Passione tour
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i sono luoghi che ci vai una volta e può bastare. E poi c’è... Napoli.
Napoli, una città sopravvissuta a terremoti, eruzioni vulcaniche, invasioni straniere, crimine, corruzione, povertà, abbandono, una città che comunque ha sempre prodotto una valanga di musica a coprire l’intera gamma delle espressioni umane: l’amore, la perdita, il sesso, la superstizione, l’emigrazione, la protesta sociale, la nascita, la morte. Canzoni che, piene di contraddizioni e di ironia, fatalmente la perdono quando vanno in giro per il mondo e vengono scambiate per nostalgiche ballate sentimentali. «Tu si’ na cosa grande», dice una di queste canzoni: ma lo sei oggi, domani non so. È vero, ti amo tantissimo, però, se non ti trovo, bah, mi accontenterò di tua sorella; dirò a tutti che ti amo, ma prenderò lei. Questo paradosso è una componente essenziale del carattere napoletano. E adesso seguitemi. Racconteremo le canzoni che come uccelli volano in alto sopra le case e i quartieri. Magari non ne conoscete le melodie, ma domani esse saranno sulle vostre labbra e voleranno via… JOHN TURTURRO nel film Passione
Ormai è “Passionemania”: Passione, il film di John Turturro, viaggio intrigante nella canzone napoletana, è un successo che non conosce sosta. La pellicola, acclamata alla Mostra del cinema di Venezia 2010, vincitrice di numerosi premi (ai festival di Capri, Loano, Ischia, Salerno, Spalato, New York) e a lungo in testa alle classifiche delle compilation e dei dvd più venduti, ha ispirato a John Turturro un concerto, Passione tour, che, dopo il debutto estivo e il record come spettacolo che ha venduto di più a Napoli nella scorsa estate, entra in teatro prima di partire per un tour internazionale. Lo show, ideato da Arealive di Luca Nottola, anche produttore, e da Federico Vacalebre, anche soggettista e sceneggiatore del film, sottolinea, come la pellicola e diversamente dalla pellicola, il ricchissimo patrimonio melodico partenopeo in un incontro seducente tra il passato illustre della canzone tradizionale e l‟anima creativa della Napoli contemporanea, attraverso le intense interpretazioni dei numerosi artisti coinvolti nel progetto. Sensibilità diverse incrociate in una travolgente performance dal vivo: dall‟eleganza poliedrica di Peppe Barra alla sensualità orientale di M’Barka Ben Taleb, dall‟energia vorticosa del sax di James Senese alla raffinatezza dell‟operatic-pop di Gennaro Cosmo Parlato, dal timbro graffiante di Pietra Montecorvino al groove di Raiz & Almamegretta, dal respiro fadista della portoghese Misia alla world music verace degli Spakka-Neapolis 55 di Antonio Fraioli e Monica Pinto. Il tutto accompagnato da una sfavillante all neapolitan star band diretta da Luigi De Rienzo. Il repertorio proposto in scena include successi di Passione e altri brani, tra tradizione e modernità, a continuare il lavoro intrapreso con il film di Turturro, che ha raccolto fans d‟eccezione come il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, Raffaele La Capria, Robert De Niro, Lou Reed, Laurie Anderson, Paul Auster, Erri De Luca, il cardinale Sepe e altri. Significativo il messaggio lanciato nello scegliere – anche per la registrazione di un cd e un dvd dal vivo – il teatro Trianon di Napoli per l‟inaugurazione del tour teatrale nella storica sala di piazza Vincenzo Calenda, che proprio con Passione tour festeggerà i suoi primi cento anni, il film ha iniziato l‟anno scorso il suo tragitto verso il successo. Trionfo che prosegue con questo show, messaggio di solidarietà e speranza per un teatro che si avvia a un compiuto rilancio, nel nome di quella canzone napoletana di cui Passione è diventato un nuovo emblema, sospeso tra tradizione e modernità, veracità e internazionalità. in collaborazione con
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Passione tour > tutti pazzi per Passione Da Napolitano al cardinale Sepe, da De Niro e Paul Auster a La Capria, De Luca e Durante i fan eccellenti del film che diventa concerto: il presidente della Repubblica GIORGIO NAPOLITANO (da la Repubblica, 3 gennaio 2011) Dalla commozione che non è riuscito a trattenere nel suo passaggio su Napoli durante il discorso di fine anno, al successo del film di Turturro sulla canzone partenopea, Passione, molto gradito dal presidente. ROBERT DE NIRO «La parola “passione” mi ha fatto venire sùbito in mente il film su Napoli di John Turturro, proprio per la passione che trasmette e per la voglia che mi ha fatto venire di visitare Napoli». PAUL AUSTER (in occasione del premio Napoli) «Ho conosciuto e apprezzato Napoli anche attraverso il film Passione del mio vicino di casa a Brooklyn, il regista e attore John Turturro». il cardinale di Napoli CRESCENZIO SEPE (a New York, durante la consegna del premio Dire Napoli) «Consegno il premio Dire Napoli con immensa gratitudine al regista John Turturro per come ha raccontato Napoli nel suo film Passione, rendendo un sapiente e sentito omaggio alla città, descrivendone bellezza e contraddizioni, cogliendo in maniera peculiare il martirio e la voglia di riscatto di un popolo che chiede futuro e dignità». ERRI DE LUCA (da la Repubblica, 3 febbraio 2011) «Considero il film Passione di Turturro quanto di meglio possiamo esportare nel mondo». RAFFAELE LA CAPRIA (dal Corriere della Sera, 29 novembre 2010) «Piango, mi dicevo, per la pena che provo per la mia città? Piango perché questo film mi arriva quando Napoli, invasa dai rifiuti, è anch‟essa rifiutata dall‟Italia, e attraversa uno dei momenti più umilianti della sua storia? Oppure piango perché il modo di cantare sentito guardando il film ha scoperto un nervo nascosto e all‟improvviso mi ha rivelato che il mio rapporto con Napoli è cambiato e io non me ne sono accorto fino a questo momento? O infine piango perché quella passione, quel tumulto di sentimenti, quella disperata allegria, quella straripante vitalità, sempre in bilico tra il bene e il male, è qualcosa che mi appartiene e che le altre città italiane più ordinate e composte non hanno e non possono trasmettere con la stessa intensità?». FRANCESCO DURANTE (estratto dal libro I Napoletani, Neri Pozza editore, novembre 2011) «Turturro annulla il tempo e lo spazio: ci fa capire in quattro e quattr‟otto una cosa che nel gioco delle generazioni che si negano e si contraddicono stentavamo a capire. Che cioè quella roba là, la canzone napoletana, che quando eravamo giovani ci dava un po‟ sui nervi perché semmai ci piaceva molto di più Jimi Hendrix e non ne potevamo più di quella melassa da cartolina; quella melassa, dunque, l‟avevamo succhiata col latte materno, e stava in circolo nel nostro organismo. È dovuto venire uno da New York per farla tornare fuori, per farcene assaporare la fantastica malizia, la carnalità, l‟energia incomprimibile, la passione appunto, che tra l‟altro ci fa fare una cosa che di norma non si fa con la canzone napoletana: ballare, E per farci anche capire che la canzone sta dappertutto, per strada, su una spiaggia, sotto gli occhi di certe vecchierelle che paiono patrimonio dell‟umanità anche loro nei vicoli del centro storico. […] Passione ha fatto sul pubblico napoletano l‟effetto di uno choc. Uno choc da riconoscimento, meglio: da autoagnizione. Un film la cui natura fondamentalmente corriva è sempre calata in un bagno di semplice sincerità; dove Napoli si mostra per quello che è, invivibile, rumorosissima, degradatissima eppure vitale, adrenalinica, contagiosa». Intanto, dopo i peana critici italiani seguiti alla presentazione del film alla Mostra di Venezia, ecco le prime entusiastiche recensioni americane: NEW YORK TIMES «Il film unisce forti emozioni con una soavità sensuale mescolando estasi da crepacuore… Se artisti come Marvin Gaye, Otis Redding e Aretha Franklin vedessero questo film, ne riconoscerebbero la propria arte». FILM JOURNAL INTERNATIONAL «Turturro ha colto gli stati d‟animo, gli atteggiamenti e la musica coinvolgente di un popolo in un‟esperienza cinematografica dalle atmosfere rarefatte». INDIEWIRE «Turturro presenta una gamma di ritmi festosi che uniti alle elegie dolorose definiscono il temperamento di un popolo». in collaborazione con
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Aria di Napoli > nota di regia
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io padre, Mario Abbate, unanimemente considerato uno dei maggiori interpreti della canzone napoletana, se ne andò per sempre il 6 agosto del 1981, a soli cinquantatrè anni. Molto tempo dopo la sua scomparsa, per volontà di mia madre, aprii garage e cantina per
fare l’inventario dei ricordi e dei suoi vecchi effetti personali. Trovai un piccolo bauletto di legno vecchio, umidiccio e tarlato, che, tra i tanti madreperlati, colorati e intarsiati, sembrava dimenticato. Mi colpì: un po’ come l’Harrison Ford alla ricerca del Graal, in Indiana Jones e l‟ultima crociata, affascinato da quell’unico umile calice di legno in mezzo ai tanti calici pregiati. Vi trovai qualcosa di veramente prezioso: l’Enciclopedia della canzone napoletana di Ettore De Mura e appunti varî di mio padre per uno spettacolo sulla storia della canzone napoletana, dai primi echi di Parthenope fino ai festival di Napoli. Di lì l’idea di riprendere quegli appunti per costruire un vero e proprio progetto, con il quale fare anche una riflessione sullo straordinario fenomeno internazionale che è stata ed è la canzone napoletana: un connubio tra musica e parole, laddove oggi siamo sempre più disabituati ad ascoltare in silenzio e prevale la cultura dell’urlo; un’opera che privilegia le sfumature, mentre oggi o si è bianchi o si è neri; una canzone di uomini innamorati, in un mondo dove sembrano esistere solo persone disamorate; una combinazione poetica di musica e testo per bravi interpreti, laddove tanti cantanti odierni snobbano l’interpretazione in favore della tecnologia. Insomma, credo che per tutte le persone di buona memoria e di buon senso, tornare, senza nostalgia, alla storia della canzone napoletana e rifletterci sopra oggi sia più che necessario. MASSIMO ABBATE
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la Cantata dei Pastori on è possibile dire quante versioni diverse e rifacimenti abbia avuto quest‟opera sacra teatrale in versi, venuta alla luce verso la fine del „600. II suo autore, Andrea Perrucci (1651-1706) la pubblicò, nel 1698, sotto lo pseudonimo di Casimiro Ruggiero Ugone e con il titolo Il Vero Lume tra
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l’Ombre, ovvero la Spelonca Arricchita per la Nascita del Verbo Umanato. L‟opera narra le vicissitudini di Maria e Giuseppe nel loro viaggio verso Betlemme, le insidie dei Diavoli che vogliono impedire la nascita del Messia, la loro sconfitta ad opera degli Angeli e l‟adorazione di personaggi presepiali, quali pastori, cacciatori e pescatori.
