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Indice
Una nuova rivista, perché? – Pietro Greco
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Dossier – Scienza e Ambiente, un’alleanza “naturale” L’uomo, attore ecologico globale L’Antropocene – Stefano Pisani Clima e biodiversità Mutamenti planetari – Antonio Navarra Il padrone della “serra” – Margherita Fronte Chimici e ambientalisti: prove tecniche di un armistizio Stefano Pisani La sesta estinzione – Saverio Forestiero Prima e dopo Rio – Romualdo Gianoli
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Economia ecologica Sviluppo o decrescita? – Ugo Leone
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Ambiente e popoli Migranti ambientali – Antonio Golini
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Democrazia ecologica Come rane nello stagno: la partecipazione pubblica Giancarlo Sturloni Media verdi: come e perché parliamo di ambiente? Vincenzo Napolano
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Ecologia delle idee Disincanto e saggezza del naturalismo – Orlando Franceschelli Il mito di Gaia: un pianeta troppo umano – Cristian Fuschetto
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Ultime dalla Società della Conoscenza Ultime dal mondo Ultime dall’Europa Europa news Ultime dall’Italia L’Italia al VII PQ
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Scienza e Società Filosofia Scienza e Democrazia – Umberto Cerroni Educare all’incertezza – Silvia Caianiello
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Storia L’industria chimica in Italia – Gianni Paoloni
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Sociologia Se a decidere non sono gli scienziati Yurij Castelfranchi e Nico Pitrelli
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Economia Scienza, Tecnologia, Sviluppo: una storia antica – Sergio Ferrari
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Questioni di genere Donne e Scienza – Paola Govoni
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Pace e Guerra Le nanotecnologie vanno alla guerra – Maria Grazia Betti
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Comunicazione Un bisogno “vitale” – Andrea Cerroni
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Arte Non ci sono più i morti di una volta! – Francesco Paolo de Ceglia
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Recensioni La Scienza in mostra. Musei, science centre e comunicazione Come si comunica la scienza? Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici
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Una nuova rivista, perché?
Perché una nuova rivista? Perché una nuova rivista che si propone, addirittura, di intervenire in due dimensioni, la scienza e la società, così ampie, per molti versi, così difficili da definire? Per tre motivi, essenzialmente. In primo luogo perché sono definitivamente crollate le mura di quella torre d’avorio che separava la scienza dal resto della società umana e consentiva a entrambe di evolvere in maniera (relativamente) autonoma. Senza quelle mura che le tenevano separate, scienza e società hanno iniziato a diffondersi l’una nell’altra fino a interpenetrarsi in maniera molecolare. Cosicché i loro rapporti sono diventati semplicemente necessari. Necessari per gli scienziati. Una parte crescente delle decisioni rilevanti per lo sviluppo della scienza viene ormai presa in compartecipazione tra le comunità scientifiche, i collegi invisibili di Robert Boyle, e una intera costellazione di gruppi di non esperti. Nel loro lavoro quotidiano gli scienziati non possono fare a meno di avere rapporti rilevanti per lo sviluppo della loro attività scientifica con il resto della società. Necessari per la società. Nel medesimo tempo, la scienza entra sempre più nella vita quotidiana dei cittadini. È parte sempre più rilevante e ineludibile non solo della cultura dell’uomo, ma anche dell’economia, della politica, dell’etica. L’evoluzione della società a ogni livello è sempre più segnata dalle nuove conoscenze scientifiche. In secondo luogo perché la scienza e la democrazia, come rileva acutamente uno dei pionieri italiani degli studi su scienza e società, Umberto Cerroni, nel saggio inedito che troverete tra qualche pagina, non sono solo le due dimensioni emergenti nella storia del ventesimo secolo e dello sprazzo di ventunesimo secolo che abbiamo finora vissuto. Sono due dimensioni che in 1
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Editoriale
parte si sovrappongono. E dalla qualità della loro intersezione dipende, semplicemente, la qualità della società umana. Se la scienza diventa patrimonio di questo o di quello e fonte di nuova disuguaglianza, allora l’intersezione con la democrazia diminuisce e la qualità della società umana si affievolisce. Se la scienza conferma l’ideale baconiano e contribuisce al benessere dell’intera umanità, allora l’intersezione con la democrazia si estende e con essa la qualità della vita sociale dell’uomo. Infine perché se il rapporto tra scienza e società è diventato così stretto, ineludibile e, insieme, così importante per l’una e per l’altra, allora occorre porre attenzione a un terzo elemento – la complessità. La frontiera lungo la quale si incontrano scienza e società è enorme e variegata. In ogni punto assume un carattere diverso. E ogni punto è correlato con ogni altro, generando intere costellazioni di azioni e di retroazioni. Non c’è un modo semplice per descrivere (e tessere) l’ordito interpenetrato tra scienza e società. Ecco, con questa rivista vogliamo raccontare – senza rinunciare, di tanto in tanto, con molta modestia ma anche con molta determinazione, a interpretare – questo rapporto necessario, critico e complesso tra scienza e società da cui dipende tanta parte del nostro futuro. Buona lettura.
Pietro Greco
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Dossier
Scienza e ambiente: un’alleanza “naturale”
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L’uomo, attore ecologico globale
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ambiente è una delle grandi frontiere emergenti lungo le quali scienza e società gioco forza si incontrano. Per due motivi molto semplici. Il primo è che l’uomo è diventato un attore ecologico globale. Il secondo, che ne ha piena consapevolezza. In entrambi gli eventi la scienza svolge un ruolo decisivo. L’ambiente del pianeta Terra da 3 o addirittura 4 miliardi di anni è modificato in maniera continua e profonda dagli organismi viventi in un ampio spazio che, non a caso, definiamo biosfera. I segni macroscopici di questa interazione sono moltissimi e persino eclatanti. L’atmosfera terrestre, per esempio, costituisce un vero e proprio “assurdo chimico”, con la presenza massiva di una molecola O2, l’ossigeno, altamente reattiva. Nessun altro pianeta conosciuto ha un’atmosfera ricca di O2. Ma l’ossigeno molecolare è il sottoprodotto del metabolismo di diverse specie biologiche. È dunque la vita che, da alcuni miliardi di anni, mantiene l’atmosfera terrestre lontana dall’equilibrio chimico. Sebbene l’insieme degli organismi viventi contribuisca a modellare l’ambiente della Terra in una vasta zona che va da alcuni chilometri sotto ad alcuni chilometri sopra la superficie del pianeta, c’è una sola singola specie in grado di interferire nei grandi cicli biogeochimici globali. Questa specie è Homo sapiens. Capace da sola di influenzare sia il clima sia la biodiversità del pianeta. Questa capacità è stata acquisita di recente. Certo, Homo sapiens ha iniziato a creare le premesse per la sua “azione globale” già centomila anni fa, quando si è affacciato fuori dalla sua terra d’origine – l’Africa – e in poche decine di millenni ha colonizzato quasi tutte le terre emerse. Poi, sette o ottomila anni fa, ha iniziato a modificare su larga scala il paesaggio del pianeta con la “rivoluzione dell’agricoltura”. Ma è solo con la “rivoluzione industriale”, avviata non più di duecento anni fa, che Homo sapiens è diven5
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tato definitivamente un attore ecologico globale. Con le emissioni di gas serra (in primo luogo anidride carbonica, metano, protossido di azoto, clorofluorocarburi) ha contribuito in questi ultimi due secoli a modificare la composizione chimica dell’atmosfera e, di conseguenza, ad accelerare i cambiamenti del clima. Con una serie di attività (tra cui la deforestazione e l’inquinamento) l’uomo ha contribuito in questi ultimi decenni a erodere in maniera significativa la biodiversità globale (in pratica, anche a causa dell’uomo, oggi sul pianeta scompaiono molte più specie viventi di quante non ne vengano create). Questa “impronta umana enorme” sull’ambiente è determinata, principalmente, dall’economia industriale, che si fonda sullo sviluppo tecnologico. Il quale, a sua volta, attinge in maniera ormai sistematica alle nuove conoscenze prodotte dalla scienza. La scienza ha dunque un ruolo, almeno indiretto, nei cambiamenti ambientali. Ma la capacità di una singola specie di interferire con i grandi sistemi ecologici globali non è l’unica recente novità nella lunga storia del rapporto coevolutivo tra la vita e l’ambiente terrestre che la ospita. Ce n’è almeno un’altra, che è ancora più recente: l’uomo ha una sempre maggiore coscienza di questo suo ruolo da coprotagonista sulla scena ecologica globale. È consape-
L’Antropocene Stefano Pisani
Era il 22 febbraio del 2000 quando a Cuernavaca, “Ciudad de la eterna Primavera” messicana, Paul Crutzen pronunciava per la prima volta la parola “Antropocene” in un consesso internazionale come la riunione del comitato scientifico dell’International Geosphere-Biosphere Programme (IGBP). Cinque anni prima, lo scienziato olandese aveva ricevuto il Nobel in chimica per le ricerche su formazione e decomposizione dell’ozono che spiegavano il fenomeno del “buco nell’ozono” e avrebbero messo al bando i clorofluorocarburi.
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L’Antropocene, per Crutzen, è l’epoca geologica dell’uomo. Un’epoca in cui il pianeta Terra mostra inequivocabili segni dell’attività di una sua creatura, l’uomo, come mai è accaduto in passato per altra specie. Il termine – scoprirà in seguito – era stato usato tempo prima da Eugene Stoermer, biologo dell’Università del Michigan. Così, nella newsletter numero 41 dell’IGPB che seguì la riunione messicana, Crutzen e Stoermer, sottolineeranno il ruolo centrale dell’umanità nella geologia e nell’ecologia del pianeta, assegnando “una data
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vole delle sue azioni, ne misura gli effetti, ne prevede l’evoluzione e, sulla base di questa crescente consapevolezza, cerca di costruire un futuro ambientale più desiderabile. Inutile dire che la scienza – che è philosophia naturalis, ovvero conoscenza critica intorno alla natura – ha un ruolo diretto e decisivo nell’emergenza in atto della “coscienza enorme” che Homo sapiens ha della sua “impronta enorme sull’ambiente”. Senza la scienza non avremmo consapevolezza e, probabilmente, neppure una pallida percezione dei cambiamenti ambientali in atto, di alcuni dei quali siamo concausa. Sia i cambiamenti ambientali globali (e locali), sia la consapevolezza di questo divenire hanno effetti culturali, economici e politici crescenti. Cosicché sempre più di frequente troviamo l’ambiente sulle prime pagine dei giornali, in testa alle agende politiche nazionali e internazionali, nei progetti di sviluppo economico delle aziende. In altri termini: l’ambiente è diventato un tema sociale di primaria importanza. I cambiamenti del clima, sostiene per esempio sir David King – capo dello staff dei consiglieri scientifici del governo di sua maestà britannica –, costituiscono addirittura il problema principale con cui l’umanità dovrà misurarsi nel corso del XXI secolo. E l’erosione in atto della biodiversità – sostengono biologi di grande valore come, d’inizio dell’Antropocene all’ultima parte del XVIII secolo […]. Secondo i dati ricavati dai ghiacci, negli ultimi due secoli è iniziato l’aumento della concentrazione atmosferica dei ‘gas serra’, soprattutto CO2 e CH4. In particolare, la data di inizio potrebbe coincidere con l’invenzione della macchina a vapore di James Watt, nel 1784”. Il nostro pianeta è ospitale da circa 10mila anni. L’Olocene, l’epoca cominciata 1,8 milioni anni fa, ha vissuto grandi cambiamenti: lo scioglimento dei ghiacci ha ridisegnato la mappa delle terre emerse e si sono estinti molti dei grandi mammiferi sopravvissuti anche al precedente ciclo delle glaciazioni. Grazie soprattutto ai carotaggi del lago Vostok in Antartide gli scienziati hanno guardato indietro nel tempo
l’atmosfera del nostro pianeta fino a 740mila anni fa scoprendo che, per tutto quel periodo e fino a due secoli fa, c’è stata una stretta correlazione fra clima e composizione chimica atmosferica: in particolare, durante le fasi interglaciali, la concentrazione dei gas serra è aumentata. Ma livelli attuali di anidride carbonica e metano sono i più alti degli ultimi 15 milioni di anni. Da circa due secoli, il clima della Terra non gode più di quella regolarità che riflette le variazioni della sua orbita, come avveniva in passato. Oggi, i gas serra hanno superato i livelli toccati in tutto il Neozoico, con cambiamenti molto più bruschi di quelli più bruschi degli ultimi 740 milioni di anni. La causa? L’uso di combustibili fossili come carbone, metano e petrolio, e la combustione delle bio-
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tra gli altri, gli americani Edward O. Wilson e Niles Eldredge – potrebbe trasformarsi nella sesta estinzione di massa nella storia della vita (post-Cambriana) sulla Terra. Di conseguenza, l’ambiente è diventato una delle principali frontiere – se non la principale – lungo la quale da alcuni decenni scienza e società si incontrano. E si scontrano. È questa una delle due ragioni che ci hanno indotto a dedicare il dossier del primo numero della nostra rivista al rapporto tra scienza e ambiente. Per dimostrare – senza pretesa alcuna di completezza – quanto ricco, variegato e interdisciplinare sia questo rapporto. E come debba essere curato, se vogliamo affinare la nostra capacità di costruire un futuro desiderabile. Ma c’è una seconda ragione, forse più ambiziosa, che ci ha indotto a esordire con un dossier dedicato al rapporto tra scienza e ambiente. Una ragione che è, insieme, analitica e programmatica. Noi siamo convinti che il rapporto tra scienza e ambiente (leggi, consapevolezza ambientale e tutela dell’ambiente) non sia per sua costituzione affatto conflittuale. Ma che, anzi, tra scienza e ambiente ci sia un’alleanza “naturale”. Sappiamo bene che non sempre riusciamo a toccare con mano questo legame genetico. Capita spesso, anzi, di vedere noti ambientalisti che mostramasse come foreste, sterpaglie, rifiuti e altri materiali organici. L’uomo è stato capace di spostare più materia di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare due miliardi di ettari, pari al Canada e agli Stati Uniti messi insieme, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto e del carbonio, di accrescere di due o tre volte l’erosione del suolo rispetto ai ritmi naturali. Secondo alcuni studiosi, l’uomo ha cominciato a modificare la composizione dell’atmosfera circa 10mila anni fa, quando con la nascita dell’agricoltura iniziò a rubare terreno alle foreste e scoprì l’irrigazione. Ma nel suo libro, Benvenuti nell’Antropocene, lo scienziato olandese non concorda nel far risalire l’inizio di questa nuova epoca all’invenzione dell’agricol-
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tura. Per millenni, infatti, i cambiamenti nelle foreste indotti dalle popolazioni locali che disboscavano grandi aree, non provocarono mai cambiamenti su scala globale nelle piogge e nelle temperature. La simbolica data d’inizio scelta da Crutzen è il 1784 – anno in cui James Watt inventa la macchina a vapore dando avvio di fatto alla rivoluzione industriale. La consapevolezza di essere entrati in un’epoca del tutto nuova non mancava tuttavia agli scienziati dell’Ottocento. Nel 1873, per esempio, il geologo italiano Antonio Stoppani parlava di “un’era antropozoica” e descriveva l’uomo come “una nuova forza tellurica”. A metà del secolo scorso, l’Antropocene vive già la prima tappa fondamentale: l’attività umana non si limita più a in-
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no diffidenza nei riguardi degli scienziati e, in maniera del tutto speculare, che illustri scienziati guardino ai movimenti ecologisti come ai moderni nemici della ragione. Ma noi siamo convinti che queste schisi siano “contro natura”. E che sia un danno per tutti sciogliere l’alleanza “naturale” tra scienza e ambiente. Per alcuni motivi. Alcuni dei quali così evidenti da apparire banali. Primo. La scienza è necessaria – anzi, indispensabile – per chiunque voglia salvaguardare l’ambiente, perché, semplicemente, non posso proteggere qualcosa che non conosco. Chiunque diffidi ex ante della conoscenza scientifica mina alla base ogni progetto di tutela dell’ambiente. Il discorso cambia, ovviamente, quando si tratta delle applicazioni delle nuove conoscenze prodotte dalla scienza. Questa distinzione tra la produzione di nuova conoscenza e le sue applicazioni, sebbene spesso sia sfumata e ambigua da cogliere nell’impetuoso sviluppo di un’economia che è sempre più fondata sulla conoscenza, deve essere sempre tenuta presente, sia da chi ha interesse per la scienza sia da chi ha interesse per l’ambiente. Secondo. La scienza, come abbiamo detto, altro non è che conoscenza della natura: e, dunque, nessuno scienziato consapevole può pensare di distruggere l’oggetto stesso dei suoi studi. Non è un caso che tra i valori fonfluenzare l’ambiente globale ma ne decide le sorti, con cambiamenti così repentini che alcuni sarebbero propensi a farlo partire dal 1950 e dai primi grandi problemi ecologici creati dall’uomo, come il buco dell’ozono e le piogge acide. In un tempo brevissimo, se confrontato con lo scorrere invariato dei millenni che ci hanno preceduto, nell’Antropocene la nostra specie ha insomma alterato in modo radicale tutti gli ecosistemi esistenti, provocando l’estinzione di numerose specie animali e vegetali, impoverendo senza tregua le risorse idriche e naturali, inquinando con sostanze chimiche i corsi d’acqua e le aree coltivate e conseguentemente modificando la composizione dell’atmosfera fino a generare concentrazioni di gas serra paragonabili, se non addirittura superiori, a quelle che in
passato posero fine alla glaciazioni. Il consumo globale di acqua è triplicato dal 1950, ed è previsto un ulteriore aumento del 40% nei prossimi vent’anni. E proprio il controllo delle risorse idriche è uno dei risvolti dell’attività antropica che fa dell’uomo una vera e propria forza geologica: oggi, i corsi d’acqua sono stati ridisegnati da oltre 45mila dighe e l’acqua raccolta negli invasi artificiali è sette volte superiore a quella che si trova nei bacini naturali. Mentre gli spostamenti delle placche tettoniche, i venti, i flussi dell’acqua, i lenti movimenti dei ghiacciai hanno modellato la Terra in miliardi di anni, solo nel secolo scorso sono state spostate dall’uomo 40 miliardi di tonnellate di roccia all’anno. Quaranta volte più di quanto faccia l’erosione del vento, dieci volte più dei ghiacciai.
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danti della scienza moderna, nata nel XVII secolo, ci sia quell’ideale enunciato da Francis Bacon secondo cui le nuove conoscenze prodotte dai “filosofi naturali” non devono essere a vantaggio di questo o di quello, ma a vantaggio dell’intera umanità. E il principale bene dell’umanità è la conservazione di sé stessa e dell’ambiente che la ospita. Terzo. C’è, tuttavia, una ragione specifica e meno autoevidente che ci consiglia di non tentare di sciogliere, mai, l’alleanza “naturale” tra scienza e ambiente. Questa ragione riguarda, appunto, l’impatto umano sull’ambiente (I). Come ci ricorda l’equazione – I = PAT – proposta ormai 35 anni fa da uno scienziato esperto di energia, John Holdren, e uno scienziato esperto di ecologia, Paul Ehrlich, questo impatto, è il prodotto di tre fattori: la popolazione, P, i consumi pro capite, A, e l’impatto ambientale di ciascuna unità di consumo, T. In teoria per stabilizzare o, addirittura, far diminuire I, l’impatto umano sull’ambiente, potremmo agire su uno solo dei tre fattori che lo determinano. In realtà dobbiamo agire su tutti. Tenendo presente che P, la popolazione mondiale, aumenterà ancora nel corso di questo secolo, fino a stabilizzarsi tra gli 8 e i 10 miliardi di individui. E, quindi, sarà necessario puntare alla stabilizzazione e, anzi, alla diminuzione dei fattori A e di T. Il guaio è che in Se le oscillazioni climatiche sono sempre esistite in passato e non sono soggette a previsioni certe, quello che si può sapere con certezza è che il surriscaldamento globale, soprattutto quello degli ultimi cinquant’anni, non è imputabile a cause naturali. L’aumento della temperatura media della Terra è stato finora contenuto (0,6 gradi centigradi) ma, secondo Crutzen, in futuro il riscaldamento climatico peggiorerà e potrebbero verificarsi instabilità climatiche difficili da prevedere o controllare. Per il peggior gas serra, l’anidride carbonica, il discorso è molto delicato. La sua concentrazione non dipende solo dall’uso smodato di combustibili fossili, ma anche dall’alterazione della capacità di assorbire questo gas da parte di piante e oceani, i suoi serbatoi naturali. Durante
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tutto l’Olocene, e fino a due secoli fa, i flussi di anidride carbonica fra l’atmosfera e questi serbatoi si compensavano. Nell’Antropocene, la Terra è diventata solo parzialmente in grado di assorbire le emissioni antropiche di CO2: metà resta nell’atmosfera e l’altra metà viene assorbita da piante e oceani in maniera provvisoria e potrebbe essere di nuovo rilasciata in futuro, innescando altri cambiamenti climatici. Nell’Antropocene, il nostro pianeta ha mutato alcune sue caratteristiche strutturali. È diventato più caldo a causa dell’effetto serra, più verde perché la vegetazione sta assorbendo l’anidride carbonica che produciamo in eccesso, più lucente e opaco, perché gli aerosol diffondono la luce del sole e la disperdono nel-
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questo momento i consumi medi individuali, A, crescono (in un quadro, peraltro, di formidabili disuguaglianze). E crescono a una velocità persino superiore a P senza accennare a fermarsi. Nei paesi ricchi infatti si tende a consumare sempre più. E nei paesi a economia emergente si tende sempre più a fare come nei paesi ricchi. Invertire la tendenza alla crescita del fattore A – cambiare il modello di sviluppo economico – sarà necessario, ma potrebbe essere non sufficiente nel futuro più o meno prossimo. Ecco perché diventa assolutamente necessario che, tra i fattori dell’equazione di Holdren ed Ehrlich, diminuisca anche T, l’impatto per unità di consumo. Per realizzare questo obiettivo abbiamo un solo strumento: aumentare l’intensità di conoscenza aggiunta per ciascun bene che consumiamo. Ottenere le medesime funzioni con meno materia, meno energia e più organizzazione. In altri termini: con più scienza. ■
lo spazio, più bianco perché più ricco di nubi a causa del riscaldamento globale che fa evaporare più acqua e degli aerosol che fanno da nuclei di condensazione per il vapore. Nel 1996 l’Intergovernamental Panel of Climate Change (IPCC) delle Nazioni Unite, ha affermato di “riuscire a distinguere l’influenza umana sul clima globale”. Nel 2001 il giudizio è stato aggiornato: “Esistono nuove prove più consistenti che gran parte del riscaldamento globale osservato negli ultimi cinquant’anni sia attribuibile alle attività umane”. Il rapporto della prima metà del 2007 ha infine fugato ogni dubbio: i cambiamenti climatici a cui si sta assistendo sono opera dell’uomo. Siamo dunque in pieno Antropocene, e i capitoli dell’ultimo rapporto dell’IPCC si
sono concentrati sulle previsioni per il futuro (fra gli altri, aumento della temperatura globale della Terra di 3,5 gradi centigradi nel prossimo secolo, accentuazione della deglaciazione della Groenlandia e inizio di quella dell’Antartide, perdita estesa delle barriere coralline) e gli interventi possibili per la mitigazione del problema. Paul Crutzen è stato uno dei 110 premi Nobel che hanno sottoscritto l’appello promosso dal canadese John Polanyi – altro premio Nobel per la chimica – in difesa della pace e dell’ambiente. Nel punto centrale della dichiarazione degli scienziati si legge: “La sola speranza per il futuro riposa nella collaborazione internazionale, legittimata dalla democrazia. È tempo di voltare le spalle alla ri-
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cerca unilaterale di sicurezza, in cui noi cerchiamo di rifugiarci dietro i muri. Dobbiamo invece insistere nella ricerca dell’unità d’azione per contrastare sia il surriscaldamento del pianeta che un mondo armato”. Il protocollo di Kyoto è, a giudizio di Crutzen, il primo tentativo serio di cominciare a controllare le emissioni di gas serra e di porre le basi di uno sviluppo sostenibile che non turbi il clima. Crutzen è ottimista nell’ipotizzare che potenzialmente l’uomo avrebbe tutte le possibilità per sviluppare le tecnologie e le decisioni politiche tali da garantire prosperità al genere umano per milioni di anni ancora ma al tempo stesso rivolge un accorato invito affinché ciascuno di noi, quale abitante di questo bistrattato pianeta, semplice cittadino o decisore politico, faccia quello che può e che gli compete, per invertire la tendenza a una naturale distruzione e inau-
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gurare così una nuova epoca di sviluppo sostenibile. Se anche soltanto un decimo degli abitanti di India e Cina in futuro si svilupperanno al ritmo tenuto dagli occidentali a partire dagli anni Cinquanta, l’Antropocene supererà una seconda soglia. Già adesso, l’anidride solforosa emessa dai paesi asiatici è paragonabile a quella dell’Europa e del Nordamerica messi insieme e si stima che la sua quantità triplicherà nei prossimi vent’anni. Nel secolo scorso, la popolazione mondiale è quadruplicata, la superficie coltivata è raddoppiata, quella irrigata è quintuplicata. E la popolazione mondiale crescerà ancora e le sue attività agricole e industriali occuperanno aree sempre più vaste. Il processo di trasformazione in atto non è più reversibile, l’unica possibilità è imparare a controllarlo e tentare di gestirlo.
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Clima e biodiversità
Mutamenti planetari Antonio Navarra
L’effetto serra Nel corso degli ultimi anni il problema dei cambiamenti climatici ha assunto un rilievo geopolitico di prima grandezza. Forse, solo il precedente della fisica nucleare aveva visto finora una disciplina scientifica portarsi così al centro del dibattito politico ed economico mondiale, con ripercussioni sempre più profonde nella vita di tutti i giorni. Questo inedito “protagonismo” è legato ovviamente al fatto che le questioni climatiche si intrecciano profondamente con le modalità di produzione energetica della società, toccando così il cuore dei processi economici e industriali. Si parla spesso di global warming, ma per comprendere realmente quello che sta succedendo al nostro pianeta, e quello che probabilmente gli accadrà, è opportuno chiarire come funziona quel gigantesco eppure delicato meccanismo che è la nostra atmosfera. Le basi scientifiche del problema si possono rapidamente riassumere dicendo che l’atmosfera che ci circonda è essenzialmente trasparente alla radiazione solare e parzialmente opaca alla radiazione emessa dalla superficie della Terra. Al netto, dunque, il risultato è che, per la superficie terrestre, l’atmosfera agisce come un’ulteriore sorgente di radiazione, che si somma a quella di origine solare. La temperatura della superficie della Terra sarebbe molto minore, se non ci fosse l’atmosfera. È questo effetto di innalzamento della temperatura dovuto all’opacità dell’atmosfera che prende il nome di “effetto serra”. Nel caso della Terra, l’effetto serra riesce a spostare la temperatura media di riferimento del globo al di sopra del punto di congelamento dell’acqua, permettendo così la presenza di acqua liquida. L’effetto serra è quindi essenziale per la vita sul nostro pianeta ed è probabilmente stato assolutamente fondamentale per l’evoluzione della biologia terrestre come oggi noi la conosciamo. Come mai, quindi, un benefico processo naturale è diventato oggi un problema globale o addirittura – nella rappresentazione spesso distorta dei 13
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Dossier – Scienza e ambiente: un’alleanza “naturale”
giornali popolari – una piaga biblica? La risposta a questa domanda sta nella capacità nuova del complesso della società umana di modificare il nostro pianeta in maniera inaspettata.
Un mal riuscito esperimento di terraforming Nel corso degli ultimi anni la nostra società si è lanciata con entusiasmo in un esperimento di “terraforming” tanto efficace quanto incontrollato. Il termine “terraforming” esprime il concetto, in genere presentato come utopico, secondo cui ci si ritiene capaci di modificare e pianificare l’ambiente di un intero pianeta al fine di renderlo accettabile secondo gli standard terrestri. Un’idea potente, generata dai libri di fantascienza, che prende un altro sapore quando ci si ferma a considerare l’effetto reale della presenza delle società umane sul nostro pianeta. L’uomo ha sempre modificato il suo ambiente. Sin dall’introduzione dell’agricoltura, e con lo sfruttamento intensivo del legname per le costruzioni e per generare di energia, l’ambiente naturale è stato progressivamente sostituito da un ambiente antropizzato, più o meno gestito. Per esempio, nella regione mediterranea è difficile trovare ambienti “naturali” che non mostrino i segni di millenni di attività degli uomini, che hanno sfruttato e abbandonato foreste, prosciugato paludi, deviato fiumi e torrenti, aperto e lasciato nuove aree all’agricoltura. La rivoluzione industriale ha però cambiato le cose. La rivoluzione industriale e lo sviluppo impetuoso che il mondo ha vissuto dalla fine della seconda guerra mondiale hanno visto una diffusione senza precedenti delle attività umane e uno sviluppo straordinario delle economie mondiale. Questo enorme risultato è stato sostenuto dalla disponibilità di abbondante energia a buon mercato. Il grosso della produzione energetica è stato però ottenuto con l’uso di combustibili fossili (carbone, gas e petrolio), che hanno esercitato sin da subito una posizione dominante fra le fonti energetiche. I combustibili liquidi sono sembrati i prodotti d’elezione per l’autotrazione: semplici da trasportare e distribuire e ad alta concentrazione energetica. Nel giro di poco tempo, hanno surclassato ogni fonte alternativa senza presentare apparentemente nessuna controindicazione. E gli importanti problemi legati all’inquinamento e ai prodotti della combustione sono stati sostanzialmente ridimensionati da soluzioni tecnologiche via via messe in campo che permettevano una combustione più pulita ed efficiente. Nessuno, però, aveva preso seriamente in considerazione il fatto che il risultato basilare e ineliminabile del processo di combustione consisteva nella combinazione di carbonio e ossigeno. In particolare, uno dei principali prodotti della reazione era l’anidride carbonica, CO2, che non era tossica e, nelle basse 14
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Clima e biodiversità
percentuali rilasciate, non suscitava particolare attenzione. Peccato però che la CO2 fosse uno dei principali responsabili dell’opacità dell’atmosfera alla radiazione terrestre e quindi uno dei principali termostati del pianeta. Il contenuto di CO2 atmosferica è stato modificato in maniera massiccia dell’uso dei combustibili fossili. Si consideri che il livello attuale è circa del 30% più alto rispetto ai livelli preindustriali e continua ad aumentare di circa l’1% all’anno. Sappiamo che questo aumento è dovuto ai combustibili fossili sia sulla base alle stime di consumo dei combustibili stessi, sia perché il carbonio che deriva dai combustibili ha una struttura isotopica molto tipica che può essere rintracciata in quella della CO2 atmosferica. Non ci sono più dubbi: stiamo cambiando la composizione della nostra atmosfera in modo maldestro, casuale e con grande entusiasmo, proprio come in un esperimento mal riuscito di “terraforming”.
I modelli matematici di circolazione generale e la considerazione scientifica del clima Per quanto l’effetto base dell’aumento di CO2 sia molto semplice e ben conosciuto, le conseguenze che può avere sulle varie componenti del sistema climatico sono difficilmente intuibili. La complessità delle interazioni che avvengono all’interno del sistema clima rende impossibile una sua trattazione realistica senza prendere in considerazione la maggior parte dei processi fisici e dinamici che ne fanno parte. Non si possono per esempio ignorare le nuvole o le montagne. Inoltre il sistema clima è fortemente interconnesso geograficamente: i fattori che determinano le variazioni climatiche in una certa posizione sul pianeta vanno spesso ricercati in zone remote, molto lontane tra loro. Non è possibile quindi prendere neanche una scorciatoia geografica – ridurre il problema riducendo l’area di interesse – ma il problema del clima del nostro pianeta può essere affrontato solo considerando globalmente tutta la Terra. Queste complicazioni hanno azzoppato lo sviluppo della climatologia come scienza quantitativa fino a quando non è stato possibile effettuare esperimenti che permettessero di discriminare tra teorie in competizione. È chiaro infatti che non possiamo fare esperimenti controllati nel senso usuale del termine: non si può chiudere Gibilterra per vedere se e in quanto tempo veramente il Mar Mediterraneo scompare, oppure eliminare le Alpi per verificare il loro impatto sul clima della Valle Padana. Le porte della investigazione scientifica quantitativa del sistema climatico sono state quindi aperte solo quando è stato possibile effettuare esperimenti di questo tipo in una rappresentazione virtuale matematica del nostro pianeta. Usando la rappresentazione virtuale, un modello di 15
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circolazione generale, è stato infatti possibile compiere esperimenti come la rimozione di tutte le montagne della Terra o la specificazione di particolari temperature oceaniche, interventi che permettono di verificare teorie, fare ipotesi, comprendere il funzionamento del sistema clima. Questi modelli si prestano quindi anche a investigare più in dettaglio gli effetti dell’aumento di CO2. Inserendo nei modelli l’ammontare di CO2 si può investigare il clima in equilibrio con le concentrazioni specificate. Disponendo di possibili concentrazioni future di CO2, i modelli permettono di confrontare i vari climi possibili sia dal punto di vista della distribuzione geografica degli effetti sia dal punto di vista dell’espressione del cambiamento nei vari parametri climatici. Per esempio, è possibile capire come cambiano le temperature, i venti, le piogge, ma anche le precipitazioni nevose, le correnti marine, il volume dei ghiacci marini polari ecc. Le concentrazioni future di CO2 possono essere ottenute facendo ipotesi sullo sviluppo del mondo nel futuro, per esempio durante i prossimi cento anni. Uno sviluppo economico forte, un mondo molto interconnesso e una scarsa introduzione di tecnologie energetiche a bassa emissione di carbonio, provocano concentrazioni di CO2 molto elevate. Ipotizzando un mondo meno interconnesso, l’introduzione di tecnologie energetiche a basse emissioni di carbonio, si possono raggiungere concentrazioni di CO2 meno elevate. L’obiettivo della stabilizzazione, ovvero della fine della crescita continua delle concentrazioni anno dopo anno, è ancora lontano, poiché richiede tagli nelle emissioni molto rilevanti, dell’ordine del 60-70%. I modelli di clima sono stati usati per ottenere la risposta del sistema climatico a un’enorme varietà di ipotesi di concentrazioni di CO2, ma il risultato medio è un aumento della temperatura generalizzata, soprattutto ai poli, lo spostamento delle fasce abituali di precipitazioni e molti altri effetti più tecnici. Gli scenari ricostruiti dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia all’interno del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici mostrano che nella regione del Mediterraneo alla fine del XXI secolo le temperature estive potrebbero essere più alte di 4-5 gradi, rispetto a quelle attuali, e le precipitazioni invernali potrebbero diminuire del 20%.
Gli impatti dei cambiamenti climatici e le politiche Le simulazioni base del clima possono dunque parlarci dei cambiamenti nelle temperature e nelle precipitazioni tipiche di una certa stagione, per quanto possano essere molti altri i dettagli ottenibili, considerando i molti altri parametri che i modelli possono generare. 16
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Questi cambiamenti base possono servire da punto di partenza per molte analisi che riguardano gli impatti su molti altri settori. L’agricoltura, per esempio, è fortemente connessa all’ambiente e quindi un’alterazione delle variazioni ricorrenti del clima può influire su di essa in maniera sensibile, con conseguenze economiche e sociali rilevanti. Le risorse idriche disponibili e le temperature determinano infatti la superficie coltivabile e il tipo di coltivazioni possibili, e quindi incidono profondamente sui redditi agricoli e le tradizioni territoriali. L’esempio dell’agricoltura può essere facilmente trasferito ad altri casi, come l’aumento del livello del mare o la modificazione degli habitat delle specie animali, che possono introdurre malattie in aree nuove e non adattate alla loro presenza. Gli effetti dei cambiamenti climatici si propagano quindi come un’onda nella nostra società, estendendosi a settori molti disparati e lontani tra loro. Tali conseguenze non sono tutte inevitabilmente di segno negativo. L’aumento di temperatura, per esempio, può implicare un aumento dei consumi energetici estivi dovuti alla diffusione del condizionamento, ma anche una riduzione di quelli invernali dovuto alle temperature più miti. Il bilancio economico netto dei cambiamenti climatici diventa quindi un complesso esercizio di valutazioni di effetti che vanno in direzioni opposte. La valutazione economica degli impatti diventa particolarmente importante se ci si rende conto che anche nella migliore ipotesi di intervento una parte degli effetti dei cambiamenti climatici sarà inevitabilmente subita dal pianeta. Il potenziale di riscaldamento della CO2 già presente in atmosfera non si è infatti espresso del tutto, e anche se magicamente si riuscisse a bloccare il suo aumento, fermando le concentrazioni ai valori attuali, il pianeta si riscalderebbe ancora di circa 1-1,5 gradi. È dunque necessario cominciare a prepararsi a questi cambiamenti, da un lato cercando di comprenderne la natura e i dettagli, dall’altro cominciando a predisporre interventi per attutirne le conseguenze, elaborando strategie di adattamento. In questo quadro, la valutazione economica diventa cruciale, perché i costi delle politiche di adattamento non devono essere superiori agli effetti che cercano di mitigare, e diventa importante avere valutazioni economiche affidabili degli effetti dei cambiamenti climatici. La questione diventa ancora più delicata e interessante se ci si rende conto che in questo modo si introduce un nuovo attore sulla scena, ovvero la definizione di politiche e misure. Per esempio, un set di cambiamenti climatici base in termini di temperatura e precipitazioni, accompagnato da certe politiche e misure, produce effetti di 17
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un certo valore economico. Con una diversa politica, il valore economico può cambiare, con effetti sociali diversi. Questa riflessione è al centro di un nuovo programma di ricerca finanziato dall’Unione Europa, nell’ambito del Sesto Programma di Ricerca. Il progetto integrato CIRCE, finanziato per 10 milioni di euro e coordinato dall’Italia attraverso l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia, si pone come obiettivo la stesura di una Valutazione Regionale degli Impatti Socioeconomici nel Mediterraneo dei cambiamenti climatici, e ha al centro della propria riflessione proprio questa comprensione del ruolo integrato delle politiche nell’ambito del problema dei mutamenti climatici. È un progetto multidisciplinare in cui dialogano fisici, economisti, sociologi e politologi alla ricerca di un linguaggio comune: un percorso difficile e incerto, ma che rappresenta la nostra unica strada per affrontare in modo intelligente e equo i cambiamenti climatici. ■
Antonio Navarra è direttore del Centro Euro-Mediterraneo per i Cambiamenti Climatici. Laureato in Fisica nel 1980, è tornato in Italia nel 1986 dopo aver conseguito il dottorato di ricerca (PhD) all’Università di Princeton, presso il Geophysical Fluid Dynamics Laboratory. È dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia dove svolge la sua attività nel campo della simulazione del clima con i modelli numerici di circolazione generale. Insegna al corso di laurea in Scienze ambientali dell’Università di Bologna (sede di Ravenna). È autore di diversi libri di divulgazione, di articoli di interesse generale e collabora a quotidiani di interesse nazionale. Ha scritto El Niño. Realtà e leggende del fenomeno climatico del se-
colo (Avverbi, 1997), Le previsioni del tempo (Il Saggiatore, 1996) e, con Andrea Pinchera, Il Clima (Laterza, 2000). 18
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Il padrone della “serra” Margherita Fronte
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e continueremo a immettere anidride carbonica nell’atmosfera al ritmo con cui l’umanità lo sta facendo dall’inizio della rivoluzione industriale, la concentrazione di gas che intrappolano il calore raddoppierà, e questo farà salire drammaticamente le temperature”. Il XIX secolo stava tramontando quando il chimico svedese Svante August Arrhenius, che pochi anni più tardi sarebbe stato insignito del premio Nobel, faceva questa previsione. Lungimirante, diremmo oggi, a più di un secolo di distanza. Catastrofista, avremmo forse detto appena una trentina di anni fa, quando il cambiamento climatico non era ancora stato riconosciuto e, soprattutto, ben pochi sarebbero stati disposti ad attribuirne la causa alle attività dell’uomo e al ritmo incalzante del suo progresso. Eppure oggi, a 223 anni dalla data che canonicamente viene indicata come anno di inizio della rivoluzione industriale, i dati sono chiari e non più contestabili. Li riassumiamo qui brevemente: nell’ultimo secolo, la temperatura media del pianeta è salita di circa 0,6 gradi e le ultime tre decadi sono state quelle in cui il riscaldamento si è fatto più intenso; i 20 anni più caldi mai registrati si sono verificati tutti dal 1980 a oggi. Se le immissioni di CO2 nell’atmosfera non rallenteranno, la temperatura salirà di altri 2-5 gradi entro il 2100. E – come illustra il primo saggio di questo dossier, scritto dal climatologo Antonio Navarra – se anche magicamente la produzione di anidride carbonica si azzerasse oggi, la Terra si riscalderebbe ancora di 1-1,5 gradi. La scienza ha ancora qualche incertezza sull’entità esatta del fenomeno (e ancora più sui suoi effetti, basti pensare che le stime sull’innalzamento dei mari nel prossimo secolo vanno da poche decine di centimetri a diversi metri), ma il trend è ormai chiaro. Affermare che si tratta di un fenomeno transitorio, irrilevante o – peggio ancora – inventato non è solo antiscientifico, è ormai persino ridicolo. Tanto che anche i governi che fino a ieri negavano il riscaldamento globale, temendo altrimenti di mettere a rischio la propria stabilità economica, sono scesi ormai a patti con le cifre e ne ammettono l’esistenza. Dobbiamo esserne contenti? 19
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Tirare un sospiro di sollievo non avrebbe alcun senso. Rallentando e boicottando tutte le iniziative volte a decidere in favore di politiche più vicine all’ambiente, i negazionisti hanno in realtà vinto il primo round: nel tentativo di scendere a patti con loro, le misure previste da Kyoto sono state via via diluite e si sono inventati sistemi – come per esempio, il carbon trading – affinché i paesi ricchi potessero abbassare artificiosamente la conta delle tonnellate di CO2 da loro immesse in atmosfera, senza modificare nulla del proprio modello di sviluppo. Ma c’è di peggio, perché tutto questo non solo non ha spinto alla ratifica i maggiori detrattori dell’accordo, ha anche svuotato il protocollo del suo valore simbolico (l’accettazione che lo sviluppo può seguire anche vie diverse) e della sua importanza politica (dovuta al fatto che i governi di tutto il mondo riconoscevano il fenomeno e agivano concordemente per arginarlo). All’atto pratico, le misure previste da Kyoto (un taglio delle emissioni pari al 5,2% entro il 2012) sono ormai ampiamente insufficienti a contenere il rialzo delle temperature. I rapporti che i 2500 scienziati dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) hanno pubblicato all’inizio di quest’anno parlano di una riduzione del 60% o anche dell’80% delle emissioni entro la fine del secolo, se si vuole che il rialzo delle temperature sia contenuto entro i 2 gradi.
Chimici e ambientalisti: prove tecniche di un armistizio: Stefano Pisani Lo scorso 7 febbraio – pochi giorni dopo la diffusione del rapporto Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sui cambiamenti climatici – è stato firmato a Roma un accordo triennale dal sapore storico: per la prima volta, infatti, un gruppo ambientalista come il WWF e la Società di Chimica Italiana (SCI) si sono ritrovati ufficialmente intorno a un tavolo per promuovere la cosiddetta “chimica sostenibile” e diffondere una corretta conoscenza pubblica della chimica e delle sue dimensioni ambientali.
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Il patto, che ha avuto come teatro la sede italiana della ultraquarantenne associazione ambientalista, è stato materialmente sottoscritto da Fulco Pratesi, presidente del WWF Italia, e Francesco De Angelis, presidente della SCI. Il documento rappresenta la prima intesa programmatica di questo tipo in Europa e, in uno dei suoi passaggi chiave, auspica la separazione dei progressi della chimica in quanto scienza dagli effetti potenzialmente nocivi delle sue applicazioni. Un’operazione che merita particolare attenzione soprattutto sotto
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Le conseguenze già in atto del cambiamento climatico (aumento della frequenza di eventi estremi quali uragani, inondazioni e ondate di calore, mutamenti nei cicli biologici di animali e piante, scioglimento dei ghiacci ecc.) sono quindi il risultato di un processo in cui la volontà di chi ha difeso interessi particolari ha prevalso su quella di chi ha guardato al sistema globale. E nel percorso che è ormai alle nostre spalle spiace constatare come la scienza, chiamata in causa da entrambe le parti, abbia sì espresso in diverse occasioni le sue preoccupazioni, facendo però l’errore grave di sottolineare ogni volta il margine di incertezza che è insito in ogni risultato scientifico. Come se invece che al mondo intero parlasse a un congresso per addetti ai lavori. In barba al principio di precauzione, implementato originariamente proprio per promuovere azioni volte a proteggere l’ambiente e l’uomo, l’incertezza scientifica è stata manipolata a scopi politici, e gli scienziati, che pure sono intervenuti a diversi livelli, come consulenti di singoli governi o in organismi sovranazionali, non sono riusciti a dare abbastanza forza al messaggio principale: che la temperatura media del pianeta sta aumentando, che la causa è l’uomo e che le conseguenze non saranno piccole. Da qualche tempo però qualcosa sta cambiando. Non pochi segnali indicano che la partita è ancora aperta. Nel suo “Quarto rapporto sui cambiamenti climatici” reso noto nei primi mesi di quest’anno, l’IPCC ha assunto un atteggiamento l’aspetto culturale. Come ha sottolineato De Angelis, infatti, “l’aspetto strategico, culturale dell’operazione è un risultato estremamente significativo. In futuro avremo poi modo di pianificare anche gli aspetti concreti dell’accordo. Due sono gli obiettivi principali da perseguire. Il primo è la divulgazione e la presentazione al grande pubblico della chimica: se dal canto nostro forniremo al WWF gli strumenti per capire meglio la chimica, il WWF ci potrà dire come fare per esportare la chimica verso l’esterno, al grande pubblico. Il secondo punto è rendere i chimici più consci e sensibili verso le problematiche ambientali, spesso trascurate in questo settore, e promuovere una chimica sostenibile”. Sulla rivoluzione culturale dell’accor-
do si è soffermato anche Piero Angela, intervenuto come “testimone d’onore” della firma. Il noto giornalista, invitato anche per ricordare quel ruolo di divulgazione della chimica “buona” che il WWF è stato chiamato a esercitare, ha sottolineato il grande ruolo che questa disciplina scientifica ha nella nostra vita e ha mostrato grande soddisfazione davanti al confronto vincente fra scienza e ambientalismo, salutando con speranza la nascita di un “ambientalismo razionale che cerca le alleanze nella scienza”. Questo accordo, in questo senso, rappresenta una svolta importante per un pensiero ambientalista che non si contrappone ma “cerca dei punti di unione, un ambientalismo che non elude a priori la scienza. Anche i chimici, per anni
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molto più deciso, specie nell’attribuire all’uomo ciò che sta avvenendo. Ed è stata anche questa presa di posizione del gruppo dei 2500 scienziati a spingere la cancelliera tedesca Angela Merkel a mettere la questione climatica all’ordine del giorno nell’ultimo G8, tenutosi a giugno in Germania (pochi giorni prima dell’inizio del lavori, la Merkel dichiarava che “senza standard minimi sul piano sociale ed ecologico non ci sarà nessuna concorrenza leale nell’economia mondiale”). Il risultato deludente del vertice (un semplice accordo a demandare all’Onu le decisioni sulle limitazioni dei quantitativi di CO2 da immettere nell’atmosfera) non può far dimenticare l’importanza di quel tentativo. Ma a livello internazionale ci sono altre novità significative. Da un lato, preoccupano le posizioni degli Stati Uniti ma anche quelle di paesi in forte crescita come l’India e la Cina, che ha da poco superato gli Usa diventando l’inquinatore mondiale numero uno (sebbene le emissioni di CO2 dei cinesi siano, pro capite, ancora pari a un quarto di quelle degli statunitensi). Ma segnali positivi giungono da governi e autorità locali che hanno deciso per conto proprio di andare oltre Kyoto. Sebbene un problema globale necessiti di una soluzione condivisa, è significativo il fatto che, per esempio, negli Usa diversi stati membri abbiano adottato misure tese a limitare le emissioni, proprio come se il protocollo di Kyoto fosse in vigore anche lì. Da parte sua, l’Unione Europea ha decretato che entro il
una sorta di limbo in cui non si capiva se fossero dei farabutti o dei benefattori dell’umanità, ne potrebbero finalmente trarre una gratificazione”. Il nuovo “laboratorio” che scaturirà dalla collaborazione WWF-SCI nascerà infatti anche dalla consapevolezza e dalla necessità di diffondere la ricerca nel campo della chimica sostenibile, la cosiddetta “green chemistry”, quella chimica rispettosa dell’ambiente che studia le soluzioni scientifiche che consentano di integrare al meglio la chimica nell’ambiente naturale. Sono circa 80mila i composti chimici di origine umana immessi nell’ambiente e questi hanno costituito senza dubbio una straordinaria innovazione dell’era moderna. Senza gli avanzamenti della chimica, oggi non si sarebbero raggiunti
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notevoli successi nel campo della medicina, dell’industria e nella disponibilità di una vasta serie di prodotti di uso quotidiano. Con il patto fra WWF e SCI si sancisce non un rifiuto tout-court di questa disciplina, ma un suo adeguamento alla delicatezza dell’ambiente in cui si trova a operare. Un’iniziativa meritoria che, per una volta, non viene promossa in modo unilaterale da gruppi ecologisti ma coinvolge anche gli stessi protagonisti della materia. L’accordo siglato mira infatti a contribuire e a orientare opportunamente le scelte dell’industria chimica italiana in modo da trovare tecniche per migliorare la qualità della vita umana e, contemporaneamente, a mantenere e rafforzare la vitalità dei sistemi naturali. Bisogna prendere atto che la chimica è
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2020 gli stati membri dovranno tagliare del 20% le emissioni di anidride carbonica e che il ricorso a fonti energetiche alternative dovrà avere un ruolo fondamentale in questo processo. Alcuni governi europei si sono posti obiettivi ancora più ambiziosi. Inevitabilmente, tutto ciò comporterà qualche cambiamento nelle abitudini degli abitanti del Vecchio continente. Come la prenderanno? I governanti europei rischiano di perdere la poltrona? Probabilmente no. O almeno, non per questo motivo. I sondaggi mostrano infatti che gli europei sono disposti a rinunciare a qualcosa del proprio stile di vita per “salvare il pianeta”, o ad assumere abitudini che limitino il loro impatto sull’ambiente: ne è una prova il fatto che, se ben organizzata, la raccolta differenziata funziona. Non si tratta di gruppi poco numerosi: in un Eurobarometro condotto con l’obiettivo di valutare l’atteggiamento degli abitanti del Vecchio continente nei confronti della politica energetica e delle questioni ambientali, pubblicato all’inizio di quest’anno, la metà degli intervistati si è dichiarata molto preoccupata per il cambiamento climatico e un altro 37% ha detto di essere “non indifferente” a questo tema (in Italia le due quote erano rispettivamente del 58% e del 32%). Sondaggi analoghi condotti negli anni scorsi hanno mostrato poi che oltre il 70%
in mezzo a noi. Secondo Michele Candotti, segretario generale WWF Italia, il mondo ambientalista “non può vivere nella beata ignoranza, altrimenti perde in legittimità. L’iniziativa di oggi rappresenta un atto coraggioso e culturalmente importante, perché rimarca la necessità di confrontarsi con partner anche asimmetrici rispetto alla nostra linea di pensiero”. La rivoluzione principale di questo accordo è tuttavia scientifica. I peggiori disastri ambientali degli ultimi decenni sono stati spesso associati alla chimica e sono tuttora tantissimi i composti prodotti dall’uomo che gli ecosistemi non sono in grado di “metabolizzare” e i cui effetti sulla natura e sull’uomo non sono completamente noti nella maggior parte dei casi.
