Arcore ravanel

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ARCORE “ul Ravanèl” note e curiosità relative alla località

in una breve storia del parco comunale e dei

“mort lungh”


Premessa Quella costruzione che per gli arcoresi DOC va sotto il nome di Ravanèl, oggi totalmente restaurata e destinata a sede della sezione arcorese dell’ANA (Associazione Nazionale Alpini), fu realizzata, sulla fine dell’800 nell’ambito dell’allargamento della proprietà e della ristrutturazione definitiva della villa d’Adda quando, acquisite alcune proprietà confinanti, il parco aumentò da 5 a 30 ettari. Nella definitiva totale recinzione della proprietà, al tempo, fu incorporato un antico altarino a lato nord e costruita una vera e propria cappelletta a lato ovest, in prossimità del Ravanèl; il primo con una modesta nicchia contenente una statuetta della Vergine Maria, oggi sparita, crollata o demolita col muro che delimitava l’angolo NW della proprietà; la seconda, dedicata alla memoria di tutti i morti delle tante pestilenze (1348-1630), restaurata negli anni ottanta da un privato, con semicupola e una bella croce.


La formazione del Parco D’Adda e il Ravanèl

M. Rosa, autore di una succinta “storia” dei d’Adda e della loro villa in quel di Arcore, dice a questo proposito [L’epoca è quella del marchese Emanuele (1859-1911)] : «[…] Coi lavori di restauro della villa procedettero e proseguirono altre opere di abbellimento del giardino e di ampliamento del parco. Il marchese fece acquisto di nuovi appezzamenti di terreno attigui alla sua 2 proprietà, in maggior parte, circa 300 pertiche, (pari a 196.355 m , cioè 19,6 ettari) dei nobili fratelli Valerio; cosicché giardino e parco, dalla complessiva misura di circa 5 ettari, raggiunsero quella ben maggiore di 30 ettari. E tutta questa vasta estensione venne cintata, circondata da strade periferiche all’esterno, attraversata internamente da viali; e si aperse un’altra uscita con casina di portineria [appunto il Ravanèl] per maggiore comodità di comunicazione coi paesi vicini …».


[Nota: attenzione! la faccenda è poco chiara: il Rosa scrive essere di 5 ettari la proprietà dopo la riunione, ma non tornano i conti in quanto, poco dopo dice che la superficie dell’annessione di quanto era dell’Abate, 2 da sola, era di 145,21 pertiche pari a m 95.042 circa cioè, 9,5 ettari, che dovevano sommarsi a quanto era originariamente del marchese Febo. Fatte le logiche differenze col totale di 30 ettari sembrerebbe che 2 questa fosse meno di un ettaro cioè m 8603, e la proprietà, dopo la riunione, poco più di 10 ettari.]

Le illustrazioni, stralciate dal libro del Rosa, rappresentano il territorio della villa e del parco: la prima riguarda la proprietà come risulta dopo la riunione delle due sezioni appartenute al marchese Febo e all’abate Ferdinando; la seconda dopo l’integrazione del territorio con gli acquisti dalla proprietà Valerio e l’integrazione dei terreni contenenti il laghetto superiore fatti dal marchese Emanuele. Dimensioni: la lunghezza nord-sud, dall’apice della cinta sulla curva per “La Fornace” fino alla recinzione di Largo Vela, misura poco meno di un chilometro (935 m); la larghezza est-ovest, misurata da un antico accesso al colmo della Via privata dei Ronchetti (accesso chiuso con un muretto e delimitato da un vallo interno al tempo della diatriba fra il marchese Emanuele e il fattore-geometra Arienti che con la sua costruzione a cavallo dello scosceso dei Ronchi, in pratica ostruiva la vista sull’infinito che doveva godersi dall’abitazione del marchese), fino alla portineria ovest (ul Ravanèl), è poco più di mezzo chilometro (530 m).

Ricorriamo ancora al Rosa per dare uno sguardo alla storia della formazione del “Giardin” Nota: Giardìn (o Giardinasc, a motivo della dimensione), così era chiamato dagli arcoresi del tempo, il parco di Cà d’Ada, ora parco comunale: viali in ghiaietto con cunette laterali in arriccio di ciottoli (sassi borlandi), bordi decorati da quell’erba sempreverde ritenuta l’erba di sciuri; un bel ponticello in ceppo, ora crollato, gettato sopra uno dei rami del rio dei Morti; piantumazione curata; siepi e prati tenuti a regole d’arte; sottobosco pulito; due serre e fiori ovunque; inoltre uno stuolo di giardinieri, manovali e contadini, angariati da contratti per i quali erano tenuti a dare un certo numero di prestazioni gratuite a discrezione del fattore.


Certo che confrontato col presente più che un Giardìn oggi sembra una rüera. Rüera intesa sia come ammasso di rovi [rüé], sia come scarico di immondizie [reù]: viali dissestati, ramaglie abbandonate, tronchi in disfacimento, canneti abbattuti, sfalci lasciati a marcire, ecc., basta girare e osservare.

Ecco lo stralcio dal racconto: «Abbiamo detto che sulla fine del ‘700 la proprietà d’Adda di Arcore era divisa tra i due cugini: l’abate Ferdinando e il marchese Febo. Questi possedeva la parte più vicina alla strada: un vasto palazzo col giardino retrostante steso in dolce pendio. Quivi, durante la stagione estiva e autunnale soleva recarsi con la numerosa famiglia a riposarsi dalle gravi cure cittadine e a respirare quell’aria balsamica e salubre.

Il palazzo e il giardino dell’abate stavan sopra l’amenissimo colle, che si chiamava e si chiama tutt’ora “La Montagnola”. Egli – col medesimo testamento del 21 aprile 1808, con cui disponeva della sua sostanza per la fondazione della già ricordata Causa Pia – lasciava al cugino Febo d’Adda (1772-1836) la facoltà, eseguibile entro un anno dalla sua morte, di comperare la detta “Montagnola” co’ suoi terreni, per quel prezzo che verrebbe determinato dal perito che fosse da lui eletto. Infatti, con istrumento del 23 giugno 1809, il marchese Febo acquistava la Montagnola col terreno attiguo, nella misura di pertiche milanesi 2 145,21 (circa 95.000 m , quindi 9,5 ettari). Veniva così a riunire nelle sue mani le due distinte proprietà di Arcore, che divennero una sola. Erede di essa lasciò il figlio Giovanni (1808-1859 erede nel 1836), il secondogenito dei maschi sopravissutogli, chè ben sei de’ quindici suoi figli l’avevan preceduto nella tomba.