Vi figura, inoltre, il personaggio comico di Razzullo, uno scrivano inviato in Palestina per il censimento della popolazione, popolano affetto da fame atavica e incapace di svolgere un lavoro stabile. Per comprendere le ragioni dell‟inclusione di quest‟ultimo personaggio, del tutto estraneo all‟impianto sacro dell‟opera, occorre considerare che la produzione teatrale sacra del „600, secolo del barocco, fu copiosa e pesantemente influenzata dal rigore religioso instaurato con la controriforma; gli autori dei testi erano, di solito, “intellettuali ecclesiastici” spesso appartenenti alla Compagnia di Gesù, che usavano un linguaggio dotto e arcadico, per cui le loro opere risultavano comprensibili solo agli spettatori appartenenti alla società colta. Il progetto politico-teatrale dei Gesuiti venne pertanto modificato, allo scopo di attrarre anche le masse popolari, con l‟inclusione di maschere e personaggi comici che parlavano il linguaggio del popolo. L‟inserimento di Razzullo ebbe un immediato successo. Il popolino ritornò ad affollare i teatri, spingendo, comunque, sempre di più le compagnie teatrali a dilatare il ruolo dei comici a scapito delle vicende sacre. Gli spettatori cominciarono, addirittura, a osteggiare la rappresentazione dei personaggi sacri, anche se si commuovevano alla scena finale della Natività. Le rappresentazioni dell‟opera, comunque, continuarono e verso la fine del „700 venne introdotto, a furor di popolo, un altro personaggio comico, Sarchiapone, barbiere matto, in fuga per aver commesso due omicidi. A tal punto i propositi del Perrucci risultavano del tutto stravolti. L‟opera assunse il titolo di Cantata dei pastori, continuò ad andare in scena tra lazzi e volgarità sempre più intollerabili, per cui nel 1889 intervennero le autorità e la fecero sospendere, tanto da far dire a Benedetto Croce che l‟opera era «finita» e non sarebbe stata rappresentata mai più. Non fu così. Le rappresentazioni ripresero e le principali compagnie la inserirono nei loro programmi. Negli ultimi decenni la Cantata è stata più volte ripresentata con molto successo, confermando la validità del disegno teatrale del Perrucci. Le due componenti dell‟opera, quella sacra e quella profana, tanto antitetiche all‟inizio, si fondono, infatti, intrecciandosi nel corso della rappresentazione fino alla scena finale della adorazione del Redentore. PEPPE BARRA PAOLO MEMOLI
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la Cantata dei Pastori > il ricordo del presepio
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in da bambino ho sempre amato il presepe, che nella mia famiglia veniva allestito, per tradizione, già dai primi giorni di dicembre. L’allestimento era quello povero, con l’impiego di materiali disponibili in casa, legno, cartone, carta di vecchi giornali. Allora si usavano i colori in polvere, da sciogliere in acqua, polveri di vario colore per colorare le rocce, le montagne, i prati. Servivano anche rametti secchi, muschio, ciottoli, che noi bambini ci divertivamo a raccogliere in giro già da molto tempo prima.
La mia casa in quel periodo si riempiva di odori inconfondibili, ancora presenti nella mia memoria. L’odore dominante era quello della colla di pesce. Noi bambini eravamo gli aiutanti della nonna, che in quel periodo si trasformava in vecchio operaio di cantiere: i suoi tanti anni, come per magia, scomparivano per la metamorfosi in giovane lavoratore a cottimo. Veniva allora il momento della decisione importante: quella di selezionare i pastori validi, scartando quelli zoppi o decapitati, anche se si era combattuti dal desiderio di salvare quelli zoppi, nascondendo nel muschio le loro menomazioni. Finalmente, dopo tanti giorni di lavoro, il presepe era abbozzato; si trattava ora di addobbarlo, rispettando personaggi, interpreti e scenografia, e in questo campo ognuno si sentiva autorizzato a mettere mano. Ma, con un intervento dittatoriale severissimo entrava in scena zia Maria che si arrogava l’esclusiva dell’addobbo dopo aver combattuto contro il terribile assalto di mio padre, che anelava, per lo meno, a sistemare le luci e la grotta del pescatore dalla quale doveva scorrere l’acqua del fiume. Mio padre si preparava alla battaglia brandendo un clistere da lui attrezzato per fungere da bacino idrico. Con quel trofeo in mano se ne ritornava sistematicamente sconfitto alla base. La grotta della Natività, e questo tutti lo sapevano in famiglia, doveva essere opera di mia nonna, che interveniva in maniera perentoria, stroncando anche la dittatura di zia Maria. A questo punto la grotta del Bambinello diventava di tutto un po’. Ricami a tombolo, stelline fatte col filo argentato, testine di angioletti ritagliate da vecchie cartoline di auguri, insomma un collage di naïf e chincaglierie, e come giustamente nella tradizione, il sacro e il profano si fondevano per rappresentare la Natività. I pastori erano, naturalmente, di terracotta, piuttosto grossolana; la macchiolina rossa che indicava la loro bocca a volte si trovava al posto del naso. Tutti i pastori dovevano essere sistemati nei posti rituali: la lavandaia nel fiume, il pescatore pure, il che a volte creava delle sproporzioni tra i due personaggi, francamente inaccettabili. Tra i pastori venivano sistemate le pecore, che ogni anno aumentavano di numero perché quelle zoppe non si aveva il coraggio di buttarle via; esse venivano affondate nel muschio, dove fingevano di essere distese a riposarsi. Finalmente il presepe era terminato per il giorno 8, giorno dell’Immacolata e dell’onomastico di mia madre. Per quel giorno doveva essere pronto, e pronto era! I miei ricordi più belli di questo giorno erano quando al buio, spente tutte le luci della stanza, il presepe si illuminava e io assaporavo questo momento, e sognavo, immedesimandomi in ogni parte del presepe. Una sera mi trovavo da solo, incantato, e la voce di mia madre mi riscosse dal sogno: «Peppi‟... ma che staje facenne sulo... loco „nnanze?». E io risposi che volevo sapere perché Benino, il pastorello dormiente, lo si metteva sempre in alto e sempre nello stesso posto. E mamma mi rispose: «Pecché accussì è l‟usanza. Ha da sta‟ là! e basta!... È stato sempe accussì!». Capii allora che nelle usanze non ci sono spiegazioni. Chi cerca in esse la logica è destinato a rimanere deluso. Bisogna solamente viverle, sognarle, e lasciare che ti parlino con il muto linguaggio della poesia e dell’amore. PEPPE BARRA
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la Cantata dei Pastori > Emanuele Luzzati osso dire di essermi avvicinato al mondo del presepe “in strada”, ogni volta che andavo a Napoli, specialmente nel periodo di Natale; passavo delle ore a San Gregorio Armeno, affascinato dagli artigiani che dipingevano statuine sotto il mio naso, e ogni volta tornavo a casa con figurine e figurette.
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Poi è venuta l’esperienza di sei anni del presepio in piazza a Torino, in cui ho dovuto reinterpretare un presepio con figure a grandezza naturale, ma sempre con in mente la tradizione napoletana e delle ceramiche di Albissola. Questa Cantata nasce da tutte queste esperienze e le completa; è fatta della semplicità del teatro popolare, ma anche della sua inestinguibile magia. EMANUELE LUZZATI
Noto soprattutto come scenografo e illustratore, Emanuele, detto “Lele”, Luzzati è stato maestro in ogni campo dell‟arte applicata: costumista, scrittore, ceramista e decoratore, autore di cinema d'animazione e teatro. Nato a Genova nel 1921, nel 1940 è costretto ad abbandonare la sua città a causa delle leggi razziali. Trasferitosi a Losanna, studia e si diploma all‟École des Beaux Arts di Losanna. Collabora con registi, architetti, artisti e scrittori di fama internazionale. Espone nel „72 alla Biennale di Venezia; nel '75 è fondatore, con Aldo Trionfo e Tonino Conte, del teatro della Tosse di Genova; autore di film di animazione con Giulio Gianini, ottiene due nominations all‟Oscar. Luzzati è interprete di una cultura figurativa abile e colta, capace di usare con maestria ogni sorta di materiale: dalla terracotta allo smalto, dall‟intreccio di lane per arazzi all‟incisione su supporti diversi, ai collages di carte e tessuti composti per costruire bozzetti di scene, di costumi, di allestimenti navali. La ricchezza del suo mondo fantastico, l‟immediatezza ed espressività del suo stile personalissimo ne hanno fatto uno degli artisti più amati ed ammirati nel nostro tempo. Nel 2003 firma le scene della Cantata dei Pastori, prodotta dal teatro Trianon. La sera del 26 gennaio 2007 Lele Luzzati, serenamente, se ne va. L‟indomani avrebbe dovuto ricevere il Grifo d‟Oro, massimo riconoscimento della città di Genova. fonte: sito web del museo Luzzati a porta Siberia, museoluzzati.it
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attività culturale
venerdì 25 novembre, ore 11:30 lezione/spettacolo a cura di Alfredo d’Agnese e Gabriella Paci *
Peppe Barra e
la Cantata dei Pastori con
Lucio d’Alessandro Marino Niola Pasquale Scialò
da domenica 4 a domenica 11 dicembre mostra fotografica
Napoli cover Storie e protagonisti del sound partenopeo nelle immagini di Pino Miraglia
giovedì 1° dicembre, ore 11:30 università degli studî suor Orsola Benincasa, sala Villani lezione/spettacolo a cura di Alfredo d’Agnese e Gabriella Paci *
Raiz e
Passione tour con
Lucio d’Alessandro Francesco Durante Federico Vacalebre
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in collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione dell‟Università degli Studî Suor Orsola Benincasa
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lezioni/spettacolo in collaborazione con l’Università degli Studî Suor Orsola Benincasa Il teatro Trianon, nella nuova mission di casa della canzone napoletana, ha avviato una collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione dell‟Università degli Studî Suor Orsola Benincasa per il corso di laurea triennale in Scienze della Comunicazione e il corso di laurea magistrale in Imprenditoria e Creatività per cinema, teatro e televisione. Passione tour e la Cantata dei Pastori saranno oggetto di incontri con gli studenti, nel corso dei quali gli spettacoli saranno esaminati non solo nei loro aspetti creativi e di contesto storico-culturale, ma anche come opportunità produttiva nel mercato del turismo e del tempo libero. L‟iniziativa è curata da Gabriella Paci, coordinatore didattico del corso di laurea magistrale in Imprenditoria e Creatività per cinema, teatro e televisione e da Alfredo d’Agnese, coordinatore didattico della scuola di Giornalismo e direttore di Run Radio, la web radio dell‟Ateneo.
