che i suoi croccantini furono nella ciotola, mi ignorò bellamente e andai in camera per mettermi qualcosa di comodo. Togliendomi il dolcevita, mi avvicinai al cassettone per prendere una tuta. Mentre sfilavo le braccia dalla maglia, mi balzò il cuore in gola perché vidi nello specchio il riflesso di una persona seduta sul letto. L’istinto ebbe la meglio e mi girai di scatto, i pugni stretti, un urlo pronto a partire. Il mio cervello si rese conto che era Simon solo dopo che il mio pugno era stato sferrato. 21

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«Ehi, ehi, ehi, Caroline, che cavolo!» strillò, tenendosi la mascella. «“Caroline, che cavolo”? Simon, che cavolo, piuttosto! Che diavolo ci fai qui?» urlai di rimando. Buono a sapersi: se mai fossi stata aggredita, non sarei rimasta con le mani in mano. «Sono tornato prima per farti una sorpresa» farfugliò, strofinandosi la mascella con una smorfia di dolore. Avevo ancora il cuore che batteva a mille e, mentre tentavo di calmarmi, notai la valigia nell’angolo. Quella che mi era sfuggita quando ero entrata. Abbassai lo sguardo e vidi il dolcevita che mi avvolgeva il collo come una sciarpa. «Avrei potuto ucciderti!» urlai di nuovo, caricandolo e spingendolo sul letto. «Mi hai spaventato a morte, cretino!» «Volevo chiamarti per farti sapere che ero qui, ma poi mi sarei perso tutta la tua conversazione con Clive. Non volevo interromperti.» Sorrise e mi afferrò i fianchi con le mani, infilando le dita nei passanti della cintura. Arrossii. «Traditore!» gridai verso il corridoio. «Potevi dirmi che c’era qualcuno... come gatto da guardia sei una frana!» La risposta fu un miagolio disinteressato. «Non sono solo “qualcuno”. Penso di meritarmi un po’ più di considerazione» ribatté, mentre mi tempestava il collo di baci minuscoli. «Allora, pensi di salutare il tuo ragazzo che è volato qui dall’altra parte del mondo solo per mostrarti il suo martello, o vuoi prendermi di nuovo a pugni?» «Non lo so; sono ancora un po’ scossa. Ho il cuore che batte fortissimo, lo senti?» gli chiesi, premendogli la mano sul lato sinistro del mio petto. Solo perché mi sentisse il cuore. Certo. Quella era l’unica ragione. Il mio cuore in effetti era deliziato che lui fosse tornato prima; amava questi ricongiungimenti romantici. Anche altre parti del corpo erano deliziate. «Però, e io che pensavo che battesse così forte per me» disse con una risatina, affondando il naso nella mia spalla mentre mi “sentiva il cuore”. «Illuditi pure, Mr Sbatticuore» dissi, fingendo indifferenza. La verità? Il mio cuore adesso era in modalità Simon, e in effetti stava battendo per lui. Avevo proprio lo “sbatticuore”. «Quindi sei tornato prima solo per vedermi?» gli sussurrai 22

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all’orecchio, stampandogli un bacio umido. Lui si spostò sul letto, scendendo un po’ di più con le mani. «Già.» «Pensi di potermi aiutare con questo dolcevita?» «Certo.» «E poi mi vuoi far vedere il tuo martello?» gli chiesi, affondandogli il viso nella maglietta e mettendomi a cavalcioni su di lui. In tutta risposta, lui diede una spinta, facendomi sentire il martello dal vivo. Feci una risatina. «Mmh, hai intenzione di inchiodarmi?» Simon mi sollevò il dolcevita, mi sganciò il reggiseno e per un attimo rimase ipnotizzato di fronte al mio seno nudo, dopodiché la sua vista tornò a fuoco. «Basta domande» ordinò, sollevandosi e stringendomi contro di lui. Feci il gesto di cucirmi la bocca, e poi lui mi rovesciò sulla schiena. Dio, quanto amavo quell’uomo. Le sue labbra mi sfiorarono la spalla, mordicchiandola nel modo in cui riusciva sempre a scaldarmi in un lampo. Okay, anche lui mi era mancato. Inarcando la schiena, spinsi il seno contro il suo corpo, trovando il modo di aderire il più possibile a lui, cosa di cui aveva un gran bisogno. Dopo un anno, riusciva ancora a stendermi in pochi secondi con un solo tocco, un bacio, un’occhiata. Premetti contro di lui, poi mi riportai in cima e gli diedi uno strattone ai jeans. «Via, subito» ordinai. Quando la sua cintura fu sparita e i bottoni slacciati, vidi che il mio uomo era di nuovo senza mutande. Sembrava essere venuto al mondo al preciso scopo di farmi impazzire. Gli infilai una mano dentro e lo afferrai saldamente, sentendo il suo calore; pronto a portarmi in viaggio attorno al globo. «Merda, mi sei mancata» ansimò lui, il corpo slanciato e muscoloso. Scivolai sul letto e mi misi a baciarlo e a leccarlo in modo famelico. Le sue mani si spostarono sul mio volto, e le sue dita mi sfiorarono gli zigomi mentre mi tirava indietro i capelli. Così poteva guardare. Lo presi in bocca fino in fondo. Lui mi prese i capelli, immobilizzandomi, tenendomi proprio nel punto in cui voleva. «Mmh, Caroline» gemette, dando una spinta lievissima. Lievissima, un corno... non se la sarebbe cavata così. 23

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Mi tirai indietro e lo presi di nuovo in bocca, con foga. Usai le mani per accarezzarlo, alternando il tocco in modo che non sapesse mai di preciso da dove veniva, usando la lingua e la bocca per stuzzicarlo e provocarlo, tirando fuori dalla sua bocca celestiale deliziose parole oscene. La bocca che, lo sapevo bene, si sarebbe vendicata in modo parimenti delizioso e osceno. Mi piaceva così, mi piaceva riuscire a fargli perdere la testa. Ma appena prima di spingersi troppo in là, lui mi sollevò e mi tolse le mutandine, senza che potessi dire: “Ehi, quelle sono mie”. Poi mi alzò la gonna, divaricandomi le ginocchia con le sue. Guardandomi con quei suoi penetranti occhi color zaffiro, mi sfiorò con le dita e me le infilò dentro, facendomi gemere, ansimare, tremare. «È troppo bello così» mormorò, mentre io urlavo. «Ho bisogno di te, Simon... ho bisogno, ti prego!» Ero pronta a strapparmi i capelli per lui, se avessi pensato che così lo avrei convinto a prendermi subito. Qualsiasi altro pensiero svanì mentre lui tornava a casa. Qualcosa di enorme, duro, e meraviglioso in tutti i sensi fu ciò che sentii quando Simon sprofondò dentro di me. «Oh, è bellissimo» ansimai, travolta da quella sensazione. E quando lui mi spostò in modo da farmi stare sopra e diede una spinta forte, fu la perfezione. Fino al dopo, quando restammo sdraiati in un intreccio di membra sudate e lui mi chiese se mi era piaciuto il suo martello. Quel momento fu al di là della perfezione.

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