[…] Giovanni, incline per indole alla vita campestre, non tardò a vagheggiare il pensiero di dare nuova forma alla già deliziosa sua villeggiatura, e di formarsi una residenza degna del suo nome. Unito da calda amicizia con l’architetto Balzaretti […] gli comunicò il suo desiderio, i suoi progetti, e gliene affidò l’esecuzione, lasciandogli piena facoltà di fare e trasformare a suo talento senza nessuna restrizione. Il Balzaretti incominciò ad occuparsi del giardino, anzi dei due giardini, dell’abate e del marchese Febo, ancora distinti e separati da siepe e da una specie di avvallamento. Egli con scavi e col trasporto di ben 3 160 mila m di terra, li riunì in uno solo; e con un lavoro di ben cinque anni (1840-45) […] formò un magnifico giardino […]. [nota e commento: dove fosse fisicamente questo avvallamento da colmare è un mistero non ancora risolto nonostante l’indagine sopra la mappa catastale del 1722 che, purtroppo, mancando di curve di livello non consente approfondimenti tali da risolvere il quesito. Nemmeno la planimetria datata 1808 dà maggiori indicazioni in quanto non risulta disegnato alcun avvallamento, tanto da ritenere che la data segnata sia errata. Se potessimo credere accettabili le note riferite alle dimensioni delle due proprietà si potrebbe ipotizzare la collocazione della villa dell’Abate al colmo di una scarpata degradante che arrivava fino a una ventina di metri dall’impianto del palazzo del marchese Febo e ivi fosse collocato l’intaglio che divideva le due proprietà. Quindi i 160.000 metri cubi di terreno servirono, probabilmente, a raccordare i 16 metri di dislivello dal colmo della Montagnola al piano costruendo il “dolce pendio” che conduce alla villa attuale.

Erede delle sostanze (1859) fu il figlio Emanuele (1847-1911) […]. L’ingrandimento di terreno richiese a sua volta altri lavori di riordino, altre costruzioni. Anzitutto una nuova scuderia. L’antica veniva a trovarsi troppo vicina ai recenti locali d’abitazione; e d’altra parte, capace soltanto di dodici posteggi di cavalli, era diventata ormai insufficiente. Era l’epoca in cui il re Umberto e la regina Margherita trascorrevano volentieri diversi mesi all’anno nella superba villa di Monza; e d’autunno specialmente vi tenevano, una o due volte alla settimana, inviti e riunioni della principale nobiltà dei dintorni. Spesso, dopo tali convegni, il marchese d’Adda invitava parenti ed amici a pranzo nella sua non lontana villeggiatura di Arcore. Vi si recavano coi loro equipaggi, e occorreva quindi una scuderia più ampia. In un anno (1894-95) si demolì l’antica e se ne costruì una nuova capace di venti cavalli. (Nota: rammentiamo che il materiale della demolizione servì, parzialmente, per la costruzione della cascina San Giovanni, come risulta chiaramente dalla relazione Arienti datata 1911.)


Si costruirono inoltre due serre, invece dell’unica preesistente. Fuori dalla cinta del parco v’era un grande serbatoio d’acqua, fatto scavare dal marchese Febo d’Adda in un anno di malattie infettive per fornire ghiaccio alla popolazione. Questo laghetto, fuori del recinto, incustodito, non mancava di procurare qualche inconveniente. Il marchese pensò, con un nuovo ingrandimento del parco, di incorporarlo in questo (1900), pur continuando a permetterne l’uso per i bisogni del paese. […] Alla morte del marchese Emanuele (19 ottobre 1911) la proprietà d’Adda passò al conte Febo Borromeo, Senatore del Regno, già stretto da vincoli di parentela con la famiglia d’Adda […]».

E questa è la conclusione: la proprietà, nel 1945 passò al figlio di Febo Borromeo, Emanuele, poi da questi, nel 1980, al Comune di Arcore. Collocazione Geografica

Posizione del parco rispetto al territorio del paese


Fasi della costituzione

Non è il caso di tracciare l’intera genealogia dei D’Adda. Per questa vi sono il testo ufficiale della “Storia di Arcore” ed esaurienti siti su internet, però è opportuno sapere che la presenza dei D’Adda sul suolo arcorese è antichissima, probabilmente risale alle prime congregazioni di Umiliati che si insediarono sul nostro territorio fra il 1200 e il 1300, coi quali intrattenevano rapporti di forniture e commercio. In un decreto di esenzione dai carichi fiscali emesso da Francesco Sforza il 22 dicembre 1421 in quel di Lodi, quale compenso per l’aiuto nella conquista del ducato di Milano, tra gli altri beneficiati dall’esenzione, compare anche un Antonio D’Adda che riceve il beneficio per sé e per i suoi massari del territorio di Bernate. Nello Stato d’Anime del 1588 una notevole parte del paese risulta di proprietà della vedova di Costanzo D’Adda mentre l’intero territorio di Bernate è proprietà di Teodoro D’Adda. Le sezioni 1 e 2 costituivano un’unica proprietà in origine appartenuta a Pagano senior, divisa poi tra i figli Pagano Junior e Costanzo dai quali poi l’abate D’Adda e il marchese Febo.


L’inserimento del parco nel paesaggio

Le coste ovest dei terrazzamenti mindeliani (segnate in color viola) incise dal displuvio, fanno confluire le precipitazioni verso un punto di raccolta e scarico noto come Valle e Rio dei Morti. La relativamente profonda valle a lato nord-est del Ravanèl, naturale proseguimento di quella a nord, che fa da collettore all’incisione superiore, è stata canalizzata e chiusa da due riporti di terreno per consentire, a lato nord il proseguo della strada delle Spazzate, e poco più sotto il transito per la nuova portineria, appunto il Ravanèl. Anche all’esterno della recinzione del parco, proprio in prossimità del rialzo sul quale sorge il fabbricato, esisteva un tratto della strada delle Spazzate con alla base un canale di sfogo, costruita con riporto di materiali, che aggirava la costa, e, in salita, conduceva all’ingresso. La strada non c’è più, è franata e non è più stata ricostruita: la mancanza di manutenzione e la spinta dell’acqua dei forti piovaschi ha aperto una breccia ricuperando il tracciato originario prima del riporto a copertura del tratto. Ora un piccolo sentiero seguendo la mura di cinta raggiunge il fondo dove un ponticello permette di passare il filo di roggia senza bagnarsi i piedi (naturalmente in regime di pioggia normale, perché i forti piovaschi arrivano a riempire tutte le vallette non essendo dimensionati gli scarichi), il sentiero prosegue poi per una ripida scaletta che sfocia sul piazzaletto antistante lo Chalet.


