Seme di nuvola

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Seme di Nuvola Tecnica di autoproduzione di forme in carta riciclata

Studente: Angelo Sandron Relatore: Prof. Marinella Ferrara a.a. 2007/08


Studente: Angelo Sandron

Relatore: Prof. Marinella Ferrara

a.a. 2007/08

Seme di Nuvola Tecnica di autoproduzione di forme in carta riciclata


design è... ...autoproduzione e ready-made ...ricerca

p.3

p.3, p.10

...esperimento e gioco

p.21

...e ricerca

p.23

...tentativi

p.39

...altra ricerca ...e altri tentativi ...alla fine

p.41, 50, 56, 64

p.44, 55, 58

p.66

...progetto


...autoproduzione e ready-made

L’approccio che, oggi, i giovani designer hanno con il mondo del lavoro, può avvenire secondo diverse modalità in base agli obiettivi e alle ambizioni del giovane progettista. Una tipologia di approccio possibile, è quella dell’autoproduzione. Autoproduzione, cioè: realizzare in prima persona dei prototipi, pezzi singoli o piccole serie, con la possibilità di vendita diretta del prodotto, o di presentare il proprio progetto al grande pubblico per mezzo di manifestazioni come mostre e fiere. L’autoproduzione è un tipo di approccio al design che svincola il progettista da tutto ciò che la realtà industriale, e la produzione seriale portano con se: limiti di mezzi, di tempo, economici e culturali, che spesso creano disaccordo tra progettista e produttore, l’unico limite è dato dalla creatività del progettista. E’ un metodo che punta alla ricerca sul prodotto, non del profitto, non impone orari d’ufficio, né scadenze a breve termine; è un processo in continua evoluzione, che si avvale del lavoro manuale quale valore aggiuntivo al prodotto rispetto alla produzione seriale, e che permette piena libertà di espressione al designer. Il pezzo autoprodotto si avvicina perciò al pezzo artistico, in quanto unico, ed espressione prima del suo artista. In alcuni casi è provocazione, gioco, in altri è ricerca sulle forme e sui materiali, in altri ancora è risposta ai bisogni della società e del mercato. Negli ‘70 anni, un approccio all’autoproduzione è stato quello dello studio Alchimia. Nato a Milano nel 1976 grazie ad un gruppo di non-architetti (A. e A. Guerriero, B. e G. Gregori) ed entrato in contatto con gli esponenti dell'ex "Radical Design", nel 1978 ha

E. Sottsass "Le strutture tremano" (in legno, laminato, metallo smaltato e cristallo).

Svincolo Ettore Sottsass Studio Alchimia

Alessandro Mendini esempio di posate 1978

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...autoproduzione e ready-made

presentato la prima collezione di mobili, a cui segue nel 1979 la collezione "Bau.Haus uno e due": autori degli oggetti sono Branzi, Dalisi, Mendini, De Lucchi, Raggi, Sottsass. Il loro design guarda alla tradizione moderna delle avanguardie, dal futurismo al Bauhaus. Cercando di recuperare i valori qualificanti degli oggetti (superfici, colori, luci, decorazioni), lasciandosi alle spalle i dogmi del modernismo. Lo studio Alchimia si caratterizza, oltre che dal gran numero di progettisti che negli anni si avvicendano, da una forte dinamicità teorica e produttiva (con l'autoproduzione dei primi elementi d'arredo). Tra i mobili presentati nella prima mostra del gruppo, al Design Forum di Linz, nel 1979, si ricordano: la "Seggiolina da pranzo" (in ferro cromato e laminato Abet Print), la lampada da terra "Svincolo" (con neon rosa e azzurro), il tavolino "Le strutture tremano" (in legno, laminato, metallo smaltato e cristallo). L’obiettivo di Alchimia era quello di proporre un design banale, un design make-up, un’architettura tender e innamorata, un oggetto cerimoniale e totemico ma soprattutto la crisi definitiva del progetto che veniva sostituito da un disegno integrale come versione soft del piano tecnico di elaborazione o produzione propria del moderno. “Esistere senza progettare” è uno degli slogan dei manifesti del gruppo. Per il gruppo Alchimia è importante l'atto del disegnare, un libero e continuo movimento del pensiero, quando si esprime visivamente. Nata come struttura per la produzione autonoma di arredi non industriali, Alchimia estende progressivamente la sua attività ad un concetto di design allargato a tutti i campi di espressione:

Ettore Sottsass Centro tavola Caravanserraglio (coll. Bau.haus II) 1979

Alessandro Mendini, "Oggetto Banale: caffettiera", 1980

Alessandro Mendini, Poltrona di Proust 1978

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ricerca, grafica, libri, riviste, video, scenografia, moda gioielli. Per Alchimia il suo compito di gruppo che disegna è quello di consegnare agli altri una testimonianza del pensiero sentimentale. Gli è stato assegnato il Compasso d'Oro 1981 per la ricerca nel design. Con Alchimia hanno lavorato e collaborato: D. Biffi, C. Bontempi, S. Casciani, B. Gregori, J.King, A. Mendini, P.Scarzella e lo studio ha prodotto oggetti di: E.Sottsass, A.Branzi, A. Mendini, M. De Lucchi, F.Raggi, R. Dalisi, ecc.. Questa modalità operativa riacquista senso tra la fine degli anni ‘80 e gli inizi dei ‘90, anni in cui la situazione economica vede una saturazione dei mercati ed una crescente concorrenza tra le aziende che quindi non potevano permettersi il design. Molti giovani designer, in questo periodo, optano verso l’unico percorso alternativo che dà loro la possibilità di svincolarsi dal sistema industriale, e sviluppare autonomamente le proprie idee, seguendo un percorso fatto di ricerca e sperimentazione. L’autoproduzione è dunque espressione di questo approccio di tipo sperimentale, che apre nuove ed inaspettate frontiere al progettista ed al mondo del design. I primi a tentare questa strada sono stati i designer inglesi. Per far fronte ad una mancanza di occupazione nel settore. Negli anni ‘90, i giovani designer inglesi si sono improvvisati artigiani, produttori e commercianti, dei propri prodotti. Molti designer che oggi hanno raggiunto il successo, hanno iniziato autoproducendo i propri progetti. Negli anni ‘80 Ron Arad, nella propria officina londinese, ha seguito questo percorso producendo pezzi unici realizzati a mano, utilizzando materiali ed oggetti di recupero, inusuali per la produzione di arredi, che hanno mutato il proprio aspetto e la propria funzione grazie alla sua opera. Con la Well Tempered Chair, Arad è riuscito a conferire una nuova immagine all’acciao, materiale notoriamente rigido, freddo e pesante, che grazie a questo oggetto, riesce a trasmettere sensazioni di sinuosità e leggerezza. La poltrona, infatti, è composta da tre lastre di lamiera in acciaio temperato appuntate ai bordi, che danno forma ad un volume ingombrante ma svuotato. La liscia e riflettente superficie metallica ed i bordi a spigolo vivo della lamiera non invitano alla seduta, in realtà la poltrona nasconde un inaspettato comfort: una suggestione al limite tra

Rover chair Ron Arad 1981

Favela Chair Fernando ed Humberto Campana 1991

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l’idea di instabilità ,dovuta alle lastre, e la comodità dell’effetto molleggiante dovuto all’elasticità dell’acciaio armonico. Anche Sebastian Bergne ha iniziato allo stesso modo, prima creando il marchio Bergne DMF, e successivamente cominciando a produrre i propri lavori. Uno dei primi progetti di Bergne è stato il paralume Shade nel 1991, un oggetto dalle linee semplici e di facile distribuzione. Shade viene tagliato al laser da un foglio di lamiera d’acciaio, ed il progetto nasceva dall’idea di poter spedire una lampada per posta dentro una semplice busta da lettere. L’autoproduzione oggi, grazie agli sviluppi nel campo delle telecomunicazioni, diventa un possibile modello d’impresa che sorpassa il paradigma fordista, forte di una maggiore flessibilità e di una maggiore possibilità di connessione tra aziende diverse. Dal Nord-Europa, dove la produzione autonoma è sempre stata molto diffusa, ci arrivano numerosi altri esempi. In Danimarca nel 1998 Cordula Kafka da il via alla propria produzione. Partendo da un percorso di ricerca e sperimentazione sulla ceramica, presenta il progetto Thincut, una lampada costituita da una serie di lamelle, sottili e trasparenti, in porcellana dura e non smaltata, appese, come fossero fogli di carta, a due tondini in acciaio inossidabile. In Belgio già nel 1985 Maarten Van Severen lavorava nel suo laboratorio a degli arredi fatti a mano con i suoi materiali preferiti: legno, alluminio e pelle. Verso la metà degli anni ‘90 cominciano a costituirsi dei gruppi di giovani progettisti, in associazioni o

Concrete Stereo, Ron Arad 1983

Well Tempered Chair Ron Arad 1987

Shade Sebastian Bergne 1991

Il design per Ron Arad è “imporre la propria volontà su un materiale per realizzare una funzione e fare qualcosa che prima non esisteva”.

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cooperative, che trovano una loro identità in questa metodologia di progetto. In Scandinavia nasce Snowcrash ed in Olanda Droog Design. Ampliando lo sguardo si può notare che questo movimento ha dato origine ad una nuova scuola di pensiero. Si sviluppa un sistema culturale di tipo parallelo, che riesce ad esercitare un certo influsso sulla produzione di massa. Un’altro tipo di approccio che negli anni si è accostato a quello dell’autoproduzione è l’ecodesign. Il fine di questo metodo di progetto è la riduzione degli impatti ambientali di un prodotto durante tutte le fasi del suo ciclo di vita “dalla culla alla tomba”. Diretto discendente dell’ecodesign è il trash design. Un tipo di approccio artistico-artigianale che partorisce per lo più operazioni di ready-made, tecnica già esistente che nasce per la creazione di opere d’arte ma viene presto adottata anche nel mondo del design. Il termine ready made è utilizzato per descrivere un'opera d'arte ottenuta da oggetti per lo più appartenenti alla realtà quotidiana, lontani dal sentimentalismo e dall'affezione, che possono essere modificati (in questo caso si parla di readymade rettificato) o meno. L'inventore del ready-made fu il dadaista Marcel Duchamp nei primi decenni del 1900. Il ready-made dunque è un comune manufatto di uso quotidiano (un attaccapanni, uno scolabottiglie, un orinatoio, ecc.) che assurge ad opera d'arte una volta prelevato dall'artista e posto così com'è in una situazione diversa da quella di utilizzo, che gli sarebbe propria. Il valore aggiunto dell'artista è l'operazione di scelta, o anche di individuazione casuale dell'oggetto, di acquisizione e

Thincut Cordula Kafka 1991

Thincut, particolare

Chest of Drawers Tejo Remy Droog Design 1991

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di isolamento dell'oggetto. Nulla più. Ciò che a quel punto rende l'oggetto comune e triviale (si pensi alla latrina capovolta che Duchamp intitolerà "Fontana") un'opera d'arte, è il riconoscimento da parte del pubblico del ruolo dell'artista. Marcel Duchamp ha coniato il termine ready-made nel 1915, ma il suo primo ready-made (rettificato, in quanto si tratta di una ruota di bicicletta imperniata su di uno sgabello tramite le forcelle del telaio) risale al 1913 ed è intitolato, per l'appunto, "Bicycle Wheel". Il primo ready-made puro è "Bottle Rack" ("Lo scolabottiglie"), semplicemente firmato. L'originale dello scolabottiglie non esiste più. Esso fu semplicemente buttato via dalla sorella di Duchamp mentre questi, nel 1915, era negli Stati Uniti ed ella aveva compiuto una "pulizia generale" dello studio del fratello. Ma lo stesso Duchamp lo sostituì poi con altro esemplare. L’opera di Duchamp sarà d’inspirazione a molti designer che hanno trasferito il concetto di ready-made dall’arte al design ed alla produzione in serie. Esempi di ready made possiamo trovarli anche tra i grandi nomi del design italiano. Nel 1957 I fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni progettano gli sgabelli Mezzadro e Sella, realizzati il primo con il sedile di un trattore verniciato, un gambo in acciaio cromato ed una base in faggio evaporato, colore naturale. Il secondo dalla sella di una bicicletta da corsa, un’ asta in acciaio verniciato, ed un basamento in fusione di ghisa. Lo stesso Ron Arad è stato autore di più operazioni di ready-made, un esempio la Rover Chair del 1981 ottenuta riciclando due sedili di una vecchia Rover, ai quali ha aggiunto dei braccioli in acciaio. Dal ready-made quindi il trash design, movimento

Rover Chair Ron Arad 1981

Fountain Marcel Duchamp. 1917

mezzadro A. e P.G. Castiglioni 1957

sella A. e P.G. Castiglioni 1957

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che anche in Italia ha avuto un suo seguito. Paolo Ulian ha progettato una serie di oggetti chiamata H2O. Ogni oggetto di questa serie è composto da bottiglie di acqua minerale in PET; nel progetto si riconosce un’indagine sulla relazione tra ciò che un oggetto era e quello che è diventato. Altro caso le autoproduzioni di Gianfranco Coltella e Angelo Grassi. Coltella col marchio Le Meduse, realizza delle lampade in vetro riciclato. Il materiale è stato recuperato da scarti d’industria, tagliato in piccole tessere ed assemblato con del silicone, perdendo quindi l’identità di rifiuto e rigenerandosi in un prodotto del tutto nuovo. Grassi invece conduce un operazione di tipo opposto: produce dei mobili partendo da pezzi di vecchi arredi recuperati in discarica, li modella ed assembla mantenendo però la riconoscibilità dei componenti dei suoi progetti.

