ADESSO TOCCA A TE (free book)

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ADESSO TOCCA A TE La lotta alle mafie e gli insegnamenti di Falcone, Borsellino e Caponnetto Ricordo di

Rudolph Giuliani

Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise Edizioni Legalitas - Roma 2017

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A mia figlia Isabella

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“La mafia, lo ribadisco ancora una volta, non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. La mafia è l'organizzazione più agile, duttile e pragmatica che si possa immaginare rispetto alle istituzioni e alla società nel suo insieme”. “Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. “Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto. Contano le azioni non le parole. Se dovessimo dar credito ai discorsi, saremmo tutti bravi e irreprensibili”. “Questo è il Paese felice in cui se ti si pone una bomba sotto casa e per fortuna non esplode, la colpa è tua che non l'hai fatta esplodere”.

Giovanni Falcone

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Ricordo di Rudolph Giuliani

Come ho detto più volte a chi me lo chiedeva, il ricordo più prezioso che ho del mio amico Giovanni Falcone risale all'ultima volta che venne a New York a trovarmi: era il 1991. Stavamo lavorando a un caso giudiziario riguardante i rapporti tra Cosa Nostra italiana e mafia americana. Un giorno mi affacciai alla finestra del mio ufficio e lo vidi camminare in strada, da solo, senza scorta, in pieno centro. Quando risalì, gli dissi: “Giovanni, ma che fai metti a rischio la tua incolumità?”. Mi rispose che nel mio Paese si sentiva tranquillo perché c’era una grande libertà. Dal suo assassinio sono passati ventisei anni e il mio ricordo più vivo di lui resta il suo incessante impegno nella lotta alla criminalità organizzata su tutti i fronti. Era un mastino che non mollava mai la presa. Giovanni Falcone ha lasciato un'enorme eredità e un magnifico esempio da seguire per i giovani. Era un super-eroe ma non con i super-poteri bensì con una forza di volontà e un acume investigativo che nella lotta internazionale al crimine organizzato ed a Cosa Nostra, non ho mai più riscontrato. Ricordo che lui amava molto l'Italia e la sua terra, la Sicilia. Quando parlava della Sicilia, si emozionava. Sosteneva che alla base del suo mancato sviluppo c'era la mafia. Quando seppi della morte di Falcone prima e di quella di Paolo Borsellino dopo, ne rimasi profondamente sconvolto. E' veramente difficile esprimere il dolore che ho provato, neanche oggi sarei in grado di manifestarlo a parole. Mi auguro soltanto che i giovani non dimentichino i tanti martiri della lotta alla criminalità organizzata italiana e soprattutto abbiano come riferimento i loro insegnamenti.

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Premessa Perché scrivere questo libro? E' la domanda che mi sono posto prima di iniziare il lavoro. L'ho fatto perché mi sono reso conto che la storia di quel periodo è nota a pochissimi giovani. Vorrei, dunque, che in tanti possano conoscerla attraverso il mio incontro con la legalità, con Giovanni Falcone e con chi ha fatto la storia dell’antimafia, quella vera, quella in trincea. Il primo “impatto” è avvenuto nel lontano 1991 quando, giovane laureando in giurisprudenza, scrissi al giudice Giovanni Falcone una lettera nella quale gli esprimevo ammirazione ritenendolo esempio da seguire ma, al tempo stesso, gli rimproveravo di lasciare Palermo per andare a Roma al Ministero di Grazia e Giustizia come direttore generale degli affari penali. Era un momento difficile per lui e per il pool antimafia, coordinato da Antonino Caponnetto, ma nonostante ciò, nel febbraio del 1992, del tutto inaspettata, mi arrivò la sua risposta: aveva trovato il tempo di scrivere a un giovane anonimo nonostante in quel periodo fosse bersaglio continuo di attacchi e denigrazioni di ogni genere. La lettera è breve, intensa, entusiasmante e ha segnato per sempre la mia vita. Falcone non fu l’unico incontro che ho avuto. Nel luglio del 1991 a Trivento ascoltai e potei stringere la mano a Paolo Borsellino che era venuto, invitato dalla Caritas diocesana, per parlare dei rapporti tra mafia e politica. L’anno successivo, mi laureai con una tesi dal titolo “Appalti pubblici e normativa antimafia” e incominciai, giovanissimo professore a contratto, ad insegnare diritto penale e a occuparmi di criminalità organizzata, di corruzione e di crimini dei colletti bianchi. Un altro incontro segnerà ulteriormente la mia esistenza: quello con il giudice

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Antonino Caponnetto. Con lui incominciai un cammino appassionante e straordinario caratterizzato da tanti incontri con i ragazzi in molte scuole d’Italia. Da allora, il lavoro continua in maniera incessante e con questo libro si arricchisce di un nuovo strumento di conoscenza e di approfondimento. Il suo titolo “Adesso tocca a te” è un incitamento per noi tutti a fare la nostra parte “costi quel che costi”, come diceva Falcone. Se vogliamo lottare le mafie, non possiamo e non dobbiamo più sottrarci ai nostri doveri, dai più semplici sino a quelli più impegnativi. Portocannone, 9 luglio 2017 Vincenzo Musacchio

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I

Il valore di Giovanni Falcone Giovanni Falcone nasce in una famiglia benestante: il padre era direttore del laboratorio chimico d’igiene e profilassi di Palermo e la madre era figlia di un noto ginecologo della stessa città. Aveva due sorelle maggiori: Anna e Maria. Venne al mondo il 18 maggio 1939 a Palermo in via Castro Filippo nel quartiere della Kalsa, fatalmente lo stesso di Paolo Borsellino e di molti futuri mafiosi come Tommaso Buscetta. Come raccontano i suoi parenti, il suo parto ebbe una particolarità: nacque con i pugni chiusi e senza vagiti. Nel momento della nascita, dalla finestra aperta entrò una colomba, simbolo di pace, che poi rimase a lungo in casa.

Falcone ha dedicato la sua vita alla lotta contro la mafia senza mai minimamente arretrare di fronte ai gravi rischi cui si esponeva con la sua attività. Fu sempre mosso da un eccezionale spirito di servizio verso lo Stato e le sue istituzioni. È stato tra i primi a identificare “Cosa Nostra” come un’organizzazione parallela allo

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Stato, unitaria e verticistica in un’epoca in cui si negava l’esistenza della stessa. La sua tesi è stata in seguito confermata dalle dichiarazioni rilasciate nel maxiprocesso dal primo importante pentito di mafia, Tommaso Buscetta. Grazie ai suoi metodi d’indagine ha posto fine all’interminabile sfilza di assoluzioni per insufficienza di prove che caratterizzavano i processi di mafia in Sicilia negli anni settanta e ottanta. La sua grande intuizione, valida ancor oggi, fu quella di avvalersi d’indagini finanziarie individuando i capitali sospetti che riconducevano alla criminalità organizzata. Dedizione massima, pervicacia, grande rigore investigativo, indagini finanziarie ed estrema capacità di coesione all’interno del gruppo caratterizzarono il suo agire. Furono queste le peculiarità che poi hanno consentito la realizzazione del primo maxiprocesso alla mafia, il più grande risultato giudiziario mai conseguito ancor oggi contro un’organizzazione criminale. L’eccezionale lavoro di un gruppo di magistrati guidati da Falcone approdò al dibattimento pubblico che vide alla sbarra quasi cinquecento mafiosi, tra boss e sottoposti. Esemplare e di portata internazionale fu la sentenza, che consentì alla magistratura di condannare all’ergastolo l’intera direzione strategica di Cosa Nostra. Accuse poi tutte confermate in Cassazione. In tutti questi anni mi sono sempre chiesto cosa sia rimasto della stagione del Pool antimafia oggi? Pochissimo! Resta, senza dubbio alcuno, l’esempio indelebile di uomini come Rocco Chinnici, Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che seppero incarnare i valori dell’impegno a favore dello Stato e della legalità, senza essere mai fermati dalla paura durante loro preziosissima attività investigativa. Credo che il contributo di conoscenza delle mafie fornito dal Pool antimafia al nostro Paese sia davvero impareggiabile. Questa esperienza purtroppo terminò, di fatto, nel 1992 con l’uccisione di Falcone e Borsellino, anche se già alla fine degli anni ottanta una parte delle istituzioni ostacolò lo sviluppo e la prosecuzione dell'attività investigativa contro la mafia. Nel 1988

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il Capo dell’ufficio istruzione di Palermo di allora, separò le inchieste e segnò la fine della meravigliosa stagione del Pool antimafia al quale non può non essere riconosciuto il merito assoluto di aver distrutto il mito dell’invincibilità della mafia e di aver riabilitato l’attendibilità dello Stato. Personalmente, il Pool di Palermo (Chinnici, Caponnetto, Falcone, Borsellino, Di Lello, Guarnotta e per le indagini di polizia, Cassarà e Montana) a me giovane laureato in giurisprudenza ha dato il senso di credibilità dello Stato che si presentava finalmente agli occhi dei cittadini con volti seri e degni di fede nei quali io mi identificavo totalmente. Salvo rare eccezioni, oggi, mio malgrado, non ritrovo più persone in grado di darmi quelle sensazioni che ebbi invece molto forti negli anni aurei del pool antimafia. Quelli erano “veri” magistrati, di quella “razza” che quando indossava la toga si spogliava del proprio essere persona per diventare un degno rappresentante della legge: una rarità nei giorni nostri!

Gli strumenti di lotta alla mafia Non fu la “super-procura” l’unico strumento di contrasto alla mafia ideato da Falcone. In quello stesso periodo furono gettate le basi per la nascita di norme e leggi che regolarono la gestione dei collaboratori di giustizia. Sul piano della necessità di impedire la comunicazione tra i boss in carcere e i mafiosi in libertà, prese corpo il cosiddetto carcere duro: cioè una forma di carcerazione differenziata (il 41 bis) per mafiosi. Il 30 gennaio del 1992, con una sentenza storica, la Cassazione riconobbe valido l’impianto accusatorio che aveva portato alla sentenza di primo grado e rivede, aggravandolo, il giudizio d’appello che aveva mitigato le precedenti condanne. La Suprema Corte ripristina diciannove ergastoli e migliaia di anni di carcere per boss e gregari. Il

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cosiddetto “teorema Buscetta” è sancito definitivamente, insieme con il trionfo di Giovanni Falcone: il “suo” maxiprocesso regge alla prova finale. L’apice del successo sarà proprio l’inizio della fine del giudice. Cresce l’odio della mafia nei suoi confronti e, parallelamente, cresce l’avversione politica per un magistrato che si avvicina pericolosamente al territorio inesplorato delle connivenze politiche e istituzionali. E’ giudicato talmente “pericoloso” da convincere i suoi nemici a una soluzione finale, diversa e più cruenta di quella che ne aveva decretato l’espulsione da Palermo. Giovanni Falcone, da parte sua, sa che il conto con la mafia è aperto e considera l’attentato alla sua persona come più di un’eventualità, anzi una certezza che sarebbe prima o poi arrivata. Tuttavia va avanti per la sua strada. Cosa lo spingeva a farlo? Certamente aveva paura, ma come mai insisteva nel continuare a lottare, anche se sapeva che la mafia lo avrebbe ucciso? Falcone alla domanda rivoltagli da un giornalista che gli chiede: “Ma chi glielo fa fare?” Risponde sorridendo: “Soltanto lo spirito di servizio”. Il giornalista insiste: “Ha mai avuto dei momenti di scoramento, magari di dubbi, delle tentazioni di abbandonare questa lotta?” Falcone serio: “No mai”. Aveva una strategia efficace per riuscire a combattere la mafia. Innanzi tutto, sosteneva si dovessero usare i pentiti come strumento principale. Perché senza capire e conoscere come l’organizzazione funzionasse dall’interno, non si poteva combatterla. E chi poteva saperlo meglio degli ex membri dell'associazione? Sosteneva che ai pentiti dovesse essere offerta una protezione e uno stipendio, perché la mafia cercava in ogni modo di ucciderli. Nessuno avrebbe mai osato pentirsi se non gli fosse stata offerta una forma di tutela. Secondo Falcone gli uomini della mafia uccidevano solo se veramente necessario. Scrive nel suo libro “Cose di Cosa Nostra” che la mafia è più forte quando non si fa sentire. Se invece commette tanti omicidi, in un breve periodo, vuol dire che si trova in difficoltà. Significa che si sente minacciata e che deve

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difendersi. Si parla spesso di “cadaveri eccellenti” che nel linguaggio mafioso, significano persone ufficialmente altolocate uccise dalla mafia, per esempio, magistrati, politici, giornalisti, imprenditori. Quando commette tanti “omicidi eccellenti”, la mafia si trova in estrema difficoltà. Sulla pax mafiosa di questi anni, oggi occorrerebbe riflettere molto!

Il lato “oscuro” della morte di Falcone Il 23 maggio 1992, Giovanni Falcone e la moglie Francesca, di ritorno da Roma, atterrano a Palermo con un jet del Sisde, un aereo dei servizi segreti partito dall'aeroporto romano di Ciampino alle ore 16,40. Tre auto, una Croma marrone, una bianca e una azzurra li aspettano. La loro scorta è una squadra affiatatissima che ha il compito di sorvegliarlo dopo il fallito attentato del 1989 dell'Addaura. Poco dopo aver imboccato l’autostrada che congiunge l’aeroporto alla città, all’altezza dello svincolo di Capaci, una terrificante esplosione (500 kg di tritolo) disintegra il corteo di auto e uccide Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e agli agenti della scorta, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Sono ancora molti i lati oscuri che avvolgono quella strage. Sono fermamente convinto che Giovanni Falcone faceva paura non solo per le sue attività antimafia, ma perché come investigatore, era riuscito ad avere uno sguardo completo su molti avvenimenti dell’epoca, accumulando talmente tante informazioni da diventare un pericolo non solo per la mafia, ma anche per quei pezzi di istituzioni deviate e avvezze alla mafiosità e alla corruzione. Borsellino prima di morire disse più volte che Giovanni Falcone aveva tentato di indagare su “Gladio”, organizzazione clandestina italiana. Le informazioni che aveva raccolto furono fatte sparire. Ancor oggi ci sono molti interrogativi

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sulla strage del 1992 che non hanno mai avuto una risposta. L’attentato di Capaci fu una strage di mafia con molte complicità di Stato. Si conoscono esecutori materiali e mandanti mafiosi ma manca ancora oggi il tassello del c.d. terzo livello, quello della politica. Falcone su questo terzo livello si espresse poco, ma su questo argomento voglio ricordare le parole di Pippo Fava: “I mafiosi veri stanno in ben altri luoghi, in ben altre assemblee. I mafiosi sono in Parlamento, a volte sono quelli ai vertici della Nazione. Non si può definire mafioso il piccolo delinquente che ti impone la piccola taglia sulla tua attività; questa è roba da piccola criminalità che ormai abita in tutte le città italiane ed europee. Il problema della mafia è molto più tragico e importante, è un problema di vertice nella gestione della Nazione che rischia di portare alla rovina e al decadimento culturale”. Queste parole, pur se datate nel tempo, sono ancora attualissime. Credo che difficilmente conosceremo mai il terzo livello finché esisteranno connivenze tra lo Stato e le mafie. Erano arrivati vicinissimi a scoprirlo Chinnici, Falcone e Borsellino, tutti e tre stranamente fatti saltare in aria col tritolo come a voler dire: il terzo livello non si tocca altrimenti questa è la fine che si fa. Un macabro avvertimento per chi volesse riprendere il percorso interrotto dai tre giudici.

Gli uomini passano le idee restano La morte di Giovanni Falcone poteva essere sentita come una sconfitta della Giustizia e dello Stato, come la fine di una speranza, in realtà, il suo assassinio ha rappresentato l’inizio di una vera rinascita della società civile, che ha obbligato le istituzioni statali a sferrare nei confronti della mafia un attacco tale da ridurre quasi al tappeto Cosa Nostra. Tutti i più grandi latitanti,

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tranne Matteo Messina Denaro, sono in prigione e l’azione della magistratura e delle forze dell’ordine continua imperterrita anche se tra mille difficoltà. È importante, però, che l’azione non si fermi. Qualsiasi indecisione o allentamento della tensione giova alla mafia. Per questo è fondamentale l’impegno delle istituzioni e, soprattutto, la vigilanza della società civile. Spetta a tutti noi, ai giovani, che saranno i protagonisti del domani, mantenere alto l’esempio lasciato da Giovanni Falcone e fare propria la lezione di legalità, di professionalità e di amore per lo Stato che il magistrato ci ha lasciato. La frase che da il titolo a questo paragrafo, Falcone l’ha detta rivolgendosi ai giovani, non solo a coloro che avrebbero intrapreso una carriera come la sua, ma anche ai futuri giovani mafiosi. Perché sia gli onesti che i mafiosi contano molto sui giovani per un futuro di continuità. Quindi, come le idee di Falcone saranno probabilmente seguite da qualche giovane magistrato, così le idee mafiose di un boss saranno seguite da qualche giovane mafioso. Purtroppo è un fattore ciclico perverso ed inevitabile che si ripeterà per lungo tempo. Nonostante le grandi vittorie del passato, con le mafie attualmente non stiamo affatto vincendo la partita. Per vincerla ritengo occorra cambiare: il codice penale, il codice di procedura penale, l’ordinamento giudiziario e penitenziario. Sono necessarie tutte quelle riforme che facciano sì che delinquere non sia più conveniente come invece lo è oggi. La battaglia è ancora lunga e dura ma volendo si può ancora vincerla.