Le due foto risalgono agli anni cinquanta. La prima: Il tavolo e le panchine, sotto l’ombra dei pini invogliava a una sosta per riprendere il fiato dopo la breve salita scambiando anche quattro chiacchiere con i residenti. La seconda, presa dal colmo della collina che domina la pianura, oggi invaso da una grande villa, mostra sulla destra la vecchia strada in salita verso il piano della portineria. .

“ul Ravanèl” LA COLLOCAZIONE RISPETTO AL PARCO

L’immagine è stralciata dall’aerofotogrammetria del territorio Arcorese ordinata dal Comune e realizzata nel 1993.


Le due foto riguardano lo scarico, con la griglia basculante, dell’incisione delle due vallette alle spalle del Ravanél. Tra l’una e l’altra vi è un intervallo di sei anni. Nella prima si vede chiaramente la canalizzazione che passa sotto il terreno a suo tempo riportato per colmare la valle e consentire l’accesso alla portineria ovest. La seconda mostra il passaggio d’acqua in regime di piccole piogge.

L’acqua si è aperta un varco facendo franare la vecchia Strada delle Spazzate, ora, dai “Mort Lungh”, si arriva al Ravanèl per il sentiero costruito dagli Alpini.


La salita al Ravanèl, dopo i “Mort Lungh”, come era negli anni cinquanta e come appare oggi.

Tornando al “Ravanel”, il perché del nome ha una spiegazione semplice: a far da portinaio, ma era anche giardiniere, fu chiamato Costante Ravanelli, originario di Robbiate, che vi si installò con la sua famiglia, da qui l’origine del nome. Così almeno risulta dallo “Stato d’Anime del 1882-1897” nel quale si legge che le famiglie Ravanelli ad Arcore in quell’epoca erano due. Ad abitare la portineria era la famiglia di Costante, sposato con Virginia Valtolina, anch’essa di Robbiate e all’epoca avevano quattro figli. La famiglia, poi, coinvolta nelle disavventure di una delle figlie, dovette lasciare la portineria, e il luogo fu affidato ad altri custodi-giardinieri: i Cereda. Più tardi, verso gli anni cinquanta, subentrò un’altra famiglia imparentata con uno dei camerieri della villa Cazzola, i De Giuseppe. Quattro righe sul cognome Ravanelli, tratte dal “Dizionario storico ed etimologico” della Utet: «Ravanèlli, Ravanello. Ha alla base un alterato di Rava, nel senso di ‘rapa’, con –ano e con –ello o è alterato di Ravano (v. Ràvani) con il suffisso –ello, da cui anche la voce del lessico ravanello, richiama tale fitonimo nelle varianti settentrionali ravanèl e ravanin ‘ravanello’ (ravanèl ‘ramolaccio’ nel dialetto trentino) come base per soprannomi attribuiti a persone che coltivavano o prediligevano tali ortaggi. Il cognome è documentato attraverso Ser Gio. Antonio Ravanello a Brugnera-Pn nel 1494 e un Paolo Ravanello bresciano nel 1497. L’odierno cognome Ravanelli si riscontra ad Albiano-Tn e Trento, a Milano e a Sulbiate-Mb, nel Bergamasco e a Bologna e provincia, per oltre 1500 presenze. Ravanello è veneto, a Venezia e nel Trevigiano.» Qualche famiglia con questo cognome è ancora presente in paese, non sappiamo se discendente dagli originali provenienti da Robbiate.


Segue ora un breve racconto su uno dei personaggi che caratterizzarono l’Arcore popolare fino agli anni settanta del secolo scorso. La Ravanela Dal sepolcro dei ricordi affiora ancora la figura di quella vecchina che con ogni tempo, dall’alto della soffitta dove abitava in “Curt del Cirenea”, arrancando sulle stanche gambe e con la schiena curva, andava per la strada dei boschi, raccogliendo man mano sterpi e ramaglie nella giornaliera fascina, verso il “Ravanèl”: la casa che l’aveva vista giovane, piena di entusiasmo e di vita affrontare le vicende quotidiane dell’esistere. La casa situata a lato NW della proprietà d’Adda, ora Parco comunale, era stata costruita dopo che il marchese Emanuele, concludendo l’ampliamento della proprietà, nell’ultima decade dell’’800, l’aveva provveduta di un’altra uscita con casina di portineria per maggiore comodità di comunicazione coi paesi vicini. Il Ravanelli, originario di Robbiate, fu chiamato ad abitarla, in qualità di portinaio e giardiniere, con l’intera famiglia. Ogni giorno Virginia passava e guardava nostalgica la curiosa architettura, il tetto di lastre di ardesia, il grande camino che intravedeva dalla porta semiaperta, i vetri dell’abbaino offesi con la schermatura della carta bucherellata dei bachi, il tavolo e i sedili di pietra posti all’ombra degli alti pini sul margine dello scosceso e sentimenti di dolore ne velavano poi la stanca voce quando inginocchiata davanti al piccolo tabernacolo della cappellina, ricavata nello spessore del muro di recinzione, ne adornava di fiori campestri cercando il respiro della Vergine nella sua preghiera. Le disavventure amorose di Emma avevano generato il licenziamento del padre, portinaio e giardiniere e l’allontanamento dell’intera famiglia. Emma era di bell’aspetto già da bambina e la marchesa, per elevare almeno in parte il tono estetico della corte di cui si circondava, la invitava spesso a palazzo ritenendo che gioventù e bellezza potessero essere contagiose. Crescendo in età ebbe una disavventura che le causò una momentanea lussazione, peraltro perfettamente guarita, dalla quale, i medici che avevano in cura non so quale “contino” con un accidente simile, cercavano di trarre insegnamenti studiando de visu il corpo dell’Emma fatta camminare nuda sul prato (almeno così riferiva lei in uno dei suoi racconti). La partecipazione alle “serate” aveva sicuramente svelato alla giovane l’esistenza di mondi molto diversi da quello al quale apparteneva e qualche approccio di “giovin signore” gli aveva fatto intravedere ambizioni di vita superiori. Qui la faccenda diventa un po’ nebbiosa. Emma si fidanza con Bestetti poi un vuoto che il racconto non colma, al quale segue la rottura del fidanzamento, la caduta in disgrazia della giovane e l’allontanamento della famiglia dal servizio della Casa. La bellezza prorompente della giovane probabilmente insidiata e allettata dalle lusinghe della gioventù che frequentava ne determina una scelta di vita da accompagnatrice di alto bordo: si raccontava dei suoi rientri da Milano con taxi quando ad Arcore si sapeva a malapena cosa fossero le automobili. Poi il tempo passò, la maturità, il ritiro in Corte Vecchiatti, i primi sintomi della decadenza e la vecchiaia. La solitudine nell’inverno le diventava insopportabile: bussava alla porta delle case cercando compagnia e i lunghi racconti delle serate mondane dei ricevimenti della marchesa coloravano le noiose serate invernali delle famiglie del cortile. Il facile eloquio accendeva la fantasia di noi ragazzini su modi di vita che non si sarebbero mai immaginati. Tra le innumerevoli storie venivano alla luce nomi di nobili e dame citati con disinvoltura e mischiati con quelli di pseudo buffoni presi tra i rustici del paese introdotti a divertire la “corte”: l’avventura di “Lacio buito”, un ragazzino ritenuto un “semplice”, sorpreso con la bocca piena di torta e costretto a parlare in mezzo ai convitati, nell’italianizzazione del gergo dialettale, era uno degli esempi più volte citati.