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camerachiaraimage presenta
Na p o l i c o v e r protagonisti e storie del sound partenopeo nelle immagini di Pino Miraglia
Allestita in concomitanza con Passione tour, la mostra Napoli cover è un affascinante viaggio nella nuova Napoli musicale che, dalla fine degli anni Sessanta ad oggi, ha saputo sempre distinguersi e innovarsi nel panorama italiano e internazionale. In questa galleria di protagonisti partenopei, fotografati da Pino Miraglia dagli anni Novanta ad oggi, troviamo artisti che ancora oggi rappresentano fonte di novità e freschezza musicale, in Italia e non solo, come Edoardo Bennato, Eugenio Bennato, Pino Daniele, James Senese, Teresa De Sio, Peppe Barra, Roberto De Simone, Lino Cannavacciuolo, Pietra Montecorvino, Lina Sastri, Osanna, Jenny Sorrenti, Daniele Sepe, Enzo Avitabile, Marcello Colasurdo. Gli anni Ottanta vengono rappresentati dal suono post punk dei Bisca e dalle ricerche degli Avion Travel. Si giunge così alla rivoluzione posse iniziata negli anni Novanta, che vede ancora una volta Napoli protagonista in Italia e all‟estero con Almamegretta, 99 Posse e 24 Grana. Arriviamo ad oggi con alcune immagini di Passione tour. La mostra anticipa un più ampio progetto editoriale di prossima pubblicazione.
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il teatro Trianon: 1911 – 2011
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rianon. – La sera dell’8, dinanzi ad un pubblico scelto e numerosissimo, è stato inaugurato da Vincenzo Scarpetta, con Miseria e Nobiltà, il nuovo teatro Trianon. Questo che, come dicemmo, sorge proprio di fronte le mure greche nella via Pietro
Colletta, è decorato con molto gusto ed la capacità di oltre 2000 persone. L’impresa è stata assunta dallo stesso proprietario cav. Amodio Salsi, che sarà validamente coadiuvato da Francesco Lubrano. Dopo la compagnia Scarpetta, ci dicono, sfileranno le nostre migliori compagnie drammatiche e di operetta. dal giornale IL PROSCENIO, 14 novembre 1911
Il Trianon, l‟unico teatro dedicato alla canzone e alla musica napoletana, festeggia quest‟anno cento anni di vita. È ubicato nel centro antico di Napoli, l‟area riconosciuta patrimonio mondiale dell‟umanità dall‟Unesco per la sua qualità e unicità storica e monumentale. E di queste tracce millenarie proprio la platea del teatro serba una preziosa testimonianza archeologica: è la torre della Sirena, elemento della fortificazione urbana di Neapolis (IV/III sec. a.C.), l‟unica torre greca in elevato esistente in Campania. Il suo nome ricorda Parthenope, la sirena fondatrice della città, figlia del Sole e della Musica, la seduttrice che ammaliava con il suo canto chi traversava questi mari e queste terre, luogo magico dell‟antichissimo mito. Con il nome che evoca i fasti di Versailles, è inaugurato da Vincenzo Scarpetta nel 1911 con Miseria e nobiltà. Da allora ricopre un posto decisamente rilevante nella storia musicale e teatrale partenopea del Novecento, ospitando tutti i maggiori artisti, come i fratelli De Filippo, Viviani, Pasquariello, Donnarumma, Gill, Maldacea e Totò, e affermandosi, in particolare, come il punto di riferimento per il genere originale della “canzone sceneggiata” (o “sceneggiata”) con la compagnia di Eugenio Fumo e Salvatore Cafiero. Durante il fascismo cambia nome in «Trionfale», in ossequio all‟autarchia linguistica imposta dal regime. Nel secondo dopoguerra si ristruttura in sala cinematografica e si chiama «Splendore». Mortificato da un periodo di proiezioni a luci rosse, che però ne preservano la destinazione d‟uso di struttura di spettacolo, dieci anni fa è oggetto di importanti lavori di ristrutturazione che portano alla luce la torre della Sirena e dotano il teatro di sofisticati impianti tecnici, grazie a un cofinanziamento europeo. Il nuovo Trianon è così inaugurato il 7 dicembre 2002 da Roberto De Simone che riadatta e dirige Eden teatro di Raffaele Viviani. Dall‟aprile del 2006 il teatro diventa pubblico, retto da una società partecipata esclusivamente dalla Regione Campania e dalla Provincia di Napoli.
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Teatro a Napoli. Il caso Trianon di FRANCESCO COTTICELLI
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n teatro che sorge è un evento per la comunità: documenta un diffuso bisogno di spettacolo, esprime istanze collettive profonde, costituisce un centro di gravità per le dinamiche organizzative o mercantili e per gli orizzonti artistici di pubblico e artisti. È un segnale di continuità tra scenari passati e presenti, anche quando la sua nascita sembra evocare grandiosi progetti di rinnovamento, di eversione: una svolta che tradisce limiti e forme di un‟“esperienza” durevole i cui destini si intrecciano e si diversificano sempre da quell‟inquietante punto di aggregazione. E un teatro che risorge? È un cammino a ritroso – peraltro improbabile – verso una dimensione dell‟evento che si sottrae all‟ombra dell‟inattualità? Un‟ipotesi nostalgica, eppure storicamente necessaria, per il recupero di un milieu che troppo disinvoltamente si è lasciato cadere in oblio? Un tributo a quella memoria inespressa che è magna pars di realtà e aspirazioni contemporanee? Nel caso del Trianon, edificato ai confini di un antichissimo territorio urbano, in un‟area da sempre crocevia di traffici e scambi tra sale permanenti e luoghi dell‟effimero meno radioso, in un vortice di attori, mestieranti, compagnie, lo scarto fra splendori e miserie di una remota programmazione e gli auspici dei tempi che verranno è solo l‟ennesima frattura di un percorso accidentato dove alla precoce vocazione di una scena tutta immersa nelle spire di un sistema “nobilmente” dialettale si contrappone l‟eclettismo di stagioni incondizionatamente aperte, segnate da opportunità di gestione come da un autentico sentimento del pluralismo dello spettacolo. Quel che appare in superficie è decisamente meno rilevante (e suggestivo) di quanto si nasconde dietro cartelloni eccentrici, cicli di rappresentazioni più o meno omogenee, strepitose soirées o incursioni nel bel canto, fino alle proiezioni cinematografiche degli ultimi anni. Ed è lì, nei segreti profondi di un fare teatro di cui col tempo si sono smarriti gli usi, che andranno cercate finalità e ragioni di una rinascita “straordinaria”. *** Troppo spesso le cronologie si considerano punti di arrivo di una ricerca comunque laboriosa. Di sicuro, la sistemazione di dati originariamente dispersi tra fonti di varia consistenza e interesse costituisce pur sempre un approdo definitivo. Il fatto è che – pur nella completezza delle informazioni – rimangono ai limiti di quel che è visibile allo spettatore, ripercorrendo e intensificando un approccio comune agli esiti del mettere in scena. Oltre quei limiti si dipartono numerose vie di fuga: strategie di repertorio, avvicendamenti di organici, conflittualità tra linguaggi, prosperità o incertezze finanziarie, interventi censori, politiche culturali. Un passaggio imperscrutabile dalla cronaca alla storia. E all‟Arte, nelle sue accezioni più disparate. I titoli scorrono laconici, nomi di interpreti e troupes si susseguono secondo intervalli cronologici irregolari, a testimoniare l‟attivismo di gestioni agguerrite o il successo di particolari proposte, ma anche quando le notizie si fanno più fitte e dettagliate, restano indizi di una vita dello spettacolo fascinosa e occulta, risposte a quesiti e tensioni insieme avvalorati e dissolti dalla prassi del palcoscenico. D‟altronde, per il Trianon il mero dato cronachistico è di per sé un fattore dissonante nella vicenda tumultuosa dei luoghi teatrali a Napoli fra tardo Ottocento e primo Novecento: restituire le tracce di un esercizio duraturo e pressoché costante illumina per contrasto le sorti dei tanti piccoli centri che, votati ad un‟intrinseca provvisorietà o soggetti alle leggi di un mercato frenetico e impietoso (in cui il rischio e l‟avventura economica intervengono a sorreggere e a complicare un regime già incontrollabile di contaminazioni biografiche e artistiche tra attori e maestranze), costellano il tessuto urbanistico della città, esplorando i linguaggi tutti della scena con una singolare propensione per l‟escursione stilistica o il 1 gusto della metamorfosi e della rielaborazione .