Falcone “scomodo” Uno dei periodi in cui Falcone fu particolarmente avversato anche da molti dei suoi colleghi fu quando espresse le sue idee sulla riforma della giustizia. Pochissimi conoscono le sue opinioni in

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materia. Per prima cosa si occupò di diritto penale sostanziale. Sosteneva fermamente la necessità della figura del concorso esterno in associazione mafiosa. Il delitto da anni al centro di polemiche. Fu proprio Giovanni Falcone, nel 1987, a sottolineare la necessità di una figura giuridica capace di reprimere quel che definiva “fiancheggiamento, collusione, contiguità”. È così che, dall’unione tra gli articoli 416 bis e 110 del codice penale (concorso nel reato), si è affermato il “concorso esterno in associazione mafiosa”. Poco prima di morire nel 1992 sostenne che con il nuovo processo penale, non si potesse ancora a lungo continuare a punire il vecchio delitto di associazione per delinquere di stampo mafioso in quanto tale, ma bisognava orientarsi verso la ricerca della prova dei reati specifici, poiché la prova si sarebbe formata in dibattimento. Ciò rendeva estremamente difficile, in mancanza di concreti elementi di colpevolezza per i delitti specifici, la dimostrazione dell’appartenenza di un soggetto a un’organizzazione criminosa. Sull’obbligatorietà dell’azione penale, sosteneva che non potessero esistere argomenti tabù e difese quasi sacrali di istituti, come per esempio proprio quello in questione. Aggiungeva che se negli Stati Uniti la giustizia fosse più rapida, efficiente e attenta ai diritti della difesa, questo dipendeva anche dallo strumento fondamentale della non obbligatorietà dell’azione penale. La parte più radicale del suo pensiero riguardava la separazione delle carriere tra giudice e pubblico ministero. Era convinto che la regolamentazione delle funzioni e della carriera del pubblico ministero non potesse essere identica a quella dei magistrati giudicanti, essendo diverse le funzioni, le attitudini, l’habitus mentale, le capacità professionali richieste: investigatore il Pm, arbitro il giudice. Falcone sosteneva che il tema andasse affrontato senza paure, accantonando lo spauracchio della dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e della discrezionalità dell’azione penale, puntualmente sbandierate quando si parla di differenziazione delle

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carriere. Giovanni Falcone era anche favorevole all’articolo 41 bis che nella formulazione attuale risale proprio al 1992, quando a seguito della stagione degli attentati ebbe l’idea di estendere questo provvedimento ai mafiosi. Ci volle la sua morte proprio a causa di un attentato della mafia per vedere la sua idea realizzata. L’introduzione dell’articolo "41 bis" fu la molla che determinò nel 93 gli attentati sanguinosi di Firenze, Roma e Milano. I mafiosi il carcere duro non lo vogliono e questo è un punto importante, sul quale noi, a quasi venticinque anni dalla scomparsa di Falcone e Borsellino non dobbiamo mai smettere di riflettere. Queste misure però, in concreto, non hanno mai funzionato bene. A un anno dalla strage di Via d’Amelio, l’ordine per nuovi attentati fu reiterato proprio dal carcere. L’articolo "41 bis", a mio modestissimo giudizio, non è mai stato applicato nella sua completa inflessibilità, così come avrebbe dovuto essere in seguito all’uccisione di Falcone e Borsellino, nondimeno alla mafia non è mai piaciuto lo stesso. Per quanto mi riguarda, sono per la sua piena applicazione che estenderei anche ai corrotti.

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II

Il ricordo di Falcone su “La Voce di New York” Ogni anno che passa, è sempre più difficile trovare consensi quando si vuole parlare di legalità e si vogliono ricordare le vittime che per tale ideale hanno donato la loro vita. E' sempre la stessa storia: la legalità in questo Paese non è la regola ma l'eccezione. All'epoca, non avevo ancora ventiquattro anni e ricordo ogni minimo dettaglio di quell'orribile 23 maggio 1992. La mia ammirazione per Giovanni Falcone, per la sua vita, i suoi ideali e la sua perseveranza, sono stati uno dei motivi di orgoglio per aver studiato Giurisprudenza e per avere sostenuto la tesi di laurea in diritto penale proprio sulla normativa antimafia in materia di appalti pubblici. Ero orgoglioso dell'esistenza di magistrati come lui dediti al servizio dello Stato con spirito di sacrificio mai visto prima di allora. Mi chiedevo come si facesse a non supportarlo nelle sue azioni! Era pronto alla morte Falcone, lottatore infaticabile in uno Stato che lo ha abbandonato senza mai aver voluto combattere con forza e determinazione le mafie. Falcone aveva paura ma era spinto dalla convinzione che un futuro migliore fosse possibile e che la mafia potesse essere sconfitta. Purtroppo ricordo molto bene come all'epoca fu isolato da tutti. Nessuno si ricorda di lui tranne le ricorrenze, dove ci sono inutili passerelle con falsi attestati di solidarietà e di stima come se fosse un concorso a premi. Quando li vedo e li ascolto ogni anno, penso all’enorme ipocrisia perché ricordo bene che Falcone fu bocciato come consigliere istruttore, bocciato come procuratore della Repubblica di Palermo, bocciato come membro al CSM e sono certo sarebbe stato bocciato anche come procuratore nazionale

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antimafia se non fosse stato assassinato prima. Eppure ogni anno lo Stato celebra Giovanni Falcone come se questo passato non fosse mai esistito: purtroppo questi fatti non si possono dimenticare! Non abbiamo bisogno di parole false, inutili e vuote o di presenze un giorno l’anno da parte delle istituzioni, quando poi nei fatti non si lotta la mafia né la corruzione ad essa strettamente correlata. Per rendere davvero omaggio alla vita e al valore di Giovanni Falcone c'è un solo modo: sconfiggere le mafie e ristabilire la supremazia dello Stato sul crimine organizzato e sulla corruzione dilagante. Chi vuole onorarlo non deve mollare la lotta alle mafie, dal singolo cittadino sino al Presidente della Repubblica, ognuno con i propri mezzi e le proprie forze, dalle piccole cose sino ai grandi sforzi che spettano allo Stato. Falcone diceva: “Non si può sconfiggere la mafia chiedendo l'eroismo di inermi cittadini, ma mettendo in campo tutte le forze migliori delle istituzioni”. Spero tanto che un giorno questo suo desiderio si realizzi.

La lettera a Falcone: il contesto storico Era una giornata uggiosa e fredda del 1991 e giravano voci che l'uccisione di Giovanni Falcone fosse già stata decisa nel corso di alcune riunioni della Commissione regionale di Cosa Nostra, tra settembre e dicembre 1991 dal boss sanguinario Salvatore Riina. In quel periodo furono organizzati anche gli attentati contro l'allora ministro Claudio Martelli e il giornalista Maurizio Costanzo. C'era già stata la memorabile sentenza della Cassazione che confermava gli ergastoli del maxiprocesso. Negli anni tra il 1990 e il 1992, Falcone fu attaccato da diversi fronti, in particolare, è estremamente noto l'intervento di Leoluca Orlando (più volte Sindaco di Palermo) nella trasmissione di Rai 3 “Samarcanda”.

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Anche Totò Cuffaro (ex onorevole ed ex Governatore della Regione Sicilia e condannato per mafia) si era scagliato contro Falcone in una trasmissione televisiva.

Nel 1990 alle elezioni dei membri togati del Consiglio superiore della magistratura, Falcone si candidò per la lista “Movimento per la giustizia”: l'esito fu però negativo. La sua vicinanza al socialista Claudio Martelli lo fece attaccare da molte parti del mondo politico. In particolare, l’appoggio di Martelli fa destare sospetti da parte dei partiti di centro-sinistra che fino ad allora avevano appoggiato una possibile candidatura di Falcone. Egli in realtà profonde tutta la propria professionalità nel preparare leggi che il Parlamento avrebbe successivamente approvato, in particolare sulla Procura Nazionale Antimafia. Alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, criticano poi il progetto della “superprocura”, denunciando il rischio che essa possa costituire paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella neutralizzazione reale delle sue indagini. Il 15 ottobre 1991 Giovanni Falcone è costretto a difendersi davanti al C.S.M. in seguito all’esposto presentato il mese prima (l’11 settembre) da Leoluca Orlando. L’esposto contro Falcone é il punto di arrivo della serie di accuse mosse da Orlando al magistrato palermitano, il quale ribatte ancora alle accuse definendole “eresie, insinuazioni” e “un modo di far politica attraverso il sistema giudiziario”. Sempre davanti al C.S.M. Falcone, commentando il clima di sospetto creatosi a Palermo,

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afferma che “non si può investire nella cultura del sospetto di tutto e tutti. La cultura del sospetto non è l’anticamera della verità, è l’anticamera del khomeinismo”.

In questo contesto fortemente negativo, nel marzo 1992 è assassinato Salvo Lima, omicidio che rappresenta un importante segnale dell’inasprimento della strategia mafiosa. La mafia rompe gli equilibri consolidati e alza il tiro verso lo Stato, per ridefinire alleanze e possibili collusioni. Falcone era stato informato poco più di un anno prima con un dossier dei Carabinieri del Ros che analizzava l’imminente neo-equilibrio tra mafia, politica ed imprenditoria, ma il nuovo incarico non gli aveva permesso di ottemperare a ulteriori approfondimenti. Il ruolo di “superprocuratore” cui stava lavorando avrebbe consentito di concretizzare un potere di contrasto alle organizzazioni mafiose sin lì impensabile. Ma ancor prima di essere formalmente indicato, si riaprono ennesime polemiche sul timore di una riduzione dell’autonomia della magistratura e una subordinazione della stessa al potere politico. Esse sfociano per lo più in uno sciopero dell’Associazione Nazionale Magistrati e nella decisione del Consiglio Superiore della Magistratura che per la carica gli oppone inizialmente Agostino Cordova. Sostenuto da Martelli, Falcone risponde sempre con lucidità di analisi e limpidezza di argomentazioni, intravedendo presumibilmente che il coronamento della propria esperienza professionale avrebbe definito nuovi e più efficaci strumenti al servizio dello Stato. Eppure, nonostante la sua

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determinazione, egli é sempre più solo all’interno delle istituzioni, condizione questa che prefigurerà la sua fine.

Il contenuto della mia lettera In questo clima, decido di scrivere a Giovanni Falcone: una lettera che mai avrei potuto immaginare cambiasse il corso della mia vita. Era il periodo natalizio, esattamente il 24 dicembre 1991 (lo ricordo nitidamente poiché è il compleanno di mia madre). Prendo carta e penna e comincio a scrivere su un foglio a quadretti piccoli per poi trasferire il tutto nel computer senza errori di sorta.

La lettera è velocissima, spontanea e immediata, viene, come si suol dire, di getto: “Gentilissimo Giudice Falcone, le invio la presente missiva con scarsa speranza di ricevere risposta, e, se così fosse, la giustifico e la comprendo considerato il suo particolare momento di vita privata e professionale. Come cittadino, ma soprattutto come laureando in Giurisprudenza, con una tesi che riguarda proprio la mafia e gli appalti pubblici, mi auguro tanto possa leggere queste poche righe che seguono e che esprimono

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vicinanza, stima e stati d'animo di un anonimo studente di una piccola terra quale il Molise. Leggo, vedo e ascolto che Lei è visto come “nemico” anche dai suoi colleghi, contrastato, combattuto, ritenuto quasi come un “pericolo” da fermare. Vada avanti perché l'Italia onesta è con Lei. Condivido il suo metodo di lavoro e sono certo sia un modo efficace per combattere la mafia. Ha fatto abbattere il muro del segreto bancario, introdotto il concetto di pragmaticità delle indagini e quello del coordinamento, della veduta d’insieme, delle singole indagini, tutti fattori di non poco conto. A noi giovani la sua figura insegna la propensione al proprio dovere, la lezione che ognuno deve fare la propria parte, costi quel che costi, affrontando qualsiasi sacrificio. La vedo come un eroe isolato a difendere un sistema che nessuno vuol salvare. Io credo in Lei e le sono vicino e penso che siano tanti i giovani oltre me, anche tra i suoi colleghi. Non lasci Palermo per andare a Roma sarebbe un abbandono e lascerebbe soli i suoi colleghi che credono in lei. Ho paura che la lotta alla mafia con il suo allontanamento dalla Sicilia possa subire un brusco rallentamento. Con infinita stima ed ammirazione. Vincenzo Musacchio”.

La risposta di Giovanni Falcone Passò poco più di un mese, il 3 febbraio 1992 sotto il portone di casa (non avevo ancora la cassetta postale) trovo una busta bianca con intestazione blu proveniente dalla Procura della Repubblica di Palermo. Un profumo agrodolce misto all'odore di tabacco impregnava la busta. La apro, il profumo aumenta, mi tremano le mani perché immagino il suo contenuto comincio a leggere la sua lettura: “Caro dott. Musacchio, innanzitutto grazie per la bella lettera che mi ha inviato. Anche io come lei sono convinto che il mio posto sia a Palermo ma ci sono momenti in cui occorre fare

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delle scelte e impiegare tutte le energie possibili per la lotta alla mafia. Mi creda il mio non è un abbandono. Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali. Cordialmente, Giovanni Falcone”.

Quella lettera, il suo contenuto, il suo profumo, il sentirla tra le mie mani mi riempì il cuore e la vita intera: mi sembrò che Falcone fosse li davanti a me e che mi sorridesse e mi poggiasse il braccio sulla spalla come se volesse indicarmi il cammino da intraprendere. Mi sentii abbracciato dalle sue idee, liberato dalla malinconia, dai cattivi pensieri, dall’isolamento forzato dei miei studi. Con la sua lettera rinacque in me la voglia di lottare pensando al suo insegnamento. Quella lettera fu allora ed è ancor oggi un invito ai giovani, in qualsiasi luogo e situazione si trovino, a rinnovare l'incontro con la legalità, con Giovanni Falcone, a prendere la decisione di cercarlo ogni giorno senza sosta come esempio da seguire. È necessario essere consapevoli che per sconfiggere le illegalità, l’unica via consiste nell’imparare a incontrarsi con gli altri e lottare insieme. Da quella lettera ho appreso come riscoprire Giovanni Falcone nel volto degli altri, nella loro voce, nelle loro richieste, imparando a soffrire, come

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fece lui, quando subisco aggressioni ingiuste o ingratitudini, senza stancarmi mai di scegliere la legalitĂ e i giovani. La gioia di quella lettera era immensa ma non so per quale recondita motivazione la conservai e condivisi il segreto solo con mio padre sotto la promessa di non dire nulla in famiglia. E fu cosĂŹ per tanti anni.

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III

Come ho vissuto la Strage di Capaci Portocannone, piccolo paesino con meno di tremila anime in Molise, 23 maggio 1992 ore 18,00 circa, stavo lavorando alla mia tesi di laurea proprio sui temi della mafia quando mi sento chiamare da mio padre con un tono insolito, allarmistico. Corro e per la foga e la paura fosse successo qualcosa di grave a qualcuno della famiglia scivolo e cado a terra. Mi rialzo in fretta e arrivo in cucina, c'era un’edizione straordinaria del telegiornale. Mio padre, con un'espressione cupa, mi disse: hanno ucciso Falcone, sua moglie e la sua scorta! Fui pervaso da una grande rabbia mista alla voglia di reagire senza sapere come e contro chi. Mio padre era ammutolito e mia madre guardando le conseguenze dell'esplosione piangeva quasi fosse morto un suo familiare. Dopo qualche minuto fui pienamente consapevole di quella gravità anch’io. Era morto Giovanni Falcone. Si proprio quel giudice che pochi mesi prima aveva trovato il tempo per rispondere a una mia lettera dove peraltro lo avevo accusato di abbandonare Palermo. Mi sentii in colpa! Davanti al televisore una scena di guerra: fumo, distruzione, voragini, pezzi d’auto sparsi ovunque. Mi sembrava di sentire l'odore della polvere da sparo.

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Mio padre disse che lo scenario gli ricordava un bombardamento della seconda guerra mondiale che purtroppo da bambino aveva vissuto. L’enorme rabbia di quel momento inspiegabilmente e inaspettatamente lasciò spazio al mio personale ricordo e tra me pensai: gli sarò grato per sempre perché grazie a lui nessuno più potrà mai dire che la mafia non esiste. Grazie a lui ho chiaro contro cosa lottare d’ora in poi. La sua faccia, il suo sguardo, soprattutto il suo sorriso, sono diventati parte di me come se lui fosse stato da sempre un membro della mia famiglia. Mi ricordai soprattutto quel sorriso mentre rispondeva alla domanda di Marcelle Padovani: “il vigliacco muore ogni giorno, chi non ha paura una volta sola”, Falcone risponde: “L’importante non è stabilire se uno ha paura, ma imparare a conviverci e a non farsene condizionare”. Falcone con la sua lettera mi ha insegnato che bisogna lottare per un futuro migliore, non essere apatici o peggio indifferenti e non arrendersi dinnanzi alle prime difficoltà. Falcone mi ha “obbligato” a fare la mia parte (“Adesso tocca a me!”) e che ci sono uomini giusti, che non si piegano, uomini come lui per cui io oggi resto nel mio Paese e lotto per un futuro migliore. In fondo, Falcone poteva essere mio padre! Sapeva che prima o poi sarebbe successo, sapeva che per sconfiggere il nemico avrebbe dovuto imparare a convivere con la paura, sapeva che per quella sua irrefrenabile sete di verità e di giustizia avrebbe messo in pericolo la sua vita e quella di chi gli stava accanto. E questo avrebbe comportato il sacrificio di una vita normale per una sotto scorta isolato e spesso attaccato. Una vita di rinunce, senza figli, perché dei bambini non potrebbero né dovrebbero vivere così. Lui era solito dire ai suoi colleghi e amici di non volere figli perché sarebbero stati certamente futuri orfani. Eppure non si è fermato, nel nome della giustizia, nel nome di quello Stato da cui, a un certo punto, si è sentito abbandonato. Quel giorno ho trovato il mio riferimento esistenziale, l'esempio cui ispirarmi, un uomo

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senza super poteri ma in giacca e cravatta, che solamente con la forza del coraggio e lo spirito di sacrificio è riuscito a infliggere colpi mortali a nemici potenti come le mafie e abbattere retaggi sovrumani come quello dell’omertà. Grazie Giudice Falcone!

I funerali a Palermo Il 25 maggio 1992 si svolsero a Palermo i funerali delle vittime. Sono passati due giorni dalla strage di Capaci e a Roma è eletto Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Alle esequie partecipa l’intera città, assieme a colleghi, familiari e personalità come Pino Arlacchi, Giuseppe Ayala e Tano Grasso. Gli alti rappresentanti del mondo politico, presenti in chiesa, come Giovanni Spadolini, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giovanni Galloni, sono duramente contestati. Insieme con mio cugino decidiamo di partire per Palermo. Ricordo che mio padre non mi ostacolò nel mio intento, invece, mia madre, particolarmente premurosa, aveva paura che potesse succedermi qualcosa. La sua paura era talmente forte che temeva nuovi attentati il giorno dei funerali. Partimmo la mattina del 24 a bordo di una 131 Mirafiori verde con scorte di acqua e viveri (pane e frittata o in alternativa con salsiccia casereccia e frutta delle nostre campagne che avevamo raccolto la sera prima) per riuscire ad arrivare a Palermo in serata dove ci aspettavano alcuni nostri amici. Il viaggio fu triste ma al tempo stesso meraviglioso. Parlammo di mafia e di morte dello Stato, ascoltammo musica di Fabrizio De André (mio cantante preferito) e Pino Daniele (preferito di mio cugino) ammirando il meraviglioso paesaggio calabrese. L’azzurro del mare che guardavamo dalla macchina era a dir poco stupendo, i paesaggi espressivi esaltavano la purezza e la bellezza di questa terra. Ammirammo panorami unici a ogni chilometro, tesori della

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natura dalla bellezza estasiante. Mi colpì la natura e l’amenità dei fiori di gelsomino ovunque. Arrivammo a Reggio Calabria all'imbrunire e ci imbarcammo subito. Dal traghetto vedevo allontanarsi le luci della città mentre prendeva forma quella parte dello stivale che tutti abbiamo visto sui libri di geografia. Intanto incominciava a intravedersi Messina: la Sicilia era ormai vicina. Appena sbarcati, ci dirigemmo immediatamente verso Palermo, dove ci aspettavano i nostri amici. Era buio e la città era particolarmente cupa e silenziosa come se avesse compreso cosa fosse accaduto due giorni prima. Andammo a casa di questi nostri amici nella zona di Mondello. Quella notte dormii pochissimo e potei ammirare l'alba sulla spiaggia vicinissima: uno spettacolo stupendo che ricordo come fosse ora. Palermo era meravigliosamente bella e ancora oggi sono innamorato di questa città e dei suoi abitanti. Il sole era appena sorto illuminava con la sua luce dorata, quasi affettuosa, l'immensità del mare: era giunta l'ora di avviarci verso la chiesa dove si sarebbero tenuti i funerali. In prossimità della zona la mia prima sensazione fu che con la morte di Falcone fosse davvero finita la lotta alla mafia. Chi come me credeva in lui e nella giustizia era stato per sempre, irrimediabilmente, sconfitto. Pensai che per avere un futuro non restasse che andarsene al più presto dall'Italia. Furono queste le mie prime riflessioni. Nella piazza antistante alla chiesa, lo scenario era da batticuore. La folla, tesa e infuriata, riempiva ogni centimetro quadrato.