Dune Paolo Ulian 1998

Ghiaccio bollente Gian Franco Coltella Le meduse

H20 Paolo Ulian 1998

Comò Angelo Grassi

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Un’altro esempio di designer che partendo dall’autoproduzione sono arrivati alla fama è quello dei fratelli campana. I fratelli Fernando (1961) ed Humberto Campana (1953) sono due dei più famosi designer del sud america. Sin dal 1983, Fernando, laureato in architettura, e Humberto, che studiava legge, lavorano insieme nel campo del design, o meglio tra arte e design. Nel loro studio, una sorta di garage convertito, a Sao Paulo, Brasile, progettano arredi che sono spesso basati su materiali di ogni giorno, e sul ready-made. Materiali che vengono trasformati e reinventati in oggetti preziosi che portano con se la creatività e lo spirito del Brasile, una combinazione di caos e ordine. I Campana sono alla continua ricerca di nuove possibilità per il design. Le loro opere fanno parte della collezione permanente del MoMA di New York, del Centre Georges Pompidou a Parigi, e del Museo del design Vitra a Weil am Rhein in Germania. Humberto Campana è il fratello conosciuto per le sue abilità manuali. Lui si focalizza sull’aspetto artigianale del loro lavoro. Fernando Campana, invece, si concentra sulla parte teorica e concettuale dei loro progetti. Nonostante il loro successo non lasceranno mai Sao Paulo. La loro città, affermano, riassume le forti caratteristiche del Brasile. “Qui, come in nessun altro posto, puoi provare il mix di degenerazione e modernità che assaporiamo quotidianamente. Abbiamo ricevuto molte proposte di spostarci in Europa in forma definitiva, ma la nostra fonte d’inspirazione è Sao Paulo, le sue strade e le sue persone, qui c’è un eccesso che comprende i

Sushi Chair Campana 2002

Fernando e Humberto Campana

Discos Chair, Campana 1992

Fernando e Humberto Campana

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migliori e i peggiori esseri umani allo stesso tempo. Adoriamo questo meraviglioso archivio d’immagini fuori dalla finestra. Ci informano, ci fanno essere quello che siamo. Da qui non partiremo mai.” Ecco alcuni dei loro progetti: TransNeomatic, sono dei grandi contenitori prodotti in Vietnam, che combinano intrecci di vimini con pneumatici usati, recuperati da vecchi scooter e opportunamente ripuliti. Banquete Chair, una poltrona completamente rivestita di pupazzi panda. I designers brasiliani riciclano per le loro creazioni i materiali più disparati, con risultati molto simpatici. Lavorando sulla pelle nascono la sedia, la poltrona e la poltroncina Leatherworks. Emergono da una sovrapposizione casuale e caotica di pelli di differenti grane, stampate ad alligatore e rettile, come dopo un’esplosione, con il vestito a brandelli. I fratelli Campana nella loro ricerca di un percepire inteso, secondo quanto scrive Mario Perniola (Disgusti, Costa&Nolan, Genova, 1998), “non tanto come coscienza, quanto come sensibilità, anzi ipersensibilità, reattività quasi morbosa nei confronti di qualcosa che tocca lo stomaco ancor prima del cervello” spostano l’estetica dal gusto verso il “disgusto”. Imperfette, a brandelli, all’apparenza casuali, Leatherworks nascondono un paziente lavoro di maestria artigiana nell’assemblaggio, nelle numerose cuciture e nel ritaglio degli sfridi. Quasi animali in muta, con il loro manto mimetico e squamato, Leatherworks risvegliano anche la tattilità, provocando quel salutare sussulto (dello stomaco) che le rende segni indelebili dell’estetica contemporanea. Nell’estate 2007 hanno debuttato con le loro ultime creazioni, Transplastic, all'Albion

TransNeomatic

Banquete Chair

Leatherworks

Leatherworks

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Gallery di Londra. Un intreccio di vimini, annodato a creare come un bozzolo, ha trasformato la vecchia plastica. Una rivisitazione di tecniche e materiali come l'"apui" brasiliano, una fibra la cui pianta soffoca e uccide i grandi alberi della foresta amazzonica, per questo la sua estrazione (naturalmente rimossa senza strumentazioni o processi che possono danneggiare gli alberi) può preservare e controllare la biodiversità delle foreste brasiliane. Altri esempi di autoproduzione e ready made li troviamo anche in progetti di giovani designer come la lampada Asso del 2004 di Andrea Gianni, lampada dal design semplice ed ecologico, realizzata con un rocchetto per filato. Un oggetto di scarto di un processo industriale, tre elementi di fissaggio, un attacco edison E14 con ghiera, è puro assemblaggio di oggetti in produzione. Altro progetto interessante, realizzato con pochi elementi e che ripropone questa tecnica è ILTURdomus di Vered Zaykovsky.Si tratta di un coffetable con piano in vetro la cui struttura è costituita da un supporto in metallo che accoglie 6 copie della rivista Domus intrecciate a formare una decorazione strutturale. ILTURdomus interpreta in chiave moderna e post-industriale la tradizionale lavorazione ad intreccio delle fibre vegetali. Nel rispetto dell’ambiente l’intreccio non prevede l’uso di colla né di tagli delle riviste che, in ogni momento, possono essere smontate e lette. Un punto d’incontro tra culture occidentali e orientali.

ILTURdomus Vered Zaykovsky (particolare)

Transplastic Exhibition 2007

Asso Andrea Gianni 2004

ILTURdomus Vered Zaykovsky

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Gianfrancesco de Falco con lo sgabello “No drinking-and-driving” ci porta un altro chiaro esempio di ready-made, lo sgabello è realizzato con due poggiatesta, due aste del cambio ed uno sterzo. Lo stesso progettista seguendo questo percorso, sposta il suo interesse al mondo degli utensili da cucina che si trasformano in luce, acquistando così un nuovo significato e una nuova funzione, nei progetti sunflowers, Parmesan light e Pasta al dente light. Nello scenario del design odierno, la tendenza all’autoproduzione ed al ready-made è in continuo sviluppo. Ha portato ad una nuova concezione dell’idea di progetto stesso, il materiale inspira il progetto, la forma deriva dalla capacità del designer di assoggettare il materiale alla propria volontà. Un esempio di autoproduzione e ricerca del materiale ci arriva dal Libano dove, Wyssem e Cécile Nochi hanno preparato una collezione di manufatti ecologici composta da trenta differenti lampade realizzate con paralumi in “Luffa aegyptica”, una sorta di spugna realizzata con la fibra del frutto essiccato della Luffa. Ogni pezzo è unico e numerato, diverso per forma e texture; l’aggiunta di filtri permette di variare il colore della fibra naturale.

Luffa aegyptica Wyssem e Cécile Nochi

No drinking-and-driving Gianfrancesco De Falco

Parmesan Light

Sunflower

Pasta al dente light

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Leepu Awlia dal Bangladesh ci mostra un’altro campo di applicazione per l’autoproduzione. Questo designer, infatti, lavora nel settore automobilistico. Costruisce delle Super-car partendo da rottami di automobili. Awlia lavora nella sua officina con dei collaboratori che lo aiutano per la parte meccanica del veicolo, mentre lui si occupa fondamentalmente di quella estetica: la carrozzeria. La nascita di questa idea è sicuramente da attribuire alla creatività del designer, ma anche al contesto socio-economico dal quale egli proviene. Difatti la presenza di molti rottami lungo le strade della sua città ha influito notevolmente sul percorso scelto dal progettista. Il metodo adottato da Awlia è di tipo empirico, non progetta l’auto prima di cominciare il lavoro, il metallo prende forma dalle sue mani durante il processo di lavorazione, egli tratta la lamiera d’acciaio come se stesse adattando un vestito ad un manichino. Tramite il lavoro manuale, ha acquisito un’esperienza diretta del materiale che gli permette di sfruttarne al meglio le caratteristiche fisiche in maniera istintiva, e di far nascere così delle nuove forme.

rottame iniziale

Risultato finale

Leepu Awlia al lavoro durante la trasformazione di un rottame in una supercar

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L'autoproduzione insegue il sogno di una temporanea sospensione delle regole della produzione industriale pur senza la pretesa di un loro definitivo abbandono. Produrre oggetti, lavorare con le mani, non e' cosa nuova per chi si occupa di design: la pratica professionale passa anche attraverso l'esecuzione di plastici, modelli di studio e prototipi più o meno funzionanti. Attraverso lo sviluppo, l'organizzazione e la razionalizzazione di questa evidente capacità di "fare" e' possibile cercare e sperimentare il modo per arrivare all'oggetto finito. Edward Gardener parte da costruzioni semi-distrutte per creare una prospettiva differente sul simbolismo e la decorazione data dalla suggestione. Usa i buchi dei proiettili lasciati nei palazzi come componente alla quale può essere aggiunta la luce per creare delle pareti illuminate. Questa superficie per metà incidentale e per metà progettata, ci offre un’interpretazione moderna di quello che può essere il materiale danneggiato. Ben Wilson, che vive nei sobborghi di Londra ha trasformato il problema delle chewing gum appiccicate nelle strade, usando questo materiale permanente come una tela per decorare le strade. Questa forma di gomma sintetica è talmente difficile da rimuovere da divenire una decorazione stradale dalla forma fissata. Ogni disegno racconta una storia come se fosse narrata da un passante: in questo posto qualcuno è stato picchiato o qualcunaltro ha dato il suo primo bacio. Queste opere sono piccoli segni di collegamento tra persone.Wilson non vuole essere pagato, la sua opera è un regalo di riconoscimento agli spazi pubblici commerciali e spesso violenti.

I palazzi illuminati di Gardener

Ben Wilson al lavoro su un chewing gum

Ben Wilson al lavoro su un chewing gum

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Intervista con Yaron E lyasi Per questa ricerca sono riuscito ad ottenere un’intervista con Yaron Elyasi, designer israeliano che ha diretto il workshop Post Industrial Plastic design a Palermo. Yaron Elyasi, nasce nel 1971. Laureato alla Middlesex University di Londra. Ha studiato al Vital Center for Engineering and Desing di Shenkar. Progettista e produttore di oggetti per la casa ed il giardino. Insegnante di Disegno industriale alla Shenkar School, vicitore del primo premio alla Flic Plastic Company Competition per contenitori fatti in lastre di poliprolpilene. Le creazioni di Yaron, di poliprolpilene si sviluppano nel tema del design pratico enfatizzando l’aspetto tattile. La maggior parte dei suoi lavori sono realizzati come “one of”, sono quindi pezzi unici. I migliori prodotti di Yaron sono il risultato di una ricerca sulle tecnologie tradizionali attraverso cui è possibile raggiungere un nuovo livello e creare delle texture di qualità estetiche mai ottenute prima. I prodotti hanno un carattere naturale ed organico. Sono fatti di stringhe di plastica riciclata, prodotte in diversi colori e spessori. Creati per scopi decorativi, sono comunque oggetti resistenti, lavabili e riusabili. Ogni prodotto ha delle caratteristiche uniche che non possono essere copiate. La tecnica: fusione di plastiche esistenti come tappi di bottiglia, confezioni di shampoo, scarti industriali e domestici, qualsiasi materiale termoplastico, e qualsiasi materiale sporco, grezzo e riusabile.

Sgabello cactus

Yaron con uno dei suoi portafrutta della serie 100% Recycled plastic bowls

Logo di Yaron Elyasi

Portafrutta riciclato medio

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Per realizzare gli oggetti vengono usate queste stringhe rese morbide dall’alta temperatura. Le stringhe vengono poste nello stampo in modo libero e casuale, creando così la superficie specifica di un prodotto. Questa tecnica permette infinite possibilità di progetto per interni, esterni o uffici. La produzione ovviamente tiene conto del concetto di “cyle of life”, tutti questi prodotti sono infatti riciclabili e parte dell’applicazione senza fine di questa tecnica. A - Yaron come stai? Y -Molto bene, grazie!

Portafrutta riciclato grande

A - Bene. Parliamo un po’ del tuo lavoro; qual’è il tuo metodo di lavoro? Y - Dipende dal campo in cui sto lavorando. Nel mio studio, c’è una parte in cui mi occupo dei miei lavori personali, do spazio alle mie idee, e a quello che elaboro per me; c’è invece, una seconda parte di studio, dedicata al design più ordinario, nella quale fornisco un servizio ai clienti che vengono e che richiedono un design più tecnologico per i prodotti a cui sono interessati. In questo caso il metodo è simile a quello che stai imparando tu all’università. Quando invece sviluppo i miei lavori personali, il metodo è diverso. Si tratta di arrivare a conoscere da vicino il tuo partner nell’esperimento, cioè il materiale, riuscire a conoscerlo in prima persona. E’ come se stessi conoscendo qualcuno per la prima volta, una persona che incontri, e che lentamente cominci a conoscere, facendo delle semplici domande, per esempio, come tu stai facendo adesso con me. Alla fine ti farai conoscere da lui e lui si farà conoscere da te, fino al punto in cui ne percepisci la vera natura ed è giocando con questa natura, e tenendo gli occhi aperti a nuove scoperte estetiche, riesci a leggere dentro il materiale...

Lampada da tavolo e da terra

A - Quindi riesci a scoprire nuovi materiali giocandoci? Y - Esattamente A - Perché hai scelto la plastica come materiale?

Portafrutta riciclato grande

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Y - Qui non uso solamente la plastica, adotto lo stesso metodo con il vetro, l’alluminio, altri metalli, etc... Comunque il metodo è lo stesso, devi pensare di aver un partner al tuo fianco, ed il suo nome potrebbe essere Vetro, per esempio il vetro rotto di un’automobile, tu cominci ad interessarti a lui, ti ci presenti, inizialmente non conosci nulla di questo materiale e parti dalle informazioni che già hai su altri materiali... A - Provi a fare le stesse cose con questo o no? Y - Si ma più che altro è il materiale stesso che ti da dei suggerimenti, degli indizi sulla sua struttura e sulle possibilità estetiche che possiede. E ti interessi alla struttura di questi pezzetti, che sono stati rotti, e al come si è arrivati a questa. A questo punto inizia una ricerca di tipo accademico sul metodo di produzione industriale di quell’oggetto, scopri che in quel processo c’è tanto che puoi manipolare e con cui puoi giocare. Solamente giocandoci, senza avere nessuna conoscenza di base, vai scoprendo tante soluzioni estetiche possibili. Per esempio sottoponendo il vetro ad uno shock termico, crei delle piccole fratture e a questo punto puoi interpretarle in modi diversi. Puoi considerarle un difetto e buttare tutto nell’immondizia, o puoi scoprire qualcosa di rilevante a livello estetico e, grazie al modo di vedere, di manipolare, ai mezzi ed alle conoscenze che possiedi, puoi arrivare ad averne il controllo ed a creare una nuova estetica per quel materiale. Le possibilità che riesci a vedere in ogni singola cosa, puoi sfruttarle per creare i tuoi materiali, quello che già viene prodotto dall’industria può essere tradotto in qualcosa di nuovo a cui attribuisci una tua estetica.