“Sono convinto della possibilità di un nuovo ambientalismo basato sulla conoscenza ad ampio spettro che ci possa far interpretare la complessità del mondo intorno a noi, che non è in bianco e nero. La svolta scientifica passa per procedure bioimitative che diano spazio alla chimica sostenibile, che traggano lezione dalla chimica che la natura ci insegna, in modo da iniziare una nuova rivoluzione anche industriale. Abbiamo cominciato con il mondo della scienza della chimica, in modo da aprire un dialogo che poi possa anche estendersi all’industria. La SCI ha chiaramente rapporti più stretti di noi con la Federchimica” ha dichiarato Gianfranco Bologna, direttore scientifico del WWF Italia. È fondamentale produrre nel mondo della ricerca un sempre più
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degli europei ritiene che i problemi dell’ambiente condizionino la qualità della vita, mentre un significativo 88% pensa che i governi dovrebbero tenere in conto le questioni ambientali quando prendono decisioni in campo economico. E che la sensibilità ambientale sia via via aumentata nel corso degli anni è dimostrato anche da quanto sta avvenendo nel mondo della pubblicità, settore che forse più di ogni altro è in grado di cogliere le tendenze e i mutamenti di umore dell’opinione pubblica. Da qualche tempo, per promuovere un prodotto o un brand, sempre più l’accento cade su processi di produzione ecocompatibili e su beni di consumo a “impatto zero”. Se saprà raccordarsi a queste nuove istanze ambientaliste, che già stanno trovando un riscontro ai più alti livelli politici, la scienza potrà svolgere un ruolo fondamentale nel prossimo futuro. Alla ricerca scientifica e tecnologica spetta il compito duplice di prevedere e anticipare le conseguenze dei mutamenti climatici e di proporre tecnologie nuove che permettano all’uomo di minimizzarne gli impatti e di prevenire ulteriori accelerazioni del riscaldamento globale. I ricercatori hanno già le capacità e gli strumenti tecnici che occorrono per portare a termine il compito più strettamente scientifico. I computer più potenti del mondo, per esempio, sono quelli dedicati alla climatologia; mentre l’ingegneria ha già progettato
attivo ruolo di impegno sociale e ambientale mirato ad applicare e rafforzare i regolamenti internazionali tesi a garantire la salute umana e ambientale (la Convenzione di Stoccolma sugli agenti organici inquinanti persistenti e il regolamento europeo REACH per la regolamentazione, la valutazione e l’autorizzazione delle sostanze chimiche tossiche). In questo momento, se esistono nuove frontiere della ricerca in grado di invertire la rotta di una crescente contaminazione dei sistemi naturali del nostro pianeta, sono proprio quelle della chimica sostenibile e della ricerca della chimica bioimitativa o biomimetica. In un certo senso, a poter rimediare ai danni della chimica è proprio la chimica. Questo è già avvenuto più volte in 24
passato, basti pensare alla sostituzione dei CFC responsabili dell’assottigliamento della fascia dell’ozono o all’eliminazione del piombo nei carburanti, e oggi gli sforzi in questa direzione sono ancora maggiori, dalla ricerca di sostituti dei ritardanti di fiamma attualmente utilizzati agli studi sul “sequestro chimico” dell’anidride carbonica dispersa in atmosfera, dall’impiego di particolari solventi a totale recupero, all’uso di reagenti non inquinanti.
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sistemi per minimizzare le emissioni di gas serra nel settore dei trasporti o nell’edilizia (oggi, il 40% dell’energia spesa in Europa serve per rendere confortevoli le abitazioni e gli uffici). In questo senso scienza e tecnologia, tacciate spesso come l’origine dei mali dell’ambiente, possono diventare i suoi alleati naturali più preziosi. La collaborazione e il dialogo fra mondo scientifico e società civile sono ancora insufficienti, ma non mancano segnali positivi, anche in Italia. Ne è un esempio l’accordo siglato quest’anno fra WWF e Società chimica italiana, di cui si parla in questo dossier. ■
Margherita Fronte è laureata in Biologia. Attualmente è giornalista presso il gruppo Focus, fa parte della redazione di Meobius, il programma di scienze di Radio24, e collabora con il Corriere della Sera e altre testate. È inoltre docente del Master in “Comunicazione della scienza” della SISSA. Collabora con l’Enciclopedia Treccani e, per Garzanti, ha coordinato l’aggiornamento della nuova edizione dell’Enciclopedia delle Scienze. È autrice di: Campi elettromagnetici, innocui o pericolosi? (Avverbi, 1997), Sport, la scienza e la tecnologia dei campioni (Cuen, 2000) e, con Pietro Greco, Figli del genoma (Avverbi, 2003), vincitore del premio letterario Serono 2004. 25
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La sesta estinzione Saverio Forestiero
L
a diversità biologica si riferisce alla varietà degli organismi viventi e ai sistemi ecologici in cui essi si trovano. Gli oggetti biologici, differenti in numero e frequenza, si trovano a diversi livelli di organizzazione: dagli ecosistemi nel loro complesso alle strutture chimiche che costituiscono le basi molecolari dell’eredità. Pertanto il termine comprende i differenti ecosistemi, le specie, i geni nonché le loro abbondanze relative. La biodiversità rappresenta, dunque, l’insieme delle differenze osservabili tra gli esseri viventi, descrivibili in rapporto ai geni, alle specie e agli ecosistemi ed esprimibili attraverso numeri. Qualsiasi caratterizzazione della biodiversità deve rifarsi a tre discipline: la genetica che fornisce la descrizione dello stato della variazione intra e interspecifica; la sistematica che dà una rappresentazione organizzata delle differenze tra tutte le specie di organismi; l’ecologia che ricerca le regole che presiedono al funzionamento dei grandi sistemi ambientali in cui la diversità genetica e quella tassonomica si trovano necessariamente integrate. Esistono anche una storia e una geografia della biodiversità: infatti l’attuale biodiversità è il risultato di un processo storico lunghissimo, iniziato tra 3900 e 3400 milioni di anni fa con la comparsa della prima cellula. Considerando il fatto che l’evoluzione biologica è un fenomeno irreversibile, ne deriva che l’attuale biodiversità è un fatto contingente, storicamente determinato. Quello di biodiversità è un concetto moderno, ha carattere sintetico, presenta risvolti teoricamente interessanti per la genetica, la biosistematica, l’ecologia e la biogeografia. Ma qui ci interessa sottolineare il suo impiego anche in ambito applicativo: conservazione della natura, agricoltura, didattica e comunicazione delle scienze naturali. È stata la Conferenza delle Nazioni Unite sull’Ambiente e lo Sviluppo, tenutasi a Rio de Janeiro nel maggio 1992, a dare al tema della biodiversità una risonanza enorme. La diversità biologica era indagata da decenni ma la parola risale solo al 1987 quando fu coniata nell’Ufficio del Congresso degli Stati Uniti per la Valutazione della Tecnologia. Fino ad allora il discorso sulle differenze tra i viventi era rimasto circoscritto agli addet26
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ti ai lavori. Poi, a metà degli anni Ottanta, quando fu certo che le estinzioni di piante, animali e la perdita di interi ecosistemi procedevano così velocemente da mettere in pericolo anche il benessere della nostra specie (il tasso di estinzione stimato è tra 100 e 1000 volte superiore a quelli paleontologici) la biodiversità divenne tema di discussione anche fuori dei circoli scientifici. La nozione si caricò subito di connotazioni extrascientifiche: economiche, politiche, giuridiche, etiche. A quel punto, il discorso, ampliato fino a comprendere riflessioni sui costi economici e sociali delle violente modificazioni antropiche dell’ambiente, si trasformò in un discorso sul “problema della biodiversità” cioè sulla “erosione-perdita di biodiversità”.
L’erosione e i suoi effetti Le stime sull’erosione della biodiversità sono molto difficili,1 per mille ragioni, tra cui spicca l’incompleto (e non si sa nemmeno di quanto) censimento delle 1
Si conoscono circa 2.000.000 specie, ma le proiezioni parlano di numeri totali anche 15 volte maggiori. Le conoscenze sono tassonomicamente, ecologicamente e biogeograficamente a macchia di leopardo: alcuni gruppi, alcuni ambienti, alcune aree geografiche sono meglio note di altre. È chiaro che in mancanza di una adeguata conoscenza della fisiologia anche la descrizione della patologia sarà difettosa. L’unica certezza è che, diversamente dalle precedenti cinque grandi estinzioni del passato, l’attuale è dovuta ad una sola specie, la nostra, e che procede a velocità enorme. I dati indicano il suo inizio a circa 120.000 anni fa con l’emigrazione degli antenati di Homo sapiens dall’Africa; l’incremento successivo si ebbe con la nascita e l’affermarsi dell’agricoltura nel Neolitico, per poi aumentare ancora con l’esplosione demografica collegata all’industrializzazione. Le recenti facilità di spostamento e comunicazione tra i vari continenti hanno contribuito enormemente ad accelerare il fenomeno di estinzione massiva. Campionando tra i dati, emerge per esempio che negli ultimi due millenni è scomparso il 20% delle specie di uccelli a seguito dell’antropizzazione delle isole, mentre oggi ne è minacciato l’11%; la scomparsa di oltre il 70% dei generi di mammiferi delle Americhe coincide con l’arrivo dell’uomo sul continente americano circa 11.000 anni fa; quasi tutti i grandi marsupiali, i grandi rettili e circa la metà delle specie di uccelli non volatori dell’Australia si sono estinti dopo l’arrivo dell’uomo; i coloni polinesiani delle Hawaii hanno sterminato la metà circa dell’avifauna terrestre. Il 20% dei pesci d’acqua dolce del mondo è in via di estinzione o forse è già estinto; nei soli Stati Uniti si sono estinte recentemente oltre l’1% di piante (più di 210 specie su 20.000), ma a livello globale si lamentano circa 250 specie estinte e circa 4.500 in pericolo; in Austria è minacciato di estinzione il 22% di invertebrati. Limitandosi solo a mammiferi (circa 4.500 specie note), uccelli (circa 9.700) e anfibi, se ne registrano estinti e in pericolo, rispettivamente: 77 e 1.101, 133 e 1.213. Gli anfibi (circa 4.100 specie), un gruppo ovunque molto sensibile ai mutamenti ambientali, ha perduto sinora 35 specie e ne ha 1.856 in situazione critica. Trent’anni fa le foreste tropicali mondiali si riducevano a un tasso dello 0,9% l’anno; vent’anni fa la velocità era raddoppiata arrivando all’1,8%. Tra le cause dirette dell’estinzione spiccano la sottrazione e la frammentazione degli habitat (per es. per conversione di terre all’agricoltura), l’arrivo di specie invasive estranee, il tasso di consumo delle risorse maggiore di quello di rinnovamento, l’inquinamento, le modificazioni globali del clima. Tra le cause indirette si registrano gli eccessi demografici e dei consumi, la struttura socioeconomica delle nazioni povere che per esempio minimizzano gli incentivi alla conservazione, la debolezza degli organi di governo, della politica e dei sistemi legislativi. 27
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specie (per non dire delle varietà) di organismi viventi. Dati grezzi a parte, le ricadute della perdita di biodiversità sugli ecosistemi e in particolare sulla nostra specie sono impressionanti. La diversità biologica è la risorsa più preziosa a disposizione dell’uomo anche per l’immenso potenziale applicativo offerto da molte specie. Tra le 250.000 Angiosperme circa 30.000 sono dotate di parti commestibili, ma solo 3000 specie rappresentano una risorsa alimentare per l’uomo. Tra di esse, 200 sono state addomestiche e vengono coltivate; di queste una ventina è costituita dai cereali su cui si fonda l’alimentazione dell’umanità, e tre specie in particolare (frumento, riso, mais) soddisfano da sole il 50% del fabbisogno alimentare dell’uomo. Altro effetto dell’erosione della biodiversità è il declino degli impollinatori, con conseguenze drammatiche per la vegetazione. Anche la medicina dipende fortemente dalle specie selvatiche. Negli Stati Uniti il 57% dei 150 farmaci più prescritti contiene composti, o deriva da composti, di origine naturale; nei paesi in via di sviluppo l’80% della popolazione ricorre a rimedi derivati da piante; in tutto il mondo oltre 120 principi attivi sono ricavati per estrazione da circa 90 specie diverse di organismi. Alcuni di essi, come per esempio la digitossina, non sono ottenibili per via di sintesi oppure, come nel caso della vincristina, manifestano un’efficacia maggiore dell’analogo sintetico. Lo screening biochimico della flora mondiale è solo agli inizi: poco più del 3% dei vege-
Prima e dopo Rio Romualdo Gianoli
Nel racconto Il giardino dei sentieri che si biforcano, Jorge L. Borges usa l’immagine del labirinto per tradurre l’imperscrutabilità del tempo. Nel giardino ciascun sentiero si divide in altri due e così via, generando una ramificazione infinita. Borges allude alla possibilità di infinite storie infinitamente ramificate, in cui ciascun bivio è una scelta che determina due nuovi percorsi. Per le politiche ambientali questo bivio ha un luogo e una data ben precisi: Rio de Janeiro 1992. In quell’occasione, infatti, l’Uomo ha dovuto scegliere e ha
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deciso di seguire il sentiero dell’assunzione di responsabilità verso l’ambiente, a favore delle generazioni future. Rio ha ospitato dal 3 al 14 giugno 1992 la Conferenza Internazionale su Ambiente e Sviluppo (UNCED). Indetta in occasione del ventennale di quella di Stoccolma, la conferenza mirava a estendere e consolidare i temi affrontati in Svezia: in particolare, riaffermare e definire meglio il concetto di sviluppo sostenibile. Con oltre diecimila delegati da 183 paesi, un centinaio fra capi di stato e di governo, scienziati, ambientalisti, esponenti di or-
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tali superiori è stato indagato per rilevare la presenza di alcaloidi e, purtroppo, le scoperte in questo campo sono ancora del tutto fortuite, come nel caso della pervinca del Madagascar, una modesta piantina fonte di due alcaloidi con spiccata attività antitumorale, nel trattamento della malattia di Hodgin e della leucemia linfocitica acuta infantile. La perdita di molecole di interesse farmaceutico sintetizzate da microrganismi, animali e piante in via di estinzione sarebbe un danno irrimediabile. La D-tubocurarina, impiegata come miorilassante, il chinino e la chinidina, antibiotici come l’eritromicina, la neomicina e l’anfotericina, l’aspirina originariamente estratta dal salice, la citarabina capace di indurre remissione della leucemia mielocitica acuta, sono tutti esempi di molecole della biodiversità. Sul piano epidemiologico si vanno sommando sempre più evidenze che i fattori di alterazione della biodiversità influenzano l’emergenza di malattie infettive, in molti casi attraverso la rottura dei legami tra i sistemi di controllo biologico che limitano l’emergenza e la diffusione delle specie dannose e dei patogeni. La situazione si aggrava perché spesso le nuove malattie a loro volta sono una minaccia per la salute di singole specie degli ecosistemi di cui innalzano il tasso di mortalità. Il primo caso di estinzione di specie dovuto a infezione riguarda Partula turgida, una chiocciola polinesiana la cui unica popolazione è stata infettata e uccisa dal microsporidio del genere Steinhausia. ganizzazioni non governative, industriali, giornalisti e religiosi, quella di Rio è stata la più grande conferenza della storia. Ma anche la prima volta in cui si è tentato di valutare l’impatto che il modello di sviluppo economico-industriale occidentale aveva e avrebbe avuto sull’ecosistema planetario. Questo sforzo nasceva da un assunto semplice ma rivoluzionario: la Terra è la casa comune dell’umanità. Un concetto già espresso nel Rapporto Brundtland del 1987,1 in base al quale ambiente e sviluppo diventavano le due facce inseparabili della stessa medaglia. A Rio la contrapposizione tra paesi ricchi, favorevoli all’introduzione di politiche più rispettose dell’ambiente, e paesi pove-
ri, insofferenti verso vincoli che ne avrebbero rallentato o limitato lo sviluppo economico-industriale, ha condizionato non poco i lavori. Non stupisce, allora, che il risultato sia stato poco più di una dichiarazione di intenti, un codice etico di comportamento nei confronti dell’ambiente. Ciononostante, Rio ha rappresentato un risultato di portata storica perché ha posto le basi per un successivo piano d’azione mondiale per la tutela dell’ambiente. Al suo attivo restano una “Dichiarazione su ambiente e sviluppo”, una “Dichiarazione sui principi forestali” e la così detta Agenda 21, oltre a due convenzioni, legalmente vincolanti, sul cambiamento climatico e sulla biodiversità.
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G. Brundtland, Our common future: The World Commission on Environment and Development, Oxford University Press, Oxford 1987.
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La ricerca di una soluzione Accanto alla nozione scientifica di biodiversità si è rapidamente sviluppato in Occidente un grande dibattito socialmente costruito che, focalizzandosi sul progressivo impoverimento delle ricchezze biologiche, ha rilanciato la riflessione sul rapporto uomo-natura e sull’indispensabile compromesso tra necessità ambientali e necessità dello sviluppo economico; esigenze però tradizionalmente conflittuali nella società moderna. E il discorso è rimasto tale, senza produrre effetti retroagenti sulle cause che lo hanno provocato. In sostanza, molte parole e nessuna azione politica. Al momento, l’erosione della biodiversità, fenomeno oggettivamente drammatico, sembra dunque destinato a rimanere solo un tema di conversazione. Perché questo succede forse non è un mistero, dato che la sensibilità naturalistica, per non dire delle relative conoscenze, è praticamente inesistente nel nostro paese ed è minima in molti altri paesi occidentali (mi riferisco all’Occidente non perché ad altre longitudini sia meglio in assoluto, ma solo perché sappiamo che il nostro stile di vita è ecologicamente molto dispendioso). La mancanza di conoscenza della natura produce conseguenze assai negative sulle nostre società e, oggi, grazie alla globalizzazione, anche sulle altre società umane. Penso, sia chiaro, non tanto alla mancanza nei cittadini conLa prima dichiarazione riafferma definitivamente il concetto di sviluppo sostenibile come garante dell’ambiente e dello sviluppo per le generazioni presenti e le future. L’uomo è al centro di questo concetto e si enuncia la necessità di eliminare modelli di produzione e consumo non sostenibili, così come la necessità di promuovere un sistema economico a supporto dello sviluppo sostenibile. La dichiarazione fornisce indicazioni per la cooperazione tra gli Stati, la responsabilità civile e la compensazione dei danni ambientali; per la partecipazione pubblica in decisioni ambientali, l’accesso alle informazioni, il principio inquinatore-pagatore e la valutazione di impatto ambientale. Introduce anche il principio di precauzione che prevede politiche di prevenzio-
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ne da adottare anche in assenza di certezza scientifica di danno ambientale. La dichiarazione sull’uso delle foreste è, probabilmente, il maggior insuccesso di Rio. A causa dell’opposizione di molti paesi poveri – che dallo sfruttamento indiscriminato delle proprie risorse forestali traggono enormi benefici economici – non vi è stata infatti alcuna presa di posizione ufficiale contro la deforestazione. Il fondamentale concetto di sviluppo sostenibile viene ripreso in Agenda 21, il documento strategico definito la Bibbia mondiale della sostenibilità. Un testo (non vincolante sul piano giuridico) che coniugando sviluppo e ambiente intende proiettare nel modo giusto l’umanità nel nuovo millennio. Le convenzioni su clima e biodiversità rappresentano un successo storico, per il
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sumatori di elementari conoscenze-nozioni naturalistiche quanto piuttosto alla mancanza di “competenza naturalistica”. Competenza come qualcosa che somiglia piuttosto a una conoscenza in azione, dunque qualcosa di veramente molto lontano dall’insieme inerte di nozioni, pure utilizzabili, su animali, piante, rocce, clima, che molti pensano siano le scienze naturali. E parlando di competenza naturalistica non mi riferisco affatto alle minuzie tecniche dei naturalisti (il nome di quella piantina, il numero di pezzi della zampa di un insetto, la composizione petrografica di una roccia ecc.), ma proprio alla capacità che ogni naturalista ha, al pari di ogni indigeno illetterato di una foresta tropicale, di cogliere il nesso tra le cose della natura nonostante le scale diverse a cui prodotti e processi si possono manifestare e, in una certa misura, nonostante la distanza nel tempo e nello spazio. Qualsiasi naturalista ha sperimentato-imparato l’importanza delle differenze tra gli individui di una popolazione, tra le popolazioni di una specie, tra le specie di una comunità ecologica e le differenze tra gli ecosistemi. C’è dunque bisogno di un’educazione a cogliere i nessi, le relazioni tra le cose, tra i fenomeni. La conoscenza è sempre una lotta contro gli stereotipi: il rapporto tra locale e globale non è frutto della mondializzazione, è una cosa vecchia di molte centinaia di milioni di anni. Ben venga allora qualunque forma di sapere che aiuti a svilupvalore giuridico vincolante, ma anche un fallimento, per il modo in cui sono state messe in pratica e i compromessi su cui si reggono. Sebbene firmata da ben 153 paesi, quella contro i cambiamenti climatici (per volere degli Usa) non comporta obblighi pratici, ma solo un generico impegno alla riduzione delle emissioni di gas ritenuti alteranti del clima, non impone scadenze temporali ma dichiara l’intento (per i soli paesi sviluppati) di ridurre le emissioni ai livelli del 1990. A riprova dell’implicito compromesso la seguente affermazione: “le misure adottate per far fronte ai cambiamenti climatici dovranno essere in armonia con le esigenze di sviluppo sociale ed economi-
co, […] tenendo conto pienamente delle legittime esigenze prioritarie dei paesi in via di sviluppo e cioè di raggiungere una crescita economica sostenibile e di eliminare la povertà”.2 La convenzione sulla biodiversità auspica la conservazione del patrimonio biogenetico del pianeta e l’uso “sostenibile” della biodiversità attraverso politiche di sviluppo condotte secondo la catena ricerca/conoscenza/azione. Nonostante gli ostacoli posti dagli Usa (che non firmarono) il documento rappresenta comunque un risultato storico per aver posto la questione. Ma questa storia non si esaurisce con Rio. Il sentiero che ha portato a riconoscere l’impatto
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G. Garauguso, S. Marchisio (a cura di), Rio 1992: vertice per la Terra. Atti della Conferenza mondiale sull’ambiente e lo sviluppo, Franco Angeli, Milano 1993.
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pare, nei giovani e negli adulti, la capacità di capire l’importanza capitale delle differenze e il rapporto che c’è tra diversità e stabilità, la capacità di rappresentarsi la biosfera come un insieme di reti interconnesse (un nodo delle quali è la nostra specie) in cui tutto ha un senso (dunque un valore), pure se quel senso non fosse immediatamente riconoscibile come il nostro. E c’è anche estremo bisogno che, a un certo punto, i cittadini-consumatori siano esposti al problema, invitati a ragionare sul problema, perché è chiaro che su questioni così importanti è dissennato affidarsi completamente e soltanto a degli esperti. Bisogna democratizzare il problema, mettendolo nelle mani dei cittadini e chiedendo loro di esaminarlo prima di giudicare e decidere. Certo assistendoli, aiutandoli a capire. In un workshop a porte chiuse tenuto al Museo di Storia Naturale di Parigi nel maggio 1994, sui rapporti tra diversità biologica e diversità culturale, ebbi la fortuna di incontrare e conoscere Darrell Posey, un etnobiologo americano, all’epoca all’Istituto di Scienze forestali di Oxford, che ha lavorato per oltre un ventennio tra i Kayapó dell’Amazzonia brasiliana. Posey, scomparso qualche anno fa, era uno studioso molto competente con una formazione accademica completa (dalla laurea in Entomologia al PhD in Etnobiologia) e si vedeva. Ma, parlando di come fronteggiare i velocissimi fenomeni della dell’uomo sull’ecosistema planetario è lungo e costellato di date importanti. A partire dal 1948, anno di nascita della International Union for the Conservation of Nature (IUCN), la più antica istituzione a tutela dell’ambiente che oggi conta un migliaio di membri tra organizzazioni governative e non di 181 paesi. Nel 1972, l’anno del primo Earth Summit di Stoccolma sullo sviluppo compatibile con l’ambiente, fu elaborata una dichiarazione che costituì la base per la Conferenza di Rio. Il 1972 è stato anche l’anno del rapporto sui limiti dello sviluppo del cosiddetto Club di Roma. Il rapporto prevedeva che, ai ritmi di crescita di popolazione, consumi e inquinamento dell’epoca, entro il secolo seguente si sarebbe raggiunto il limite massimo di crescita sul pianeta. La grande eco che
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ebbe questa teoria contribuì a far nascere la questione ambientale e, nel 1979, a Ginevra, si tenne la prima conferenza mondiale sul clima. Fu poi la volta della Conferenza Onu per l’ambiente e lo sviluppo di Tokyo del 1987 e del rapporto Our common future della commissione Brundtland che definì lo sviluppo sostenibile come quello che “soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni”. L’anno seguente, l’Assemblea Generale dell’Onu istituì il gruppo di studio sui cambiamenti climatici IPCC. Nel 1990 il primo rapporto dell’IPCC attribuì all’attività umana il surriscaldamento del pianeta ma chiese altro tempo per verificare i dati. Nel 1995 il secondo rapporto, in sostanza, confermava il precedente.
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sesta estinzione, quello che più colpiva l’interlocutore era la sua straordinaria capacità di entrare concretamente nel problema. Afferrava il cuore della questione e procedeva con una capacità analitica invidiabile a isolarne gli aspetti più salienti in vista di una possibile ma comunque necessaria soluzione (e nel caso delle contromisure all’erosione della biodiversità questi aspetti sono davvero molto eterogenei: tassonomici, evolutivi, ecologici, geografici, demografici, economici, di diritto nazionale e internazionale e naturalmente anche squisitamente politici). Nello specifico caso dei Kayapó, una popolazione senza scrittura la cui vita dipende direttamente dalla foresta amazzonica del bacino dello Xingu, la soluzione trovata e praticata da Posey fu di integrare i dati di bioprospezione che gli enti di ricerca occidentali andavano raccogliendo sulla biodiversità forestale locale con i modelli indigeni tradizionali di gestione ambientale, in maniera da elaborare nuove strategie di sfruttamento delle ecorisorse. A un problema concreto bisogna dare una risposta concreta. Significa sporcarsi le mani con le incertezze del caso, la penuria di dati e di informazioni; significa mettere le proprie conoscenze a servizio della comunità. Posey riteneva che la lotta contro l’erosione della biodiversità fosse in verità un problema sempre e innanzitutto culturale. Nel senso specifico che l’insieme delPassarono due anni e a Kyoto la conferenza dell’Onu sui cambiamenti climatici elaborò l’omonimo Protocollo secondo il quale “i paesi industrializzati si impegnano a ridurre, per il periodo 2008–2012, il totale delle emissioni di gas a effetto serra almeno del 5% rispetto ai livelli del 1990. Questi impegni, giuridicamente vincolanti, produrranno una reversione storica della tendenza ascendente delle emissioni che detti paesi hanno da circa 150 anni. Il Protocollo di Kyoto è stato aperto alla firma il 16 marzo 1998 ed entrerà in vigore il no-
vantesimo giorno successivo alla data in cui almeno 55 Parti della Convenzione, tra le quali i paesi sviluppati le cui emissioni totali di biossido di carbonio rappresentano almeno il 55% della quantità totale emessa nel 1990 da questo gruppo di paesi, lo abbiano ratificato”. Ciò è avvenuto solo il 18 novembre 2004, grazie alla ratifica di Mosca, sicché il protocollo è entrato in vigore il 16 febbraio del 2005. Al 6 giugno del 2007 hanno aderito 174 paesi più l’Unione Europea mentre risultano ancora contrari Australia e Usa. 3
3 Aderire non vuol dire ratificare. Esistono, infatti, molti livelli di adesione al protocollo. Per le varie distizioni si consulti la guida all’indirizzo: http://untreaty.un.org/English/ guide.asp#glossary Per un elenco aggiornato dei paesi firmatari: http://unfccc.int/files/kyoto_protocol/ background/status_of_ratification/application/pdf/kp_ratifcation.pdf http://unfccc.int/kyoto_protocol/background/status_of_ratification/items/2613.php
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le azioni da compiere per tentare di frenare l’erosione galoppante e l’estinzione irreversibile deve essere sostenuto da motivazioni profondamente radicate dentro ciascuno di noi. Motivazioni che vanno suscitate e alimentate tanto razionalmente quanto emotivamente. Questo è un punto della massima importanza. Potrà forse sembrare un paradosso, ma non credo ci sia conoscenza umana senza emozione (anche la conoscenza eminentemente razionale, che si manifesta come un progetto della ragione, ha un cuore irrazionale). La scienza occidentale è una delle forme più alte (ricche e complesse) di conoscenza prodotte dalla nostra specie. Ed è una conoscenza intimamente alleata della Natura: il suo oggetto di interesse. Affinché sia efficace ai fini che ci proponiamo, la conoscenza scientifica deve però diventare un sapere offerto a chiunque ne sia desideroso. La conoscenza (governata da Eros), si dice nel Simposio, è amore per quello che ci manca. Per conoscere la verità c’è bisogno di passione; si conosce infatti solo se si ama. D’altra parte gli scienziati amano il loro lavoro, la ricerca, e spesso ne sono completamenti assorbiti, e non pochi di loro riescono a parlarne anche emozionandoci, trasmettendoci la loro passione. In conclusione credo che i mutamenti di stile di vita necessari per affrontare sul campo il problema dell’erosione della biodiversità abbiano bisogno di Intanto nel 2001 con il terzo rapporto, l’IPCC ha fornito evidenze scientifiche del surriscaldamento della Terra e nel 2002, a Johannesburg, si è svolto il terzo World Summit dell’Onu sullo sviluppo sostenibile (WSSD). Definito da alcuni il “vertice vuoto”, si limita a ribadire quanto già detto nel 1972 e 1992, con l’aggiunta di un tentativo di dare linee guida per attuare i buoni propositi e una prima critica ufficiale alla globalizzazione. Infatti, nella dichiarazione conclusiva si afferma che “la globalizzazione ha aggiunto nuove sfide” alla gestione ambientale del pianeta e che i suoi “costi e benefici sono disegualmente distribuiti”. Altri hanno voluto trarre da Johannesburg una diversa 4
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lezione: la leadership per lo sviluppo mondiale sostenibile verrà necessariamente dalla società civile e non dai governi. A ben vedere, dunque, la frase che si legge in Agenda 21, “Humanity stands at defining moment in history”,4 oggi come allora, ricorda che ci sarà sempre un altro bivio nel giardino dei sentieri che si biforcano. Speriamo di non aver già imboccato una via senza uscita.
G. Garaguso, S. Marchisio (a cura di), Rio 1992: vertice per la Terra, cit., p. 261.
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forme di partecipazione alla conoscenza che accanto all’esame delle “ragioni della ragione” (cioè motivi utilitaristici, come la funzionalità degli ecosistemi, la nostra dipendenza da migliaia di specie diverse di organismi e dai cosiddetti servizi ecosistemici – le forniture di ossigeno, azoto, acqua ecc.), diano spazio anche all’espressione individuale delle “ragioni del cuore”: dunque ai valori estetici, ricreativi ed etici della biodiversità. Ma ciò non sorprende se, come sostiene E.O. Wilson, le ragioni del cuore non sarebbero altro che un prodotto della biofilia, l’amore per la natura da cui proveniamo: un tratto della nostra specie geneticamente determinato. ■
Saverio Forestiero, ricercatore di Zoologia presso la Facoltà di Scienze dell’Università di Tor Vergata, si occupa di adattamento biologico, di teoria e di didattica dell’evoluzione. Insegna Evoluzione biologica, Ecologia evoluzionistica e Storia delle teorie ecologiche ed evoluzionistiche a Tor Vergata e Fondamenti di Biologia (per Filosofia) all’Università di Cassino. È membro del Comitato scientifico della Scuola estiva internazionale di Filosofia e Storia della Biologia e della Medicina e consigliere scientifico di Res Viva (Centro interuniversitario di ricerche storico-epistemologiche sulle scienze del vivente). Ha curato, insieme al filosofo Massimo Stanzione, il volume Selezione e selezionismi (Franco Angeli, in caso di stampa). 35
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Sviluppo o decrescita? Ugo Leone
Sostenibile Sono ormai vent’anni 1 che questo aggettivo viene associato al sostantivo sviluppo, quasi per attutire la dirompenza che il concetto di sviluppo aveva cominciato a manifestare in molti ambienti dopo la pubblicazione del primo rapporto al Club di Roma sui dilemmi dell’umanità. 2 Quella che sembrava una semplice e accettabile “soluzione” ai guasti ambientali provocati dallo sviluppo (più correttamente dalla crescita econo-
1 Nel 1987 fu reso noto il contenuto del rapporto realizzato dalla Commissione Brundtland nell’ambito del Programma United Nations Environmental Programm (UNEP). In questo rapporto per la prima volta fu introdotto il concetto di “sviluppo sostenibile”. Nel rapporto Bruntland: “per sviluppo sostenibile si intende uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri”. Cfr., World Commission on Environment and Development, Our Common Future, Oxford University Press, Oxford 1987 (trad. it. Il futuro di noi tutti, Bompiani, Milano 1988). 2 Il Club di Roma è un gruppo internazionale di personalità del mondo scientifico, economico e industriale, che si dichiarano “individualmente preoccupati della crescente minaccia implicita nei molti e interdipendenti problemi che si prospettano per il genere umano”. La denominazione si deve al fatto che la prima riunione del gruppo si tenne a Roma, nel 1968. Scopo dichiarato del Club nel conferire l’incarico agli studiosi del Massachusetts Institute of Technology (MIT) – come si legge nella prefazione dello scomparso presidente Aurelio Peccei – era quello di “accendere per mezzo di questo rapporto un grande dibattito sui Dilemmi dell’Umanità, e di catalizzare in energie innovatrici la diffusa sensazione che, coll’avvento dell’era tecnologica, qualcosa di fondamentale deve essere modificato nelle nostre istituzioni e nei nostri comportamenti”. Il rapporto cui si fa riferimento nel testo è l’ormai famoso D.H. Meadows, D.L. Meadows, J. Randers, W.W. Behrens III, I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano 1972. La fotografia della situazione che il MIT offrì al dibattito internazionale è sintetizzabile in tre punti che costituiscono lo scenario che gli studiosi in questione immaginavano si sarebbe delineato per l’umanità date certe premesse e in assenza di interventi: 1) nell’ipotesi che la linea di crescita riscontrata fosse continuata inalterata nei cinque settori fondamentali (popolazione, industrializzazione, inquinamento, produzione di alimenti, consumo delle risorse naturali) l’umanità avrebbe raggiunto i limiti naturali dello sviluppo entro i successivi cento anni a causa del previsto e temuto incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale; 2) è possibile modificare questa linea di sviluppo e determinare una condizione di stabilità ecologica in grado di protrarsi nel futuro. La condizione di equilibrio globale potrebbe essere definita
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Economia ecologica
mica), 3 in realtà non solo non ha avuto risultati tangibili a livello planetario, ma l’uso dell’aggettivo sostenibile ha finito col costituire un alibi alla realizzazione di qualunque cosa – indipendentemente dal suo impatto ambientale – purché definita preventivamente sostenibile. Al punto che esiste una corrente economico-ecologista che considera una vera e propria impostura lo “sviluppo sostenibile”. Tra gli elementi di essa spicca la figura del sociologo Serge Latouche che, fra l’altro, ha affermato: “Lo sviluppo sostenibile, o come diciamo in francese ‘durevole’ […], questo ossimoro, questa contraddizione in termini, è terrificante e disperante! Almeno, con lo sviluppo non durevole e insostenibile, si poteva conservare la speranza che questo processo mortifero avrebbe avuto una fine. Che un giorno si sarebbe fermato, vittima delle sue contraddizioni, dei suoi fallimenti, del suo carattere insopportabile e dell’esaurimento delle risorse naturali... Si poteva quindi riflettere e lavorare a un doposviluppo meno disperante, mettere insieme una postmodernità accettabile”. 4 Anche l’impegno del Club di Roma era stato in passato definito un’impostura. 5 I rapporti prodotti per il Club, soprattutto il primo, indipendentemente dalle posizioni che si vogliano avere sulla “crescita zero”, aveva almeno il merito di mettere sull’avviso circa l’esauribilità di vitali risorse del nostro modello di sviluppo. In questo modo, il rapporto documentava l’insostenibilità di quel modello o, meglio, l’impossibilità della sua riproponibilità nel tempo sulla base delle risorse sulle quali era nato e cresciuto dopo la rivoluzione industriale. in modo tale che ne risultino soddisfatti i bisogni materiali degli abitanti della Terra e che ognuno abbia le stesse opportunità di realizzare compiutamente il proprio potenziale umano; 3) se l’umanità opterà per questa seconda alternativa, invece che per la prima, le probabilità di successo saranno tanto maggiori quanto più presto essa comincerà a operare in tale direzione. I ricercatori del MIT, dunque, in modo autorevole cominciarono a porre il problema dei “limiti” allo sviluppo ipotizzando – per rimandare il più lontano possibile “l’incontrollabile declino del livello di popolazione e del sistema industriale” – una società sostanzialmente stazionaria che riduca al minimo i consumi di risorse e il suo tasso di sviluppo realizzando quella che venne definita “crescita zero”. 3 “Sviluppo” è l’insieme delle trasformazioni che tendono a omologare l’economia e la società di un paese arretrato (che infatti si dice sottosviluppato) al resto del mondo sviluppato; con il termine crescita si intende, invece, l’incremento, misurato su base annua, del prodotto interno lordo di un paese industrializzato. Mercedes Bresso, Per un’economia ecologica, Nuova Italia Scientifica, Roma 1993, p. 21. 4 S. Latouche, Il paradosso dell’Economia ecologica e lo sviluppo sostenibile come ossimoro, intervento del 30 settembre 1998 al Seminario internazionale di studio dell’Università di Padova. 5 P. Braillard, L’imposture du Club de Rome, PUF, Paris 1982; trad. it. L’impostura del Club di Roma, Dedalo, Bari 1983. 37
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D’altra parte lo stesso Club di Roma, che peraltro aveva inteso proprio portare materiali per un dibattito attraverso i numerosi altri rapporti che seguirono, ha progressivamente modificato il tiro. Sta di fatto che da quella data si cominciò a criminalizzare il concetto di sviluppo, a distinguere tra crescita e sviluppo, a usare il termine con un certo “pudore” cercando di attutirne l’impatto eventualmente negativo sull’ambiente addolcendolo con gli aggettivi di compatibile e, in ultimo, “sostenibile”. Su questo tema, gli aspetti del dibattito non sempre hanno raggiunto toni costruttivi e mi sembra resti tuttora valida un’annotazione di Giorgio Ruffolo: “Sviluppare limiti alla crescita significa promuovere nuove forme di sviluppo senza limiti. […] La biforcazione di fronte alla quale ci troviamo ci pone non il dilemma tra crescere e non crescere, ma quello tra due tipi di ‘sviluppo’. Lo sviluppo della potenza – è questo che chiamiamo crescita – e lo sviluppo della coscienza. È questo che vorremmo chiamare, più propriamente, sviluppo”.6
Bisogni e consumi Se il problema sta in questi termini se, cioè, la preoccupazione è la insostenibilità del vigente modello di sviluppo in quanto non durevole perché prevalentemente basato su risorse non rinnovabili, l’attenzione deve essere spostata sui bisogni e sulla possibilità di soddisfarli indipendentemente dalle fonti di energia e dalle materie prime utilizzabili. Questo problema ne pone altri due: che cosa sono le risorse? Quali sono i bisogni? Se più agevolmente si può rispondere alla prima domanda dicendo che per risorse si intendono fonti di energia e materie prime nel momento in cui vengono utilizzate per soddisfare un bisogno, non altrettanto semplice è rispondere alla seconda domanda. Non a caso mentre le risorse sono generalmente classificate in rinnovabili ed esauribili, i bisogni sono più difficilmente catalogabili: primari, essenziali, vitali, effimeri, fittizi e via aggiungendo, pur nel semplice campo dei sinonimi. Ma, una volta stabilito che ai due estremi della scala possiamo inserire bisogni definibili essenziali quali l’alimentazione (nei suoi aspetti quantitativi e qualitativi), l’abitazione, l’abbigliamento e all’estremo opposto “bisogni” manifestamente fittizi, la preoccupazione è come continuare a soddisfare i primi in presenza di una popolazione planetaria che continuerà a crescere ancora per tutto il XXI secolo mentre alcune risorse essenziali (oggi) tendono a scomparire anche prima dei prossimi cent’anni. 6
G. Ruffolo, Lo sviluppo dei limiti, Laterza, Bari 1994, p.111.
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È qui che la ricerca scientifica e le sue applicazioni tecnologiche giocano un ruolo di fondamentale importanza. Perché ciò che conta non è continuare a disporre di risorse in esaurimento per soddisfare bisogni che restano inalterati e la cui domanda di soddisfacimento cresce col crescere della popolazione. Quello che conta è disporre di energia e materie prime di sostituzione e di tecnologie appropriate al loro uso per il soddisfacimento appunto di quei bisogni. Resta comunque gravemente irrisolto il problema dell’alimentazione che non può trovare “risorse e tecnologie di sostituzione”. Il prezzo del degrado Come può avvenire tutto questo in un pianeta che continua a degradarsi nelle sue componenti naturali? Ma, prima ancora, in che cosa consiste il degrado? Molto semplicemente, ma non semplicisticamente, si può definire degrado la perdita di valore del capitale natura. Questo è un problema con il quale bisogna fare materialmente i conti. Come sostengono G. Foy e H. Daly, 7 per problema ambientale “si intende il degrado del capitale naturale e il conseguente calo, o scomparsa, dei relativi flussi di servizi a causa dell’abuso e/o riduzione delle capacità assimilative o rigenerative dell’ambiente. […] La scomparsa di capitale naturale può venire a volte abbondantemente compensata attraverso nuovo capitale prodotto dall’uomo. Tuttavia, la scomparsa di altre forme di capitale può essere molto più rilevante dei corrispondenti guadagni in capitale prodotto dall’uomo. I problemi ambientali critici implicano grandi perdite di capitale naturale accompagnate da scomparsa di flussi di servizi non commerciali e perdita di valore del capitale sostitutivo prodotto dall’uomo”. Alla base del degrado, come rileva Edward Barbier, 8 vi è spesso “la mancata presa di coscienza e determinazione del valore economico totale delle risorse e delle funzioni naturali”. Queste risorse e funzioni hanno anche un valore economico che si è tentato di quantificare. Uno studio di Robert Costanza, presidente dell’International Society for Ecological Economics, e altri sul valore della Terra, 9 cercando di quantifi7
G. Foy e H. Daly, Allocation,Distribution and Scale as Determinants of Envitonmental Degradation: Case Studies of Haiti, El Salvador and Costa Rica, Allocation, World Bank Environment Department, Washington DC Working Paper n.19, settembre 1989. 8 E.B. Barbier, Degrado ambientale nel Terzo Mondo in D. Pearce (a cura di), Un’economia verde per il pianeta, Il Mulino, Bologna 1993, p. 101. 9 R. Costanza et al., The value of the World’s Ecosystem Services and Natural Capital in “Nature” vol. 387, 1997, pp. 253-260. 39
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care tutto ciò anche in termini economici, ha tentato di valutare il prezzo di mercato delle “prestazioni” annualmente fornite dalla Terra effettuando una prima stima globale in termini economici dei servizi degli ecosistemi naturali presenti sul nostro pianeta. Il valore stimato (gran parte del quale è totalmente fuori mercato) ammonterebbe a circa 54.000 miliardi di dollari annui con oscillazioni varianti da l6.000 a 54.000 miliardi di dollari, con una media di 33.000 miliardi di dollari annui. La valutazione è particolarmente significativa se si tiene conto che Costanza e i suoi collaboratori cercano di dare un valore non alle risorse esauribili e non riproducibili – come, ad esempio il petrolio – che vengono considerati “beni” e non “servizi”. Essi prendono in considerazione esclusivamente il “lavoro della natura” e la sua capacità di offrire servizi in modo continuato e gratuito. Servizi che vengono forniti per il 63% dagli ecosistemi marini e per il 37% da quelli terrestri. In questa analisi il servizio più prezioso – valutabile in circa 30.000 miliardi di dollari all’anno – è quello della fornitura degli “alimenti di base” attraverso il ciclo dell’azoto e del fosforo che, consentendo la crescita di alghe e piante (nutrimento primo degli animali), costituiscono la base della catena alimentare. Al secondo posto, con un valore stimato in 5.000 miliardi di dollari, è l’offerta di valori estetici – naturali e “costruiti” dall’uomo – che movimentano il turismo. 10 È abbastanza evidente che il degrado, e la perdita di valore del capitale natura che ne consegue, non solo rende tutti sostanzialmente più poveri di quanto non dica la semplice e semplicistica valutazione dei ritmi di crescita del Prodotto Interno Lordo, 11 ma rende ancor più preoccupante il soddisfacimento del bisogno-alimentazione in seguito alla compromissione dei cicli dell’azoto e del fosforo che, come appena detto, sono alla base della catena alimentare.