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Per una lettura del teatro ottocentesco a Napoli si rinvia a F. C. GRECO, La scena illustrata. Teatro, pittura e città a Napoli nell’Ottocento, Napoli, Pironti, 1995, in particolare l‟introduzione Napoli, teatro e città nell’Ottocento. Lingua e fantasmi di un’autorappresentazione durata un secolo, alle pp. IX-XXXI. Si vedano anche A. PALERMO, Da Mastriani a Viviani. Per una storia della letteratura a Napoli tra Otto e Novecento, Napoli, Liguori, 19872; E. GIAMMATTEI, I tanti teatri di Napoli, in «Problemi», n. 75, GennaioAprile 1986, pp. 42-51; F. C. GRECO, La rappresentazione della città e altre scene. Il teatro, in Civiltà dell’Ottocento. Le arti a Napoli dai Borbone ai Savoia, catalogo della mostra, Napoli-Museo di Capodimonte/Caserta-Palazzo Reale, 25 ottobre 1997-26 aprile 1998, 3 voll., Napoli, Electa, 1997, Cultura e Società, pp. 32-35. Un esempio di ricerca mirata sui singoli centri di spettacolo è dato da V. REA, Il Teatro “La Fenice” di Napoli. 1813-1846, in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CXIV (1996), pp. 295-386 (parte prima) e in «Archivio Storico per le Province Napoletane», CXV (1997), pp. 355-430 (parte seconda: Repertorio cronologico delle opere rappresentate). in collaborazione con
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Partenope, Ercole, Mercadante a Foria, Arena Olimpia, Fenice, Sebeto e tanti altri, accanto a quelli più duraturi e autorevoli: sono strutture disseminate lungo le principali direttrici della capitale, nei quartieri popolosi o a ridosso del nucleo storico, luoghi sopravvissuti nelle rievocazioni trasversali di quanti riuscirono ad approdare alle più stabili e accreditate istituzioni locali e punti di partenza, per la loro collocazione irregolare come per l‟attività spesso transitoria, di 2 una «topografia della fruizione» che è tratto distintivo del meccanismo teatrale napoletano, sia per quel che riguarda la circolazione di idee, spunti, personaggi, sia per il carattere di cursus honorum che il passaggio dalle minuscole “stanze” alla sale maggiori acquisì per i comici e la compagnie tutte fino alla metà del ventesimo secolo e oltre. Nella pletora di spazi che puntellano i nuovi tracciati della Napoli otto-novecentesca, quindi, spiccano quegli edifici che, come il Bellini, il Politeama o il Sannazaro, delineano una progettualità più ampia e lungimirante, pur radicandosi 3 fortemente nella humus instabile e convulsa della teatralità nazionale e dialettale . Di questa tendenza il Trianon è baluardo periferico e quasi crepuscolare, legato com‟è ad una cultura della scena in cui vige un‟incrollabile fede nella continuità fra novità artistiche, mobilità dell‟impresa ed educazione attorica; tuttavia – nei primissimi anni del XX secolo – il gusto delle mescidanze e delle sovrapposizioni linguistiche non è più affannosa ricerca di itinerari o di specializzazioni nell‟offerta cittadina, ma già riflette le ombre di un‟armonia perduta, il tentativo di compensare forme “alte” e “basse” dello spettacolo o di legittimare nel nome di comuni matrici espressive le velleità borghesi di una drammaturgia elevata e le infinite risorse di un mestiere tanto più inventivo quanto più apparentemente circoscritto alla parodia, all‟imitazione, al genio irrelato del cantante-dicitore o all‟espediente musicale di sicuro effetto. L‟eclettismo è la condanna di un teatro per certi versi immoto, per altri chiamato ad aprirsi ad inquietudini ed evoluzioni contemporanee nella strenua difesa di una sua identità comunicativa. Emblematico in tal senso è lo spettacolo inaugurale, Miseria e nobiltà di Eduardo Scarpetta, affidato alla compagnia diretta dal figlio Vincenzo. Un ideale passaggio di testimone si celebra sulle tavole del palcoscenico, ma la successione tra i due è il segno tutto esteriore di una storia molto più problematica. Il ritiro di Scarpetta senior dalle scene non avviene in maniera indolore: è il responso personale e sofferto ad un clima di accusa che grava sulla liceità morale ed estetica della sua opera. La dissacrazione del mito dannunziano offerta con Il figlio di Jorio, il processo, le polemiche incrociate tra detrattori e sostenitori, l‟intervento autorevole di Croce complicano un quadro già segnato dalla nascente conflittualità fra le esigenze di una drammaturgia di scrittori per il teatro e le consuetudini di osmosi fra testo, attore, messinscena: quel peculiare sistema di equilibri tra spunti narrativi e interpretazioni che si fonda sull‟approccio parodistico, sull‟intreccio di lingua e dialetto, sulla modulazione farsesca e irridente di meccanismi comici dall‟esito affidabile è profondamente scosso dall‟incontro/scontro con una tensione creativa che ne contesta i fondamenti e ne discute il peso sociale e comunicativo. Se il caso serve ad avvalorare il prestigio della nuova tragedia italiana, l‟artista napoletano – nonostante l‟assoluzione – coglie i segni dell‟impraticabilità del suo metodo, la crisi di una singolarissima inventio che è soprattutto ri4 scrittura e de-formazione di racconti e intrighi “realistici” . Miseria e nobiltà – nella geniale prospettiva di far convergere una duplice finzione nell‟atmosfera rarefatta da vaudeville – rimane il vertice di un‟autoconsapevolezza dell‟autore Scarpetta: un classico, se s‟intende per classico il modello che meglio riassume linee di ricerca e fasi costruttive di un percorso creativo. È un titolo sicuro per una serata speciale, certo, ma è anche il punto di partenza per riappropriarsi fattivamente di un repertorio, come dimostra l‟intero scorcio di stagione del 1911, teso a rilanciare un progetto drammaturgico al di là delle contestazioni e a ribadirne l‟indiscussa omogeneità con l‟esperienza militante dello spettacolo a Napoli. Un‟innocua aristeia si configura così per il Trianon quale controversa scelta di campo: riannodare – secondo un fondamentale principio di conservazione - i fili di una tradizione dal forte profilo attorico (scongiurando il pericolo di fratture che si consumano nel vivo del dibattito critico); mirare ad un pubblico medio-alto, in sintonia con le smaliziate forme di ricezione che quelle pièces richiedono; collocarsi tra le sale più attente alle strategie autoctone di produzione (e sperimentando ben presto l‟impossibilità di un‟identificazione tra genere e istituzione, se non a prezzo di ulteriori scatti poetici e dichiarati compromessi artistici e socio-economici). *** Sarebbe interessante – ma è compito che trascende i limiti di una cronologia, e apre scenari in cui è difficile e avventuroso inoltrarsi – esaminare le ricadute d‟obbligo che il nuovo capocomicato ebbe nell‟uso del repertorio nelle primissime stagioni. E non solo per gli adattamenti e le riletture che inevitabilmente si produssero.
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L‟espressione è di E. GIAMMATTEI, Tempi e luoghi della parodia: Scarpetta al Mercadante, in T. R. TOSCANO (a cura di), Il Teatro Mercadante. La storia. Il restauro, Napoli, Electa, 1989, p. 217. 3
Oltre a F. C. GRECO, La scena illustrata cit., pp. IX-XXXI (e, in una prospettiva più ampia, ID., Napoli e il teatro, in Napoli. Itinerari armonici, a cura di R. DI BENEDETTO-P. MAIONE-F. SELLER, Napoli, Electa, 1998, pp. 14-16), si vedano i pochi, diseguali contributi sulle sale napoletane menzionate: N. MASIELLO, Il Teatro Sannazaro, Roma, Gabriele e Maria Teresa Benincasa, 1985; AA.VV., Il Teatro Bellini 1864/1988, coordinamento dei testi di M. VAJRO, Napoli, Edizione Associazione Amici del Bellini, 1988. 4
Cfr. E. GIAMMATTEI, Tempi e luoghi della parodia cit., pp. 217-228. Sulla continuità tra Scarpetta e il teatro novecentesco cfr. A. BARSOTTI, Scarpetta e Viviani: la tradizione nel moderno, in «Il Castello di Elsinore», V, 1992, n. 15, pp. 85-105. in collaborazione con
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Il punto nevralgico è l‟imporsi di una famiglia d‟arte nel solco di una radicata abitudine socio-teatrale: un‟eredità di saperi istrionici che si rinnova per serbare costantemente traccia della sua origine. Il riassestamento avviene tuttavia nel segno di un‟implicita “promozione”: elevare a dignità di prim‟attore colui che ha esaurito l‟oscuro (talora anche “irregolare”) apprendistato di compagnia. I comici della Napoli primo-novecentesca provengono in larga parte ancora da una inesorabile predestinazione, giovani leve attinte al rinnovarsi delle generazioni impegnate in un establishment paradossalmente tentacolare ed autosufficiente. Il teatro è la sola prospettiva di vita che conoscono o inseguono. Ed i 5 ruoli sono, ancor prima che una necessità scenica, un‟ipotesi biografica . Il senso di certe operazioni di spettacolo risiede quindi non tanto nel singolo titolo, quanto nella serialità di un lavoro che, in un‟aura di premeditazione “condizionata”, scompone e ricompone con frequenza un‟abilità professionale maturata dietro le quinte, tra memorie genetiche e prassi del mestiere. È un teatro all‟antica italiano secondo movenze intrinsecamente dialettali quello che la Compagnia Scarpetta (1911, con sporadici ritorni fino al 1923), la Compagnia Pantalena (1912), la “ditta” di Raffaele Di Napoli e la pregiata Cafiero-Fumo (entrambe dal 1921) portano sulle tavole del Trianon, vero asse portante di una programmazione che, se pure spazia tra generi e “curiosità” disparate, rimane ancorata all‟attore-capocomico-demiurgo e ad una scrittura scenica che riflette gerarchie e codificazioni collaudate. Per questa via non sorprende l‟alternanza con le compagini italiane Renzi-Gabrielli, Orsini-Sansoldo o Farinati (si vedano le stagioni 1914-1920, nei cui repertori “francesi” (secondo un‟usanza mai debellata dagli autori nostrani) fanno capolino Shakespeare, Sem Benelli e l‟Ohnet de Il padrone delle ferriere, e si intuiscono le affinità poetiche con le 6 incursioni romanesche di Gastone Monaldi o siciliane di Giovanni Grasso . La ricchezza dell‟offerta tradisce realtà produttive che, evidentemente, agli occhi dello spettatore si sovrappongono senza contrasti eclatanti. Talché un‟evoluzione artistica è da scorgersi lentamente nelle carriere individuali che intersecano un sistema apparentemente immutabile, nel farsi e disfarsi di gruppi – in bilico tra istanze professionali e situazioni private – che reca in sé intenti poetici, “altre” interpretazioni, ansie di cambiamento. Come era stato per Scarpetta, come sarebbe stato per Viviani o i De Filippo. Forse queste scene di confine – nella vita di attori e sodalizi più o meno duraturi – contengono barlumi di verità sullo spettacolo otto-novecentesco tali da compensare – o integrare – i sofferti trionfi della macrostoria d‟Occidente. *** Ad esempio, al confine tra evoluzioni del mestiere e sentimenti pedagogici del teatro appartiene di diritto anche la sceneggiata. Resiste il mito di un genere nato dallo stratagemma biecamente fiscale di omologare alla prosa esibizioni canore – riconoscimento di un‟arte di arrangiarsi sub specie theatri (ovviamente legato ad un‟oleografia aneddotica che ha ancora tanta parte nella storia dello spettacolo a Napoli) – ma è indubbio che la pressione determinata dalla brulicante forza lavoro disponibile sui palcoscenici cittadini abbia costituito un fattore non irrilevante per la consacrazione di un prodotto avvertito come diverso. Nel commentarne la rapida decadenza dopo un periodo di breve fulgore, Vittorio Viviani (non senza un malcelato compiacimento per l‟astro paterno al culmine della sua parabola creativa) tratteggia un quadro dai toni drammaticamente “sinceri”: Routine massacrante di autentici lavoratori del teatro: fatica materiale oltre che intellettuale e sempre peggio remunerata. È chiaro che cosa fosse diventato quel «prodotto» che veniva dato in pasto ad una plebe abbrutita da un malcostume civico secolare. Eppure qualche volta bastava una battuta, una «posizione» scenica, un lazzo perché venisse fuori, senza volerlo, un tono d‟interesse umano, una illuminazione sociale, la trasfigurazione, spesso fantastica, d‟una denunzia. Apporto dei comici più poveri e disagiati, impossibilitati ad arricchire gli 7 «avanspettacoli» di cui c‟era la voga in Italia, con la richiesta di «napoletani» . La qualità memorialistica dello studioso è al di là di ogni dubbio, e apre uno squarcio su un‟officina della scena còlta con uno sguardo a un tempo partecipe e impietoso. Sembra chiaro come la sceneggiata degli anni ruggenti abbia esaurito precocemente il suo impatto contenutistico, deponendo le armi dinanzi alla sfida di riconvertire gli espedienti del mestiere attorico a strumenti di una sia pur elementare esegesi sociale. E non è un caso che nella sua evoluzione novecentesca essa sia stata di fatto restituita all‟interprete e alla compagnia, punti di forza di un rudimentale aggiornamento degli spunti narrativi e dello sfondo locale.