Small Fruit Bowl

Lampada “Don't Be Square”

A - Allora come scegli il materiale dal quale partire, ti basta guardarti intorno per trovare qualcosa da cui far nascere dell’altro? Y - Normalmente capita per sbaglio, con le cose di ogni giorno, delle lattine d’alluminio ad esempio. Bisogna essere aperti alle nuove scoperte, le stesse cose che hai per le mani tutti i giorni possono diventare tutt’altro, basta avere la giusta disposizione mentale per arrivare a dei risultati. Si lavora come dei detective e si scoprono cose nuove. Io non dico “oggi voglio lavorare col legno!”, infatti se

Composizione di lampade “Don't Be Square”

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per sbaglio mi trovo davanti del cartone e mi trovo nella giusta condizione mentale, da cosa nasce cosa. Quello a cui stavo lavorando prima , le lattine d’alluminio, mi porta a lavorare col cartone e viceversa può accadere il contrario. In questo caso un materiale mi porta ad un altro, ma può anche succedere che lavorando mi trovo davanti un materiale e, come un investigatore comincio ad interessarmi e a fare delle prove, per esempio con la carta. Ho un normale foglio A4, su questo foglio si versa del caffè e lo macchia. Io vedo queste macchie e qualcosa mi passa per la testa, mi suscita un’emozione...certo non capita tutti i giorni una cosa del genere. Capita che lavorando hai avuto una cosa accanto per tutto il tempo e sei stato in grado di vederla, ma è come se avessi un interruttore in testa posizionato su OFF, hai bisogno di accenderti per poter vedere le cose in una nuova prospettiva, anche se la soluzione non è sempre questa.

Cactus “Poltrona della suocera”

A - Quindi per dare forma ad un oggetto prendi inspirazione dal materiale? Y - Beh, dipende dai casi. Per alcuni lavori in plastica per esempio, è successo, infatti volevo mischiare più materiali in un unico oggetto perché è una cosa che la produzione industriale non ti permette per la complessità della lavorazione ed economiche. Generalmente l’ispirazione arriva in due modi diversi, nel primo caso lavorando scopri un particolare estetico nel quale cominci a credere, che ti convince, allora arrivi ad unirti a questo materiale ed è il materiale stesso che ti suggerisce la funzione, da quella arrivi al progetto. Nel secondo caso l’inspirazione può arrivare in maniera istintiva mentre stai lavorando ad un progetto, può nascere l’idea per qualcosa di nuovo. Comunque l’inspirazione può nascere da molte cose: dalla texture di un materiale, o dal nome di un oggetto. Ad esempio una volta ho realizzato una seduta che sembra un cactus, sai cos’è un cactus?

Poltrona della suocera

A - Si, certo. Y -Questo cactus si chiama “Cuscino della suocera”... A - Si, conosco questo progetto.

Poltrone della suocera in varie colorazioni

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...ricerca

Y - In questo caso ho preso inspirazione sia dal materiale che dalla forma del cactus stesso. A - Bene, ora un’ultima domanda, a cosa stai lavorando in questo periodo? Y - Ti ricordi i miei lavori in plastica placcata metallo? Ecco sto continuando con questa idea, giocando con materiali riciclati e metalli. Sto provando ad applicare la stessa tecnica ad altri materiali , non più solo alla plastica ma ad ogni tipo di materiale riciclabile, trasformo gli oggetti di partenza, per dare alle persone un nuovo punto di vista sulle cose; ne cambio l’aspetto esteriore per mettere in risalto quello interiore. Sto preparando degli oggetti che possano far sorridere la gente, mostrando ciò che erano prima di questa lavorazione. Sto anche lavorando su dei fiori che sembrano realizzati in legno, e l’estetica organica propria del legno si sostituisce a quella del materiale di partenza.

Portafrutta in acrilico medio

A - Bene Yaron penso che sia abbastanza, ti saluto e ti ringrazio per la tua disponibilità nel realizzare questa intervista. Y - Grazie a te è stato un piacere.

Cesta Kacoon

Marchio di Yaron Elyasi

Particolare della lampada “Don't Be Square”

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...esperimento e gioco

Il mio approccio al mondo dell’autoproduzione è avvenuto grazie alla partecipazione al workshop Post industrial Plastic design. Nell’ambito della manifestazione internazionale Palermo Design Week 2007 i proff. Marinella Ferrara, Roberto Scaffaro e Giuseppina Vitale, con MAD, Material design library di Palermo ed il Dipartimento di Ingegneria Chimica dei Processi e dei Materiali della Facoltà di Ingegneria, hanno organizzato questo workshop, che ha affrontato il tema del progetto nell’economia post-industriale. L’iniziativa ha avuto lo scopo di interessare ed educare noi studenti al progetto di nuovi concept di prodotto e all’auto-produzione con i materiali plastici riciclati. La finalità è stata portarci a conoscenza di possibili tecniche di lavorazione e costruzione degli oggetti. Un’esperienza di scambio e confronto con una diversa cultura - quella israeliana - che si inserisce in modo distintivo nel mondo del design. Abbiamo utilizzato strumenti di laboratorio e alcune tecniche ideate dal designer israeliano Yaron Elyasi. Una selezione dei progetti del workshop è stata esposta in una piccola mostra inserita nell’evento Palermo Design Week 2007.Al workshop, hanno partecipato di due visiting professor, i designer israeliani Yaron Elyasi e Ely Rozemberg che vantano numerose esperienze e collaborazioni nel campo del design.

momenti del workshop

prova in polistirene estruso a nastro

prova in polistirene estruso a filo

foto di gruppo finale

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...esperimento e gioco

Grazie a questo workshop ho potuto confrontarmi con una nuova realtà che è appunto quella dell’autoproduzione e della sperimentazione dei materiali, in questo caso la plastica, che ha cambiato il mio modo di vivere il progetto. Dal progetto teorico sono passato alla realizzazione pratica delle mie idee. Grazie alla collaborazione del dipartimento di ingegneria chimica ho avuto il mio primo contatto con un estrusore; un macchinario che, come un tritacarne, trasforma dei granuli di plastica in un filo continuo che esce ad alta temperatura ed è modellabile per qualche secondo. Fondamentale, per l’autoproduzione, è il rapporto diretto con i materiali, il lavoro manuale avvicina progettista e progetto più di qualsiasi altra esperienza nel campo. La sperimentazione diventa un percorso di ricerca empirica, e di esperienza della materia e delle nostre capacità di plasmarla. Le prime prove le ho fatte per gioco, per puro divertimento e curiosità di capire cosa potesse succedere. Ottenuti però dei risultati che mi interessavano, il gioco si è trasformato in ricerca e la sperimentazione ha trovato il suo percorso. Alla fine di questa esperienza non è nato un progetto ma un metodo di progetto che mi coinvolge ed appassiona, e che ho deciso di utilizzare anche in questa esperienza con la differenza che il materiale che ho adottato, è stato scelto da me. Il materiale che ho scelto come base di partenza per la mia ricerca è la carta. Prima di iniziare la sperimentazione è, però necessario conoscere meglio la storia, i metodi di produzione, ed i vari tipi di carta già esistenti.

un mio esperimento durante l’estrusione

risultato: una ragnatela in plastica su un ramo

schema di un estrusore

portapenne realizzati per estrusione o termoformati

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Breve storia della carta La storia della carta è legata alla storia della scrittura, le prime iscrizioni di cui si hanno notizie risalgono a circa 4000 anni prima di Cristo e sono iscrizioni su pietra, su tavolette di argilla e su legno. Fino ad arrivare al 3000 avanti Cristo quando i supporti per la scrittura cambiano, infatti iniziamo a trovare le prime tracce del papiro, considerato la pietra miliare per l'evoluzione storica di supporti per scrivere. Il Papiro era ricavato utilizzando una pianta acquatica (ciperus papyrus) allora molto diffusa oltre che lungo le sponde del Nilo anche in Palestina e in Sicilia, ma furono gli egiziani per primi a risolvere il problema in modo abbastanza soddisfacente, infatti il midollo della pianta è composto da una specie di pellicole lunghe e strette di colore chiaro troppo sottili e troppo piccole per scrivere su ognuna di loro, ma queste venivano sovrapposte in due strati perpendicolari in modo da formare uno strato continuo e il piu possibile omogeneo. Il reticolo cosi composto veniva poi bagnato e pressato in modo che le sostanze collanti contenute nella pianta facessero aderire i due strati sovrapposti e, messo poi ad asciugare, il "foglio" cosi formato era già un valido supporto per la scrittura anche se risultava poco maneggevole. In Sicilia pare che il papiro sia stato introdotto nel III sec. a.C. da Tolomeo Secondo Filadelfo quale regalo a Ierone Secondo in segno dei buoni rapporti commerciali esistenti.

piante dil papiro all’orto botanico di Palermo

San Gregorio Magno parla di papiri a Palermo nel 599 d.C.; si hanno comunque notizie certe della fabbricazione di corde e carta nel X sec. d.C. Pare

preparazione del foglio

papiro rinvenuto a Tebe risalente alla XIX dinastia dei Re d’Egitto 1240 a.C.

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comunque che già nel 250 a.C. a Siracusa si lavorasse una carta ma di qualità scadente, non perché la pianta fosse diversa da quella egiziana, bensì perché non venivano usate le tecniche egiziane. A Siracusa la produzione inizia nel 1781 per opera di Saverio Landolina e prosegue ininterrottamente fino ai giorni nostri. Dal Papiro, intorno al II secolo avanti Cristo o poco prima, passiamo alla Pergamena, le prime tracce le troviamo in Asia Minore, pare nella città di Pergamo (da qui il nome Pergamena), la pergamena è ottenuta da pelle di capra, montone e pecora (per questo, cioè per le sue origini essa viene chiamata anche cartapecora), il metodo consiste nel ricavare dagli strati più profondi delle pelli animali (membrane) una specie di foglio chiaro, uniforme e resistente, la pergamena ha costituito il prodotto più usato nel mondo civile fino alla comparsa delle prime carte, la pergamena però risolvendo dei problemi del Papiro, ne portava con sè di nuovi, infatti non si poteva arrotolare a causa della sua rigidità, avrebbe preso la forma del rotolo e solo a fatica si riusciva a svolgerla, non era a strisce come il Papiro, ma di forma rettangolare, tanto grande quanto poteva esserlo il dorso di un animale, per cui invece di arrotolare come con il Papiro si iniziò a piegarli e al posto del volumen sono nati il codex (codice) e il liber (libro), solo dopo si iniziarono a sovrapporre i fogli di pergamena piegati cucendoli da una parte e tagliando le altre pieghe in modo da poterli sfogliare e successivamente ancora vennero messe delle tavole sopra e sotto ai fogli per proteggerli in pratica parliamo dell'origine della legatura, solo dopo molti secoli ci avviciniamo al libro più simile a quello che noi conosciamo.

Papiro di Artemidiro datato tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C.

pergamena

Origini della carta Il procedimento per la fabbricazione della carta, come riferiscono antichi cronisti e commentatori occidentali, fu inventato intorno al 105 a.C. dall'eunuco Ts'ai Lun, gran dignitario di corte, che presentò all'imperatore i primi fogli di carta,come riferiscono le cronache degli Han, e ne ebbe grandi elogi . Si narra che Ts’ai Lun si trovava sulle rive di uno stagno accanto ad una lavandaia che stava sciacquando nell’acqua alcuni panni piuttosto logori. I panni, mal soffrendo l’azione di strofinio e di sbattitura, si sfilacciavano e le fibrelle galleggianti sull’acqua andavano a riunirsi in una piccola

Il più antico frammento cartaceo Cinese del 266 d.C.