Per un’economia ecologica Il complesso di questi problemi e il modo in cui vengono generalmente affrontati inducono anche a modificare il tradizionale approccio economico. In particolare quella che viene definita “ecological economics” propone un’idea di economia non più basata sui tradizionali parametri lavoro e capitale, ma su un’economia ecologica basata su tre parametri: lavoro, “capitale naturale” e
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P. Greco, Se volete acquistare il mondo questo è il prezzo, “l’Unità” 21.7.1997. Ultimo e particolarmente significativo è il costo ambientale e sociale della crescita vorticosa dell’economia cinese
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“capitale prodotto dall’uomo”. In questa distinzione si intende per “capitale naturale” l’insieme dei sistemi naturali (mari, fiumi, laghi, monti, foreste, flora, fauna, territorio) e per “capitale prodotto dall’uomo” anche i prodotti agricoli, della pesca, della caccia e della raccolta e il patrimonio artistico-culturale presenti nel territorio. Anche su questo fronte è netta l’opposizione di Latouche secondo il quale: “Il tentativo di conciliare lo sviluppo economico e la preservazione dell’ambiente con la parola ‘sviluppo sostenibile’ è un esempio tipico di una soluzione verbale. Così, dobbiamo vedere prima i limiti di questo mostro chiamato ‘economia ecologica’, poi dedurre le contraddizioni dello sviluppo sostenibile”. Pur in presenza di posizioni così estreme, è difficile non concordare sulla necessità di realizzare in tempi rapidi quella che viene definita una “riconversione ecologica” della società in cui a tutti i livelli territoriali, economici e sociali, la qualità dell’ambiente venga considerata come una cosa “che conta”, come, cioè, un problema la cui soluzione passa trasversalmente agli altri. Questa osservazione si può meglio comprendere alla luce dei rapporti passati e presenti tra ambiente e sviluppo economico o, se si preferisce, la loro evoluzione negli ultimi duecento anni. Il tentativo alla base di questa ricostruzione è quello di dimostrare l’esistenza di legami molto stretti tra politica economica e politica dell’ambiente. E anche di sottolineare che l’esistenza di questo legame, che oggi si tende a enfatizzare con particolare insistenza, va vista sotto due aspetti storicamente distinti e, quindi, cronologicamente separati o addirittura contrapposti. Nel senso che certe scelte di politica economica hanno avuto un impatto sulla qualità dell’ambiente tale da imporre con urgenza la realizzazione di una politica risanatrice dell’ambiente che, a sua volta, ha magari avuto un impatto importante su talune scelte di politica economica e sulla realizzazione di una migliore qualità della vita. È un cerchio, come si vede, l’apertura del quale ha comportato una gran serie di guasti in termini di deterioramento ambientale, riduzione delle risorse non rinnovabili e peggioramento della qualità della vita legata a questi parametri di misurazione. È un cerchio che si può chiudere ritornando al punto di partenza cioè mettendo in discussione le scelte di politica economica planetaria che sono alla base della situazione presente e realizzandone altre rigorosamente rispettose delle esigenze dell’ambiente e dell’uomo che in esso vive. Ma è un cerchio che si può chiudere solo dopo avere realizzato una lunga e costosa opera di ricostruzione ambientale. Si tratta di migliaia di miliardi di dollari bruciati in seguito allo sconsiderato uso e abuso di ambiente 41
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e territorio, cui se ne aggiungono molti altri da investire nel tentativo di ricostituire – laddove non sia persa irreversibilmente – una qualità ambientale che sarebbe stato possibile mantenere integra a costo zero se l’umanità avesse compiuto altre scelte nel corso della sua storia. Se avesse tenuto in altro conto non gli interessi dell’ambiente (che non esistono come interessi di un’entità assoluta) ma quelli dei milioni e poi miliardi di propri simili esistenti in aree vicine, contigue e lontane della Terra. ■
Ugo Leone (Napoli, 1940) è docente di Politica dell’ambiente presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università di Napoli “Federico II”. È presidente dell’Istituto internazionale Stop Dis-
asters e dell’Osservatorio mediterraneo della Fondazione Di Vittorio. È responsabile della sezione Politiche del territorio e trasferimento tecnologico del Centro regionale di competenza analisi e monitoraggio del rischio ambientale. Pubblicista dal 1969, è editorialista dell’edizione napoletana di “Repubblica”. Tra le più recenti opere, segnaliamo Nuove politiche dell’ambiente (Carocci, 2002) e La sicurezza fa chiasso (Guida, 2004). 42
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Migranti ambientali Antonio Golini
Migrazioni e ambiente nella storia dell’umanità Non sempre viene ricordato che le migrazioni hanno giocato un ruolo decisivo nella storia dell’umanità. È alle migrazioni infatti che si devono alcune peculiarità fondamentali che caratterizzano la presenza della specie umana sul nostro pianeta. Una specie diffusa su tutta la faccia della terra e sopravvivente da un’epoca così straordinariamente lunga. Nella lontana storia dell’uomo – a partire dalla rivoluzione agricola di ottomila anni fa che ha determinato la stanzialità dell’uomo – è stata una, e una continua a essere, la causa fondamentale delle migrazioni di breve e di lungo raggio: lo squilibrio fra popolazione e risorse. Squilibrio dovuto o a un eccesso di crescita demografica rispetto alle risorse presenti sul territorio o a una sopravvenuta carenza – improvvisa o di medio-lungo periodo – delle risorse stesse per motivi ambientali. Nel primo caso, l’eccesso di popolazione è stato ridotto solitamente in due modi: nella maggior parte dei casi, si è verificata una forte mortalità per l’arrivo di uno o più cavalieri dell’Apocalisse – epidemie, carestie e guerre – o, più raramente (per motivi che esporremo in seguito) è intervenuta l’emigrazione. Nel secondo caso, con un territorio che non garantiva più la possibilità di sostentare la popolazione a causa di problemi ambientali di qualsivoglia natura, la via d’uscita è invece stata solo quella dell’emigrazione: una via comunque difficile, faticosissima, incerta, per le difficoltà dei percorsi e l’assenza di idonei mezzi di trasporto. È per questo che le migrazioni, pur fondamentali nella e per la storia della presenza dell’uomo sulla terra, non hanno rappresentato fino all’epoca contemporanea la soluzione “normale” allo squilibrio fra popolazione e risorse.
Delle relazioni recenti fra migranti, rifugiati e gravi alterazioni ambientali Attualmente, nella vita delle popolazioni e in moltissime parti del mondo, flussi migratori anche massicci costituiscono una soluzione corrente e ricorrente ad alterazioni ambientali, geofisiche e meteorologiche come de43
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sertificazioni, uragani o inondazioni. Al punto che ormai molti aspetti delle relazioni fra migrazioni e ambiente sono ben conosciuti. Sebbene da un lato, però, il mondo rimanga ancora poco preparato rispetto alla tematica delle migrazioni forzate provocate da fatti ambientali di larga o larghissima portata, si incomincia a prendere sempre maggiore consapevolezza del problema. 1 Bisogna poi tener presente che le migrazioni forzate provocate da fatti ambientali si aggiungono a quelle tutt’altro che infrequenti provocate da conflitti, guerre civili, persecuzioni e trattati di pace. Al complesso di tutto questo insieme di cause si fa riferimento quando si parla di rifugiati, un termine che ancora adesso, incredibilmente, non è del tutto e perfettamente definito, sicché anche per questa ragione le statistiche su migranti e rifugiati di vario tipo sono incomplete e parzialmente sovrapposte. Per “rifugiato”, seguendo la Convenzione di Ginevra del 1951 relativa allo status proprio di rifugiato, si intende una persona che, per una fondata paura di persecuzione per ragioni di razza, religione, nazionalità, opinione politica, appartenenza a un particolare gruppo sociale, vive fuori del paese della propria nazionalità e non è in grado o non intende avvalersi, proprio per tale paura, della protezione che il paese potrebbe offrirgli. Nel 1969 l’Organizzazione per l’Unità Africana (ora Unione africana) ha adottato una definizione più comprensiva che include ogni persona che è forzata a lasciare il paese di residenza abituale a causa di aggressioni, occupazioni esterne, dominazioni straniere o eventi che alterano gravemente, in tutto o in parte, l’ordine pubblico del paese di origine o del paese di nazionalità. Nell’adottare nel 1984 la Dichiarazione di Cartagena i governi dell’America Latina hanno anche considerato come rifugiati le persone che lasciano il loro paese quando le loro vite, la loro sicurezza o la loro libertà sono minacciate da una diffusa violenza, da aggressioni straniere, conflitti interni, violazione su larga scala dei diritti umani o ogni altra circostanza che seriamente sovverte l’ordine pubblico. 2 Ben si intende, quindi, come il concetto di rifugiato sia nato subito dopo la seconda guerra mondiale e si sia quindi basato soprattutto su motivazioni di tipo po1
In particolare l’Organizzazione internazionale delle migrazioni (IOM nell’acronimo inglese) ha organizzato negli ultimi tempi una serie di convegni e incontri specializzati fra esperti, proprio in tema di migrazioni e ambiente (ai quali ci si è largamente rifatti nella redazione di questo articolo) fra cui uno recentissimo tenuto a Bangkok il 22-23 febbraio 2007 (www.iom.int). 2 IOM, Migration, Development and Natural Disaters: Insights from the Indian Ocean Tsunami, IOM International Organization for Migration, Geneva 2007, pp. 87; www.iom.int. 44
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litico e sociale. A esse poi recentemente si sono aggiunte le motivazioni ambientali, dando luogo agli “environmental refugees”, ai quali la stessa Organizzazione Internazionale delle Migrazioni (IOM nell’acronimo inglese) va dedicando crescente attenzione scientifica e operativa, mentre l’Alto Commissariato per i rifugiati, un’agenzia delle Nazioni Unite, si occupa prevalentemente dell’altro tipo di rifugiati. Resta comunque il problema che in molti casi è difficile distinguere coloro che si rifugiano in un altro paese per le due serie di motivazioni appena ricordate, da coloro che vi si rifugiano scappando da impossibili condizioni economiche di vita – quest’ultimi essendo considerati migranti propriamente detti. Queste difficoltà economiche, inoltre, spesso si intrecciano e si confondono tanto con motivazioni politiche e sociali, quanto con quelle ambientali. Ecco perché, come si diceva, concetti, definizioni e statistiche relativi a migranti e rifugiati non infrequentemente si confondono e si sovrappongono.
Migranti, rifugiati ambientali e nessi con lo sviluppo socio-economico Limitatamente alle migrazioni originate da fenomeni ambientali, il continente più sottoposto a migrazioni forzate dovute a disastri naturali è l’Asia, che è stata colpita da circa la metà di tutti i disastri ambientali registrati nel decennio fra il 1990 e il 1999: in particolare, secondo lo IOM, dal 43% dei disastri e dal 70% di perdite di vite umane. Ma certamente anche l’Africa, soprattutto per la desertificazione, e l’America centrale, per gli uragani, sono aree nelle quali sono frequenti larghe migrazioni forzate di questo tipo. Il tragico e devastante tsunami nell’Oceano indiano alla fine del 2004 3 costituisce di fatto un enorme “esperimento” che ha concentrato nel tempo e in un vastissimo spazio immani fenomeni naturali e formidabili reazioni sociali, economiche e politiche, che consentono di evidenziare in maniera organica le complesse interrelazioni che legano i disastri naturali alle migrazioni e lo sviluppo socio-economico. Si possono esaminare queste complesse interrelazioni, cui si è fatto cenno nel paragrafo precedente, da almeno quattro punti di vista. a Impatto dei disastri naturali sulle comunità dei migranti, con particolare riferimento ad accresciute vulnerabilità e a carenza di accesso all’assistenza: sia i migranti regolari, quanto quelli irregolari, si trovano 3
Il 26 dicembre 2004 un fortissimo terremoto al largo delle coste dell’Indonesia provocò nell’Oceano indiano uno tsunami di spaventosa portata che in 14 paesi ha provocato la morte di circa 229.000 persone e danni stimati in 10 miliardi di dollari. Per un insieme di comprensibili ragioni anche gli aiuti internazionali sono stati enormi e si stima che siano ammontati a 13 miliardi di dollari. 45
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a fronteggiare un’accresciuta vulnerabilità in occasione dei disastri naturali, dal momento che possono diventare gruppi “nascosti” e dimenticati nel quadro della pianificazione delle risposte da dare ai disastri. Essi possono rimanere esclusi dagli interventi di assistenza umanitaria, non essere in grado di reclamare i corpi dei parenti morti, avere gravi difficoltà nel ristabilire la loro identità legale e riottenere i permessi di soggiorno. Naturalmente la situazione diventa particolarmente difficile quando si tratta di immigrati irregolari, perché a quel che si è detto si aggiunge la loro paura nel venire allo scoperto per richiedere assistenza. b Effetti dei disastri naturali sui flussi migratori all’interno e all’esterno delle aree interessate a seguito dei mutamenti socio-economici che determinano i livelli di sviluppo pre-disastri: naturalmente i disastri naturali possono portare a creare flussi di emigrazione dall’area interessata, in particolare nelle aree in cui la calamità lascia ampie distruzioni economiche e sociali. Interessanti sono i casi di studio dell’enorme tsunami del 2004 che consentono di ben valutare come migrazioni economiche abbiano interessato in grande quantità le aree vicine a quelle interessate dal cataclisma, ma il numero reale di migranti appare limitato e non si è mai avuto un esodo di massa. Questo può essere dovuto a una serie di ragioni, compresa quella del grado di diffusione ed efficacia dell’assistenza umanitaria. Ma sono anche da prendere in considerazione esempi di migrazioni di parenti ritornati a casa nello Sri Lanka per assistere e dare sostegno alle vittime dello tsunami, con tutti i potenziali problemi della re-integrazione dei migranti di ritorno. Sono arrivati anche sulle coste della Tailandia migranti lavoratori alla ricerca di lavoro nella ricostruzione, comportando problemi di diritti dei migranti, sfruttamento e protezione del lavoro. c La diaspora come risposta e supporto nel dopo disastri e livello in cui tutto questo può contrastare perdite umane e contribuire a un ri-sviluppo: una gran quantità delle persone emigrate dai paesi più coinvolti nello tsunami – la diaspora che da tali paesi si era avuta – si è mobilitata per dare un forte sostegno ai loro paesi di origine. 4 D’altra parte, i governi di tali 4 L’aiuto degli emigrati all’estero nei confronti di coloro che, rimasti in patria, risultano colpiti da gravi catastrofi naturali è un fatto normale e si è verificato anche per gli emigrati italiani in numerose tragiche circostanze, come terremoti e alluvioni, che hanno colpito il nostro paese. In alcuni casi “speciali”, come fu l’inondazione di Firenze del 1966, gli aiuti in denaro e in personali contributi di lavoro arrivarono da tutto il mondo. Il che si è verificato anche nell’ancor più speciale caso dello tsunami del 2004.
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paesi sono stati veloci nel riconoscere il grande potenziale di sostegno e di sviluppo che poteva venire dalle comunità della diaspora, e quindi nel facilitare le loro donazioni. I membri più qualificati delle comunità all’estero, specie quelli dello Sri Lanka, sono ritornati a casa per dare aiuto medico e altro tipo di aiuto, sostenuti in questo sforzo dai media locali. Sebbene l’intera scala del contributo della diaspora sia sconosciuta, è del tutto probabile che essa abbia fornito un contributo sostanziale, evidenziando il suo ruolo chiave nei riguardi dello sviluppo dopo il disastro dei Paesi di origine. d Impatto dei disastri naturali sui Paesi di destinazione dei migranti: in diversi casi, veri e propri flussi di migranti fuggono dal paese di origine per rifugiarsi in un paese contermine. Si tratta solitamente di paesi poveri che si trovano in gravi difficoltà ad accogliere migliaia, se non addirittura centinaia di migliaia o milioni, di rifugiati. La sola soluzione diventa allora l’allestimento di smisurati campi profughi la cui gestione si avvale necessariamente dei contributi della comunità internazionale.
Considerazioni conclusive Naturalmente tanto più forti e devastanti sono i disastri naturali, tanto più forte è il prezzo da pagare in vite umane, in infrastrutture e nelle attività economiche, magari anche per lunghi o lunghissimi periodi. Prezzo che si paga anche in termini di migrazioni forzate di breve, medio e lungo raggio, tanto interne quanto internazionali. Le conseguenze, poi, possono anche essere di natura psicologica, dal momento che paura e scoraggiamento si insinuano e crescono nelle persone e nelle famiglie, e quindi nelle collettività. I processi di degrado ambientale lenti e progressivi, – per esempio i processi di desertificazione – per certi versi sono più insidiosi, perché sono meno percepiti dall’opinione pubblica e dalla classe politica e quindi diventano meno fronteggiabili e meno fronteggiati. Nel caso invece di forti e devastanti disastri naturali si mobilitano forti e nobili sentimenti e si attuano interventi di persone, organizzazioni e istituzioni quasi sempre in grado di fronteggiare almeno l’emergenza. Comunque, il problema delle migrazioni legate a cause ambientali con ogni probabilità assumerà in futuro una ancora maggiore gravità tenendo conto che mutamenti climatici potrebbero portare a più frequenti e/o intensi disastri naturali e cataclismi, e certamente le società non sono sufficientemente attrezzate a fronteggiarli dal punto di vista tecnico e organizzativo. In particolare il problema riveste una peculiare gravità nei paesi poveri, 47
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dove il territorio è spesso più devastato, le popolazioni più vulnerabili (si pensi ad esempio alle sterminate bidonville di smisurate metropoli del Terzo mondo) e le risorse e l’organizzazione assai limitate. Nei paesi ricchi è tutta la tematica dell’assetto del territorio – del monitoraggio e della salvaguardia del territorio e quindi anche della protezione civile – che va continuamente seguita e potenziata. A livello mondiale, infine, è necessario che il tema dei mutamenti climatici e delle connesse conseguenze ambientali riesca a produrre tutte le analisi e le conseguenti opzioni politiche che si rendono necessarie. ■
Antonio Golini, accademico dei Lincei, è docente di Demografia presso l’Università di Roma “La Sapienza”. Ha creato e diretto (1980-1997) l’IRP (Istituto di ricerche sulla popolazione) del CNR. Dal 1994 è direttore di Genus, rivista internazionale di Demografia. Nel marzo 1996, gli è stato conferito dall’Accademia dei Lincei il premio internazionale INA per le Scienze assicurative. Rappresenta usualmente l’Italia presso le Nazioni Unite e altri organismi internazionali per le questioni demografiche. Oltre a numerose monografie, ha pubblicato oltre 200 articoli in riviste o Atti di congressi internazionali e nazionali. È editorialista de “Il Messaggero”. 48
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Come rane nello stagno: la partecipazione pubblica Giancarlo Sturloni
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on si avvisano le rane quando si sta per drenare lo stagno”. Così Rémy Carle, direttore dell’ente elettrico Électricité de France, poteva permettersi di liquidare il ruolo della popolazione commentando l’imponente programma di costruzione dei reattori nucleari francesi. Era la fine degli anni Sessanta. 1 Oggi lo scenario appare drasticamente cambiato: numerose esperienze recenti, in Italia e all’estero, hanno mostrato come in una società democratica ogni tentativo di imporre dall’alto opere tecnologiche considerate indispensabili ma potenzialmente rischiose per la salute e per l’ambiente – si tratti di costruire un inceneritore, individuare un deposito di rifiuti radioattivi o realizzare progetti di trasformazione territoriale impattanti – senza prima ottenere il consenso delle popolazioni interessate, sia destinato a fallire generando talvolta insanabili conflitti sociali. Per stigmatizzare l’opposizione di coloro che, difendendo interessi “locali”, ostacolano la realizzazione di progetti di interesse “generale”, si parla talvolta di sindrome Nimby (dall’acronimo dell’espressione inglese not in my backyard). Secondo una parte della comunità scientifica italiana, all’origine di questo atteggiamento critico, se non ostile, nei confronti della tecnologia, sempre più radicato e diffuso, vi sarebbe il dilagare di un movimento oscurantista e antiscientifico, mosso dall’irrazionalità, nutrito di fondamentalismo ambientalista e fondato sull’ignoranza (o, nel migliore dei casi, sulla scarsa comprensione dei fatti della scienza) che affliggerebbe in particolare il nostro paese. 2 In realtà, il fatto stesso che per indicare le sindromi Nimby si utilizzi un acronimo anglosassone mostra come questi fenomeni non siano certo esclusivi del nostro paese, e basterebbe sfogliare le pagine di cronaca dei principali giornali stranieri per convincersi che opposizioni popolari (anche vio1 2
N. Hawkes et al., Chernobyl: la fine del sogno nucleare, Mondadori, Milano 1986, p. 73. Galileo 2001, Il manifesto dell’associazione, www.galileo2001.it/identita/manifesto.php. 49
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lente) a innovazioni considerate impattanti si possono riscontrare ovunque sia presente la democrazia, dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Unione Europea all’India. Ricondurre le ragioni del conflitto al radicarsi di un movimento luddista e tecnofobo è tuttavia una credenza non supportata dai fatti: tutte le ricerche disponibili sull’atteggiamento dei cittadini europei evidenziano al contrario che scienza e tecnologia godono di vasta fiducia: l’87% pensa che abbiano migliorato la qualità della nostra vita, il 77% è sicuro che miglioreranno anche quella delle generazioni future. L’Italia non si discosta da queste medie. 3 L’atteggiamento critico riguarda semmai le modalità di gestione dei rischi, anche a causa dell’accumularsi di esperienze negative, dal Vajont a Seveso, da Chernobyl alla “mucca pazza”. A partire dagli anni Sessanta, inoltre, sia le modalità di accesso e produzione del sapere sia le aspettative della società nei confronti del progresso hanno subito graduali ma profondi cambiamenti. Da un lato, i rapporti tra ricerca scientifica e poteri politici, economici e militari si sono fatti sempre più stretti ed espliciti, incrinando l’idea ingenua della scienza come un’attività pura, neutrale e disinteressata. Esponendosi pubblicamente sulle questioni più varie, e finendo spesso per mostrarsi divisi in difesa di convenienze di parte, molti scienziati ed esperti hanno ormai assunto il ruolo di portatori di interesse (stakeholder). Allo stesso tempo, il dibattito pubblico si è concentrato su problemi dominati da vaste aree di incertezza scientifica che permeano cause, conseguenze, rimedi e, talvolta, persino la stessa definizione dei rischi della modernizzazione (si pensi per esempio al riscaldamento globale, o agli effetti a lungo termine degli inquinanti ambientali) in cui le conoscenze disponibili non sono in grado di dirimere le controversie e orientare le scelte sulla base di una soluzione tecnica condivisa. Dall’altro lato, l’alfabetizzazione della società e il diffondersi dei mezzi di comunicazione di massa ha ridotto l’egemonia della casta degli esperti nel dibattito pubblico: se negli anni Cinquanta coloro che sapevano leggere, scrivere e far di conto – e che quindi avevano un accesso privilegiato alle informazioni, comprese quelle di natura tecnica – rappresentavano una porzione minoritaria della popolazione, oggi, anche grazie a Internet, le possibilità di scambio e diffusione dei saperi sono enormemente aumentate, al punto che chiunque, se sufficientemente motivato, può appropriarsi delle informazioni 3
Commissione Europea, “Social values, Science and Technology”, Special Eurobarometer 225, 63.1, Commissione Europea, Bruxelles 2005, p. 54.
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necessarie a prendere parte alla maggior parte delle discussioni di tipo tecnico, come sempre più spesso avviene per esempio in ambito medico. 4 Infine, anche il sistema di comunicazione pubblica della scienza è molto cambiato, a partire dal ruolo dei mass media nelle controversie sui rischi. Se infatti fino agli anni Settanta giornali e tv avevano per lo più il compito di allertare la popolazione in caso di pericolo (funzione top-down, dalle istituzioni al pubblico), a questa esigenza se ne è in seguito affiancata un’altra, di carattere più marcatamente politico: costituire un’arena di discussione sulla gestione dei rischi, capace di portare all’attenzione dei decisori politici le questioni ritenute rilevanti dal pubblico o da specifici gruppi di interesse (funzione bottomup). 5 Grazie all’allargamento dell’arena del dibattito, associazioni di consumatori, comitati di cittadini, movimenti ambientalisti, partiti politici, istituzioni governative, ONG, manager dell’industria, operatori della comunicazione e molti altri attori sociali e gruppi di interesse, al pari di scienziati, tecnici ed esperti, sono oggi voci rilevanti nelle controversie sui rischi tecnologici. Questo processo di inclusione riflette a sua volta un più generale e profondo mutamento nei rapporti fra scienza e società che il fisico e sociologo della scienza John Ziman fa risalire alla fine della seconda guerra mondiale quando i rapporti tra scienza, economia e politica si fecero strettissimi e le decisioni rilevanti per lo sviluppo della ricerca, da dominio esclusivo della comunità scientifica, iniziarono a richiedere il consenso sociale. 6 Alla luce di questi mutamenti, appare evidente come oggi non sia pensabile risolvere le controversie facendo appello a un presunto interesse “generale”, dato che la stessa esistenza di un interesse generale è messa in crisi da una visione che contempla la necessità di un negoziato tra i diversi legittimi interessi. 7 L’accezione di governance entrata nel linguaggio comune delle politiche dell’Unione Europea fa esplicito richiamo proprio a quei processi con cui individui e istituzioni, pubbliche e private, possono soddisfare gli interessi comuni e conciliare quelli contrastanti, ammettendo implicitamente che per appianare le divergenze non si possono invocare interessi “superiori”. 4 Si veda per esempio il ruolo attivo svolto dalla comunità omosessuale statunitense nelle procedure di accesso alle cure dell’AIDS in H. Collins, T. Pinch, Il golem tecnologico, Edizioni di Comunità, Torino 2000. 5 M.W. Bauer, G. Gaskell, Researching the public sphere of biotechnology, in M.W. Bauer, G. Gaskell, Biotechnology. The making of a global controversy, Cambridge University Press, Cambridge 2002, p. 7. 6 J. Ziman, La vera scienza, Dedalo, Bari 2002. 7 L. Bobbio, C. Lazzeroni, Torino 2006. Una mappa dei conflitti territoriali, “Bollettino della Società Geografica Italiana”, serie XII, VII (4), 2002.
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In realtà siamo di fronte a vicende complesse e molto sentite in cui una comunità percepisce di essere esposta a un rischio grave imposto per il vantaggio altrui. L’iniquità nella distribuzione di rischi e benefici chiama inevitabilmente in causa i principi (negati) della libertà e della giustizia, rafforzando il senso di comunità e la disponibilità dei singoli a mobilitarsi. In questa dinamica, i processi comunicativi giocano un ruolo cruciale. Le recenti vicende italiane di Scanzano Jonico e della Val di Susa hanno mostrato in modo emblematico che, in assenza di spazi di dialogo e confronto con le popolazioni interessate, qualsiasi tentativo di negare o sminuire i possibili rischi per la salute e per l’ambiente viene percepito come una strategia di inganno, generando un clima di sospetto e sfiducia (spesso irrimediabile) nei confronti delle istituzioni governative. Colmando questo vuoto informativo lasciato dalle fonti “ufficiali”, comitati locali o altri gruppi di interesse possono facilmente legittimarsi come gli unici interlocutori credibili. A questo punto non c’è campagna di comunicazione istituzionale che, a posteriori, sia in grado di recuperare il consenso perduto: qualsiasi messaggio di rassicurazione sarà respinto perché ritenuto non credibile. Messa di fronte al fatto compiuto, la popolazione rifiuterà anche di accettare il rischio in cambio di compensazioni economiche. Lo scontro frontale diventa inevitabile e para-
Media verdi: come e perché parliamo di ambiente? Vincenzo Napolano Un’altalena di emergenze e oblii. È questa probabilmente l’impressione che ci darebbe oggi una ricostruzione a ritroso di come e quanto i giornali e le televisioni hanno trattato in Italia negli ultimi trent’anni le questioni ambientali. Rispecchiando forse la stessa discontinuità dell’attenzione collettiva ai problemi di contesti ambientali locali o dell’intero ecosistema terrestre. Considerando come spartiacque dell’avvio nel nostro paese di un movi1
mento e di una “coscienza” ambientalista il disastro di Seveso del 1976, 1 riscontriamo da quel momento, seppure a fasi alterne, la crescente presenza sui media italiani dei temi “ambientali”. Dopo dieci anni è Chernobyl a rendere reale l’immaginario di una catastrofe ambientale di dimensioni quasi planetarie e a riportare l’attenzione dei media e dell’opinione pubblica mondiali sui rischi in qualche modo insiti alla stessa crescita delle società contem-
Come proposto da G. Sturloni Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico, Sironi, Milano 2006.
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lizzante. 8 Allo stato attuale, e alla luce delle esperienze pregresse, l’unico strumento in grado di evitare che le controversie sui rischi ambientali sfocino in conflitti sociali insanabili è la promozione di un negoziato aperto a tutte le parti in causa basato sul dialogo e sulla partecipazione ai processi decisionali. Senza pretendere di fornire ricette universali, questo processo implica l’attuazione di una serie di buone pratiche (in genere disattese) che tradotte in azioni possono essere così schematizzate: 1) rendere pubbliche e facilmente accessibili tutte le informazioni disponibili su rischi e benefici attraverso un’attività di comunicazione a priori continua, capillare, trasparente e dialogica; 2) istituire spazi adeguati di confronto fra i gruppi di interesse coinvolti, al fine di portare all’attenzione dei decisori politici le diverse istanze ed esigenze e valorizzare le esperienze e le competenze presenti sul territorio; 3) individuare modalità di partecipazione delle parti in causa ai processi decisionali fin dalla fase progettuale, adattando le soluzioni tecniche alle indicazioni provenienti dalle analisi ambientali e dal confronto con le popolazioni interessate; 4) concordare con la popolazione eventuali misure di compensazione, privilegiando quelle di natura ambientale a quelle economiche. 8
D. Ungaro, Democrazia ecologica, Laterza, Roma-Bari 2004, pp. 96-97.
poranee. Il dibattito ambientalista che si avvia sui giornali, nelle radio e nelle televisioni, è sorretto infatti da questioni cruciali: il ruolo della scienza e della tecnologia che producono rischi – “necessari” secondo alcuni – ma al contempo possibili rimedi; il ripensamento del modello di sviluppo economico, fin qui perseguito dai paesi più avanzati, e la proposta di alternative realistiche; la coscienza, sempre più chiara, della specie umana come attore ecologico globale, che condiziona e trasforma, come nessuna specie ha mai fatto, gli equilibri ecologici del pianeta. Non è
un caso che all’inizio degli anni Novanta sia l’allarme sui cambiamenti climatici (che si ripropone oggi ancor più prepotentemente) a riportare l’attenzione mediatica sui temi ambientali. L’indagine sulla comunicazione scientifica attraverso i media, condotta nel 2002 dal gruppo di ricerca della SISSA di Trieste, indica che lo spazio complessivo occupato da notizie scientifiche è intorno al 2% nei quotidiani italiani e fino al 4% nei telegiornali (in un periodo di osservazione di 6 mesi, da novembre 2001 a maggio 2002). 2 Di queste notizie circa il 20%
2 S. Fantoni, P. Greco, B. Montolli, N. Pitrelli, Osservatorio permanente sulla comunicazione scientifica attraverso i media. Analisi a cura del gruppo di ricerca del Master in Comunicazione della scienza, SISSA, Jcom, “Journal of Science Comunication”, issue 3, september 2002 (http://jcom.sissa.it/archive/01/03). Parte integrante di Osservatorio permanente sulla comunicazione scientifica attraverso i media, volume I, Ilesis, Ricerca e Formazione per i Sistemi Sanitari, Italpromo Healthgroup, Roma 2002.
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L’obiettivo non è l’assenza di conflitto, bensì l’individuazione delle modalità più efficaci per comporre il conflitto negoziando tra le parti una soluzione socialmente sostenibile. In altre parole, non si tratta di inseguire un’utopistica visione unitaria capace di appianare tutte le divergenze, quanto piuttosto di consentire l’espressione delle diverse prospettive e dei legittimi interessi al fine di arrivare a una scelta il più possibile condivisa nell’ambito del sistema normativo di uno stato democratico. Le esperienze partecipative sperimentate ormai in molti paesi, soprattutto nel nord Europa, per esempio attraverso giurie di cittadini, consensus conferences o comitati pubblici di consulenza, hanno dimostrato che la presenza di spazi di partecipazione e negoziazione limitano il rischio che le controversie si polarizzino in modo eccessivo, rendendo meno probabile il ricorso a soluzioni riduttive – e nella maggior parte dei casi insoddisfacenti – come una scelta referendaria di tipo sì/no o, peggio, l’imposizione autoritaria. L’esigenza di ampliare il coinvolgimento nei processi decisionali non risponde solo a una richiesta di democrazia: nella cosiddetta “società del rischio” è resa necessaria dal fatto che le controversie, soprattutto in campo ambientale, spesso nascono dall’urgenza di prendere decisioni in condizioni di incertezza, in cui, come anticipato, le conoscenze tecnico-scientifiche dissulla carta stampata e il 30% per l’informazione televisiva riguarda contenuti e problematiche ambientali, al secondo posto dopo la medicina e la salute, che da sole costituiscono la metà di tutta l’informazione scientifica offerta dai media italiani. Naturalmente non tutta la comunicazione relativa all’ambiente si aggancia a problematiche generali: ampio spazio è dedicato al benessere e alla salute individuali o alle curiosità naturalistiche. Questi dati tuttavia confortano l’idea che accanto alle oscillazioni contingenti di esposizione mediatica, da giornali e televisioni venga riservata alle questioni ambientali uno spazio permanente e via via crescente. Negli ultimi anni d’altronde è la preoccupazione dell’opinione pubblica 3
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rispetto a questi temi a crescere e a permanere al livello di guardia. Gli italiani in particolare si mostrano oggi più sensibili e attenti ai rischi ambientali di lungo periodo, che richiedono trasformazioni profonde delle strategie di sviluppo, piuttosto che a quelli di specifici eventi catastrofici. Secondo l’Osservatorio Scienza e Società 2005, i due principali e più diffusi timori di natura ambientale della popolazione italiana sono l’esaurimento delle risorse idriche e gli effetti dei cambiamenti climatici (rispettivamente 31,6% e 19,5% degli intervistati), timori che superano quelli di nuove epidemie, di incidenti nucleari o catastrofi naturali. 3 Un dato che dà da pensare, soprattutto
Osservatorio Scienza e Società 2005, Observa – Science in Society (www.observa.it).
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ponibili non sono sufficienti per individuare una soluzione univoca, la quale, pertanto, non può essere demandata al giudizio di un’élite tecnocratica ma deve essere discussa nell’ambito della politica democratica. 9 In questo contesto, una risorsa preziosa per orientare le scelte è offerta dalla valorizzazione dei saperi locali fondati sull’esperienza e sulla conoscenza diretta del territorio, a cui sempre più spesso si accompagna (e non si contrappone) una vera e propria produzione “dal basso” di nuove conoscenze scientifiche, affidata a esperti riconosciuti ma considerati “indipendenti”, capace di legittimare e porre sul piano della razionalità scientifica le ragioni del cosiddetto “fronte del no”. 10 Allo stesso tempo, non va dimenticato che queste controversie non sono mai di natura esclusivamente tecnico-scientifica ma celano un confronto fra visioni contrapposte di progresso, sviluppo socio-economico e rapporto fra ambiente e attività umane, in cui valori e ragioni di natura economica, culturale, etica e politica giocano un ruolo fondamentale. 11 Le controversie am9
P. Greco, La lezione di Scanzano, JCOM, 2 (4), dicembre 2003. Si veda per esempio www.notavtorino.org; www.spintadalbass.org; www.scanziamolescorie.org. 11 G. Sturloni, Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologico, Sironi, Milano 2006, pp. 162-165. 10
a chi ancora è convinto di dover fronteggiare un’opinione pubblica in balia su queste questioni di paure variabili e irrazionali. In realtà il rilievo e il significato crescente assunti negli ultimi anni dai movimenti “ambientalisti” su temi specifici (come gli ogm, i cambiamenti climatici, l’acqua) o ancor più da quelli di popolazioni locali in difesa del proprio territorio (come avvenuto di recente a Scanzano Jonico e nella Val di Susa) svelano un panorama complesso e non univocamente interpretabile e un’esigenza profonda di partecipazione e condivisione delle decisioni. 4 I dati di
una recente indagine dell’Eurobarometro ad esempio ci dicono che la popolazione europea – e l’Italia non fa eccezione – ha un atteggiamento piuttosto ottimista rispetto alle innovazioni tecnologiche e scientifiche, ma non indifferenziato e acritico. 5 Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le ricerche per lo sfruttamento di energia rinnovabile, in particolare solare ed eolica, incontrano un consenso quasi unanime (poco meno dell’80% degli intervistati), mentre più del 50% ha fiducia che le biotecnologie (e il 40% che le nanotecnologie) migliore-
4
Si rimanda alle considerazioni di G. Sturloni, Come rane nello stagno: comunicazione e partecipazione alle politiche ambientali, in questo volume. 5 Europeans and Biotechnology in 2005: Patterns and Trends, Final report on Eurobarometer 64.3 to the European Commission’s Directorate-General for Research (http://ec.europa.eu/public_opinion/standard_en.htm).
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bientali, in altre parole, nascondono un conflitto tra visioni del mondo contrapposte e giudizi morali impliciti sul modo in cui le società industrializzate decidono di svilupparsi. 12 La scienza fa parte integrante della nostra vita e della nostra cultura, e non dovrebbe sorprendere che un numero crescente di persone desideri partecipare al dibattito sui rischi e benefici delle sue applicazioni tecnologiche, a partire dal loro impatto ambientale, nella sempre più diffusa consapevolezza che dalle scelte che faremo in questo campo, dalle fonti energetiche agli alimenti transgenici, dagli accordi di Kyoto alle grandi opere ingegneristiche, su scala locale o globale, dipenderà la società del prossimo futuro. ■
12
U. Beck, La società del rischio, Carocci, Roma 2001.
ranno la qualità della vita. È l’energia nucleare l’unica risorsa tecnologica a vedere (con una lieve diminuzione dal 1999 al 2005) la prevalenza dei pessimisti sugli ottimisti. Tra l’altro l’interesse e la partecipazione ai dibattiti sulla scienza e la tecnologia si mostra uniforme nei campioni di età differenti, a differenza ad esempio di quello per la politica che diminuisce nella popolazione tra 25 e 45 anni e ancor più tra i giovanissimi (tra i 15 e i 25). Proprio su questo terreno i media tradizionali giocano oggi il loro ruolo di interpreti delle sensibilità sociali e di mediatori con i decisori politici, la loro capacità cioè di agenda setting. Sempre più decisiva è la funzione svolta da Internet, con le sue molteplici e differenziate declinazioni, nel garantire scam-
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bio e diffusione dei saperi e nel rispondere alla profonda richiesta di democrazia. Segnali che testimoniano la mutata sensibilità sociale non mancano d’altra parte in altri ambiti della comunicazione come il mondo pubblicitario, che sempre più include la valenza ecologica dei prodotti nelle strategie di promozione, fino a farne la principale caratterizzazione di alcuni marchi (o “brand”). Parallelamente, in particolare al cinema, le rappresentazioni spettacolari di radicali mutamenti o catastrofi ambientali sono un elemento ricorrente di differenti generi, quando non costituiscono il cuore di una vera e propria fiction scientifica. Ovvero film e romanzi, che con una storia e dei personaggi di finzione, raccontano ipotesi,
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Giancarlo Sturloni è responsabile di progetto del Master in “Comunicazione della Scienza” alla SISSA di Trieste. Membro del gruppo di ricerca ICS della stessa SISSA, studia i rapporti fra scienza e società, con particolare riferimento al ruolo della comunicazione nelle controversie sui rischi tecnologici per la salute e l’ambiente. Ha collaborato, come giornalista freelance, con diverse testate nazionali, tra cui “L’espresso”, “La Stampa”, “Le Scienze”, “Galileo”. È autore del libro Le mele di Chernobyl sono buone. Mezzo secolo di rischio tecnologi-
co (Sironi, 2006). Insieme a Paola Coppola, ha scritto il saggio Armageddon Supermarket. Le armi di distruzione di massa nella società della paura (Sironi, 2003). Con Daniela Minerva, ha curato il volume Di cosa parliamo quando parliamo di medicina (Codice, 2007).
dibattiti, descrizioni concettuali o possibili evoluzioni di problematiche scientifiche reali e urgenti, nonché le dinamiche politiche, economiche e sociali legate ad esse. 6 Se negli anni Novanta Jurassic Park e Microsmos hanno rappresentato due magistrali esempi di come i contenuti scientifici (della paleontologia o dell’entomologia) potessero essere resi spettacolari, ben più articolato e complesso è il discorso e il livello di approfondimento del recente film-documentario An Inconvenient Truth, presentato dall’ex-vice premier statunitense Al Gore o del best-seller di Michael Crichton State of Fear. In en-
trambi i casi si affronta, pur con modalità e tesi differenti, il tema dei cambiamenti climatici dovuti al riscaldamento globale. Non c’è dubbio che questo argomento, insieme all’esaurimento delle risorse idriche, catalizzi l’attenzione del pubblico dei paesi occidentali più di ogni altro rischio di natura ambientale. Vi è una consapevolezza diffusa di come queste problematiche siano profondamente intrecciate alle trasformazioni dell’ecosistema terrestre prodotte dalle attività umane e di come delle nuove politiche non siano ulteriormente rimandabili, per quanto di lungo periodo. Lo mostra con grande evidenza
6
A tal proposito è significativo l’invito del Vice Presidente del Consiglio Europeo per la Ricerca Helga Nowotny, nel suo intervento a FEST- International Science Media Fair (Trieste, 17-20 maggio 2007), a riflettere sui possibili rischi di mistificazione legati alla science fiction.
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l’indagine dell’Eurobarometro sulle politiche energetiche nell’Unione Europea dello scorso febbraio, 7 secondo cui la metà dei cittadini europei sono molto preoccupati – e un altro 37% non indifferenti – degli effetti dei cambiamenti climatici. Solo il 13% invece si dice convinto che il consumo e la produzione di energia nel loro paese non abbia effetti sul clima. Più di sette cittadini europei su dieci pensano infatti che nel prossimo decennio si dovranno cambiare le abitudini quotidiane di consumo energetico e saranno introdotte nuove tecnologie per accrescere il risparmio e l’efficienza. L’aspettativa di un intervento dei propri governi su questi problemi non è condivisa solo dal 2% della popolazione ed è diretta soprattutto verso lo sfruttamento di fonti di energia rinnovabili. Permane la diffusa contrarietà all’uso dell’energia nucleare, ancora maggiore tra coloro che si dichiarano molto preoccupati dei cambiamenti climatici. Il 62% degli europei infine crede che le politiche energetiche debbano essere decise a livello europeo, piuttosto che nei singoli paesi, e questa idea incontra la maggioranza dei consensi in 22 degli stati membri. Tutti questi elementi fanno evidentemente del dibattito sull’ambiente (di cui un altro esempio è l’erosione della biodiversità, che ancora non ha conquistato una sufficiente attenzione mediatica) una costante imprescindibile della comunicazione pubblica e un nodo cruciale di negoziazione democratica e sociale. Resta l’incertezza su quale sarà l’arena in grado di ospitarlo e renderlo visibile, dando voce ai differenti punti di vista e interessi, a saperi esperti e profani, a valutazioni scientifiche, politiche ed etiche. È una sfida aperta per tutti i media, vecchi e nuovi.
7
Flash EB Series #206, Attitudes on issues related to EU Energy Policy, conducted by The Gallup Organization, Hungary, upon the request of the Directorate-General for Energy and Transport: http://ec.europa.eu/public_opinion/archives/flash_arch_en.htm.
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Disincanto e saggezza del naturalismo Orlando Franceschelli
Modernità e rinascita della natura Per formare e conservare in vita la compagine cosmica e la “varietà delle cose viventi” che essa ospita, non può essere sufficiente appellarsi a quella che i moderni epicurei, scettici e “raziocinatori chiamano ‘la natura saggissima ed eterna’”. Sono stati necessari “il disegno e la potenza di un ente intelligente”: del Dio creatore e signore di cui parla la tradizione platonico-cristiana. Suona così uno degli ammonimenti anti-naturalistici certo più celebri, quello di Isaac Newton, lo scopritore di quelle leggi della meccanica che hanno sostanzialmente portato a compimento la moderna rivoluzione cosmologica avviata da Copernico. Anzi, concludeva Newton, pretendere che il mondo “sia potuto nascere dal caos per effetto di semplici leggi naturali”, non può essere considerato neppure degno di un’indagine filosofica. 1 Dunque disegno e potenza di un’Intelligenza creatrice, da un lato. Semplici leggi della natura, dall’altro. Un’alternativa radicale e impegnativa, cui la coscienza moderna semplicemente non ha potuto e non può sottrarsi. Ebbene, al cospetto di tale questione la coscienza moderna ha seguito la direzione esattamente opposta al fiero antinaturalismo rivendicato da Newton: l’idea che mondo e uomo siano l’effetto di processi “soltanto” naturali, e non la creazione di un designer onnipotente, si è rivelata infatti come uno degli eventi decisivi di tutta la modernità. Com’è noto, anche il passaggio dall’universo-creato all’universo-natura, parallelo a quello dall’uomo animale razionale di provenienza divina (imago Dei) all’uomo risultato di processi evolutivi solo naturali (Homo sapiens), è stato un processo straordinariamente complesso, come tutta la critica illumi-
1 I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, UTET, Torino 1965, pp. 792 sgg.; Id., Scritti di ottica, a cura di A. Pala, UTET, Torino 1978, p. 602; nonché A. Koyrè, Dal cosmo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, Milano 1981, p. 181.