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Urlava continuamente la parola “giustizia”. In molti gridavano viva Giovanni Falcone, abbasso lo Stato italiano. I fischi erano continui verso tutti politici che arrivavano. Il clima era di quelli che preannunciava una sommossa popolare di manzoniana memoria. Dentro la basilica, in cui non riuscii a infilarmi, le grida lasciavano il posto al pianto, alla commozione e all’angoscia generale. Trovai posto in una specie di pilastro incavato poiché davvero ogni centimetro era occupato. Accanto a me quasi appiccicata c'era una signora che non smetteva di piangere e ripeteva sempre una frase in siciliano stretto che presumo volesse dire “non doveva succedere”. Il culmine si raggiunse quando Rosaria Costa, la vedova di Vito Schifani, uno dei poliziotti di scorta caduti nella strage, spezzò tra i singhiozzi la lettura che le era stata affidata, rivolgendosi direttamente ai carnefici di suo marito. In quell'istante pensai: non è affatto finito tutto! La mafia non può prevalere e quelli che la pensavano come me erano tanti quel giorno! Nei giorni a venire, difatti, alla gente venne un’insolita voglia di partecipare alla vita democratica, di pretendere giustizia, di riconquistare, metro dopo metro, una delle città più belle d’Italia. La morte di Falcone non era la fine di tutto ma l'inizio di una nuova stagione di reazione dei cittadini alla mafia.

Ilda Boccassini ricorda Falcone Alle innumerevoli critiche degli amici di Falcone si aggiunsero gli sfoghi di Ilda Boccassini (magistrato e allieva di Falcone), che puntò il dito contro coloro che lo avevano tradito. Riporto le sue parole, pronunciate ai colleghi nell’aula magna del tribunale di Milano, massi pesantissimi che lasciarono il segno: “Voi avete

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fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali”. Nel suo sfogo il magistrato, che si farà trasferire a Caltanissetta per indagare sulla strage di Capaci, ricorderà anche il linciaggio subito dall’amico da parte dei suoi colleghi magistrati. “Due mesi fa ero a Palermo in un’assemblea dell’ANM (Associazione Nazionale Magistrati). Non potrò mai dimenticare quel giorno. Le parole più gentili, specie da magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi l’ha definito un nemico politico. Ora io dico che una cosa è criticare la super-procura. Un’altra, come hanno fatto il Consiglio superiore della magistratura, gli intellettuali e il cosiddetto fronte antimafia, è dire che Giovanni non fosse più libero dal potere politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il Ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione”.

Le parole della vedova Schifani Le parole più autentiche e toccanti che colpirono nel profondo dell'anima furono quelle di Rosaria Costa, vedova dell'agente Vito Schifani: “a nome di tutti coloro che hanno dato la vita per lo Stato, lo Stato..., chiedo innanzitutto che venga fatta giustizia, adesso. Rivolgendomi agli uomini della mafia, perché ci sono qua dentro (e non), ma certamente non cristiani, sappiate che anche per voi c'è possibilità di perdono: io vi perdono, però vi dovete mettere in ginocchio, se avete il coraggio di cambiare... Ma loro non cambiano... loro non vogliono cambiare... Vi chiediamo per la città di Palermo, Signore, che avete reso città di sangue, troppo sangue,

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di operare anche voi per la pace, la giustizia, la speranza e l'amore per tutti. Non c'è amore, non ce n'è amore...”. Molti anni dopo, nel 2012 Rosaria dirà che la sua idea è rimasta intatta.

“Nessuno voleva morire quel giorno. Nessuno voleva fare l’eroe, il martire, il decorato dalla Patria. Loro sono stati soltanto dei poveri sfigati, che sono finiti lì, al momento sbagliato, al posto sbagliato. Ho tanti dubbi. Quante volte si è sentito parlare di talpe. Di che stupirsi? Non è appurato ormai che per l’omicidio del commissario Ninni Cassarà, nel 1985, la telefonata ai killer per avvertire che stava tornando a casa partì dalla questura? Io parlo per percezioni, non ho prove in mano. Ma sento che qualcuno si è venduto i suoi fratelli, li ha traditi”.

Paolo Borsellino ricorda l'amico di sempre Borsellino arriva in chiesa a piedi da piazza Magione, insieme alla sorella Rita, la scorta e i quasi cinquantamila ragazzi, di tutta Italia, in un’imponente fiaccolata. Tra gli applausi scroscianti, che riempiono le navate, Borsellino si avvicina al pulpito, prende il microfono e di colpo cala il silenzio, un silenzio assoluto: "Giovanni Falcone lavorava con perfetta coscienza che la forza del

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male, la mafia, lo avrebbe un giorno ucciso. Francesca Morvillo stava accanto al suo uomo con perfetta coscienza che avrebbe condiviso la sua sorte. Gli uomini della scorta proteggevano Falcone con perfetta coscienza che sarebbero stati partecipi della sua sorte. Non poteva ignorare, e non ignorava, Giovanni Falcone, l’estremo pericolo che correva, perché troppe vite di suoi compagni di lavoro e di suoi amici sono state stroncate sullo stesso percorso che egli s’imponeva. Perché non è fuggito, perché ha accettato questa tremenda situazione, perché non si è turbato, perché è stato sempre pronto a rispondere a chiunque della speranza che era in lui? Per amore! La sua vita è stata un atto d’amore verso questa sua città, verso questa terra che l’ha generato. Perché se l’amore è soprattutto ed essenzialmente dare, per lui, e per coloro che gli sono stati accanto in questa meravigliosa avventura, amare Palermo e la sua gente ha avuto e ha il significato di dare a questa terra qualcosa, tutto ciò che era ed è possibile dare delle nostre forze morali, intellettuali e professionali per rendere migliore questa città e la patria cui appartiene. Qui Falcone cominciò a lavorare in modo nuovo. E non solo nelle tecniche d’indagine. Ma anche consapevole che il lavoro dei magistrati e degli inquirenti doveva porsi sulla stessa lunghezza d’onda del sentire di ognuno. La lotta alla mafia (…) non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità. Ricordo la felicità di Falcone, quando in un breve periodo d’entusiasmo, conseguente ai dirompenti successi originati dalle dichiarazioni di Buscetta, mi disse: la gente fa il tifo per noi. E con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice. Significava soprattutto che il nostro lavoro, il suo lavoro, stava

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anche smuovendo le coscienze, rompendo i sentimenti di accettazione della convivenza con la mafia, che costituiscono la sua vera forza. Questa stagione del “tifo per noi” sembrò durare poco, perché ben presto sopravvennero il fastidio e l’insofferenza per il prezzo che la lotta alla mafia, la lotta al male, costringeva la cittadinanza a pagare. Insofferenza alle scorte, insofferenza alle sirene, insofferenza alle indagini, insofferenza a una lotta d’amore che costava però a ciascuno non certo i terribili sacrifici di Falcone, ma la rinuncia a tanti piccoli o grandi vantaggi, a tante piccole o grandi comode abitudini, a tante minime o consistenti situazioni fondate sull’indifferenza, sull’omertà o sulla complicità. Insofferenza che finì per provocare e ottenere, purtroppo, provvedimenti legislativi che, fondati su un’ubriacatura di garantismo, ostacolarono gravemente la repressione di Cosa nostra e fornirono un alibi a chi, dolorosamente o colposamente, di lotta alla mafia non ha mai voluto occuparsi. In questa situazione Falcone andò via da Palermo. Non fuggì. Tentò di ricreare altrove, da più vasta prospettiva, le condizioni ottimali per il suo lavoro. Per poter continuare a dare. Per poter continuare ad amare. Fu accusato di essersi avvicinato troppo al potere politico. Menzogna! Qualche mese di lavoro in un ministero non può far dimenticare il lavoro di dieci anni. E Falcone lavorò incessantemente per rientrare in magistratura. Per fare il magistrato, indipendente come lo era sempre stato, mentre si parlava male di lui, con vergogna di quelli che hanno malignato sulla sua buona condotta. Muore, e tutti si accorgono di quale dimensione ha questa perdita. Anche che per averlo denigrato, ostacolato, talora odiato e perseguitato hanno perso il diritto di parlare. Nessuno tuttavia ha perso il diritto, e anzi il dovere sacrosanto, di continuare questa lotta. Se egli è morto nella carne, è vivo nello spirito, come la fede ci insegna; le nostre coscienze, se non si sono svegliate, devono svegliarsi! La speranza è stata vivificata dal suo sacrificio, dal sacrificio della sua donna, dal sacrificio della sua scorta. Molti

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cittadini, è vero, ed è la prima volta, collaborano con la giustizia nelle indagini concernenti la morte di Falcone. Il potere politico trova, incredibilmente, il coraggio di ammettere i suoi sbagli e cerca di correggerli, almeno in parte, restituendo ai magistrati gli strumenti loro tolti con stupidi pretesti accademici. Occorre evitare che si ritorni di nuovo indietro, occorre dare un senso alla morte di Giovanni, alla morte della dolcissima Francesca, alla morte dei valorosi uomini della sua scorta. Sono morti per tutti noi, per gli ingiusti, abbiamo un grande debito verso di loro e dobbiamo pagarlo gioiosamente, continuando la loro opera; facendo il nostro dovere, rispettando le leggi, anche quelle che ci impongono sacrifici, rifiutando di trarre dal sistema mafioso i benefici che potremmo trarre (anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro); collaborando con la giustizia, testimoniando i valori in cui crediamo, in cui dobbiamo credere, anche dentro le aule di giustizia: troncando immediatamente ogni legame d’interesse, anche quelli che ci sembrano più innocui, con qualsiasi persona portatrice d’interessi mafiosi, grossi o piccoli; accettando in pieno questa gravosa e bellissima eredità di spirito. Dimostrando a noi stessi e al mondo che Falcone è vivo”.

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La “vera” primavera di Palermo Dopo la morte di Falcone e di Borsellino i cittadini fecero sentire la loro voce, nacquero fondazioni intitolate ai due giudici. Ancora oggi sono infaticabili, Maria Falcone, Salvatore e Rita Borsellino, che incontrano i ragazzi, in Sicilia e nel resto d'Italia per raccontare, come diceva Giovanni Falcone, che “la mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine”. In via d'Amelio e in via Notarbartolo davanti a quella che fu la casa di Falcone, ci sono due alberi: hanno il tronco coperto di foglietti, disegni, pensieri, poesie, fotografie di chiunque voglia lasciare una testimonianza, per ricordare ogni giorno che la morte dei due giudici non è avvenuta invano. La stagione delle stragi continuò, così come i depistaggi nelle indagini, gli accordi segreti tra la mafia ed esponenti corrotti delle istituzioni; ma qualcosa cominciò a cambiare. Furono inviati in Sicilia ventimila soldati a proteggere sia i giudici sia i cittadini, arrivò un nuovo procuratore della Repubblica, Gian Carlo Caselli, nel 1993 fu arrestato Totò Riina, il cosiddetto "capo dei capi", e poi uno dopo l'altro gli altri capi mafiosi. Si moltiplicarono le testimonianze dei pentiti, i processi andarono avanti. Per molto tempo ci fu la Nave della Legalità: migliaia di studenti presenti ogni anno a questa manifestazione furono il simbolo della voglia di costruire un patto tra le istituzioni, le scuole e il resto della società civile contro tutte le mafie. Cambiò anche il corso della politica italiana. A cominciare dall’elezione del nuovo presidente della Repubblica avvenuta quarantotto ore dopo l’eccidio, e senza l’esplosione chissà quanto si sarebbe andati avanti e con quali risultati. Le conseguenze del terremoto, quasi uno tsunami, si trascinano ancora oggi con le polemiche sulla presunta trattativa tra lo Stato e la mafia avviata tra una bomba e l’altra, e con indagini che anziché chiarire i punti oscuri sembrano indicare ogni volta nuovi buchi neri. Gli esecutori

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materiali della strage sono stati in gran parte individuati, manca ancora qualche frammento che i magistrati stanno tentando di colmare dopo le ultime dichiarazioni di due nuovi pentiti, ma i veri mandanti restano ancora oscuri. E’ bene non dimenticarlo, nelle commemorazioni che giustamente illustreranno i successi del giudice antimafia per eccellenza, e ne tesseranno le lodi. Perché è vero che è “beato quel Paese che non ha bisogno di eroi”, ma ancora più beato sarebbe quel Paese che non ha bisogno di eroi celebrati solo dopo la morte, mentre in vita erano disconosciuti e osteggiati.

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IV

L'incontro con Paolo Borsellino Era la seconda decade di luglio del 1991 ed ero alle prese con il mio grande amore: l'esame di diritto penale, (circa 3500 pagine, titolare della cattedra il “terribile e severissimo” prof. Vincenzo Scordamaglia), quando lessi in una locandina affissa in un famoso bar a Termoli che sarebbe venuto a Trivento Paolo Borsellino per parlare di mafia e politica.

Non potevo mancare, così domandai la macchina di famiglia a mio padre sperando non gli servisse. Mi avviai da solo con la “mitica” 127 blu scolorito - odorava di terra e a volte al suo interno germogliava persino il grano (mio padre era agricoltore) nella canicola di luglio (forse 38° circa) - per arrivare puntuale a Trivento. Nelle curve ogni tanto la macchina stentava ma arrivai in tempo. L’incontro era all’aperto e l'aria era fresca, lui era già arrivato ed era seduto a un tavolo tutto bianco con accanto il suo pacchetto di MS e con la sigaretta accesa in bocca. Pochi i giovani presenti, cosa che lui evidenziò, poi cominciò subito a parlare di legalità e di rapporti tra mafia e politica. La sua cadenza era lenta

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ma efficace e piena di spunti di riflessione. Ero felicissimo perché mi stava facendo scoprire cose su cui ogni italiano avrebbe dovuto riflettere. Subito fece un’affermazione che io condivido pienamente e il succo era più o meno questo: argomentò come il rapporto tra il politico e il mafioso era spesso falso e si espresse più o meno come avrebbe fatto di li a poco anche attraverso i media: “perché si dice quel politico era vicino a un mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con le organizzazioni mafiose, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto”. Per lui questo non era un assioma, anzi era esattamente il contrario. Affermò che il ruolo della magistratura era specifico mentre la politica aveva maggiori poteri per poter espellere al suo interno i collusi e i contigui con la mafia. I politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni pubbliche dovrebbero agire con energia e trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che seppur non costituissero reato rendevano, di fatto, il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Queste esigenze non sono state mai realizzate perché ci si è nascosti dietro lo schermo della pronuncia giudiziale: “Tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto”. Per Borsellino questo discorso non reggeva in una democrazia, dove i partiti politici avrebbero dovuto e potuto fare pulizia profonda al loro interno. Chiuse il suo intervento, bersagliato da tantissime domande, con la frase poi divenuta famosa: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio, o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”. Le domande erano assolutamente libere e non concordate così anch’io feci la mia: “dottor Borsellino lei teme per la sua vita?”. La sua risposta seguita quasi da un ghigno fu più o meno la seguente: “Si. Temo per la mia vita e soprattutto per quella delle persone che mi sono vicine, dai miei familiari agli uomini della mia scorta. So che la mafia vuole la mia morte come quella del mio fraterno amico Giovanni Falcone ma penso che se

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moriremo non sarà solo per volere della mafia ma per una serie di concause che vanno dal nostro isolamento fino alla complicità delle istituzioni colluse e corrotte”. Vi fu un lungo silenzio, la mia fu l’ultima domanda. Mi alzai e mi diressi verso di lui come tutti i presenti, gli strinsi la mano, ricordo che la sua presa era molto forte, lui mi sorrise poi accese una nuova sigaretta e si diresse verso l'auto di Stato che lo stava aspettando. Mi rimase impresso il fatto che si fermò per stringere la mano a tutti, nessuno escluso. Notai anche che fumò durante tutto il convegno a volte accendendo la sigaretta nuova con quella appena finita. Fu una giornata memorabile che ancora oggi resta stampata nella mia mente e che mi guida e m’induce a riflettere ogni giorno soprattutto sugli attuali rapporti tra mafie e politica.

La lezione di Borsellino: i rapporti mafia-politica Le idee di Borsellino di allora sono ancora attualissime oggi. La simbiosi tra mafie, politica ed economia attualmente è presente in molti settori produttivi nazionali con grande prevalenza nel settore degli appalti pubblici e delle pubbliche sovvenzioni statali ed europee. I predetti legami servono alle mafie soprattutto per condizionare le scelte degli amministratori che sovrintendono le procedure pubbliche, instaurando in tal modo un circuito per lo scambio di favori illeciti. La politica, da un lato, garantisce affari e profitti alla criminalità organizzata, dall’altro, quest’ultima assicura la disponibilità di voti necessari per essere eletti ai politici collusi. Mafia e politica, sotto questo profilo, si sostengono e si garantiscono a vicenda. Il terreno d’incontro è la corruzione e il profitto economico. Per i mafiosi, le enormi quantità di denaro a disposizione costituiscono anche il mezzo per accedere nella cabina di regia degli enti dello Stato sia a livello centrale che

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periferico allo scopo di eliminare la possibile concorrenza alle loro imprese e agire in regime di monopolio. In questo contesto, molto preoccupante, occorre domandarsi cosa si può fare per arginare queste situazioni criminose? Una delle azioni da concretizzare, senza tentennamenti, è senza dubbio quella di impedire ai politici e ai burocrati di turno – attraverso una legislazione stringente e una rete di controlli effettiva ed efficace – di dare ai clan mafiosi la possibilità di gestire assunzioni, appalti e altri vantaggi che consentono loro di offrire ai cittadini possibilità di lavoro. E’ indispensabile fare in modo che per ottenere i propri diritti non si debba più ricorrere al mafioso, al politico o imprenditore colluso. Bisogna assolutamente sradicare la convinzione che la mafia garantisca lavoro. Una cosa difficile da realizzare, soprattutto nel Sud d’Italia, dove lo Stato latita da molto tempo. Dalla rottura dei legami mafie-politica-imprenditoria, a mio avviso, comincerà il vero cambiamento, ma, ciò è possibile solo a condizione che nel nostro Paese si comincino a lottare concretamente la criminalità organizzata, la corruzione, l’evasione fiscale e la mala politica. Da esperto della materia posso affermare che l’attuale legislazione è assolutamente insufficiente. La dimostrazione della nostra tesi, ad esempio, risiede nel fatto che l’Italia sia la Nazione più corrotta d’Europa e al tempo stesso quella in cui vi sono meno condanne per corruzione, concussione e abuso d’ufficio. Di certo il virus che sta uccidendo lentamente il nostro Stato in buona parte risiede nell’indebolimento delle norme di controllo, nel depotenziamento del sistema giudiziario e in una burocrazia ferma al secolo scorso priva di trasparenza e di economicità. E’ il mix tra corruzione politica, criminalità organizzata ed economia adulterata il vero cancro della nostra società e non si può continuare a parlare di onestà, di trasparenza e di efficienza in uno Stato che, di fatto, non vuole lottare questi fenomeni così aberranti. Il cittadino dovrebbe comprendere che mafiosi, politici e imprenditori perseguono il profitto fine a se stesso servendosi soprattutto di denaro pubblico,

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di cui non si riesce nemmeno a tracciare il percorso perché le norme sul riciclaggio sono inefficaci e quelle sull'auto-riciclaggio inesistenti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir poco allarmante. In questo scenario catastrofico occorrerebbe una rivoluzione culturale che parta dai giovani sulla scorta di quanto accaduto in passato per combattere la mafia – penso alla “Primavera di Palermo” negli anni novanta – quando una moltitudine di cittadini ebbe il coraggio di scendere in piazza dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio per dire no alla mafia. Ecco occorre una nuova “Primavera di Palermo” ma questa volta senza i tanti morti ed estesa a tutta la Nazione per dire no alle mafie e alla corruzione. L’Italia si gioca una partita importantissima: o affronta i veri problemi che la attanagliano, e che ho descritto in precedenza, o sarà destinata al collasso totale.