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insenatura ai piedi di Ts’ai Lun. Sul pelo dell’acqua si formò dopo qualche tempo, un velo di fibrelle ben feltrate che Ts’ai Lun osservò, raccolse con delicatezza e pose a seccare sull'erba. Il foglio secco e avente una certa consistenza, bianco, morbido, diede a Ts’ai Lun la grande idea, quel foglio poteva ricevere la scrittura. Tre furono le circostanze che favorirono la nascita delle cartiere nelle regioni cinesi: la vicinanza di un centro abitato, l'esistenza delle materie prime e la presenza dell'acqua, il flusso dell'acqua doveva essere uniforme, e l'acqua doveva essere pura. Queste condizioni si trovarono riunite in Cina fin dal I secolo d.C., mentre in Europa una simile favorevole congiuntura si presenterà soltanto per gradi, dal XII al XVI secolo. In Europa i luoghi scelti per l'installazione delle cartiere erano: le città dove da tempo si esercitava l'industria tessile, i cui cascami fornivano la materia prima per la carta; quelle in vicinanza di un porto, dove si trovavano facili opportunità di smercio; o quelle nelle immediate vicinanze di un grande centro commerciale. La Chiesa, con i suoi monasteri, che mantennero a lungo il monopolio della cultura nell'Europa medievale, e le grandi università, come Parigi e Bologna, favorirono anch'esse la nascente industria cartaria. In Cina, la carta non subiva la concorrenza di altri prodotti. In Europa, invece, ai primi del XIV secolo, la pergamena costituiva un supporto per la scrittura assai più soddisfacente delle prime carte che venivano fabbricate. La pergamena rivaleggiò ed ebbe spesso il sopravvento sulla carta, considerata all'inizio come una materia troppo delicata, e cedette il passo solo progressivamente, via via che si sviluppava l'arte tipografica. Inoltre, il livello di cultura nell'Europa medievale, non paragonabile a quello da lungo tempo assai elevato della Cina, o a quello del mondo arabo, che raggiunse il massimo sviluppo nel X secolo, non favorì la diffusione della carta. La nuova industria fu anche avversata dall'Occidente Cristiano, a causa della sua provenienza araba o giudaica. Solo l'invenzione della stampa e la crescente attività dei torchi offrirono nuovi sbocchi. In Cina, quindi, a partire dal Il secolo d.C., si trovarono iscrizioni arcaiche su carta. La carta moneta fece la sua comparsa nel settimo secolo. I Cinesi fabbricavano i più svariati tipi di carta, (con la canapa, con steli teneri di bambù, con la scorza del

Tre momenti dell'arte di fabbricare carta in Cina

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gelso, con germogli di giunco, con muschio e licheni, con paglia di grano e riso, coi bozzoli del baco da seta ... ) ma predominava quella fatta di stracci. Dal V secolo in poi la carta si diffuse per tutto l'impero in forme svariate ed elaborate ma rimase un segreto della Cina fino all'VIII secolo, quando, in seguito alle sorti di una battaglia, giunse nell'Islam. L'unità del mondo arabo era già costituita alla morte di Maometto (632). Divenuto erede di Roma e della Grecia, dopo la conquista della Siria e dell'Egitto, il mondo islamico, contrariamente al cristianesimo medievale, favorì lo studio delle scienze, e in particolare della chimica. Sorsero grandi università e biblioteche. Non c'è quindi da stupirsi se una tale espansione geografica e culturale abbia stimolato il consumo di carta ed esercitato un influsso civilizzatore sull'Occidente. Nel 751, durante una spedizione militare verso le frontiere della Cina, il governatore generale del Califfato di Bagdad catturò a Samarcanda due fabbricanti di carta cinesi; valendosi del loro aiuto, impiantò una cartiera in quella città, località propizia perché v'erano acqua, canali di irrigazione e campi di lino e di canapa. Nacquero così le manifatture di Samarcanda. Si trattava di una carta fatta di stracci, già perfezionata in confronto a quella cinese. Per la segretezza di cui era circondata, la produzione restò a lungo concentrata a Samarcanda, che fu per vari secoli un centro cartario importante. Tuttavia, sul suo esempio, anche a Bagdad, nel 793, si cominciò a fabbricare la carta, e da Bagdad l'industria cartaria si diffuse in tutte le province del mondo musulmano. La carta di Damasco, molto nota in Occidente, è già menzionata verso il 985. Altri centri cartari meno celebri eppure molto importanti furono l'Armenia e la Persia. Le carte dell'Egitto, dove da millenni si coltivava il lino, acquistarono rinomanza sin dalla fine del X secolo, e venivano utilizzate per gli usi più correnti. Dal Cairo e da Alessandria, la carta raggiunse la Tripolitania e la Tunisia. È interessante notare che una ramificazione della via della carta si spinse da Tunisi fino a Palermo, ed alcuni scrittori hanno voluto attribuire l'origine della carta di Fabriano a questo nucleo palermitano. Infine, la via della carta conduce nell'Africa del nord, a Fez, che, al pari di Bagdad e di Damasco diverrà uno dei centri cartari più importanti e che, alla fine del XII secolo, possedeva 400

Samarcanda

Samarcanda (751 d.C.)

Damasco

Bagdad (793 d.C.)

Lo-Yang (105 d.C.)

Percorso di diffusione della della carta

Damasco

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cartiere installate da tempo. Da Fez, la carta penetrò in Spagna, dove sorse la prima cartiera d'Europa. Gli Arabi perfezionarono la fabbricazione della carta non solo riguardo la composizione del materiale, ma soprattutto grazie alla loro conoscenza delle tecniche idrauliche. La ruota dentata permise loro di trasformare il moto circolare continuo in moto alternato, grazie al peso di un utensile o a una molla. In tal modo riuscirono ad applicare la forza idraulica ad un gran numero di industrie e specialmente ai mulini da carta. La Spagna, che subì l'invasione degli Arabi fin dal 711, fu la prima grande regione europea dove si utilizzassero le nuove tecniche di cui poco dopo tutta l'Europa doveva beneficiare. Il lino era un elemento molto importante visto che da esso si ricavavano le materie per la produzione di tele e stracci. L'Italia settentrionale e centrale ne produceva in notevolissima quantità, specie in Lombardia, Piemonte, Marche, Emilia e Romagna; a Bologna si tesseva la rinomata "tela bolognese", ed è probabilmente a questo fattore, insieme al richiamo esercitato dall'università, che si deve se Bologna divenne un grande centro cartario. Il problema fondamentale del cartaio era quello di procurarsi in grande quantità stracci o cordami usati, perciò le cartiere vennero installate di preferenza nelle vicinanze di un centro urbano o anche di un porto. A lungo andare, tuttavia, la presenza di cartiere provocava una certa penuria nella disponibilità locale di stracci; da ciò l'importanza dei raccoglitori e rivenditori di stracci, o cenciaioli, la cui professione, dal XV al XVIII secolo fu tanto più lucrativa in quanto il cartaio dipendeva da loro per approvvigionarsi della materia prima. Gli stracci costituivano un materiale tanto prezioso per i cartai da indurli spesso a sollecitare dallo Stato monopoli e privilegi.

Ruota per la lavorazione della carta nella cartiera di Amalfi

lavoratori che sfilacciano gli stracci

Nonostante ciò, nel XIII secolo, la crisi nell'approvvigionamento di stracci divenne talmente cronica da stimolare in tutta Europa la ricerca di materiali sostitutivi, tra i quali il più importante è la pasta di legno, il cui impiego, tuttavia, si diffonderà solo nel XIX secolo. Fino ad allora gli stracci, tanto preziosi per il cartaio, costituiranno la sola materia prima che, opportunamente trattata, si trasformerà in carta.Molti documenti attestano che, già nel XIII secolo, in Italia si consumavano grandi quantità di 27


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carta. La carta, di provenienza sia araba che spagnola, faceva parte dei commerci che i Genovesi e i Veneziani intrattenevano con Barcellona e Valenza. L'Italia ebbe le sue prime cartiere ad Amalfi nel 1220 e a Fabriano nel 1276. Di qui la produzione si diffuse a Bologna, Padova, Genova, poi in Toscana, in Piemonte, nel Veneto e nella Valle del Toscolano (Brescia). Fabriano mantenne tuttavia a lungo la supremazia grazie soprattutto ad alcuni perfezionamenti tecnici. I cartai italiani furono i primi a servirsi di filigrane per contrassegnare la propria carta, usanza assolutamente sconosciuta ai Cinesi e agli Arabi.

Antica cartiera di Pescia(PT)

Questa marca, la cui invenzione è probabilmente dovuta al caso, costituì presto il mezzo di identificazione della cartiera d'origine, del titolare dell'attività, del formato e della qualità del prodotto. Si devono altresì ai mastri cartai fabrianesi delle innovazioni storiche che hanno costituito per secoli elementi determinanti per la fabbricazione della carta, esse sono: - l'invenzione della pila a magli multipli usata per la preparazione della mezza-pasta dagli stracci, - l'impiego della gelatina animale per rendere la carta resistente ai liquidi, quindi scrivibile, - lo sviluppo della filigrana da semplice effetto in chiaro a riproduzioni multitonali tridimensionali.

Antico modulo per la filigrana (Fabriano)

Per 200 anni almeno l'Italia dominò il mercato della carta, sostituendosi nell'approvvigionamento dell'Europa alla Spagna ed a Damasco. Nel XIV secolo la carta italiana s'era conquistata una supremazia incontestabile sui mercati di Francia, Svizzera, Belgio, Paesi Bassi, Germania e nell'intero bacino del Mediterraneo. Nel 1300 i mercanti cartari milanesi erano stati tra i primi a partecipare alla fiera a Ginevra, trasportandovi le loro merci, attraverso i passi alpini. Durante la prima metà del XVI secolo Anversa, che fino al 1576, fu il maggior centro culturale dei Paesi Bassi, sostituì Genova e Venezia nel commercio della carta. Nell'Europa nord-occidentale, invece, i torchi da stampa precedettero i mulini da carta; questi ultimi furono in attività permanente solo agli inizi del XVI secolo. Poiché la domanda cresceva più in fretta dell'offerta, la carta restò a lungo una materia

pile a magli (Amalfi)

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costosa. E tuttavia, due secoli dopo la sua introduzione in Italia, la carta era diventata il supporto fondamentale della scrittura e della stampa per eccellenza. Nel XVII secolo, tuttavia, la floridezza del settore cartario cessò di colpo, a causa dell'epidemia di peste del 1630-31. L'effetto fu un blocco della produzione, perché la paura del contagio e le misure profilattiche, che contemplavano anche l'incendio degli stracci, paralizzarono la raccolta e la circolazione delle materie prime. Passata la peste, si risentì a lungo della grande mortalità, che produsse da una parte una forte contrazione della domanda interna di carta, dall'altra, la diminuzione dell'offerta di stracci. Inoltre la moria degli artigiani impedì la reazione e la tenuta delle posizioni sui mercati esteri. La ripresa demografica, nella seconda metà del secolo, portò sollievo anche al settore cartario. Altri due fattori, tuttavia, vennero ad intralciare il pieno superamento dell'emergenza peste: l'introduzione dei dazi, e la crescita della concorrenza straniera. I dazi volevano dire intralci e rallentamento in tre direzioni: sui mercati d'oltremare, sul mercato interno, nel rendere difficile e caro il rifornimento di stracci. Il XVII secolo vide anche una notevole innovazione apportata in Olanda: un cilindro munito di lame metalliche che tagliavano, strappavano e riducevano gli stracci in poltiglia. La triturazione degli stracci risultò più rapida e completa. Venne quindi abolita l'operazione di macerazione, che nuoceva alla buona qualità della carta e si ottenne così carta più raffinata in tempi più brevi. Il cilindro olandese fu tuttavia introdotto nelle fabbriche di carta italiane solo nel XVIII secolo. Agli inizi del 1700, produttori e mercanti di carta subirono i contraccolpi delle occupazioni degli eserciti imperiali e gallo-ispani impegnati nella contesa per il trono spagnolo. I loro movimenti bloccarono la circolazione di stracci e di carta per lunghi periodi, fecero rincarare i prezzi e scoraggiarono gli investimenti; di conseguenza la qualità della carta peggiorò. Ma in seguito favorevoli occasioni per recuperare posizioni negli scali levantini e per ritentare le rotte di ponente furono offerte dalle riduzioni delle tariffe doganali dell'impero ottomano, dalla regolazione delle tariffe interne, dall'entrata in servizio di navi capaci di tenere a bada i corsari barbareschi e, specialmente, dagli eventi bellici che imbrogliarono i traffici delle nazioni concorrenti. Nel

Una "A" ottenuta in filigrana

cilindro faffinatore

Carta a mano (XVIII sec.)

macchina Olandese

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1799 Nicolas Louis Robert ideò la prima macchina continua, che fu costruita e brevettata in Francia, e successivamente perfezionata in Gran Bretagna. La prima in Italia, nel 1807, è quella attivata da Paolo Andrea Molina nella sua fabbrica a Borgosesia; solo qualche anno più tardi ne compariranno altre in alcune cartiere piemontesi. La macchina "sans-fin" non si limita, infatti, a rivoluzionare il ciclo produttivo oltre che meccanizzando la fabbricazione del foglio, inglobando altre fasi, come l'asciugatura - ma richiede anche nuovi spazi. Si tratta infatti di una macchina non solo complessa ma anche di dimensioni notevoli. A determinare l'affermazione dell'industria cartaria nella sua forma attuale contribuì anche l'importantissima scoperta di Federico Gottlob Keller che nel 1844 ottenne la pasta di legno meccanica sfibrando per la prima volta il legno con mole di pietra. Alla scoperta della cellulosa sono legati i nomi di Meillier (1852) che pose a cuocere della paglia con soda caustica in un bollitore sferico e di Tilghman, che riuscì a produrre cellulosa partendo dal legno e usando una soluzione di bisolfito di calcio. Al 1882 risale il procedimento Ritte-Kellner e al 1883 quello di Dahl, che aprì la via alla cellulosa e al solfato.

macchina continua

La prima grande macchina continua della cartiera Burgo a Verzuolo

Nicolas Louis Robert ideò la prima macchina 30


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La produzione della carta a mano La tecnica di produzione che ho utilizzato per la carta riciclata deriva da un antico metodo che si utilizza ancora a Fabriano. E’ una delle pochissime città al mondo dove ancora oggi si fabbrichi carta a mano. I preziosi fogli che escono dal reparto “tini” vengono utilizzati per edizioni di pregio, disegno artistico e stampe d’arte, partecipazioni, diplomi di laurea, buoni del tesoro, ecc. Le materie prime di cui ci si serve per la loro produzione sono: cotone, canapa, lino e coloranti speciali; molto accurata è la preparazione dell'’impasto che viene effettuata per mezzo delle vecchie raffinatrici olandesi. La fase centrale della lavorazione è rimasta uguale a quella di 700 anni fa. Il “lavorente” come nel

La Gualchiera riprende le tecniche usate dai "Mastri Chartai" che hanno molto influito al perfezionamento della carta nel mondo.

D o p o l a macerazione lo straccio viene trasformato in "pasta di carta"o "pisto", cioè la riduzione del "tessuto" a "fibra elementare",ottenuta con le "pile idrauliche a magli multipli".

Nella sede del Museo della Carta e della Filigrana di Fabriano è stata ricostruita la Gualchiera Medioevale Fabrianese.

Gli stracci vanno macerati per eliminare la "crudezza" e renderli più morbidi.

Una volta trasformato il tessuto in sfilacci, il materiale viene trasferito, tramite un mestolo di rame, nella pila a "raffinare" dove l'azione dei magli, muniti di chiodi a testa piatta, libera dagli sfilacci la fibra allo stato elementare ("pisto").