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nistica della tradizione metafisico-religiosa. Tuttavia, per delineare l’inaggirabile plausibilità del naturalismo moderno, qui può essere sufficiente richiamare tre snodi indubbiamente decisivi: la critica delle cause finali, il ruolo di Charles Darwin e l’odierna visione di un universo in evoluzione e in grado di generare e ospitare la vita. Avviata già da Bacone e Cartesio, e poi approfondita da Spinoza e Hume, la critica del finalismo ha mostrato l’implausibilità logica dell’argomento del disegno e della teologia naturale, ossia della pretesa che la stessa realtà fisica imponga necessariamente di risalire dai fenomeni – ex phoenomenis, come appunto pretendeva Newton – alla Causa sovrannaturale del cui progetto sarebbero frutto. Con Darwin l’argomento del disegno e la teologia naturale vengono inoltre confutate anche nella versione biologica, assicurata fin lì dalla celebre Natural Theology del reverendo Paley. Ammirato anche dal giovane Darwin, Paley era convinto che la complessità, la magnificenza e l’adattabilità del mondo vivente potessero essere spiegate solo grazie al disegno di una Mente benevola, provvidente e ovviamente ben “distinta da ciò che talvolta viene chiamato natura”. 2 La teoria dell’evoluzione mediante meccanismi del tutto naturali – mutazioni casuali e selezione non casuale ma cumulativa di quelle più favorevoli all’adattamento ambientale – rese del tutto insostenibile anche questa versione biologica dell’argomento del disegno. Come lo stesso Darwin scrisse in una celebre pagina dell’Autobiografia, di “questo vecchio argomento che nel passato mi era sembrato decisivo. […] Un piano che regoli la variabilità degli esseri viventi e l’azione della selezione naturale, non è più evidente di un disegno che predisponga la direzione del vento. Tutto ciò che esiste in natura è il risultato di leggi determinate”. 3 L’esatto opposto, in definitiva, dell’antinaturalismo newtoniano. A simili critiche del fondamento biologico, oltre che logico-metafisico, del finalismo creazionistico, si è aggiunta infine la riunificazione tra fisica, cosmologia e biologia operata dal passaggio dall’universo-orologio di Newton, statico e incapace di ospitare la vita, all’odierno universo in evoluzione e fucina cosmica in cui la vita “può avere – e ha – luogo”. 4 Senza che per spiegarla si renda necessario alcun ricorso, da un lato, a un Principio o a uno “spirito vitale” extranaturali (vitalismo), dall’altro, alla teleologia trascendentale o teleo-meccanismo cui pensava ancora lo stesso Kant, non a caso nel tentativo di confutare proprio la prospettiva di Spinoza e Hu2
W. Paley, Natural Theology, R. Fauler, London 1802, pp. 264-265. C. Darwin, Autobiografia 1809-1882, Einaudi, Torino 1962, pp. 69-70. 4 L. Smolin, La vita del cosmo, Einaudi, Torino 1998, p. 28. 3
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me di un’“autocrazia della materia” e, quindi, di un’origine del tutto naturale degli stessi esseri viventi. 5 Come già si è accennato, si tratta di questioni complesse e su cui ovviamente ancora si ricerca e si dibatte. 6 Ciò che tuttavia appare difficilmente contestabile è che le conoscenze che ci offre la scienza e le confutazioni logico-filosofiche della metafisica, del finalismo e della teologia naturale, rendano complessivamente coerente e plausibile la rinascita del naturalismo moderno o, più precisamente, la rinascita di una visione del tutto disincantata dell’evoluzione cosmica e biologica. Essa è ormai concepita come una realtà non più creata (teismo) o intrinsecamente sacra (panteismo), bensì ontologicamente autarchica, cioè emancipata da ogni necessaria dipendenza da cause, significati, valori e fini sovrannaturali, e in grado di rendere effettivamente conto da sola di tutto ciò che nella vicenda biocosmica si genera. Inclusi Homo sapiens e le sue stesse capacità intellettuali, morali e culturali: la sua evoluzione storico-culturale. A ben vedere, la plausibilità di una simile rinascita moderna di un universo-natura alternativo all’universo-creato, può essere misconosciuta soltanto a due condizioni: o facendo propria una visione filosoficamente “ingenua” del confronto-scontro tra modernità e sue radici platonico-cristiane; oppure perseguendo una strategia di rivincita neofondamentalista sulla scienza e sul disincanto moderni. Nel primo caso, la coscienza moderna viene praticamente condannata tutt’al più a poter “tradurre” in linguaggio storico-mondano le Verità, i Valori e l’antropologia di ascendenza teologica, rimanendo così come in un limbo di dipendenza o addirittura di minorità rispetto alla tradizione metafisico-teologica e alle chiese che se ne fanno paladine. La seconda strategia, invece, coincide perfettamente con quella adottata dagli odierni sostenitori del Disegno Intelligente, decisi a mettere letteralmente “sotto attacco” la spiegazione neodarwiniana dell’evoluzione, contrapponendole, in pratica, una riedizione aggiornata della teologia naturale di Paley. Una strategia appunto di rivincita, la cui infondatezza e pretestuosità suscita non a caso da un lato persino le critiche di non pochi teologi, oltre che della comunità scientifica mondiale, inclusi eminenti biologi cattolici, e dall’altro tradisce bene l’intento principale che in realtà la sorregge, ossia provare a “spaccare l’in-
5
I. Kant, Critica del giudizio, Laterza, Bari 1970, pp. 288-289, 298-300. Anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, cfr. O. Franceschelli, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza, Donzelli, Roma 2007. 6
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tero tronco” del naturalismo moderno. 7 In altre parole, disgregare la possibilità stessa, la plausibilità, di un naturalismo che, dal canto suo, si definisce confrontandosi con i risultati della ricerca scientifica senza peraltro aspirare né alla fallace pretesa di dimostrare scientificamente l’inesistenza di Dio né a quella di considerare la scienza sperimentale come l’unica forma possibile di conoscenza (scientismo). Un naturalismo che, però, neppure si lascia ridurre a una portata meramente metodologica o a semplice traduzione secolare di verità di fede o metafisiche. Al contrario, esso si configura come un’emancipazione critica da ogni forma di sovrannaturalismo e pertanto è capace di definire non solo la propria concezione compiutamente postcreazionistica del cosmo e dell’uomo, ma anche le proprie scelte etico-politiche alla luce di quanto risulta scientificamente più corroborato e filosoficamente più ragionevole.
Eco-appartenenza e saggezza La rivoluzione antropologica attuata da Darwin ha consentito di reintregrare le stesse capacità mentali e morali dell’uomo nella storia evolutiva della no7
P. Johnson, The Wedge of Thruth: Splitting the Fuondations of Naturalism, InterVarsity Press, Downers Grove 2000, p. 14.
Il mito di Gaia: un pianeta troppo umano Cristian Fuschetto
In uno dei suoi ultimi lavori Nietzsche, con l’impareggiabile disincanto di chi ha fatto del sospetto la stella polare del suo filosofare, osservava che “nel mondo vi sono più idoli che realtà”. 1 Possiamo agevolmente accostare il pensiero del filosofo tedesco, almeno per quel che riguarda la subdola potenza degli idoli, a quello di Francis Bacon, che infatti, proprio come avrebbe fatto più in là Nietzsche, adoperava questo termine come sinonimo di superstitions, di errors, o, in un senso più 1
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complessivo, di spectra. Bene, l’affascinante immagine della “Terra come organismo vivente” è stata particolarmente prolifica di idee per moltissimi versi ascrivibili proprio al fantastico filone degli idola. Un episodio riportato da Richard Dawkins può forse fornirci un’idea su fin dove si sia potuti arrivare. Dawkins, rievocando un incontro tenutosi in Inghilterra tra il biologo John Maynard Smith e un “influente ecologista” nel corso del quale fu toccato l’argomento dell’estinzione
F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 1987, p. 23.
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stra specie. Certo, questa opera di naturalizzazione della mente a partire dalle disposizioni proto-morali (istinti sociali, simpatia, altruismo) che condividiamo con le specie a noi più vicine, risulta ancora in pieno svolgimento. Ma appare difficile non riconoscere che proprio le neuroscienze impegnate a completare “l’opera preziosa” avviata da Darwin, 8 ci stiano aiutando a capire sempre meglio anche la genealogia e il funzionamento delle capacità etico-cognitive di cui Homo sapiens è stato provvisto dall’evoluzione. Ci consentono, insomma, – per stringere il discorso sul punto che qui preme – di definire un’antropologia e un’etica dell’eco-appartenenza ben vigili nei confronti delle due insidie che più di ogni altra minano una prospettiva effettivamente e criticamente naturalistica, il dualismo uomo-natura da un lato, e il determinismo tirannico e fallacia naturalistica dall’altro. La naturalizzazione della mente, infatti, ci emancipa non solo da ogni “salto ontologico” di tipo apertamente creazionistico, rivendicato per motivi sostanzialmente religiosi. Essa ci aiuta a capire anche la notevole problematicità di ogni tipo di dualismo “cartesiano”, di ogni pretesa di “abissale sepa8 G.M. Edelman, Più grande del cielo. Lo straordinario fenomeno della coscienza, Einaudi, Torino 2004, p. 4; O. Franceschelli, La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza, cit., pp. 120-129.
dei dinosauri, ha ricordato che non appena Maynard Smith osservò che l’estinzione era stata probabilmente causata dalla collisione di un meteorite con la Terra, il suo interlocutore replicò con decisione: “Impossibile. Gaia non lo avrebbe permesso!”. 2 È bene chiarire che interpretazioni così estreme dell’“ipotesi Gaia”, formulata da James Lovelock ormai più di trent’anni fa, 3 non hanno mancato di imbarazzare lo stesso scienziato inglese, di-
chiaratosi ripetutamente ostile ad antropomorfizzazioni del pianeta. Eppure, paradossalmente, sono spesso le sue stesse precisazioni e rendere ancora più ambigua la metafora della Terra come “superorganismo”. Cosa vuol dire, ad esempio, che si tratta di scegliere se “esser devoti all’umanesimo o a Gaia”? 4 Prima di esaminare gli aspetti più scivolosi di quella che è stata giustamente definita come la “metafora scientifica più largamente discussa dell’era dell’ecolo-
2 Cfr. R. Dawkins, L’arcobaleno della vita: la scienza di fronte alla bellezza dell’universo, Mondadori, Milano 2002, pp. 202-203. 3 Cfr. J. Lovelock, Gaia as seen through the atmosphere, in “Atmospheric Environment”, 6, 1972, pp. 579-580; J. Lovelock, L. Margulis, Atmospheric homeostasis by and for the biosphere: the Gaia hypothesis, in “Tellus”, 26, 1975, pp. 2-10. 4 Id., Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 29.
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razione tra corpo e mente”, tra la “stoffa” materiale di quest’ultima ed emozioni, ragionamenti e giudizi morali. 9 La naturalizzazione della mente, in pratica, chiama in causa sin dalla radice quel dualismo che sorregge tutto il soggettivismo moderno, il quale assegna alla soggettività pura una preminenza idealistico-trascendentale, esibita come eccezionalità e, in definitiva, superiorità dell’uomo – o meglio, della sua coscienza (ontologia della coscienza) – rispetto al resto del mondo vivente. A questa preminenza l’antropologia dell’eco-appartenenza fa subentrare, per esprimerci con una formula, quella di un a priori biologico. Essa si rivela, così, in grado di concepire le nostre capacità intellettuali e morali non più come una facoltà-essenza, erede secolare di un’anima platonico-cristiana creata da Dio o comunque ontologicamente separata dal corpo, ma come capacità effettivamente incarnate, emerse dal basso lungo processi evolutivi e di selezione segnati dall’interrelazione con l’ambiente e con gli altri animali. È proprio un simile a priori biologico, donatoci dalla stessa storia evolutiva, a obbligarci a interagire anche culturalmente con l’ambiente da cui siamo emersi. Vale a dire: grazie a capacità etico-cognitive del tutto bio-evolu9
A. Damasio, L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano 2005, pp. 336-339.
gia”, 5 vediamo innanzitutto come essa sia nata, maturando da semplice “ipotesi” a “teoria” scientifica vera e propria. L’idea di Gaia è nata in un pomeriggio del settembre del 1965 quando Lovelock, collaborando a un programma di ricerca per la vita su Marte per conto del Jet Propulsory Laboratory di Pasadena, si trovò dinanzi all’analisi dettagliata della composizione chimica dell’atmosfera di Marte e di Venere. Esse, in netto contrasto con l’atmosfera terrestre, mostravano un dominio di un solo gas (l’anidride carbonica) e solo poche tracce di altri (soprattutto azoto e ossigeno). Quindi, mentre le atmosfere di quei pianeti spogli di vita erano vicinissi5
me a uno stato di equilibrio chimico – cioè alla morte – quella della Terra era caratterizzata da un “anomalo disequilibrio” tra gas riducenti (metano e idrogeno) e gas ossidanti (ossigeno e anidride carbonica), in modo da mantenere costante una miscela altamente reattiva. 6 Ecco allora l’interrogativo cui diventava necessario dare una risposta: cosa manteneva costante questo tipo di composizione in modo da non farla degradare in un desolato stato di equilibrio? “Tutt’a un tratto – rammenta Lovelock nella sua autobiografia – proprio come in un’illuminazione, mi venne in mente che […] il fattore regolatore doveva essere proprio la vita in superficie”. 7 Fu
D. Worster, Storia delle idee ecologiche, Il Mulino, Bologna 1994, p. 463. Cfr. J. Lovelock, Le nuove età di Gaia, cit., p. 43. 7 Id., Omaggio a Gaia: la vita di uno scienziato indipendente, Bollati Boringhieri, Torino 2002, pp. 288-290. 6
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tive, siamo non in parte, ma in toto animali sociali e coscienti in grado di ragionare e deliberare. Certo, nel farlo, subiamo i condizionamenti che queste capacità, del tutto postcreazionistiche e postidealistico-trascendentali, esercitano sulle nostre cognizioni e volizioni. Anche se, è bene sottolinearlo, questi condizionamenti non coincidono affatto con alcuna determinazione assoluta o tirannia dei geni, come non a caso riconoscono anche autorevoli rappresentanti di versioni genocentriche del naturalismo darwiniano. 10 Le nostre capacità etico-intellettuali, infatti, non costituiscono un set di dottrine già pronte o di norme già codificate, 11 grazie alle quali sapremmo automaticamente anche come concepire la nostra condizione naturale e come regolarci con le sfide dinanzi a cui inevitabilmente ci pone la storia. Piuttosto, queste capacità e le “qualità più elevate della natura umana” 12 che da esse si sono culturalmente evolute (linguaggio, civiltà, confronto di teorie, va10
R. Dawkins, Il gene egoista, Mondadori, Milano 1995, pp. 210, 280. E. Mayr, This is Biology, Harvard U.P., Cambridge (Mass) 1997, pp. 268-270; P. Ehrlich, Le nature umane. Geni, culture prospettive, Codice, Torino 2005, pp. 378 sgg. Sulla prospettiva di un naturalismo darwiniano “non avido” ma che consente di costruire anche l’edificio dell’etica su una visione effettivamente evoluzionistica della natura umana, cfr. anche D. Dennett, L’evoluzione della libertà, Cortina Raffaello, Milano 2004, pp. 20, 408. 12 C. Darwin, L’origine dell’uomo e la selezione sessuale, Newton, Roma 2003, p. 462. 11
così che partorì l’immagine che avrebbe rappresentato il Graal di tutta la sua ricerca scientifica, e cioè “l’immagine di una Terra come un organismo vivente in grado di regolare la propria temperatura e la propria chimica conservando uno stato stazionario soddisfacente”. 8 A partire dunque dalla fine degli anni Sessanta e nel corso di tutti gli anni Settanta, in pratica fino alla pubblicazione del primo libro su Gaia, Gaia: A New Look at Life on Earth (1979), Lovelock presenta alla comunità scientifica, e al sempre più vasto pubblico dei suoi lettori, la sua nuova ipotesi: la Ter-
ra si mantiene in uno stato favorevole alla vita grazie alla presenza degli stessi organismi viventi. 9 Affermazioni del genere hanno esposto la tesi di Lovelock al sospetto di cadere in una prospettiva finalistica: la biosfera agisce con il deliberato scopo di modificare l’ambiente fisico-chimico in modo da favorire se stessa. Nel suo secondo libro, The Ages of Gaia: A Biography of Our Living Earth (1988), Lovelock non ha mancato di riconoscere la debolezza di alcuni aspetti delle prime formulazioni dell’ipotesi Gaia, 10 ma, per così dire, non è affatto rimasto sulla difen-
8
Id., Gaia: manuale di medicina planetaria, Zanichelli, Bologna 1992, pp. 21-22. Cfr. Id., Gaia: nuove idee sull’ecologia, Bollati Boringhieri, Torino 1981, pp. 24, 180. 10 Cfr. J. Lovelock, Hand’s up for the Gaia hypothesis, in “Nature”, 344, pp. 100-102. Nell’autobiografia parla esplicitamente di “errore” a proposito della sua affermazione secondo cui “la vita regola la Terra”. Cfr. Id., Omaggio a Gaia: la vita di uno scienziato indipendente, cit., p. 352. 9
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lori e orientamenti etico-politici), ci offrono anche la possibilità di guardare criticamente, senza angoscia esistenziale né smarrimento etico, sia alla nostra eco-appartenenza, sia alla nostra creatività storico-culturale. A cominciare dalle sfide bioetiche cui essa oggi ci chiama, divenute ormai veramente epocali, se è vero che siamo sempre più in grado di condizionare con la tecnica la stessa evoluzione biologica, inclusa quella della nostra specie. Proprio il naturalismo moderno, dunque, può educarci a una saggezza radicalmente umana. Nel senso più proprio ciò significa che essa abbia nel nostro a priori biologico la sua unica radice e, allo stesso tempo, si mantenga aliena sia da ogni forma di trascendimento metafisico-salvifico della contingenza e parzialità di tutto ciò che, all’interno di una vicenda cosmica sovrumanamente al di là del bene e del male, è destinato a rivelarsi sempre e “soltanto” umano; sia da ogni forma di sacralizzazione dei processi fisici e biologici e, infine, da ogni forma di fallacia naturalistica. Incluso ogni ingenuo appello a “vivere secondo natura”, frutto in realtà di una proiezione di nostre scelte morali nel corso stesso dei fenomeni naturali. Come già Nietzsche rimproverava allo stoico naturam sequi, “O nobili Stoici, quale impostura di parole! Immaginatevi un essere come la natura, indifferente senza misura, senza propositi e riguardi, senza pietà e giustizia, feconda e squallida e al tempo siva. Anzi, ha rilanciato la portata della scommessa compiuta sul tavolo delle congetture scientifiche, affermando che quella che prima era soltanto un’ipotesi era ormai pronta per diventare una teoria: “Il secondo libro è una risoluta affermazione della teoria di Gaia, la base di una nuova prospettiva unitaria delle scienze della terra e di quelle della vita”. A differenza delle prime formulazioni, ora Gaia non viene fatta coincidere con il biota (ovvero l’insieme degli organismi viventi), ma forma un tutt’uno con l’ambiente fisico-chimico: “la vita e il suo ambiente sono uniti così strettamente che l’evoluzione riguarda l’intera Gaia, non gli organismi o l’ambiente presi separatamente”. 11 Da questa unione emerge la necessità di dar vita a 11
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una nuova disciplina: la geofisiologia che, come spiegherà nel suo terzo libro, Gaia: The Practical Science of Planetary Medicine (1991), è l’unica in grado di porsi come la scienza di Gaia poiché, a differenza di visioni riduzioniste neodarwiniane, essa è l’unica a considerare la Terra come un’autentica entità vivente. È da notare che se nelle sue ultime riflessioni su Gaia Lovelock è stato molto attento a non cadere nelle ingenuità finalistiche degli anni Settanta, egli ha tuttavia radicalizzato un altro aspetto del suo discorso, e cioè quello olistico. Nel suo insistere sulla necessità di riconoscere una relazione sistemica tra livello biologico e livello geologico, Lovelock non si è limitato a rilevare l’opportunità di superare le
Id., Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente, cit., p. 35.
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stesso insicura, immaginatevi l’indifferenza stessa come potenza – come potreste vivere voi conformemente a questa indifferenza? […] In verità la cosa si pone in termini assai diversi: mentre […] asserite di leggere nella natura il canone della vostra condotta […] il vostro orgoglio vuole prescrivere e incarnare nella natura, perfino nella natura, la vostra morale, il vostro ideale”. 13 L’approdo più impegnativo e liberatorio del moderno disincanto naturalistico è appunto questo: saper prendere congedo da ogni religiosa attribuzione di sacralità alla vicenda biocosmica, ossia da ogni bio-teologismo sorretto ancora dalla convinzione che i processi fisici siano realtà non naturali bensì voluti da un Creatore e perciò intrinsecamente dotati anche di valori e fini etico-religiosi e, inoltre, la liberazione da ogni surrogato etico-metafisico di Dio, nonché da ogni orgogliosa proiezione di ideali e valori umani nella realtà fisica. Come per esempio quella che ha finito per riproporre lo stesso Nietzsche, quando ha preteso che la volontà di potenza sia l’“aspetto globale della vita”, 14 la verità stessa della natura che autorizzerebbe anche la 13
F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, in Opere di Friedrich Nietzsche, Adelphi, Milano 1986, vol. VI, tomo II, p. 13. 14 Id., Frammenti Postumi (1888-1889), in Opere di Friedrich Nietzsche, cit., vol. VIII, tomo III, p. 93.
visioni parziali della fisica e della biologia in favore di una visione globale che renda giustizia delle interconnessioni tra questi due ambiti, ma ha ingaggiato una vera e propria crociata verso ogni forma di riduzionismo. E nel farlo è inciampato in molte ambiguità. C’è comunque da dire che le prospettive olistiche sostenute da Lovelock hanno incontrato molti consensi. Oltre che sul fronte della fisica, si pensi ai lavori di Lee Smolin, 12 l’olismo di Gaia ha ricevuto sostegno anche sul fronte della biologia evoluzionistica. Niles Eldredge, per esempio, ha molto insistito sull’urgenza di emancipare l’e-
voluzionismo dal suo beato isolamento in direzione di un sodalizio con il mondo fisico e, in questo senso, ha riconosciuto che il concetto di Gaia è utilissimo al fine di “specificare il valore delle interconnessioni tra le componenti fisiche e biologiche”. 13 Il fulcro della questione, quindi, non è tanto quello di contrapporre la visione olistica a quella riduzionistica perché l’una sarebbe più o meno scientifica dell’altra. Si tratta piuttosto di riconoscere che la Gaia di Lovelock è per molti versi divenuta la testa di toro con cui un’intera corrente “arcadicoecologista” ha brandito e continua a brandire la sua violenta e talvolta apocalittica
12
Secondo Smolin, in accordo con Lovelock, è “plausibile che gli effetti di feedback che mantengono l’ambiente in condizioni di ospitare la vita coinvolgano gli esseri viventi stessi”. L. Smolin, La vita del cosmo, Einaudi, Torino 1998, p. 187. 13 N. Eldredge, Le trame dell’evoluzione, Cortina, Milano 2002, p. 269.
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deduzione di valori etico-politici. A cominciare dalla presunta naturalità del diritto del più forte, spacciato appunto per naturale, ma la cui realizzazione viene contraddittoriamente affidata a una “plasmazione educativa”, spinta fino alla formazione di una nuova casta di dominatori mediante “tentativi totali di disciplina e di allevamento”. 15 Appunto, mediante scelte e programmi politico-ideologici, “educativi”, non certo naturali e ancor meno “socialdarwiniani”. Anzi: “Tutto l’opposto di quel che si augura la scuola di Darwin”, concludeva non a caso lo stesso Nietzsche. 16 In realtà, un naturalismo immune da ogni fallacia naturalistica non pretende di dedurre illegittimamente “valori” e “doveri” da affermazioni puramente descrittive su stati di fatto naturali. 17 E perciò sostiene anche le proprie scelte etico-politiche e la stessa proposta di un’etica ambientale – a cominciare dalla difesa della biodiversità, della bellezza degli ecosistemi e delle risorse naturali – con argomentazioni che si “limitano” a proporne la 15
Id., Al di là del bene e del male, cit., p. 103. Id., Frammenti Postumi (1888-1889), cit., p. 93. 17 D. Birbacher, Natürlichkeit, de Gruyter, Berlin 2006, pp. 45-46, in cui viene opportunamente ricordato l’effettiva portata della critica della fallacia naturalistica da parte di Moore: fallace risulta anche la deduzione di valori e doveri da affermazioni puramente descrittive che riguardano fatti culturali, norme giuridiche positive, leggi psicologiche o rivelazioni divine. 16
critica contro l’aridità della scienza moderna. 14 Non mancando di evocare, in tanta generalizzata virulenza, gli idola di baconiana e di nicciana memoria. Pur non potendo qui evidenziare le differenze e le peculiarità di autori come Carolyn Merchant, Morris Berman, Fritjof Capra o anche Jürgen Moltman, è comunque possibile riconoscere in ognuno di essi una fortissima tendenza dell’era dell’ecologismo, secondo cui, come ha giustamente evidenziato Roberto Bondì, parole come “complessità, sistema, rete, coopera14
zione, associazione, comunione sono diventate delle parole d’ordine”. 15 In coerenza con questa tendenza l’immagine di Gaia è stata utilizzata, di volta in volta, al fine di condannare il meccanicismo e il riduzionismo con cui gli scienziati moderni hanno “ucciso la natura”, 16 il conseguente ineludibile “disincanto del mondo”, 17 la “crisi di percezione” ancora dissimulata dalla scienza cartesiana-newtoniana che è alla base dell’attuale perdita “non solo di una consapevolezza ecologica ma anche di una consapevolezza spirituale”, 18 e, ad-
Su questi temi cfr. D. Worster, Storia delle idee ecologiche, cit., pp. 45-48. R. Bondì, Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza, UTET, Torino 2006, p. 126. 16 Cfr. C. Merchant, La morte della natura: le donne, l’ecologia e la rivoluzione, Garzanti, Milano 1988. 17 Cfr. M. Berman, The reenchantment of the world, Cornell University Press, Ithaca 1981. 18 Cfr. F. Capra, Il punto di svolta: scienza, società e cultura emergente, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 49, 287. 15
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plausibilità. In definitiva, a educarci non alla retorica della moderazione ma alla possibile e solidale saggezza con cui possiamo concepire e affrontare criticamente la contingenza della nostra condizione naturale, le opportunità che essa offre e le sfide che urgono. Senza delegare la soluzione di alcun problema né all’attesa di qualche fine ultimo o compimento necessario, se non salvifico-escatologico, dei processi storici né a dinamiche puramente mercantili, predatorie o di bio-potere. È dell’avvenuta rinascita di un simile naturalismo critico che oggi ci sentiamo gli eredi. Impegnati a coltivarne con rettitudine intellettuale e solidale saggezza anche l’antropologia dell’eco-appartenenza che ne discende, l’approdo tutt’altro che esistenzialmente disperato o eticamente nichilista cui perviene una concezione post-metafisica e post-creazionistica dell’universo e della vicenda umana in essa. Forse, proprio a un simile approdo di rigore e saggezza – radicalmente umano, ma nient’affatto sterile – dovrebbe sentirsi interessato anche chi, nella sfera pubblica delle nostre società plurali, si sente portatore di una teo-logia e di un’esperienza di fede non integraliste. Non orientate a riproporre un irricevibile bioteologismo, spesso presentato persino come unico depositario di ciò che sarebbe autenticamente umano, nonché secondo o dirittura, l’“empietà del mondo moderno” e della “civiltà tecnico-scientifica”, “i mostri più orribili che siano apparsi finora sulla terra”. 19 Ma sono queste posizioni, tutte esplicitamente debitrici dei presupposti olistici di Gaia, riconducibili allo stesso Lovelock? Su questo punto Lovelock si è mostrato più volte ambiguo. Nel testo del 1988, ad esempio, Lovelock non si limita ad auspicare un ricongiungimento tra fisica e biologia, ma dichiara altresì di aver “cercato di mostrare che Dio e Gaia, teologia e scienza” “non sono separati tra loro”, 20
imputando, tra l’altro, al moderno urbanesimo la responsabilità di aver fatto perdere “interesse per il significato di Dio e di Gaia”. 21 Il passaggio sull’urbanesimo come fonte del fraintendimento di Gaia e, di qui, della crisi ecologica, è particolarmente significativo. Non solo perché può essere facilmente letto come il portato di una radicato attaccamento del pensiero ecologico a una sorta di passato dominato dall’armonioso idillio degli elementi naturali. Ma anche perché all’abbandono della vita rurale Lovelock addebita anche l’“eresia dell’umanesimo”, 22 cioè la follia
19
Cfr. J. Moltmann, Dio nella creazione: dottrina ecologica della creazione, Queriniana, Brescia 1992, p. 42; Id., Dio nel progetto del mondo moderno: contributo per una rilevanza pubblica della teologia, Queriniana, Brescia 1999, p. 91. 20 Cfr. J. Lovelock, Le nuove età di Gaia: una biografia del nostro mondo vivente, cit., p. 214. 21 Ibid., p. 211. 22 Ibid., p. 228.
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contro natura. Ma aperte a un confronto adulto e alto con le ragioni del naturalismo moderno. Un confronto che non costituisce mai un’insidia. E che proprio le sobrie ma liberatorie virtù della scienza e della scepsi inducono a praticare con la laica fermezza cui educa ogni ricerca autentica. L’unica laicità veramente costruttiva e non negoziabile di cui abbiamo bisogno: quella che non diventa mai né cedimento ad arroganze dogmatiche o volontà di potenza, né rassegnazione sgomenta. ■
Orlando Franceschelli, filosofo, è autore fra l’altro dei saggi: Creazione, assurdità o oggetti-
vità del mondo? (Augustinus, 1990); Karl Lowith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla (Donzelli, 1997 e 2000); Dio e Darwin. Natura e uomo tra evoluzione e creazione (Donzelli, 2005);
La natura dopo Darwin. Evoluzione e umana saggezza (Donzelli, 2007). Di Lowith, ha curato anche l’edizione di Dio, uomo e mondo nella metafisica da Cartesio a Nietzsche (Donzelli, 2000 e 2002). Collaboratore a varie riviste, è anche editorialista de “il Riformista”. È stato inoltre chiamato a tenere un corso su “Teoria dell’evoluzione e politica” presso la Facoltà di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma .
di considerare la nostra specie in qualche modo indispensabile al sistema gaiano. E invece la presenza umana è qualcosa di sostanzialmente ininfluente rispetto a Gaia. 23 Il fatto è che nonostante la teorizzazione di questa sorta di iato tra il destino dell’uomo e quello di Gaia, il suo antiumanesimo finisce comunque col conferire alla Terra un’accentuata connotazione personalistica. In Lovelock, accanto a un’indubbia originalità teorica, permane un consumato refrain olistico antiscientista secondo cui i mali che oggi soffria-
mo sono da ricondurre alle categorie della mentalità analitico-riduzionista figlia della modernità. A tal proposito credo abbia colto nel segno Luc Ferry, secondo cui olismo e antiumanesimo sono ormai diventati “due slogan della lotta contro la modernità”. 24 Ed è qui che si può collocare il neanche tanto sfumato sodalizio tra Gaia e l’ecologia misticheggiante.
23 A tal proposito Bondì parla di una sorta di principio di “irresponsabilità”, cfr. R. Bondì, Blu come un’arancia. Gaia tra mito e scienza, cit., pp. 201-208. Sulla coerenza “filosofica” dell’antiumanesimo di Lovelock cfr. N. Russo, Filosofia ed ecologia, Guida, Napoli 1999, pp. 327-328. 24 L. Ferry, Il nuovo ordine ecologico: l’albero, l’animale, l’uomo, Costa & Nolan, Genova 1994, p. 113.
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Ultime dal mondo Pietro Greco
I
l mondo della ricerca scientifica e tecnologica sta cambiando. Viviamo una fase di transizione fortemente accelerata della cosiddetta società della conoscenza. Caratterizzata, secondo Warren M. Washington e gli esperti del National Science Board da lui presieduto, da almeno tre grosse novità intervenute nell’ambito specifico della ricerca scientifica: il marcato aumento degli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo (R&S); l’ancor più marcata crescita degli investimenti “privati” in R&S; l’emergere di un mondo della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico sempre più multipolare. 1 Negli ultimi mesi la transizione ha raggiunto una fase quasi parossistica. Nel 2006 gli investimenti mondiali (calcolati a parità di potere di’acquisto) hanno superato per la prima volta la soglia dei 1.000 miliardi di dollari. Nel medesimo anno la Cina ha superato il Giappone nella classifica dei paesi che investono di più in R&S, collocandosi al secondo posto assoluto dietro gli Stati Uniti. E ancora nel 2006 l’Asia ha superato per la prima volta il Nord America tra le grandi aree del mondo che investono di più in R&S. 2 Ciascuna di questa novità ha un valore enorme, anche (ma non solo) simbolico. Nell’insieme prefigurano un mondo molto diverso da come lo abbiamo conosciuto negli ultimi decenni e, forse, negli ultimi secoli.
Il mondo investe sempre di più in ricerca Negli ultimi 15 anni gli investimenti globali in R&S sono pressocché triplicati, al netto dell’inflazione, passando da poco più di 350 miliardi di dollari nel 1990 agli oltre 1.000 miliardi di dollari (1.015 per la precisione) del 2006. Una quantità di risorse che è pari, ormai, all’1,7% della ricchezza prodotta ogni anno al mondo. Un dato che non ha solo una significativa valenza culturale. Non indica solo che
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National Science Board, Science and Engineering Indicators 2006, National Science Foundation 2006. 2 Global R&D Report 2007, in “R&D Magazine”, settembre 2006. 71
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il mondo crede sempre più nella ricerca scientifica e tecnologica (la crescita degli investimenti in R&S è stata superiore alla crescita della ricchezza mondiale; il Prodotto interno loro del mondo infatti dal 1990 al 2006 è “solo” raddoppiato o poco più, essendo passato da 27.000 a 61.000 miliardi di dollari). La spesa mondiale in R&S è ormai un dato macroeconomico. Che spoglia di ogni enfasi retorica il concetto di società della conoscenza e indica che quasi tutto il mondo ormai punta in concreto molte delle sue carte per lo sviluppo sulla knowledge-based economy, sull’economia fondata sulla conoscenza. Certo, possiamo e dobbiamo chiederci se questo processo produce nuova disuguaglianza o nuove occasioni di sviluppo umano. Se è ecologicamente sostenibile o, al contrario, è destinato ad aumentare l’impatto umano sull’ambiente. Possiamo discutere, in altri termini, sulla qualità dello sviluppo fondato sulla conoscenza. Ma sull’esistenza del processo in sé non possiamo più dubitare. Dobbiamo semplicemente prenderne atto.
Crescono gli investimenti privati Il secondo dato strutturale è che gli investimenti in R&S delle imprese private stanno aumentando a un ritmo molto più sostenuto degli investimenti pubblici. Negli Stati Uniti, ormai, per ogni dollaro investito in ricerca dal Governo federale, ve ne sono due investiti da aziende private. Negli anni Sessanta il rapporto era specularmene ribaltato, per ogni due dollari investiti dal Governo federale ve ne era uno solo investito dalle aziende private. È interessante ricordare come il punto di svolta sia l’anno 1980, quanto per la prima volta nel dopoguerra gli investimenti privati americani hanno eguagliato quelli pubblici. Non è stato un caso. Il 1980 è stato l’anno in cui lo United States Patent and Trademark Office (USPTO), dopo nove anni di riflessione, ha concesso al professor Ananda Mohan Chakrabarty, biologo in forze alla società General Electric, il brevetto a protezione della proprietà intellettuale su un organismo vivente (un batterio geneticamente modificato); è stato l’anno in cui la Corte Suprema, su richiesta della Stanford University, ha riconosciuto il diritto di protezione intellettuale sulla tecnica cosiddetta di clonazione del Dna ricombinante messa a punto da Stanley Cohen e Herbert Boyer nel 1973; ed è stato, soprattutto, l’anno in cui il Congresso ha promulgato il Bayh-Dole Act, una legge che incoraggia anche i centri di ricerca pubblici a brevettare le loro invenzioni per ottenere royalties con cui finanziare ulteriori ricerche. Secondo alcuni, è stato l’anno in cui gli Stati Uniti – al culmine di una crisi delle loro imprese manifatturiere incapaci di tenere il passo della competizione con quelle della potenza economica emergente Giappone – hanno puntato definitivamente sul va72
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lore strategico di una nuova economia di mercato, fondata sullo scambio di beni ad alto tasso di conoscenza aggiunta. Il processo ha coinvolto in maniera sempre più attiva le imprese e ha modificato lo stesso modo di lavorare degli scienziati 3. Sono emerse, per esempio, figure come quelle del biotecnologo Craig Venter, lo scienziato-imprenditore, che, dopo aver messo a punto un nuovo metodo per il sequenziamento del Dna, aver creato un’impresa e aver sequenziato, tra l’altro, il genoma umano, ha chiesto e ottenuto – almeno da Science, la rivista dell’American Association for the Advancement of Science (AAAS) – di essere riconosciuto nel medesimo tempo come scienziato e, appunto, come imprenditore. Ma al di là delle implicazioni per la sociologia della scienza, è certo che a partire dal 1980 gli investimenti in R&S delle imprese americane crescono a ritmi molto più rapidi degli investimenti pubblici. La novità, tuttavia, non riguarda solo gli Usa. In realtà, il rapporto di 2:1 a favore degli investimenti privati in R&S rispetto a quelli pubblici, pur con notevoli differenze tra paese e paese, si è imposto su scala planetaria. Tra i paesi a economia avanzata troviamo due sostanziali eccezioni. Una è il Giappone, in cui il rapporto tra investimenti privati e pubblici non cresce affatto, ma si mantiene costante da molto tempo. C’è da rilevare però che in Giappone circa l’80% degli investimenti in R&S sono privati; che il rapporto privato/pubblico è già a un massimo oltre il quale è difficile andare; che il Governo di Tokio negli ultimi anni ha notevolmente aumentato la spesa pubblica, rilevando nella mancanza relativa di investimenti in ricerca di base e curiosity driven finanziata quasi ovunque con soldi pubblici, uno dei motivi che hanno portato a una sostanziale e lunga stagnazione dell’economia nipponica. L’altra eccezione è l’Italia. Dove il 60% degli investimenti in R&S sono pubblici e solo il 40% sono privati. Questo rapporto ormai anomalo tra i paesi a economia avanzata è dovuta non tanto all’incremento della spesa governativa, quando a una sostanziale diminuzione della spesa privata. In questi ultimi anni, infatti, le imprese italiane hanno percorso un tratto di strada verso l’uscita piuttosto che verso l’entrata dall’economia della conoscenza. In netta controtendenza rispetto alle imprese straniere. In realtà più che le singole imprese è il sistema Italia, a causa della sua specializzazione produttiva, a muoversi in direzione opposta al resto del mondo. Ancora una volta lascio ad altri la valutazione degli effetti – economici e socioculturali – di questo fatto.
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La nuova geopolitica della ricerca Ma la novità forse più importante è che, in questi ultimi anni, si sta modificando la mappa geopolitica della ricerca. Nuovi paesi dell’Asia ma anche dell’America Latina stanno entrando nella società della conoscenza. E uno degli indicatori principali è proprio la spesa in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico. Nel 2006 la Cina – con un investimento di 136,3 miliardi di dollari (a parità di potere di acquisto) – ha superato per la prima volta per spesa assoluta il Giappone, fermo, si fa per dire, a 127,8 miliardi di dollari 4. Ora la Cina ha davanti a sé solo gli Stati Uniti, che con i loro 328,9 miliardi di dollari rappresentano un terzo degli investimenti mondiali in ricerca e sviluppo. Ciò che impressiona della Cina è la velocità della crescita degli investimenti in R&S: il ritmo è ormai stabilmente superiore al 20% annuo, il doppio rispetto a quello, pur notevolissimo, della crescita complessiva dell’economia cinese; quattro o cinque volte superiore al ritmo di crescita degli investimenti in R&S degli Stati Uniti o dell’Europa. Oggi la Cina investe in ricerca e sviluppo l’1,6% del Prodotto interno lordo. Ma, con questa velocità di crescita, nel giro di una decina di anni la Cina potrebbe raggiungere e persino superare l’intensità di investimento degli Stati Uniti (2,7% del Pil) e del Giappone (3,2%). Figura 1
paese 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12.
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Usa Cina Giappone Germania Francia India Gran Bretagna Corea Brasile Russia Canada Italia Mondo
Spesa in R&S 2006 (miliardi $) 328,9 136,3 127,8 60,2 42,1 38,9 37,4 28,4 25,0 22,0 21,3 19,6 1.015,5
Global R&D Report 2007, in “R&D Magazine”, settembre 2006.
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Figura 2
Asia America del Nord Europa Indopacifico Nord-Atlantico
Spesa in R&S Assoluta (in miliardi di $) 362 355 240 752 570
Percentuale sul totale mondiale 35,6% 35,0% 23,6% 75% 55%
Non è, dunque, un caso che la Cina sia già oggi il secondo esportatore al mondo di prodotti ad alta tecnologia e, proprio nel 2006, sia diventata il primo paese esportatore in Europa, scalzando dopo molti decenni gli Stati Uniti. Ma, la Cina non è che la punta, sia pur vistosa, di un iceberg più grande, che coinvolge molti paesi asiatici. Tra cui l’India, che nel 2006 con 38,9 miliardi di dollari ha superato la Gran Bretagna ed è ormai sesta nella classifica dei paesi che investono di più in scienza e tecnologia. In realtà, nell’Asia orientale c’è una costellazione di paesi (almeno una decina) che stanno entrando a vele spiegate nell’economia della conoscenza. Tanto da determinare un’ulteriore novità. Nel 2006 l’Asia, con 362 miliardi di dollari complessivi, ha superato il Nord America (355 miliardi di dollari) ed è diventata la regione al mondo che investe di più in R&S. È la prima volta in epoca moderna. Dall’inizio della rivoluzione scientifica nel XVII secolo fin quasi alla fine del XX secolo la scienza e l’innovazione tecnologica sono stati coltivati da paesi dell’Europa e poi del Nord America. Possiamo dire, per usare uno schematismo giornalistico, che per quasi quattro secoli la scienza è stata un affare sostanzialmente transatlantico. Oggi il 75% della spesa globale in ricerca scientifica e sviluppo tecnologico avviene a opera di paesi che affacciano sull’Indopacifico. E solo il 55% avviene a opera di paesi che affacciano sul Nord Atlantico. Anche se l’Europa (240 miliardi di dollari investiti in R&S) resta una regione a forte vocazione scientifica, non c’è dubbio che la ricerca scientifica e lo sviluppo tecnologico stanno diventando un affare prevalentemente transpacifico. Se l’asse tecnoscientifico del mondo avesse una consistenza fisica, ci troveremmo di fronte a quella che i geologi chiamano un true polar wander, un vero e proprio ribaltamento dei poli scientifici del pianeta. D’altra parte, si calcola, che tra qualche anno il 90% degli scienziati e dei tecnici di tutto il mondo vivrà sulle sponde asiatiche dell’Indopacifico. Ma c’è da registrare – e non è certo un rilievo di scarso valore – un forte dina75
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mismo anche in altre regioni del mondo. A iniziare dal Sud America. Con 25,0 miliardi di dollari spesi nel 2006, per esempio, il Brasile si colloca ormai al nono posto assoluto nella classifica dei paesi che investono di più in R&S. In realtà, quello che sembra emergere da queste tendenze è il tramonto relativamente rapido del mondo bipolare (Europa e Nord America) e l’affermarsi di un mondo multipolare della scienza e della tecnologia, con diversi clusters regionali. Non c’è dubbio che questo mondo presenta molte contraddizioni. A iniziare dalle promesse infrante di cui parla Joseph Stiglitz: l’economia fondata sulla conoscenza sta producendo disuguaglianze sociali come e forse più dell’economia fondata sul lavoro manuale 5. Ma non c’è dubbio che il mondo che avremo di fronte in futuro sarà molto diverso rispetto al mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni e, forse, negli ultimi secoli. ■
Bibliografia OECD Science, Technology and Industry Outlook, OECD 2006. OECD Factbook 2006: Economic, Environmental and Social Statistics, OECD 2006. P. Greco, S. Termini (a cura di), Oltre il declino, Muzzio, Padova 2007. P. Greco, S. Termini, Contro il declino, Codice, Torino 2007.
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J. Stiglitz, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino 2002.
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Ultime dall’Europa Ronvaldo Giandi, Stefano Pisani
L’
Europa c’è e investe, ma si può dare di più. Soprattutto in un momento in cui le grandi nazioni degli altri continenti stanno spingendo sull’acceleratore della ricerca e sviluppo (R&S). Sono queste le prime conclusioni che, a quasi un anno di distanza dal varo del Settimo programma quadro per la Ricerca e Sviluppo Tecnologico, possono essere tratte analizzando presente e passato tecnoscientifico del nostro continente. Stando ai dati cumulativi di investimenti nel mondo della tecnoscienza l’Unione europea occupa nel mondo una posizione piuttosto lusinghiera: i 27 paesi che la compongono hanno destinato a questo settore dello sviluppo 240 miliardi di dollari, somma che, seppur non colma il divario con gli Stati Uniti che investono il 37% in più, basta a tenere a debita distanza paesi “rampanti” come la Cina e il Giappone che investono oltre il 40% in meno. Ma a una attenta analisi si tratta di cifre che rischiano di essere ingannevoli. Un’interpretazione più approfondita rivela infatti la sostanziale pigrizia economica del nostro continente. Nel settore R&S l’Unione investe solo il 2% circa del suo Pil, così da restare dietro colossi come gli Stati Uniti (30% del Pil in più) e da perdere terreno anche rispetto a Corea e Giappone (quest’ultimo riserva al settore una fetta del suo Pil quasi una volta e mezzo più grande di quella europea). Venti di crisi? Secondo Christopher Patten, Lord Chancellor dell’Università di Oxford e di Newscastle, probabilmente sì. L’Europa si sta misurando con lo spettro del declino. Il lustro, anche storico, finora vantato nel campo della scienza rischia di appannarsi progressivamente se non si correrà presto ai ripari. Se, ad esempio, non si riuscirà a portare ad almeno il 3% del Pil gli investimenti in R&S entro il 2010: l’obiettivo di Barcellona che riecheggia quello assunto come stella polare della strategia di Lisbona, ossia far diventare l’Europa la regione leader nel mondo dell’economia basata sulla conoscenza. Il dato dell’1,84% del Pil destinato a R&S attribuito all’Europa dalla relazione 77
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Key Figures 2007 on Science,Technology and Innovation rischia insomma di essere una preoccupante spia. Perché dopo l’incoraggiante crescita vissuta nei tardi anni Novanta, dal 2001 questo valore ha cominciato a stabilizzarsi per poi diminuire ai livelli attuali nel 2005. Il 3% del Pil diventa per questo motivo un obiettivo lontano, soprattutto considerando il, non troppo virtuoso, comportamento dei singoli stati europei nei confronti di un altro settore chiave della R&S, il cosiddetto “pacchetto della conoscenza”, vale a dire l’educazione secondaria e terziaria. Secondo i dati OCSE, infatti, gli Usa investono in questo ambito il 6,6% del proprio Pil, seguiti da Corea del Sud (5,8%) e Giappone (5%). Stringendo l’obiettivo sui grandi stati europei le cifre calano notevolmente: la Germania dedica il 3,9% del proprio Pil al pacchetto della conoscenza, la Francia il 3,7%, e per l’Italia si registra un 2,4%. La differenza fra Europa e resto del mondo diventa ancora più marcata guardando all’educazione terziaria, cioè la formazione presso le università: gli Stati Uniti investono il 2,6% del loro Pil, mentre nessuno dei paesi europei va al di là dell’1% (l’Italia si attesta sullo 0,88%). Un vero peccato, considerando che sono imponenti le risorse culturali possedute dall’Unione, con i suoi 4000 tra università e centri di ricerca, i 435.000 ricercatori e i 17 milioni di studenti. Questo stato di cose, però, è probabilmente l’eco di una situazione che, negli anni scorsi, ha penalizzato il settore degli investimenti in R&S dal punto di vista squisitamente politico. Fino al Sesto programma quadro, infatti, solo il 5% della spesa europea era decisa a Bruxelles, cosicché un campo importante come quello dei finanziamenti alla ricerca di base è rimasto appannaggio esclusivo delle singole nazioni. Il Settimo programma quadro, entrato in vigore il primo gennaio di quest’anno e che coprirà il settennio 2007-2013, ha introdotto in questo senso due interessanti novità: un forte aumento della spesa europea (il 60% in più ogni anno) pianificata con quartier generale Bruxelles e il finanziamento centralizzato anche della cosiddetta ricerca di base curiosity driven. A questo settore, tradizionalmente finanziato dai singoli paesi, l’Unione europea ha previsto di destinare infatti oltre 7 miliardi di euro fino al 2013, attraverso il Consiglio Europeo di Ricerca. Uno dei limiti del Settimo programma quadro salta però all’occhio quando si considera che la “manovra economica” complessiva che ne costituisce l’ossatura tocca in tutto (dividendo la spesa per ogni anno) solo il 7% della spesa complessiva dei paesi dell’UE in R&S (240 miliardi di dollari), il che si traduce in una gestione finanziaria realmente comune piuttosto limitata. 78
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Andamento degli stanziamenti dell’Unione Europea per la realizzazione dei Programmi Quadro di Ricerca e Sviluppo ed Euratom tra il 1994 e il 2013.