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Sul problema dei ruoli nel teatro occidentale si vedano F. TAVIANI- M. SCHINO, Il segreto della Commedia dell’Arte. La memoria delle compagnie italiane del XVI, XVII e XVIII secolo, Firenze, La Casa Usher, 19862, pp. 354-379; U. ARTIOLI, Il teatro dei ruoli in Europa, Padova, Esedra, 2000; B. DIEBOLD, Il sistema dei ruoli nel teatro tedesco del Settecento, Firenze, Le Lettere, 2001; C. JANDELLI, I ruoli nel teatro italiano tra Otto e Novecento. Con un dizionario in 68 voci, Firenze, Le Lettere, 2002. 6
Sulla vita teatrale di primo Novecento si rinvia a F. ANGELINI, Teatro e spettacolo nel primo Novecento, Roma-Bari, Laterza, 1988; G. LIVIO, La scena italiana. Materiali per una storia dello spettacolo dell’Otto e Novecento, Milano, Mursia, 1989; R. TESSARI, Teatro italiano del Novecento. Fenomenologia e strutture 1906-1976, Firenze, Le Lettere, 1996 (in particolare pp. 1-74) e R. ALONGE-F. MALARA, Il teatro italiano di tradizione, in Storia del teatro moderno e contemporaneo, diretta da R. ALONGE e G. DAVICO BONINO, III. Avanguardie e utopie del teatro. Il Novecento, pp. 567-701 (in particolare pp. 567-597). 7
V. VIVIANI, Storia del teatro napoletano, Napoli, Guida, 1992 (ristampa della prima edizione, ivi, 1969), p. 775. in collaborazione con
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Eppure, nella sua stagione aurea, coltivò forse ambizioni che presero poi a balenare nei guizzi degli artisti più scalcagnati: offrire alla drammaturgia dialettale una struttura a tesi, un‟occasione di assenso ai valori di un mondo popolare altrimenti evocato solo dall‟idillio musicale (e contestualmente pretesto di una dolente Weltanschauung nella difficile opera di Raffaele Viviani). Se nei propositi (o nelle velleità) della cultura otto-novecentesca a Napoli l‟impianto farsesco e dissacratorio di Scarpetta cede – più che agli attacchi di illustri avversari – ai colpi di un‟avanguardia formalmente impegnata in un assorto realismo, spetta alla scena militante prospettare un‟ardita – e impossibile – conciliazione. È quanto suggeriscono i cartelloni del primo decennio di attività del Trianon: le sporadiche apparizioni delle digiacomiane Assunta Spina o A San Francisco e le limitate escursioni in un accattivante repertorio drammatico (dominato dai bozzettismi di Cavalleria rusticana, da Traviata, Fedora o dalle operette più in voga), cedono il passo a un “teatro per tutti”. La sceneggiata si tinge di novità proprio per la sua estrema capacità di mediazione: tra musica e prosa, tra elaborazioni di attore e dinastie di scrittori a stretto contatto con abili verseggiatori e musicisti (e pronti a misurarsi con la 8 prassi di famiglie e compagnie), come Bovio, Chiurazzi, i Di Maio . È l‟artigianato dialettale a recuperare gli stilemi di una letteratura tardo-realistica infondendovi il piglio di semplificazioni etiche “popolari”. Nella composizione del dramma trovano un equilibrio i lampi di protagonismo del grande interprete e le prove di coralità imposte dall‟affresco narrativo, mentre la recitazione sembra sperimentare la via del più facile coinvolgimento emotivo, eppure riscattato dalla lucidità con cui si affrontano i ruoli dell‟Arte. Per servirsene e per distanziarsene. Senza inventare nulla: quel che si propone al pubblico sono le scelte estreme (e le contraddizioni) di un regime scenico antico, la cui sopravvivenza dipende da sempre dall‟inclinazione a fagocitare generi e competenze diverse, secondo schemi paratattici, combinando le (poche) spinte di novità nel lavoro sui consueti moduli espressivi del farsesco e del patetico, in un bizzarro rispetto degli orizzonti d‟attesa. 9
D‟altra parte, contribuire a «sfornare […] comici» è, sempre per Vittorio Viviani, il grande merito della sceneggiata anche quando ormai è divenuta luogo di stereotipi canori e narrativi, vale a dire quando l‟iniziale verve creativa e l‟interazione con un milieu “intellettuale” risultano totalmente sopraffatti dalle metodiche di variazioni sul tema grazie alle quali il microcosmo attorico muove impercettibilmente i suoi cambiamenti epocali. Con un offuscarsi dei contenuti del dramma, tutt‟altro che originali, verso il risalto degli effetti dello spettacolo. Ideale palestra di talenti, mentre il sistema dei ruoli prova ad aggiornarsi sulle occorrenze della nuova realtà metropolitana o rievoca nostalgicamente trame e atmosfere di tempi passati, il “teatro della canzone” rimane punto di partenza obbligato per intendere i caratteri della scena napoletana di tradizione nel ventesimo secolo. Fenomeni quali i Taranto, i Maggio, Raffaele Di Napoli, Franco Sportelli, Dolores Palumbo, Luisa Conte nascono o si affermano nel fitto calendario di spettacoli che, nel minuscolo circuito dal Trianon alle sale limitrofe, impone ritmi di concertazione e affannose ricerche di pubblico saldamente ancorati ad un‟antichissima langue indigena, tale da sorreggere ed inverare le punte più avanzate di un costante impegno produttivo e poetico in grado di affermarsi sui palcoscenici mondiali. Le trasformazioni, il progressivo illanguidirsi e la “fine” della sceneggiata possono evocare questioni nevralgiche nella storia e nelle teorie del teatro, la coesistenza e la natura contestuale di stili recitativi e repertori, il rapporto fra qualità dell‟esecuzione d‟attore e gli elementi “altri” della drammaturgia. È la scomparsa di un certo identikit professionale a rendere obsolete le cadenze affettive e musicali della sceneggiata, o sono le tensioni culturali che ne riducono gli spazi a imporre fratture estetiche oltre che generazionali nel mondo degli attori? Sta di fatto che la formazione (e il riutilizzo) del comico di ascendenza dialettale rimane un dato ancora largamente sommerso nell‟analisi storica, ma soprattutto tenacemente ignorato da una coscienza civica da sempre conflittualmente legata alle sue memorie. Ed è invece tutt‟altro che trascurabile, se si considera il fascino contraddittorio di una drammaturgia “seriale” e abilmente “montata”. Dietro forme di spettacolo “napoletane” agisce una sapienza artigianale che preesiste e orienta i linguaggi tutti del teatro, pronta a esibirsi in altri scenari e con altre finalità comunicative. È una grandezza sopravvissuta (o meglio ravvisata) solo nei grandi classici del Novecento – quando ha saputo fissarsi a segni perenni, pur tra le perplessità che la scrittura di attori quali Raffaele Viviani o Eduardo De Filippo ha continuamente suscitato – ed è per lo più svanita (o snobbata) nei suoi episodi meno eclatanti o nelle secche di un 10 obiettivo provincialismo. Un mondo, un‟identità espressiva di cui è opportuno ritrovar traccia .
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Cfr. ivi, pp. 767-777.
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Ivi, p. 775.