L'incontro con Antonino Caponnetto Era il 17 febbraio 1995 e grazie all'intercessione di Maria Falcone riesco a contattare e portare a Termoli come relatore sul tema "La lotta alla criminalità organizzata nello Stato di diritto: problemi e prospettive" il Giudice Antonino Caponnetto. A gennaio del 1993 assieme a magistrati, forze di polizia, avvocati e tanti esponenti della società civile avevamo fondato il Centro Nazionale di Studi e Ricerche sulla Prevenzione Criminale “Giovanni Falcone” con presidente onorario proprio Maria Falcone. Caponnetto arriva in una Termoli deserta per le imponenti misure di sicurezza: era ancora Consigliere Capo Istruttore a Palermo. Al suo arrivo gli si fanno avanti tutte le più alte cariche presenti ma lui del tutto inaspettatamente chiede del dottor Musacchio. Oltre ad essere un emerito sconosciuto, ero l'ultimo di una lunga fila oscurato da

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persone istituzionalmente più importanti di me. Alzo la mano e lui scorre la fila e viene verso di me. Mi disse: “Caro Musacchio, Maria Falcone mi ha parlato molto bene di te... Vieni ... e mi porta verso il panorama marino di Piazza Sant'Antonio, circondati quasi da un esercito di poliziotti e carabinieri. Allora come vogliamo impostare quest'incontro?” E così incominciammo a parlare di come approfondire il tema del convegno. Eravamo io, lui e il vescovo di Termoli di allora.

Il Cinema Sant'Antonio è stracolmo e tantissime persone purtroppo restano fuori. Il Convegno procede normalmente. Il sunto può essere dato da una sua massima: “La mafia teme la scuola più della giustizia. L'istruzione taglia l'erba sotto i piedi della cultura mafiosa”. Ricordo fece una disamina del fenomeno mafioso, fornì l'orientamento necessario per comprendere i legami che essa intrattiene col mondo politico. Lo guardavo estasiato dalla sua dolcezza nell'esporre le sue tesi, poi disse: “a differenza delle organizzazioni puramente criminali, o del terrorismo, la mafia ha come sua specificità un rapporto privilegiato con le élite dominanti e le istituzioni, che le permettono una presenza stabile nella struttura stessa dello Stato”. E che “La mafia è l'estensione logica e la degenerazione ultima di un’onnicomprensiva cultura del clientelismo, del favoritismo, dell'appropriazione di risorse pubbliche per fini privati”. Terminò il suo intervento con un invito:

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occorre che gli onesti si riapproprino delle istituzioni e della politica! Quest'ultima frase me la ripeté ogni volta che ci incontravamo o che ci sentivamo al telefono.

La cena con Caponnetto e sua moglie Elisabetta Terminato il Convegno, era ormai buio, presi coraggio e chiesi al Giudice Caponnetto se voleva cenare con me e la mia famiglia. Mi aspettavo un secco no anche perché aveva già prenotato un albergo in loco e poi lo aspettavano molte delle autorità presenti. La sua risposta fu: perché no? Ma si deve fare carico anche di mia moglie mi disse sorridendo. Mi mise la mano sulla spalla e mi chiese dove andassimo. Li portai a casa dei miei genitori che rimasero a dir poco disorientati. Vidi lo sguardo di mia madre che se avesse potuto mi avrebbe “giustiziato” in loco senza processo. Fu una cena semplicissima (mia madre da buona pugliese in fretta e furia preparò le orecchiette con i pomodorini fatte con la farina del nostro grano e ricordo furono graditissime dalla coppia), oltre alla mia famiglia c'erano tre magistrati miei amici di lunga data. Le sorprese non finirono li. Dopo cena convinsi il dottor Caponnetto a rimanere a dormire in casa per poi ripartire la mattina presto come era in programma. Credo gli fossi particolarmente simpatico. La nostra casa fu presidiata tutto il tempo. I miei genitori cedettero il loro letto matrimoniale ed io ebbi l'enorme privilegio di passare alcune preziosissime ore con chi creò (sull'insegnamento di Chinnici) il pool antimafia di Palermo.

I nostri dialoghi Parlammo tanto (onestamente non ricordo tutto) e ho memoria del

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fatto che rimarcò molte volte di non smettere di ricordare che Falcone e Borsellino diventarono eroi nazionali soltanto dopo la loro morte. Prima - continuò - sono stati continuo oggetto di veleni, sospetti, maldicenze che, tutte insieme, rafforzarono l’intreccio che portò alla loro fine. Mi confermò che furono spesso accusati di protagonismo, vanità, scarso senso dello Stato. Quando, il 21 giugno del 1989 (attentato dell’Addaura) la polizia ritrovò l'esplosivo in un borsone lasciato nella spiaggia antistante alla villa che Falcone aveva preso in affitto, ci fu chi disse che l’attentato il magistrato se lo era organizzato da solo per farsi pubblicità. Si soffermò sugli attacchi durissimi che Falcone ricevette da Leoluca Orlando e ricordò quando Salvatore (Totò) Cuffaro inveì sempre contro Falcone sostenendo che i discorsi sulla mafia che si stavano facendo erano lesivi della dignità della Sicilia. Si ricordò persino un’intervista di Corrado Augias a Falcone nel corso della trasmissione Babele, nel 1992, pochi mesi prima della morte del magistrato. A un certo punto, una delle ospiti in studio ritiene di poter chiedere candidamente al magistrato: “Lei dice che in Sicilia si muore perché si è soli. Giacché lei è fortunatamente ancora tra noi, chi la protegge?” E Falcone, sconsolato: “Questo significa che per essere credibili bisogna essere ammazzati, in questo Paese?” Mi disse che tutti questi attacchi facevano molto male a Falcone, anche se lui non lo dava a vedere. Mi raccontò della sua mancata nomina, dopo il suo pensionamento, a capo dell’ufficio istruzione di Palermo. Il Consiglio Superiore della Magistratura gli preferì Antonino Meli. Il che era legittimo ma sconcertante non con il senno del poi, ma già con quello che avrebbe dovuto guardare ai risultati del maxiprocesso. Tutto il pool antimafia non riusciva a comprendere come fosse possibile sbagliarsi così tanto su Falcone e Borsellino mentre erano vivi! Su Paolo Borsellino mi raccontò che sapeva di essere nella lista della mafia e che il tritolo per lui fosse già arrivato a Palermo. Mi raccontò che Borsellino aveva chiesto già

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un mese prima della strage alla Questura palermitana di voler disporre la rimozione degli autoveicoli dalla zona antistante all’abitazione della madre. Era affranto e incredulo su questo fatto. Gli domandai della sua frase straziante alle telecamere subito dopo la Strage di via d'Amelio: “È finito tutto!”. Mi rispose che in quel momento avrebbe voluto morire anche lui. Evidenziò il rammarico per quella frase detta in un momento di sconforto e mi disse che quelle parole da allora in poi dovevano essere un motivo in più per farsi coraggio, per riprendere le forze e la speranza, e lavorare sul cambiamento culturale e sulla lotta alla mafia. Caponnetto diventò il primo rappresentante della società civile, girò l’Italia in lungo e in largo per testimoniare nelle scuole la sua esperienza e portare avanti le idee dei magistrati uccisi dalla mafia. Ci sentimmo molte volte, ebbi il privilegio di avere il telefono di casa a Firenze dove se non ricordo male, abitava in Via Baldasseroni e partecipammo insieme ad alcuni incontri soprattutto con gli studenti. Quando ripenso a quei momenti, mi pervade un’enorme sensazione di felicità. Quando il 6 dicembre del 2002 morì in un ospedale fiorentino piansi come quando si perde un familiare. Ancora oggi mantengo la promessa che gli feci e che lui direttamente mi chiese di mantenere. Mi disse: Vincenzo mi devi promettere una cosa... Spero di onorare la mia promessa e mi auguro che da lassù lui mi possa guidare.

Quando Falcone inquisì Vito Ciancimino Falcone era sulle tracce di parte del patrimonio illecito di Vito Ciancimino e il suo obiettivo era quello di confiscargli i beni. Sapeva che una delle misure più efficaci contro la mafia oltre alle indagini patrimoniali fosse anche il sequestro e la confisca dei loro beni. Caponnetto mi raccontò, quasi a mo' di favola, talmente era

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lieve la sua voce, che Falcone aveva scoperto i rapporti tra Ciancimino e alcune banche finalizzati al riciclaggio del denaro sporco. Il “riciclo” consisteva spesso nell’acquisto di immobili all’estero, alcuni dei quali in Canada. Con l'aiuto di alcuni colleghi e delle forze di polizia era riuscito anche a tracciare gli spostamenti di un prestanome che Ciancimino aveva a Palermo. Falcone stava per ordinare il sequestro degli immobili ma fu tradito all’ultimo momento. Causa del tradimento fu un “corvo”, ossia una spia di Ciancimino che, saputo delle intenzioni del magistrato, riuscì ad avvertire per tempo il vero proprietario degli immobili. Questi vendette tutto in fretta e furia, in modo da non poter subire il sequestro. Falcone - sempre secondo Caponnetto spesso, quando lui era a capo del Pool, era solito dirgli che se le indagini si fossero svolte secondo le previsioni e senza traditori anche all'interno del palazzo di Giustizia, un gran numero d’immobili non solo di Ciancimino ma anche di altri importanti mafiosi sarebbero stati sequestrati proprio a causa della loro origine illecita. Falcone, ma anche lo stesso Caponnetto, spesso parlò anche d’intrighi tra la massoneria con alcuni pezzi delle istituzioni. Questo secondo lui certificava il potere che la mafia possedeva anche in quel periodo estremamente difficile.

Il rapporto tra Falcone e Buscetta Tra le tante cose di cui parlai con Antonino Caponnetto vi fu anche la figura del pentito Tommaso Buscetta e il rapporto che con lui ebbe Giovanni Falcone. Per onore di verità, mi disse Caponnetto, Falcone riteneva che Buscetta non si pentì mai, sebbene le sue confessioni furono oro colato e che grazie alle sue dichiarazioni riuscì a decifrare i codici di mafia fino a quel momento ignoti. Falcone riteneva che il primo vero pentito di mafia fosse stato un

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certo Leonardo Vitale che nel lontano 1973 con gran coraggio denunciò alla polizia Totò Riina, Bernando Provenzano, Michele Greco e Vito Ciancimino. Tommaso Buscetta, invece, non si pentì rispetto ai crimini commessi, piuttosto prese le distanze dall'organizzazione mafiosa di cui faceva parte e di cui non riconosceva più il modus operandi. Prese le distanze da quello che la mafia era diventata con i Corleonesi di Riina, non dalla mafia di cui lui aveva fatto parte.

Falcone lo “apprezzava” poiché la guerra tra fazioni mafiose e la vendetta trasversale attuata dai Corleonesi colpì un fratello, un genero, un cognato e quattro nipoti. Anche due dei suoi otto figli, inoltre, furono vittime della cosiddetta “lupara bianca”, cioè sparirono per non venire mai più ritrovati. Quando arrivai io – mi raccontò Caponnetto – scelsi i magistrati con la maggiore esperienza maturata in campo di processi alla mafia per metterla al servizio della lotta alla criminalità organizzata e spianai la strada a Giovanni Falcone che stimavo e apprezzavo per il suo valore e la sua dedizione al lavoro di squadra. Secondo Caponnetto, Buscetta scelse la strada della collaborazione perché vedeva in Falcone un confessore, un uomo che ispirava fermezza e autorità, un uomo che meritò e conquistò il rispetto del “pentito-non-pentito” Buscetta. Nel 1984 il giudice Falcone volò in Brasile per l'estradizione in Italia di un criminale e ne tornò con un pentito

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eccellente. Le prime parole che si scambiarono Falcone e Buscetta da “collaboratori” furono queste, dirette dal pentito al giudice: “L'avverto, signor giudice. Dopo quest'interrogatorio lei diventerà forse una celebrità, ma la sua vita sarà segnata. Cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. Non dimentichi che il conto con Cosa Nostra non si chiuderà mai. E' sempre del parere di interrogarmi?”. Falcone non ebbe paura, andò avanti, capì e rimase del parere di interrogare Buscetta. Ascoltò per mesi le sue confessioni senza che nulla si sapesse all'esterno, questo era il patto di fiducia stretto con “don Masino” spesso lo chiamava così. Falcone pose le basi per la più proficua e onesta collaborazione mai avvenuta tra Stato e criminalità organizzata rimarcando sempre che prima di Buscetta si aveva una visione superficiale della mafia. Dopo di lui la mafia ebbe dei nomi, dei volti, delle gerarchie, delle famiglie, dei capi mandamento, dei capi famiglia, dei giuramenti, delle regole, dei simboli, dei codici. La mafia, in Sicilia, aveva un nome, quel nome era “Cosa Nostra”. Falcone disse di Buscetta che fu come un professore che gli insegnava una lingua straniera permettendogli di comunicare con le parole e non più con gesti scimmieschi. Dopo la morte di Falcone, Buscetta lo ricordò così: “Era il mio faro, ci capivamo senza parlare. Era intuito, intelligenza, onestà e voglia di lavorare. Io godevo a parlare con lui”.

La morte di Ninni Cassarà Uno dei poliziotti che Falcone adorava per il suo fiuto e la sua dedizione al lavoro investigativo era Ninni Cassarà. Così mentre eravamo vicini al caminetto di casa mia che ardeva a gran forza (era un focolaio dei primi del novecento, enorme) chiesi a Caponnetto di Ninni Cassarà. Ricordò il suo corpo disteso a terra,

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coperto in un lenzuolo bianco in un lago di sangue e ricordò la faccia di Giovanni Falcone. Laura, sua moglie, solo lei, accovacciata sulle scale accanto al corpo di suo marito ormai esanime.

Mi disse che Ninni Cassarà, così come Beppe Montana, Calogero Zucchetto, Roberto Antiochia e molti altri, erano poliziotti in prima linea. Ragazzi di una stagione “straordinaria”, che non si ripeté mai più. Quella mafia che ammazzava e faceva affari, doveva essere contrastata e loro sapevano quello che facevano e gli piaceva farlo. La sensazione che ebbi io, ma anche Falcone e Borsellino, fu che con la morte di Cassarà si fosse alzato il tiro. Ricordò le parole famose di Beppe Montana: “A Palermo siamo poco più d’una decina a costituire un reale pericolo per la mafia. E i loro killer ci conoscono tutti. Siamo bersagli facili, purtroppo. E se i mafiosi decidono di ammazzarci possono farlo senza difficoltà”. Era nella logica di Cosa Nostra ammazzare i poliziotti bravi e inavvicinabili. Antonino Cassarà, detto Ninni, commissario di Palermo, fu uno di questi.

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La morte di don Pino Puglisi Dopo le stragi in cui morirono Falcone e Borsellino un altro assassinio in terra di Sicilia mi colpì molto: quello di don Puglisi. Fu la risposta e il segnale della mafia agli educatori ritenuti pericolosi: “la mafia sarà sconfitta da un esercito di maestri”. Il pentito Gaspare Spatuzza raccontò che don Pino era un uomo che poteva minare le fondamenta del controllo totale sul quartiere di Brancaccio. “Andava per conto suo a risvegliare le coscienze e ad aiutare le famiglie povere, cosa che facevamo anche noi mafiosi verso i bisognosi”.

Il veleno della mafia e il suo antidoto si sfidano ma l'antidoto è molto più potente poiché è una forza semplice e convincente di chi pronuncia parole vissute e le concretizza nella vita di tutti i giorni. Aveva di che disperarsi e rattristarsi, ma sorrideva sempre. Non si trattava di un ottimismo leggero perché poco compromesso con la realtà, ma del sorriso di chi non ignora i problemi e li affronta giorno per giorno nella celebrazione della Messa. Da lì traeva la sua forza quotidiana. Raccontò il suo Vescovo che come Falcone e Borsellino anche lui fosse un lavoratore indefesso. Lavorava con pazienza e costanza, convinto che quel poco avrebbe dato frutto anche in un quartiere come Brancaccio, nel quale portava i ragazzi del liceo a fare volontariato nel Centro pastorale “Padre Nostro”,

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dove faceva studiare e giocare bambini e ragazzi per “restituire la dovuta dignità a chi ne era stato privato”, perché diceva che “la Chiesa può essere edificata solo pregando e studiando, celebrando e discutendo, amando e lavorando”. Nel suo appartamento, dopo l'assassinio, trovarono più di tremila volumi e un poster che amava mettere in evidenza: un grande orologio senza lancette e la scritta “Per Cristo a tempo pieno”. Cercò di evangelizzare un quartiere ad alto tasso mafioso. Era il primo a dare il buon esempio: la mattina del suo omicidio era andato a chiedere l'ennesimo permesso sistematicamente ignorato - al Comune per la costruzione di una scuola media. Il giorno in cui lo uccisero aveva celebrato due matrimoni, aveva preparato alcuni genitori al battesimo dei bambini e aveva incontrato degli sposi che desideravano parlargli, oltre ad aver fatto un po' di festa con alcuni amici, essendo il suo compleanno. Era un prete che faceva seriamente il prete, come Falcone e Borsellino svolgevano seriamente il ruolo di magistrati. Non accettava compromessi e vie facili. Imitare questi uomini significa imitare la loro vita ordinaria, il loro lavoro ben fatto, preparato, anche quando è noioso, la cura dei dettagli, il rifiuto della raccomandazione, della chiacchiera maligna contro gli altri, della lamentela inutile. A noi è chiesto di pagare il biglietto, di non copiare i compiti, non comprare lauree, chiedere lo scontrino, conoscere e collaborare con le istituzioni. Per ricordare questi uomini dobbiamo smetterla di sistemarli su piedistalli che li pongono tanto in alto da renderli irraggiungibili, ma dobbiamo farli scendere per le strade, nelle piazze e nei nostri cuori.