Europa news Gli ultimi sei mesi di Nano-scienze, ICT e Biotecnologie in Europa Cristian Fuschetto, Stefano Pisani
accordi di cooperazione con le principali province cinesi coinvolte nel settore Ricerca e Sviluppo. Il programma FinNano è finanziato da Tekes per un importo pari a 70 milioni di euro.
Finlandia e Cina insieme nella ricerca sulle nanotecnologie EuroNanoForum 2007: è ora di passare ai prodotti L’agenzia finlandese che finanzia la tecnologia e l’innovazione (Tekes) ha annunciato che la Finlandia e la Cina hanno avviato un programma di cooperazione congiunta per la ricerca e lo sviluppo in materia di nanotecnologia. Negli ultimi anni l’agenzia Tekes ha compiuto molti sforzi per creare punti di contatto tra le comunità di ricerca cinesi e quelle finlandesi: ha aperto uffici a Pechino e a Shanghai e ha siglato
EuroNanoForum 2007 – il più atteso e importante evento europeo dedicato alle nanoscienze e alle nanotecnologie – si è tenuto al Congress Center di Düsseldorf dal 19 al 21 giugno, organizzato dal Ministero Federale tedesco dell’Educazione e Ricerca e promosso dalla Commissione europea. Le applicazioni industriali sono state il tema al centro della terza edizione (a
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cadenza biennale) della manifestazione, che ha richiamato oltre tremila scienziati da tutta Europa e ha segnato un cambiamento sostanziale: dopo anni nei laboratori, le tecnologie su scala atomica sono ormai pronte per decollare verso le applicazioni industriali. È stato calcolato che il mercato dei prodotti nanotecnologici varrà 1 miliardo di euro nel 2015.
Nanotecnologie in Russia fra scienza e corruzione La Russia si affida alle nanotecnologie per tornare a essere un paese leader nella ricerca scientifica e tecnologica mondiale. Con un investimento senza precedenti dai tempi del collasso dell’Unione Sovietica, il parlamento russo ha approvato lo scorso luglio uno stanziamento di fondi a favore della ricerca nanotecnologica di ben 7 miliardi di dollari per i prossimi cinque anni. Tuttavia parte della comunità scientifica russa ha criticato l’operazione per la poca trasparenza nella definizione degli scopi e dei contenuti dell’iniziativa, paventando che il progetto potrebbe essere inquinato da fenomeni di corruzione.
N&N: la Commissione europea è il maggiore investitore pubblico al mondo Avendo stanziato 1,4 miliardi di euro a favore di 550 progetti di ricerca a titolo del Sesto programma quadro (20022006), la Commissione europea è diventa il maggiore investitore pubblico del mondo nella nanotecnologia. E le risorse sono destinate ad aumentare ul-
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teriormente con il Settimo programma quadro. Tuttavia, gli investimenti privati si confermano modesti rispetto a quelli dei concorrenti europei e le duplicazioni stanno diventando un rischio concreto ora che un numero maggiore di Stati membri avvia iniziative nazionali. Questi alcuni dati contenuti in una comunicazione della Commissione sui progressi realizzati nell’attuazione del piano d’azione comunitario sulle nanoscienze e nanotecnologie. Il piano d’azione copre il periodo 2005-2009 e il documento in questione è la prima relazione che analizza i risultati conseguiti dal suo avvio.
Bio-Polis: dati sorprendenti e utili suggerimenti per un settore biotecnologico competitivo Una recente relazione della Commissione europea ha confermato che investimenti meno cospicui nella ricerca biotecnologica possono dare risultati più soddisfacenti se accompagnati da politiche mirate. I dati sono stati forniti da Bio-Polis, un’indagine avviata nel 2004 con l’obiettivo di confrontare ed evidenziare le differenze delle varie politiche nazionali in materia di biotecnologie. Bio-Polis ha riguardato tutti i 27 Stati membri della UE, oltre che l’Islanda, la Norvegia, la Svizzera e i paesi candidati Croazia e Turchia. Da questa panoramica emergono sostanzialmente tre diversi raggruppamenti. Il gruppo di vertice comprende Danimarca, Finlandia, Svezia e Svizzera. Si tratta di paesi che compensano la dimensione ridotta dei fondi investiti con un’efficiente e agile organizzazione amministrativa. Il secondo gruppo comprende Austria, Belgio, Francia, Germania, Irlanda, Norve-
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gia, paesi Bassi e Regno Unito. L’Italia, purtroppo, rientra nel gruppo “fanalino di coda”, insieme alla Grecia, alla Spagna, al Portogallo e al Lussemburgo, le cui prestazioni sono molto al di sotto della media europea.
Attuata una revisione della strategia europea sulle biotecnologie Con la recente relazione del Centro comune di ricerca (CCR) della Commissione europea, Consequences, Opportunities and Challenges of Modern Biotecnology for Europe (Conseguenze, opportunità e sfide della moderna biotecnologia per l’Europa), è stato finalmente possibile avere un quadro completo sulle modalità di utilizzo di prodotti e processi biotecnologici in Europa. Ne è emersa la loro completa integrazione nell’economia comunitaria. Secondo la relazione la biotecnologia rappresenta circa l’1,69% dell’economia comunitaria, cioè una cifra paragonabile a settori importanti come l’agricoltura (1,79%), o i prodotti chimici (1,95%). Inoltre è stato evidenziato che la biotecnologia favorisce la competitività delle aziende comunitarie e, nello stesso tempo, richiedendo uno standard più elevato di competenze e formazione, stimola la creazione di “lavori migliori”.
Regno Unito: autorizzata la ricerca sugli embrioni “ibridi” In seguito a una pubblica consultazione che ha coinvolto tutta la comunità scientifica e vari gruppi di rappresentanza della società civile, la Human Fertilisation
and Embryology Authority (HFEA), Autorità britannica per la fertilizzazione e l’embriologia, ha deciso di autorizzare i ricercatori a creare embrioni ibridi uomo-animale a scopo di ricerca. “Dopo aver analizzato tutti gli elementi, l’HFEA ha deciso che non esiste alcuna ragione sostanziale per impedire la ricerca ibrida citoplasmica”, si legge in una dichiarazione dell’HFEA. La ricerca ibrida citoplasmatica si basa sull’utilizzo di ovociti animali preventivamente privati del loro nucleo e successivamente fecondati con il nucleo di una cellula umana adulta. L’utilità di questa tecnica sta nel fatto che essa consente di sopperire alla scarsissima disponibilità di ovociti umani e, quindi, di facilitare la produzione di cellule staminali embrionali.
È l’open source la vera scommessa delle ICT europee Nello studio dedicato all’“Impatto economico del software libero e open source” (Free/libre Open Source Software, FLOSS), si legge che “se si considera che, a causa del ridotto capitale di rischio e di una tolleranza del rischio limitata, l’Europa ha storicamente una minore capacità di creare nuove imprese di software rispetto agli Stati Uniti, l’elevato numero di sviluppatori FLOSS europei offre un’occasione unica per creare società di software e avvicinarsi agli obiettivi di Lisbona di fare dell’Europa l’economia della conoscenza più competitiva del mondo entro il 2010”. Viene inoltre sottolineato che il potenziamento del settore dei FLOSS potrebbe consentire di ovviare agli scarsi investimenti nelle ICT come percentuale del PIL nei vari paesi europei.
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La società dell’informazione onnipresente: il caso finlandese La Finlandia ha avviato un piano, per il periodo 2007-2011, finalizzato a studiare e implementare le misure necessarie per sviluppare una società dell’informazione onnipresente, ossia capace di integrare in modo capillare e senza soluzione di continuità tecnologie e reti nella vita quotidiana. Il piano prevede l’istituzione di diversi gruppi consultivi chiamati a coordinare progetti in cinque aree specifiche: 1)
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sviluppo di servizi elettronici pubblici e di un ambiente integralmente servito dalle tecnologie ICT; 2) impiego dei vantaggi delle ICT nell’istruzione, nella ricerca e nella cultura; 3) sviluppo delle infrastrutture necessarie a una società dell’informazione e promozione dei servizi e delle attività nel campo dei media; 4) promozione dell’innovazione e dei servizi elettronici nel settore sociale e in quello sanitario; 5) aspetti della società dell’informazione correlati a innovazione, competitività e produttività.
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Ultime dall’Italia
Ultime dall’Italia Vincenzo Napolano
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iuscirà l’Italia nei prossimi anni a competere sulla scena globale di un’economia fondata sull’innovazione scientifica e tecnologica permanente? Gran parte dei decisori politici e dell’establishment culturale del nostro paese sembra avere scarsa consapevolezza di quanto questa questione sia importante per sfuggire a un altrimenti inarrestabile declino economico e culturale. Negli ultimi sedici mesi il nostro paese è passato dalla tiepida adesione del ministro Moratti agli obiettivi che l’UE aveva fissato a Lisbona e recentemente ribadito a Barcellona, a una notevole enfasi sull’importanza strategica di quei propositi. Seppure nel medio termine alcuni di questi – come investire in Ricerca Scientifica e Tecnologica (R&ST) il 3% del Pil entro il 2010 – sembrino inarrivabili per l’Italia, restano la bussola che dovrebbe orientare (forse più decisamente) le politiche della ricerca e di investimento scientifico e tecnologico dell’attuale governo. Il problema però è il crescente ritardo che l’Italia ha accumulato negli ultimi anni rispetto agli altri grandi paesi europei nella capacità di investire risorse umane ed economiche nella produzione e valorizzazione di conoscenze innovative. Indipendentemente dalla qualità della ricerca svolta, che conserva comunque punte di eccellenza. I dati della “anomalia” italiana riguardano per esempio l’investimento delle imprese in R&S, che è inferiore del 30% rispetto alla media europea, lo scarso dinamismo degli Enti di ricerca e di pezzi delle Università, la poca trasparenza e la lentezza del rinnovamento del personale di questo settore e, infine, la mancanza di meccanismi consolidati di valutazione dei risultati che possano orientare la distribuzione dei finanziamenti pubblici. L’Italia investe attualmente solo l’1,1% del Pil (60% pubblico, 40% privato) in R&ST contro l’1,81% della media europea, se a questo aggiungiamo gli investimenti in educazione secondaria e terziaria, raggiungiamo il 2,4% del Pil , mentre Francia, Germania e Gran Bretagna superano il 3,5%. L’estrema urgenza di trasformazioni profonde e le aspettative di radicali innovazioni del mondo della ricerca si confrontano però con la difficoltà a intervenire 83
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negli stratificati intrecci di potere dello stesso mondo accademico, nel quadro incerto e precario dell’attuale momento politico. Molte iniziative di questi ultimi mesi, però, sembrano voler riconoscere e affrontare le carenze e le falle di “sistema” dei settori della ricerca scientifica e tecnologica e il ritardo di attenzione e investimenti dell’azione politica. Saranno i prossimi mesi (e forse anni) a dirci con quali esiti. È il caso dell’Agenzia di valutazione dell’università e della ricerca (ANVUR), formalmente istituita quest’anno, ma che probabilmente comincerà a raccogliere i suoi primi dati nel 2009. Sarà costituita di un consiglio di scienziati ed esperti di livello internazionale e per metà non italiani, designati dal ministro a partire da proposte della comunità scientifica. Resteranno operativi, nel frattempo, due degli organi istituiti fino a oggi per la valutazione: il Comitato d’Indirizzo per la Valutazione della Ricerca (CIVR ) e il Comitato Nazionale per la Valutazione del Sistema Universitario (CNVSU). D’altra parte, in questi ultimi mesi è esplosa una vera e propria “questione morale” dell’Università italiana, con l’emergere di clientele e nepotismi diffusi, fino ai casi di corruzione legati ai test di ingresso degli studenti nelle facoltà a numero chiuso. Proprio mentre è in via di definizione un nuovo regolamento per il reclutamento dei giovani ricercatori: con questo si cercherà di contrastare le isole di clientele accademiche locali, con una preselezione dei candidati ai concorsi da parte di referee anonimi, nazionali e internazionali. L’obiettivo è evidentemente di adeguare il livello degli ammessi ai concorsi agli standard della comunità scientifica internazionale. Il segnale più deciso nella direzione di un cambio di rotta è però una proposta (non ancora approvata) del senatore Ignazio Marino di destinare il 5% dei fondi per la Ricerca del Ministero della Salute a ricercatori al di sotto dei 40 anni, giudicati da referee internazionali altrettanto giovani. Il Patto per l’Università, firmato all’inizio di agosto dal ministro dell’Università e della Ricerca e da quello dell’Economia, è un altro segnale di attenzione e intenzione innovativa che il governo indirizza al mondo universitario. Sebbene passato in sordina sui media nazionali, il Patto contiene tra l’altro due significative indicazioni economiche: la “promessa” di uno stanziamento (assolutamente indicativo) di 400 milioni di euro nella prossima finanziaria e la creazione di un canale separato dai fondi ordinari per il finanziamento degli aumenti salariali del personale.1 Risale invece al mese scorso l’attesa notizia dell’approvazione, dopo un lungo 1
Vedi all’indirizzo: http://www.miur.it/Miur/UserFiles/Notizie/2007/patto_universita_ricerca_ 2007.pdf.
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e tortuoso iter parlamentare, del decreto sul riordino degli enti di ricerca. La nuova legge, approvata a larga maggioranza, accoglie la richiesta della comunità scientifica di regolare autonomamente l’amministrazione e la gestione degli enti, sancendone l’autonomia statutaria e introducendo per la designazione dei presidenti lo strumento delle search committee, composte oltre che da personalità scientifiche di livello internazionale da rappresentanti del personale. Parrebbe quindi prevalere l’idea che l’ambito politico scelga gli indirizzi strategici della ricerca nazionale, senza dover occupare i posti di direzione scientifica e amministrativa degli enti, secondo un consolidato sistema di spoils system. La questione in campo però è se l’Italia riesca realmente a imprimere una svolta radicale alla gestione dei suoi enti, liberandoli da inutili lacci burocratici e facendo emergere il merito, come è riuscito alla Spagna di Zapatero. L’attuazione della legge prevede la definizione dei nuovi statuti da parte dei consigli scientifici in carica con l’aggiunta di rappresentanti dell’esecutivo. Il timore che ci si perda per strada in un’ennesima pesante riforma dall’alto, non sembra infondato. Sul piano del coinvolgimento dell’industria e delle imprese private in una politica di investimenti in R&S, la novità più rilevante è il piano proposto dal Ministero dello Sviluppo Economico Industria 2015. L’obiettivo è favorire lo sviluppo di prodotti e servizi ad alto contenuto di innovazione in cinque aree strategiche: l’efficienza energetica, la mobilità sostenibile, le nuove tecnologie delle scienze della vita, nuove tecnologie per il Made in Italy e le tecnologie innovative per i beni culturali. Un migliaio per ora le imprese (tra grandi, medie, piccole e consorzi) che hanno risposto al bando delle prime due aree (energia e mobilità) con dei progetti di innovazione e hanno manifestato interesse alla collaborazione con partner scientifico-teconologici. (http://www.industria2015.ipi.it/) Segnali positivi di una condivisione di intenti tra il Ministero dell’Università e della Ricerca e quelli dell’Economia e dello Sviluppo economico vengono inoltre dall’ingresso del MIUR nel CIPE (l’organo di programmazione economica del governo), che a giugno di quest’anno ha riassegnato al MIUR un finanziamento di 268,7 milioni di euro per la realizzazione di 11 laboratori di ricerca e 12 distretti di alta tecnologia nel Mezzogiorno d’Italia. Imprese, università ed enti pubblici delle regioni meridionali saranno incentivati a collaborare in particolare su determinate aree di interesse: energia solare, agro-alimentare, farmaci innovativi, genetica, bioinformatica e materiali avanzati. La realizzazione di grandi infrastrutture di ricerca e il finanziamento di accor85
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Ultime dalla Società della Conoscenza
di con le Regioni sono d’altronde due dei punti programmatici dell’attuale politica ministeriale, che punta in tempi brevi a individuare un sito italiano per una grande infrastruttura di ricerca e sviluppo tecnologico paneuropeo nell’ambito dell’European Strategy Forum on Research Infrastructures (ESFRI). Qualcosa dunque si muove sul fronte italiano, ma è difficile immaginare che basti.
L’Italia al VII PQ Fra giugno e settembre 2007 si sono chiusi i primi bandi del Settimo Programma Quadro di Ricerca e Sviluppo Tecnologico. Rispetto al Sesto Programma Quadro, secondo i dati forniti dall’Agenzia per la Promozione della Ricerca Europea (APRE), l’Italia sembra aver incrementato il numero di proposte presentate a Bruxelles, risultando prima (per numero di proposte) nelle Aree Tematiche Salute e Prodotti alimentari, agricoltura e pesca, e biotecnologie e attestandosi sempre fra i primi quattro Paesi nelle altre Aree. Risulta però basso il numero di progetti a Coordinamento italiano e, soprattutto, tra i progetti presentati sono pochi quelli effettivamente finanziati. L’Italia partecipa molto, ma coordina poco, inoltre il numero di progetti che vanno in negoziazione rappresenta una percentuale irrisoria rispetto a quelli presentati. La percentuale del successo italiano oscilla a seconda delle tematiche fra l’11% e il 13% dei progetti presentati. Nel caso per esempio dell’area tematica Prodotti alimentari, agricoltura e pesca, e biotecnologie è sintomatico che su 414 proposte arrivate a Bruxelles ne siano state finanziate 64 e che l’Italia risulti essere presente solamente con tre progetti a coordinamento. Dall’analisi dei progetti del Sesto PQ, il problema maggiore che si riscontrava negli “Evaluation Summary Report” era la scarsa attenzione agli aspetti non prettamente scientifici del progetto (gestione, impatto socio-economico della ricerca). Nel Settimo PQ, per ora, la situazione sembra rimanere la stessa e per raggiungere l’obiettivo di riportare in Italia almeno quanto versato alla Commissione Europea per il PQ (il 14% del budget del PQ) saranno decisivi i bandi dei prossimi anni.
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Scienza e Democrazia* Umberto Cerroni
I progressi del secolo I bilanci del ventesimo secolo sono oramai d’obbligo e si infittiscono. Colpisce, a una valutazione d’insieme, il progresso enorme che in questo secolo hanno compiuto tanto la scienza quanto la democrazia. I progressi della scienza sono stati grandiosi in ogni campo: dalla sanità all’astronautica, dalla psicologia alla sociologia, dall’antropologia all’archeologia. Quelli della democrazia possono sintetizzarsi così: il suffragio universale è diventato un modello generale delle forme di governo, il riconoscimento internazionale dei diritti umani, sociali, civili e politici si è consolidato in una sorta di Costituzione mondiale, una organizzazione internazionale degli Stati è attiva da mezzo secolo. Si tratta di un panorama consolante che bilancia in positivo le tremende negatività del ventesimo secolo: le guerre mondiali, i totalitarismi, gli odi ideologici etno-religiosi e razziali, gli imperialismi. Nondimeno nelle discussioni correnti attorno alla scienza e alla democrazia non costatiamo in Italia un adeguato apprezzamento come quello che dovremmo aspettarci. I dibattiti teorici e anche quelli connessi con la quotidianità attorno alla consistenza della scienza e della democrazia restano dominati da orientamenti che possiamo sintetizzare in questi due quesiti: “quali sono i limiti della scienza?” e “quali valori occorre importare nella democrazia?”. Si tratta, a ben vedere, di due quesiti da cui trapela chiaramente una valutazione almeno dubitativa sulla congruità della conoscenza scientifica e sull’adeguatezza della democrazia. Dietro i due quesiti si profilano molto pressanti orientamenti valutativi che hanno in comune l’idea della sostanziale insufficienza di scienza e democrazia nella impostazione e risoluzione dei problemi della conoscenza del mondo e del governo degli Stati. Questo comune * Questo inedito di Umberto Cerroni è il testo della relazione da lui tenuta il 29 novembre 1999 a Roma, nell’ambito del III Congresso Internazionale su “Malattie genetiche e malattie rare: Ricerca, servizi e comunicazione”, organizzato dall’Istituto Superiore di Sanità. Ringraziamo Fabrizio Rufo per averci dato la possibilità di pubblicarlo. 87
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stato di sostanziale inadeguatezza diventa palese se sviluppiamo i due quesiti prima ricordati. Per quanto concerne la scienza, infatti, se l’esistenza di limiti viene portata in primo piano rispetto ai risultati enormi già conseguiti significa che bisogna trovare alla scienza un supporto culturale e una protesi cognitiva che essa non possiede. Il discorso sul metodo della scienza deve dunque svoltare verso la ricerca di ciò che la scienza non può dare e quindi verso altre fonti cognitive. Si tratta – come è facile intendere – di una svolta molto grave: porta infatti fuori del territorio scientifico-razionale alla ricerca di risorse e strumenti non-scientifici e non-razionali. La conseguenza è che, come sempre, la critica della conoscenza esistente non apre il consueto percorso dal noto all’ignoto e il consueto itinerario di autosuperamento scientifico. Al contrario, quella critica obbliga alla inversione di quel percorso nella supposizione che soltanto ragionando sull’ignoto si può arricchire e sviluppare il patrimonio di ciò che è noto. L’inversione dell’itinerario segna l’abbandono della scienza nelle mani della non-scienza o della para-scienza e un sostanziale ritorno alle tradizionali dipendenze della ricerca scientifica dalle varie metafisiche, teologie e ideologie. Costituisce comunque una pausa distorsiva nella costruzione della scienza. Dai limiti attuali della nostra conoscenza scientifica si trae la legittimazione di metodi e percorsi a essa estranei quasicché l’attuale incapacità della scienza legittimasse la capacità di altre forme di conoscenza.
Incertezze e valori Non molto diverso si presenta il discorso attorno alla democrazia. L’accettazione crescente del sistema politico della democrazia è una caratteristica del nostro secolo. Ma questa accettazione non sempre riesce a dar conto teorico dei nessi profondi che la democrazia ha con le necessità e i bisogni della nostra epoca e resta spesso condizionata dalla visione tradizionale della politica quale si era costituita specialmente nell’Ottocento, alla nascita e ai primi sviluppi della società industriale. Lo prova la resistenza che a lungo hanno avuto le ideologie politiche nate appunto in quell’epoca (liberalismo, socialismo, comunismo) e la difficoltà che esse incontrano di fronte alla società postindustriale. Ma sospendo questo discorso osservando che in realtà l’introduzione del suffragio universale, sostanzialmente avversata o sottovalutata a lungo dalle suddette ideologie, ha profondamente cambiato lo stesso tessuto della politica nel ventesimo secolo. Preme invece notare che una persistente sottovalutazione della consistenza teorica della democrazia continua a manifestarsi su tutta l’area delle dottrine politiche. Questa situazione sembra analoga a quella della scienza. Si manifesta con la stessa insistenza sui “limiti” della democrazia, sulle “promesse non mantenute dalla democrazia”, sulla necessità di introdurre “valori” nella democrazia per adeguarla ai problemi e ai bisogni del88
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l’epoca. Questa curiosa analogia non ha esiti molto diversi. Conduce infatti a sottolineare l’insufficienza della democrazia, la sua mancanza di autonomia teorica, la sua imponente “incapacità” e quindi a invocare una sua integrazione. Il discorso merita attenzione. Affermare infatti che la democrazia possiede limiti e inadeguatezze è di per sé una constatazione legittima. Meno legittima, invece, è la pretesa di ricorrere anche in questo caso a una protesi esterna di valori imprecisati o, se precisati, attinenti a una sfera non-politica. Nel primo caso la richiesta di una integrazione significa sostanzialmente teorizzare una mancanza di valore nella democrazia. Ciò comporta di ridurre tendenzialmente la democrazia a un sistema di pure tecniche procedurali e di tralasciare la portata enorme che ha assunto il patrimonio dei diritti umani, sociali, civili, politici. Significa poi anche revocare in dubbio, pertanto, sia la centralità moderna della democrazia sia la sua autonomia da altre fonti di legittimazione (filosofie, teologie, ideologie). Di fatto quando i valori da importare vengono precisati si assiste a una formulazione di nessi, integrazioni, dipendenze che riportano la politica alle forme premoderne e principalmente alla non separazione fra politica e morale, fra diritto e morale, fra istituzioni e ideologie. Proprio la democrazia, invece, ancorando le decisioni della sovranità al suffragio universale, attesta il nesso funzionale che salda quelle decisioni alle volizioni pratiche individuali e quindi alla sfera del tutto esteriore della politica: la sfera degli interessi individuali e collettivi. La democrazia, per questo aspetto, è una imponente conferma proprio della separazione moderna tra politica e metapolitica (metafisica, teologia, speculazione filosofica). È, diciamo, una conferma di Machiavelli.
Conoscenza, politica e morale La dilatazione della scienza non è avvenuta nel vuoto. Non si è accompagnata soltanto alla diffusione pervasiva della tecnologia biologica, sanitaria, informatica. Si è accompagnata, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti, anche alla dilatazione del patrimonio giuridico del soggetto e quindi alla espansione del sistema dei doveri pertinenti agli Stati e alle agenzie pubbliche. Quel patrimonio oggi appartiene formalmente a tutti, uomini e donne, bambini e adulti, minori e anziani, bianchi e colorati, atei, cristiani, indù. Esso ha dimensioni tali che si può ben parlare di una globalizzazione politico-giuridica. Tanto più sorprende la scarsa consapevolezza che tutti abbiamo – compresi gli specialisti – della imponenza assunta dal diritto. Si aggiunga che proprio nel ventesimo secolo, a fianco di questa espansione dei diritti e della loro tutela internazionale si è anche avuta una forte crescita delle scienze sociali e umane: non solo della scienza giuridica, ma della scienza politica, della economia, della psicologia, della antropologia, della sociologia. Questa straordinaria espansione ha consentito di riprendere su basi più ampie e sviluppa89
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re importanti temi connessi con il rapporto fra scienza, morale e diritto. Si tratta, per intendersi, dei temi su cui nel lontano passato avevano dominato filosofia e teologia e sui quali aveva lavorato criticamente il pensiero moderno. Sia pure con inflessioni e profondità differenti è particolarmente da ricordare la separazione fra politica e morale impostata dal nostro Machiavelli e poi anche da Hobbes, Locke, Spinoza, Hume. Altri fondamentali contributi all’autonomizzazione delle nuove scienze dalla religione e dalla teologia morale sono poi venuti da Kant, Hegel, Feuerbach, Marx, Nietzsche. Il senso profondo di questi sviluppi va nella direzione di una integrazione delle conoscenze sociali in un quadro anche qualitativamete rilevante. In Italia, tuttavia, i suddetti sviluppi sembrano in ritardo notevole. Da più parti si è notato che in Italia resiste una impostazione moralistica dell’azione e del comportamento sociale. Si suol dire, per esempio, che a una etica della intenzione non si è contrapposta come in altri paesi una etica della responsabilità. Si vuol dire che azione e comportamento restano dominati da una morale religiosamente orientata alla salvezza dell’anima piuttosto che da una morale funzionale alla positiva consistenza dei soggetti umani indipendentemente dalle loro concezioni religiose o ideologiche. Forse possiamo ancora assumere come rappresentativi i contrapposti giudizi che Manzoni e Leopardi pronunciarono nella prima metà dell’Ottocento circa il rapporto tra politica, diritto e morale. Ecco che cosa scriveva Manzoni: ”Le leggi hanno un inconveniente necessario, ed è: che non possono creare un dovere senza far nascere un corrispondente diritto: bisogna quindi che ad ottenere il loro effetto armino l’uomo contro l’uomo. La religione impone dei doveri ad una parte, senza dar diritti all’altra; comanda all’offeso di perdonare, senza che l’offensore osi pretendere il perdono. Da questa differenza consegue che la Religione può prescrivere alcune cose bellissime ed utilissime che non possono prescrivere le leggi, perché i diritti che conferirebbero con ciò sarebbero cagione di gravissimi mali, la legge ne sarebbe inapplicabile, o distruttiva. La legge non deve parlare che quando abbia una quasi certezza di farsi obbedire; deve dunque avere la forza con sé; e in quanto impone cose che non si farebbero spontaneamente, essa non comanda che ai più deboli”. Manzoni, dunque, non solo avversa la separazione fra diritto, politica e morale ma considera negativamente la regolazione giuridica vedendo nella correlazione di diritti e doveri una conflittualità pericolosa. Esige pertanto una subordinazione del diritto e della politica alla morale. Ed ecco invece ciò che dice Leopardi: “La morale è una scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita, l’azione, la pratica della morale dipende dalla natura delle istituzioni sociali e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la politica non cospira con lei e non la fa regnare nella nazione. Parlate di morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto 90
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e la politica un fatto; la vita domestica, la società privata, qualunque cosa umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di un popolo”. Queste due concezioni giustapposte si fronteggiano in tutto il Novecento. Per esempio anche Croce cerca una storia etica che dia senso alla politica anziché cercare nella politica la costituzione di un’etica pubblica, civile. Sulla prima strada la democrazia non nascerà mai, sulla seconda è più facile saldare l’unità del popolo attorno a un interesse generale e civile. Anche i barbari, a modo loro, hanno mores e anzi soltanto questi: consuetudini e costumi da cui l’uomo civile rifugge. Il mondo moderno nasce appunto quando si produce un’etica civile generata dalla mediazione degli interessi laici della città, insomma quando nasce un’autorità politica capace di produrre un sistema formale di diritti e di doveri.
Interessi, diritti, doveri La cultura anglosassone, meno imbrigliata dalla eredità teologica, ha individuato abbastanza presto la Neutralità degli interessi individuali nella costruzione di un interesse collettivo condiviso. Così Hobbes ha visto che la convivenza politica nasce dalla necessità di tutelare interessi vitali di sopravvivenza. Locke fonda il suo sistema costituzionale contrapponendo al moralismo patriarcalista la tutela delle singole sfere individuali (“la libertà e i beni”). Hume, soprattutto, vede che la costruzione di una regolazione dei rapporti interindividuali scaturisce dalla progressiva trasformazione degli interessi in diritti e cioè in sfere di autonomia vicendevolmente garantite dalla legge. Poiché suppone che “l’interesse può essere limitato soltanto da un più grande interesse” egli intravede la possibilità di un’etica pubblica non dedotta da dogmi morali ma fondata sulla costruzione sociale di interessi condivisi che diventano pertanto interessi superiori. Proprio per questa condivisione gli interessi diventano diritti e doveri, cioè anche valori. Questa linea teorica supera i limiti che conservava ancora la morale razionalistica kantiana, distinta bensì dalla religione e dalla teologia, ma ancorata alla costruzione di regole universali dedotte dalla sfera coscienziale individuale, a prescindere – cioè – dalla preventiva ricognizione dell’alterità e del mondo e degli interessi. Per Kant occorre invece una morale disinteressata, capace di “sopprimere” gli interessi. È significativo che il culmine di questa morale kantiana sia la regola Fiat iustitia, pereat mundus (Sia fatta giustizia anche se il mondo deve perire). Hume aveva contrapposto a questa regola un’altra norma primaria: Salus populi, suprema lex (Salvezza della comunità è la legge suprema).Tutto sommato da questa norma si svilupperà la democrazia moderna. L’altra resterà ancora avvolta nel problema della personale salvezza ultraterrena. Oggi è essenziale sviluppare questa linea di costruzione dei valori come interessi individuali trasformati in diritti-doveri di tutti. La separazione da religioni, 91
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morale, ideologie diventa essenziale mentre cresce rapidamente la società plurietnica, multiculturale e multireligiosa. D’altra parte il ruolo del diritto riceve un potente influsso dal consolidarsi della democrazia. Si va strutturando lo Stato democratico di diritto basato su un una legge che, con il suffragio universale e le libertà moderne, è divenuta inequivocabilmente la comunis sponsio da cui nessuno è escluso: un valore supremo condiviso. Proprio questa trasformazione erode l’impianto formalistico e elitario del vecchio Rechtsstaat di estrazione bismarckiana e lo innesta sulle grandi libertà che sono ormai garantite dalla Costituzione e persino dal diritto internazionale. Non è dunque soltanto necessario, ma è anche possibile costruire un sistema di integrazione tra politica e diritto da cui scaturisca una moderna etica pubblica o civile fondata sugli interessi di tutti e tutrice perciò di un realistico, non dogmatico e non astratto Bene Comune. Questi stessi elementi danno fiducia anche alla libertà di ricerca. Nella nostra età tecnologica i timori per una degenerazione antiumanistica della ricerca sono appunto contrastati non già da astratti canoni moralistici che in passato hanno sempre ostacolato il progresso scientifico e anche perseguitato i ricercatori, ma dalle positive garanzie costituite dai diritti e dai doveri sanciti dall’ordinamento democratico e dalle convenzioni internazionali. Ogni altra strada rischia di suscitare pericolosissimi conflitti ideologici e religiosi. Si deve piuttosto chiedere una più profonda comunicazione e integrazione fra ricerca scientifica e cultura democratica sia nel senso che la ricerca deve recepire le domande di benessere, dignità e felicità che salgono dalle grandi masse dei “nuovi arrivati”, sia nel senso che quelle domande debbono organizzarsi nel quadro della moderna civiltà democratica e del fondamentale rispetto della scien-
Il filosofo Umberto Cerroni (1926-2007) è stato uno degli intellettuali protagonisti del dibattito sul marxismo italiano dell’ultimo mezzo secolo, con una significativa risonanza sulla scena teorica internazionale. Nato a Lodi, studia a Roma con Pilo Albertelli e si laurea nel 1947 in Filosofia del diritto. Dal 1964 insegna all’Università di Lecce e in seguito a Salerno e Napoli; dal 1976 è professore di Scienza della politica nella Facoltà di Sociologia della Sapienza Università di Roma. L’attenzione delle sue riflessioni teoriche si è concentrata sul nesso tra la tradizione dello stato di diritto e le nuove implicazioni della democrazia basata sul suffragio universale e sulla società di massa. In questo quadro ha ripensato il rapporto tra liberalismo e socialismo nato nell’Ottocento, sviluppando i temi del rapporto tra democrazia e impresa fino a teorizzare un “comunismo liberale”. È autore di una trentina di libri, tra i quali figurano in anni più recenti
Taccuino politico-filosofico (Manni, 2000), Le radici culturali dell'Europa (Manni, 2001), Globalizzazione e democrazia (Manni, 2002). 92
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Educare all’incertezza Silvia Caianiello
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ella sua accezione più generale, la filosofia della scienza – o epistemologia, secondo l’uso invalso specialmente nella tradizione anglosassone – è una branca della filosofia che ha per oggetto la natura della conoscenza scientifica. Il suo ruolo nella comunicazione della scienza non è mai stato messo in discussione; presente oggi in tutti i curricula formativi specializzati in questo senso, già nella codificazione dei primi progetti di “Comprensione Pubblica della Scienza” e “Alfabetizzazione Scientifica”, messi a punto nella seconda metà del Novecento in area anglosassone, era stata riconosciuta l’importanza di una formazione epistemologica – oltre che storica e sociologica – intorno alla “natura della scienza”. 1 Ma anche la crisi di questi modelli in anni recenti sembra conferire alla filosofia della scienza un ruolo di primo piano nel contesto dei cosiddetti “science studies”. Nella misura infatti in cui l’insuccesso di questi programmi è apparso legato a un’immagine diffusionista della trasmissione del sapere scientifico, come qualcosa che non può che procedere dall’alto della comunità scientifica verso il basso di una generica ignoranza, una comprensione critica – una “meta-informazione” – sui presupposti, gli orizzonti di validità, i procedimenti propri della scienza appare sempre più come un tassello decisivo nell’approssimarsi di una nuova frontiera: quella che, dalla mera alfabetizzazione, si è frattanto spostata verso una più estensiva “presa di coscienza scientifica” (“scientific awareness”), indispensabile per l’accesso ai diritti implicati dalla nascente “cittadinanza scientifica”. 2 1
Cfr. B.J. Alters, Whose Nature of Science?, Journal of Research in Science Teaching, 34, 1, 1997, pp. 39-55; M.R. Matthews, In Defense of Modest Goals when Teaching about the Nature of Science, Journal of Research in Science Teaching, 35, 1998, pp. 161-174, che da punti di vista diversi esaminano la crisi di questo obiettivo. 2 Cfr. M. Monk e J. Osborne, Placing the History and Philosophy of Science on the Curriculum: A Model for the Development of Pedagogy, Science Education, 81, 1997, p. 420. Sul concetto di meta-informazione cfr. A. Cerroni, Homo transgenicus, Franco Angeli, Milano 2003, p. 67. Sulla crisi del modello di Public Understanding of Science, cfr. N. Pitrelli, La crisi del “Public Understanding of Science” in Gran Bretagna, JCOM, 2 (1), March 2003. 93
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Della crisi di un’immagine dogmatica della scienza, l’epistemologia del Novecento non è stata solo spettatrice, ma protagonista. Inizialmente partecipe se non promotrice di un’immagine della scienza come mondo a sé, governato da una razionalità ottimale, ha poi contribuito in modo sostanziale a minarne le fondamenta, dando vita a un dibattito ancora aperto sulla validità della conoscenza scientifica e le sue condizioni effettive.
Certezza e normatività Alle origini dell’epistemologia contemporanea – come della sua professionalizzazione disciplinare – sta il grande programma di ricerca del positivismo, o empirismo logico, della prima metà del Novecento. Esso assume la scienza (pensata essenzialmente sul modello delle scienze “dure”) come la forma normativa del sapere intorno al mondo, mentre l’epistemologia ha come compito di chiarire (“giustificare” filosoficamente) la struttura della spiegazione scientifica, per poterla applicare a tutti gli ambiti del sapere umano. La chiarificazione di questa struttura, e delle condizioni che garantiscono la sensatezza delle proposizioni scientifiche, intesa sul modello della verificabilità empirica, ha una funzione di “demarcazione”: le teorie cui tale struttura risulta applicabile ricevono il marchio della scienza, le restanti vengono estromesse dal suo dominio. L’immagine della scienza da cui parte l’epistemologia contemporanea è dunque potentemente unitaria. Se essa non tematizza più esplicitamente la “certezza” cartesiana come fondamento della conoscenza valida, ne assicura però saldamente il rigore. Per quanto lontano possa apparirci oggi, il grand recit del neopositivismo mantiene indubbiamente un fascino etico e politico, cui la frammentazione attuale può ancora renderci sensibili. La riduzione – non priva di violenze – della molteplicità crescente dei saperi scientifici a un criterio veritativo unitario sembrava infatti rendere possibile in prospettiva una comunicabilità assoluta tra le scienze, suturando anche la frattura tra scienze umane e scienze naturali. Il compito normativo dell’epistemologia non è revocato in dubbio neppure nella critica al positivismo logico di Popper, che ne attacca soprattutto il modello induttivistico di verificazione; nella teoria fallibilista, infatti, la demarcazione tra scienza e non-scienza resta uno dei compiti principali dell’epistemologia. Nella visione di Popper, la scienza è un processo continuo e aperto di autocorrezione delle teorie attraverso “congetture e confutazioni”. La strutturale provvisorietà della conoscenza scientifica la pone dunque agli antipodi rispetto alla ricerca di certezze. Ma incertezza 94
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e normatività non sono in un rapporto di esclusione reciproca. La scienza è un’impresa razionale e progressiva, e le sue costruzioni provvisorie sono costantemente sulla traccia della realtà, la cui esistenza indipendente costituisce il banco di prova ultimo della “verosimiglianza” delle nostre ipotesi sul mondo. Non ci sembra improprio collegare l’assunto della razionalità – pur variando i criteri per misurarla – della impresa scientifica con la configurazione sociale della “scienza accademica” analizzata da Ziman negli anni ’90; 3 ma sarà proprio la possibilità di comprendere la produzione di credenze dotate di una pretesa di verità solo a partire da criteri intrinseci, “internalistici”, che sarà messa in crisi negli anni ’60 dalla epistemologia di Kuhn, che si fonderà in modo inedito con gli strumenti euristici della storia della scienza. La funzione normativa della epistemologia, correlata com’era originariamente alla elevazione della scienza a sapere intrinsecamente valido, era preceduta da una funzione descrittiva dei procedimenti effettivamente utilizzati dalla scienza per produrre la crescita delle conoscenze. Il metodo adottato da Kuhn consiste nell’utilizzare la storia della scienza come laboratorio per un’analisi di come effettivamente si siano prodotte e affermate le teorie scientifiche sui fenomeni naturali, per testare la loro effettiva razionalità. I risultati furono sconcertanti: le teorie che hanno prevalso sulle altre nel corso della storia non erano affatto sempre le più “razionali” in rapporto ai fenomeni che si prefiggevano di spiegare. Altri fattori, extrascientifici, dimostravano una notevole rilevanza nel gioco della competizione tra le teorie: fattori “politici” in senso lato, legati al prestigio di particolari scuole (gli effetti dell’autorità), o storici, come l’inerzia dei quadri teorici di riferimento nella percezione scientifica dei fenomeni (la carica di teoria presente nell’osservazione stessa). Non risultava più possibile assumere la razionalità come un valore intrinseco del procedere scientifico; essa assumeva piuttosto le sembianze, come dirà Laudan, di una “macchina da guerra” messa di volta in volta in campo sul terreno di una competizione strettamente interconnessa con condizioni storico-culturali determinate. L’immagine di Kuhn dell’evoluzione delle teorie scientifiche non è tuttavia pessimista. La sua visione in qualche misura è ancora unitaria: il “paradigma” che assume il dominio in una determinata epoca costituisce una rivo3 J. Ziman, Il lavoro dello scienziato: gli aspetti filosofici e sociali della scienza e della tecnologia, Laterza, Bari-Roma 1987.
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luzione “gestaltica”, e deve il suo prestigio alla capacità pragmatica di risolvere problemi e venire a capo di anomalie lasciate irrisolte dal paradigma precedente. Esso produce unità in quanto tutta la comunità scientifica lo assimila rapidamente e orienta in base a esso le sue ricerche, producendo la lunga fase della scienza normale, fino alla rivoluzione successiva, nel cui stato nascente vige un’anarchia e un dissenso generalizzato. Ma gli esiti della riforma kuhniana dell’epistemologia sono indubbiamente relativistici, e aprono una fase nuova di studi, che influenzerà anche lo sviluppo di molte discipline che oggi formano gli “science studies”, incluse quelle che produrranno le versioni più estreme di relativismo, come la sociologia della scienza. Nello stesso periodo, verso la fine degli anni ’60, Quine revoca in dubbio la possibilità stessa che l’epistemologia possa ascriversi il compito di una giustificazione della verità. Lo smantellamento sistematico dell’apparato concettuale legato all’impegno normativo, e a qualsiasi residua velleità da parte della filosofia di “fondare” la scienza, finisce per mettere in causa la stessa separazione di principio tra filosofia e scienza, promuovendo una naturalizzazione dell’epistemologia. Quine riprende una celebre metafora di Otto Neurath, secondo la quale la conoscenza è come una nave che i marinai devono riparare nel corso della navigazione, sostituendo pezzo dopo pezzo; non esiste dunque luogo di quiete esterno alle scienze empiriche da cui contemplare il loro funzionamento. Per ricostruire i processi cognitivi in gioco nella produzione di credenze efficaci, la filosofia deve divenire anch’essa una scienza empirica, una psicologia che descriva come dalla povertà delle esperienze sensibili – unica fonte della nostra conoscenza del mondo – si genera la ricchezza delle nostre teorie. Normatività e funzione di demarcazione sono evidentemente inscindibili nell’epistemologia. La conseguenza dell’abdicazione al suo status normativo è stata la dismissione del problema della demarcazione dall’epistemologia. Come è stato recentemente osservato, “è paradossale che nelle ultime decadi, il problema della demarcazione abbia perso visibilità nelle cerchie filosofiche proprio mentre la scienza e la tecnologia acquisivano un’autorità senza precedenti”. 4 Ma questo paradosso non ha mancato di essere percepito da alcune corren4
T. Nickle, Problem of Demarcation, in Philosophy of Science. An Encyclopedia, a cura di S. Sarkar e J. Pfeiffer, Routledge, New York-London 2006, vol. 1, pp. 188 sgg. Sul concetto di cittadinanza scientifica cfr. P. Greco, L’università del XXI secolo, JCOM, 6 (2), June 2007; S. Jasanoff ha introdotto anche il termine di “cittadinanza epistemica”.