Bionda, ritta, altera, drappeggiata in lunghi colorati scialli di lana, la mano sul fianco, senza pose forzate aveva il naturale incedere di una regina; l’occhio vagamente languido, ammiccante dal leggero strabismo, le labbra atteggiate al sorriso represso, la voce profonda con toni aspirati, il volto appena sfumato da un velo di cipria e un profumo intenso di donna che ne permeava l’intera figura. Di se stessa diceva di essere l’epigone delle grandi amanti ottocentesche. Raccontava la Emma l’episodio di un giovane che abitava sul suo stesso pianerottolo col quale intratteneva un’amicizia che era scivolata pian piano in qualche cosa di più intimo (il tempo ha cancellato nella mia memoria l’identità di costui). Quando ne parlava il ricordo la esaltava leggermente e gli faceva brillare lo sguardo; il sugo del racconto si condensava poi in poche battute. Il giovane, a un certo punto, aveva lasciato l’appartamento ed era sparito del tutto dall’entourage della Emma. Nel proseguo del tempo, una sera, rientrando, sulle scale che portano al pianerottolo dell’abitazione, Emma incontra un frate che sta scendendo il quale, spiando di sottecchi, con la manica della tonaca cerca di nascondersi il viso; Emma ha un moto di trasalimento, cerca di ritirarsi contro il muro e lasciare il corrimano al frate ma inciampa nella sporgenza del gradino, il frate allunga il braccio e la sostiene, i visi sono quasi a contatto, si incontrano, Emma fissa negli occhi il frate e riconoscendolo lo chiama per nome: era il giovane coinquilino col quale aveva trascorso e condiviso una stagione della propria vita. Rimessa in equilibrio la donna il frate fuggì precipitosamente scendendo le scale a lunghi balzi. Quando aveva qualche necessità di piccoli servizi che ricompensava sempre con modeste mance, si affacciava alla finestra delle scale, scrutava nel cortile e il suo magnetismo non tardava ad attirare lo sguardo di qualche ragazzo intento al gioco: un sorriso, un cenno, un silenzioso invito a salire. Consumava Chianti che mandava a comperare alla Fiaschetteria di Bestetti (Bestetti, in bicicletta, con un lungo borsone a tracolla, faceva la spola dalla bottega a una specie di deposito al quadrivio di via Abate D’Adda. All’ingresso del negozio una enorme botte faceva più da decorazione che da contenitore, deposti sul pavimento decine di fiaschi coperti da un modestissimo sigillo di carta rossa o verde. Bell’uomo, aspetto del “tombeur de femmes”, faceva consegne anche a domicilio, è difficile dire se al servizio consegne integrasse anche altro.) I suoi trascorsi di fidanzata di Bestetti (era stato podestà ai tempi del Fascio e sindaco dopo la guerra) le vennero in aiuto quando in là con gli anni e con poche risorse finanziarie, nell’inverno andava negli uffici del Comune, si sedeva, e aspettava cosciente che qualcuno si sarebbe mosso per sentirla: “…qui fa caldo, a casa mia fa freddo…”. A breve termine arrivava in cortile il rifornimento del combustibile che, a spese della comunità, manovali del Comune recapitavano nel suo appartamento.


AI MORT LUNGH In pratica questa è la continuazione del racconto precedente che cominciamo con la visione del percorso della roggia, alla quale abbiamo già accennato, che porta il nome che caratterizza il luogo nel quale per secoli furono inumati i morti delle ricorrenti epidemie pestali. La mappa riprodotta è del 1897. Oggi la roggia non è più visibile, a partire dall’incrocio con Via Monte Bianco, è stata intubata e seppellita, Ci si accorge della sua esistenza solo in tempi di piogge eccezionali quando esonda dal primo tratto proveniente dalla collina e dopo aver colmato i terreni ai lati di Via Gran Sasso, invade la strada per Peregallo e sfocia nel prato a lato della antica ‘strada del Vignone’, oggi via senza nome, prima di disperdersi per le campagne verso il Lambro.

La cappellina che contraddistingue oggi la località “ai Mort lungh”, come è stato detto, è inserita nella recinzione del parco comunale. Ma andiamo con ordine. Quello che segue è un modesto racconto compilato e distribuito una ventina di anni fa, su richiesta di don Luigi Gaiani, al tempo Parroco di Sant’Eustorgio, in occasione di una di quelle processioni “ai Mort Lungh” ad invocare la pioggia, per dare ai partecipanti una testimonianza sul senso di continuità e legame nella tradizione e nella fede. Senza nulla cambiare, correggere o aggiungere, è quello che segue.



INTRODUZIONE

Nella mente di chi ha vissuto altre realtà arcoresi rimane sempre presente quella Croce piantata sul limitare destro del fosso all'imbocco della strada per la "Palazzina" (il luogo dove trovarono sepoltura gli appestati delle varie epidemie che "un paio di volte per secolo provvedevano a riduzioni drastiche delle popolazioni"), a ricordo dei "Morti del Contagio", che proprietari ed amministratori improvvidi non ritennero di salvaguardare nemmeno in altro luogo. Fu rimossa una "memoria" e un'altra testimonianza della scarna storia locale venne cancellata . La piccola cappella - più a nord, eretta al culto di questi morti dalla pietà popolare (in un primo tempo isolata, poi integrata nella recinzione della proprietà D'Adda nel 1840-1845, dopo le nuove acquisizioni del 1809 e la ridisegnazione dei giardini fatta dal Balzaretti), meta di umili preghiere nascoste, di dolorose confidenze sussurrate ai propri antenati e di innumerevoli, fervide processioni ad invocare aiuto e protezione alla speranza del raccolto - più volte riparata e qualche tempo fa, da privati, restaurata, è sottoposta in questi giorni ad intervento di pulitura al quale seguirà la dipintura di una appropriata decorazione a valorizzarne il significato ed a stimolare riflessioni sulle mete ultime dell'umano divenire.