Lo straccio viene ridotto in rettangolini di pochi centimetri di lato con una "falce"disposta verticalmente sul davanti del cassone di raccolta.

Il "pisto" è così pronto per essere trasformato in carta. Il pisto prodotto durante il periodo di abbondanza di energia idraulica viene lasciato di scorta. Per questo scopo il pisto raffinato viene confezionato in "pizze" o "cresce".

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XIII secolo, immerge, con la sua mano, la forma nel tino e ne estrae ogni volta la stessa quantità di pasta che distribuisce uniformemente su tutta la superficie della tela. La forma è il mezzo con il quale si ottiene la feltrazione delle fibre; essa è costituita da una tela metallica delimitata da un telaio "casso” o “cascio”, a guisa di cornice non fissa ma che poggia unicamente sul perimetro della tela per consentirne la tenuta della pasta e delimitarne le dimensioni del foglio che verrà ottenuto. Poi non appena il foglio si è formato, il lavorente passa la forma al ponitore , il quale dopo aver lasciato per un momento scolare l’acqua, adagia la forma su un feltro di lana determinando il distacco del foglio della tela. Un foglio e un feltro sopra l’altro, si

Il "lavorente" immerge la forma nel "tino" e ne estrae ogni volta la stessa quantità di pasta che distribuisce sulla tela. La forma è il mezzo con il quale si ottiene la feltrazione delle fibre, ossia il processo di unione delle fibre fino a formare il "foglio".

Un foglio e un feltro sopra l'altro, si forma così una pila o “posta" che viene pressata in un torchio a vite: si ottiene, in questa maniera, la prima disidratazione dei fogli.

La tela così preparata viene montata su un telaio di legno. La superficie di lavoro è delimitata da una cornice di legno, denominata "cascio" o "casso", appoggiata sul perimetro della tela per delimitare la pasta.

Il distacco: il "leva feltro" toglie il feltro superiore; il "levafoglio" distacca il foglio dal feltro e aiutato dal "tenitore" lo dispone sulla pila dei fogli umidi chiamata "postone".

In un telaio di legno, di forma rettangolare, viene posto un panno di canapa a tessuto molto rado; su di esso si fa colare il pisto che perde così molta acqua per leggera pressione manuale.

Appena il foglio si è formato, il lavorente passa la forma al "ponitore" che adagia la forma su un feltro di lana determinando il distacco del foglio dalla tela.

Il "postone" viene sottoposto ad una seconda pressatura prima di essere esposto all'azione di ventilazione o essere steso su corde di canapa nello "stenditoio".

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forma una pila o “posta” che viene viene messa sotto una pressa idraulica: avviene in questa maniera, la prima disidratazione dei fogli. Questa operazione riducendo il contenuto di acqua a circa il 50%, permette di distaccare i fogli dai feltri e disporli, così. Negli “stendaggi”, cioè appesi in grandi locali dove la circolazione dell' aria, alla temperatura ambiente, ne completa l’asciugamento. Subito dopo avviene l' operazione di collatura: i fogli cioè, si immergono in un bagno di gelatina animale che rende il loro interno impermeabile agli inchiostri e assicura una lunghissima conservazione nel tempo. A questo punto la carta è pronta per l' essiccamento definitivo che ha luogo disponendola nuovamente nello stendaggio.

Il carniccio, previamente lavato, viene caricato nell'apposito cesto e calato nella caldaia contenente acqua tiepida. Si lascia il cesto in immersione fin quando tutta la gelatina non sia stata estratta, formando il "brodo". A questo punto si solleva il cesto nel quale èrimasta solo la mucillaggine del carniccio.

Dopo qualche ora di riposo, per far decantare eventuali impurità in sospensione, il "brodo" di gelatina viene trasferito nella caldaia di deposito eseguendo nel contempo la filtrazione per mezzo di un setaccio di canapa nel quale viene posto dell'allume di rocca.

La carta prodotta per essere utilizzata come materiale scrittorio deve essere "collata"; cioè deve essere impermeabilizzata agli inchiostri da scrivere. I fogli di carta vengono immersi in un bagno di "gelatina animale" ricavata dal "carniccio", scarto delle locali concerie.

L'operazione di collatura dei fogli di carta si esegue nella "secchia del collaro". La secchia del collaro appoggia su un robusto treppiede nel quale viene acceso il fuoco per riscaldare la massa. Il "collaro" preleva una "mazzetta" di carta di 5 o 10 fogli e manovrandola in modo da staccare i fogli gli uni dagli altri, la immerge rapidamente nel bagno di colla e, quindi, la ritrae ponendola sul piano della "pressa a collare".

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Infine si eseguono le operazioni di allestimento, con le quali la carta viene “rifinita” attraverso la “scelta”,”contatura”, “pressatura”, “satinatura”, “impaccatura” e “stagionatura” a magazzino. La capacità produttiva di un " Tino " è molto ridotta e al massimo raggiunge i 100Kg. giornalieri.

Una volta tolti i fogli dalla pressa vengono portati ad asciugare al "prato". Appena asciugati,vengono raccolti, impilati e sottoposti alla pressione esercitata da pesi. Ad esse prevvedono i "Cialandratori" o “Chamboreri". La prima operazione svolta è la "lisciatura" che ha lo scopo di levigare le due superfici del foglio di carta. La lisciatura consiste nel porre i fogli, uno alla volta sul piano dell'apposito tavolo rivestito di pelle di montone per ammortizzare la pressione esercitata manualmente con l'attrezzo per lisciare: "il cialandro".

Durante la scelta vengono resi idonei alcuni fogli per la presenza di difetti di lieve entità sarebbero passati ugualmente a scarto ("recupero degli scarti").

Alla lisciatura fa seguito la "sceglitura" o cernita con la quale si allontanano i fogli rotti o comunque difettosi per buchi, grinze, pieghe, "goccie d'acqua", ed altro che vanno a costituire la "cernaglia".

I fogli buoni vengono contati, piegati e quinternati a 25 fogli che fasciati ogni 20 quinterni formano la risma di 500 fogli. Le risme, vanno spedite ai clienti oppure immagazzinate in locale fresco ed asciutto ove la carta ha modo di stagionarsi.

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produzione della carta Il prodotto base per la fabbricazione della carta è la cellulosa che è ricavata in particolare dagli alberi ad alto fusto, quindi sono d'origine vegetale: piante conifere e latifoglie; inoltre vengono utilizzate anche resti di piante annuali (in particolare graminacee) e i residui di fibre tessili dette linters, o residui di fibre lunghe. Sono inoltre utilizzati prodotti di recupero come: carta, cartoni e stracci che subiscono trattamenti diversi (disinchiostrazione, sgrassagio, decolorazione) in funzione del loro stato. La prima operazione, relativa alla lavorazione del legname, è eseguita sul luogo d'origine della pianta e consiste nella scortecciatura; il legno viene poi spezzettato a tronchetti e quindi sminuzzato; in seguito i minuzzoli vengono cotti in una soluzione acquosa detta “liscivio” a temperatura e pressione elevata in particolari bollitori; e durante questa fase il legno viene disintegrato: la lignina, infatti, viene attaccata dalla soluzione e si isolano le cellulose ancora grezze. A questa segue un’operazione detta assortimento, in cui la cellulosa viene passata attraverso una serie di filtri di lavaggio; estratto il liscivio esausto la cellulosa è mescolata con liscivio nuovo. Finita la serie di liscivi, la cellulosa viene lavata, raccolta in tini e dispersa in acqua, e quindi passata attraverso i vagli che fermano le impurità ed i residui di minuzzolo lasciando così passare solo le

Cartiera di Momo

cellulosa

Schema della produzione

carta da riciclare

silos per il liscivio

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fibre. La cellulosa dopo questa fase si può considerare pronta: è cellulosa naturale, in altre parole cellulosa grezza, caratterizzata da un colore brunastro. A questo punto è necessario eliminare il più possibile la colorazione brunastra della cellulosa nel caso si debba usare per carte bianche. L’imbianchimento può essere fatto con vari sistemi, ma il tipo più diffuso è il trattamento con il cloro o coi suoi derivati e dopo l’imbianchimento, la cellulosa viene ripetutamente lavata per togliere le tracce di prodotti chimici impiegati nell’imbianchimento. A questo punto se è la cartiera stessa che ha eseguito il trattamento, la cellulosa passa direttamente alla raffinazione, altrimenti viene disidratata ed essiccata, tagliata in fogli e confezionata in balle. Oltre alla pasta di cellulosa, un altro prodotto che può essere “estratto” dalla lavorazione del legno, ed in particolare dalla lavorazione del legno tenero, chiaro ed esente da odori, è la pastalegno: questa si divide in pasta meccanica, meccanochimica, semichimica. Se il legno d'origine è chiaro, non è necessario l’imbianchimento, altrimenti la pastalegno deve essere sbiancata; il trattamento è analogo a quello utilizzato per la cellulosa ma non possono essere utilizzati il cloro ed i suoi derivati. Per quanto riguarda i materiali di recupero, abbiamo visto che vengono considerati tali la cartaccia, il cartone e gli stracci. La cartaccia deve essere disinchiostrata, decolorata e spazzolata, ed in seguito a questi trattamenti si considera pronta per l’impasto, e lo stesso trattamento è riservato per il cartone. Mentre per quanto riguarda gli stracci, questi subiscono, dapprima l’estrazione della polvere e dei materiali estranei quali possono essere bottoni o cerniere, poi subiscono trattamenti chimici per togliere i residui grassi, infine vengono tagliati a strisce e sfibrati e la pasta subirà anch’essa trattamenti d’imbianchimento analoghi a quelli subiti dalla cellulosa. L’impasto per la carta è formato normalmente da: pasta di cellulosa, pastalegno, che per altro può anche essere assente, cariche e collanti, oltre che di coloranti se si procede alla produzione di carta colorata. Se la carta venisse fatta solo di cellulosa, infatti, non sarebbe utilizzabile per scrivere e stampare e avrebbe un aspetto pressoché traslucido, non uniforme; per conferirle un aspetto opaco e permettere quindi la scrittura e la stampa, nell’impasto della carta vanno messe delle sostanze d'origine minerale o sintetica che le conferiscono

Cellulosa grezza

Carbonato di Calcio macinato - GCC componente di carica

Caolini piatti componente di carica

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l'aspetto caratteristico, accentuando anche: il grado di bianco, di sofficità e di consistenza. Inoltre per poter utilizzare la carta per la stampa e la scrittura è necessario trattarla in modo da evitare che l’inchiostro spanda, e per conferirle questa proprietà è necessario aggiungere delle colle nell’impasto. Per quanto riguarda la fase di fabbricazione della carta questa avviene in apposite macchine, dette “macchine continue”, in quanto funzionano senza interruzione giorno e notte e, e sono formate da una serie d'organi collegati tra loro. un telo di formazione, costituito da una rete metallica o di fibra sintetica, che è simile ad un nastro trasportatore sempre in movimento. La poltiglia si distribuisce uniformemente sul telo, e l’acqua scola attraverso le maglie della rete, a questo punto le fibre si avvicinano e si intrecciano e cominciano a formare un nastro compatto. Al di sotto del telo sono situati appositi cassoni che aspirano altra acqua. Alla fine di questa prima parte della macchina, il telo metallico torna indietro, il foglio di carta si stacca e comincia a passare attraverso una lunga serie di cilindri rotanti

telo di formazione

macchina continua

Schema di una macchina continua

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...ricerca

che hanno lo scopo di formare il foglio, sgocciolarlo, pressarlo, tenderlo, seccarlo, lisciarlo, e finalmente arrotolarlo in grandi bobine. A seconda dell’impiego, i rotoli, possono essere sottoposti ad ulteriori operazioni quali la patinatura e la calandratura, che rendono la superficie del foglio perfettamente livellata e lucida. Le macchine continue più moderne hanno dispositivi di collatura, lisciatura, patinatura e calandratura che possono essere inseriti nel ciclo di lavoro soltanto all’occorrenza. Una volta pronto, il rotolo di carta viene tagliato per mezzo di coltelli circolari e le singole strisce sono ribobinate se la carta serve in bobina, altrimenti un dispositivo particolare taglia la carta in formato. Le carte pregiate destinate alla stampa di qualità vengono confezionate in bancali, avvolti in carta impermeabile o di fogli plastici, e sigillati per conservare lo stato igrometrico.

carta non patinata

L'industria cartaria italiana annovera 166 imprese con 202 stabilimenti; i dipendenti sono 25.100. Il fatturato globale è di 11.650 miliardi di lire con una produzione di 6,8 milioni di tonnellate/anno. Tale produzione rappresenta strutturalmente il 10% della capacità produttiva europea, collocandosi ai primi posti nel continente. L'esportazione è pari a 2,4 milioni (pari al 28% della produzione). E' un settore ad alta tecnologia ed innovazione che raggruppa molte competenze: la Gestione del personale la Ricerca, la Produzione, il Marketing, gli Acquisti, la Distribuzione, l' Ecologia. Tutte queste aree di grande impegno professionale. Forte delle sue 4.500 cartiere sparse nel mondo è un settore in continuo sviluppo e trasformazione.

carta patinata

Le bobine di carta avvolte su grandi cilindri alla fine del processo di patinatura

Le bobine prodotte in attesa di essere allestite nei vari formati.