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ti di pensiero contemporanee, persuase dell’impossibilità di scotomizzare la prospettiva “internalistica” della validazione dei procedimenti conoscitivi con il carattere sociale e “situato” della scienza nella vita civile. In particolare nell’epistemologia sociale di Goldman, 5 il problema della demarcazione è tornato a riproporsi come compito etico primario della filosofia della scienza. Prendendo le mosse da un naturalismo “moderato”, egli rivendica all’epistemologia la possibilità di una funzione normativa, nel contesto di una valutazione e incentivazione pubblica delle istituzioni – sia quelle di produzione della conoscenza scientifica sia quelle dedicate alla sua trasmissione e comunicazione – valutate credibili in base a un criterio “affidabilistico”, di massimizzazione del numero di conoscenze vere e minimizzazione del numero degli errori. La valutazione della scienza non può essere affidata al libero mercato dell’offerta e della domanda, ma necessita di una regolazione statale in grado di tenere a freno la pressione crescente degli interessi economici e militari in gioco nella “Big Science”. Solo una politica scientifica che ponga in essere le condizioni sociali per una convergenza ottimale tra verità e credito può indurre scienziati, giornalisti, educatori a un ethos della verità nell’era post-accademica della scienza. L’inclusione nella regolazione epistemologica di tutti gli attori in gioco – che ha portato a tematizzare anche un’epistemologia del giornalismo – è condivisa, seppure con presupposti ed esiti variegati, anche da Steve Fuller e dagli altri esponenti dell’epistemologia sociale. 6 Altre correnti attuali dell’epistemologia, tra le quali in particolare l’epistemologia storica, debitrice in particolare della tradizione foucaultiana, condividono l’assunto di una inseparabilità tra fattori “internalistici” (relativi alla scienza in sé) ed “esternalistici” (relativi al riscontro sociale dell’attivitá scientifica) nella riflessione filosofica sulla scienza, e la necessità che l’epistemologia “si riconnetta a una più ampia tradizione di impegno filosofico con la politica della conoscenza”. 7
5
A.I. Goldman, Knowledge in a Social World, Clarendon Press, Oxford 2000. Un tentativo di approccio pragmatico al problema della demarcazione, cfr. D.B. Resnik, A Pragmatic Approach to the Demarcation Problem, Studies in the History and Philosophy of Science, 31, 2, 2000, pp. 249-267; un esempio interessante delle difficoltà di portare avanti questo programma all’interno del relativismo delle posizioni costruzioniste, è S. Jasanoff, Beyond Epistemology: Relativism and Engagement in the Politics of Science, Social Studies of Science, 26, 2, 1996. 7 M. Tiles, J. Tales, An Introduction to Historical Epistemology: the Authority of Knowledge, Mass., Blackwell, Oxford-Cambridge 1993, p. 207. 6
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Pluralismo epistemologico e unità della natura La spinta del naturalismo epistemico a ristabilire un rapporto vivo e interno con le scienze non è estranea al fenomeno recente della pluralizzazione delle epistemologie, che costituisce l’attuale scenario sfaccettato delle “filosofie delle scienze”, ambito che ha nuovamente messo in discussione il confine tra le due culture, estendendosi all’economia, la psicologia e le scienze sociali. 8 Questa pluralizzazione – che implicherebbe tra l’altro curricula accademici interdisciplinari che nell’assetto istituzionale italiano restano pura utopia 9 – riflette la complessità delle tensioni esistenti, in campo epistemologico, dopo la messa in discussione dell’approccio riduzionistico, che tradizionalmente privilegiava gerarchicamente le scienze dure, e dei suoi ripetuti fallimenti. La posta in gioco nella diversificazione delle epistemologie non è solo e tanto la sanzione di un pluralismo epistemologico, che attesti un rapporto non gerarchico tra i metodi e oggetti diversi delle diverse discipline, quanto la produzione di modelli e teorie in grado di interrelare tra loro la crescente frammentazione di molte “ontologie regionali”, secondo l’antica definizione husserliana. Tuttavia, i tentativi di riunificare la disseminazione di immagini settoriali del mondo non si giocano più tanto intorno all’ideale di una riunificazione delle scienze in vista di una trasparenza finale dell’ordine della natura, quanto nella prospettiva della complessità del reale, che la si rappresenti come modellizzazione di sistemi complessi o come concatenamento tra livelli di realtà dotati di maggiore o minore autonomia. 10
Prospettive di dialogo Le basi sulle quali si avverte ora l’esigenza di costruire una “nuova atmosfera di dialogo” paritetico tra la scienza e la società 11 presuppongono una
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Cfr. N. Vassallo (a cura di), Filosofie delle scienze, Einaudi, Torino 2003; utilissima, e fortemente innovativa per la sua modalità di pubblicazione, è la collana di e-books curata da L. Floridi, Linee di Ricerca, che comprende una raccolta di introduzioni a varie discipline filosofiche, gratuitamente accessibili sul sito dello SWIF (www.swif.biblioteca/lr). In particolare sui temi trattati cfr., M. Dorato, Filosofia della scienza-Fondamenti delle scienze, N. Vassallo, Teorie della conoscenza, Laterza, Bari 2003 e G. Piazza, Epistemologia sociale, Milano 1997. 9 La questione dell’inserimento della filosofia della scienza nei curricula accademici scientifici è stata sollevata nel Rapport sur l’enseignement de la philosophie des sciences au ministre de L’Education nationale, de la Recherche et de la Technologie di D. Lecourt, 1999, vedi http://pedagogie.ac-toulouse.fr/philosophie/ensei/rapportlecourt.htm, diffuso recentemente anche in Italia. 10 Cfr. D. Parisi, Otto punti sulla comunicazione della scienza, Jekyll. comm, 1, marzo 2002. 11 House of Lords, Science and Society, Her Majesty’s Stationary Office, London 2000. 98
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analisi assai più fine delle domande che il pubblico pone alla scienza. La consapevolezza acquisita negli ultimi anni dell’estrema varietà nell’utilizzo sociale della scienza ha portato a complicare l’immagine dell’opinione pubblica fino a moltiplicarla in una congerie di pubblici diversi, caratterizzati da temi, interessi e fini a loro volta estremamente “situati”. 12 La gestione biotecnologia del corpo, la valutazione dei rischi collegati all’evoluzione delle tecnologie per la salute e per l’ambiente, sono tra gli esempi più evidenti che nel rapporto tra scienza e società tende a riprodursi sempre più drammaticamente il paradosso segnalato da Wolpert: “la scienza non può essere altro che provvisoria, […] il pubblico ha bisogno di certezze”. 13 Il paradosso di Wolpert va al cuore di uno dei problemi fondamentali del dialogo tra scienza e società. Ossia all’incommensurabilità tra l’“epistemologia dell’incertezza” 14 che è ormai parte integrante della visione attuale della scienza, anche quando essa non abiura al compito della normatività, e l’esigenza sociale di appropriazione, a livello individuale come collettivo, degli avanzamenti nella conoscenza e nella trasformazione della natura che scienza e tecnologia producono ininterrottamente. Se esiste un accresciuto bisogno di filosofia nel nuovo scenario dialogico tra la scienza e la società, evidentemente non può prescindere dal recupero dell’accezione moderna della filosofia come sapere critico, che fornisce gli strumenti per identificare le opzioni filosofiche – e in senso lato extrascientifiche – che sono parte integrante della modellizzazione scientifica della realtà. L’approfondimento di queste opzioni, promosso dall’epistemologia del tardo Novecento, non rende tuttavia possibile semplicemente separare la questione “epistemologica” della natura della scienza da quella “etica e politica”. 15 Se l’epistemologia ha un ruolo importante nell’educazione all’“incertezza” della scienza, non può non averlo anche nel ristabilire, nella negoziazione continua tra istanze etiche, politiche e sociali che costituiscono il campo della cittadinanza scientifica, le condizioni per la legittimi-
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Sull’evoluzione del concetto di opinione pubblica a partire da Habermas, cfr. R. Cooter, S. Pumfrey, Science in Popular Culture, History of Science, 32, 1994, pp. 236-267. 13 L. Wolpert, La natura innaturale della scienza (1992), Dedalo, 1996. Cfr. P. Donghi, Sui generis, Laterza, Bari 2006, p. XIII: “comunicare la scienza significa rendere consapevole l’opinione pubblica del potenziale democratico inerente a questa incertezza, proprio a misura dell’intrinseca fallibilità dell’impresa”.14 B. De Marchi, M. Tallachini, Politiche dell’incertezza, scienza e diritto, Introduzione a Notizie di Politeia, 70, 2003, p. 3; G. Sturloni, Gestire l’incertezza, “Journal of Science Communication”, (4), December 2004. 15 Come sembra suggerire Matthews, cit. 99
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tà della sua autonomia. Lontano da qualsiasi sacralizzazione fideistica, è necessario promuovere una concezione laica dell’impresa scientifica come sapere aperto all’autocorrezione, la cui storia ne sancisce l’appartenenza al “progresso paradossale di una ragione che, pur essendo in tutto e per tutto storica, è tuttavia irriducibile alla storia”. 16 ■
Silvia Caianiello è ricercatrice presso l’Istituto per la “Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno” del CNR di Napoli. Dal 2001 al 2006, è stata professore a contratto presso la seconda Università di Napoli per gli insegnamenti di Storia delle scienze e Filosofia della scienza. È membro del Centro interuniversitario di ricerche storiche ed epistemologiche sulle scienze del vivente. Attualmente è visiting scholar presso il Max Planck Institute for the History of Science di Berlino. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Scienza e tempo alle origini dello storicismo tedesco (Liguori, 2005); Tavola rotonda virtuale intorno al libro di Giulio Barsanti Una lunga pazienza cieca.
Storia dell’evoluzionismo, in Laboratorio dell’ISPF (www.ispf.cnr.it/ispf-lab), III, 2006, 2; Energetica e tempo in Freud, in “Iride”, XIX, 2006, 49.
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P. Bourdieu, Le champs scientifique, Actes de la recherche en sciences sociales, 2, 3, 1976, pp. 88-140. 100
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L’industria chimica in Italia Gianni Paoloni
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a vicenda dell’industria chimica italiana è normalmente considerata come una “occasione mancata”: con questa espressione si è soliti indicare un’opportunità che si poteva cogliere, ma che non è stata vista o non è stata adeguatamente utilizzata. Ma è davvero questo il caso dell’industria chimica italiana? Sviluppatasi dopo l’Unità d’Italia appoggiandosi soprattutto all’industria estrattiva, con un significativo retroterra di ricerca, accademica e non (la grande scuola di Stanislao Cannizzaro), l’industria chimica italiana spiccò il balzo verso la dimensione adulta e moderna con la progressiva espansione della Montecatini. Nata nel 1888 come industria mineraria, la Montecatini divenne una grande impresa chimica a opera di Guido Donegani, che ne assunse la direzione nel 1910. Donegani aveva grande fiducia nel futuro dell’industria chimica in Italia, poiché essa si presentava come un settore ad alto valore aggiunto, nel quale la dipendenza dall’importazione di materie prime era meno rilevante rispetto alla siderurgia. Per questo, dopo una prima fase di espansione mineraria nel settore delle piriti, decise di entrare nella produzione dei fertilizzanti, con l’acquisizione di due imprese già operanti in questo campo. Le considerazioni che guidavano questa decisione erano sostanzialmente due: la possibilità di mettere mano, all’interno dell’impresa, a una strategia di integrazione verticale della produzione e l’idea che i fertilizzanti, in un paese in cui la principale attività economica era l’agricoltura, erano il prodotto che per primo avrebbe potuto beneficiare del mercato interno. Aspetto tecnico cruciale in questa impresa era la sintesi dell’ammoniaca. Donegani decise di adottare una strategia innovativa e “aggressiva”: invece di acquistare le licenze per produrre ammoniaca dall’industria tedesca BASF mise a punto e brevettò un processo indipendente. La cosa fu possibile grazie all’incontro nel 1921 con uno “scienziato-tecnologo” di grande valore, Giacomo Fauser, un ingegnere chimico che aveva concepito un processo per la produzione di ammoniaca, basato sull’ottenimento di idrogeno per elettrolisi. 101
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L’anno seguente, il 1922, entrò in funzione a Novara un primo impianto semi-industriale con una produzione giornaliera programmata di 100 Kg di ammoniaca. Negli anni successivi altri impianti vennero realizzati a Sassari, nei pressi di Merano, a Belluno, a Crotone, e in seguito in diversi paesi del mondo, decretando il successo dell’impresa iniziata da Donegani. La crescita, vertiginosa negli anni Venti e Trenta, della Montecatini non era tuttavia dovuta soltanto alla capacità imprenditoriale di Donegani e allo straordinario nucleo di ricercatori che l’affiancavano. Molto doveva anche al sostegno del regime fascita e alla politica economica di Mussolini. Nei primi anni del dopoguerra, infatti, la Montecatini attraversò un periodo difficile al punto da rischiare la nazionalizzazione a causa della posizione sostanzialmente monopolistica da essa raggiunta e della volontà di colpire un “profitto di regime”, ottenuto grazie al duplice controllo del governo fascista sui prezzi dei prodotti chimici (elevati) e sui salari dei lavoratori (molto bassi). Con l’avvento del centrismo e l’esautorazione della sinistra la paura della nazionalizzazione passò e nel 1949 la gestione della società venne assunta da Piero Giustiniani e Carlo Faina. La Montecatini si trovò però a fronteggiare una competizione interna al paese alla quale non era abituata: verso la fine degli anni Quaranta, infatti, nel mercato dei fertilizzanti azotati aveva cominciato ad affacciarsi l’Edison. La più antica società italiana di energia elettrica temendo la nazionalizzazione dell’energia elettrica aveva infatti cominciato a diversificare le proprie attività puntando sulla chimica. All’inizio degli anni Cinquanta, dunque, la Montecatini guidata da Giustiniani si trovava a dover inventare una nuova strategia di sviluppo per fare fronte alla mutata fisionomia dell’industria chimica internazionale e alla concorrenza interna nel suo settore portante tradizionale, quello dei fertilizzanti. Era necessario trovare qualcosa che potesse svolgere nei decenni a venire un ruolo analogo a quello svolto dai prodotti azotati e da Fauser nel trentennio precedente: Giustiniani puntò sulla petrolchimica e sul gruppo di Giulio Natta, un chimico del Politecnico di Milano che svolgeva ricerche di punta nel campo dei polimeri. Ebbe così inizio la più grande avventura tecnologica dell’industria chimica italiana, quella basata sul polipropilene, nel momento di grande espansione della plastica. Oltre a un numero enorme di pubblicazioni e a un Nobel per la chimica, il lavoro del gruppo di Natta fruttò oltre 500 brevetti: le royalties che ne derivarono alla Montecatini mantennero in attivo per molti anni la bilancia nazionale dei pagamenti tecnologici. Nel frattempo cominciavano a sorgere in Italia, a opera dell’Ente nazionale idrocarburi (ENI) e dell’ Edison, ma anche di imprenditori associati ad aziende americane, diverse raffinerie e altri impianti petrolchimici. 102
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La svolta nell’attività chimica dell’Edison avvenne nel 1955, quando la società si convinse definitivamente delle grandi possibilità offerte dall’uso del petrolio come materia prima, anche in considerazione delle opportunità commerciali che si sarebbero presentate con la creazione ormai prossima del Mercato comune europeo. L’ENI non rimase a guardare e dopo aver scatenato nel 1958 una vera e propria guerra dei prezzi sui concimi azotati, si preparò ad avviare il petrolchimico di Gela, che fu aperto nel 1960. Grazie a questo impianto l’ente attestava la sua posizione nel settore petrolchimico e rafforzava quella che già da tempo aveva nella raffinazione. Fra le imprese di dimensioni inferiori che cominciavano a far sentire la loro presenza va ricordata la Società Italiana Resine (SIR) di Nino Rovelli. Nel panorama dell’industia chimica italiana questo gruppo rappresentava, nel 1961, appena il 2% del fatturato, ma con i suoi stabilimenti (Solbiate, Macherio, Codorno, Paderno, Sesto) era una realtà di un certo valore per la Lombardia e, nel comparto delle resine termoindurenti, di una certa rilevanza a livello nazionale. La struttura del gruppo era inoltre completata da un’azienda operante nel ramo dei prodotti per la casa la Salcim-Brill, presente anche in Sardegna, dove dal 1956 possedeva a Olbia uno stabilimento per la produzione di lucido da scarpe. Da qui partì Rovelli per la costruzione del Petrolchimico di Porto Torres. Un fatto nuovo, che si sarebbe rivelato di grande importanza per la vicenda storica della petrolchimica stava intanto maturando a livello politico: negli anni 1957-1958, come ricorda in una recente testimonianza Vincenzo Scotti (che allora si occupava a fianco di Giulio Pastore dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno), si chiudeva una prima fase di attività della Cassa per il Mezzogiorno, “in cui era stata prevalente la creazione di infrastrutture di base con interventi mirati soprattutto alla viabilità, alla trasformazione in senso irriguo dell’agricoltura meridionale e più in generale all’approvvigionamento idrico” e ne iniziava un’altra che aveva come obiettivo la trasformazione industriale. “Gli strumenti di cui si dota la politica di intervento nel Mezzogiorno in quella fase sono da una parte gli incentivi (crediti agevolati e contributi a fondo perduto), che nella prima fase sono concentrati al sostegno della piccola e media impresa, e dopo il 1959 si estendono alla grande impresa anche con le agevolazioni rivolte alle singole ‘unità produttive’, come si disse allora; e dall’altra l’intervento delle Partecipazioni statali, secondo la concezione soprattutto di Pasquale Saraceno per cui, dove in un mercato le convenienze economiche non si determinano ma occorre favorire il processo di industrializzazione, deve essere un intervento diretto dello Stato ad assumersi l’onere del differenziale di produttività e dei costi di partenza di un investimento industriale”. L’assegnazione di tali contributi a iniziative petrolchimiche non fu esente da cri103
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tiche né, come si vedrà, dal sistematico aggiramento di alcune disposizioni della legge stessa, relative alla dimensione delle iniziative finanziabili. Si decise di battere la via della chimica di base seguendo l’esempio di quanto avveniva in Sicilia, dove vicino ad Augusta, erano presenti due grosse iniziative petrolchimiche, la Edison di Priolo e la raffineria di Ragusa costruita da Angelo Moratti, e dove sembrava essere possibile uno sviluppo a valle nelle lavorazioni a più alto valore aggiunto (l’iniziativa Edison-Union Carbide appariva come una conferma in tal senso). Si determinò così la dislocazione nel Sud di nuove e importanti iniziative chimiche: prima tra queste il petrolchimico di Brindisi della Montecatini. L’opzione petrolchimica non era, a quanto oggi è dato di capire, la prima scelta degli uomini chiamati a gestire l’intervento straordinario per la “trasformazione industriale” del Mezzogiorno: piuttosto, era il risultato combinato della riluttanza di altri comparti produttivi a localizzare nuovi impianti nel meridione e dell’intraprendenza delle imprese chimiche nel farsi avanti per usufruire degli incentivi. Vi fu infatti una resistenza insormontabile, da parte della media e grande industria italiana del Centro-Nord a localizzare nel Mezzogiorno iniziative nuove e competitive riconducibili a settori industriali tradizionalmente radicati nell’Italia centrale e settentrionale: una resistenza che trovò espressione nella polemica sollevata sui cosiddetti “doppioni”. Gli investimenti petrolchimici potevano, invece, facilmente trovare una convenienza a localizzarsi al Sud: in aree affamate di lavoro era facile ottenere il consenso delle autorità locali e delle popolazioni senza badare troppo all’ambiente, alla sicurezza dei lavoratori, ai diritti sindacali. Come conferma l’interpellanza del 1966 di Riccardo Lombardi sull’assenza delle più elementari libertà sindacali al petrolchimico di Porto Torres, alla quale il ministro Giulio Pastore rispose in maniera fortemente imbarazzata. Il fenomeno del resto non riguardava solo la SIR e la Sardegna: lo stesso si era verificato a Brindisi e a Priolo. “Certamente in quegli anni – come spiega Scotti senza mezzi termini – la sensibilità ambientale era molto ridotta: i processi di sviluppo e le tematiche dell’occupazione prevalevano su altre scelte strategiche di tutela dell’ambiente e di salvaguardia di un equilibrio sostenibile. Ma è questo il quadro in cui maturarono quelle scelte”. Gli incentivi erano particolarmente appetibili per un’industria che richiedeva forti investimenti iniziali e prometteva una redditività alta sebbene differita nel tempo. La nuova fase dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno finì quindi per basarsi sugli impianti siderurgici delle Partecipazioni statali e sulla petrolchimica sovvenzionata: l’obiettivo era che questi investimenti fossero elemento trainante per l’avvio di ulteriori iniziative nella meccanica e nella chimica fine. Mai speranza fu peggio riposta. Gli investimenti nella chimica di base drenarono per circa un decennio le maggiori risorse finanziarie del paese, avvitandosi in una guerra 104
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di potere sullo sfondo di torbide vicende politico-finanziarie, che sperperarono gli indennizzi elettrici ricevuti dalla Edison e costarono molto al contribuente. La fusione fra Edison e Montecatini, inoltre, diede vita a un colosso che gradualmente divorò le capacità tecnologiche interne, operando in una logica puramente finanziaria, senza alcun significativo investimento in ricerca. Il risultato fu che quando i fattori competitivi rappresentati dal credito agevolato e dalla scarsa attenzione per l’ambiente cessarono, in drammatica coincidenza con l’aumento dei prezzi della materia prima (il petrolio) determinato dalle vicende politiche mediorientali, la chimica italiana (ad eccezione di quel che rimaneva dell’antica esperienza del gruppo Natta) si trovò a non poter più competere sul piano dell’innovazione di prodotto e di processo. Gli ultimi pezzi di quella chimica sono stati venduti nel 1997 con l’uscita di Montedison da Montell, una joint-venture al 50% col gruppo petrolifero Shell. Era la definitiva uscita da un settore che trent’anni prima era stato visto come l’asse portante per la costruzione di una forte industria chimica in Italia: “La chimica italiana – commentava nel 1997 Turani – è stata anche, in un certo senso, la fossa di Enrico Cuccia, il patron di Mediobanca. E questo perché certamente nessuno più di lui ha trafficato con gli alambicchi e gli steam-cracker. Per circa trent’anni ha cercato di essere il regista della chimica italiana. Il regista di un teatro in cui nessuno aveva il copione e in cui giorno dopo giorno venivano smontate le scene e portati via gli addobbi”. Lo stato d’animo dei ricercatori Montedison che si occupavano di polipropilene è stato recentemente descritto dalla testimonianza di tre dirigenti (oggi in pensione) della Polymer di Terni. “Noi non lo chiamavamo saccheggio – scrivono Paolo Maltese, Paolo Olivieri e Francesco Protospataro – ma ‘assalto alla diligenza’, anche perché si svolgeva in più fasi in quanto il nostro viaggio bene o male continuava e occorreva guardarsi continuamente da nuovi assalitori, proprio come nei migliori film western. Per noi in genere si trattava di accogliere profeti sempre nuovi, un’autentica orda di sedicenti manager, che prima ci dicevano che stavamo perdendo tanto, che i precedenti amministratori erano stati malaccorti ai limiti del lecito e che bisognava rimboccarsi le maniche e che il nuovo verbo era quello di cui erano portatori; dopo alcuni avvicendamenti al vertice senza alcun cambiamento significativo, ci era chiaro che niente di miracoloso sarebbe successo e che i soldi che avremmo guadagnato sarebbero serviti a turare falle di cui non sapevamo né prevedere l’origine né la possibile copertura. La filosofia era quella che gli amministratori e gli alti manager cambiavano, magari portandosi dietro mostruose liquidazioni, mentre noi coi nostri collaboratori saremmo rimasti per cercare, come sempre, di rimediare col lavoro ai loro errori”. Questa situazione fece sì che la Montedison non riuscisse mai a superare davvero la crisi di strategie iniziata ne105
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gli anni Sessanta: la mancanza di continuità nell’indirizzo industriale portò infatti alla graduale cessione dei diversi pezzi di attività, senza investimenti alternativi e con finalità puramente finanziarie, fino a dissolvere di fatto la struttura produttiva del gruppo, con un enorme danno complessivo, a carico dell’industria chimica italiana e dell’intero sistema economico nazionale. Chiosava Renato Ugo, uno dei grandi esperti del settore: “La vendita dell’argenteria per ripianare i debiti è generalmente l’atto finale del tramonto di famiglie, una volta nobili e facoltose, ma che hanno dissipato, a causa di rampolli incapaci e incolti, la propria ricchezza materiale e morale. Davanti ai debiti c’è poco da fare”. Per tornare alla domanda iniziale, appare chiaro che l’industria chimica italiana non ha scontato mancate opportunità di sviluppo ma, piuttosto, una gestione miope basata sull’idea che si potesse avere una competitività senza ricerca e ha distrutto una grande industria che già c’era. In questo caso non si può parlare di “occasione mancata”, ma del fallimento di una strategia industriale sbagliata. ■
Bibliografia E. Scalfari, G. Turani, Razza padrona, Feltrinelli, Milano 1974. F. Amatori, B. Bezza (a cura di), Montecatini 1888-1966. Capitoli di storia di una grande impresa, Il Mulino, Bologna 1990. G. Lanzavecchia, P. Saviotti, A. Soru, La Montecatini-Montedison e l’industria chimica italiana, in L’evoluzione delle industrie ad alta tecnologia in Italia, a cura di C. Bussolati, F. Malerba, S. Torrisi, Il Mulino, Bologna 1996. L. Cerruti, Bella e potente. La chimica del Novecento fra scienza e società, Editori Riuniti, Roma 2003. S. Ruju, La parabola della petrolchimica. Ascesa e caduta di Nino Rovelli: sedici testimonianze a confronto, Carocci, Roma 2003. P. Maltese, P. Olivieri, F. Protospataro, Il polipropilene: una storia italiana, Thyrus, Terni 2003.
Giovanni Paoloni insegna Archivistica generale all’Università di Roma “La Sapienza”. Esperto di storia della scienza, della tecnologia e dell’industria in Italia, ha curato il catalogo della mostra storico-documentaria Guglielmo Marconi e l’Italia e, per l’editore Laterza, i volumi Per
una storia del Consiglio Nazionale delle Ricerche e La città elettrica. Esperienze di elettrificazione urbana in Italia e in Europa fra Ottocento e Novecento. Con questi volumi, così come nel Convegno internazionale“Lingua italiana e scienze”, organizzato dall’Accademia della Crusca nel 2003, ha contribuito a ricostituire il percorso evolutivo (in Italia e in Europa) del sapere scientifico moderno e dei suoi rapporti con la realtà civile, economica e sociale. 106
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Se a decidere non sono gli scienziati Yurij Castelfranchi e Nico Pitrelli
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alla fecondazione assistita al nucleare, dagli OGM alle cellule staminali, gli interrogativi posti dagli sviluppi della scienza e della tecnologia hanno attivato una forte discussione e riflessione sul ruolo che noi, in quanto cittadini, possiamo giocare nelle decisioni riguardanti il nostro benessere, il cibo che vogliamo mangiare, le cure mediche che vogliamo seguire. Su come affrontare e gestire lo scontro fra esigenze della ricerca, interessi economici, orientamenti etici e visioni pubbliche della scienza in contrapposizione tra di loro non c’è una soluzione facile a portata di mano. Risulta però chiaro che molte tensioni recenti tra scienza e società sono caratterizzate dalla rottura di un rapporto di fiducia. Proprio su questo concetto, non a caso, nel 2000 insisteva un importante documento dell’House of Lord britannica intitolato “Science and Society”, 1 in cui si faceva una dura requisitoria al modello unidirezionale di diffusione e circolazione della informazione scientifica sostendendo che, ad esempio casi clamorosi come la BSE, dimostravano quanto ci fosse bisogno di produrre un cambiamento radicale nella comunicazione scientifica per rendere effettivo un maggiore dialogo con i cittadini. Anche ai politici risultava sempre più chiaro che il sapere medico-scientifico non si trasmette e circola solo attraverso canali classici: educazione scolastica , “divulgazione” da parte di istituzioni scientifiche, singoli scienziati o divulgatori di professione verso un pubblico generico. Ma si diffonde, viene fatta propria, discussa, utilizzata e negoziata da soggetti sociali diversi anche attraverso flussi di informazione trasversali.
La scienza prodotta, riprodotta, appropriata Questo modo di circolazione e negoziazione sociale della scienza include, in certa misura, anche forme di produzione di conoscenza scientifica in ambiti che non sono quelli tradizionali della ricerca governativa o industriale. Nume1
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rosi gruppi sociali scambiano scienza fra loro senza passare necessariamente per la delega agli esperti tecnoscientifici o agli scienziati. Gruppi organizzati in difesa dei diritti dei pazienti possono oggi scambiare fra loro informazioni scientifiche on line e servirsene per fare lobbying politica, per esempio chiedendo la sospensione del pagamento di royalties su medicinali salvavita, proponendo che la ricerca di nuove terapie prenda determinate direzioni o, ancora, esigendo l’approvazione rapida di un farmaco. Accade anche che pazienti o gruppi di pazienti, con studi e paper alla mano, negozino e discutano con i medici, portando il concetto di consenso informato a un nuovo livello, di copartecipazione e azione diretta nella condotta terapeutica. Esemplare, e piuttosto studiato è il caso dei gruppi di militanti gay e delle associazioni di pazienti di Aids negli Usa. 2 Nel 1988 gli attivisti della coalizione Aids Coalition to Unleash Power (Act Up) inscenarono una spettacolare manifestazione all’Università di Harvard, nel primo giorno di lezione. Gridavano, fra gli altri slogan: “siamo qui per sfidare ciò che Harvard chiama ‘buona scienza’”. Simbolicamente, ciò che stava accadendo era che gruppi organizzati (e molto ben informati) erano in grado di mettere in discussione ambiti un tempo considerati interni alla scatola nera della tecnoscienza ed esterni alla politica e all’agire sociale (per esempio, la metodologia dei test clinici). Erano gruppi che chiedevano, a gran voce, di partecipare alle decisioni non solo strettamente terapeutiche, ma anche quelle riguardanti i protocolli di ricerca, l’etica medica, le politiche di investimento sulla ricerca. 3 Gli attivisti della comunità gay riuscirono così “a essere notevolmente efficaci nell’ottenere e divulgare informazioni sulla malattia e sulla terapia. Inoltre, essi contribuirono al dibattito scientifico e medico, nella misura in cui passarono a svolgere un ruolo importante nella costruzione della lista di priorità per la ricerca sull’Aids, a volte compiendo persino ricerche proprie. Si tratta di una storia notevole di come venne acquisita una expertise da un gruppo di non esperti, e applicata in maniera efficiente”. 4 Esistono anche casi di vera e propria produzione di conoscenze che entrano a far parte del bagaglio della scienza “ufficiale”, provenendo però da luoghi istituzionali ibridi (non accademici, non industriali), o da altri “saperi”. ONG ambientaliste o di consumatori, per esempio, possono commissionare studi scientifici a consulenti esperti (chimici, ingegneri, ecologi, esperti in radioprotezio2 S. Epstein, Impure Science: AIDS, Activism and the Politics of Knowledge, University of California Press, Califronia 1996; H. Collins, T. Pinch, The Golem at Large – What you Should Know about Technology, Cambridge University Press, Cambridge 1998. 3 S. Epstein, Impure Science: AIDS, Activism and the Politics of Knowledge, cit. 4 H. Collins, T. Pinch, The Golem at Large – What you Should Know about Technology, cit.
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ne) e diffonderli poi direttamente sui media, senza passare necessariamente o anticipatamente per in canali accademici classici della peer review su riviste specializzate. Ancora: gruppi di indios in Sud America, o popolazioni locali danneggiate dalla costruzione di dighe, centrali elettriche o altri progetti di alto impatto ambientale, hanno commissionato ricerche di vario genere a scienziati, da contrapporre, in una sorta di processo di “contro-informazione scientifica” e di azione diretta, o di democrazia scientifica o ecologica dal basso. Questi stessi popoli indigeni cominciano, con discreto successo, a esigere che venga riconosciuto il contributo delle culture tradizionali alla produzione di conoscenza incorporata nella scienza occidentale. Tanto nelle leggi sui brevetti biologici, quanto nella regolamentazione delle pratiche di ricerca sul campo (archeologica, paleontologica, antropologica) si comincia a tenere conto di come riconoscere la conoscenza trasferita dagli indigeni alla scienza e alla tecnologia: cominciano a comparire i primi paper scientifici, su riviste prestigiose, firmati da scienziati accademici assieme a indios. 5 La produzione della scienza, dunque, non avviene esclusivamente dentro le università, i laboratori del governo e quelli delle industrie ma, in certa misura, entità della società civile, soggetti e attori sociali diversi contribuiscono a produrre conoscenze che percolano e interagiscono con la scienza accademica e quella industriale. In tutti i casi descritti un sistema di “conoscenza esperto” entra in contatto e spesso in conflitto con un sistema di “conoscenza laico” e rispetto al passato, in cui sono sempre esistiti gli scambi tra scienziati e pubblico, i modi e le forme di interazione e di contaminazione di questi sistemi si sono moltiplicati a dismisura. La comunicazione, più che un passaggio di informazioni dall’alto al basso, diventa sempre di più, anche nel caso di saperi “privilegiati” come quello scientifico, lo spazio sociale nel quale vengono negoziati valori e utilizzi della scienza stessa e vengono prese decisioni sul suo sviluppo, e sul ruolo che i cittadini possono giocare nell’orientamento della ricerca scientifica si è spesa molta letteratura senza in realtà essere giunti a un verdetto definitivo.
Partecipazione pubblica alla scienza e alla tecnologia: come funziona? Abbiamo già accennato al fatto che negli ultimi anni alla retorica classica della “divulgazione”, della “trasmissione” del sapere, della “alfabetizzazione scientifica”, della “comprensione pubblica della scienza”, si siano gradualmente af5
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fiancate e sostituite metafore centrate su “bidirezionalità” e “interazione”, sul già ricordato “dialogo”, sul “coinvolgimento” (engagement), “consapevolezza” (awareness). Molte istituzioni scientifiche e alcuni luoghi della politica hanno dovuto recepire questo nuovo messaggio, specialmente nel Nord Europa. Se la metafora diviene quella dell’ascolto reciproco, della “comunic-azione”, o persino di una democrazia “dal basso”, la definizione di un unico “pubblico” decade: esistono tanti diversi pubblici, diversificati, che non possono più essere letti (dal divulgatore o dallo studioso di comunicazione della scienza) soltanto attraverso i ruoli stereotipati classici (quello dello spettatore ammirato della scienza, quello del sostenitore entusiasta, quello del cauto e scettico osservatore, o dell’ostile tecnofobo). 6 Molti, se non altro dal punto di vista delle strategie retoriche, cominciano a trattare il pubblico come un congiunto di persone diverse e attive, che non solo “ricevono” informazioni, ma hanno competenze e le usano per prendere decisioni rilevanti: sono testimoni partecipanti dell’evoluzione della tecnoscienza. In alcuni casi, tale partecipazione pubblica assume i formati classici tipici di ogni paese per le decisioni popolari su temi importanti. In Italia, per esempio, la consultazione popolare su temi di ambiente, scienza, tecnologia, etica, prende spesso la forma del referendum: basti ricordare quelli sull’aborto, sulla caccia, quello sul nucleare o quello, più recente, sulle tecniche di riproduzione assistita. In altri casi, la partecipazione pubblica assume forme specifiche, innovative, come le “conferenze di consenso”. Nate originariamente negli Stati Uniti, presso i National Institutes of Health, come strumento per riunire specialisti che valutassero il grado di sicurezza ed efficacia di determinate tecnologie mediche, le “consensus conferences” furono trasformate, in Danimarca negli anni Novanta, in riunioni che ospitavano lo scambio e il dibattito fra specialisti e “cittadini comuni”, a partire dal quale i cittadini fornivano una valutazione e deliberazione dettagliata, destinata ai politici, su questioni considerate critiche. 7 Le “consensus conferences” si sparsero presto a macchia d’olio, specie nei paesi in cui la retorica del dialogo cominciava a sovrapporsi a quella di superare il “deficit”. Negli anni Novanta, tali esperimenti di democrazia deliberativa sono stati applicati in varie forme e su disparati temi di gestione della scienza o della tecnologia. Piccoli gruppi di cittadini (normalmente meno di venti persone) han6
U. Felt, Science, Science Studies and their publics: speculating on future relations, in J. Bernward, H. Nowotny (ed.), Social Studies of Science and Technology: Looking back, Ahead, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht 2003. 7 E. Einsiedel, D. Eastlick, Consensus Conferences as Deliberative Democracy, Science Communication, 21 (4), 2000. pp. 323-343 110
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Sociologia
no discusso con esperti per poi esprimere un consenso e delle raccomandazioni al governo su questioni chiave che hanno giudicato come critiche: i danesi hanno formulato le proprie valutazioni sull’irradiazione degli alimenti, il sequenziamento del genoma umano, le tecnologie dell’informazione, gli animali transgenici e l’infertilità. I britannici hanno deliberato sulle biotecnologie vegetali e su cosa fare con i rifiuti radioattivi. Coreani, giapponesi, statunitensi, canadesi hanno svolto numerosi esperimenti simili. Nonostante alcuni commentatori entusiasti, che leggono le conferenze di consenso come la messa in atto concreta di nuove forme di partecipazione sociale deliberativa per la governance della scienza e della tecnologia, appare ovvio che tali fenomeni espliciti di democrazia dal basso sono per ora marginali, ristretti ad alcuni paesi e legati a temi specifici o momenti di crisi specifici nei quali diventa imperiosa la necessità di costruire (o mettere in scena) il dialogo sociale prima e durante la formulazione delle politiche. In alcuni casi, gli artifici volti a rispondere alle nuove parole chiave (“democrazia ampliata” e “partecipativa”, per esempio), appaiono dispositivi retorici cui non corrisponde (e, forse, non potrebbe corrispondere) un autentico empowerment. Industria o governo possono avere interesse in pacificare o regolamentare il conflitto sociale giocando al gioco di una democrazia allargata che, nella pratica, è governata solo in minima parte da attori diversi da quelli che dominano il mercato globale. In altre parole non è possibile stabilire se la partecipazione pubblica sia un fenomeno effimero che scomparirà velocemente come è apparso, oppure se rappresenta un cambiamento profondo nel processo decisionale su temi di scienza e tecnologia. 8 Inoltre va ricordato che il problema della partecipazione pubblica ha una lunga tradizione nella storia della democrazia anche se le riflessioni sulla “democratizzazione” della scienza sono molto più recenti. Nella storia recente della comunicazione scientifica non è la prima volta che si discute e si riflette su temi e proposte che in altri ambiti sono già stati affrontati e in alcuni casi abbondantemente superati. Anche nell’ambito della partecipazione pubblica si corre il rischio di generare una riscoperta della ruota. Ciononostante, conferenze di consenso, referendum, giurie di cittadini sono fenomeni, a nostro vedere, importantissimi. Prima di tutto, perché rappresentano la punta visibile dell’iceberg degli innumerevoli flussi di comunicazione, appropriazione, ricostruzione sociale della scienza. Pubblicitari e politici, impresari e ONG, enti locali e scienziati, medici, giudici, avvocati, operai condividono e 8
S. Joss, Public participation in science and technology policy – and decision making – ephemeral phenomenon or lasting change?, Science and Public Policy, 26 (5), 1999, pp. 290-293. 111
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Scienza e Società
scambiano informazioni scientifiche fra loro, a volte ne costruiscono di nuove, altre volte negoziano il significato di tali informazioni o i valori da attribuire loro, e finiscono per essere così, se pure in gradi diversi e con diverso impatto, partecipanti attivi nell’arena del governo della scienza e delle tecnologia. Le forme, anche quelle di facciata, in cui tale consapevolezza o partecipazione sono visibili, rappresentano indizi di un mondo che, forse, sta cambiando. Inoltre, altri fenomeni, a volte non istituzionali o non ufficiali, costituiscono una influenza forte e concreta sul mondo tecnoscientifico, anche se indiretta, e non sono legati solo a momenti di crisi ma anzi sono aspetti metabolici, funzionali attraverso i quali la scienza forma parte della nostra cultura e la società si appropria e della scienza e della tecnologia e le plasma. Ciò che i consumatori decidono di non voler comprare influisce fortemente su ciò che le industrie decidono di produrre e su ciò che, quindi, le multinazionali (per esempio quelle della medicina) stabiliscono come obiettivo di ricerca e sviluppo. Le decisioni dei cittadini su ciò che è nocivo o salutare influenza il mondo della ricerca, non solo privata ma anche pubblica, non solo applicata ma anche “di base”, non solo nelle scelte strategiche ma, a volte, persino in quelle metodologiche e epistemologiche. Ma la scienza può essere davvero decisa collettivamente? Può davvero essere direzionata dai pubblici? Non si rischia una politica “dominata dall’audience”, o da una sorta di populismo tecno-scientifico? La soluzione non è, ovviamente, semplice. Di certo, però, la risposta a questi interrogativi non passa per un diminuito, ristretto dialogo, ormai intrinsecamente impossibile, ma per un rafforzamento del foro sociale. Quali che siano le dinamiche democratiche di controllo sociale sulla scienza, funzionano solo se funziona la comunicazione. ■ Yurij Castelfranchi, fisico teorico, sociologo, divulgatore scientifico e giornalista, ha collaborato con “il Manifesto”, Rai Tre e con il Master in “Comunicazione della Scienza” della SISSA di Trieste. Attualmente è ricercatore presso l’Università statale di Campinas, in Brasile. Ha pubblicato con Oliviero Stock Macchine come noi. La scommessa dell’intelligenza artificiale (Laterza, 2003) e Amazzonia. Viaggio dall’altra parte del mare (Laterza, 2004). Nico Pitrelli è responsabile di progetto del Master in “Comunicazione della Scienza” della SISSA di Trieste. Ha pubblicato, tra l’altro, L’uomo che restituì la parola ai matti. Franco Basaglia,
la comunicazione e la fine dei manicomi (Editori Riuniti, 2004). Yurij Castelfranchi e Nico Pitrelli hanno pubblicato insieme La grande Storia della Terra (La Biblioteca, 2002), tradotto in inglese e portoghese. 112
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Economia
Scienza, Tecnologia, Sviluppo: una storia antica Sergio Ferrari
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ra l’uomo e la tecnica c’è sempre stato un rapporto utilitaristico, naturalmente unidirezionale. Utilitaristico ma non necessariamente capitalistico, come l’intenderemmo attualmente: anche la scoperta e l’utilizzo dei colori per fini di gioco, o rituali nelle popolazioni primitive, rientra nella storia di questo rapporto. Questa caratteristica differenzia fortemente la specie umana dalle altre specie di esseri viventi per le quali manifestazioni di abilità tecnica rappresentano casi concreti ma, tutto sommato, considerati non erroneamente casi curiosi. Dalla clava, all’arco, alla cerbottana, sino alla ruota, alla agricoltura stanziale e via via su per la storia, questo percorso dello sviluppo umano sembrerebbe chiaro e indiscutibile. Si potrebbe anche ipotizzare che la divisione del lavoro, teorizzata nel Settecento da Adam Smith, fosse una logica conseguenza del rapporto utilitaristico tra uomo e tecnica, nel senso della creazione di una dipendenza reciproca tra gli esseri umani che cercavano di “ottimizzare” le diverse abilità soggettive: io vado a caccia e porto il mangiare anche per te, ma tu fai il fuoco, eccetera. Il perché di questa caratteristica umana è naturalmente oggetto di varie ipotesi, non ultima quella secondo cui siano state le necessità della sopravvivenza ad accentuare alcune doti umani e, in particolare, essendo la specie umana debole rispetto a competitori molto pericolosi, si ritiene che essa abbia sfruttato questa capacità di “farsi aiutare”. Questa ipotesi conferma la peculiarità della razza umana: la stessa debolezza è presente infatti in molte altre specie animali che hanno sviluppato caratteristiche diverse, dal mimetismo, alla velocità, alla ricchezza della prole, eccetera. Come visto da questi brevissimi cenni, con la tecnica si accompagna nella storia dell’uomo anche il “rituale”, che potremmo considerare come un’altra caratteristica tipica dell’essere umano non certamente assimilabile ai ri113
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tuali tra animali in vena di accoppiamento. La caratteristica di pensare, di riflettere, di cercare di capire, di darsi delle spiegazioni sulla natura delle cose ma anche sulla natura di sé stessi. Produrre cose e produrre pensieri sembrano essere due espressioni della stessa condizione umana e sembrano l’una contenere parti dell’altra. Tuttavia, questa unitarietà non è stata e non è tuttora così pacifica. Per molti secoli, l’abilità tecnica è stata un’espressione inferiore – non a caso affidata spesso agli schiavi – ed era teorizzata come tale, sino a riconoscere nell’idea platonica la realtà vera, contrapposta a quella apparente e volgare delle cose. Una condizione che viene richiamata per spiegare come mai una civiltà come quella greca, e in una qualche misura anche quella romana, abbia sul piano tecnico raggiunto livelli certamente non commisurabili a quelli filosofici e poetici. Naturalmente, in questo percorso, ogni tanto qualche “tecnico” particolarmente dotato anche sul piano delle capacità raziocinanti diventava una specie di “mago” prendendosi alcune rivincite, come accadde ad Archimede che riuscì a incendiare le navi nemiche con gli specchi solari. Nonostante ciò, questa doppia capacità – produrre cose e produrre pensieri – a quei livelli non doveva essere facile da esercitare se è vero che Archimede, assorto nei suoi pensieri, sembra non si sia accorto che i nemici erano alla sua porta. Nemmeno molto facile deve essere stata la vita di tanti altri amanti della scienza. Ruggero Bacone, che aveva per i suoi tempi – nel 1200 – una concezione molto moderna e avanzata dell’utilità della conoscenza scientifica, come frate francescano doveva continuamente ricorre al volere di Dio per sostenere le sue idee e per evitare di incorrere in qualche guaio. Guaio che, venuti meno alcuni appoggi altolocati, in effetti gli capitò. Sul piano pratico, a quei tempi il confine tra scienziato e mago rimaneva di fatto spostato a favore del secondo e il dottor Faust, che alla fine del Quattrocento da buon alchimista andava in giro meravigliando la gente con dimostrazioni che univano antiche pratiche a innovazioni basate sulla sperimentazione alchemica, nei secoli successivi sarebbe diventato il simbolo dell’uomo che aveva stabilito uno patto scellerato con il diavolo. Anche Isaac Newton si dilettava in pratiche alchemiche e Galileo Galilei ebbe, come è noto, alcuni problemi. Ma ormai il cammino era stato tracciato, anche se passerà molto tempo prima che la scoperta delle leggi che regolano il comportamento della natura e l’utilizzo pratico di queste stesse conoscenze diano luogo a risultati “strutturali”. La stessa prima rivoluzione industriale fu un fatto essenzialmente ancora tec114
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nico e sono certamente di maggior rilevanza i cambiamenti introdotti nelle strutture sociali e produttive piuttosto che le conquiste scientifiche dell’epoca. Per superare la teoria del flogisto occorre aspettare Antoine-Laurent de Lavoisier alla fine degli anni Settanta del Settecento, mentre la rivoluzione industriale inglese aveva già avviato il suo percorso. Comunque, poiché anche Lavoisier doveva fare un altro mestiere per campare, sfortuna volle che da gabelliere incorse nelle ire dell’altra rivoluzione, quella francese. Con la rivoluzione industriale la specializzazione non è più una libera scelta della diversa vocazione soggettiva ma un fatto che attraverso la divisione del lavoro accresce l’abilità tecnica e attraverso queste abilità favorisce lo sviluppo delle nuove tecniche, della produttività del lavoro e del capitale. Entra in campo la scienza economica per studiare con Smith La ricchezza delle nazioni pubblicato nel 1776. Ed entra in campo la protesta dell’operaio tessile inglese Ned Ludd che nel 1779 ruppe il telaio meccanico che faceva concorrenza sleale al lavoro. A tutt’oggi quel meccanismo della divisione del lavoro è considerato un meccanismo essenziale del progresso tecnologico e del parallelo processo che oggi chiamiamo alienazione ma che era già presente – pur con parole diverse – negli scritti di Smith. Interessante per questo aspetto è il fatto che per combattere questo “difetto”, fin da allora Smith proponeva il ricorso all’istruzione obbligatoria a un livello che, oggi, probabilmente corrisponderebbe almeno alla laurea. Per Karl Marx poi lo sviluppo tecnologico rappresenta la chiave di volta dello sviluppo, il cui aspetto negativo non era affatto rappresentato da questa dimensione tecnologica ma dalle mani che lo guidavano verso la progressiva proletarizzazione e, di lì, allo sfruttamento della classe lavoratrice. Il positivismo ottocentesco rappresenta, in questo percorso, il trionfo della fede nella scienza e nel metodo scientifico. Una fede che sarà scossa successivamente. L’economia nello stesso periodo era passata dalla concezione dei classici, rivolta ai problemi dello sviluppo come un processo essenzialmente dinamico e con un percorso circolare sempre rinnovato, alla concezione dell’equilibrio economico generale attraverso il migliore utilizzo dei fattori produttivi la cui scarsità sarebbe stata rispecchiata dai prezzi relativi determinati del libero mercato. L’importanza del progresso tecnologico era ben presente in entrambe queste scuole ma la sua origine era e rimase sempre esogena. 115
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Occorre arrivare a Joseph Alois Schumpeter perché questo panorama si muova. L’economista austriaco riprende il ruolo degli investimenti come fattore di sviluppo, ma le sollecitazioni per l’investimento si esaltano attraverso il ruolo dell’imprenditore innovativo che, appunto, attraverso l’innovazione – e centrale è l’innovazione tecnologica – determini una nuova dinamica. Nuove conoscenze tecnologiche, imprenditori innovativi e finanza diventano esplicitamente gli attori indispensabili di questo processo. Lungo questo ragionamento si cerca inoltre di ricondurre l’interpretazione dei grandi cicli economici. Questi sarebbero determinati dalle grandi scoperte scientifiche – quelle che Thomas Khun chiamerà i paradigmi scientifici – che modificherebbero in maniera radicale, attraverso i nuovi investimenti, i precedenti sistemi produttivi. Lo sfruttamento di queste potenzialità economiche dei paradigmi, secondo questa visione, raggiunge un massimo per poi declinare in attesa di una nuova opportunità sollecitata proprio dal declino. Si tratta, come si vede, di una concezione nuova, ma non di un modello dello sviluppo dal quale ricavare insegnamenti per l’agire. La stessa origine dell’innovazione radicale, affidata di fatto all’esaurimento del ciclo precedente, appare una costruzione meccanica che lascia comunque come variabile esogena la creazione dell’innovazione. Peraltro, tentativi successivi di integrare come endogena nei modelli economici il fattore “innovazione tecnologica” hanno dato luogo alla necessità di assunzioni e approssimazioni tali da portare a risultati del tutto discutibili. È il caso, per esempio, del tentativo di aggiungere nella funzione di produzione neoclassica, al fattore capitale e al fattore lavoro, il fattore “conoscenza”, per coerenza liberamente disponibile sul mercato. Una soluzione che se, ovviamente, non elimina le critiche verticali alla formula originaria, ne aggiunge di nuove ipotizzando una non appropriabilità della conoscenza, che se può essere valida nel caso delle conoscenze scientifiche fondamentali, non lo è affatto nel caso delle conoscenze tecnologiche (che sono poi quelle che in effetti danno luogo al fenomeno economico). La concezione dei paradigmi scientifico-tecnologici di lungo periodo consente tuttavia agli economisti di superare di fatto un’altra questione rimasta irrisolta e cioè il fatto che nello sviluppo e sul mercato si presuppone che i prodotti, sebbene migliorati attraverso le innovazioni incrementali, siano confrontabili. Se le modificazioni fondamentali, quelle che danno luogo non solo ai miglioramenti ma anche a nuovi prodotti, avvengono con grandi intervalli temporali, l’approssimazione conseguente della confrontabilità può 116
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essere accettabile. Ma se cosi non è, allora confrontare per esempio la produttività del capitale o del lavoro o del valore aggiunto dei nuovi prodotti con quella dei prodotti tradizionali non ha molto senso e, soprattutto, non consente di ricavare indicazioni economiche circa la loro competitività o il loro successo dal momento che, per definizione, rispondono a una domanda prima inesistente. Tutte queste problematiche economiche non hanno naturalmente fermato il progresso tecnologico e la relativa rilevanza economica. Mentre gli economisti hanno dato luogo a una serie infinita di studi e indagini di carattere prevalentemente sperimentale, econometrico e aziendale, l’innovazione tecnologica è diventata un soggetto sempre più ricorrente nelle politiche dei vari paesi e la misura della competitività tecnologica dei diversi paesi una misura del loro sviluppo. Anche le crescenti questioni dei vincoli ambientali, insieme alla crescente rilevanza della questione della qualità dello sviluppo, sollecitano l’attenzione verso il ricorso intelligente all’innovazione tecnologica. Ma occorre forse interrogarsi anche su un’altra questione, e cioè se l’ipotesi dei grandi paradigmi sia tuttora un riferimento accettabile. In sostanza quella ipotesi si basava sulla storia del progresso scientifico che costruiva via via i propri fondamenti interpretativi delle leggi che regolano il comportamento della natura. Ma da un punto di vista tecnologico disporre via via nel tempo di alcune di queste leggi non equivale a disporre di un bagaglio pressoché completo – al di là della capacita della ricerca scientifica di spostare sempre in avanti i propri obiettivi. Il potenziale dì innovazione tecnologica immaginabile quando finalmente si dispone delle leggi fondamentali della termodinamica non è lo stesso di quello che si presenta quando si dispone, ad esempio, anche delle leggi sull’elettricità o quando si aggiungono quelle della chimica organica, della fisica nucleare e cosi via. L’ipotesi che si potrebbe ammettere potrebbe essere allora quella che l’innovazione tecnologica non è più un processo legato alla esogenità delle grandi scoperte scientifiche ma è un processo programmabile. Ci sono esempi importanti che giocano a favore di una tale ipotesi. Naturalmente, per gli economisti le questioni si complicano perché quella costanza di lungo periodo nelle specializzazioni produttive sarebbe un’approssimazione sempre meno sostenibile. Ma anche questo non fermerà certamente l’innovazione. ■
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Sergio Ferrari, laureato in Chimica industriale, ha iniziato a lavorare nel 1958 al CNRN (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari), trasformatosi successivamente in CNEN e poi in ENEA (Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente). Direttore del “Laboratorio Tecnologie dei Materiali”, si occupa dei processi di produzione e controllo di nuovi materiali. È autore di varie pubblicazioni e brevetti. Nel 1974, è stato nominato direttore del Dipartimento Ricerca Tecnologica di Base e Avanzata dell’ENEA, incarico che conserverà sino al 1981. Dal 1976 al 1984 è delegato del Governo italiano presso il Comitato per la Ricerca Scientifica e tecnologica della CEE (CREST). Nel 1981, ha ricevuto l’incarico di organizzare la Direzione Centrale Studi dell’ENEA. Poi, nel 1993, è stato nominato vice direttore generale dello stesso Ente. Direttore del bimestrale
Energia, Ambiente e Innovazione, è coautore dei rapporti su L’Italia nella competizione tecnologica internazionale.