Falcone e Borsellino “prigionieri” Tra le tante storie, che mi raccontò Antonino Caponnetto, ci fu anche l'esperienza al Carcere dell'Asinara. Di notte sbarcarono

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sull’isola Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con le proprie famiglie. Il trasferimento fu improvviso, rapido, non ci fu nemmeno tempo di fare i bagagli, d’altronde la minaccia, intercettata dai Carabinieri, era grave: un attentato contro i due giudici e i loro familiari partito dai vertici di Cosa Nostra. Come capo del Pool antimafia Caponnetto autorizzò il trasferimento.

Era un’estate calda, come non se ne vedevano da tempo, e i due magistrati e le loro famiglie vissero completamente isolati, controllati a vista dalle guardie penitenziarie. Una condizione non facile da sopportare. Lucia, la figlia più grande di Borsellino, non accettò quel “martirio” e dovette essere riportata a Palermo, e Paolo, imponendosi ai suoi superiori, la accompagnò correndo un grave rischio. Quando erano fuori, sentivano spesso cantare una vecchia melodia napoletana e scoprirono poi che a cantarla era Raffaele Cutolo, il capo della Nuova Camorra Organizzata. Trascorsero un mese fatto di notti insonni, di sorrisi, di scherzi, di pensieri, una lunga, inaspettata tregua in attesa di riprendere il lavoro, in attesa che il ministero fornisse le carte per continuare la stesura dell’ordinanza del maxiprocesso. Le carte arrivarono, Paolo e Giovanni ricominciarono a lavorare giorno e notte con ritmi a dir poco sovrumani. Nello stesso modo improvviso in cui erano partiti, così all’improvviso dovettero ritornare a Palermo: il maxiprocesso e la loro orribile fine li attendevano. Assurdo nell'assurdo: ai due magistrati palermitani fu notificata in ufficio una fattura da saldare: 415.800 lire a testa per le bevande

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consumate durante i venticinque giorni all’Asinara. Fu il conto dell’amministrazione penitenziaria, uno dei tanti “regali” dello Stato italiano ai due giudici del pool antimafia.

La morte di Paolo Borsellino Paolo Borsellino è stato ucciso un giorno prima che andasse a rendere noto alla Procura di Caltanissetta quel che sapeva sulle “confidenze” del suo amico Giovanni Falcone e quelli che potevano essere i moventi e l'ambito nel quale Falcone era stato assassinato il 23 maggio del 1992 assieme alla moglie Francesca Morvillo e agli uomini della sua scorta. E' quanto emerge dall'ultimo processo in corso per la strage di Via D'Amelio e dove ha deposto la figlia del magistrato, Lucia Borsellino, la quale ha confermato l'esistenza dell'agenda rossa del padre e il fatto che non è stata mai ritrovata.

Anche Antonino Caponnetto mi disse che Borsellino, dopo la morte di Giovanni Falcone, attendeva con ansia di essere interrogato dai magistrati della Procura nissena, a tal punto che una volta disse pubblicamente: “io qui non vi posso dire nulla, ciò che ho da dire lo dirò ai magistrati competenti”. Chi sapeva che Paolo Borsellino il giorno dopo sarebbe andato a raccontare la sua

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verità sulla morte del collega e amico fraterno Giovanni Falcone? Una talpa che sapeva che quel 19 luglio Borsellino sarebbe andato a trovare la madre e che il giorno dopo sarebbe andato a testimoniare a Caltanissetta? Interrogativi che si aggiungono agli altri tanti interrogativi e depistaggi che ruotano attorno alla strage in cui fu ucciso Paolo Borsellino che la Procura di Caltanissetta cerca di risolvere con molte difficoltà. Che Borsellino avesse tante cose da dire sulla morte del suo amico Giovanni Falcone, lo aveva preannunciato il 19 giugno del 1992 quando nell'atrio della biblioteca comunale di Palermo partecipò ad un dibattito pubblico. In quell'occasione Paolo Borsellino profferì le seguenti parole: “In questo momento, oltre che magistrato, io sono testimone, perché avendo vissuto a lungo la mia esperienza di lavoro accanto a Giovanni Falcone, avendo raccolto come suo amico tante sue confidenze, prima di parlare in pubblico, anche delle opinioni e delle convinzioni che io mi sono fatto raccogliendo tali confidenze, questi elementi che io porto dentro di me, debbo per prima cosa assemblarli e riferirli all'autorità giudiziaria (la Procura di Caltanissetta), che è l'unica in grado di valutare quando queste cose che io so possono essere utili alla ricostruzione dell'evento che ha posto fine alla vita di Giovanni Falcone, e che soprattutto, nell'immediatezza di questa tragedia ha fatto pensare a me, e non soltanto a me, che era finita una parte della mia e della nostra vita”. E che Paolo Borsellino il giorno dopo la sua morte sarebbe andato a testimoniare sull'inchiesta per la strage Falcone l’ha confermato l'allora Procuratore aggiunto di Caltanissetta, Francesco Paolo Giordano, adesso Procuratore di Siracusa dichiarandolo anche a un’udienza del processo.

Giovanni Falcone e Francesca Morvillo

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L'ultima cosa che ricordo chiesi a Caponnetto prima di andare a dormire riguardò l'amore tra Falcone e Francesca Morvillo. Mi sorrise, per un attimo fu titubante e poi mi raccontò che le ultime parole di Francesca, agonizzante in ospedale dopo l’attentato furono: “Dov’è Giovanni?”. Mi disse che loro due si conobbero e s’innamorarono subito a casa di amici e che la loro storia d’amore non è stata fra le più semplici poiché condannati dalla mafia a non poter restare mai da soli, a dover condividere ogni momento d’intimità con gli agenti della scorta, perfino quello della morte. Ma soprattutto condannati a vivere lontani, lui a Roma e lei a Palermo, insieme solo in quei fine settimana blindati, senza poter andare a cena fuori insieme, a cinema, a teatro o a passeggiare abbracciati sul lungomare siciliano. Nonostante ciò si sentivano spessissimo al telefono e passavano qualche week end insieme. Lei andava a prenderlo all’aeroporto con l’auto blindata e si ritagliavano una normalità.

Talvolta uscivano in barca in mare aperto poiché Falcone era diplomato all’accademia navale e con la barca a vela si divertiva molto. A volte avevano una serata a teatro, o al cinema, o a cena fuori. Falcone a Palermo adorava mangiare il pesce. Si raccontavano ogni cosa del tempo trascorso lontani l’uno dall’altra. Insieme, fino e oltre la morte. Quando penso a loro due mi viene in mente un passo della Divina Commedia che ho sempre adorato: “Amor, ch'a nullo amato amar perdona, mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m'abbandona”. Il loro amore è di tale intensità, che anche dopo la morte resiste

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ancora.

L'incontro con Maria Falcone Pochi mesi dopo la morte di Giovanni Falcone, presi contatto con la sorella Maria e ci incontrammo a Roma, dove era invitata a un convegno per ricordare la memoria del fratello. Le dissi dell'associazione che avevamo creato in Molise e le chiesi la firma per diventarne ufficialmente il presidente onorario: accettò. Poi parlammo un po' e mi disse della grande paura per le prime inchieste delicate del fratello soprattutto da quando iniziò a lavorare con Rocco Chinnici che gli affidò alcune delle più complicate inchieste di mafia. Una volta glielo dissi pure: "Giovanni ma chi te lo fa fare?" E lui le rispose: "Si vive una volta sola". Così come Caponnetto anche Maria Falcone mi confermò che il fratello soffriva per i continui attacchi dei colleghi. Lo faceva stare male l'invidia che sentiva attorno a se. Ma ha sempre avuto un alto senso del dovere e per questo non ha mai esitato ad andare avanti. Amava tantissimo una frase di Kennedy, trovata scritta in un aeroporto: “Occorre compiere sino in fondo il proprio dovere, costi quel che costi, perché nel compimento del dovere sta la radice della dignità umana di ciascuno” e su questi ideali ha improntato la sua vita, pur consapevole che lo avrebbe portato alla morte. Ciò che più temeva era che con la sua morte tutto sarebbe finito e che nessuno avrebbe più portato avanti le sue idee. La sua morte, invece, ha quasi stanato le complici omertà costringendo la gente a schierarsi, o con lui e il suo senso della giustizia e delle regole, o con i mafiosi. Grazie a lei portai in Molise Caponnetto e tanti altri illustri personaggi dell'antimafia.

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Il ricordo di Giuseppe Costanza Giuseppe Costanza, l’autista di Giovanni Falcone negli ultimi otto anni di vita del magistrato, dal 1984 fino al 23 maggio 1992, era a Capaci a bordo della macchina guidata da Falcone e saltata in aria. La sua testimonianza resa agli studenti di Portocannone con la Scuola di Legalità l'8 ottobre 2016.

I ragazzi gli chiedono un ricordo del “dottore” così lo chiamava lui e comincia a raccontare. Ci dice subito che una settimana prima di Capaci il dottor Falcone gli disse che sarebbe stato nominato di lì a breve procuratore nazionale antimafia. Lo disse con grande gioia e soddisfazione e con il suo solito sorriso. Ho pensato subito – continua Costanza – che se lui avesse avuto quell'incarico ci sarebbe stata una rivoluzione. Sempre Falcone gli disse che all'Antimafia avrebbe avuto il potere, in caso di conflitti tra Procure, di avocare a sé i fascicoli e che con questi e altri poteri che avrebbe potuto avere, la mafia poteva essere combattuta efficacemente. Ci racconta poi che Falcone gli chiese di preparare una Fiat Uno per potersi muoversi liberamente, senza scorta, nella capitale. Dopo Capaci mi sono fatto questa domanda: “se volevano colpirlo potevano farlo lì, senza tutta la sceneggiata di Capaci. Perché Capaci?” Lui un'idea c'è l'ha: non si tratta solo di una strage

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di mafia! Ci ricorda che il 23 maggio del 1992 Falcone lo chiamò a casa, alle 7, e gli comunicò l'orario di arrivo. Lui allertò la scorta. “Solo io e la scorta in teoria sapevamo del suo arrivo”. Falcone, sceso dall'aereo, mi chiese di guidare, era davanti con la moglie mentre io ero dietro. All'altezza di Capaci gli dissi che una volta arrivati mi doveva lasciare le chiavi della macchina. Lui istintivamente le sfilò dal cruscotto, facendoci rallentare. Lo richiamai: “Dottore, che fa, così ci andiamo ad ammazzare”. Lui rispose: “Scusi, scusi” e reinserì le chiavi. In quel momento, l’esplosione. Non ricordo altro. Dallo sconforto del racconto (commosso) ci dice: “ragazzi credetemi, era meglio morire”. Avrei fatto parte delle vittime che sono ricordate ma che non possono parlare. Io invece posso farlo e sono scomodo. Continua a raccontarci dei presunti “amici di Falcone” di oggi che allora non esistevano affatto e ci ribadisce che gli unici suoi veri amici erano quelli del pool antimafia. Per il resto attorno a lui c'era una marea di colleghi invidiosi. Attorno a lui era tutto un chiacchiericcio. Io lo ricordo come un motore trainante, un caterpillar. Lui viveva in ufficio, più che altro, e quando il personale aveva finito il turno girava con il carrello per prelevare i fascicoli e studiarli. Questo era Falcone. A volte raccontava barzellette, scendeva al nostro livello, come dico io. Però sapeva anche mantenere le distanze. Ormai il 23 maggio mi chiudo in casa e non voglio saperne niente. Vedo personaggi che non c'entrano nulla e parlano, mentre io che ero a Capaci non sono nemmeno considerato. Questa cosa mi fa ancora male.

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L'educazione alla legalità entra nella mia vita Dopo la lettera di Falcone che illuminò il mio cammino, arrivarono le prime soddisfazioni. Nel 1994 vinsi una borsa di studio per la specializzazione biennale al Consiglio Nazionale delle Ricerche di Bologna presso l'Istituto di Ricerca sui Sistemi Giudiziari diretto dal Prof. Giuseppe Di Federico. Approfondii molti temi riguardanti l'organizzazione giudiziaria e la lotta al crimine organizzato. Un anno prima nella nascente Facoltà di Giurisprudenza del Molise avevo vinto il concorso per titoli riguardante la docenza a contratto di diritto penale. Fui il più giovane professore a contratto d'Italia per quell'anno. Non vi fu mai lezione in cui la lotta alle mafie e le figure di coloro che le lottarono pagando con la loro vita non fossero parte integrante dei nostri dialoghi e confronti in aula. Ricordo che spesso organizzavamo seminari estivi fuori dall'Università in paesini di montagna spopolati per la fuga dei giovani in terre del nord. In particolare ne ricordo uno tenuto a Pescopennataro paesino di circa trecento anime in provincia di Isernia in mezzo ad un bosco in prossimità di un ruscello con un’acqua imbevibile tanto era fredda. Eravamo una ventina di ragazzi, parlammo di legalità, di corruzione e di lotta al crimine organizzato. Ricordo che partimmo proprio da un pensiero di Giovanni Falcone: “La mafia non è affatto invincibile; è un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio e avrà anche una fine. Piuttosto, bisogna rendersi conto che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni”. Poi, con i ragazzi quasi sbigottiti citai un certo Giorgio Gaber parlando di libertà intesa come partecipazione e di legalità

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intesa come impegno personale. La legalità rimarcai ai ragazzi attenti e silenziosi è un'esigenza fondamentale della vita umana per promuovere il pieno sviluppo dell'individuo e il perseguimento del bene comune. La legalità non è un valore in quanto tale: è un percorso che parte dal singolo per arrivare alla collettività. Le regole funzionano se incontrano persone consapevoli, responsabili, capaci di distinguere, di scegliere, di essere coerenti con quelle scelte. Il rapporto con le regole non può essere solo di adeguamento, tanto meno di convenienza o paura. La regola parla a ciascuno di noi, ma non possiamo circoscrivere il suo messaggio alla sola esistenza individuale: in ballo c'è il bene comune, la vita di tutti, la società. L'educazione alla legalità si colloca allora nel più ampio orizzonte dell'educarci insieme ai rapporti umani, con tutto ciò che questo comporta: capacità di riconoscimento, di ascolto, di reciprocità, d'incontro, di accoglienza. La cultura e la conoscenza sono il cibo di cui si nutre la legalità. Ricordai loro cosa mi aveva detto Caponnetto in più occasioni. Il suo impegno per la giustizia non è finito con la carriera di magistrato. Dopo essere andato in pensione, ha iniziato a girare l'Italia per dare voce a una memoria da trasformare in impegno, e trasmettere ai giovani il senso di una legalità da costruire a partire dalle nostre scelte quotidiane, dalle piccole cose. Conclusi con una frase mia: “Se vogliamo lottare il crimine e fare della legalità la nostra ragione di vita il segreto è il nostro impegno personale”. Quel giorno resta indelebile nella mia memoria ed ebbi una grande soddisfazione alcuni anni dopo: una di quelle ragazze si laureò con me discutendo la tesi sul riciclaggio di denaro sporco e oggi è un apprezzato magistrato. Mia figlia Isabella di soli sei anni ha vissuto con me tante esperienze legate alla legalità ed è felice di avere sei nonni: quelli paterni, quelli materni e Falcone e Borsellino. Li riconosce appena li vede, dall'età di tre anni, e quest'anno per la prima volta ha potuto appendere nell'Albero Falcone, grazie alla Fondazione di Palermo, un suo disegno

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raffigurante i due magistrati inseparabili.

Gli scritti in memoria di Giovanni Falcone La morte di Falcone è ancora viva nel mio cuore e allora con gran forza d'animo decido di intraprendere un progetto molto ambizioso e difficile da realizzare: coordinare un insieme di scritti in memoria del giudice assassinato. Siamo nel 1996. Estendo gli inviti a tantissime persone, colleghi, amici e esperti della materia. I primi a rispondere furono Francesco Saverio Borrelli, Procuratore Capo della Repubblica di Milano (mente di Mani Pulite); Giuliano Vassalli, Presidente emerito della Corte Costituzionale e amico di Falcone in vita; Ettore Gallo, Presidente emerito della Corte Costituzionale; Pino Arlacchi, all'epoca Segretario Generale Aggiunto dell'ONU, amico e diretto collaboratore di Falcone; Gianni De Gennaro, all'epoca Capo della Polizia e diretto collaboratore di Falcone; Ferrando Mantovani, Ordinario di diritto penale a Firenze, uno dei maggiori penalisti viventi; Luigi Conti, Presidente della Corte di Appello di Torino e allievo di Antolisei. Quando chiusi il gruppo di lavoro, rilevai due fatti: il primo, la felicità nel dedicare alla memoria di Falcone alcuni scritti unici e sentiti profondamente dagli autori; il secondo, l'alto numero di rinunce con le scuse piÚ grossolane. Ricordo ci fu una persona, che

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ritenevo fosse amico di Falcone, ma poi grazie ad amici scoprii che non lo era affatto, che mi disse di non poter partecipare perché doveva aiutare il figlio a elaborare la tesi di laurea. Il lavoro vide la luce un anno dopo sia in cartaceo sia nella versione telematica. Fu un successo con oltre 5000 copie, in gran parte regalate e circa 100.000 download.

Il Centro Studi e Ricerche “Giovanni Falcone” Era il 1993, io, un sacerdote, don Giuseppe de Virgilio, tre magistrati, la dr.ssa Margiolina Mastronardi, il dr. Liberato Paolitto, la dr.ssa Viranna Antonelli e un commissario di Polizia, la dr.ssa Augusta di Giorgi, fondiamo questo Centro per ricordare la memoria di Giovanni Falcone. L'associazione culturale lavorerà per quasi vent'anni. I primi dieci con grandissimi risultati. Maria Falcone sarà il Presidente onorario e grazie a lei potemmo realizzare tante iniziative di alto spessore culturale. In quasi tutte le manifestazioni ci fu sempre la presenza delle scuole. Tra i partecipanti alle nostre iniziative culturali all'insegna della legalità ci furono grandi personalità come Giuliano Vassalli che ci parlò del ruolo della pena e dell’idea di rieducazione del condannato; Ettore Gallo, che ci fece una memorabile lezione sulla Costituzione italiana; Giancarlo Caselli che ci parlò di lotta al terrorismo e alla criminalità organizzata; il giudice Antonino Caponnetto, che ci incantò con le sue teorie sulla lotta alle mafie; Massimo Severo Giannini, che ci parlò del ruolo della pubblica amministrazione nello Stato di diritto e tantissime altre persone. Grazie all'impegno di tutti almeno per una decina d'anni, fino al 2002 il nostro Centro portò l'educazione alla legalità in tutta la società civile dell'epoca con particolare predilezione verso i giovani.