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...tentativi

Ho iniziato il mio percorso di sperimentazione seguendo delle semplici istruzioni per realizzare della carta riciclata in casa, che derivano dall’antico metodo di fabbricazione artigianale della carta. Innanzi tutto serve della carta da riciclare, si può usare la carta di quotidiani, riviste o dei fogli stampati che non ci servono più. La carta viene tagliata a pezzi di grandezza più o meno 3x4 cm, e questi pezzi vanno messi a macerare immersi in acqua per dodici ore circa, se si utilizza acqua calda bastano 3 - 4 ore. I pezzetti di carta, dopo la macerazione vengono frullati e la pasta risultante, che altro non è che fibre di carta miste ad aqua, va messa in una vasca aggiungendo dell’altra acqua (il quantitativo di acqua dipende da quanto deve essere fine la grana del nostro foglio). Questo impasto è la base per la realizzazione della carta riciclata. Per ottenere un foglio è necessario di un telaio che è possibile costruire con dei listelli di legno e della rete metallica, ad esempio quella per le zanzariere. Il telaio si compone di due parti differenti: la stuoia, che fa da setaccio, ed una cornice che delimita la forma che viene assunta dall’impasto. Il telaio viene usato proprio come un setaccio, viene immerso nella vasca con le fibre miste ad acqua e poi agitato lievemente in direzione laterale per ottenere una buona distribuzione delle fibre, infine viene estratto e messo ad asciugare. Il processo di asciugatura può avvenire in maniera naturale lasciando il foglio sotto il sole o può essere accelerato tramite l’utilizzo di un phon.

fogli di giornale da riciclare

pezzi di carta in macerazione

impasto di acqua e fibre di carta

telaio foglio messo ad asciugare

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...tentativi

la carta dopo qualche minuto può essere spostata dal telaio e posta su un panno di feltro per essere pressata, si può costruire una pressa artigianale con due tavolette di legno e dei morsetti da falegname, io ho utilizzato una pila di libri per pressare il mio foglio. Dopo quest’ultima fase il foglio è pronto per essere utilizzato. Una volta ottenuto un foglio pulito, liscio e dello spessore desiderato è nato in me l’impulso di spingermi oltre e di vedere quali fossero i limiti di questo materiale e di capire che risultati avrei potuto ottenere. In questa fase feci anche delle prove ad integrare la carta con altri materiali in special modo con il polietilene delle bottiglie di plastica, ma una riflessione successiva sulla riciclabilità di questo accoppiamento mi portò ad abbandonare questa strada. La mia idea di base era quella di realizzare una lampada, ed ovviamente con il solo foglio non sarei riuscito ad ottenere qualcosa di differente dai prodotti in carta già esistenti, comunque feci una ricerca su quello che già esisteva e sui vari metodi di lavorazione della carta che avrebbero potuto interessarmi.

foglio ad asciugare

pressatura

foglio pronto

Carta + PET

Carta + PET

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Spostai il mio interesse verso l’oriente dove esistono le più svariate tecniche di produzione e lavorazione della carta. La carta infatti ha più ruoli nella cultura giapponese, il suo utilizzo non si limita alla scrittura, ma già nell’antichità è stata usata in campo architettonico per le sue capacità di far filtrare la luce attenuandone l’intensità e donando così allo spazio un’illuminazione soffusa. In carta erano infatti realizzati gli shoji, le porte scorrevoli che separavano l’interno dall’esterno delle case giapponesi tradizionali, costituite da una grata di legno su cui veniva applicata della carta che permetteva alla luce di filtrare attraverso la carta, appunto, illuminando gli interni di luce soffusa. Gli shoji erano realizzati in carta washi; washi sta per WA: Giappone + shi: carta, questo tipo di carta fu introdotta in Giappone intorno al 600, dalla Cina. Veniva prodotta utilizzando asa (canapa) e kozo (della famiglia del gelso). Successivamente i produttori cercarono un materiale diverso e scoprirono il gampi, appartenente alla famiglia delle daphne, una pianta originaria del Giappone che permise la produzione di carta tipicamente Giapponese. Oltre agli shoji con la carta washi e degli steli di bambù vengono realizzate le lanterne tipiche giapponesi, usate come decorazioni nelle abitazioni e nelle festività.le lanterne possono essere colorate o decorate a seconda dello scopo per il quale saranno impiegate.

gampi

shoji

Preparazione del gampi

Preparare il gampi per fare la carta:Si mette a bagno la corteccia per mezza giornata finché non diventa soffice. Se la corteccia è ancora verde è più facile strapparla dal tronco e può stare a mollo per meno tempo. Se troppo bagnata è molto più difficile separare le fibre dalla corteccia.Prima si toglie la parte esterna della corteccia, quindi si pulisce ciò che rimane da imperfezioni, nodi e macchie, cercando di lasciare solo il gampi morbido e pulito.

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Giappone l’evoluzione.1950 Un grande passo nell’evoluzione dell’utilizzo della carta washi è stato fatto da Isamu Noguchi (19041988) uno dei più importanti artisti giappionesi del ventesimo secolo. Le sculture di luce “Akari” di Naguchi sono considerate delle icone del design moderno anni ’50. L’artista iniziò a progettarle nel 1951 e furono realizzate a mano per mezzo secolo nella fabbrica di Gifu, in Giappone. Le lanterne di carta di Naguchi sono un’armoniosa miscela di tradizione nipponica e forme moderne. Le lampade erano realizzate in carta washi fatta a mano con una struttura in stecche di bambù, ed una base in tondini di metallo. La produzione delle sculture di luce Akari in Giappone presso la compagnia Ozeki sin dal 1951 segue i metodi tradizionali giapponesi. Ogni Akari è artigianalmente prodotta iniziando dalla preparazione della carta washi dalla parte interna del fusto della pianta di gelso. Le stecche di bambù vengono stese attorno ad uno stampo di legno che riproduce la scultura. La carta washi viene tagliata in strisce in base alla misura necessaria e successivamente incollata nel lato esterno della struttura. una volta che la colla si è asciugata e la struttura ha preso la forma, lo stampo in legno viene smontato e rimosso. Il risultato è una forma di carta, che può essere ripiegata e confezionata in un flat pack per la spedizione. L’esperienza di Noguchi si basava però sull’utilizzo di una tecnica già esistente applicata a forme differenti. Negli ultimi anni invece, sempre in Giappone si è riusciti a stravolgere questa tecnica.

Noguchi Lampada da tavolo modello 1N

Noguchi lampada da terra modello UF4-L8 (particolare)

Momenti della preparazione delle lampade Akari

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Giappone l’evoluzione.oggi Recentemente la carta washi è stata reinventata grazie ai contributi della tecnologia. Toshiyuki Kita ad esmpio, ha trovato una sua tecnica e l’ha presentata al pubblico con la collezione di lampade Aoya. Queste lampade grazie ad una speciale lavorazione del materiale brevettata da Kita, dispongono di paralumi tridimensionali, che rimangono tesi senza il supporto di sostegni interni e, soprattutto, con un tessuto perfettamente omogeneo, senza cuciture. Una tecnica rivoluzionaria che rompe i legami col passato cha Noguchi aveva mantenuto vivi nelle sue opere. Anche Eriko Horiki ha seguito questa strada incentrando la propria produzione su oggetti in carta washi tridimensionale e ideando una tecnica unica che permette di creare forme tridimensinali senza collature. Le fibre di gelso di questa carta sono abbastanza resistenti da assicurare l’integrità strutturale senza una struttura di supporto e permettono la libera creazione di superfici curve. Anche in questo caso troviamo una rottura con la tradizione, l’unico aspetto che viene mantenuto è il materiale: la carta washi.

Toshiyuki Kita collezione di lampade Aoya

Lampade Eriko Horiki

Eriko Horiki al lavoro

Eriko Horiki

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Dopo aver scoperto i risultati che la tecnica e la maestria giapponesi erano riuscite ad ottenere, iniziò una nuova fase di esperimenti. Avevo capito quello che volevo ottenere: una carta riciclata al 100% con struttura tridimensionale. Il problema era capire come agire, perché le tecnologie nipponiche sono brevettate e le informazioni sull’argomento limitate. L’idea di base era che la carta potesse essere stampata, ma che tipo di stampo utilizzare? Iniziai quindi a fare delle prove; la prima fu quella di prendere un foglio ancora umido e di adattarne la forma ad uno stampo (in questo caso una vaschetta per il gelato) per poi proseguire con l’asciugatura del foglio e capire se la forma venisse mantenuta. Il risultato non fu dei migliori, infatti inizialmente il foglio assunse la forma desiderata, ma una volta asciutto ritornò ad essere di forma rettangolare. Quindi decisi di agire diversamente. La seconda prova fu quella di realizzare uno stampo maschio femmina all’interno del quale poter versare la soluzione di fibre ed acqua. Lo stampo costruito per la prova era molto semplice, infatti premendo contro un pezzo di Das un tubetto di colla liquida si ottenevano le due componenti per l’esperimento. Dopo aver fatto seccare il Das feci il mio tentativo, ponendo della soluzione di fibre ed acqua all’interno dello stampo femmina, e poi chiudendo lo stampo con il maschio. Assicurai il tutto con un elastico. Anche questo tentativo fallì, il Das infatti è permeabile all’aqua e poroso, queste sue caratteristiche fecero in modo che le fibre di carta si attaccassero allo stampo femmina impedendone il distacco integrale e provocando la rottura della carta .

Stampo (tubetto di colla)

Stampo femmina in Das

stampo (vaschetta per il gelato)

tentativo di adattare il foglio allo stampo

risultato: il foglio si apre

risultato: la carta si rompe

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...altri tentativi

Dopo le delusioni ricevute dal Das decisi di fare un passo indietro ed analizzare meglio il percorso svolto fino a quel momento. Realizzai allora che uno stampo chiuso non avrebbe mai potuto funzionare, infatti per la realizzazione dei fogli avevo utilizzato un setaccio che permetteva il passaggio dell’aria e la perdita dell’acqua, uno stampo chiuso ed impermeabile non avrebbe mai permesso questi processi fondamentali. Quindi bisognava realizzare un setaccio tridimensionale. Il primo che creai fu modellato usando come base l’ultimo stampo in Das che avevo preparato, lo realizzai con del filo di ferro e della rete metallica per zanzariere. Una volta ultimato lo stampo iniziai il nuovo tentativo: lo immersi nella soluzione di acqua e fibre, facendo in modo da avere una buona distribuzione della sostanza, e lo misi ad asciugare al sole. Risultato: la carta assunse la forma desiderata ma il distacco dallo stampo ne provocò la rottura. Il problema fu la rete metallica che, avendo maglia troppo larga e bordi irregolari, fece si che la carta si attaccasse alle irregolarità rendendo impossibile l’operazione di distacco. Tuttavia la strada da percorrere sembrò essere quella giusta, infatti lo stampo permetteva una giusta asciugatura del materiale bisognava soltanto trovare un’alternativa alla rete metallica.

setaccio tridimensionale

stampaggio

risultato: la carta si rompe

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...altri tentativi

Il tentativo successivo fu quello di creare uno stampo che si potesse estrarre smontandolo dall’interno del pezzo. La realizzazione dello stampo non fu molto semplice ed il risultato non buono. Provai comunque ad utilizzarlo ma l’esito lasciò molto a desiderare, infatti smontando lo stampo la carta si ruppe. Ritornai quindi al problema della rete metallica che funzionava nella creazione dei fogli ma non mi permetteva di realizzare la carta 3D. Quindi pensai ad un materiale sostitutivo che avesse maglie più fitte ed un’elasticità maggiore. La prima prova la feci usando la spugna come stampo, pensai infatti di poter estrarre lo stampo dall’interno del pezzo sfruttando l’elasticità del materiale, ma la carta non si staccò data la porosità della spugna, ed il tentativo fallì. La seconda prova fu l’utilizzo di una calza in nylon che applicai esternamente allo stampo realizzato con la rete. Questa volta il risultato fu buono, riuscii a staccare il pezzo di carta dallo stampo provocando solo poche fratture nel materiale. Quindi pensai che fosse necessario rendere più resistente la carta.

stampo componibile

Risultato: carta 3D con delle fratture

Risultato: carta 3D con delle fratture

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Ero riuscito a stampare la carta in 3D, ma il materiale peccava in resistenza quindi feci delle prove per migliorarlo. Nella produzione della carta, sia artigianale che industriale, vengono usate delle colle per aumentarne la resistenza e diminuirne la capacità di assorbimento dell’inchistro, permettendo così la possibilità di scrittura. Anch’io quindi considerai l’utilizzo della colla come soluzione al mio problema. Ma che tipo di colla potevo utilizzare per mantenere la purezza del materiale, e garantirne la totale riciclabilità? Quindi feci una ricerca sulle colle di origine naturale e scoprii l’esistenza di una colla, di origine animale, che faceva al caso mio. La Colla Garavella, nota anche come colla forte, colla gelatina o colla animale, ed è tradizionalmente la colla da falegname. Le sue origini si perdono nei secoli, quando gli antichi artigiani iniziarono l'uso di adesivi nell'unione di giunti in aggiunta al semplice uso di chiodi o incastri. Questa colla fu praticamente l'unica usata fino agli anni 30' quando entrarono in uso le colle sintetiche o viniliche. Essa consiste in una gelatina ottenuta facendo bollire i cascami di animali, pelle, ossa, unghie. L'uso di questa colla non è semplice ed è forse per questo che è stata sostituita dalle colle moderne che sicuramente sono di più pratica utilizzazione. In ogni caso, questa colla ha le caratteristiche ideali di elasticità e reversibilità. Provai ad utilizzarla applicandola su un foglio durante l’asciugatura ed il risultato fu che il foglio si attaccò alla rete, quindi provai ad immergere nella colla un foglio asciutto e dopo essersi riasciugato sembrava plastificato. Il problema fu la successiva prova con la carta 3D che al contatto con l’acqua perdeva forma e struttura.