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Questioni di genere
Donne e Scienza Paola Govoni
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i recente in Italia l’uso del termine “genere” si è allargato dagli studi specialistici alla conversazione comune, agli articoli sui giornali e ai siti Internet. Eppure, non solo in Italia, ma anche nei paesi di lingua inglese dove la parola è stata introdotta nel significato che qui ci interessa, gli equivoci sono all’ordine del giorno e frequente è la confusione, per esempio, tra genere e sesso. L’uso del termine “genere” si è affermato negli anni Settanta del Novecento negli Stati Uniti nel tentativo di comprendere e svelare una cultura fondata su ciò che chiamiamo determinismo biologico. Il concetto di genere da allora è utilizzato in ambiti diversi del sapere scientifico, sociale e umanistico per individuare e studiare quelle qualità definite “maschili” o “femminili” in base a specifiche costruzioni sociali e culturali, distinguendole da quelle caratteristiche “maschili” e “femminili” degli individui che sono invece determinate dal sesso, dunque da qualità riconducibili alla fisiologia e all’anatomia dei viventi. La nozione di genere applicata alla cultura umana fa dunque riferimento a una serie di segni, simboli e concetti che riconducono a relazioni di potere tra i sessi, pertanto se, come capita, usiamo “genere” al posto di “sesso” o di “donna” non siamo politicamente corretti, ma stiamo usando una parola in modo non appropriato. 1 Nel corso degli ultimi trent’anni il genere è stato uno strumento analitico che si è dimostrato utile per esplorare le radici, la dinamica, l’evolversi e le conseguenze concrete di quell’intreccio di concetti che sono stati socialmente costruiti come “maschili” oppure “femminili” e che per questo cambiano nel corso del tempo, da cultura a cultura, da etnia a etnia, da religione a religione. Siamo tutti consapevoli del fatto che un comportamento “femminile” in una cultura, etnia, classe sociale, può non esserlo in un’altra.
1 Sul concetto di genere e il suo uso in ambito scientifico e negli studi sulla scienza si veda L. Schiebinger, Has feminism changed science?, Harvard University Press, Cambridge (Mass.), 1999, in particolare, pp. 15-18. Si vedano inoltre E. Ruspini, Le identità di genere, Carocci, Roma 2005 e S. Capecchi, Identità di genere e media, Carocci, Roma 2006.
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Per quanto concerne la cultura cosiddetta occidentale e in particolare i fondamenti della scienza, si pensi come le dicotomie oggettivo/soggettivo, razionale/naturale, logico/emotivo abbiano plasmato la contrapposizione tra pensiero “femminile” e “maschile” fin dai tempi di Aristotele, con un rilancio in epoca moderna grazie a pensatori come Rousseau e un importante consolidamento tra Otto e Novecento con le ricerche di antropologi misuratori di crani e pesatori di cervelli. Secondo questa millenaria tradizione filosofica e scientifica, le donne sarebbero incapaci di pensiero oggettivo, dominate come sono da una realtà corporea invadente, di conseguenza emotive piuttosto che razionali. Questa ideologia di genere ha impregnato i rapporti tra i sessi e l’organizzazione familiare, ma anche la struttura sociale del mondo occidentale dove, fino al diciannovesimo secolo inoltrato, per esempio, le donne sono state escluse dai luoghi dove si è trasmesso e creato sapere scientifico: le accademie e le università. 2 Il concetto di genere utilizzato come strumento analitico in diversi campi del sapere storico e sociologico permette dunque di individuare e capire come questa cultura che ha escluso le donne dai luoghi del conoscere abbia modellato non solo le istituzioni, ma la natura del sapere stesso. 3 Tuttavia, se è vero che filosofia naturale e scienza hanno dato fondamento per millenni a pregiudizi diffusi circa l’inferiorità femminile, nello stesso modo in cui hanno sostenuto razzismo e antisemitismo, è sempre la scienza che nella seconda metà del Novecento ha spazzato il campo dai dubbi circa la pretesa “inferiorità” delle capacità del cervello delle donne rispetto a quello degli uomini, così com’è la scienza che ha dimostrato che “le razze umane” non esistono. La scienza è quindi una cultura nella quale portare il genere come strumento d’indagine si dimostra di grande fascino e interesse per capire il mondo in cui viviamo.
Donne e scienza oggi L’accesso delle donne all’istruzione superiore è avvenuto nel corso dell’Ottocento: negli anni Trenta negli Stati Uniti, una trentina di anni dopo in Europa. 2
Una lettura fondamentale per comprendere i rapporti tra donne, genere e scienza nel lungo periodo resta a mio avviso D.F. Noble, Un mondo senza donne. La cultura maschile della Chiesa e la scienza occidentale, Bollati Boringhieri, Torino 1994 (prima ed. orig. New York 1993). 3 Gli studi su donne, genere e scienza hanno dato contributi capaci di giocare un ruolo di primo piano nel rinnovamento della storia e della sociologia della scienza, come riconosciuto da parti diverse nella comunità internazionale. Vedi J. Golinski, Making natural knowledge. Constructivism and the history of science, Chicago University Press, Chicago 2005 (prima ed., Cambridge 1998), e J.L. Heilbron (ed. in chief), J. Bartholomew, J. Bennett, F. L. Holmes, R. Laudan, G. Pancaldi, (eds.), Companion to the history of modern science, Oxford University Press, Oxford 2003, passim (numerose le voci cui il Companion dà spazio, da “gender and science”, di L. Schiebinger, a “woman in science”, di P.G. Abir-Am). 120
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Questioni di genere
43.1 43.4 36.1 40.0 38.6 62.5 51.6 41.4 34.5 : 35.9
40.0 30.2 33.1 100.0 36.7 33.6 21.9 43.1 38.4 29.9 : 37.5
21.9 18.9 14.3 22.3 23.8 17.6 25.5 25.9 11.4 : 29.7
49.6 65.9 30.6 36.7 52.4 37.5 41.7 55.6 54.3 : 32.0
Health & Welfare
Science, Mathematics & Computing
51.4 47.5 42.2 48.6 46.9 58.8 57.9 55.5 49.5 : 56.4
Agriculture & Veterinary
Social Sciences, Business & Law
60.5 65.3 43.8 66.7 50.0 66.7 49.0 52.6 : 59.5
Engineering, Manufacturing & Constructions
Humanities & Arts
EU-25 Austria Belgium Cyprus Czech Republic Denmark Estonia Finland France Germany Greece Hungary
Education
Nel secolo successivo, ovunque nei paesi industrializzati, le donne hanno progressivamente eliminato quel distacco dagli uomini accumulato in secoli di esclusione dall’istruzione. In Italia nel 1902 l’analfabetismo femminile su base nazionale si aggirava intorno al 50%, 4 ma nel 1992 le laureate hanno superato i laureati e nel 2004 le donne sono state complessivamente il 51,5% dei dottori di ricerca che hanno conseguito il titolo. 5 In una società come quella italiana, da sempre caratterizzata da scarsi investimenti nell’istruzione scientifica e da scarsa mobilità sociale, le donne nell’ultimo secolo sono state l’attore più dinamico, capace – pur in assenza di specifiche politiche di supporto – di conquistare un ruolo crescente e poi dominante nell’istruzione superiore, con una forte presenza nei settori scientifici. È una situazione che si riscontra un po’ ovunque in Europa. Le donne europee che per esempio avevano conseguito un dottorato nel 1999 erano il 38% del totale dei dottori di ricerca di quell’anno, nel 2003, ultimi dati disponibili, sono salite al 43%, con performance di estremo interesse in campo scientifico e tecnologico (vedi figura 1).
51.1 72.0 45.4 42.2 54.0 72.5 64.3 56.1 47.7 : 43.3
4
T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, Laterza, Roma 2001, p. 95 (prima ed. 1963). Miur – DG Studi e programmazione, L’università in cifre, Le Monnier, Firenze 2006, p. 61, disponibile all’indirizzo http://statistica.miur.it/normal.aspx?link=pubblicazioni.
5
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47.2 50.4 100.0 63.9 0.0 48.5 42.7 53.9 49.6 37.7 47.3 48.3 42.2 50.0 51.6 49.5 46.6 28.9 29.7 32.4 55.9
56.6 54.0 57.1 47.2 40.1 50.1 58.1 57.3 44.8 46.6 34.8 41.9 52.8 0.0 44.0 40.7 57.6 29.4 34.8 19.9 35.5
31.2 31.2 37.5 43.9 19.9 24.1 34.1 26.2 19.3 21.3 26.4 19.6 31.4 25.0 22.8 38.3 15.2 28.9 9.2 18.0
Health & Welfare
Science, Mathematics & Computing
53.1 58.5 66.7 78.9 33.3 43.8 51.6 66.8 46.2 63.0 48.6 53.2 45.9 68.4 50.0 51.4 33.7 58.9 44.7 29.2 48.7 45.7
Agriculture & Veterinary
Social Sciences, Business & Law
50.0 72.5 83.3 100.0 : 65.4 72.4 60.0 59.2 64.0 53.6 52.2 73.8 60.0 54.2 35.3 48.6 66.0
Engineering, Manufacturing & Constructions
Humanities & Arts
Ireland Italy Latvia Lithuania Luxembourg Malta Netherlands Poland Portugal Slovakia Slovenia Spain Sweden United Kingdom Bulgaria Iceland Israel Norway Romania Switzerland Turkey Japan United States
Education
Scienza e SocietĂ
31.6 54.4 100.0 50.0 44.3 53.8 64.6 32.1 36.4 41.2 50.7 45.2 46.4 45.5 46.9 36.6 57.5 39.8 24.7 36.8
50.7 61.5 0.0 68.3 48.7 47.2 63.3 71.3 52.0 49.3 59.4 52.4 56.4 33.3 55.6 46.9 66.5 47.7 62.6 25.7 68.5
Source: Eurostat Education statistics, Israel Central Bureau of Statistics and the Council for Higher Education Exceptions to the reference year: IL: 2000 Data unavailable: EL Most tertiary students study abroad and are not included: LU, CY Countries with small numbers: CY (1), MT (8), IS (6)
Figura 1. Proporzione di dottoresse di ricerca per campo, dati 2003. Grafico pubblicato in European Commission, Directorate General for Research, She figures 2006. Women and Science. Statistics and indicators, p. 39.
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È noto tuttavia che alla situazione brillante delle donne in Europa nel campo delle lauree e del dottorato, non corrispondono analoghi risultanti in campo professionale. Più in particolare, se si ritiene che non sia tanto importante in assoluto la “quantità” di donne presenti nei laboratori, pubblici e privati, quanto piuttosto una loro presenza in equilibrio con quella maschile in rapporto all’importanza che la scienza ha come valore economico e culturale in una società, i dati sono in generale in tutti i paesi europei piuttosto scoraggianti (vedi figura 2). 35% 31
30% 27 26
25%
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The labour force is defined as the sum of employed and unemployed persons.
Source: Eurostat S&T statistics; Community Labour Force Survey (LFS) Exceptions to the reference year: CH, PL: 2000; AT, FI, TR: 2002; Break in data series: IT; Provisional data: IE Estimated data: SE, SI Data unavailable: BE, ES, MT, UK Figura 2. Numero di ricercatori, donne e uomini, ogni cento lavoratori. I dati si riferiscono al 2003. Grafico pubblicato in European Commission, Directorate General for Research, She figures 2006. Women and Science. Statistics and indicators, p. 27.
Il fenomeno che emerge ponendo a confronto la realtà dipinta dal grafico in figura 1 con quella in figura 2, è noto come leaky pipeline, cioè della conduttura che perde, e si verifica purtroppo un po’ ovunque in Europa, ma anche negli Stati Uniti. Nel percorso che va dalla laurea al dottorato e prosegue ver123
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so la professione e poi verso i vertici della stessa, un numero percentuale più alto di donne rispetto a quello degli uomini si ferma ai gradini più bassi della carriera, quando non rinuncia del tutto alla ricerca. Le ragioni per occuparsi seriamente del fenomeno non sono evidentemente “soltanto” di equità – le discriminazioni sono una violazione dei diritti umani, si tratti di genere, religione o etnia –, ma più concretamente economiche, un argomento cui tutti dovrebbero essere interessati. Investire cifre enormi per formare studentesse, dottoresse di ricerca e scienziate cui poi non si permette di restituire alla comunità in generale, scientifica in particolare, quanto potrebbero è fallimentare sia da un punto di vista economico, sia da un punto di vista della qualità della ricerca. Che cosa è stato fatto negli ultimi venticinque anni per affrontare il fenomeno della cosiddetta leaky pipeline?
Azioni positive Nel 1971 negli Stati Uniti venne fondata l’Association for Women in Science (AWIS), 6 associazione che divenne un punto di riferimento importante per le donne attive in campo scientifico e tecnologico a livello internazionale. Grazie alle campagne dell’AWIS e alle più generali e importanti pressioni delle campagne femministe fin dagli Settanta, nel 1980 il Congresso americano approvò una legge – la Public Law 96-516, nota come Equal Opportunity Act – che imponeva una serie di interventi concreti per favorire chi fino ad allora, come provato da una serie di dati inequivocabili, era stato discriminato in campo scientifico: donne, appartenenti a etnie minoritarie, persone con handicap fisici. Per quanto concerne le donne nella scienza, l’Equal Opportunity Act imponeva alla National Science Foundation (NSF) la costruzione di un programma mirato di borse di studio, cattedre, premi alla carriera, fondi per la ricerca destinati alle donne. Era previsto inoltre un monitoraggio dell’evolversi della situazione nel corso del tempo per la verifica degli effetti ottenuti da quegli interventi. L’iniziativa, che tutelava insieme i diritti delle donne e la qualità della ricerca, ha dato risultati importanti, com’è facile verificare nel documento Women, Minorities, and Persons with Disabilities in Science and Engineering pubblicato ogni due anni a cura della NSF. 7 Dopo l’approvazione di quella legge, che incoraggiò in Canada e Australia in-
6
Il sito dell’AWIS è consultabile all’indirizzo http://www.awis.org/about/history.html Gli ultimi dati disponibili si riferiscono al 2006 e sono disponibili nel sito della NSF all’indirizzo http://www.nsf.gov/statistics/wmpd/pdf/december2006updates.pdf.
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terventi analoghi, il 1984 nel Regno Unito fu dichiarato anno delle Women into Science and Engineering (WISE). L’attività WISE è continuata in seguito, com’è noto, per attirare le ragazze a studiare ingegneria e scienze. Erano gli anni della nascita dei progetti di cosiddetto Public Understanding of Science e gli interventi per favorire un maggiore e più giusto inserimento delle donne in campo scientifico e tecnologico, anche ad alti livelli di carriera, divennero parte di più ampie misure mirate ad avvicinare il pubblico alla scienza. All’inizio degli anni Novanta in Europa si cominciarono a pubblicare i primi importanti documenti che monitoravano la situazione delle donne in campo scientifico e tecnologico nei diversi paesi dell’Unione. Nel 1993 due meeting organizzati dalla Commissione europea attirarono l’attenzione degli esperti sul tema delle donne nella scienza. 8 Nel 1998 la Direzione generale Ricerca della Commissione Europea costituì un gruppo di esperte ed esperti sul tema donne e scienza incaricandolo di redigere una relazione sulla situazione delle donne nella politica scientifica dell’Unione. Tutte queste e altre importanti iniziative, cui l’Italia ha partecipato, hanno favorito in primo luogo la raccolta di dati, punto di partenza per qualsiasi successivo intervento concreto, un lavoro imponente che ha portato al rapporto ETAN del 2000, seguito nel 2003 dal rapporto She figures 2003 e, circa un anno fa, da una nuova edizione, She figures 2006, centosedici pagine di dati statistici importanti non solo per chi si occupa di donne e scienza, ma per tutti coloro che si interessano di politiche della ricerca. 9 Nel corso degli anni Novanta, mentre giornali come Nature e Science sempre più di frequente ospitavano interventi su questi temi, diversi paesi europei mettevano a punto progetti mirati a favorire la carriera delle donne attive in campo scientifico. Nel 1995 in Svezia furono create 31 cattedre riservate a ricercatrici. Ovviamente gli uomini non erano esclusi dalla competizione, ma ottenevano l’incarico soltanto nel caso non vi fossero candidate idonee. Nel 1999 in Germania 8 H. A. Logue, L. Talapessy, (eds.), Women in science: International workshop 15th-16th February 1993 Proceedings, European Commission DGXII, Brussels 1993. 9 Il rapporto ETAN, altri documenti e informazioni relativi a progetti su donne e scienza in Europa sono disponibili nel sito del Community Research & Development Information Service (CORDIS) all’indirizzo http://cordis.europa.eu/improving/women/documents.htm. She figures 2003 e She figure 2006 sono rispettivamente disponibili agli indirizzi http://ec.europa.eu/research/science-society/pdf/she_figures_2003.pdf http://ec.europa.eu/research/science-society/pdf/she_figures_2006_en.pdf Ambasciatrice dell’Italia per diversi progetti europei è stata Rossella Palomba, curatrice di Figlie di Minerva. Primo rapporto sulle carriere femminili negli enti Pubblici di Ricerca italiani, Angeli, Milano 2000. Si vedano inoltre, Istat, Donne all’università, il Mulino, Bologna 2001; A. Valente, D. Luzi (a cura di), Partecipare la scienza, Biblink, Roma 2004 (http://www.biblink.it).
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l’Associazione dei centri di ricerca Hermann von Helmholtz finanziò un progetto per creare fino a 100 posti supplementari destinati a scienziate. In Olanda l’Organizzazione per la ricerca scientifica ha varato il programma ASPASIA nell’ambito del quale le ricercatrici possono presentare domanda per fondi di ricerca riservati. Si potrebbe continuare a lungo. 10 Soltanto nel 2005, in ogni caso, a cura della Direzione generale Ricerca della Commissione Europea veniva redatta una Carta dei ricercatori dove, con modalità a dire il vero piuttosto vaghe e a tratti ambigue, si invitano le istituzioni deputate alla ricerca, pubbliche e private, a rispettare anche i cosiddetti equilibri di genere nella fase di reclutamento e avanzamento di carriera. 11 In Italia, nel frattempo, la legge del 30 maggio 2003 introduceva una modifica all’art. 51 della Costituzione dove ora si afferma che “la Repubblica promuove con appositi provvedimenti le pari opportunità tra donne e uomini”. 12 Non mi risulta che in seguito siano state introdotte a livello nazionale misure che rispondano a queste sollecitazioni, europee e italiane, per favorire le donne attive nelle università e nei centri ricerca pubblici e privati, come d’altra parte denunciato di recente. 13 Tuttavia, non sono certo mancate le iniziative che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su un problema che, evidentemente, non riguarda soltanto le donne, ma l’intera comunità scientifica, se non altro in relazione alla crisi delle cosiddette “vocazioni” scientifiche. 14 Nel 2003 si è costituita l’Associazione Donne e Scienza, fondata da scienziate e studiose attive in Italia e in Europa in questo campo fin dagli anni Ottanta, che promuove l’ingresso e la carriera delle donne nella ricerca scientifica. 15 Singole università hanno organizzato progetti locali per premiare le migliori laureate in scienze o per attirare studentesse a facoltà come ingegneria. Scienziate attive fuori dell’università hanno promosso progetti finalizzati alla diffusione dei cosiddetti Gap, i 10
Nel rapporto ETAN sono elencati e descritti i progetti realizzati fino al 2000 (vedi nota 8). Carta europea dei ricercatori. Codice di condotta per l’assunzione dei ricercatori, 2005, disponibile all’indirizzo http://ec.europa.eu/eracareers/pdf/eur_21620_en-it.pdf 12 Si veda L./C. 1/03, Modifica dell’articolo 51 della Costituzione, all’indirizzo http://www.camera.it/parlam/leggi/elelenum.htm. 13 Si tratta di un vuoto denunciato dal “Gruppo di lavoro: equilibrio di genere nella ricerca e formazione scientifica” dei ricercatori e delle ricercatrici del CNR, coordinato da Silvia Caianiello. Il documento è disponibile all’indirizzo http://www.osservatorio-ricerca.it/nuovo/doc/CNR/ Equilibridigenere_Enti%20Ricerca.pdf 14 Negli ultimi anni le iscrizioni maschili nel settore scientifico denotano un calo, mentre le iscrizioni femminili sono in ripresa. Miur – DG Studi e programmazione, L’università in cifre, Le Monnier, Firenze 2006, p. 45 (il documento è disponibile all’indirizzo http://statistica.miur.it/ normal.aspx?link=pubblicazioni 15 Per le attività dell’Associazione Donne e Scienza vedi http://www.women.it/scienziate/ 11
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“gender action plans”. 16 Centri di ricerca su scienza e società e siti internet dedicati alla comunicazione della scienza svolgono ricerca e allo stesso tempo tengono informati il pubblico sulle attività nazionali e internazionali. 17 E si potrebbe continuare. La ragione per cui alcuni esperti ed esperte a livello europeo e nazionale si danno da fare per introdurre le cosiddette azioni positive, sta nel fatto che chi si occupa di questi temi sa che il passare del tempo di per sé non è il rimedio che porterà la soluzione dei problemi. Si prenda ad esempio la condizione delle studiose nel settore denominato Scienze filosofiche, storiche, pedagogiche e psicologiche. In quel campo le donne professore ordinario sono il 26,1%. Se si considera che in quel gruppo disciplinare le laureate erano circa il doppio dei laureati già sessant’anni fa, nell’anno accademico 1946-47, è facile intuire che, perché si arrivi all’equilibrio tra donne e uomini al top della carriera universitaria, aspettare e essere brave non basta, nelle scienze naturali così come in quelle sociali e cosiddette umane. 18 Nei mesi scorsi negli Stati Uniti si è assistito a un dibattito pubblico che ha visto cinque rettori delle principali università americane appartenenti alla cosiddetta Ivy League, riunirsi a Boston dopo l’elezione di Drew Gilpin Faust a rettore della Harvard University. L’elezione di Gilpin Faust, fino ad allora preside del Radcliffe Institute, era la risposta della comunità di Harvard alle polemiche suscitate dalle affermazioni dell’ex rettore Lawrence H. Summers in un discorso tenuto nel gennaio del 2005. Summers aveva insinuato che “issues of intrinsic aptitude” 19 soggiacerebbero alle difficoltà di carriera incontrate dalle donne nei settori scientifici e tecnologici. L’episodio scatenò polemiche violente ad Harvard con strascichi a livello 16
Tra le diverse iniziative segnalo: il premio “Le migliori laureate” organizzato, a cura di Miretta Giacometti, presso l’Università di Bologna (http://ilo.unibo.it/PREMIO%20MIGLIORI%20LAUREATE/Home.htm); le borse di studio messe a disposizione delle studentesse che decidono di iscriversi alla Facoltà di ingegneria dall’Università di Udine grazie a un progetto curato da Francesca Soramel e Rossana Vermiglio (http://qui.uniud.it/notizieEventi/ateneo/donnee-carriera-tecnico-scientifica); la fondazione di FAiR, l’associazione fondata da Elisabetta Giuffra e Simona Palermo, genetiste presso il Parco Tecnologico Padano (http://www.fair-research.eu/). 17 Tra le molte attività mi limito a segnalare le ricerche a cura di Valeria Arzenton e Massimiano Bucchi per Observa (http://www.observa.it); la sezione “Studi di genere”, a cura di Letizia Gabaglio, per Galileo (http://www.galileonet.it/canali?canale=Studi-di-genere); le ricerche di Daniele Gouthier e Federica Manzoli per Ulisse (http://ulisse.sissa.it/scienzaEsperienza/dossier/Uesp070427d001). 18 P. Govoni, “Donne e scienza nelle università italiane: dall’esclusione al sorpasso, 1877-2005”, in Atenei, 2006, pp. 151-158, disponibile all’indirizzo http://www.ateneirivista.it/archivio/pdf_riviste/5-6_2005_completo.pdf 19 L. H. Summers, “Remarks at NBER Conference on Diversifying the Science & Engineering Workforce”, disponibile all’indirizzo http://www.president.harvard.edu/speeches/2005/nber.html 127
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globale e, nonostante Summers si sia dato da fare per l’insediamento di una Task Force on Women, l’anno dopo fu costretto a dimettersi. L’episodio ha segnato una pietra miliare nella storia delle donne, e non è un caso sia avvenuto nel paese che per primo ha adottato, con severità e costanza dal 1980, le cosiddette azioni positive. Quell’episodio, tuttavia, è evidentemente significativo in particolare per le donne della Harvard University, che è la prima università nelle classifiche internazionali, 20 così come per tutte le donne attive nel campo della ricerca e della didattica a livello internazionale. Queste donne hanno un potere proporzionato a quello delle istituzioni per cui lavorano, un potere che, è importante ricordare, è dato dalla qualità e quantità della ricerca prodotta e della didattica offerta. Al contrario di quanto alcuni e alcune ancora sostengono, le azioni positive non mettono affatto in pericolo la qualità della ricerca e gli standard della didattica per favorire soggetti sociali deboli, 21 al contrario. Combinando la qualità della ricerca e del lavoro prodotti con le azioni positive si rimedia alle discriminazioni secolari nei confronti delle donne così come delle minoranze. D’altra parte, dall’approvazione dell’Equal Opportunity Act del 1980 nessun indicatore nazionale o internazionale ha mai denunciato un calo nella produzione scientifica americana a causa dell’inserimento nei laboratori e ai vertici della carriera delle donne. È evidente, in ogni caso, che nelle università e nei centri ricerca pubblici e privati, così come nella società in generale, perchè la realtà muti nel profondo in merito ai cosiddetti equilibri di genere, sono necessari cambiamenti culturali che non passano tanto attraverso le quote, quanto attraverso le relazioni umane in tutta la loro complessità, familiare e interpersonale, forse, prima ancora che sociale. Paola Govoni, storica della scienza, collabora con la Facoltà di Scienze della formazione e il CIS (Centro Internazionale per la Storia delle Università e della Scienza) presso l’Università di Bologna. È autrice di Un pubblico per la scienza (Carocci, 2002) e di Che cos’è la storia della scien-
za (Carocci, 2004). Di recente, ha curato Storia, scienza e società. Ricerche sulla scienza in Italia nell’età moderna e contemporanea (Bologna Studies in “History of Science”, 11, CIS, Università di Bologna, 2006). Sta scrivendo un libro su Donne e scienza in Italia dall’età liberale alla
repubblica.
20
La Harvard University è la prima università nelle classifiche internazionali. Per gli ultimi dati, vedi il “World University Rankings 2006”, in Times Higher Education Supplement, October 2006. 21 Questo era l’argomento tipico di chi in età vittoriana in Inghilterra si opponeva all’ingresso delle donne nelle università. 128
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Le nanotecnologie vanno alla guerra Maria Grazia Betti
L
e nanotecnologie, in Europa, Asia e Stati Uniti, sono divenute negli ultimi dieci anni uno dei principali obiettivi di investimento nella ricerca, sia in quella di base che in quella industriale. A differenza dei paesi europei e asiatici, negli Stati Uniti è esploso anche un consistente sviluppo delle nanotecnologie con applicazioni in campo militare. Dal 2001, cioè da quando la ricerca scientifica di base e industriale legata alle nanotecnologie ha iniziato il suo rapido processo di espansione, il Department of Defense (DoD) statunitense è stato infatti un mecenate di tutto rilievo, fornendo risorse alla ricerca per 70 milioni di dollari, divenute successivamente 224 milioni di dollari. 1 Nel 2006, inoltre, il DoD è arrivato a finanziare la ricerca nelle nanotecnologie per scopi militari fino a 424 milioni di dollari, una somma pari al 30% del totale dei finanziamenti federali alla ricerca nelle nanoscienze. Ma perché le nanotecnologie raccolgono tanto successo nel mondo militare? E quali sono, nello specifico, i prototipi che la ricerca scientifica mette a disposizione dei nuovi arsenali militari? L’espressione nanoscienza/nanotecnologia indica il filone scientifico/tecnologico che si occupa di architettura/ingegneria di nuove strutture atomiche e molecolari con specifiche proprietà e funzionalità. Negli ultimi anni abbiamo imparato a costruire nuove architetture atomiche e molecolari e a controllare dimensioni, forma e funzioni di una grande varietà di materiali su scala atomica, scoprendo in tal modo proprietà elettriche, meccaniche, ottiche e magnetiche spesso inattese. L’obiettivo tecnologico finale è di arrivare alla realizzazione di dispositivi costruiti atomo per atomo e capaci, perciò, di lavorare su scala nanometrica. Ma quale rivoluzione può portare nel campo delle applicazioni tecnologiche e militari questo nuovo filone della ricerca? La grande promessa della nanotecnologia è quella di proporre un’alternativa radicale alla tecnologia 1
Cfr. Defense Nanotechnology Research and Developments Programs, Department of Defense Director, Defense Research and Engineering. 129
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dei dispositivi elettronici invalsa fino a oggi. Mentre quest’ultima, infatti, si è concentrata sui processi di miniaturizzazione (top-down), la nanotecnologia si propone di assemblare i componenti più semplici (atomi e molecole) in nanostrutture specificamente finalizzate alla costruzione del dispositivo (bottom-up). Ma cosa possiamo realizzare attraverso questo nuovo processo? Ebbene, la tipologia dei prodotti nanotecnologici va dalla realizzazione di dispositivi ultraveloci per accelerare i processi di comunicazione, alla conversione dell’energia solare, dalla realizzazione di dispositivi o motori biomolecolari a bio-nanostrutture capaci di viaggiare in un’arteria del corpo umano, alla realizzazione di nuovi materiali con proprietà meccaniche e elettriche innovative, come per esempio i nanotubi di carbonio. È quindi evidente come le frontiere della ricerca nanotecnologica siano molte e interdisciplinari, investendo la chimica, la biologia, l’ingegneria, l’informatica e la medicina. Il DoD, dal canto suo, ha individuato alcuni obiettivi d’elezione nell’impiego delle nanotecnologie, come la composizione di nuovi esplosivi, la produzione di sensori chimici biologici e biomedici, la creazione di nuovi materiali per l’equipaggiamento dei soldati e per la realizzazione di nuovi mezzi bellici, l’immagazzinamento di energia, ecc. Nel marzo 2002 la Us Army ha inaugurato (e finanziato) l’Institute for the Soldier Nanotechnology (ISN 2 presso il Massachussets Institute of Technology (MIT) a Boston, con l’erogazione di 50 milioni di dollari per cinque anni. L’istituto è stato realizzato, inoltre, con la collaborazione di partner industriali come la Dupont e la Raytheon, con l’obiettivo principe di migliorare la protezione e la sopravvivenza dei soldati. È il caso di segnalare che al conseguimento dell’obiettivo hanno partecipato più di 40 accademici del MIT, esperti in ricerca di nuovi materiali per soldati nano-equipaggiati. Grazie a uniformi fornite di nano-sensori per rilevare agenti biologici o chimici, nonché di complesse strumentazioni in grado di potenziarne le abilità, il nuovo soldato, una sorta di incrocio tra un guerriero medievale pronto ad affrontare il confronto corpo a corpo con il nemico, e un cyborg-robot tanto sperimentato in tutta la filmografia fantascientifica, è per molti versi il simbolo di una nuova strategia di guerra. Lo spostamento del centro di gravità della ricerca finanziata dal DoD alla produzione di armi leggere e a equipaggiamenti avveniristici per i soldati, riflette infatti lo spostamento degli obiettivi militari nella politica statunitense. I progetti finanziati dal DoD non prevedono solo iniziative direttamente inserite in università come l’ISN per il MIT. Tanto per fare un esempio, il Piccatinny Arsenal, base militare nel New Jersey, produceva fino a pochi anni fa la maggioranza dei 2
Cfr. http://web.mit.edu/isn
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proiettili, bombe ed esplosivi dell’esercito statunitense. Ebbene, nel 2002 è stato riconvertito in un centro di ricerca della Us Army, l’Armament Research Development and Engeneering Center (Ardec), una società mista, pubblica e privata, a cui partecipano sei università di prestigio tra cui la Princeton University e la Nanovalley, società non profit sorgente e incubatrice di progetti di nanotecnologia con applicazioni principalmente nel campo strategico e militare finanziata nel 2002 con 3,5 milioni di dollari e nel 2003 con 6 milioni di dollari. Mark Mezger, coordinatore del programma di nanotecnologie a Piccatinny, chiarisce in un’intervista i fini del progetto: “l’obiettivo della Nanovalley è di far si che la Us Army possa accelerare il processo di fabbricazione di prototipi di nanomateriali e nanotecnologie per ideare una nuova generazione di armi e di attrezzature militari, in un ambiente di cooperazione in cui i prototipi studiati nelle università possano essere impiegati nella produzione industriale con uno scopo duplice, sia civile che militare, dando così l’opportunità alle università di usufruire di finanziamenti governativi e di beneficiare dei legami con le grandi imprese. Inoltre la Nanovalley (in un circolo virtuoso) può contribuire al finanziamento degli arsenali militari guadagnando dalle royalties sulle proprietà intellettuali realizzate nel progetto”. Nelle parole di Mark Mezger è sintetizzato tutto il cammino che i finanziamenti militari alla ricerca scientifica hanno percorso dalla fine della guerra fredda a oggi. Da progetti volti alla realizzazione di armi di distruzione di massa (progetto Manhattan, scudo stellare di Reagan) si è passati a progetti militari-accademici-industriali di cooperazione finalizzati alla produzione di brevetti e proprietà intellettuale che, se da un lato premiano le università con finanziamenti governativi (un autentico miraggio dopo il 1989), dall’altro finanziano le imprese garantendo obiettivi di produzione civili e militari, quindi un vasto mercato. È un processo subdolo che non pone solo problemi etici nel mondo accademico coinvolto direttamente nella ricerca militare, ma mina profondamente le strutture democratiche della ricerca scientifica: non si producono risultati scientifici condivisi dalla comunità scientifica, divenendo l’obiettivo principe la produzione di proprietà intellettuali da immettere sul mercato. Ripercorrendo, sia pure brevemente, il cammino dei finanziamenti militari alla ricerca scientifica dalla seconda guerra mondiale a oggi, sarà forse più facile comprendere quali siano gli interessi militari per le nanotecnologie. Nel bene e nel male la guerra fredda ha ridefinito la scienza americana e, di riflesso, la comunità scientifica internazionale. Il DoD nel decennio che ha seguito la seconda guerra mondiale è divenuto il principale mecenate della scienza statunitense, coprendo circa il 56% del finanziamento statale per la ricerca 131
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e lo sviluppo (R&D) negli anni Cinquanta. Questa rivoluzione industriale della ricerca scientifica nasceva però da un peccato originale che aveva sconsacrato la torre d’avorio in cui vivevano la maggior parte degli scienziati: la creazione della bomba atomica. Un esperimento unico non solo di trasferimento tecnologico e organizzazione industriale in cui le conoscenze di fisica nucleare note a un piccolo cenacolo di esperti erano riuscite a trasformarsi nella più micidiale e devastante arma grazie a una poderosa impresa tecnologica dai costi di gran lunga superiori agli investimenti usuali. Si era passati rapidamente dall’industria manifatturiera ai grandi stabilimenti industriali, dai piccoli laboratori di ricerca dove lavoravano poche decine di persone, ai santuari della big science: enormi centri di ricerca come Los Alamos e Oak Ridge. Anche se le Università americane avevano svolto un ruolo minore rispetto ad altri centri di ricerca, esse hanno comunque avuto un’importanza indispensabile per ottenere quello che il senatore J. William Fulbright chiamò il military-industrial-academic complex: il triangolo d’oro costituito delle agenzie militari, l’industria ad alta tecnologia e le università di punta, di cui il MIT, divenne il fulcro su cui si basò la struttura di sostegno alla politica nazionale e internazionale americana per tutto il periodo della guerra fredda. Il 1989, tra le altre cose, ha segnato un momento di speranza per il disarmo e per una nuova direzione della ricerca scientifica statunitense. Sebbene si sia osservata una flessione dei finanziamenti alla ricerca da parte del DoD fino al 2000 e sebbene i finanziamenti per la ricerca non militare abbiano sopravanzato quelli della ricerca militare, dopo l’attacco dell’11 settembre 2001 si è verificata di nuovo un’impennata e nel 2003 il DoD è stato al primo posto tra le agenzie federali che hanno finanziato la ricerca scientifica, aumentando il budget dedicato alla ricerca e allo sviluppo (R&D) contro il terrorismo fino a 2,9 miliardi di dollari. Finita l’era della guerra fredda, la nuova avventura militare americana dopo l’attacco alle due torri non è stata più basata nel perfezionamento e l’ottimizzazione di single deadly technology, come le bombe nucleari o gli armamenti letali di distruzione di massa. La nuova competizione sulle armi nasce ora con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo e l’integrazione di sistemi robotici avanzati e biotecnologici negli apparati militari. Una fetta cospicua di finanziamento alla ricerca va quindi alle nanotecnologie. La Us Army appare uno dei possibili sponsor nella nuova competizione tra i nuovi finanziatori della ricerca che lavora sullo stesso piano degli altri partner industriali. La ricaduta tecnologica dell’ISN del MIT e della Nanovalley in New Jersey potrà essere di impiego militare e di impiego civile. Si è passati dalla guerra fredda, simbolo della guerra impossibile perché sinonimo di distruzione del pianeta, alla guerra da 132
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Pace e guerra
supermercato e del fai da te, dove si possono acquistare tutti gli equipaggiamenti per affrontare la guerra come un autentico Rambo del futuro. Prodotti lanciati sul mercato non solo per equipaggiare i soldati, per inventare nuovi dispositivi ed esplosivi di proprietà dell’esercito, ma anche per equipaggiare ogni singolo cittadino che voglia costruire un suo sistema di autodifesa in un mondo in cui la sicurezza da possibili attacchi terroristici è diventato uno degli argomenti principe della politica internazionale. La ricaduta nel mondo scientifico statunitense di questa nuova concezione della difesa individuale e collettiva da nemici reali, virtuali e mediatici, ha portato conseguenze che non si esauriscono nell’inserimento nelle università di prestigio di strutture militari. Le recenti modalità con cui oggi viene finanziata la ricerca, non solo militare, rivelano alcuni indici allarmanti (conflitti di interessi, proprietà intellettuale e brevetti, concorrenza tra agenzie di finanziamento) che possono minare profondamente l’esistenza stessa della comunità scientifica. Sono allarmanti perché alterano soprattutto il bagaglio di regole di controllo della produzione scientifica e i codici di comportamento deontologico acquisiti nel corso degli anni e sedimentati nelle relazioni internazionali. Questo cambiamento radicale, che vede l’esigenza di una conversione diretta di conoscenza scientifica in impiego tecnologico, penalizza tutti gli ambiti della ricerca e della produzione intellettuale, in cui il prodotto finito deve essere immesso nel mercato in tempi brevi e deve rispettare non le condizioni ottimali ma quelle del maggior profitto e della concorrenza. Questo processo non rispetta la creatività scientifica che richiede una gestazione in tempi e in luoghi non sempre prevedibili ma soprattutto penalizza tutto il codice di regole collettive che hanno governato il mondo della ricerca scientifica. Il problema da affrontare non è solo quello di regolare e controllare le fonti di finanziamento alla ricerca scientifica – e non si risolve solo con un’obiezione di coscienza ai finanziamenti militari – ma è soprattutto quello di ridare uno spazio di libertà al mondo di produzione intellettuale al di fuori delle regole del mercato, salvaguardando le regole universalmente riconosciute della comunità scientifica. È un problema che non riguarda solo il finanziamento della ricerca scientifica negli Stati Uniti, ma investe tutti i paesi industrializzati ed è di importanza cruciale per garantire un ordinamento democratico della società e per sperare di poter governare uno sviluppo sostenibile per il futuro, non guidato da criteri di profitto e mercato ma dalle esigenze e dai parametri di qualità della vita. Le regole stabilite dal trattato Trade-Related Intellectual Properties (TRIPS) che regola la gestione dei brevetti per le nazioni dei paesi industrializzati segue una politica senza precedenti di privatizzazione del patrimo133
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nio culturale (privatisation of knowledge). Asservire la ricerca scientifica alle regole del mercato non significa solo beneficiare unicamente chi guadagna da questi processi di produzione (guerra compresa), ma soprattutto depaupera rapidamente il patrimonio culturale di ricerca e di conoscenza che viene relegato a un ruolo del tutto marginale.
Bibliografia Defense Nanotechnology Research and Developments Programs, Department of Defense Director, Defense Research and Engineering http://web.mit.edu/isn/ S.W. Leslie, The Cold War and the American Science, Columbia University Press, New York, 1993 N. Chomsky et al., The Cold War & the University, The New Press, New York 1997.