IL LUOGO Inquadramento fisiografico La zona nota come “ai mort lungh” occupa il margine pedecollinare dei bassi rilievi che, sconvolti e ricomposti nelle glaciazioni del quaternario, delimitano il piano sudovest del territorio arcorese fino ai confini con Lesmo, il Lambro e Villasanta. La fine della glaciazione lasciò terreni sassosi misti di argille e ferretti, residui del primitivo “diluvium” (pleistocene) evolutisi nel tempo in brughiere (muschi, felci, erica, brugo, ginepro, ecc.), poi in foreste di olmi, querce e conifere di pianura, solcate da rogge e fossi incanalanti il displuvio collinare verso il Lambro e la Molgorana. Sentieri, generati dal calpestio della fauna, formavano le tracce sulle quali i primi gruppi umani al seguito della selvaggina percorrevano il territorio.


EVOLUZIONE STORICA L’avvento di nuove tecnologie trasmesse dall’incontro con gruppi umani più evoluti consentì il passaggio, da una economia di solo caccia e raccolta, all’allevamento e all’agricoltura. Gli stanziamenti fissi e il lavoro generarono il concetto di proprietà, di clan, di tribù e di popolo. Si succedettero Liguri, Etruschi, Celti e Romani. Le foreste, già parzialmente abbattute per farne combustibile per le fornaci di ceramica e metallurgia, furono bonificate e messe a coltura e il paesaggio, almeno nelle sue grandi linee, prese l’aspetto che conservò fino agli anni 40-50 del secolo scorso, prima della rivoluzione industriale: campi coltivati, boschi di collina, boschi di pianura lungo i corsi d’acqua e ai confini dei paesi e radi insediamenti urbani, vere e proprie isole disperse nel territorio. Le zone di pascolo e foresta restarono di proprietà comune prima dell’usurpazione di nobili e barbari che in più riprese spogliarono le comunità. Le invasioni barbariche riportarono le cose all’anno zero: i campi abbandonati inselvatichirono, la foresta riprese il sopravvento: la prevalenza di querce e la notevole disponibilità di ghiande favorirono lo sviluppo della suinicoltura nella quale già Etruschi e Celti erano stati maestri. Il normalizzarsi della situazione e le accresciute necessità alimentari riconvertirono i terreni all’agricoltura. Gruppi di monaci, riunendo i residui dispersi dell’antico popolo, ricolonizzarono il territorio. Lungo il Lambro ricominciarono a girare i molini i cui residui integravano la dieta degli allevamenti suini. I maggiori proprietari fondiari furono i conventi; i contadini erano prestatori d’opera o affittuari e proprietari di piccoli appezzamenti (nell’ordine dell’una o due pertiche); residui di foresta e pascoli erano ancora proprietà comune.


IL PAESE Dopo gli originali insediamenti dei Liguri, poco più di piccoli raggruppamenti di capanne, la penetrazione degli Etruschi, portatori di civiltà più evolute, venne trasformando la regione: canalizzazioni e strade bonificarono e resero possibile la colonizzazione dei terreni tracciando anche la prima grossolana suddivisione degli agglomerati con i territori di competenza. L’arrivo di numerose tribù di Celti (Galli) riportò il tempo parzialmente all’indietro: la cultura della caccia e dell’allevamento prevaleva sull’agricoltura. La struttura organizzativa sociale era incentrata sulle famiglie nobili attorno alle quali guerrieri, liberi artigiani, schiavi, aldi, semiliberi e clienti costituiva il villaggio. Spesso i nomi attribuiti ai luoghi, per assimilazione, ricalcavano, nella deformazione della lingua del posto, il nome dei loro luoghi di origine. La conquista romana venne a dare il carattere definitivo alle attribuzioni territoriali dei vari villaggi. Il territorio, dapprima coperto da centri fortificati col compito di presiedere ed amministrare, fu interamente diviso (centuriazione) ed assegnato a soldati, coloni, nobili e latifondisti. Attorno ai “castra” si formarono centri di aggregazione che ebbero funzioni di cellule germinali nella nascita dei paesi, mentre attorno sorgevano le ville dei padroni agricoltori.

L’avvento del cristianesimo, sullo schema della organizzazione romana divise il territorio in diocesi, le diocesi in pievi e le pievi in cappellanie, dove sacerdoti itineranti, domiciliati


nelle pievi o nella diocesi, periodicamente si recavano per i sacri riti. Piccole, modeste cappelle sorsero ex novo o per riqualificazione di precedenti are o templi pagani. Le invasioni barbariche cancellarono tutto. I paesi si spopolarono, le campagne furono abbandonate e ritornò la foresta. Nel corso dell’VIII - IX secolo gruppi di monaci vennero chiamati dai nuovi padroni, Longobardi e Franchi, mediante donazioni modali, a ricolonizzare il territorio: artigiani e contadini confluirono intorno a questi monasteri e conventi formando, sui ruderi dei precedenti, l’impianto dei nuovi paesi. Lo schema abitativo definitivo vede il villaggio costituito da corti chiuse attorno alle abitazioni dei padroni (nobili, possidenti); disperse nella campagna le frazioni, dimore di altri padroni e coloni, e i monasteri. L’architettura è misera, casupole basse, a un solo piano, nella maggior parte dei casi con tetto di paglia: costruzioni con pareti miste di legno, mattoni e sassi legati da calce. Bisogna arrivare a san Carlo Borromeo, e alla erezione delle cappellanie in parrocchie con l’obbligo di tenuta dei “Libri”, per avere una identità della popolazione. Per Arcore una idea chiara di chi fossero gli abitanti risulta dall’analisi del primo “Libro dei matrimoni” dove il nostro primo curato che si proclama “Rector de la Geisa” annotando per oltre una trentina d’anni (1566-1603) nomi di sposi, genitori e testimoni compila, indirettamente, una primitiva anche se pur incompleta anagrafe:


cognome

n. citazioni

alberto anon? anore aqu(a)Ă arosin (**) asso barano barba batistina (*) besteto bia(n)cho bona(c)zina bosan? bosia (*) b(u)osiso braman bra(m)billa briu(i)o brogoran (*) brugora (***) brusato (*) bu(o)rgo nouo cabello?(*) cacianiga Cai(j)ano caio Caiola canno? casat(e)o casolera (*) casteletto cata(g)n(i)eo cauenago cesano conegi conson contino corato corno (del) Cri(p)pa d' adda danesio (*) de la Torre de la piacia? de la vairana (***) d' ello de ponte de regib. de ello

2 2 2 15 2 1 1 4 1 3 1 4 2 1 11 16 24 22 1 2 2 2 1 11 6 2 3 2 14 1 1 3 1 2 1 7 4 2 1 4 1 2 14 3 2 1 2 1

reg. anno n. 1a reg. 38 43 48 1 28 54 17 5 92 158 38 3 163 14 53 2 12 22 101 45 96 103 164 88 1 145 87 160 7 31 98 85 150 100 123 10 29 65 140 58 91 20 22 33 37 55 85 97