Colla Garavella

preparazione della colla

la colla disciolta e pronta all’uso

foglio con colla in asciugatura

foglio con colla applicata

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Feci anche delle prove a sbiancare la carta sempre senza intaccarne la composizione con cariche sintetiche. Leggendo il processo di fabbricazione della carta, vidi che viene utilizzato come materiale di carica il talco per rendere la carta più bianca, ed in fase di sbiancaggio l’acqua ossigenata per depurare la carta tramite il processo di ossidazione. Quindi provai ad utilizzare queste due sostanze nel mio procedimento di produzione: feci bollire la soluzione di fibre ed acqua aggiungendo dell’acqua ossigenata e del borotalco. La reazione fu interessante: dopo aver aggiunto l’acqua ossigenata, ed aver portato il composto di nuovo a temperatura di ebollizione, una componente più scura composta da inchiostro ed impurità, si distacco dal resto isolandosi in superficie e permettendomi di rimuoverla dal resto dell’impasto. Il talco invece si dimostrò un problema perché, una volta asciutto il foglio, non impedì il passaggio della luce inoltre rese il materiale più fragile e friabile. Ritornai a questo punto alle prove con gli stampi, il tentativo successivo fu quello di costruire uno stampo senza utilizzare la rete metallica. Preparai quindi un nuovo scheletro in ferro dalla forma organica. A questo scheletro applicai esternamente solo la calza di nylon ed il risultato fu ottimo: la carta non si ruppe e l’effetto con la luce risultò molto interessante. Infatti la luce aveva forma organica, sembrava passare attraverso una nuvola, in quel momento capii che era quell’effetto ciò che stavo cercando, ovviamente bisognava ancora trovare una forma definita ed un modo per rafforzare i bordi.

sbiancaggio

stampo in fil di ferro

prova di luce

risultato

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A questo punto realizzai un nuovo stampo più grande rispetto al precedente per capire come si sarebbe comportata la mia carta aumentando le dimensioni del pezzo. Questa volta però la forma era stata stabilita prima, pensai infatti di creare una lampada che somigliasse ad un bonsai per rendere omaggio alla cultura giapponese che ha inspirato gran parte del mio percorso. Quindi feci una ricerca sui bonsai e scoprii che esistono diverse tecniche per far crescere gli alberelli in base alla forma ed allo stile desiderati. Io scelsi di inspirarmi alla tecnica Moyogi, che più mi ricordava l’iconografia classica dei bonsai, cioè un tronco un po’ storto e pochi cespugli di varie dimensioni che si sviluppano in orizzontale. Sfruttando il primo stampo potevo creare i cespugli più piccoli, e con il nuovo avrei fatto quello più grande. La struttura di base la realizzai in cartone così da poter riciclare il tutto con un unico procedimento. Non usai colle quindi il tutto si basava su un sistema di incastri, il tronco ed i rami erano composti da uno scheletro in cartone che bloccai con una serie di dischetti, sempre in cartone. Il risultato però non fu quello desiderato, la struttura non reggeva bene ed era troppo complicata da realizzare, anche la forma finale non riusciva a soddisfarmi ed in fin dei conti l’idea del bonsai non era poi un gran che. Dopo il bonsai lasciai perdere per un po’ le ricerche sulla forma e mi dedicai invece alla ricerca di una fonte luminosa per la mia lampada.

nuovo stampo

carta risultante dal nuovo stampo

rendering della struttura in cartone Modello della lampada “bonsai”

illustrazione della tecnica moyogi

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LED è l'acronimo di Light Emitting Diode (diodo ad emissione luminosa). Il primo LED è stato sviluppato da Nick Holonyak Jr. (nato nel 1928) nel 1962. Il dispositivo sfrutta le proprietà ottiche di alcuni materiali semiconduttori per produrre fotoni a partire dalla ricombinazione di coppie elettrone-lacuna. Gli elettroni e le lacune vengono iniettati in una zona di ricombinazione attraverso due regioni del diodo drogate con impurità di tipo diverso, e cioè di tipo n per gli elettroni e p per le lacune. Il colore della radiazione emessa è definito dalla distanza in energia tra i livelli energetici di elettroni e lacune e corrisponde tipicamente al valore della banda proibita del semiconduttore in questione. I LED sono uno speciale tipo di diodi a giunzione p-n, formati da un sottile strato di materiale semiconduttore drogato. Quando sono sottoposti ad una tensione diretta per ridurre la barriera di potenziale della giunzione, gli elettroni della banda di conduzione del semiconduttore si ricombinano con le lacune della banda di valenza rilasciando energia sufficiente da produrre fotoni. A causa dello spessore ridotto del chip un ragionevole numero di questi fotoni può abbandonarlo ed essere emesso come luce. I LED sono formati da GaAs (arseniuro di gallio), GaP (fosfuro di gallio), GaAsP (fosfuro arseniuro di gallio), SiC (carburo di silicio) e GaInN (nitruro di gallio e indio). L'esatta scelta dei semiconduttori determina la lunghezza d'onda dell'emissione di picco dei fotoni, l'efficienza nella conversione elettro-ottica e quindi l'intensità luminosa in uscita. Anche se è cosa poco nota, i LED sono "macchine reversibili", infatti se la loro giunzione viene

Alcuni LED di colore rosso

LED osservato allo stereomicroscopio ottico

Led ad alta luminosità

Led colorati

Led a due colori

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esposta direttamente ad una forte fonte luminosa o ai raggi solari, ai terminali appare una tensione, dipendente dall'intensità della radiazione e dal colore del led in esame (massima per il Blu). Questa caratteristica viene abitualmente sfruttata nella realizzazione di sensori, per sistemi di puntamento

Utilizzo I primi LED erano disponibili solo nel colore rosso. Venivano utilizzati come indicatori nei circuiti elettronici, nei display a sette segmenti e negli optoisolatori. Successivamente vennero sviluppati LED che emettevano luce gialla e verde e vennero realizzati dispositivi che integravano due LED, generalmente uno rosso e uno verde, nello stesso contenitore permettendo di visualizzare quattro stati (spento, verde, rosso, verde+rosso=giallo) con lo stesso dispositivo. Negli anni 90 vennero realizzati LED con efficienza sempre più alta e in una gamma di colori sempre maggiore fino a quando con la realizzazione di LED a luce blu non fu possibile realizzare dispositivi che, integrando tre LED (uno rosso, uno verde e uno blu), potevano generare qualsiasi colore. I LED in questi anni si sono diffusi in tutte le applicazioni in cui serve: elevata affidabilità, lunga durata, elevata efficienza, basso consumo. Alcuni utilizzi principali sono: nei telecomandi a infrarossi indicatori di stato (lampadine spia) retroilluminazione di display LCD nei semafori e negli "stop" delle automobili cartelloni a messaggio variabile illuminazione

Vari tipi di LED

Impiego nell'illuminazione I LED sono sempre più utilizzati in ambito illuminotecnico in sostituzione di alcune sorgenti di luce tradizionali. Il loro utilizzo nell'illuminazione domestica, quindi in sostituzione di lampade ad incandescenza, alogene o fluorescenti compatte (comunemente chiamate a risparmio energetico), è oggi possibile con notevoli risultati raggiunti grazie alle tecniche innovative sviluppate nel campo. Attraverso i nuovi studi, infatti, il rendimento quantita di luce/consumo è stato calcolato di un minimo di 3 a 1. Fondamentalmente il limite dei LED per questo tipo di applicazione è la quantità di luce emessa (flusso luminoso espresso in lumen) che nei modelli di ultima generazione per uso

Insegna a LED

Display a LED

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professionale si attesta intorno ai 120 lm ma che nei modelli più economici raggiunge solo i 20 lumen. Una lampadina ad incandescenza da 60 W emette un flusso luminoso di circa 550 lumen. Inoltre i LED più luminosi sono ancora quelli a luce fredda con resa cromatica relativamente bassa. Il loro utilizzo diventa invece molto più interessante in ambito professionale dove il rendimento di 4060 lm/W li rende una sorgente appetibile. Come termine di paragone basti pensare che una lampada ad incandescenza ha rendimenti di circa 20 lm/W, mentre una alogena di 25 lm/W ed una fluorescente lineare fino a 104 lm/W. Altro loro limite nell'illuminazione funzionale è che le loro caratteristiche di emissione e durata sono fortemente condizionati dalle caratteristiche di alimentazione e dissipazione. Diventa dunque difficile individuare rapporti diretti tra le varie grandezze, tra le quali entra in gioco anche un'ulteriore parametro, ovvero l'angolo di emissione del fascio di luce, che può variare in un range di circa 4 gradi a oltre 120. Dal punto di vista applicativo i LED sono ad oggi molto utilizzati quando l'impianto di illuminazione deve avere le seguenti caratteristiche: miniaturizzazione, colori saturi, effetti dinamici (variazione di colore RGB), lunga durata e robustezza, valorizzazione di forme e volumi. Concludendo i vantaggi dei LED dal punto di vista illuminotecnico sono: durata di funzionamento (LED ad alta emissione arrivano a circa 50.000 ore), assenza di costi di manutenzione, elevato rendimento (se paragonato a lampade ad incandescenza e alogene), luce pulita perché priva di componenti IR e UV, facilità di realizzazione di ottiche efficienti in plastica, flessibilità di installazione del punto luce, colori saturi, possibilità di un forte effetto spot (sorgente quasi puntiforme), funzionamento in sicurezza perché a bassissima tensione (normalmente tra i 3 e i 24 Vdc), accensione a freddo (fino a -40°C) senza problemi, insensibilità a umidità e vibrazioni, assenza di mercurio. La forza commerciale di questi dispositivi si basa sulla loro potenzialità di ottenere elevata luminosità (quattro volte maggiore di quella delle lampade fluorescenti e filamento di tungsteno), basso prezzo, elevata efficienza ed affidabilità (la durata di un LED è di uno-due ordini di grandezza superiore a quella delle classiche sorgenti luminose, specie in

Stop a LED

Luci di posizione LED

Lampadine LED 3D

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condizioni di stress meccanici); inoltre essi non richiedono circuiti di alimentazione complessi, possiedono alta velocità di commutazione e la loro tecnologia di costruzione è compatibile con quella dei circuiti integrati al silicio. I LED sono particolarmente interessanti per le loro caratteristiche di elevata efficienza luminosa A.U./A e di affidabilità. I primi LED ad alta efficienza sono stati investigati dall'ingegnere Alberto Barbieri presso i laboratori dell'università di Cardiff (GB) nel 1995, rilevando ottime caratteristiche per dispositivi in AlGaInP/GaAs con contatto trasparente di Indio e Stagno (ITO). L'evoluzione dei materiali è stata quindi la chiave per ottenere delle sorgenti luminose del futuro che hanno tutte le caratteristiche per sostituire quasi tutte quelle ad oggi utilizzate. Nei telefoni cellulari sono presenti nel formato più piccolo in commercio, per l'illuminazione dei tasti, su alcuni modelli di autovetture e ciclomotori di nuova produzione, sono presenti in sostituzione delle lampade a filamento, per le luci di "posizione" e "stop". Solitamente il terminale più lungo di un diodo led (diametro package 3 mm, 5 mm o superiori) è chiamato anodo (+) e il terminale più corto catodo. Per polarizzare correttamente un diodo LED possiamo usufruire inoltre di una caratteristica particolare del package: se si guarda infatti il led dall'alto, si può notare come la parte laterale del package non sia regolare ma squadrata da un lato: questa "squadratura" identifica il catodo (-). Nel caso dei led 3 mm, si rende necessario l'uso di un tester in quanto tale "segno" (se presente) non è quasi visibile. Se si utilizza un tester, dopo aver selezionato la scala di resistenza con fattore 1 (X1), se si pone il puntale positivo sull'anodo e il puntale negativo sul catodo, il tester segnerà un valore di resistenza dell'ordine di qualche centinaio di ohm, nel caso il tester fosse un modello analogico con pila di alimentazione a 3 volt, se il led è efficiente, essendo polarizzato direttamente, il piccolo flusso di corrente che lo attraversa lo farà accendere, invertendo i puntali, invece, il tester non dovrà segnare alcuna continuità. Esiste anche un metodo "visivo" ma quasi mai usato dai tecnici per il riconoscimento

Strisce di LED

Stanza illuminata con LED

Illuminata a LED per esterni

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del catodo o dell'anodo di un led: guardando all'interno del package trasparente si possono vedere due parti metalliche separate di diversa grandezza collegate ai terminali, la parte più grande è sempre collegata al catodo, e di conseguenza la più piccola all'anodo (+).

Colori I LED convenzionali sono composti da vari materiali inorganici che producono i seguenti colori: AlGaAs - rosso ed infrarosso GaAlP - verde GaAsP - rosso, rosso-arancione, arancione, e giallo GaN - verde e blu GaP - rosso, giallo e verde ZnSe - blu InGaN - blu-verde, blu InGaAlP - rosso-arancione, arancione, giallo e verde SiC come substrato - blu Diamante (C) - ultravioletto Silicio (Si) come substrato - blu (in sviluppo) Zaffiro (Al2O3) come substrato - blu Inoltre, la caduta di tensione dei LED è relazionata al colore della luce emessa, come riportato nella seguente tabella: Tipologia LED Caduta di tensione Vi (volt cc) Colore infrarosso 1,3 Colore rosso 1,8 Colore giallo 1,9 Colore verde 2,0 Colore arancio 2,0 Flash blu/bianco 3,0 Colore Blu 3.5 V Colore Ultravioletto 4 -:- 4.5 V

Come distinguere tra anodo e catodo in un LED

Nuove forme di graffiti con i Led

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A questo punto decisi di provare i LED per la mia lampada, inizialmente utilizzai dei LED che si trovano negli accendini, ne trovai di tre colori: blu, rosso, giallo. Questi LED erano collegati con delle batterie e quindi facilitarono la mia prova. Tentai dunque ad utilizzarli con la carta ed il risultato fu bono, anche perché avevo la possibilità di mischiare i colori per ottenere effetti differenti. Tuttavia, questa prova, la feci con un pezzo di carta abbastanza piccolo quindi per realizzare la lampada vera e propria avrei dovuto utilizzare più LED. Comunque, grazie a questo tentativo, capii che potevo sfruttare questa tecnologia per combinare i colori e mi venne l’idea di realizzare diverse colorazioni per la mia lampada. In questo modo l’utente finale possiede la capacità di scegliere il colore della lampada in base all’atmosfera che si desidera creare o allo stato d’animo. La carta del resto ha una colorazione neutra mantenuta volutamente per permettere questo gioco di colori. Mi restava ancora da realizzare la base che avrebbe fatto da supporto al sistema di LED.