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Ancora numericamente esigui i contributi sulla scena napoletana novecentesca, tra i quali si segnalano V. MONACO, La contaminazione teatrale. Momenti di spettacolo napoletano dagli anni Cinquanta ad oggi, Bologna, Patron, 1981; F. C. GRECO (a cura di), La tradizione ed il comico a Napoli dal XVIII secolo ad oggi, volume dei cataloghi della mostra La scrittura e il gesto. Itinerari del teatro napoletano dal Cinquecento ad oggi, Napoli, Guida, 1982; S. DE MATTEIS, Lo specchio della vita. Napoli: antropologia della città del teatro, Bologna, Il Mulino, 1991; «Nord e Sud», nuova serie, a. XLVII, Settembre-Ottobre 2000, numero monografico dedicato a Un secolo di teatro napoletano (1900-2000), a cura di D. BARBA-D. MOREA. Sulla questione della dialettalità in ambito drammaturgico si segnalano C. VICENTINI, La ligua e il dialetto del testo e dell’attore, in M. PROSPERI (a cura di), La drammaturgia del teatro italiano vivente, Città di Castello, Editori Associati, 1993, pp. 13-35; A. PIZZO, La discussione sul teatro dialettale postunitario, in «Il Castello di Elsinore», XII, 1999, n. 35, pp. 49-87; ID., Quando Calibano è un guappo napoletano, in «Ariel», 43, XV, 1, Gennaio-Aprile 2000, pp. 87104. In particolare, per la sceneggiata, si vedano E. GRANO, La sceneggiata, Napoli, A.B.E., 1976, il numero di «Scena», II, 1, Febbraio in collaborazione con
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Si colloca solo apparentemente agli antipodi della coralità della sceneggiata l‟altro grande filone testimoniato dalla programmazione del Trianon, quello del varietà o del lavoro di microunità professionali. Anche in tal caso si potrebbero richiamare gli spunti e le tensioni di una teatralità di respiro europeo, l‟idea di una risposta autoctona ai venti di rinnovamento della scena borghese che spirano nel continente, scaltramente dosata tra le caratteristiche del vivace mercato locale e gli esperimenti di una nuova spettacolarità. Eppure, i cartelloni sembrano riflettere un profondo gusto per le contaminazioni artistiche di stampo ottocentesco; l‟alternanza è l‟estrema propaggine di una visione non settoriale del fare teatro, pronta ad attribuire significati “eversivi” all‟infittirsi di quegli elementi che giocano sulla dissonanza o sul diverso coinvolgimento fra palcoscenico e platea. L‟esperienza del Trianon offre precocemente - su scala ridotta – il sogno impossibile della Napoli contemporanea: lanciarsi in spericolate fratture ed escogitare vie di conciliazione, alimentare una modernità nell‟alveo dell‟esistente, dando origine a percorsi di omologazione/rifiuto di una tradizione inquietante che sono ad un tempo il fascino e il limite di una funzione ancora protagonistica della città nel campo dell‟immaginazione entro e oltre la storia. «Attrazioni e varietà» rappresentano il contraltare di una ritualità che prende corpo nelle più articolate manifestazioni di prosa e musica e, d‟altro canto, ne costituiscono l‟ideale completamento, se in esse convergono, in altra misura, le linee di produzione dello spettacolo affidate all‟estro di una figura attorica palesemente creatrice. Di nuovo, dietro l‟imporsi di one man shows o l‟affermarsi equivoco di chanteuses, pare di poter intravedere “fermenti” di continuità nel tenace apprendistato che gli astri del genere condividono con i membri delle numerose compagnie che si avvicendano nelle sale cittadine: un lento, comune lavoro sui ruoli che qui rimane concentrato su effetti di coesione drammaturgica e di progressione professionale mentre, nel repertorio di brani, macchiette, canzoni (che, tra l‟altro, ha fortemente segnato la presenza della “napoletanità” sul piano nazionale), risulta saggiamente svincolato da ampie tessiture narrative e si impernia sui ritmi di una personalissima elaborazione stilistica. Inaugurando (o forse solo difendendo strenuamente) itinerari possibili di messinscena e possibili letture del fatto teatrale. L‟ipotesi sottesa ai dati della cronologia è che un‟oggettiva difformità dell‟offerta di spettacolo denunci in realtà una “distanza” linguistica solo apparente, per gli operatori del settore come per il pubblico. Il che incoraggia ulteriormente a non dipanare i fili di un discorso che vive di frammentarietà, osmosi, relazioni virtuali che si semplificano o si annullano fatalmente quando trapassano dalla prassi teatrale ad un qualsiasi statuto documentario. Gli esordi di Nicola Maldacea, così come sono rievocati da Luciano Ramo, evidenziano un‟inafferrabile contiguità con gli aspetti e i problemi tutti della scena napoletana coeva: […] è napoletano, ma la sua dizione italiana è perfetta, chiara, persino toscaneggiante: ha cominciato a «fare l‟artista» per puro divertimento durante i suoi corsi di recitazione presso una buona scuola drammatica a Napoli. Egli recita, canta, improvvisa monologhi nei trattenimenti e ricevimenti della piccola borghesia. Poi fa parte di una compagnia di irregolari, scritturata «a recite staccate» presso il popolarissimo Teatro Partenope di via Foria, dove si esibisce in canzonette e scenette. Infine, entra nella regolare compagnia dialettale diretta da Gennaro Pantalena al Teatro Nuovo di Napoli prima, poi a Palermo, dove si distingue nel suo ruolo di secondo brillante. Ma guarda più in là: e una sera al Sannazzaro di Napoli, dove nel 1890 recita nella grande Compagnia di Eduardo Scarpetta, la 11 fortuna gli viene incontro con l‟offerta di una scrittura al nuovo teatro inaugurato quell‟anno, il Salone Margherita . È un affresco rapido, che pur identifica snodi nevralgici di una lenta maturazione d‟artista, una primissima educazione specifica, l‟inserimento in circuiti “irregolari” cui si contrappongono quelli delle grandi compagnie (e la contrapposizione riguarda insieme gli organici e le sale), il definirsi di un ruolo atto a proseguire nell‟esperienza solistica. Il debutto sancisce un diverso livello di interazione con i personaggi del mondo artistico e culturale che gravitano intorno al mondo dello spettacolo: […] ha inizio la carriera del grande macchiettista. Ha già qualche macchietta in repertorio, ma egli arricchisce in poco tempo questo repertorio: poeti e scrittori e giornalisti fanno piovere nelle mani di Nicola gran quantità di macchiette; ne sceglie le più originali e fa adattare musichette di nessuna importanza: contano per lui le parole che sono, in un primo tempo, di Ferdinando Russo, di Pasquale Cinquegrana, di Giovanni Capurro; poi di Trilussa, del giudice Lustig, 12 di Ugo Ricci, poi ancora di Rocco Galdieri, di Ernesto Murolo, ed infine di Edoardo Nicolardi, di Carlo Veneziani . Una carriera che si intreccia con i destini della canzone e di quel teatro-canzone rispetto al quale parrebbe porsi in funzione assolutamente subalterna.
1977, a cura di S. DE MATTEIS-M. BELLO, oltre ai rilievi polemici di V. MONACO, La contaminazione teatrale cit., pp. 19-33, e il recentissimo P. SCIALÒ (a cura di), Sceneggiata. Rappresentazioni di un genere popolare, Napoli, Guida, 2002. 11
L. RAMO, Storia del varietà, Milano, Garzanti, 1956, p. 108.
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Ivi, pp. 108-109. in collaborazione con
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Né dissimile è il debutto di Totò e Nino Taranto ; alla rivista danno il loro apporto i fratelli De Filippo ; Raffaele Viviani si afferma in stretto contatto con la multiforme realtà delle sale minori cittadine e nel varietà costruisce la propria spiccata fisionomia di autore-interprete. Non sorprende neppure la sua lettura teleologica del passaggio dal repertorio iniziale alla stesura prima di atti unici, poi di testi sempre più complessi: è il segno di una scrittura capace di modularsi sul riscontro scenico, di reinventare personalmente – e con indubbia efficacia – gli oggetti della sua ispirazione, e tale da 16 lasciare intuire le gerarchie non confessate di cui si sostanzia il mondo dei comici . Il lessico del Viviani teorico – messo a punto all‟indomani di significativi trionfi, fra il Trianon, l‟Umberto e le numerose tournées – è volutamente ambiguo e sincero, dipingendo come salto di qualità una stupefacente propensione dell‟attore-che-scrive a superare i limiti di una genialità solitaria. “Immagazzinare” (è un termine che rinvia alla osservazione della vita da un punto di vista teatrale), 17 fissare un “ambiente” ancor prima di una “trama” (operazione controversa, ché sembrerebbe accordare un privilegio assoluto ad una mimesi esterna, mentre potrebbe intendersi come una ricerca di connotazioni per un lavorio su parti e ruoli preesistenti, corrispettivo di una drammaturgia poco incline a sperimentazioni narrative) sono i capisaldi di una vis creativa tra le più singolari del Novecento, che, nel momento stesso in cui tenta una sua prima storicizzazione, sottolinea sì lo scarto, la diversità con l‟esistente, ma in fondo attribuisce a quella pluralità magmatica di soluzioni espressive entro le quali matura la sua esperienza individuale le ragioni e la praticabilità di una conquista di autonomia. Quella di Viviani è un‟invenzione sprecata che è anche ritrovamento di energie progressivamente inattuali nei linguaggi dominanti della scena contemporanea, una convenzione in grado di assorbire e fare esplodere le risorse 18 primigenie di uno sguardo attorico . E nasce nelle zone d‟ombra di una scena onnivora e pragmatica come quella del Trianon. I cartelloni sono delicati compromessi di mercato, esiti di un‟imprenditorialità di successo o ambiziosi progetti culturali; in un regime disperatamente oscillante tra testi e grammatiche di teatro sono orizzonti inesplorati di intenti poetici, vertici di solitudine o pulsioni collettive quasi inestricabili.
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Sull‟artista, prescindendo da una serie di contributi di carattere prevalentemente aneddotico, cfr. O. CALDIRON, Totò, Roma, Gremese, 19932; C. MELDOLESI, Fra Totò e Gadda. Sei invenzioni sprecate del teatro italiano, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 17-55; R. ESCOBAR, Totò, Bologna, Il Mulino, 1998 (ed E. CASTIGLIONI, Su «Totò» di Roberto Escobar, in «Teatro e Storia», 20-21, XIII, 1998-1999, pp. 323-340). 14
Cfr. G. BAFFI, Nino Taranto. Una vita in paglietta, Napoli, Altrastampa, 1997.