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La mia missione: l'insegnamento Insegnare è un lavoro bellissimo, ogni volta che inizio una lezione di diritto penale mi rendo conto che non è un lavoro ma un arricchimento personale che non cambierei con nient’altro al mondo tanto che completa e realizza la mia voglia di comunicare con l'altro. Proprio quando parliamo dell'uomo, del crimine, della pena, delle regole, mi rendo conto di essere un riferimento per le giovani generazioni. Caponnetto mi rimarcava sempre quanto ci fosse bisogno d’insegnanti capaci di dare un senso alla scuola, allo studio e alla cultura, senza ridurre tutto alla sola trasmissione di conoscenze pragmatiche ma puntando a costruire una relazione con ciascuno studente, che deve sentirsi parte di un progetto culturale.

Ho sempre lavorato in questa direzione insegnando non solo i contenuti di una materia, ma anche i valori della vita e della persona umana. Ho provato a far comprendere quali sono i valori che creano vivibilità nella società civile, educando alla legalità e facendo rifiutare il puzzo del compromesso. Il mio è stato ed è tuttora un impegno con il futuro di ogni studente, un impegno per la loro libertà, per la loro coscienza, per la loro formazione. Gli

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ostacoli sono stati tantissimi ma ho sempre cercato di dare ai ragazzi la possibilità di scegliere consapevolmente. Sono stato spesso isolato dall'ambiente accademico ma ho sempre avuto il supporto degli studenti e dei loro genitori con cui sono riuscito non di rado a condividere il mio lavoro educativo costruendo in alcuni casi relazioni umane durature, perché i ragazzi oggi hanno bisogno di esempi, di riferimenti, di umanità. Per quanto ho potuto ho cercato di dar loro i riferimenti tra le vittime della criminalità organizzata. Ho svolto le mie lezioni, affrontando sempre i problemi che s’incontrano nel quotidiano. Ho cercato di far comprendere che la legalità chiama in causa la responsabilità individuale e quella collettiva nella miriade di azioni quotidiane e di scelte che ognuno di noi si trova a compiere. Il mio compito è stato proprio quello di sollecitare la partecipazione e la discussione. Per uscire da un circuito d’illegalità, a volte è sufficiente prendere coscienza di quanto ci ruota intorno, essere vigili su dinamiche che ci appaiono poco chiare, non tacere, interrogarsi, far sentire la propria voce, non essere passivi, la criminalità organizzata va costantemente alla ricerca del consenso tanto che ogni giorno si sente qualcuno dire che le mafie, in fondo, danno lavoro dove lavoro non c’è. Nulla di più falso. Le mafie da qualsiasi prospettiva si analizzino sono e restano il male assoluto.

Scrivo di nuovo a Giovanni Falcone Dopo cinque lustri, nel mio cuore si accende una spia che segnala al cervello il seguente diktat: devi scrivere di nuovo una lettera al giudice Falcone. Non ci penso due volte e comincio: Caro Giudice Falcone, sono passati quasi ventiquattro anni dall’ultima volta che le scrissi e oggi come allora, sento la necessità e soprattutto ritrovo lo spirito per scriverle nuovamente. Purtroppo, so già che questa

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volta non potrà rispondermi perché è stato barbaramente assassinato per colpa di chi non ha saputo o non ha voluto proteggerla! Nella sua lettera di risposta, allora, mi scrisse una frase che ha lasciato un segno indelebile nella mia esistenza: ”Continui a credere nella giustizia, c’è tanto bisogno di giovani con nobili ideali”. Avevo ventiquattro anni, ho seguito il suo invito e ho iniziato a parlare di legalità e di giustizia ai giovani. Era il lontano 1992. E’ stato fino ad oggi un viaggio entusiasmante che mi ha fatto incontrare una moltitudine di studenti grazie anche ai miei incarichi d’insegnamento nelle Università italiane. Ho vissuto in quegli anni, orrendi e meravigliosi al tempo stesso, un clima sano, insegnando a ragazzi spensierati che si volevano bene, che amavano la giustizia e che erano felici di voler conoscere e approfondire la realtà che li circondava. Il clima di cui parlo era quello della “Primavera di Palermo” dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Vibravano nell’aria ancora le sue idee e quelle del suo migliore amico, Paolo Borsellino. Oggi mi sento soddisfatto – anche se in solitudine e tra mille ostacoli – nel continuare a portare avanti una straordinaria battaglia di civiltà, di giustizia, di verità e di moralità, affinché le nuove generazioni possano formarsi una coscienza libera da pregiudizi, ragionando autonomamente, evitando di diventare schiavi della falsa informazione e avendo voglia di ribellarsi alle ingiustizie. Ho fondato una Scuola di Legalità intitolata a don Peppe Diana, un sacerdote di Casal di Principe brutalmente ucciso dalla camorra probabilmente per gli stessi motivi per i quali hanno ucciso lei. Mi auguro, con questo nuovo progetto educativo, di poter rivivere anche con i giovani d’oggi una nuova rivoluzione culturale come quella che negli anni novanta ci fu a Palermo. Da molto tempo sento nel mio cuore un forte impulso che m’induce a doverle chiedere profondamente scusa per ciò che è accaduto dopo la sua morte. Per i nostri politici che dicendo di agire nel suo nome, stanno facendo ciò che lei non avrebbe neanche lontanamente immaginato di fare. Per l’omertà,

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per i silenzi, per le complicità che ancora esistono. Per il totale immobilismo dello Stato che sembra voler cambiare tutto per poi non cambiare assolutamente nulla. Per la demolizione della nostra Costituzione, della scuola, della giustizia, della lotta alla mafia, alla quale, lei e Borsellino avete dedicato buona parte della vostra vita sacrificando gli affetti più cari. Nonostante queste situazioni, a dir poco drammatiche, le confermo che continuerò senza sosta a portare avanti il mio impegno. Forse sembrerà banale ma ciò che provo nel mio cuore in questi giorni sento di volerlo condividere con lei. Non ho mai ritenuto che fosse un eroe, perché credo sia triste un Paese che abbia bisogno di eroi, ma certamente è un esempio da seguire, per me, per i miei figli e spero anche per le nuove generazioni.

Manterrò fede a ciò che promisi al giudice Antonino Caponnetto: “… lottare per una Nazione diversa, all’insegna della verità, della legalità e della giustizia, non restando a guardare ma educando, soprattutto i più giovani, ai valori sani del rispetto, dell’onestà e della dignità”. Per onorarla come merita, dobbiamo stare dalla parte della legge e camminare a testa alta, lontani dalla corruzione e vicini al senso del dovere. Grazie, per non essersi mai arreso e per aver fatto il suo dovere fino in fondo. Spero tanto di poterle riscrivere tra venticinque anni e dirle che la mafia non esiste più, purtroppo, con grande rammarico devo dirle che oggi è più forte di prima e come aveva previsto, è al potere in simbiosi con la politica. In tutta questa melma che circonda l’Italia, tuttavia, le

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confesso che pensando a lei e al suo sacrificio, sono ancora fiero di essere italiano. Con grande affetto e immutata stima. Vincenzo Musacchio.

Nasce la Scuola di Legalità “don Peppe Diana” Fondare una Scuola di Legalità dopo oltre vent’anni di insegnamento universitario è stata un’esigenza morale, costruita sulla necessità di mettere a disposizione degli studenti, strumenti di sostegno e di complemento per percorsi di educazione alla legalità, all’etica pubblica, alla giustizia e alla cittadinanza attiva. Due sono i motivi che ne hanno determinato la nascita: dimostrare ai ragazzi con i fatti che attraverso l’impegno, lo studio e la conoscenza sia possibile lottare consapevolmente le illegalità; proporre percorsi formativi, attraverso i quali edificare le basi di un serio e articolato impegno per promuovere i valori della verità e della giustizia. L’azione della nostra Scuola si rivolge a tutti gli studenti, partendo dalle scuole elementari sino all’Università, promuovendo analisi collegate alla conoscenza consapevole delle mafie, della corruzione, dell’evasione fiscale e di qualsiasi altra illegalità.

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Avvicinare il mondo della scuola a questi temi può favorire concretamente l’impegno civile di molti giovani, ponendo le basi per azioni coscienti da parte degli stessi contro le mafie. E’ necessario che i nostri ragazzi prima conoscano le problematiche legate alla criminalità e poi ne discutano con intento costruttivo contrapponendosi consciamente all’illegalità. La nostra Scuola, nel nome di don Peppe Diana, vuole formare ragazzi che non solo rispettino le regole del vivere civile, ma contribuiscano a far crescere e realizzare, una società diversa, più consapevole, più responsabile e più giusta. Stiamo investendo energie e risorse per divenire riferimento serio e duraturo di lotta alla criminalità organizzata e alle illegalità in generale. Era l'8 novembre del 2014 a Termoli nella totale assenza di autorità politiche e religiose, tranne due parroci parte del progetto, nacque la Scuola di Legalità intitolata a don Giuseppe Diana. La sede operativa iniziale fu la Chiesa del Carmelo in Termoli dove il parroco don Ulisse Marinucci entusiasta dell’idea e del progetto ci offrì massima disponibilità. Se non ci fosse stato lui, la Scuola non avrebbe avuto una sua sede. Oggi la Scuola è itinerante. L'obiettivo è quello di andare in tutti i Comuni e le Scuole d'Italia che appoggeranno la nostra idea e il nostro progetto. Parleremo degli uomini e delle donne che hanno lottato, combattuto e perso la vita per il trionfo della legalità. Ero e sono fermamente convinto che la nostra società vive una profonda crisi culturale e di valori, a fronte di questa difficile situazione una delle risposte può essere proprio l’idea di una Scuola di Legalità. Queste lezioni serviranno a socializzare, a condividere e sviluppare riflessioni progettando e realizzando azioni concrete per innalzare di nuovo il vessillo della legalità da troppo tempo ammainato. Siamo coscienti che la ricostruzione e la diffusione della cultura della legalità devono tornare ad essere una priorità. Offriremo ai nostri ragazzi gli strumenti culturali per capire le radici della crisi dei valori e per tracciare le ragioni e le modalità di un possibile e realistico

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cambiamento che rivaluti il valore della legalità anche come “modus vivendi”. Vogliamo provare anche a svolgere una funzione morale e politica fondamentale: trasformare l’informazione in responsabilità. Condurre la persona a “essere responsabile” davanti alla società che lo circonda. L’impresa è ardua ma sono certo che la speranza sia un rischio da correre. Presidente onorario della Scuola eletto all'unanimità è il giudice Antonino Di Matteo.

La prima lezione: l'omicidio di don Giuseppe Diana Ancora una volta la sala è gremita di ragazzi delle scuole medie e dei licei di Termoli, molti cittadini restano fuori. “Ricordo che andai in parrocchia verso le sette. Don Peppe era già arrivato, stetti con lui una mezz'oretta e dopo aver parlato del territorio e di quello che era successo pochi giorni prima (avevano ammazzato l’operatore ecologico) chiesi a don Peppe: ma dopo il documento e queste battaglie che dobbiamo fare?”. “Lui disse che dovevamo pregare”. Sono queste le prime parole di Augusto Di Meo che a Termoli è intervenuto nella prima lezione della Scuola di Legalità. Il testimone oculare dell'omicidio di don Peppe Diana, condivide con noi in esclusiva quei momenti che lo videro protagonista di un evento che ha cambiato le sorti di una terra, delle lotte sociali e dell’Italia. “Chiuse l’ufficio e si avviò verso la chiesa – ha ricordato – perché doveva celebrare messa; restai dietro di lui nel corridoio perché mi stavo allacciando una scarpa. Arrivò un signore accompagnato dal sagrestano che chiese chi fosse don Peppe Diana; don Peppe disse: “sono io” e questa persona sparò cinque colpi in faccia in rapida successione. Lui cadde subito a terra, me lo trovai quasi addosso. Lo chiamai ma da lì a poco c’era sangue dappertutto.

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Ebbi però la prontezza di alzare gli occhi verso la porta della chiesa e di fare una fotografia a questo signore; poi andai in caserma a denunciare quanto era successo. Non ebbi il coraggio di girare la faccia dall'altra parte, a don Peppe glielo dovevo, era una persona impegnata sul versante anti-camorra. Da quel momento è cambiata la storia di Casal di Principe. Il valore della mia testimonianza fu enorme e portò all’arresto dei killer e dei mandanti, anche se sono dovuto stare quattro anni fuori dalla Campania, con tutta una serie di problematiche. Ad ogni modo non ho dubbi: rifarei tutto. Penso ci sia da fare ancora molto, soprattutto lavorare sui giovani perché nelle nostre zone, dopo il modello Caserta, è necessario comprendere che bisogna cambiare la mentalità altrimenti ci ritroviamo un’altra volta allo stesso punto di prima. Il tempo è tanto e ci darà ragione perché la gente sta iniziando a cambiare mentalità. Oggi c’è la consapevolezza che i camorristi ci hanno rovinato in più questioni, dai rifiuti a tanto altro e le conseguenze sono che in una casa sì e nell’altra pure c’è un tumore”. “Credo – ha concluso – che questa iniziativa (riferito alla Scuola di Legalità) sia molto positiva per far capire il valore della testimonianza. Parliamo del 1994 quando c’era gente latitante che passeggiava liberamente e da allora ho avuto tanto tempo per riflettere. Com’è possibile che uno entra in una chiesa a volto scoperto e spara a un sacerdote. Questo mi ha fatto riflettere perché è successo nel giorno del suo onomastico proprio come don Puglisi nella giornata del suo compleanno a Palermo. Don Peppe meritava la mia denuncia contro i suoi assassini. Sono certo che la

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camorra si può sconfiggere e come diceva Falcone: “questo è un fenomeno ha un inizio e una fine”, però, questa fine gliela dobbiamo far fare tutti quanti noi uniti. L'unione fa la forza in questi casi e non dobbiamo mai dimenticarcelo.

Gli altri incontri della Scuola di Legalità Sono passati come relatori tante personalità della lotta alle mafie. Il generale Antonio Cornacchia, che ha vissuto in prima persona il delitto Moro, ci ha ricordato che è stato un grande statista. “Noi dovremmo andare fieri e orgogliosi di lui. Sono stato sempre convinto che ai suoi tempi non è stato capito a dovere”. Sulla trattativa mafia-Stato il generale ci disse che secondo lui c’era stata e vi erano prove evidenti. Il momento più emozionante di tutti però è stata la consegna di una targa alla memoria di Giulio Rivera, poliziotto della scorta di Moro e molisano. Il nipote che ha ritirato il riconoscimento, anch’egli oggi poliziotto si è commosso insieme a tutti i presenti sotto un applauso lunghissimo. Momenti indimenticabili sotto il profilo emotivo. Sono stati con noi Antonino Di Matteo e Salvatore Borsellino in audio conferenza. Sarebbe dovuta intervenire Elena Fava, figlia di Pippo Fava, ma purtroppo proprio in quel periodo è venuta a mancare. Poi la figlia del generale Dalla Chiesa, Simona, con i ragazzi delle scuole elementari e medie. “Arrivato a Palermo – ha narrato Simona Dalla Chiesa – fu il primo Prefetto che scelse come suoi interlocutori gli studenti.

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Non ebbe il tempo di coltivare questo magnifico rapporto con i più giovani. Fu ucciso un mese dopo. Il tempo, però, che gli fu sufficiente per seminare. Per la prima volta, infatti, gli studenti iniziarono a ribellarsi, organizzando fiaccolate in sua memoria e in favore della legalità, gemellandosi con gli istituti scolastici della Penisola”. “Il mio messaggio è quello della speranza – ha affermato ai giovani scolari – nonostante ci sia ancora tanto marcio nella politica e nell’economia. Se, però, penso al silenzio di trenta anni fa e al fatto di parlare di un argomento così delicato con gli studenti, possiamo ben dire di aver fatto passi da gigante. Conoscere e informarsi sono le prime tappe per il vostro cammino verso la legalità. La cultura vi permetterà – rivolgendosi alla platea – di non piegarvi a nessuno e agire sempre secondo legalità”. “Il generale Dalla Chiesa – ha proseguito la terzogenita – ha contribuito ad annientare il terrorismo degli anni ’70, in un momento in cui nessuno più credeva di poterci riuscire. La mafia, però, vive ancora, perché ha un vasto consenso, concedendo favori, dando voti e assicurando carriere facili. La mafia trasforma negativamente anche una cosa bella, a causa dell’ossessivo attaccamento al denaro”. “Finché una tessera di partito conterà più dello Stato, non riusciremo mai a battere la mafia: questa è una delle frasi rimaste celebri del Generale Dalla Chiesa – ha ricordato la giornalista di Catanzaro – e, dunque, toccherà anche a voi

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studenti, che siete la generazione del futuro, ripulire il mondo della politica”. La Scuola è andata anche fuori regione a Roma (Liceo “Da Vinci” di Maccarese), Napoli (Quartiere Scampia), Palermo, Foggia, Ancona, Bologna, Rimini, Riccione e oggi ha un referente per ogni regione e molti altri sparsi in varie Nazioni europee ed extraeuropee.

Il progetto “Legalità bene comune” Diffondere la cultura della legalità nelle scuole, tra i giovani: questo è il progetto “Legalità bene comune”, voluto, progettato e scritto dalla Scuola di Legalità “don Peppe Diana”, al quale ha aderito il Comune di Campobasso con l'assessore Emma de Capoa. Nomi di spicco nella lotta alla mafia passeranno in Molise nei prossimi tre anni, da Maria Falcone a Salvatore Borsellino. Tra i nomi che appoggiano il progetto: Giovanni Impastato, Simona Dalla Chiesa, Claudio ed Elena Fava, Emilio Diana, Don Patriciello, il Pm di Palermo, Nino Di Matteo. Un progetto di ampio respiro, dunque, coinvolgerà gli studenti, da quelli delle scuole primarie, alle superiori, fino all’università. Basato sull'educazione alla legalità, con alcune tematiche specifiche: Costituzione, corruzione, evasione fiscale, cyber bullismo, criminalità organizzata, educazione stradale. Finalmente in Molise qualcuno si è reso conto che esiste una Scuola di Legalità, e che questa iniziativa, partita da una piccolissima regione ha messo radici in Sicilia, Lazio, Abruzzo e Puglia. Tra i docenti, ci saranno magistrati, avvocati e rappresentanti delle forze dell'ordine. Con questa iniziativa consentiremo la partecipazione di giovani studenti a campi scuola e laboratori antimafia che si terranno anche nei mesi estivi. Questo progetto deve contribuire a rafforzare il senso civico, la cura per il bene comune e la cultura

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della legalità nei ragazzi che, con la loro testimonianza saranno da esempio per tanti coetanei nella vita quotidiana.

“Sono orgoglioso che il progetto sia credibile a livello nazionale perché ritengo che queste iniziative sono particolarmente importanti per l’alto valore simbolico e il forte senso civico che hanno in sé. Speriamo di riuscire e instillare nelle giovani generazioni la cultura della responsabilità verso il bene comune e dell’impegno sociale. Questi, infatti, sono chiamati a riportare la loro esperienza, diffondendo la voglia e i metodi di contrastare la criminalità organizzata anche sul proprio territorio, dimostrando che la mafia si può sconfiggere, se si lavora insieme.”