LED azzurro

LED rosso

LED presi dagli accendini

LED giallo

Prove di colore con la carta

azzurro+rosso

giallo

rosso+giallo

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Per realizzare la base della lampada decisi di utilizzare delle comuni bottiglie in plastica, tagliate e modellate secondo le mie esigenze. Il vantaggio nell’utilizzo di questo materiale è al livello strutturale in quanto, grazie a delle pieghe ed all’utilizzo del calore, la base viene più solida e resistente rispetto a quella in cartone. Le bottiglie di plastica sono composte da PET( Polietilene tereftalato). Il polietilene tereftalato o polietilentereftalato , fa parte della famiglia dei poliesteri, è una materia plastica composta da ftalati adatta al contatto alimentare. In funzione dei processi produttivi e della storia termica può esistere in forma amorfa (trasparente) e semicristallina (bianca ed opaca). Viene utilizzato per le sue proprietà: elettriche, resistenza chimica, prestazioni alle alte temperature, autoestinguenza, rapidità di stampaggio. Viene indicato anche con le sigle PET, PETE, PETP o PET-P. Esempi di applicazioni sono: sacchetti in polietilene, buste in polietilene, film in polietilene, tubi in polietilene, polietilene espanso, lastre in polietilene, bottiglie in polietilene, bottiglie in PET, contenitori in

Simbologia usata per il PET e formula di struttura

bottiglie in PET

PET in granuli e dopo lo stampaggio la bottiglia

Blossom (fiori) Michelle Brand luci eco-ambientali create da bottiglie in PET e LED

PET: progetto di un set acquatico Miwa Koizumi

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...altra ricerca

PET. Tra l’altro il PET è riciclabile, infatti, una volta raccolte, le varie forme di PET vengono mandate ai centri di riciclaggio dove vengono fatte passare attraverso delle macine che convertono il materiale in forma di polvere. Questa polvere attraversa poi un processo di separazione e pulitura che rimuove tutte le particelle estranee come carta, metalli o altri materiali plastici. Essendo stato ripulito, in accordo alle specificazioni del mercato, il PET recuperato viene venduto ai produttori che lo convertono in una varietĂ di prodotti come tappeti, cinturini e contenitori per usi non alimentari. Esistono, tuttavia, due processi di depolimerizzazione (metanolisi e glicolisi), disponibili sul mercato, in grado di riportare la polvere di PET ripulita allo stato di monomero o di materia prima originale. Questo materiale puo' essere purificato e successivamente riutilizzato per la produzione di PET ad uso alimentare. In queste pagine sono illustrati alcuni prodotti che riciclano le bottiglie in PET

hanger (gruccia) Xuan Yu, Usa

Watering can, Nicolas Le Moigne Svizzera Cyrano De Bergerac Hagay Harduff, Oren Shtosser Israele

BKG Carla Scorda, Gabriele Rigamonti Vittorio Turla

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...e altri tentativi

Dopo aver visto le potenzialità del PET decisi di provare ad usarlo per realizzare la mia base. Per il primo tentativo utilizzai una bottiglia di acqua minerale, il risultato non fu buono, infatti le nervature presenti nella bottiglia, che servono a conferire resistenza al materiale e permettono di utilizzare spessori inferiori, risultarono antiestetiche oltre ad indebolire la struttura dopo il taglio. Quindi cambiai bottiglia di partenza e per la mia seconda prova utilizzai una bottiglia da 2 lt di Coca-Cola. Lo spessore del PET in quest’oggetto è superiore rispetto a quello della bottiglia d’acqua minerale, inoltre non sono presenti le stesse nervature. Il risultato in questo caso fu buono, la struttura si dimostrò stabile e resistente abbastanza per la lampada. Tra tutti i tentativi realizzati ci fu anche quello di colorare la carta con sostanze naturali. La procedura fu: preparare delle bevande coloranti, quali: tè classico, tè rosso, una tisana alle erbe e del caffè. I tè e la tisana li feci molto concentrati, usando più bustine, per aumentarne il potere colorante. Il risultato non fu granchè, i colori erano tutti tra il marrone ed il grigio, infatti essendo grigia la base di partenza tutti i colori si mischiavano al grigio. Quindi decisi di mantenere la colorazione naturale della carta per avere una maggiore trasparenza alla luce.

Prima prova in PET

Base in PET

Prove di colorazione

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...e altri tentativi

Un altro tentativo fu quello di realizzare un disegno a rilievo, inspirandomi alla tecnica della filigrana, realizzai un decoro che potesse fsre da richiamo alla mia terra: la Sicilia. L’inspirazione arrivo durante un viaggio in autobus tra Palermo e CanicattĂŹ. Osservando il paesaggio notai la pianta di Finocchietto Selvatico: era dappertutto, lungo la strada ne vidi a dozzine. Infatti è una pianta tipica della macchia mediterranea ed in Sicilia cresce ovunque ed in qualsiasi tipo di terreno.\ Decisi quindi di realizzare il mio decoro partendo dal fiore del finocchietto, stilizzandone ed ingrandendone un particolare: il fiore.

Particolare del fiore di finocchietto

Fiore di finocchietto Decorazione per la carta

Prova di stampo a rilievo, particolare

Prova di stampo a rilievo 59


...e altri tentativi

A questo punto cominciai la ricerca di una nuova forma per la carta. Seguendo il filo del finocchietto, decisi di inspirarmi ad un seme, stilizzandone la forma arrivai ad una piramide di base triangolare, con gli angoli smussati. Realizzai quindi uno stampo per la nuova forma ma inizialmente non funzionò bene, solo dopo alcune modifiche ottenni il risultato cercato, anche se non rimasi molto soddisfatto. Bisognava ripensare la forma e la decorazione a rilievo che nel foglio di prova era risultata poco definita ed inadatta all’utilizzo, quindi dovetti provare ancora. forma di prova intermedia

stampo finale

vari tentativi

render della lampada

risultato finale

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...e altri tentativi

Ne frattempo feci realizzare da un amico esperto in elettronica, il circuito per i LED. E’ un circuito abbastanza semplice che funziona con una serie di diodi ed un commutatore. Il diodo è un componente elettronico la cui funzione ideale è quella di permettere il flusso di corrente elettrica in una direzione e di bloccarla nell'altra, la qual cosa viene realizzata ponendo dei vincoli alla libertà di movimento e di direzione dei portatori di carica. Il simbolo circuitale del diodo esprime chiaramente questa funzione: il triangolo indica la direzione che permette il flusso di corrente elettrica considerato convenzionalmente positivo (dal polo negativo a quello positivo), mentre la sbarra ne indica il blocco. Il circuito in realtà, è composto da quattro piccoli circuiti, ognuno dei quali accende una precisa combinazione di LED di colori diversi che formano un colore unico differente dagli altri. Il commutatore permette all’utente, tramite una manopola, di scegliere a quale dei quattro circuiti dare corrente, e quindi di scegliere il colore della luce che si desidera in quel momento.

il circuito di LED

colore 1

colore 4

colore 2

colore 3

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...e altri tentativi

Risolto il sistema di LED, tornai alla forma. Questa volta mi inspirai al fiore del finocchietto e tentai di riprodurne i singoli fiorellini con un rilievo. Lo stampo lo realizzai con uno scolapasta tagliato su misura e, per ottenere il rilievo, incollai delle perline di una collana sullo stesso. La base in PET non andava più bene, quindi ne realizzai un’altra partendo da un’insalatiera dello stesso diametro dello stampo, alla quale ,semplicemente, praticai due fori. La manopola per il commutatore la creai dal tappo di un evidenziatore, con del cavo di gomma incollato attorno al bordo per coprire il dado che fissa il commutatore.Il risultato non fu male e l’effetto della carta illuminata andava migliorando ad ogni pezzo che creavo. C’era un altro problema però, cioè come fissare la carta all’insalatiera. La soluzione poteva essere una fascia elastica, ma la forma ancora non era soddisfacente, qundi non feci questa prova.

Fiore di finocchietto

Particolare della manopola Pezzo inspirato al fiore

Effetto della luce attraverso il pezzo

Risultato finale

Base realizzata con l’insalatiera

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...e altri tentativi

Decisi, a questo punto, di ritornare al seme cercando una forma più pulita e più vicina a quella dei semi veri e propri. La lampada che ne nacque è formata sostanzialmente da due gusci sovrapposti, uno in carta e l’altro in plastica. All’interno di questo seme posi il mio sistema di LED. Mi trovai davanti un nuovo quesito, e cioè: come realizzare la base in plastica? Soluzione: con un foglio tagliato e piegato in modo da ottenere la forma desiderata. Il fissaggio dei pezzi sarebbe avvenuto grazie a delle linguette interne rivettate. Preparare lo sviluppo in piano dei pezzi non fu semplice, partii da uno scheletro in cartone, a questo attaccai dei fogli che poi tagliai su misura. Una volta tagliati i fogli bastò staccarli per avere i pezzi in piano. La prima prova di base non risultò precisa perché i rivetti non sigillavano bene il tutto, poi mi accorsi che potevo saldare la plastica. Decisi quindi che avrei saldato tutti i pezzi tra di loro per avere una base resistente e stabile. La plastica utilizzata è quella semi trasparente delle cartellette da ufficio in polipropilene.

schizzo del seme

render del seme

modello in carta per la base

pezzi che compongono la base

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...altra ricerca

Il polipropilene Il polipropilene (PP), a livello strutturale è un polimero vinilico simile al polietilene, solo che ha un gruppo metilico su ogni atomo di carbonio della catena principale. Il polipropilene si può ottenere dal monomero di propilene grazie alla polimerizzazione di Ziegler-Natta e alla polimerizzazione catalizzata da metalloceni. È inoltre un composto plastico che può mostrare diversa tatticità. Il prodotto più interessante dal punto di vista commerciale è quello isotattico, che è caratterizzato da un elevato carico di rottura, una bassa densità, una buona resistenza termica e all'abrasione. La densità è di 0,9 g/cm3 e il punto di fusione è di 165°C e oltre. Il polipropilene ha conosciuto un gran successo nell'industria della plastica: moltissimi oggetti di uso comune, dagli zerbini agli scolapasta per fare alcuni esempi, sono fatti di polipropilene. La maggior parte degli arredi per esterni sono in questo materiale. Le cartellette porta documenti utilizzate per questo progetto sono realizzate partendo da granuli, o pellets, di PP che vengono prima laminati a caldo per realizzare delle lastre, poi queste lastre vengono fustellate, cioè tagliate, e piegate in base alla forma desiderata. Si possono trovare anche oggetti formati da più pezzi che possono essere incollati o termosaldati. Il PP è riciclabile, il processo di riciclaggio utilizzato per il PP è di tipo a cascata. Il riciclaggio a cascata di questo materiale è il sistema F.A.RE. della Fiat. (Fiat Auto REcycling). La filosofia alla base del progetto e' quella del riciclaggio a cascata dei materiali, ovvero del loro recupero per utilizzi via via meno impegnativi rispetto alla loro funzione originale, sia sul piano

Buste in PP

Granuli di PP

Simbolo del PP e formula chimica

Logo de sistema F.A.R.E.

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...altra ricerca

estetico sia sul piano funzionale e prestazionale. I componenti interessati al sistema F.A.RE. sono i paraurti in polipropilene, che attraverso processi di frantumazione e rigranulazione, diventano materie prime per la produzione di componenti pi첫 semplici, come le canalizzazioni d' aria per la plancia, per la prima generazione ; queste potranno a loro volta essere riciclate per produrre sottotappeti per la seconda

PP filato

Raccoglitore in PP semi trasparente

...e altri tentativi

Trolley in PP

Cartellette in PP

Sedia da giardino in PP

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...e alla fine...

Questo è il risultato della base tagliata da una cartelletta in PP e termosaldata (con un normale saldatore per lo stagno). Dopo aver realizzato la base vi applicai il circuito di LED che nel frattempo avevo quadruplicato in numero e quindi in potenza luminosa. Il circuito è fissato alla base con delle fascette in polipropilene termosaldate. A questo punto iniziarono le prove per la forma in carta. Realizzai uno stampo con del filo di ferro e lo provai. Il primo tentativo comprendeva una decorazione sulla carta realizzata con dei fori nella calza di Nylon, questa tecnica però si rivelò svantaggiosa ai fini della resistenza del pezzo. Anche la seconda prova non diede un buon risultato, infatti la forma dello stampo dava problematiche alla resistenza della carta ed un altro tentativo di decorazione ,questa volta con dei fogli stampati applicati sul pezzo umido, non diede gli effetti sperati. L’inchistro infatti, si diluiva e le immagini non risultavano chiare.

Base con montato iil sistema d’illuminazione

Pezzo decorato con l’inchiostro

Particolare della base

Particolare della base

Pezzo decorato con fori

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...e alla fine...

Alla fine, dopo aver risistemato lo stampo, lo riprovai. Questa volta tutto andò per il verso giusto e rimasi sorpreso dal risultato ottenuto. Dopo lo stampaggio applicai degli strati di colla Garavella alla carta per aumentarne la resistenza. Sono arrivato al progetto dopo tutte le prove e gli esperimenti fatti finalmente è nata “Seme di Nuvolaâ€?.

La carta sullo stampo

prova con la luce disegno di Seme di Nuvola

Seme di Nuvola

...progetto 67


bibliografia

Libri: Pierre-Marc de Biasi. La carta: avventura quotidiana. Milano Electa Gallimard, 1999 Vercelloni M. Bianchi R. , "Design", Milano, Mondadori (Guide cultura)(2004) Vanni Pasca, Viviana Trapani, “Scenari del giovane design”, Milano, Lupetti, 2002 Marinella Ferrara, “Acciaio”, Milano, Lupetti, 2005 Alastair Faud-Luke, “Eco design”, Modena, Logos, 2003 Siti: www.cartieramomo.com www.museodellacarta.com www.casazen.com www.museodellacarta.it www.museodellacarta.org www.noguchi.org www.culturagiapponese.it www.eriko-horiki.com www.yaronelyasi.com www.antichitabelsito.it www.xymara.com/

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