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Su Titina De Filippo, di cui è stata di recente pubblicata la produzione drammatica (cfr. T. DE FILIPPO, Il Teatro, Napoli, Bellini Editrice, 1993), si vedano A. CARLONI, Titina De Filippo. Vita di una donna di teatro, Milano, Rusconi, 1984 e F. C. GRECO-F. ARRIVA (a cura di), Filumena in arte Titina, Catalogo della mostra, Napoli, Teatro di San Carlo, Ottobre 1995, Napoli, Elio De Rosa, 1996. Di Peppino (cfr. P. DE FILIPPO, Farse e commedie, III ed. riveduta e ampliata in 12 voll., Napoli, Marotta, 1984-85) si ricordi anche l‟autobiografia Una famiglia difficile, Napoli, Marotta, 1977. Più vasta la bibliografia su Eduardo, le cui Cantata dei giorni pari e Cantata dei giorni dispari sono state più volte riproposte da Torino, Einaudi, a partire dal 1956; ultime in ordine di tempo le edizioni a cura di A. BARSOTTI, Cantata dei giorni dispari, 3 voll., 1995 e Cantata dei giorni pari, 1998. La Cantata dei giorni pari è ora apparsa anche a cura di N. DE BLASI-P. QUARENGHI per i tipi di Milano, Mondadori, 2000. Un utile excursus è offerto da F. DI FRANCO, Eduardo De Filippo, Roma, Gremese, 1978; I. QUARANTOTTI DE FILIPPO (a cura di), Eduardo. Polemiche, pensieri, pagine inedite, Milano, Bompiani, 1985; EAD.-S. MARTIN (a cura di), Eduardo De Filippo: vita e opere, Milano, Mondadori, 1986. Fra i principali studi critici cfr. C. MELDOLESI, Fra Totò e Gadda cit., pp. 57-87; A. BARSOTTI, Eduardo drammaturgo (fra mondo del teatro e teatro del mondo), Roma, Bulzoni, 1988 (nuova edizione aggiornata, ivi, 1995); F. ANGELINI, Eduardo negli anni Trenta: abiti vecchi e nuovi, in «Ariel», III, 1988, n. 3, pp. 87-98; A. OTTAI-P. QUARENGHI (a cura di), L’Arte della Commedia. Atti del convegno di studi sulla drammaturgia di Eduardo, Roma, Teatro Ateneo, 21 settembre 1988, Roma, Bulzoni, 1990; M. GIAMMUSSO, Vita di Eduardo, Milano, Mondadori, 1993; F. C. GRECO (a cura di), Eduardo e Napoli. Eduardo e l’Europa, Napoli, E.S.I., 1993; ID.-T. FIORINO (a cura di), Eduardo 2000, Napoli, E.S.I., 2000; F. TAVIANI, Uomini di scena. Uomini di libro. Introduzione alla letteratura teatrale italiana del Novecento, Bologna, Il Mulino, 1995, pp. 123-145; la sezione di «Ariel», 48, XV, 3, Settembre-Dicembre 2001, dedicata a Eduardo (con scritti di F. ANGELINI, “Se ne care ’o teatro!”: Eduardo e il pubblico, pp. 73-81; A. BARSOTTI, Grandi giocolieri e giullari contro la macchina che pialla i teatranti: Eduardo e Fo, pp. 83-118; C. MELDOLESI, Una differenza coniugatrice, pp. 121-126; P. QUARENGHI, Il copione, lo spettacolo, il testo. Riflessioni sulla drammaturgia d’attore, pp. 131-139 e la Conversazione con Angelica Ippolito, pp. 141-143). 16
Cfr. R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, Bologna Cappelli, 1928 (ristampa, Napoli, Guida, 1977 con l‟aggiunta di Numeri di varietà e l‟eliminazione di un capitolo. Altra ristampa nel 1988). 17
Cfr. R. VIVIANI, Dalla vita alle scene, rist. Napoli, Guida, 1988, pp. 123-124.
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Dopo la benemerita edizione degli anni Cinquanta (cfr. Trentaquattro commedie scelte da tutto il teatro di Raffaele Viviani, a cura di L. RIDENTI, 2 voll., Torino, I.L.T.E., 1957 ), l‟opera di Viviani è stata ristampata integralmente solo di recente: cfr. R. VIVIANI, Teatro, a cura di G. DAVICO BONINO-A. LEZZA-P. SCIALÒ, Napoli, Guida, voll. I (1987), II (1988), III (1988), IV (1989), V (1991), VI – con una introduzione di G. FOFI – (1994). Della più recente bibliografia critica sull‟autore/attore/capocomico si vedano Raffaele Viviani a venticinque anni dalla morte, Napoli, Comitato per le celebrazioni di Raffaele Viviani, 1975; AA. VV., Incontri di studio sull’opera di Raffaele Viviani, Quaderni/I, Cooperativa Gli Ipocriti, Napoli, Ed. Lan, 1988; A. BARSOTTI, Da ‟O vico a ‟O buvero ‟e Sant‟Antonio: la memoria scenica del primo Viviani, in «Ariel», III, 1988, n. 3, pp. 99-120; F. TAVIANI, Uomini di scena. Uomini di libro cit., pp. 106-123; A. LEZZA-P. SCIALÒ, Viviani. L’autore – l’interprete – il cantastorie urbano, Napoli, Colonnese, 2000 e, anche per ulteriori indicazioni bibliografiche, M. ANDRIA (a cura di), Viviani, Napoli, Tullio Pironti Editore, 2001 (con catalogo della mostra Viviani. Immagini di scena, Sala Leopardi della Biblioteca Nazionale «Vittorio Emanuele III» di Napoli, 29 maggio-12 ottobre 2001). Una nuova, interessante direzione di ricerca è quella intrapresa da V. VENTURINI, Le compagnie di Raffaele Viviani attraverso contratti e scritture (1916-1920), in «Teatro e Storia», 23, XVI, 2001, pp. 246-309. in collaborazione con
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Un dato è certo, ed è che fino a quando i destini del varietà e della nascente sceneggiata si incrociano con le sorti del Trianon, i profili dell‟attore e della drammaturgia dialettale sono ancora ben lontani dal decadimento in una deprecabile antilingua recitativa. «L‟attore dell‟antilingua, costruendo il personaggio – ora pensoso, ora disinvolto, ora elegante -, non pensa; piuttosto si preoccupa di non sbagliare, di non fare errori di movimento, di ritmo, di pronuncia: un‟idea o un intervento incontrollato della sua personalità potrebbero perderlo, perché egli è e si sente parte di un 19 ingranaggio che deve funzionare senza sorprese» . Qui al contrario, tra modifiche, adattamenti, contaminazioni, si rilanciano e si rinnovano antichi stilemi. La meccanicità è il sintomo di fratture che si registrano molti anni dopo, quando la natura dialettale della scena non riuscirà a ritrovare una sua identità estetica e comunicativa. La marginalità può cogliersi nella perdita di interesse di una programmazione non più eclettica ma frantumata. Forse è un processo ineluttabile cui sopravvivono artisti sempre meno necessari e sempre più sclerotizzati sulla riproposta di clichés; ma questa disarmonia andrebbe vista solo come il corollario teatrale di uno smarrimento più generale, che investe maestranze, centri produttivi, gruppi politici e intellettuali. Con un sospetto: l‟antilingua (se vi è stata antilingua) a Napoli è un dato virtuale, effetto di sguardi deformanti, un disagio interpretativo che scaturisce dall‟affievolirsi di ogni sintonia con un meccanismo artistico autorevole e comunque intrinseco al fare teatro. La sclerotizzazione è allora la sofferta fierezza di un mondo la cui presenza è ineludibile, l‟ostinata sincerità contro lo sradicamento e la devastazione di linguaggi remoti e incompresi. È la testimonianza sempre più debole di un‟ossessione del passato che pervade tutte le forme più recenti della scena a Napoli, variamente segnate da un senso avanguardistico della “nostalgia”, dalla stanzialità nei luoghi 20 immaginari dello spettacolo dal sotterraneo, malcelato rimpianto di un sistema . *** Un messaggio (purtroppo) eloquente: Il cinema Splendore nella storica piazza Mura Greche e precisamente al posto del vecchio e antiestetico Trianon. È sorto un nuovo moderno ed elegante cinema, il cui nome è tutto un programma: lo Splendore. È l'accogliente locale di tutti gli abitanti del Corso Umberto, di Foria e delle zone vicine. Con 1500 comodi posti a sedere È dotato di tutti i ritrovati della modernissima tecnica cine-teatrale. La geniale ricostruzione si deve al Gr. Uff. Gustavo Cuccurullo, un impresario dalle larghe vedute, il quale ha affidato i lavori all'Architetto Prof. Bosciano. Questo cinema restituisce al 21 popoloso rione un ritrovo moderno vivamente auspicato da tutti . Poche parole di circostanza apparse su un quotidiano nel 1947, l‟annuncio di una ristrutturazione che è anche destinazione prevalente della sala alle proiezioni cinematografiche. Sarebbe un testo del tutto ordinario in chiave giornalistica se non tradisse – inavvertitamente, beninteso – una questione ritornante nella storia del teatro a Napoli sin dagli albori del professionismo: in un mondo che vive e prospera nella tacita accettazione di uno spirito di trasformazione e adattamento ad esso congenito, il riconoscimento esplicito di una soluzione di continuità tra il prima e il dopo è spia di una crisi, il riflesso di una preoccupante instabilità che il rapporto fra teatro e civiltà conosce anche ad onta di un‟apparente qualità delle produzioni. Se il fattore distintivo del Trianon era stato fino a quel punto esprimere bisogni reali di una platea variegata, inseguendo paradossalmente una sua linea di tendenza proprio nella vistosa “irregolarità” delle proprie offerte, l‟ultima trasformazione implica una precisa linea di campo che sconfessa i motivi più autentici di un successo (o, comunque, di una lusinghiera sopravvivenza), relegandolo in una posizione affatto subalterna rispetto ai destini dello spettacolo, cittadino e nazionale. È un fenomeno irreversibile, che avrebbe atteso non a caso una rinnovata presa di coscienza, forse ben più impegnativa, e sicuramente coraggiosa. Non si allude soltanto all‟intensificarsi di un meccanismo gestionale e all‟inesorabile approdo verso la programmazione a luci rosse dei tempi più recenti, ma alla progressiva scomparsa di un‟opzione culturale – anche di segno minimo – capace di testimoniare un dialogo con la città e il suo pubblico. Qualche segmento circoscritto di sceneggiata negli anni Sessanta e Settanta (affidato alla perizia artigianale di compagnie come la Liliana-Crispo) rimane a rievocare fasti passati ma in maniera del tutto irrelata rispetto sia ai dati quantitativi sia ad una pur remota considerazione sugli aspetti e le possibilità di far teatro. 19
C. MELDOLESI, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p. 32; si veda anche ID., Gesti parole e cose dialettali. Su Eduardo Cecchi e il teatro della differenza, in «Quaderni di teatro», VIII, n. 31, 1986, n. 12, pp. 132-146. 20