1582 1582 1581 1566 1570 1582 1568 1567 1588 1599 1582 1566 1603 1568 1582 1567 1568 1580 1590 1582 1589 1590 1602 1586 1566 1598 1586 1603 1567 1571 1589 1584 1598 1590 1594 1567 1570 1583 1597 1583 1588 1569 1580 1571 1582 1582 1585 1590

cognome

d' la cupa (***) d' l' valla (***) fagnano francioso (*) franzano fumaga(l)l(o) furmento galbiato garlato gat gatto gerosa giansana gi(o)usan(o) giouenzana grasso quarda? guarischo guastalin in bregi? lison lonato maghetto (*) magiolin magion magiorengho magno maino mandello marsotto? marteleto?(*) montrasio montrasin moretta (*) moron(o) mozato naua negro nizola Nonate noua ogion patti perego pirot(t)a pirouen p.sago? ranchato

n. reg. citazioni n. 1 1 4 2 2 10 9 15 2 2 1 7 1 6 2 2 1 2 2 2 1 1 4 1 1 2 9 3 5 2 1 5 1 1 3 2 20 4 4 1 1 19 2 8 14 8 2 2

45 9 43 24 75 1 26 4 68 111 75 41 12 2 46 9 20 129 112 97 100 61 21 46 179 66 13 9 10 165 153 27 165 44 8 1 8 95 3 183 90 15 22 41 1 19 10 3

anno 1a reg. 1583 1567 1582 1569 1584 1566 1570 1568 1584 1592 1584 1582 1568 1566 1589 1567 1569 1594 1593 1590 1590 1583 1569 1593 1580 1583 1568 1571 1571 1603 1599 1570 1602 1582 1567 1566 1567 1589 1566 1590 1587 1568 1580 1582 1566 1568 1567 1566


re d' ello resegotto (*) ribold riua rola? romeo (*) rosso sala sartirana sasso (*) (**) (***)

17 1 6 4 2 1 1 32 15 2

6 160 86 62 78 140 29 2 37 58

1567 1603 1586 1583 1584 1597 1570 1566 1582 1583

sirtole spiardo spresiafigo? Taiabò valciasna vedano viganò villa zappe

1 4 2 2 8 2 5 4 2

26 6 171 126 5 7 49 86 31

1570 1567 1575 1594 1567 1567 1581 1590 1571

C'è il dubbio che sia un soprannome. C'è il dubbio che non sia arcorese. C'è il dubbio che sia un complemento di provenienza

Si tratta di 115 cognomi diversi, per un totale di 511 persone citate, che ricalcano in buona parte la toponomastica brianzola, spesso scritti con forme e sgrammaticature varie, a volte correlati del soprannome. Nella quasi totalità sono preceduti dal genitivo o dal complemento di provenienza nel loro totale assortimento grafico:" d', de, d' l', de l', del, d' la, de la, dela ". Nonostante le storpiature fatte dall'estensore (dobbiamo ricordare che spesso la trascrizione in lingua è fatta sulla pronuncia dialettale di un nome già deformato al quale si cerca di dare una forma italianizzata), per molti cognomi, la traduzione nella forma attuale è elementare e immediata, per altri l'impossibilità di soluzione dei rebus calligrafici lascia l'incertezza dell'esatta interpretazione, per altri ancora vi è il dubbio che non si tratti di cognomi ma di soprannomi o complementi di provenienza. I cognomi di sposi e testimoni costituiscono il seme attorno al quale si sono sviluppate alcune genealogie degli arcoresi di oggi. Molti sono totalmente spariti da Arcore, forse per esaurimento o per effetto delle pestilenze o di emigrazioni, altri si sono ben diffusi e costituivano, fino a pochi anni fa, la preponderanza della popolazione. Quanti fossero gli arcoresi di allora è calcolabile attraverso il numero medio dei matrimoni per anno: la stima, per la prima frazione del periodo indicato (1566-1571; ci si ferma al 1571 perché, poi, per 9 anni non si celebrarono matrimoni), che rileva una celebrazione media di 5,8 matrimoni, è presto fatta: considerando: -l’età media delle coppie attorno ai 22 anni, 255 -la sopravvivenza fino all’età matrimoniabile pari al 50% dei nati, 130 -i genitori per famiglie con una media di 4 figli, 195 -scapoli, nubili, vedove e vedovi, vecchi, 30 si ha un totale di circa 600 individui