La lettera di Giovanni Falcone diventa pubblica E' il 18 gennaio 2015 a Campobasso la terza lezione della Scuola di Legalità “don Peppe Diana” è stata un successo. L'Aula magna del Liceo Romita è gremita, non solo da studenti, e regna un silenzio rispettoso e attento. Ospite d’onore, per parlare delle metamorfosi della criminalità organizzata, il prof. Pino Arlacchi, diretto collaboratore di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino,

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nonché ex Segretario Generale aggiunto delle Nazioni Unite (ONU). Durante la lezione, sotto la convincente pressione di Luigia Scarlato (è suo il merito) ho letto per la prima volta in pubblico la lettera di Giovanni Falcone del febbraio 1992 con l'invito ai giovani ad avere fiducia nella giustizia.

Li ho ancora una volta spronati a informarsi per avere una coscienza e un bagaglio culturale in grado di comprendere i fenomeni mafiosi che negli anni si sono trasformati e adattati alle evoluzioni della società. Ho illustrato ai ragazzi come da una mafia “di campagna” (coppola e lupara) si è passati a una mafia imprenditrice, fino all’attuale mafia politica. Il prof. Arlacchi, a seguire, ci ha entusiasmato facendoci rivivere soprattutto la lotta alla mafia ai tempi di Falcone e Borsellino costellata da grandi successi e dal grande senso del dovere che sentivano tutti i membri del pool antimafia di Palermo. Il colpo che Giovanni Falcone ha inferto a Cosa Nostra è stato decisivo. La mafia terroristica, la mafia del sangue e della violenza è stata sconfitta. Purtroppo, però, sopravvive sotto forme più insidiose, ma ha dovuto rinunciare al suo progetto di sfida diretta allo Stato. Così Pino Arlacchi ci ha estasiato. Ci ha detto che Provenzano è rimasto nascosto così a lungo perché lo Stato era pervaso di complicità con la mafia e non si voleva farle la lotta. Il grande contributo di Falcone è stato

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rompere questa complicità. Una parte dello Stato è riuscita in certi momenti anche a vincere la lotta contro la mafia, togliendole consenso. Per Arlacchi, “tutto questo è andato in pezzi, è stato distrutto dall'azione più che decennale di questi uomini di legge, accompagnati però dalla società civile”. “Ci sono state tante persone, che nessuno oggi ricorda, che facevano il loro dovere e sono state uccise dalla delinquenza mafiosa e dalla politica corrotta. Alla fine, però, un risultato l'hanno portato: oggi la mafia è sulla difensiva, abbiamo un grande problema di corruzione pubblica collegata con la mafia, una mafia diventata più nascosta e più insidiosa, più sommersa”. Ha elogiato la nostra iniziativa affermando che ci sarà vicino nel nostro percorso. Gli studenti del Liceo Romita infine hanno letto alcuni pensieri di Rocco Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e di tanti altri eroi che hanno dato la loro vita per la lotta alla criminalità organizzata. Grande commozione (con qualche lacrimuccia) alla fine, con la premiazione del Prof. Arlacchi per il suo impegno al servizio della legalità e della democrazia.

Il nostro futuro Il futuro di questa Scuola sarà di trasmettere contenuti e insegnamenti importantissimi che educhino alla legalità, lottino le mafie, la corruzione e riportino lo studio della nostra Costituzione al centro delle conoscenze dei ragazzi. Ma anche in questo caso, come per la solidarietà, sarà il vissuto quotidiano a dare conferme. La nostra scuola nel suo insieme sarà luogo di confronto e di libertà, dove le norme e la condotta sono indispensabili per la ricca e coesa comunità che vorremmo creare e quindi, in consapevolezza, far vivere. Speriamo che i nostri intenti siano rispettati e si possa rafforzare l'obiettivo finale per riuscire ad agire

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in tutto il territorio nazionale. La scuola sarà anche il luogo di trasmissione umana e culturale realizzando il passaggio di consegne tra generazioni e trasmettendo messaggi di speranza per il futuro. Speriamo vivamente di contribuire a una cittadinanza attiva che possa nascere e crescere tra i banchi e, in reciproco rispetto, creare relazioni autentiche e virtuose anche all’esterno della scuola. Non è un progetto di poco conto e insieme con quelli che ci credono, speriamo di farcela. Dico oggi, dopo tante delusioni, che occorre “fare rete” tra le associazioni antimafia “serie” emarginando quelle inattendibili. A dover interagire fondendosi in un unico corpo, per divenire il braccio non istituzionale della giustizia, devono essere tutte quelle associazioni e quei cittadini che vogliono e possono far fronte comune, per perseguire la battaglia in difesa della legalità e dell'etica pubblica contro tutte le mafie. Le associazioni antimafia che intendo io sono quelle che non fanno della loro azione un “business”, che vivono non utilizzando contributi pubblici o privati e che ritengono la lotta alle mafie sia un dovere civico e costituzionale. Personalmente vorrei tante associazioni di giovanissimi, per il loro entusiasmo e la loro voglia di lottare, convinto dell'importanza della diffusione tra le nuove generazioni del seme della giustizia e della legalità. Parlare di questi valori, specialmente all'interno delle scuole è - e deve essere - una missione, una “militanza civile e morale”, cercando di dare il messaggio che ha caratterizzato la vita di tantissimi uomini che per questi ideali hanno sacrificato la loro esistenza. Dobbiamo, tutti uniti, dare una vera svolta alla lotta contro il crimine organizzato cambiando radicalmente mentalità, rifiutando la cultura della raccomandazione, della corruzione e dell'illegalità, mantenendo fermo il valore più importante che abbiamo: la nostra libertà. Dobbiamo riuscire a creare una simbiosi tra educazione dei cittadini e impegno forte da parte delle Istituzioni. Occorre una nuova etica pubblica e tutti noi come cittadini dobbiamo avere la forza, il coraggio e la volontà di

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pretenderla. Dobbiamo fare questa lotta, associazioni e cittadini in blocco, uniti contro le tante illegalità che attanagliano e soffocano il nostro Paese. Verso i giovani che frequento da circa venticinque anni, abbiamo l'obbligo morale di dare, giorno dopo giorno, esempi di legalità, non aspettiamo che muoiano altri Falcone e Borsellino per cambiare qualcosa, agiamo subito e uniti perché solo così la battaglia si può ancora vincere. La mafia è un sistema complesso di poteri, che ha dentro di sé tutte le parti della nostra società, Chiesa, economia, politica, informazione e per provare a batterla dobbiamo essere fedeli ai nostri ideali finché avremo l'ultimo respiro. Dobbiamo avere la forza di ribellarci a tutte le mafie e a tutte le corruzioni, perché la lotta contro questi mali non è solo degli eroi ma anche delle persone comuni, che ogni giorno si svegliano e fanno il proprio dovere in maniera onesta e coraggiosa. La paura e il silenzio ci rendono prigionieri, la speranza e la voglia di lottare ci renderanno liberi: crediamo in noi stessi e liberiamoci di queste metastasi che stanno distruggendo il nostro Paese e il futuro dei nostri figli!

Adesso tocca a te “Devo fare in fretta, perché adesso tocca a me” è una frase detta da Paolo Borsellino dopo la morte di Giovanni Falcone. Credo che la dissero in tanti, da Falcone a Chinnici, da Costa a Terranova e così via. Con questo libro spero di trasformare questa frase da un pensiero funesto a uno vitale e propositivo. E' un incitamento per noi tutti a fare la nostra parte. Se vogliamo lottare le mafie, non possiamo più sottrarci ai nostri doveri. Ogni singolo cittadino deve fare la sua parte contro il radicamento mafioso nelle nostre città anche in quelle dove ancora sembra non ci sia la mafia ma soltanto la mentalità mafiosa. La nostra meravigliosa Carta Costituzionale

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all’articolo 4 sancisce: “Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società.” E', di fatto, un invito a uscire dal silenzio e prendere la parola. Perché una libertà nel silenzio non esiste, la vera libertà va esercitata quotidianamente e per essa occorre lottare essendo attivi. Solo se smettiamo di tacere, si avrà una società nuova, dove le persone non stanno a guardare, ma diventano attori di scelte giuste e consapevoli. Come diceva Falcone: “Noi tutti siamo lo Stato e, in quanto tale, abbiamo il dovere di far regnare legalità e giustizia con il nostro modus operandi”. Per far ciò occorre che i cittadini maturino una coscienza civile contro le mafie. E' indispensabile la partecipazione della società civile alla lotta contro la mafia e c’è ancora molto da fare. Per combattere le mafie, bisognerebbe imparare a dire no alle tante scorciatoie che la vita offre ogni giorno, ai favori, alle raccomandazioni, preferendo “al puzzo del compromesso morale, il fresco profumo della libertà”, come auspicava il giudice Paolo Borsellino. Bisogna rendersi conto che la criminalità è un fenomeno terribilmente serio e molto grave, ma che si può vincere utilizzando le nostre risorse migliori, a partire dalle istituzioni. Dobbiamo comprendere che tutti noi possiamo riprenderci la nostra dignità, i nostri valori e le nostre libertà. La libertà dalle mafie si conquista con il lavoro di tutti. Magistrati e forze dell’ordine hanno il compito repressivo. Ciascun cittadino, nel quotidiano, può dare il suo contributo per affermare il diritto e l’onestà, condizioni che impediscono l’affiorare delle mafie. E’ importante parlare di mafia e ricordare tutti quelli che hanno perso la vita a causa di essa, affinché ne rimanga viva la memoria. Perché si ricostruisca la vera storia. Perché si renda finalmente giustizia a chi della giustizia ha fatto la sua unica ragione di vita. Della cultura della legalità i giovani sono la più preziosa testimonianza, ma dobbiamo dare loro esempi positivi affinché contro la criminalità sia dedicato lo sforzo comune, di tutte le

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forze del nostro Paese: non più fenomeno del Sud, ma fenomeno italiano. La criminalità organizzata si può debellare. Questo cammino richiede un patto tra cittadini e istituzioni ognuno per la sua parte, affinché questa nostra Italia cresca nella consapevolezza delle proprie responsabilità e nell’esempio dei suoi eroi, che hanno sacrificato la vita per dimostrare che un Paese diverso è possibile oggi come vent’anni fa. A qualcuno può sembrare strano ma proprio sul ruolo di ognuno di noi mi viene da pensare alle molteplici vittime della criminalità organizzata e sento la mancanza di quell’irriverenza nei confronti delle mafie e dei mafiosi che pervadeva l’aria oltre trent’anni fa. Penso subito al grande coraggio di Peppino Impastato che sghignazzava e ridacchiava di Tano Seduto signore di Mafiopoli (alias Gaetano Badalamenti boss mafioso dell’epoca). Penso all’indimenticabile Pippo Fava che con grande sarcasmo arringava un’immaginaria difesa di quattro cavalieri mafiosi (in realtà un gruppo di imprenditori edili collusi con la mafia che dominò la quasi totalità degli affari economici della città di Catania). Penso a Mauro Rostagno che con i suoi articoli aveva osato alzare il velo sui loschi interessi di Cosa Nostra a Trapani. Penso a Beppe Alfano che ebbe il coraggio di pubblicare il “lato oscuro” dei grandi appalti pubblici tra Messina e Palermo. Penso al giovanissimo Giancarlo Siani barbaramente trucidato dai sicari della Camorra perché aveva osato denunciare alcuni traffici criminali a Torre Annunziata. Non posso dimenticare don Peppe Diana e don Pino Puglisi, due vite spezzate nel nome della verità e della dottrina dell’antimafia. Dopo tanti anni di cultura e di coraggio antimafia, con il coltello tra i denti, consentitemelo, oggi siamo tutti orfani. Ci mancano tanto le loro parole, i loro sguardi, le loro discussioni, mai banali e sempre ligi al non seguire altra regola che non fosse quella della verità. Ci mancano uomini liberi come loro. C’è un silenzio assordante! C’è un silenzio intollerabile! Adesso tocca a te!

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VI Le mafie presenti in Italia Sembra ormai definitivamente provato che la mafia emerge come fenomeno criminale durante il complesso processo di formazione dello Stato nazionale italiano in Sicilia. E’ nel corso di questo processo che si trasformano in ceto autonomo di professionisti della violenza quei soggetti che in precedenza sotto il dominio dell’aristocrazia latifondista e assenteista siciliana, avevano esercitato funzioni di custodia e protezione dei fondi. Venuta meno la legittimazione del loro potere di esercitare l’ordine pubblico a seguito del crollo del potere dei baroni siciliani; coloro che erano specialisti nell’offerta di protezione privata diventarono autonomi rispetto all’aristocrazia. Allo stesso tempo lo Stato italiano mostra un deficit nella capacità di esercitare il monopolio della violenza legittima, sorge così una vera e propria “fabbrica della violenza” che offre protezione in cambio di denaro, i mafiosi quindi divengono veri e propri imprenditori della protezione, e devono mantenere alta la domanda della merce da loro offerta. I mafiosi devono dunque far sì che la violenza sia sempre presente sul loro mercato, cioè che la domanda di protezione non venga meno. A tal fine essi utilizzano la propria capacità di esercitare violenza; minacciano i soggetti nelle loro incolumità fisiche o di consistenza patrimoniale e al contempo offrono la loro protezione contro queste minacce in cambio di tangenti e altre forme di contribuzioni economiche. Le principali organizzazioni mafiose in Italia sono: la mafia in Sicilia; la ndrangheta in Calabria; la camorra in Campania; la sacra corona unita in Puglia. La Mafia: in Sicilia la mafia si chiama «cosa nostra». Cosa nostra nasce nella Sicilia occidentale ai primi dell’Ottocento. Le sue

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origini sono strettamente legate a quelle del latifondo, che domina l’economia della Sicilia fino agli inizi del Novecento. Cosa nostra è forse la più potente associazione per delinquere esistente nel nostro Paese. Ha una struttura piramidale fortemente gerarchizzata: alla base ci sono i «soldati» o «uomini d’onore», i quali compongono la «famiglia», che controlla il territorio di una zona della città o di un intero centro abitato. Il controllo di una zona permette di svolgere ogni sorta di traffico e di esercitare il dominio sulla popolazione e su tutte le attività economiche presenti, praticando estorsioni, prestando denaro con tassi usurai, partecipando a gare di appalto truccate per la realizzazione di opere pubbliche. Il vertice è costituito dalla «cupola», una sorta di commissione che sovrintende a tutti gli affari mafiosi. La Camorra: è diffusa in particolare nell’area della Campania, è costituita da un insieme di bande che si compongono e si scompongono con grande facilità, a volte pacificamente, altre volte con scontri sanguinosi. A Napoli, gli affiliati dei clan non usano la parola “Camorra” per indicare l’organizzazione, ma parlano di “Sistema”: il sistema di Secondigliano, di Scampia, di questo o quel camorrista, secondo la zona territoriale controllata e del capo del clan. La camorra è l’unica organizzazione di carattere mafioso che abbia origine urbane. Tanto cosa nostra, infatti, quanto la ‘ndrangheta hanno radici agrarie. La camorra sfrutta la miseria e la disperazione sociale di persone “senza lavoro”, cerca in tutti i modi di entrare in contatto con il potere dello Stato, per proteggere le proprie attività illecite. L’ambito degli affari dei clan camorristici va dall’usura alle rapine, dalle estorsioni al traffico di armi, dall’industria del falso allo spaccio di stupefacenti, dalle estorsioni alle scommesse illegali fino al traffico dei rifiuti tossici. Nello spaccio della droga, in particolare, sono coinvolte bande di ragazzini o, addirittura, intere famiglie impiegate nella preparazione delle dosi e nello smercio delle bustine.

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La Ndrangheta: è presente soprattutto in Calabria. Negli anni ha praticato sequestri di persona, estorsioni e traffici di droga. La struttura di base della ‘ndrangheta è la‘ndrina, radicata in un comune o in un quartiere cittadino. La ‘ndrina è formata essenzialmente dalla famiglia naturale, di sangue, del capo bastone. Rigidissima è la gerarchia all’interno di ogni famiglia, regolata da un codice che prevede rituali in ogni momento della vita associativa: dall’affiliazione all’investitura del nuovo adepto, al giuramento che deve essere prestato con solennità, al passaggio al grado successivo, fino ai processi cui il tribunale della cosca può sottoporre i propri affiliati, qualora si dovessero rendere responsabili di eventuali violazioni alle regole sociali. All’interno dell’organizzazione le donne hanno sempre avuto un ruolo di rilievo: esse vigilano, infatti, sull’andamento delle estorsioni, riscuotono le tangenti, sono intestatarie di beni appartenenti al sodalizio e curano i rapporti con i latitanti e con l’esterno del carcere. La Sacra Corona Unita: è un insieme di gruppi criminali formatosi nella prima metà degli anni ottanta nell’area del Salento, in Puglia. L’ingresso nell’associazione avviene con la cerimonia solenne del “battesimo”. Il giuramento è preceduto da un taglio sull’avambraccio che è praticato al candidato dal suo compare di sangue. Gli affiliati fanno giuramento di omertà e di fedeltà alla Sacra Corona Unita e spesso si fanno tatuare sul corpo simboli di riconoscimento. Tra le principali attività di quest’organizzazione ci sono: il traffico di stupefacenti, e in particolare di eroina, il commercio illecito di armi, le estorsioni, la gestione del gioco d’azzardo clandestino, l’usura e la gestione dei flussi d’immigrati irregolari nel nostro Paese.