Mancano a tutt‟oggi ricerche sistematiche e complessive sul fenomeno spettacolo a Napoli, mentre – come si è visto - si sono avuti sondaggi talora interessanti su specifiche tematiche o ampie monografie sui grandi autori. Per il teatro di varietà cfr. oltre a L. RAMO, Storia del varietà cit., R. DE ANGELIS, Storia del café chantant, Milano, Il Balcone, 1956; ID., Café chantant: personaggi e interpreti, a cura di S. DE MATTEIS, Firenze, La Casa Usher, 1984; S. DE MATTEIS-M. LOMBARDI-M. SOMARE (a cura di), Follie del varietà: vicende, memorie, personaggi, 1890-1970, Milano, Feltrinelli, 1980; P. SOMMAIOLO, Il cafe-chantant: artisti e ribalte nella Napoli belle époque, Napoli, Tempolungo, 1998; V. PALIOTTI, Il Salone Margherita, Napoli, Altrastampa, 2001. Notizie sono desumibili anche da E. DE MURA, Rnciclopedia della canzone napoletana, 3 voll., Napoli, Il Torchio, 1968. Di taglio aneddotico-memorialistico alcuni contributi su protagonisti e problemi della scena napoletana: N. MASIELLO, Tempo di Maggio. Teatro popolare del ’900 a Napoli, Napoli, Pironti, 1995; L. BASILE-D. MOREA, Storie pubbliche e private delle famiglie teatrali napoletane, Napoli, X-Press Torre, 1996; G. MARINELLI, Luisa Conte: vita d’attrice, Napoli, Marotta, 1988; EAD., Dal Trianon al Sannazaro. Luisa Conte con il teatro nell’anima, Napoli, Gallina, 1996; EAD., Tina Pica, Napoli, Gallina, 1999; L. LAMBERTINI, Sono nata a Procida. Memoria impossibile di Concetta Barra, Napoli, Colonnese, 2001. 21
«Risorgimento», n. 254, 23 ottobre 1947. in collaborazione con
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Si tratta certo degli effetti di lunga durata di una catastrofe epocale come la guerra, ma è evidente che il tracollo di una sala di frontiera quale è da sempre il Trianon rappresenti l‟elemento tangibile del tramonto di una “dialettalità” dello spettacolo di cui da più parti si denuncia la morte o l‟auspicata dissolvenza in un rinnovato contesto italiano. Eppure, Napoli continua ad essere per molti versi luogo di segnali creativi contraddittori e fucina di esperienze interessanti tanto sul piano strettamente drammaturgico quanto sul versante delle presenze attoriali. Basterebbe pensare alla lunga stagione eduardiana, con l‟opportuna, laboriosa riqualificazione di un‟originaria impostazione compositiva comico-familiare nelle spire delle aporie contemporanee. Un‟operazione non lineare, filtrata dalla costante mediazione con un patrimonio umano di teatralità, sorretta dal confronto con altre scritture e, soprattutto, tale da costituire un inevitabile punto di riferimento proprio per la discontinuità dei risultati, la contraddittorietà delle tensioni e l‟irredenta anomalia di una “trinità” vissuta con una lucidità inquietante. Con Eduardo trovano la loro definitiva consacrazione gli epigoni dell‟età aurea primonovecentesca, e attraverso lui arrivano a generazioni successive gli stilemi di una recitazione indigena e sfuggente. Una ricaduta d‟obbligo sul piano del linguaggio attorico non corrisponde ad una ripresa dei suoi moduli “letterari”, ché anzi la nuova drammaturgia napoletana – pur nella molteplicità delle posizioni – persegue itinerari segnati da oltranze narrative e fantastiche entro cui affiorano i fantasmi e le lacerazione di un‟umanità smarrita e sofferente. È il mondo di Pistilli, Patroni Griffi, Santanelli, Silvestri, Ruccello, Moscato, Cappuccio (per citarne solo 22 alcuni) , impegnati talora anche a restituire altri sensi e altre prospettive alla difficile identità di autore-attore. È il momento in cui il concetto stesso di tradizione si trasforma in figura altamente problematica della vita culturale della metropoli, croce e delizia di un‟ansia di rinnovamento e di un‟apertura ai segnali di ricerca internazionale chiamate fatalmente a misurarsi con il giogo soave della mitologia della città-teatro. Sotto il Vesuvio sperimentazione e avanguardia si tingono della più radicale e intransigente reazione agli stereotipi imperanti (con Leo De Berardinis, il 23 Teatro Esse, Gennaro Vitiello, la compagnia “Alfred Jarry” dei Santella – questi ultimi protagonisti di una trasferta al Trianon con una provocatoria ripresa de La monaca fauza di Trinchera) o guardano a modelli lontani, a innovazioni tecnico-poetiche di respiro europei che tuttavia non disdegnano le suggestioni di “antiche” visioni della scena (in tal senso è significativa la carriera di un artista come Mario Martone, da Ritorno ad Alphaville del 1986 allo stupendo I dieci 24 comandamenti di Viviani del 2000) .
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Sulla nuova drammaturgia napoletana cfr. almeno G. PISTILLI, L’arbitro, Torino, Einaudi, 1961; A. BENTOGLIO (a cura di), Giuseppe Patroni Griffi e il suo teatro. Settimana del teatro, 5-9 maggio 1997, Roma, Bulzoni, 1998); G. PATRONI GRIFFI, Tutto il teatro, a cura di P. BOSISIO, Milano, Mondadori 1999; F. SILVESTRI, Teatro, Roma, Gremese, 2000; A. RUCCELLO, Teatro, a cura di L. LIBERO, Napoli, Guida, 1993; E. MOSCATO, L’angelico bestiario, Mlano, Ubulibri, 1991; R. CAPPUCCIO, Edipo a Colono, Torino, Einaudi, 2001 (dello stesso autore sono stati pubblicati Shakespea Re di Napoli – quest‟ultimo anche Torino, Einaudi, 2002 -, Desideri mortali e Il sorriso di San Giovanni per i tipi di Roma, Gremese, tra il 1997 e il 1998). Per un inquadramento storico si vedano, tra i vari interventi, V. MONACO, La contaminazione teatrale cit.; L. LIBERO (a cura di), Dopo Eduardo. Nuova drammaturgia a Napoli, Napoli, Guida, 1988 (nell‟antologia compaiono Bellavita Carolina di M. Santanelli, Ferdinando di A. Ruccello, Pièce noir di E. Moscato); S. STEFANELLI, La nuova drammaturgia a Napoli, in «Ariel», 9, III, 3, Settembre-Dicembre 1988, pp. 121-126; Dossier Eduardo De Filippo e la sua eredità, in «Lettere dall‟Italia», Istituto dell‟Enciclopedia Italiana, V, 19, Luglio-Settembre 1990; Il segno della voce, Catalogo (a cura di F. C. GRECO) della mostra Attori e teatro a Napoli negli anni Ottanta, a cura di G. BAFFI-N. FANO, Napoli, Teatro Mercadante, Dicembre 1989Gennaio 1990, Napoli, Electa, 1989; A. BARSOTTI, Eduardo punto e a capo? A proposito della nuova drammaturgia napoletana, in «Il Castello di Elsinore», IX, 1995, n. 24, pp. 43-59; T. MEGALE, Annibale Ruccello. Antropologia e memoria, in «Drammaturgia», 4, 1997, pp. 93-103; E. FIORE, Mar del teatro: uno sguardo mediterraneo su vent'anni di spettacoli, Napoli, Pironti, 1999; A. PIZZO, Tradizione, tradimento, traduzione. Percorsi della nuova drammaturgia napoletana, in «Il Castello di Elsinore», XIV, 2001, n. 41, pp. 67-97 ed E. FIORE, Il rito, l’esilio, la peste. Percorsi nel nuovo teatro napoletano: Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato, Milano, Ubulibri, 2002. 23
Su Leo De Berardinis cfr. G. MANZELLA, La bellezza amara. Il teatro di Leo De Berardinis, Parma, Pratiche, 1993; le esperienze napoletane degli anni Sessanta e Settanta – per le quali cfr. sempre V. MONACO, La contaminazione teatrale cit. - sono state rievocate in Napoli frontale: documenti, immagini e suoni sul Sessantotto a Napoli. Teatro, arti visive e letteratura. Catalogo della mostra, Complesso monumentale di S. Maria La Nova, 10-25 giugno 1998, Napoli, 1998. Si veda anche E. MASSARESE, Dentro o fuori?, Napoli, Pironti, 1994. 24
Sugli esordi di Martone cfr. A. SAPIENZA, La tecnologia nella sperimentazione teatrale italiana degli anni Ottanta. Tre esempi, Napoli, Istituto Universitario Orientale, 1992, pp. 91-115. L‟attività successiva è documentata dalla pubblicazione di testi e sceneggiature. Sullo spettacolo I dieci comandamenti (prima rappresentazione, Roma, Teatro Argentina, 9 dicembre 2000) si vedano F. TAVIANI, L’inadeguato napoletano, in M. ANDRIA (a cura di), Viviani cit., pp. 33-43 e F. ANGELINI, L’ultimo Viviani e I dieci comandamenti, in ivi, pp. 161-166. in collaborazione con
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Ma forse è la parabola creativa di Roberto De Simone l‟esperienza più scottante degli ultimi decenni di spettacolo : gli interessi antropologici, la formazione musicale, la passione militante per una dimensione storica del rappresentare a Napoli individuano un profilo professionale in cui la tradizione è sottratta ad ogni rischio di museificazione per divenire strumento di lettura del presente, intelligenza e distanziamento dal reale, assimilazione e rifiuto dell‟idea di una qualsiasi continuità fra vita e palcoscenico. La Gatta Cenerentola (1976), L’Opera Buffa del Giovedì Santo (1981), le regie melodrammatiche (Pergolesi, i fratelli Ricci, Tritto, Donizetti), le messinscene vivianesche e tante altre testimonianze di straordinaria scrittura emotiva costituiscono l‟ultima incarnazione del fascino e della necessità di quel “gelo” in cui 26 Eduardo ha mirabilmente riassunto le energie paradossali e le sommesse aspirazioni del suo antico fare teatro . Tutto questo non appartiene agli ultimi decenni del Trianon. Vicende di famiglie e di mestiere, questioni di genere e di repertori, conquista di platee socialmente più vaste, meccanismi di ruoli e parti in ambito dialettale, transcodificazioni di forme drammatiche, routine e segreti di un‟inveterata prassi artistica e organizzativa, educazione attorica e potenzialità comunicative interessano le fasi del suo massimo fulgore; altro è quel che accade (o meglio non accade) dopo. Il futuro della sala – se ancora valgono le ragioni tenaci della memoria – può solo nascere dalla consapevolezza di una splendida anomalia, riprendere il discorso dall‟umile sagacia di un teatro da sempre in cerca di se stesso. Francesco Cotticelli è docente di Discipline dello Spettacolo della facoltà di Lettere della Seconda università degli studi di Napoli. Questo articolo è stato pubblicato in «Ariel», a. XIII, n. 2, 2003, pp. 87-102, per gentile concessione dell‟autore. Proprietà riservata.
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Su Roberto De Simone, a parte le sue numerose pubblicazioni e i testi pubblicati presso Torino, Einaudi, si vedano Roberto De Simone, Roma, Curcio, 1980; Roberto De Simone: conservatorio delle passioni, a cura di F. C. GRECO, in «Drammaturgia», 4, 1997, pp. 76-92. 26
Il riferimento è al discorso pronunciato da Eduardo in occasione del conferimento del Premio Taormina Arte «Una vita per il Teatro» il 15 settembre 1984. Cfr. anche F. C. GRECO, Eduardo 2000, in ID.-T. FIORINO (a cura di), Eduardo 2000 cit., pp. 25-40 (in particolare pp. 35-40). in collaborazione con
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