LA PESTE Cosa è : L'agente eziologico (causante) della peste è un batterio immobile, asporigeno e gramnegativo, la Pasteurella Pestis, scoperto a Hong-Kong dal francese Yersin nel 1894 e quasi contemporaneamente dal batteriologo giapponese Kitasato è pertanto noto come "Bacillo di Yersin e Kitasato", che viene trasmesso all'uomo dalle pulci del ratto e di qualche altro roditore (Xenopsilla Cheopis, nei paesi caldi, Ceratopsyllus Fasciatus, in quelli temperati) oppure, nella forma polmonare, direttamente per contagio interumano. Clinicamente la peste può manifestarsi in tre forme: bubbonica (letale nel 30-70% dei casi) setticemica (90-95%) e polmonare (100%). La forma bubbonica inizia bruscamente, dopo un'incubazione da uno a sei giorni, con febbre elevata, cefalea, vertigini, vomito, delirio; dopo poche ore compare alle ascelle, all'inguine o al collo il caratteristico bubbone, generalmente unico, molle e dolorosissimo alla palpazione accompagnato da adenite alle linfoghiandole circostanti. La malattia evolve entro una settimana, nei casi non letali, il bubbone si riassorbe o si apre. La forma setticemica, in genere secondaria a quella bubbonica è caratterizzata da febbre poco elevata, da grave compromissione dello stato generale e da imponenti segni nervosi a cui spesso si associano emorragie cutanee, mucose o viscerali (peste nera). La peste polmonare può verificarsi primitivamente o come conseguenza della peste bubbonica, inizia improvvisamente, con la sintomatologia di una polmonite o di una brocopolmonite, dura da uno a tre giorni ed è, oltre che la più grave, anche la più contagiosa poichè l'espettorato è molto ricco di bacilli pestosi. Breve storia del contagio: Nell'antichità il nome di peste è usato per indicare tutte le malattie epidemiche che avevano un elevato tasso di mortalità; pertanto è difficile poter dire, ad esempio, se la peste di Filistei (1400 a.C.) o quella celebre di Atene (429 a.C.) descritta da Tucidide o le altre vari forme pestilenziali che infierirono nel Mediterraneo orientale ed in Asia Minore siano state vere e proprie epidemie di peste. La prima sicura pandemia pestosa si ebbe nel 542 d.C., sul litorale mediterraneo (peste di Giustiniano): colpì l'Egitto, l'Africa del nord, la Palestina, la Siria, Costantinopoli, l'Italia, la Gallia e la Germania. Le successive epidemie che colpirono l'Europa e l'Oriente fino agli inizi del XIV secolo non sono state chiaramente identificate con la peste. Nessun dubbio che si sia trattato di questo morbo per la pandemia dilagata verso la metà del XIV secolo, nota come Peste o Morte nera. Probabilmente originata in India, si propagò attraverso l'Asia Minore nel Mediterraneo, risalendo fino in Inghilterra, Germania e Polonia e provocando, con il decesso di 25 milioni di persone in Europa, 23 milioni in Asia, la più elevata mortalità per epidemia che abbia registrato la storia. In Italia essa infierì particolarmente nel 1348, come è testimoniato anche dal Boccaccio (Decameron). Dopo questa seconda epidemia la peste rimase endemica in Europa per alcuni secoli. Nel 1466, manifestatasi in Tessaglia, si diffuse particolarmente in Macedonia e in Tracia, causando a Costantinopoli fino a 600 morti al giorno. Nella stessa epoca anche l'Europa dovette soffrire per tale flagello: una pandemia abbastanza grave colpì nel 1478 Venezia, dove cominciò peraltro ad applicarsi una profilassi antipestosa (lazzaretti, ispezioni, quarantene). Epidemie di rilevante entità si ebbero a Milano nel 1576 -1577 (peste di s. Carlo) e nel 1629 -1630: qust'ultima descritta da Manzoni nei "Promessi Sposi", ridusse la popolazione milanese da 250 000 a 60 000 unità. Venezia, al contrario, grazie alla rigida applicazione di un cordone sanitario, fu colpita mano duramente. Né mancarono, nell'incombere di così gravi calamità, fantasiose credenze popolari sull'origine e sul diffondersi della peste: molto nota quella degli "untori" (anch'essa testimoniata dal Manzoni).


LA PESTE AD ARCORE I documenti parrocchiali E’ storico che le pestilenze due o tre volte per secolo facevano visita anche nei nostri paesi. Non sono però disponibili documenti, notizie o tradizioni che possano dare indicazioni circa l’epoca esatta, la presenza e l’entità del contagio nel luogo. Qualche notizia documentata è invece rintracciabile per le ultime due (1575-1577 e 1629-1630) che colpirono il nostro territorio. Nell’ambito dei “Libri parrocchiali”, mancando il “libro dei Morti”, iniziato solo a partire dal 1643, si può dedurre la presenza del contagio solo da alcune scarne notizie. Nel periodo della prima pestilenza [1576-1577], quella chiamata “peste di san Carlo”, dal primo “Libro dei matrimoni” risulta che tra il 1572 e il 1580 non venne celebrato alcun matrimonio e che nel decennio successivo, una volta ricompattati i vedovi, la frequenza media delle celebrazioni fu di 2,8. Ciò consente di calcolare la consistenza demografica del paese alla fine dell’epidemia: secondo lo schema di calcolo usato più sopra: risulta che gli abitanti erano ridotti a metà: quindi i morti sarebbero stati circa 300. Per la seconda pestilenza (1629-1630), come è noto preceduta da anni di gravissima carestia, (vedere la descrizione che ne fa Manzoni al cap. XXVIII del suo romanzo), nel “Libro dei battesimi”, il curato del tempo (Gioseffo Berta) annota in alcuni casi che la cerimonia fu officiata in casa “per sospetto di pesti” o anche “alle Gabane” il rudimentale lazzaretto, impiantato all’incirca nella zona dove sorge ora la cappella, dove venivano convogliati gli ammalati e i sospetti di peste: Usando lo stesso criterio di usare come indice il numero dei matrimoni celebrati e applicando lo schema di calcolo già visto, confrontando poi i dati ricavati del pre e post peste, risulterebbe un numero di morti pari a circa 150/200.



Le gabane L’uso di isolare i contagiati, imposto dalle autorità sanitarie, era un procedimento molto antico che rientrava già nello schema organizzativo delle società primitive; anche per il nostro paese la storia del contagio si svolse in modo analogo: costruzione di primitivi agglomerati di capanne dove gli ammalati trascorrevano una specie di quarantena, sorvegliati e curati da chi dal morbo era immune, da parenti e da volontari che non esitavano a sfidare il rischio di contrarre il male. Il luogo dove fissare queste costruzioni (semplici capanne di tronchi e frasche) doveva essere sufficientemente lontano dal paese e il bosco, che avvolgeva allora l’intera fascia collinare, offriva condizioni di isolamento sufficienti. Lo sconvolgimento subito dalla zona, dopo l’integrazione della proprietà dell’abate d’Adda, l’ampliamento con nuove acquisizioni, lo sbancamento di 160.000 metri cubi di terra, a formare quello che oggi costituisce il parco comunale, non consente di identificare il luogo dove era impiantato il lazzaretto, anche se è da ritenere che nelle varie pestilenze il luogo poteva variare da un posto all’altro, più o meno lontano proporzionatamente al grado di paura che il fenomeno generava.

I fupon Nella preponderanza dei casi il contagio portava a morte il colpito e la necessità di trovare spazi e terreni adatti per le inumazioni costringeva ad “inventare” soluzioni specifiche. I morti, in condizioni normali, erano sepolti in cimiteri attorno alle chiese, a volte nelle chiese stesse, dove, in appositi sotterranei attrezzati a colombari, le salme venivano deposte e dopo un congruo lasso di tempo rimosse e passate in un ossario comune. Ma nel caso di una così grande necessità, una volta scelto il luogo, venivano scavate grandi, profonde fosse dove i cadaveri erano deposti l’uno accanto all’altro avvolti in semplici teli, man mano coperti da strati di terra e sopra questa altri morti e altra terra fino al riempimento.


I SEGNI DELLA MEMORIA La croce di ferro In quasi tutti i paesi del circondario croci o lapidi segnano questi luoghi. Anche ad Arcore, sul limite della strada per “La Palazzina”, una modesta croce inastata, in ferro, era posta nel luogo dove abitualmente venivano sepolti i morti di peste e una scritta posta sotto la croce ricordava il fatto “Morti del contagio - 1300”. Pietà popolare e devozione antica da una generazione all’altra ne custodivano l’integrità e la memoria: I Crippa della Palazzina provvedevano alla manutenzione periodica e il monito sulla precarietà del vivere induceva riflessioni nel presente. La croce è stata sfrattata, Il ricordo dei morti cancellato; invasioni di nuovi barbari hanno provveduto a distruggere le memorie e in quel luogo, sopra i loro sepolcri, i segni dell’opulenza privata hanno annegato la tradizione della comunità.