Maria Grazia Betti è docente di Fisica Sperimentale presso il Dipartimento di Fisica dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza”. Ha svolto attività didattica e di ricerca in Fisica della materia condensata presso la SISSA di Trieste, le Università di Roma e Modena, l’Università Pierre e Marie Curie di Parigi e presso laboratori di luce di sincrotrone in Italia, Francia, Germania e Stati Uniti. Gli interessi di ricerca oggi sono rivolti soprattutto alla Fisica sperimentale dello stato solido e, in particolare, ai sistemi nanostrutturati e alle transizioni di fase metalloisolante. Ha pubblicato più di 100 lavori su riviste scientifiche di rilevanza internazionale. Negli ultimi anni, ha promosso iniziative di divulgazione scientifica, con particolare attenzione ai meccanismi di finanziamento della ricerca scientifica, alle responsabilità degli scienziati e alle relazioni tra scienza e pace/guerra. 134
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Un bisogno “vitale” Andrea Cerroni
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er comunicazione della scienza si potrebbe intendere un’attività (filantropica o a certe condizioni lucrativa) pensata di corredo all’educazione obbligatoria, a vantaggio di giovani poco informati o male formati o di più o meno giovani curiosi, appassionati, amatori. Oppure, più cinicamente, un ritrovato di successo dell’infotainment, o un veicolo pubblicitario per prodotti o corsi universitari poco appetibili. O, infine, uno strumento per fare cassa di risonanza ai cahiers de doléances dei ricercatori per sollecitare più cospicui finanziamenti pubblici. Senza escludere né che la comunicazione della scienza sia tutto questo e neppure che si possa essere accesi sostenitori di talune di queste attività e maltolleranti di altre, oggi essa si segnala però come qualcosa di molto più ampio e rilevante, che deve entrare a far parte della forma mentis (e dei curricula) di tutti gli scienziati, oltre che affermarsi con il proliferare di nuove figure “ibride” fra scienziato e cittadino “ingenuo”. Proviamo dunque a prendere dal rumoroso intrico della quotidianità e del nostro lavoro, da quanto silenziosamente diamo per scontato per nostra abitudine o presa di posizione sociale, il distacco di un passo lungo. La scienza, si converrà, è un insieme variegato di attività che, tra l’altro, mirano tutte a produrre conoscenza socialmente fruibile, in risposta a bisogni di sopravvivenza o di qualità della vita, di interessi più o meno generali o magari di “semplice” curiosità. Comunicare la scienza vuol dire, allora, far sì che il maggior numero possibile di individui partecipi a questa fruizione. E, più precisamente, che ogni knowledgeable citizen sia – letteralmente – abile e abilitato a partecipare alle quattro fasi della circolazione della conoscenza: produzione di nuova conoscenza attraverso lavoro e attività quotidiana; validazione, legittimazione e istituzionalizzazione dell’episteme; diffusione in termini di risposte a bisogni materiali e intellettuali; formazione dei suoi concittadini vecchi e nuovi. Già a questo punto si vede che la comunicazione della scienza, come insieme delle attività che rendono la conoscenza un bene pubblico, ha una portata sociale decisiva. 135
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Ma per evidenziarne del tutto il ruolo essenziale, facciamo ancora un passo e gettiamo lo sguardo a tre grandi sfide del XXI secolo. Innanzitutto, stiamo andando verso una specie sociale nuova, la società della conoscenza. La specificità che la contraddistingue sta nel fatto che essa è centrata su un processo in precedenza offuscato da altri dominanti e cioè la produzione di conoscenza a mezzo di conoscenza, con l’accresciuto rischio che surplus locali di conoscenza vengano segregati da “impalpabili” monopoli cognitivi. La comunicazione della scienza è, dunque, anche un canale di trasparenza, fluidità e controllo dei “legami forti” tra scienza e società. In secondo luogo, stiamo registrando l’avvenuta accelerazione nello sviluppo – tutt’altro che indolore e incontrastato – della cosiddetta società degli individui. Individui sempre più differenti fra loro che vogliono essere egualmente liberi di tessere traiettorie di vita pubblica e privata personalissime, anzi uniche, si confrontano quotidianamente fra loro sull’intero (o quasi) pianeta, influendo reciprocamente sui propri percorsi e sulla propria identità. La comunicazione della scienza è, allora, il canale attraverso il quale l’agire conoscitivo degli individui si alimenta di conoscenza e va ad alimentare il motore dell’intera società. In terzo luogo, sul piano di quella che sarà la storia della scienza del XXI secolo, si sta per configurare una Grande Convergenza fra nanotecnologie, biotecnologie, tecnologie informatiche e neuro-cognitive (NBIC Convergence) che farà saltare molte delle dicotomie (a cominciare da quelle fra scienza e tecnica e fra scienze della natura e dell’uomo) sulle quali si è basata sia la scienza moderna, per garantirsi l’avvio esplosivo che ha avuto, sia la visione “moderna” del mondo, che su quella si è basata per spunto o per contrasto. La comunicazione della scienza, con il suo naturale stimolo interdisciplinare e la sua apertura per definizione pubblica, è anche un antidoto contro la sclerosi e l’ottusità degli specialismi (alla realtà sono ignoti i nostri confini disciplinari e professionali, mentre deformazioni intellettuali e assetti di potere sono realtà che la sociologia della scienza deve studiare). Affrontando queste tre sfide, insomma, stiamo abbandonando l’orizzonte della modernità. E non stupisce, di conseguenza, che le due tradizioni intellettuali prettamente moderne siano in difficoltà, né che si stiano sempre più bellicosamente facendo la lotta come i manzoniani capponi di Renzo. Infatti, la comunicazione della scienza fa oggi i conti con un’incomunicabilità storica fra quelli che sono sempre stati i “nemici della scienza” e quelli che stanno diventando i “falsi amici” dello spirito scientifico. Il tiro alla fune che da tre secoli va avanti fra Illuminismo e Antilluminismo, fra scientismo e antiscienza (o per qualcuno fra scienza e cultura, ragione e sentimento, apollineo e dionisiaco) è 136
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ormai arrivato al punto di rottura: dietro a recrudescenze antidarwiniane e anticopernicane o a proclami tecnofobici o tecnofrenici, si agitano prese di posizione che difendono (o danno adito al sospetto di difendere) mere posizioni di lobbies di potere. Sulla via di un superamento di questo empasse comunicazionale, per un verso dovrà essere corretto l’errore esiziale dell’Illuminismo, quello cioè di aver postulato (con il commendevole proposito dell’universalità dei diritti umani) una razionalità meramente intellettualistica e una natura umana eguale perché preistorica. Che la società sia, in altre parole, una mera sommatoria di soggetti astratti astrattamente contraenti, che “l’essenza” della vita umana risieda nel pensare-in-astratto e che le differenze siano solo apparenti (fenomeniche), in quanto dietro vi è una realtà unica e costante (chiamiamolo Mito dell’Uomo del pensiero). Di qui un certo Illuminismo aveva fatto due deduzioni: la necessità di ridurre i problemi – intrinsecamente complessi ma pur abbordabili – della natura e della società alle soluzioni – disponibili ma meccanicistiche e semplicistiche – delle discipline accademiche come storicamente costituite, e la sufficienza di una democrazia senza bisogno di esponenziali iniezioni di conoscenza riflessiva. Oggi questo Illuminismo prende le forme di uno scientismo (utopismo e ucronismo della conoscenza, mito del progresso inevitabile, varie forme di riduzionismo, individualismo sociologico) che l’Antilluminismo, seppure in forme parziali e contraddittorie, aveva pur saputo individuare. A questo Illuminismo presbite e irriflessivo chiederemo, dunque, di rivolgere lo spirito scientifico su di sé, sulla ragione storica e sulla scienza medesima (esiste già un embrione di science of science). Ma, contemporaneamente, andrà corretto l’errore esiziale dell’Antilluminismo, quello di concepire la vita umana come istinto, sentimento irrazionale e tradizione, forza vitale di un corpo o di un popolo-nazione, dunque altro-dallascienza, e la conoscenza storica come re-lativa alla propria e unica zolla impermeabile alle ragioni individuali, meta-storica. Di qui, un certo Antilluminismo aveva dedotto che la vera conoscenza sia altra dalla “scienza universalizzante” e che i problemi vadano risolti con un’azione di forza, che l’espansione della democrazia sia intrinsecamente nefasta, che la bestia umana vada guidata dall’alto da un capo e così via con i ben noti esiti novecenteschi (chiamiamolo Mito del Superuomo del fare). E, inoltre, che la qualità di una conoscenza non risieda nella capacità di convincere individui che la pensano diversamente, ma nella forza di vincerli, o almeno, se non si è proprio sicuri di farcela, di conviverci in paralleli universi (simbolici e fattuali). E che le cose sono diverse da quelle descritte dalle anime belle, che ci sia anzi spesso una cospirazione che 137
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stravolge la realtà a suo vantaggio e che va sconfitta per impedire il declino della Civiltà. Per questa dietrologia il problema è sempre un altro. Oggi questo Antilluminismo prende le sembianze dell’Antiscienza: relativismo assoluto della conoscenza, terrorismo morale del pendio scivoloso e del declino, varie forme di essenzialismo, comunitarismo organicistico. A questo Antilluminismo cinico o inane, più o meno totalitario, chiederemo, dunque, di farsi l’esame di coscienza e i conti con il rigore e il buon senso. Se, poi, vi è uno scientismo di destra facile alleato di uno scientismo di sinistra, e un’antiscienza di sinistra altrettanto facile alleata di un’antiscienza di destra, questo è perché nella società della conoscenza non è più possibile delineare le classiche (moderne) dicotomie fra proprietà e lavoro, proprietari e prestatori d’opera e vanno anche aggiornate le stesse categorie di libertà ed eguaglianza. La conoscenza è il bene meno appropriabile e di origine più pubblica che ci sia, perché rimonta all’intero genere umano. D’altronde, la prestazione dei lavoratori della conoscenza è la meno materiale e misurabile in unità di tempo omogenee, dunque, è il lavoro meno produttivo in senso moderno. Il mezzo di produzione, infine, è sempre più il proprio cervello (mente d’opera) e la conoscenza dell’intero genere umano, e il prodotto è sempre più immediatamente pubblico (pubblicato e di dominio pubblico). Le due culture e il comune sfondo culturale delle tradizioni politiche moderne inibiscono la governance di una società democratica basata sulla scienza, mettendo a rischio la stessa Civiltà umana. Abbiamo un bisogno – letteralmente – vitale di comunicazione della scienza, quale garanzia di fronte alle sfide cognitive e alle rivoluzioni conservatrici, ai rigurgiti medievali e alle tentazioni tecnocratiche, di fronte all’incipiente mutazione antropologica cui va incontro la nostra specie.
Andrea Cerroni, laureato in Fisica, già Controller della R&S in aziende, è sociologo nell’Università di Milano-Bicocca e delegato nazionale per il comitato “Science in Society” (7 FP). Ha pubblicato: Scienza e società della conoscenza (Utet, 2006); Homo transgenicus. Sociologia e co-
munciazione delle biotecnologie (Franco Angeli, 2003); Valutare la scienza (Rubbettino Editore, 2003); Libertà e pregiudizio (Franco Angeli, 2002); Categorie e relatività. Metodo, cognizione e
cultura nella scoperta di Einstein (Unicopli, 1999). 138
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Non ci sono più i morti di una volta! Francesco Paolo de Ceglia
Che bell’affare! Anche James Bond ha voluto farci una capatina. Chi abbia visto Casino Royale, ultimo episodio della saga del più famoso 007 di Sua Maestà Britannica, ricorderà una scena ambientata in una mostra piuttosto inconsueta, in cui a essere esposti erano cadaveri scuoiati e fissati in pose plastiche. Meno male che è tutto finto, avrà pensato lo spettatore tirando un sospiro di sollievo. Si è sbagliato però, perché la mostra esiste davvero: si tratta di Körperwelten o, se si vuole, in termini globish, di Body worlds, la collezione di cadaveri imputrescibili, che da più di dieci anni l’eccentrico Gunther von Hagens sta facendo girare per i musei di mezzo pianeta, benché il suo progetto non sia mai approdato né in Italia né in alcuno dei paesi tradizionalmente considerati cattolici. La plastinazione – questo il nome del processo – fu inventata da von Hagens alla fine degli anni Settanta, allorché egli lavorava come tecnico di laboratorio presso l’Istituto di Anatomia dell’Università di Heidelberg. Consistendo nell’eliminazione dell’acqua dal corpo attraverso un bagno di acetone e nella sua sostituzione con materie plastiche, la tecnica permetteva, a giudizio dell’inventore, di ottenere pezzi di grande utilità per lo studio e la didattica: essi si presentavano senza imprecisioni di sorta, a differenza dei modelli artificiali, pur essendo né putrescibili né alterati in forma o colore, come invece accadeva ai preparati anatomici conservati in formaldeide. Gunther von Hagens comprese immediatamente le potenzialità del processo, tanto che, subito dopo averlo brevettato, fondò, già nel 1980, la Biodur, la prima di una lunga serie di imprese miranti a sfruttare commercialmente l’invenzione. Quanto alla provenienza dei corpi impiegati nelle prime ricerche, molti ancor oggi aggrottano le sopracciglia: alcune fonti ben informate parlano di un russo, direttore di penitenziario, che gli avrebbe passato i cadaveri non reclamati dei detenuti; altre del traffico di salme di cinesi giustiziati. Voci non documentate però, quindi non si sa quanto affidabili. D’altronde chiunque si 139
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cimentasse in ciò che fa von Hagens, fosse anche il più cristallino degli uomini, non potrebbe non confrontarsi col mito di Frankenstein, cui da certa stampa viene accostata persino la quasi totalità dei genetisti. Ma questo è un altro discorso. Ora il problema del reperimento del “materiale” non sussiste più: man mano che i mass media concedevano attenzione alla collezione, migliaia di individui donavano il proprio corpo a quella che è diventata la Von Hagens Plastination Ltd, un colosso in espansione con centinaia di dipendenti e sede operativa a Dalian, in Cina, dove sta prendendo forma una Plastination city. Il maestro tedesco insegna come trattare i cadaveri ai cinesi e questi gli concedono spazi e mezzi.
Naturale e artificiale L’arte – l’umano creare, il realizzare qualcosa di artificiale, appunto – è stata a lungo intesa dalla tradizione occidentale come una simia naturae, una scimmia, ossia un’imitatrice, della natura. Un artefatto era tanto più riuscito, quanto più simile all’oggetto che si prefiggeva di rappresentare. Creare immagini verosimili significava realizzare effigi bi o tridimensionali che, a fini illusionistici, conservassero le imperfezioni dell’originale. Gaetano Giulio Zumbo, considerato il primo dei ceroplasti anatomici, alla fine del XVII secolo, forgiava teste con caratteri somatici non ancora normalizzati, come il naso adunco e i tessuti rilasciati per l’età avanzata, nonché arricchiti di particolari realistici, come la barba (le rappresentazioni anatomiche sono tricofobiche) o il sangue sgorgante da naso e bocca. Per aumentare l’illusione di verosimiglianza, aggiungeva quindi i segni di un’incipiente putrefazione. Si veda in proposito la sua Testa di vecchio, conservata al Museo della Specola di Firenze. Tutto è più vero del vero. Il ventesimo secolo ha reso più fluidi i confini tra cultura e natura. Quest’ultima è divenuta simia artis, scimmia dell’arte. O forse, più correttamente, si potrebbe dire che si è più inclini a considerare nella fattispecie il corpo umano come un mix di organico e inorganico, un precipitato di norme naturali e culturali, una realtà cyborg o post-umana. È questo quanto più potentemente emerge da Body worlds. Le fattezze dei preparati, sempre mondati dei tessuti adiposi, si rifanno a una bellezza da catalogo Mattel: gli uomini diventano Big Jim e le donne Barbie. Età e appartenenza etnica sono cancellati: life in plastic, it’s fantastic, recitava qualche anno fa una canzone del gruppo danese degli Aqua. Alcuni donatori hanno dichiarato di cedere il proprio corpo perché, anziani e in decadenza fisica, desideravano riacquisire la forma e il tono perduti negli anni. Altri di voler essere smaglianti quando le trombe del giudizio li avrebbero richiamati in vita. Millenarismo e michaeljacksonismo si fondono. In questo, 140
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Body worlds incarna il beffardo sogno di una liposuzione post mortem. Risponde all’esigenza di un narcisismo postumo. I corpi di von Hagens sono oggetti naturali (ma fino a che punto?) che imitano l’arte. È il caso ad esempio del Giocatore di scacchi, il preparato con cui si mette in bella mostra il sistema nervoso periferico, che “scimmiotta” il Pensatore di Auguste Rodin. Il Corridore, con i muscoli di gambe e braccia esplosi, il quale ricorda le Forme uniche della continuità nello spazio di Umberto Boccioni. Un Corpo esploso verticalmente sembra richiamarsi a una delle inconfondibili sculture allungate di Alberto Giacometti. I modelli sarebbero ancora tantissimi: da Leonardo da Vinci a Salvador Dalí, da Antonio Canova a Naum Gabo. Non soltanto citazioni di opere d’arte, tuttavia. Vi sono anche riferimenti a classici dell’iconografia anatomica. Per così dire, il naturale cita l’artificiale, che cita il naturale. L’uomo che regge la propria pelle riporta alla mente un’incisione cinquecentesca di Gaspar de Becerra rinvenibile nel vesaliano Historia de la composición del cuerpo humano di Juan Valverde de Hamusco (per altri versi, ricorda la figura di San Bartolomeo che regge la propria pelle nel Giudizio universale di Michelangelo). L’Uomo a cavallo rievoca un preparato anatomico ottocentesco di Honoré Fragonard, il quale a sua volta è la trasposizione tridimensionale del Cavaliere, la morte e il diavolo di Albrecht Dürer. Vi sono poi fette di cadaveri di pochi millimetri, che da una parte, riportano alla mente le tavole della Anatomia topographica, sectionibus per corpus humanum del russo Nikolay Pirogov, il quale operava su corpi che l’inverno di San Pietroburgo aveva reso facilmente “affettabili”, dall’altra danno concretezza materica ad una ben più consueta immagine di tac.
Un successo della scienza? La collezione ha avuto successo sin dal debutto, avvenuto a Osaka nel ’96. La prima tappa europea, protrattasi per quattro mesi, nel ’98 a Mannheim, attrasse almeno un milione di visitatori. A Vienna, nel ’99, si dovette tener aperta l’esposizione 7 giorni la settimana, 24 ore al giorno. Vi intervennero gli acrobati del Cirque du Soleil, i quali, con i loro virtuosismi ginnici, esplicitarono l’uso e le potenzialità di quei muscoli, che i corpi plastinati potevano mostrare solo in termini statici. Studenti di medicina si resero inoltre disponibili a fornire chiarimenti anatomici. In Giappone, Corea, Stati Uniti il flusso di visitatori è stato incontenibile; maglie, cappellini e gadget vari col morticino di turno in bella vista sono andati a ruba. Ora sono addirittura tre le mostre che girano in contemporanea, soprattutto in America del Nord e Asia. La prima è quella storica. La seconda, Body worlds2, 141
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vuole presentare un cadavere… più dinamico, dal momento che è lo sport a farla da padrone: vi sono preparati che, ad esempio, pattinano o fanno yoga in pose a dir poco acrobatiche. La terza, Body worlds3, ritorna a citare Medioevo e Rinascimento, con le sue riproposizioni 3D di classici dell’epoca, come il vesaliano Scheletro che prega. In realtà, una comparazione tra le tre mostre denuncerebbe uno slittamento verso il gusto del mercato americano, dominato da un lato dal culto del salutismo ginnico, dall’altro dalla fuga verso un passato mitologico di evidente sapore disneyano. Body worlds si presenta come una mostra didattica, ma lo è davvero? Forse sì, ma per ciò che essa è, non per come vuole vendersi. I suoi aspetti intenzionalmente didattici appaiono infatti abbastanza banali e moralistici. Superati dai tempi. Tra i pezzi esposti, vi sono organi devastati da una vita “dissoluta”: polmoni anneriti dal fumo e fegati annientati dall’alcol. Un po’ da libro di scienze per la scuola media appena unificata! Il Corpo ortopedico mostra le possibili protesi applicabili a un essere umano: le “magnifiche sorti e progressive” della scienza sono così, positivisticamente, esaltate. Un’attenzione particolare è concessa ai “difetti” fisici, congeniti o acquisiti: tumori, ingrossamenti o deformazioni di organi ecc. L’anima progressista di Body worlds, nell’esibire feti macrocefali e gemelli siamesi, scade in quella della più barocca Wunderkammer. Non finisce qui. Intorno alla mostra ruota un universo di attività didattiche o presunte tali. La televisione, specie in Gran Bretagna, in questo ha svolto un ruolo di primaria importanza. Channel 4 – per intendersi, la rete che ha mostrato le foto di Lady D agonizzante – ha da subito cavalcato il successo delle esposizioni, dedicando tutta una serie di appuntamenti televisivi a von Hagens e alle sue mirabolanti tecniche. Nel gennaio del 2006, ad esempio, dopo il grande successo di Anatomy for Beginners, sono state trasmesse quattro puntate dal titolo Autopsy: Life and Death. Istrionico, il tedesco vi disseca cadaveri di donatori, mostrando le cause della loro morte; tutto con il lodevole scopo di far prevenzione sanitaria e comunicazione scientifica. Alcune scelte degli autori appaiono nondimeno discutibili. Innanzitutto, il gusto splatter, talvolta cronenberghiano, di alcune scene, evidentemente create ad arte, come quella in cui un liquido giallastro, una volta iniettato, perforando l’intestino, ne fuoriesce con uno zampillo così vivace da bagnare dappertutto. Fin qui tutto prevedibile. Nessuno ha invece denunciato che a emergere dal programma è un’immagine Sei-Settecentesca del corpo umano. Le quattro puntate, dedicate rispettivamente a Circolazione, Cancro, Avvelenamento, Invecchiamento, mostrano organismi la cui salute è considerata legata alla buona circolazione di umori di varia natura. Sembra quasi di assistere 142
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a una dissezione anatomica ancien régime; una di quelle che si sarebbero potute tranquillamente svolgere al cospetto dei grandi medici sistematici della prima metà del XVIII secolo – Georg Ernst Stahl, Friedrich Hoffmann, Herman Boerhaave, per esempio – i quali, appunto, guardavano al corpo come a una complessa macchina idraulica, in cui erano rallentamento e stasi dei fluidi a causare patologie di ogni sorta. Un’immagine tanto intuitiva, quanto fuorviante. Occlusioni di varia natura – emboli, calcoli, cisti, cancri ecc. – nella kermesse di Channel 4 diventano i veri nemici da combattere. Lì si annida ogni causa di malattia. Addirittura, in termini inconsapevolmente aristotelici, il corpo dell’anziano vi viene inteso come una sorta di sclerotizzazione rinsecchita di quello del giovane. Di più, ma questo Aristotele non lo dice, la vecchiaia vi è presentata come una sorta di malattia della giovinezza: ciò la dice lunga sull’audience di riferimento, salutista alla “Men’sHealth”. Gli ascolti sono stati altissimi; così nel settembre del 2006 i responsabili del palinsesto hanno annunciato di voler realizzare un film di 90 minuti intitolato Crucifixion, per mostrare, attraverso la dissezione di un cadavere crocifisso, che cosa sia successo al corpo di Cristo. Gli autori avranno tratto spunto dal contestatissimo concerto di Madonna… In realtà, quello dell’esplicita divulgazione scientifica è poco più che un pretesto, come mostra in tutta la sua capziosità anche la campagna di raccolta cadaveri (chissà se sforzi analoghi sono stati mai profusi per invogliare alla ben più importante donazione di organi!). Il von Hagens’s Body Appeal, trasmesso dalla solita rete televisiva, chiede uno sforzo di civiltà: occorre donare il proprio corpo alla scienza, perché gli studenti di medicina non hanno cadaveri (plastinati) su cui esercitarsi. Il fine è nobile, non lo si mette in dubbio, anche se forse sarebbe opportuno parlare pure della dimensione economica dell’operazione, la quale a von Hagens e al suo gruppo frutta proventi dai numerosi zeri. Ciò che colpisce è soprattutto la retorica impiegata, che, ancora una volta, sfrutta un immaginario medico out of fashion, proprio di chi di medicina non sa evidentemente nulla. Secondo gli autori la mancanza di cadaveri su cui prepararsi farebbe infatti dei medici personaggi simili a quello che lo stesso von Hagens interpreta in uno sketch: un meccanico che ha studiato come è fatto un motore, ma che non sa ripararlo, perché non ci ha mai messo le mani. L’apoteosi è raggiunta quando, in un crescendo di affermazioni agghiaccianti, uno studente dell’Imperial College enfatizza l’importanza dell’uso di corpi reali, ammettendo che, quando ha partecipato alla prima delle esercitazioni su un cadavere, ha scoperto che le arterie non sono così rosse come mostrano i libri né le vene sono così blu. Sarebbe interessante sapere quanti siano rimasti sorpresi dinnanzi a cotanta rivelazione! 143
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Il fascino del perturbante La scienza c’è, ma bisogna scavare. Body worlds pone il problema del corpo. Disorienta. Getta curiosità sulle tecniche di conservazione. Rimette in gioco i confini tra naturale e artificiale, scienza e arte. Sdogana la nudità. Interroga su voyeurismo e feticismo. Fa emergere interrogativi sopiti su uno degli argomenti “pornografici” per eccellenza, la morte. Porta la peste, per dirla con Antonin Artaud. Se, da una parte, con la promessa della bellezza postuma, consola gli afflitti; dall’altra, denunciando l’inevitabile prossimità della morte, affligge i consolati. In altri termini, emoziona. Fa pensare. In fondo, sapere a che cosa, non importa. È un grottesco teatro di comunicazione informale. Body worlds costringe a non girare la testa dinnanzi al funus, il cadavere, che dalla fine dell’età moderna, come le ricerche, ormai classiche, di Philippe Ariès hanno già da tempo chiarito, è stato estromesso dal consorzio dei vivi, per motivi culturali prima ancora che igienici. D’accordo, si tratta di un morto imbellettato – una morte addomesticata e inodore, si potrebbe dire – che tuttavia irretisce macabramente. Che spinge a guardare negli occhi degli altri e a cercare di indovinare nei loro pensieri, la qual cosa è un po’ come tentare di far luce nei propri. I visitatori, i quali si scambiano sguardi interrogativi, risatine e ghigni, sono in qualche modo parte integrante della mostra. I cataloghi di Body worlds, diversamente da quanto accade per quelli di mostre più canoniche, li ritraggono spesso, attoniti, accanto ai singoli pezzi che scrutano. Non a caso, quando Channel 4 trasmette le sue pillole di saggezza anatomica, uno scaltro regista concede sempre enorme attenzione alle inquadrature dei perplessi astanti. Quella che si para dinanzi è una rappresentazione “perturbante”, nell’accezione freudiana del termine. Un atto di terrorismo voyeuristico, secondo alcuni critici, per i quali von Hagens, coerentemente a certe tendenze dell’arte contemporanea – si pensi ai corpi dilaniati e malamente medicati di Rudolf Schwarzkogler, ai manichini pseudoanatomici di Kiki Smith, alle foto obitoriali di Andres Serrano, al corpo avvolto da una seconda pelle di Nicole Tran Ba Vang, al classicismo splatter di Marc Quinn – si limiterebbe a presentare il corpo, più che a rappresentarlo. Sarebbe un gioco al ribasso, il suo, per mancanza di idee: un pugno nello stomaco sferrato da chi è incapace di offrire messaggi. L’obiezione è condivisibile, nondimeno ciò che qui più preme è “guardare di nascosto l’effetto che fa”; le intenzioni di von Hagens (artistiche, scientifiche, economiche, automitopoietiche ecc.) interessano poco. Ora, ci si chiede, se il perturbante, il voyeurismo, la necrofilia – si aggiunga pure il termine che si vuole – sono in grado di condurre a una mostra milioni di visitatori – di tutte le età, origini etniche e livelli culturali – non sarebbe il caso di comprenderne 144
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le dinamiche e farvi i conti, piuttosto che censurarli con snobismo come pulsioni alimentanti una curiosità patologica? Ci si comporterebbe altrimenti alla maniera di chi chiude gli occhi davanti al successo di prodotti cinematografici come Kill Bill (volume 1 e 2) o televisivi come CSI, Nip/Tuck, Six Feet Under. Si è infatti davvero sicuri che la fortuna di Body worlds sia stata fatta in termini esclusivi dalla pur imponente macchina di marketing che le ruota attorno? Bisogna ammetterlo: nella storia della cultura occidentale si è cristallizzata, a giusto titolo o no, una gerarchia delle emozioni. Se la meraviglia, da Aristotele in poi, è stata ritenuta la scaturigine di ogni sforzo conoscitivo, tanto che, per rimanere in tema, molti degli attuali science center vi fanno ricorso al fine di attirare pubblico, soprattutto giovane, la insecuritas, come la definiva Giuseppe Semerari, è stata spesso rimossa dalla teca delle emozioni “positive” e relegata a oggetto di studio per psicopatologi o filosofi melanconici. Body worlds fa leva sul senso di insicurezza insito nella condizione stessa dell’essere uomini e donne. Talvolta offre, è vero, suggestioni edulcorate, scientificamente discutibili, persino kitsch, ma mette ciascuno di fronte al proprio corpo e alla propria morte. “Che altro siamo, se non potenziali carcasse? Quando entro in una macelleria, mi meraviglio sempre di non esserci io appeso lì, al posto dell’animale”, considerava Francis Bacon. L’esposizione di von Hagens insegna che gli abiti prima, la pelle poi sono rassicuranti involucri, che per alcuni è necessario asportare per giungere all’intimius intimo meo. A chi sostenesse che la mostra si traduce in un’incitazione a una torbida aggressività, si potrebbe rispondere che se davvero il non rappresentare la violenza bastasse a limitarla, bisognerebbe, sì, vietarvi ogni possibile riferimento. Ma ciò è ancora tutto da dimostrare. Anzi, un’esposizione come Body worlds potrebbe esorcizzare paure inespresse. D’altronde, anche il rimuovere pulsioni etologicamente primarie potrebbe essere pericoloso. Quanto alla liceità del fatto stesso di esporre cadaveri, se questi ultimi sono stati davvero donati (su ciò sarebbe necessario indagare meglio), allora nulla quaestio. I feti esposti però non possono aver espresso un consenso… In Italia è facile che alcuni si arroghino il diritto di decidere per gli altri (si veda il caso Welby), ma in una società laica e liberale, ciascuno dovrebbe poter disporre del proprio corpo, così in vita come in morte. D’altro canto, chi non voglia visitare Body worlds, non è obbligato a farlo. Su questo aspetto l’unica perplessità che si desidera esprimere è in merito alla opportunità di ingresso da parte dei bambini; ciò per gli stessi motivi per i quali la visione di Kill Bill (volume 1 e 2) è stata vietata ai minori di 14 anni. Sull’argomento dovrebbero però pronunciarsi psicologi e pedagogisti. 145
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Scienza e Società
È la società contemporanea che ci ha portati a un rapporto sadomasochistico con la conoscenza del corpo? Forse sì, ma come hanno dimostrato le ricerche di studiosi come Andrea Carlino e Jonathan Sawday sulle dissezioni anatomiche rinascimentali, si tratta di un atteggiamento antico. Ancestrale. Émile Zola, in Teresa Raquin, notava: “L’obitorio […] è uno spettacolo alla portata di tutte le borse: la porta è aperta, entra chi vuole. Quando i marmi sono vuoti, la gente si allontana delusa, quasi che l’avessero derubata, borbottando a denti stretti. Quando i marmi son ben forniti, quando c’è una bella esposizione di carne umana, i visitatori si affollano, si regalano emozioni a buon mercato, fremono, motteggiano, applaudono o fischiano come a teatro e se ne vanno soddisfatti, dichiarando che, quel giorno, ne è valsa la pena”. Con tutto questo, volenti o nolenti, bisogna confrontarsi. ■
Sito ufficiale di Body worlds: www.bodyworlds.com
Francesco Paolo de Ceglia, laureato in Filosofia presso l’Università di Bari, è dottore di ricerca in Storia della scienza. Ha seguito corsi di specializzazione di vario genere in Italia e all’estero (USA, Francia, Germania, Russia). È attualmente professore aggregato di Storia della scienza ed Economia dei media sempre presso l’Università di Bari. Ultimamente, ha curato il volume Scien-
ziati di Puglia (Adda, 2007). 146
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Recensioni Matteo Merzagora, Paola Rodari La Scienza in mostra. Musei, science centre e comunicazione Mondadori, Milano 2007, pp. 193, 16,00 euro Tanti. Diversificati tra loro. In continua evoluzione. I musei della scienza sono “oggetti” difficili da definire e identificare. Si va dalla raccolte naturalistiche agli orti botanici, dalle collezioni universitarie agli acquari, dai musei della scienza e della tecnica ai planetari, ai science centre interattivi. Sono tanti, vari e molto probabilmente destinati ad aumentare. Un fenomeno che non riguarda solo l’Italia – dove nel 2005 ne furono contati 930 – ma anche gli altri paesi europei, americani e asiatici (in particolare Cina e India), e che riflette l’interesse per la scienza della società, un interesse che è cresciuto negli ultimi decenni perché le persone hanno sempre più consapevolezza delle ricadute economiche, sociali, ambientali, della scienza e della tecnologia, vogliono quindi essere informate e sapere, e nei musei riconoscono uno dei luoghi in cui “si realizza la comunicazione pubblica della scienza”. Da sempre contenitori del sapere, i musei hanno “assolto” questa funzione comunicativa nel corso dei secoli in maniera sempre diversa, trasformandosi e reinventandosi in ogni epoca perché “come la scienza che rappresentano, raccontano, producono o riproducono, non possono stare fermi”. Per questo pur di antica origine, i musei sono per questo sempre “nuovi”. Con La scienza in mostra. Musei, science centre e comunicazione, Matteo Merzagora, giornalista scientifico e consulente per la radio, la fiction televisiva e per i musei, e Paola Rodari, coordinatrice di una commissione europea sul ruolo e la formazione degli animatori scientifici, raccontano a studenti di museologia e di comunicazione, a operatori e scienziati, la storia, l’evoluzione, le recenti forme e funzioni dei musei della scienza. Lo fanno partendo da una domanda quanto mai attuale: “A che cosa serve un museo della scienza?”, una domanda che tiene conto dei cambiamenti che hanno investito negli ultimi decenni i musei scientifici. Cambiamenti che hanno portato nella maggior parte dei casi alla riorganizzazione delle esposizioni e a un ripensamento delle modalità di comunicazione, e che, come tutti i cambia147
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menti, hanno anche “sconvolto” la natura dei musei, disorientando quelli che credevano di sapere che cosa essi erano, come dovessero essere, che cosa dovessero fare. La nascita dei science centre – i centri della scienza di “seconda generazione” dove non esistono collezioni e l’interattività ha un ruolo essenziale – e delle Città della Scienza – musei di “terza generazione”, dove alle aree espositive permanenti si affiancano mostre temporanee, planetari, biblioteche, centri congressi, spazi dedicati alla formazione permanete, laboratori – ha “scosso” il mondo dei musei e ha imposto una riflessione sul futuro di questa istituzione. Le risposte a questa scossa sono state ovviamente diverse. In alcuni casi la politica espositiva è rimasta invariata, in altri è mutata lievemente, in altri ancora è cambiata in maniera sostanziale determinando l’ampliamento dell’offerta culturale con mostre temporanee hands-on, laboratori, eventi pubblici. Generando situazioni in cui all’interno di un museo tradizionale, nato e sviluppatosi intorno agli oggetti, l’attenzione si sposta alla partecipazione del pubblico. Cambia il museo, cambia la sua missione culturale e sociale, con sempre maggiore consapevolezza. I musei oggi mettono in campo molti e diversificati strumenti prima, durante e dopo aver realizzato nuovi spazi espositivi o per acquisire indicazioni utili allo sviluppo di nuovi progetti: video-registrazioni, osservazioni partecipate, questionari, interviste, focus group, mappe concettuali, visitor studies ed evaluation. Merzagora e Rodari analizzano le diverse forme del museo e il loro variare nel tempo, descrivono gli strumenti di lavoro adottati e le metodologie applicate, illustrano il dibattito interno ed esterno a questa istituzione. Il loro libro non è infatti un libro sui museo tout court, bensì un libro sui musei e sulla comunicazione della scienza nei musei, risultato anche della loro esperienza di docenti del corso “Musei” del Master in Comunicazione della Scienza della SISSA di Trieste, di cui vi è una traccia tangibile. Gli autori hanno lasciato spazio alla fine di ogni capitolo a cases-studies, frutto del lavoro di tesi degli studenti, e hanno curato con attenzione la bibliografia che diventa così un ulteriore strumento di lavoro e un manuale per il lettore-studente. La scienza in mostra è un manuale ma nel senso più ampio del termine perché permette di comprendere cosa c’è dietro questa intricata macchina comunicativa, l’evolversi della sua missione culturale e della sua fisionomia (da luogo di conservazione, di istruzione, di ricerca a luogo del dialogo tra scienza e società, dove il pubblico e non gli oggetti sono il fulcro), le ultime tendenze che la informano, ma anche i problemi legati alla sua gestio148
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ne, quelle legate al personale, alla diversificazione dell’offerta culturale. A cosa servono i musei della scienza? Una domanda complessa a cui Merzagora e Rodari danno una risposta esaustiva, articolata, saggia. “Il nuovo non si sostituisce al vecchio, ma lo integra e lo plasma nei modi e al livello che converrà ai suoi utilizzatori. Quale che sia la loro evoluzione nei prossimi decenni, i musei della scienza continueranno sempre e comunque a offrire al pubblico, parte per ornamento, parte per dilettazione, e parte per insegnare”. Barbara Raucci
Yurij Castelfranchi, Nico Pitrelli Come si comunica la scienza? Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 148, 10,00 euro Mai come in questi anni la scienza è entrata in contatto con il grande pubblico: fecondazione assista, Ogm, cellule staminali, produzione di energia, sono diventate tematiche quasi familiari nella vita di ognuno di noi. È diventata allora inevitabile la progressiva scomparsa di un’idea di scienza come “autonoma” rispetto alle esigenze della “massa” e arroccata nella turris eburnea della ricerca pura, a favore di una concezione della disciplina più aperta e democratica. È questa la tesi sostenuta da Yurij Castelfranchi e Nico Pitrelli in Come si comunica la scienza?. Castelfranchi, fisico teorico, divulgatore scientifico e giornalista, e Pitrelli, responsabile del Master in Comunicazione della Scienza della Sissa di Trieste, insistono in questo saggio sulla necessità di elaborare nuovi modelli di comunicazione fra scienza e società, dal momento che i modelli che hanno regolato la comunicazione scientifica fino a pochi anni fa, primo tra tutti il modello “lineare”, sono risultati fallimentari. Noto anche come deficit model, il modello lineare si basava sull’assunto della sussistenza di un deficit di conoscenza da parte dei cittadini. Partendo dal presupposto che un pubblico – passivo e generico – dovesse venire edotto dall’alto su questioni riguardanti la scienza, il modello prevedeva una trasmissione a senso unico del sapere estremamente semplificato, con un movimento dall’alto (l’élite) verso il basso (il pubblico). Insomma una trasmissione “versativa” della conoscenza che deludeva e delude spesso la stessa comunità scientifi149
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ca. Non è raro infatti che scienziati e ricercatori, vedendo i risultati delle proprie ricerche riportati su un quotidiano o in un telegiornale, siano ancora oggi molto delusi dalla scarsa precisione della terminologia usata, dalla banalizzazione dei contenuti della ricerca o dall’eccessivo sensazionalismo con cui è proposta la notizia. Il problema di questo modello risiede nella natura stessa della comunicazione mediatica: questa prevede la velocità laddove la scienza necessita di profondità, richiede semplicità di contro al rigore scientifico. Questa basilare divergenza, insieme alla mancata considerazione dell’eterogeneità che caratterizza la composizione del “pubblico”, ha determinato il superamento del deficit model. Se infatti è vero che, ancora oggi, la maggior parte delle persone non può dirsi del tutto alfabetizzata dal punto di vista scientifico (nel 2000 solo la metà della popolazione statunitense riteneva che la Terra girasse attorno al Sole una volta l’anno), è anche vero che sempre più cittadini partecipano attivamente a questioni di carattere scientifico, si pensi ad esempio ai forum di argomento medico presenti su Internet o alle associazioni di malati che chiedono cambiamenti sui protocolli di sperimentazione dei farmaci. È evidente che la scienza non sia più dominio esclusivo di scienziati, accademici e ricercatori, ma debba “piegarsi” a incontrare esigenze provenienti dal basso, secondo un modello “orizzontale” di comunicazione improntato all’edutainment (education ed entertainment, ossia educazione e intrattenimento), basato su iniziative dal forte impatto sul pubblico come festival della scienza e l’utilizzo di volti noti come testimonial. Appare chiaro, allora, come Castelfranchi e Pitrelli ritengano necessario che la scienza non solo si semplifichi per essere accessibile ai non scienziati ma, in qualche modo, si promuova attraverso le leggi del marketing in modo da stimolare l’interesse della maggior fetta possibile di pubblico. E non si può certo dire che i due autori non abbiano applicato queste due linee guida anche al loro saggio: il testo è scorrevole e accessibile per quanti abbiano una anche minima competenza scientifica e seguano, per passione propria o per professione, le tematiche più dibattute nel panorama scientifico internazionale. Nel libro vengono inoltre sollevate questioni di fondamentale interesse per quanti lavorano in ambito scientifico, come ad esempio il rapporto della scienza con politica e industria sia nel mondo contemporaneo sia nel passato, attraverso un excursus storico che prende le mosse dal sedicesimo secolo. Il saggio, per quanto breve, risponde a un gran numero di domande relative all’argomento “scienza”: come si è modificata negli anni, perché e in seguito a che tipo di pressioni, in che modo essa influisca sulla società, 150
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come circola, quali sono i suoi spazi e in che rapporti sia col potere statale e con quello industriale. A tutte queste domande, Castelfranchi e Pitrelli danno risposte chiare ed esaustive. Stefano Pisani
Luciano Gallino Tecnologia e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici Einaudi, Torino 2007, pp. 296, 22 euro. Confermando il suo proverbiale e acuto umorismo, Erwin Chargaff ebbe modo di osservare che l’attuale settorializzazione del sapere scientifico è giunta a un punto tale che un ricercatore ammette di riconoscere nel suo interlocutore un valido scienziato solo se non arriva a comprendere nemmeno una parola di quel che dice. In questo modo il grande biochimico sollevava uno dei più deleteri paradossi della scienza contemporanea, ovvero quello per cui l’ermeticità sembra sia diventato un affidabile criterio di verità. Una volta appurata la gravità del problema, e cioè che se i ricercatori non sentono la necessità di capirsi tra loro figurarsi se potranno mai sentire quella di farsi capire dalla gente “comune”, sembrerebbe ovvio individuarne la soluzione in un miglioramento delle strategie comunicative. Una migliore comunicazione tra ricercatori e, soprattutto, una migliore comunicazione tra la comunità scientifica e la cittadinanza, garantirebbe una più agevole diffusione delle conoscenze scientifiche e quindi, per esempio, minori incomprensioni circa le trasformazioni da esse implicate. E in effetti questa è stata per lungo tempo la terapia consigliata da larga parte della sociologia della scienza. In questo libro, Luciano Gallino spiega che questa terapia oltre a non risolvere un granché denuncia un grave difetto di impostazione. Sulla base di dense analisi teoriche e di una vasta documentazione bibliografica, lo studioso torinese chiama in causa i presupposti stessi di un reale processo di democratizzazione della conoscenza scientifica e tecnologica, imputando proprio alla riuscita di questo processo, l’unica vera risposta ai sempre più numerosi conflitti che nascono intorno ai mutamenti sociali provocati dai progressi tecnoscientifici (si pensi agli OGM, al nucleare, alle nuove tecnologie riproduttive, o anche alle proteste della Val di Susa contro l’i151
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potesi della costruzione di una rete ferroviaria ad alta capacità). Se è vero che viviamo nella “società della conoscenza”, è altrettanto vero che la conoscenza si configura come la materia prima strategica della produzione di ricchezza. Pertanto, sta proprio nella possibilità o meno di delineare le “conoscenze scientifiche e tecnologiche come beni pubblici”, la premessa di rinnovati fenomeni di inclusione o di esclusione sociale. Ma è possibile, e questo è il punto, fare di esse dei beni pubblici solo attraverso una ottimizzazione del lavoro “divulgativo”? Assolutamente no. Questo tipo di approccio, infatti, continua a presupporre la figura dell’esperto come unico depositario di un sapere adatto alla valutazione delle conseguenze sociali della scienza (science assessment), relegando il pubblico degli “utenti” a passivi fruitori di un sapere fabbricato in un “altrove”. Mentre, osserva Gallino, piuttosto che un “approccio comunicativo” bisognerebbe adottare un nuovo approccio. Un “approccio partecipativo” fondato sul presupposto che il pubblico, opportunamente coinvolto, sia di per sé in grado di rimediare non solo all’ignoranza degli esperti su questioni che, per esempio, sono fuori dalla loro area di competenza (“ignoranza specifica”), ma anche su quelle che sono completamente al di là del loro ordine di problemi (“ignoranza a-specifica”). Ma le analisi di Gallino non si limitano a una denuncia dei limiti interpretativi che hanno finora caratterizzato gran parte delle riflessioni sull’opportunità di allargare i confini del policymaking tecnologico e scientifico. Il filo rosso che attraversa e rende felicemente organici i nove saggi raccolti nel libro – tutti pubblicati nell’arco degli ultimi vent’anni (tranne l’introduzione e il capitolo IX) – va oltre, e sta nel tentativo di evidenziare da diverse prospettive – sociologica, epistemologica, storica e finanche filosofica – la necessità di realizzare un nuovo “contratto sociale” tra scienza e società. Un contratto basato sulla consapevolezza che solo riuscendo a collocare i valori e le aspettative sociali entro gli stessi processi di fabbricazione della conoscenza scientifica, si può realisticamente auspicare la nascita di una scienza democratizzata (vale a dire socialmente partecipata) e, parallelamente, di una democrazia scientificizzata (vale a dire capace di migliorarsi proprio grazie alle innovazioni tecno-scientifiche). È dalla riuscita di questo nuovo tipo di contratto sociale che dipende, inoltre, una autentica contestualizzazione delle sapere scientifico e, di qui, l’auspicata riduzione della manipolabilità di quel sapere a fini politici e economici. Gallino cita, a tal proposito, una serie di casi in cui agenzie scientifiche indipendenti si sono trovate a subire forti pressioni da parte di governi (a cominciare dall’amministrazione Bush e dal governo Blair) e da multina152
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zionali, mostrando come in assenza di adeguati canali di confronto tra mondo scientifico e società civile, anche nei paesi più progrediti possa venir meno lo statuto di bene pubblico a prima vista naturalmente ascrivibile alla conoscenza scientifica. E invece, secondo Gallino, qui di naturale non c’è un bel niente. Occorre invece sviluppare con ostinazione, attraverso una mai compiuta ricerca del consenso di chiara matrice habermasiana, l’istituzionalizzazione di procedure che permettano un controllo “dal basso” dell’operato di chi sta “in alto”. Cosa nella quale l’Italia, tanto per fare un esempio, è ancora molto indietro. Il che, stando alle convincenti analisi dello studioso, equivale a un pericoloso deficit democratico. Cristian Fuschetto
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Direzione Pietro Greco Comitato Scientifico Agnes Allansdottir Enrico Alleva Margherita Fronte Paola Govoni Pietro Greco Angelo Guerraggio Redazione Cristian Fuschetto Romualdo Gianoli Ilaria Merciai Vincenzo Napolano Stefano Pisani Barbara Raucci a cura di CodiCS – Cooperativa di Comunicazione Scientifica, Napoli.
Quest’opera è protetta da diritto d’autore. Tutti i diritti, in particolare quelli relativi alla traduzione, alla ristampa, all’uso di figure e tabelle, alla citazione orale, alla trasmissione radiofonica o televisiva, alla riproduzione su microfilm, alla diversa riproduzione in qualsiasi altro modo e alla memorizzazione su impianti di elaborazione dati rimangono riservati anche nel caso di utilizzo parziale. Una riproduzione di quest’opera, oppure di parte di questa, è anche nel caso specifico solo ammessa nei limiti stabiliti dalla legge sul diritto d’autore, ed è soggetta all’autorizzazione del Centro Eleusi Pristem dell’Università Bocconi di Milano. La violazione delle norme comporta le sanzioni previste dalla legge. La riproduzione di denominazioni generiche, di denominazioni registrate, marchi registrati ecc. in quest’opera, anche in assenza di particolare indicazione, non consente di considerare tali denominazioni o marchi liberamente utilizzabili da chiunque ai sensi della legge sul marchio.
ISBN 88-901775-5-1 Stampato in Italia: Mediaprint - Milano 154