Cappelle e altarini Nell’ambito dei luoghi di degenza era uso costruire piccoli altari, appena segnati da umili croci, dai quali invocare la misericordia o la rassegnazione, ed è appunto da questi che traggono origine molte cappelle disperse per le campagne, diventate nel tempo meta di processioni e pellegrinaggi. Anche ad Arcore, quasi certamente nei luoghi dove sorgevano quei primitivi lazzaretti, vi erano modesti altarini al bordo di primitivi sentieri che attraversando il bosco collegavano il paese con Lesmo. Sul retro nord della recinzione del parco, a bordo del “Campo d’oro” partiva un sentiero che inoltrandosi nel bosco, e biforcandosi più avanti, collegava a lato est la Cazzola e a lato nord, sul retro della collinetta che sovrasta la Palazzina, il primo terrazzamento del territorio di Lesmo. Appena all’imbocco del sentiero, prima del riassetto conseguente alla costruzione della recinzione del “Giardino” d’Adda, addossata ad una quercia, era collocata una croce a indicare, il primitivo e più antico luogo di isolamento e sepoltura degli appestati. Questo segno fu poi collocato nella nicchia ricavata nella recinzione a costituire un minuscolo altarino: proprio nel luogo dove oggi, distrutto dal tempo e dall’incuria, si vedono immagini sacre appiccicate al tronco di un albero (reminiscenze celtiche del culto druidico della quercia rimaste nel DNA degli abitanti del luogo?). Questo luogo, finché la mura fu in piedi, nel gergo arcorese era identificato come segonda madonina, meta di solitarie peregrinazioni, di colloqui con gli antenati, di invocazioni, di pianti, di speranze nell’impossibile, accompagnati da semplici offerte floreali.


La cappellina vera e propria, quella cioè che vediamo oggi, ha una storia simile, anche se leggermente diversa. Fronte a sud ovest, sul limitare della collina, Immerso nella brughiera, nel luogo dove era installato il ricovero per i contagiati, eretto come segno al culto dei morti dalla pietà popolare, in origini, sorgeva un basso cippo, in quella pietra arenaria, detta con voce dialettale "prea molera", grossolanamente scavata a tracciarvi una croce, diventato in un secondo tempo, basamento di una bella croce in pietra grigia dalle braccia leggermente rastremate. I tempi dell'evoluzione del manufatto sono scanditi dalle epidemie 1348 - 1478 - 1576 - 1630 che con incidenze più o meno elevate colpirono il territorio. Croce e cippo rimasti isolati, scoperti, esposti alle intemperie che li logorarono, per almeno quattro o cinque secoli, furono successivamente integrati nella recinzione della proprietà D'Adda nel 1840-1845 (dopo le nuove acquisizioni del 1809 e la ridisegnazione dei giardini fatta dal Balzaretti), a margine della strada dei boschi (strada di Spasaa), con una piccola cappella denominata "ai mort lungh": meta di umili preghiere nascoste, di dolorose confidenze sussurrate ai propri defunti e di innumerevoli, fervide processioni ad invocare aiuto e protezione alla speranza del raccolto. L'antica croce di ferro, a forma di croce di san Maurizio, cioè con le estremità trilobate, rimossa dalla sua collocazione originale, si trova ora murata a retro della croce di pietra al centro absidale della cappellina.


LA TRADIZIONE Il racconto Nelle lunghe giornate delle pause invernali dal lavoro nei campi, riuniti nelle stalle al caldo tepore animale, mentre gli uomini rassettavano o costruivano a nuovo gli arnesi agricoli e le donne filavano, tessevano o rabberciavano gli scarsi indumenti, la storia delle passate vicende veniva narrata e di generazione in generazione si tramandavano la provenienza e la diffusione del clan, i legami parentali, i soprannomi, le emigrazioni da paese a paese e gli avvenimenti che avevano caratterizzato periodi particolari. Anche il racconto delle pestilenze, pur sfumato via via nel tempo dalle memorie, restato patrimonio ereditario di semplici contastorie che ricevevano la caritĂ di una minestra in cambio della narrazione, faceva pare degli intrattenimenti invernali e la rievocazione di angosce e patimenti rendeva piĂš sopportabile inducendo rassegnazione alla durezza del vivere.


Il culto dei morti La fede che i defunti avessero la possibilità di farsi intermediari tra il mondo materiale e il mondo spirituale per propiziare protezione e benessere è presente fin dall’eneolitico e sopravvive ancor oggi in molte religioni che ne hanno conservato il carattere primitivo, “…dal dì che nozze, tribunali ed are fero alle umane belve esser pietose…”. Così Foscolo identifica l’inizio dell’incivilimento della specie umana. Storici, antropologi ed etnologi ne hanno studiato e spiegato l’evoluzione nel tempo. In particolare, per quanto ci concerne, nelle civiltà contadine, il morto era considerato ancora facente pare della famiglia sia nella narrazione delle vicende che ne avevano caratterizzato la vita, sia negli insegnamenti tecnici e morali che rimanevano a fondamento del vivere nel clan: il cibo preparato per il morto, la luce accesa davanti al simulacro e la nominazione continua del defunto erano i segni della fede nella presenza che trascende la materia. Il grande fenomeno delle epidemie, riunendo i morti nelle fosse comuni, compattava i vari nuclei in un unico comune riferimento: la preghiera, il culto e l’invocazione non erano più per il morto della famiglia ma per i morti della comunità intercessori presso la divinità.

Le processioni (da “La storia di Arcore”) “…L’arcivescovo Romilli negli Atti della Visita Pastorale (1856) annotava che tra le più radicate consuetudini devozionale del popolo di Arcore vi era la processione mensile al cimitero e quella ancor più frequente «ad tumulum pro defunctis peste ereptis» («al sepolcro per i morti strappati via dalla peste»). Del resto, questi raduni di fedeli in cui si invocavano i morti per ottenere la pioggia durante la siccità, la fine delle alluvioni e delle epidemie, erano un uso invalso in quel tempo in numerosissime località dell’area lombarda…” Evidentemente quando si parla di radicate consuetudini si arretra notevolmente nei secol. Anche se è da ritenere che già dalle prime pestilenze trecentesche questa devozione fosse affermata, non vi sono documenti che lo comprovino, rimane comunque il fatto che secoli e secoli dopo siamo ancora qui oggi a pregare e a chiedere grazie alla divinità attraverso l’invocazione ai morti.



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