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La metamorfosi delle mafie La criminalità organizzata rappresenta oggi, in Italia, una delle principali minacce alla sicurezza e alla sopravvivenza della stessa democrazia. La presenza nella società di gruppi criminali organizzati ha conseguenze quanto mai gravi sulla vita quotidiana, sui rapporti sociali e sull'economia. Gli appartenenti al crimine organizzato usano la violenza per estorcere denaro ai commercianti e agli imprenditori; sono in grado di corrompere o ricattare uomini politici e dipendenti della pubblica amministrazione; possono perfino falsare le elezioni costringendo i cittadini a votare i propri candidati. Allo stesso tempo, la criminalità organizzata opera anche a livello internazionale, gestendo i grandi traffici illegali di droga, armi, esseri umani. Le metamorfosi del crimine organizzato sono sotto gli occhi di tutti così come la colpevole sottovalutazione del fenomeno da parte delle istituzioni. Una delle evidenti cause dell'attuale virulenza risiede, proprio, nello scarso impegno dello Stato nei confronti di questa multiforme realtà criminale. Oggi, la criminalità organizzata di matrice economica e politica governa la maggior parte delle attività illecite tra le quali spiccano soprattutto il traffico internazionale di stupefacenti, la gestione degli appalti pubblici e delle grandi opere. Potendo contare su enormi quantità di denaro, le sue attività prevalenti non possono non essere la corruzione, la ripulitura e il reimpiego del denaro sporco. Lo stretto legame tra organizzazioni criminali, economia e politica rappresenta un pericolo talmente grave da minacciare la stessa sopravvivenza delle istituzioni. Questo connubio ha una potenza finanziaria tale da poter persino ripianare il deficit del bilancio statale. La domanda da porsi a questo punto è la seguente: come sia potuto accadere che queste organizzazioni criminali anziché avviarsi alla sconfitta hanno aumentato la loro aggressività e la

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loro pervasività? Siamo passati dalla "mafia imprenditrice" teorizzata dal prof. Pino Arlacchi, alla "mafia politica" che gestisce le principali attività produttive dell'Italia. Mentre lo Stato - negli anni che vanno dalla morte di Falcone e Borsellino ad oggi - è restato immobile, le mafie si sono evolute e modellate con rapidità e flessibilità alle mutevoli esigenze dei tempi. Dalla fase stragista, attribuita a Riina in Sicilia, si è passati alla fase della mimetizzazione sociale, all'uso brutale della forza si è preferito l'uso delicato della corruzione. Oggi le mafie sono addirittura in grado di legiferare perché eleggono i loro esponenti in Parlamento. Hanno forza, consistenza e indipendenza tali da poter dialogare e stringere accordi in posizione di netta supremazia. Per esercitare al meglio questo potere le mafie hanno bisogno di personaggi estranei alle associazioni criminali. Per effetto dell'espansione degli affari soprattutto di tipo economico, hanno creato strutture operative non mafiose, sempre controllate dall'organizzazione criminale. Si tratta di organi molto articolati e complessi con ramificazioni soprattutto all'estero che, funzionano quasi in anonimato, consentono però alle mafie notevoli guadagni. I sistemi di riciclaggio e di reimpiego dei capitali si sono sempre più perfezionati sia a seguito delle maggiori quantità di denaro disponibili che della necessità di eludere indagini patrimoniali. Mentre fino a pochi anni fa il sistema bancario rappresentava il canale privilegiato, oggi, è stato addirittura accertato il coinvolgimento di intere nazioni nelle operazioni di cambio di valuta estera. Non poche attività illecite delle mafie, come, ad esempio, gli appalti e le frodi comunitarie, hanno rappresentato il mezzo per consentire l'afflusso d’ingenti quantitativi di denaro già ripulito all'estero. Il declino del crimine organizzato più volte annunciato dai vari governi succedutisi negli ultimi venti anni non si è mai verificato, e non è, purtroppo, nemmeno ipotizzabile. È vero che non pochi "boss" sono detenuti, tuttavia i "veri" vertici del crimine organizzato, alcuni dei quali siedono a Roma, non

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sono stati messi al tappeto. Le indagini da qualche tempo hanno perso d'intensità e d'incisività a fronte di organizzazioni criminali che hanno complicità nelle alte sfere e sono diventate sempre più inattaccabili. I rapporti tra criminalità organizzata e centri occulti di potere costituiscono tuttora nodi irrisolti. Fino a quando non sarà fatta luce su moventi e mandanti dei nuovi e dei vecchi "omicidi eccellenti", non si faranno passi concreti avanti. Le confische patrimoniali, molto temute dai mafiosi, languono e anche questo è un aspetto a dir poco preoccupante. Non mi sento di avere titoli di legittimazione per censurare qualcuno né tanto meno per suggerire rimedi, ma devo rilevare che oggi la situazione generale, non ci fa essere ottimisti. Camorra, Ndrangheta e Mafia (rispettivamente Campania, Calabria e Sicilia), sono radicate non solo nel Mezzogiorno d’Italia ma soprattutto nei maggiori centri economici e produttivi del Paese con grandi influenze a livello europeo e internazionale. Nella mia esperienza personale, noto un diffuso clima di rassegnazione e di abbandono oltre che dello Stato anche della società civile. Ritengo, quindi, mio dovere morale evidenziare che continuando a percorrere questa strada, nel prossimo futuro, saremo costretti a contrapporci a una criminalità organizzata talmente forte da essere addirittura invincibile.

Le mafie sono ovunque I mafiosi non sono solo Messina Denaro, Riina o Provenzano. Soggetti collusi con la mafia, che utilizzano gli stessi metodi, sono ormai ovunque, sono nelle istituzioni pubbliche, nella società civile e siedono persino in Parlamento. L’espressione “Italia=Mafia”, purtroppo, sta diventando una realtà difficilmente contestabile. La nostra penisola è invasa da una mafia onnipresente che lucra, porta interessi, ha relazioni e complicità

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impensabili, progetta, pianifica e spesso occupa e gestisce i gangli vitali della società senza usare alcuna violenza ma utilizzando la sua arma più potente: il denaro. A questa mafia si affianca e s’innesta, imitandone i contenuti in tutto e per tutto la c.d. “mafia bianca” e cioè quella dei colletti bianchi, fortissima in tutte le amministrazioni dello Stato (Comuni, Province, Regioni, Università, Ospedali e così via). Questa mafia - sempre esistita nomina, elegge, assume, dirige e, di conseguenza, governa il territorio. Ecco perché il binomio “Italia-Mafia” non solo esiste, ma è una realtà constatabile nelle cronache quotidiane. La mafia è ovunque, inutile nasconderlo. Noi cerchiamo di non vederla ma siamo i primi a “sostenerla” accettandone spesso i suoi metodi. Oggi, la parola “mafia” è diventata sinonimo di corruzione, essa prolifera nella collusione, nelle contiguità, in quei contatti stretti con il cosiddetto “mondo dei colletti bianchi”, dell’imprenditoria, dei professionisti e soprattutto della politica. La mafia, ormai, non è più esibizione di violenza, non ci sono più le grandi stragi alla luce del sole, le bombe che fanno saltare in aria chi a essa si oppone; lo spettacolo del terrore va in scena tutto dietro le quinte, si risolve agilmente all’interno di sistemi, strutture e organizzazioni lecite, esattamente come una metastasi silenziosa, impercettibile, incontrollabile. In Italia, abbiamo, ad esempio, la “mafia” dei baroni universitari, dove regnano incontrastate raccomandazioni, scambi di favori, meriti negati, titoli completamente ignorati. Come nella mafia comune anche in quella “bianca” regna la sacralità della “famiglia”, del corporativismo, del nepotismo, della raccomandazione, tutto a scapito delle capacità dei più bravi e della fatica degli onesti e dei volenterosi. Cos’è questa se non mafia? Non possiamo non denunciare la “mafia” della sanità, dove circola molto denaro pubblico, un gran numero di appalti e numerose nomine. Il terreno ideale dove mafia, politica e corruzione s’insinuano facilmente, mettendo radici profonde attraverso nomine e appalti pilotati, creando così

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enormi danni ai cittadini, aumentando, di fatto, le spese e diminuendo i servizi essenziali. Cos’è questa se non mafia? Esiste poi la “mafia dei professionisti” (avvocati, magistrati, poliziotti, commercialisti, architetti, ingegneri, medici e così via), pronta a mettere a disposizione le proprie conoscenze, per guadagnarci denaro o favori, aiutando la criminalità organizzata ad evadere il fisco, garantendo la latitanza e la cura dei boss mafiosi, aggiustando i processi, riciclando il denaro sporco, il tutto consentendo all’organizzazione criminale di crescere, moltiplicare la propria potenza economica e radicarsi fortemente nei territori. Non ultima, c’è la mafia degli imprenditori, fondamentale nella costruzione del potere delle mafie in Italia. Questi imprenditori, di fatto, collusi con le organizzazioni criminali, gestiscono gli appalti, il lavoro nero, i traffici di rifiuti tossici, l’immigrazione e qualsiasi attività in grado di creare profitto, finanziando lecitamente il sistema mafioso mediante grandi iniezioni di denaro pulito. Non di rado questa tipologia d’imprese gestisce, in nome e per conto delle mafie, l’occupazione e il voto di scambio. Cos’è questa se non mafia? La più pericolosa di tutte è la “mafia politica”, poiché contribuisce a sviluppare e a consolidare il potere mafioso, assicurandogli l’impunità, la legittimazione, il predominio, facendo funzionare le istituzioni in modo da accettare e favorire soggetti e attività direttamente o indirettamente collegati con i mafiosi, erogando denaro pubblico alle mafie e ai loro alleati, criminalizzando le istituzioni con l’uso di metodi e comportamenti puramente mafiosi. Questa mafia incide fortemente sulla democrazia, sulle libere elezioni, sulle nomine ai vertici dello Stato. Nel nostro Paese, ormai, si usa il metodo mafioso per esercitare qualsiasi forma di potere. Abbiamo troppo spesso esercitato un’antimafia predicatoria senza mai farla seguire da una pratica realmente combattiva ed efficace. Questo stato di cose attendistico, o peggio immobilistico, contribuisce a rafforzare il dominio sul territorio, consolida il consenso sociale, potenzia le

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mafie economicamente nella società e soprattutto nell’ambiente politico e amministrativo, rendendole, di fatto, sostitutive dello Stato. Il breve quadro tracciato presenta molti elementi che ci inducono a pensare che siamo di fronte a una forma di potere in cui l’illegalità è rovesciata in legalità e questo va oltre la collusione di qualche politico con qualche boss o la commissione di uno o più reati da parte di singoli rappresentanti delle istituzioni. Stiamo vivendo uno dei periodi più difficili della storia dell’Italia repubblicana e se vogliamo sopravvivere, dobbiamo ricostruire le basi della democrazia e dello Stato di diritto. Per far questo, ognuno deve fare la sua parte e nessuno può sottrarsi ai suoi doveri di cittadino. Per quanto possibile, abbiamo assoluto bisogno di formare la nostra gioventù a essere libera, indipendente e consapevole sperando che ciò nel futuro ci porti a sconfiggere le tante mafie esistenti. Come diceva Paolo Borsellino: “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l'onnipotente e misteriosa mafia svanirà come un incubo”. Non ci resta che agire e sperare.

La mafia “legale” La mafia è senza dubbio uno dei maggiori problemi irrisolti del nostro Paese e purtroppo, non è l’unico, poiché ne esiste uno molto più devastante: la “ mafia legale ”. Quest’ultima fa vittime e danni maggiori di quella “illegale” in quanto si tratta di una mafia composta di persone potenti che commettono misfatti gravissimi pur rispettando, all’apparenza, i dettami della legge. I suoi associati appartengono alla casta degli intoccabili: quelli che in tanti chiamiamo “poteri forti”. Per il cittadino onesto, meritevole ed ossequioso delle leggi non c’è spazio libero, se non s’integra nella nuova “Cosa Nostra” e non rispetta le sue regole ferree. La sua influenza è in grado di incidere sulle sorti di milioni di persone

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e non teme nulla e nessuno. Questa “mafia legale” governa incontrastata la politica, l’economia, il lavoro, la salute, l’ambiente, la cultura, l’arte, l’università e qualsiasi altro punto nevralgico dello Stato. E’ composta di molteplici caste che non si combattono mai tra loro: sanno che solo restando uniti possono dominare e, di conseguenza, sopravvivere. Questa nuova mafia – che a dire il vero è sempre esistita – ha connessioni talmente influenti da poter indirizzare ogni settore, sia pubblico, sia privato, senza alcuna distinzione politica, economica e sociale, al punto che, è quasi impossibile combatterla con gli strumenti della legge. Rappresenta una vera e propria metastasi che da qualche tempo ha divorato la società civile, poiché, i cittadini, che avrebbero dovuto essere gli anticorpi, sono stati addormentati da un’anestesia somministrata da media asserviti a questo potere costituito. Molto simili ai veri mafiosi, questi “criminali”, però non si nascondono, anzi si mettono in evidenza mostrando i muscoli del loro smisurato potere. Non usano armi convenzionali e non spargono sangue, soltanto perché non ne hanno alcuna necessità. Uccidono il merito, distruggono l’onestà, i valori, i diritti, le speranze, l’avvenire. Questo tipo di mafia può creare leggi ad hoc, può agire sulle menti e far contrapporre pezzi di società usando l’antico motto romano: divide et impera, dominando senza problemi e non avendo alcun rivale se non il popolo appositamente diviso. Questa mafia non si occupa di affari sporchi, poiché è in grado di incidere sul monopolio della legalità ed è talmente potente da poter determinare i procedimenti legislativi utilizzando leggi a proprio uso e consumo. Questi nuovi mafiosi siedono tutti in precisi posti di comando dove uniti decidono le sorti del popolo ormai ridotto a un simbolo. Se vogliamo veramente far ripartire l’Italia, occorre liberarci oltre che delle mafie convenzionali soprattutto di queste “mafie” per così dire legali. Questa volta se vogliamo che tutto non rimanga com’è, bisogna che tutto cambi realmente non ingannando per l’ennesima volta gli italiani onesti, quelli che sono

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sempre andati a votare con dignità, che lavorano onestamente, rispettano le leggi e pagano civilmente le tasse. In questi vent'anni di nostro impegno civico abbiamo assistito a situazioni stupefacenti con non pochi soggetti ed associazioni che apparivano ed appaiono come intoccabili, benefattori e filantropi della società civile, e che poi invece si sono comportati come mafiosi. L'antimafia è un grimaldello che ormai è adottato da parecchie entità e che non di rado nasconde anche reati di notevole allarme sociale. C'è stata una particolare rincorsa all'attribuzione del carattere di antimafia, all'auto-attribuzione o alla reciproca attribuzione di patenti di anti mafiosità a persone, gruppi e associazioni che con l'antimafia nulla avevano e hanno a che vedere. In tutti questi casi l'antimafia di facciata è servita a scalare posizioni sociali e fare carriera in ogni settore. Antimafia per chi scrive, significa rispettare le leggi e fare semplicemente il proprio dovere: tutto il resto è scenografia. La vera antimafia è un fatto di coscienza civile e di moralità. Il cammino da percorrere è tracciato dai tanti “eroi” che hanno sacrificato la loro vita nella lotta alle mafie. Perciò dobbiamo essere onorati di aver avuto personalità come Falcone e Borsellino in questo Paese e abbiamo il dovere di erigerli ad esempio per tutti, soprattutto per i tanti giovani che hanno necessità di avere esempi credibili. Il problema vero è che dopo di loro e sulla via della loro morte, hanno camminato tanti sciacalli che si sono fatti forti persino di pseudo rapporti con loro, che poi in realtà neanche avevano. Sono stati tanti i politici di ieri che si sono riciclati nell'antimafia di oggi. Erano questi, i veri professionisti dell'antimafia cui faceva riferimento Sciascia in un suo articolo di molti anni fa. Cosa si può fare dunque per creare uno spartiacque tra veri e falsi paladini dell’antimafia? Togliere i finanziamenti di qualsiasi tipo. Eliminiamo tutti i contributi per un’attività che deve essere un dovere costituzionale per i cittadini onesti. Facciamo che i politici siano amministratori onesti e magari anche anti mafiosi non a chiacchiere ma con i fatti

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concreti. Facciamo in modo che chiunque nel proprio ruolo senta il dovere e la soddisfazione di prendere posizione sul tema senza essere foraggiato da contributi aggiunti. Proviamoci e vediamo chi rimarrebbe in campo e chi no!

Rompiamo il silenzio sulle mafie Non c’è zona in Italia in cui mafie e corruzione non dominino il territorio. La poca incisività sul fronte repressivo dei reati contro la pubblica amministrazione fa si che non ci sia luogo dove le mafie non fanno ed hanno fatto affari. E li hanno sempre fatti bene, con grande loro vantaggio. Anche laddove non ci sono conflitti armati tra clan, la presenza criminale c’è ed è pressante. Il declino della politica sta trascinando nel baratro un Paese dove il malaffare è arrivato fino alla sua degenerazione più pericolosa: mafia-politicacorruzione. Su questi temi oggi è difficile aprire un dibattito che affronti alla radice il problema. Gli infiniti arresti e le continue intercettazioni (per fortuna) hanno evidenziato come ovunque politici di destra e sinistra fossero al servizio di un clan. Tutto ciò non scuote minimamente le coscienze. C’è un silenzio assordante! Mancano tanti protagonisti del movimento culturale antimafia (Peppino Impastato, Pippo Fava, Mauro Rostagno solo per citarne alcuni). Rimango sempre più sconcertato leggendo sui giornali quello che sta accadendo e mi disgusta vedere politici coinvolti di cui si poteva mettere la mano sul fuoco. Purtroppo, la gente si abitua presto e quindi si rassegna e non reagisce. Le persone non vedono il sangue e non pensano dunque alla criminalità organizzata. La mafia invece usa l’arma più letale a sua disposizione: la corruzione. A rendere invisibile questa mafia che non spara, ma fa business con i suoi ingenti capitali è proprio

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un’enorme carenza culturale e di conseguenza un’assoluta mancanza di dibattito. Per far comprendere meglio ai miei studenti come cambiano le organizzazioni criminali, dico loro che occorre guardare con gli occhi “aperti”. Lo strumento per aprirli è la cultura: se non si conosce il problema, non lo si potrà mai individuare e mai sconfiggere. In Italia, non si apre più un dibattito su niente. Perché non aprirlo sulla decadenza della politica e sulla supremazia delle mafie? O sulla corruzione del mondo politico? O sulla politica come partecipazione? Impossibile, non si può! Questo significa che gli intellettuali che una volta promuovevano e partecipavano attivamente alle discussioni si sono liquefatti e sono divenuti “impotenti” o peggio complici.

Possiamo sconfiggere le mafie? Il problema della lotta alle mafie italiane è principalmente un problema politico – oltre che giudiziario e di polizia – e per cominciare a risolverlo occorrerebbe prima di tutto cambiare la politica. Come diceva spesso Paolo Borsellino, se lo Stato fa la guerra alla mafia, si vede. Se non si vede nulla, è solo perché questa guerra non c’è. La realtà, sotto gli occhi di tutti, è che oggi mafia e politica sono simbiotiche e la prima non potrebbe esistere senza la seconda, perché è una sorta di parassita, di Stato ombra che riscuote consensi e utili finanziari solo se c’è uno Stato da cui trarre benefici. Per combattere questa realtà uno Stato democratico di matrice solidaristico sociale dovrebbe usare, come diceva Falcone, i migliori uomini disponibili sul campo e gli strumenti e le leggi più efficaci e incisive. Non ci sono altri modi, non ci sono mezze misure e non ci possono essere, se magistrati e politici onesti rischiano di saltare in aria, se sanno che lo Stato quasi certamente non li proteggerà e se anche lo facesse ci sarà sempre

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qualche talpa che rivela informazioni utili ai mafiosi negli attentati e nei successivi depistaggi. Un altro strumento efficacissimo per sconfiggere le mafie sarebbe l’educazione e il potenziamento del sistema giudiziario e delle forze di polizia. Anche in questo caso il problema sono i politici: per educare servono educatori ed esempi, e gli esempi che dà la politica italiana sono spesso di politici approfittatori e corrotti, mentre le scuole cadono a pezzi e la polizia non ha gli strumenti necessari. Per educare alla legalità serve innanzitutto uno Stato credibile. Una delle condizioni per cominciare la lotta alle mafie, dunque, è la possibilità di rigenerare la classe politica immettendo in circolo persone nuove ed oneste, sperando che anche queste non si corrompano. Oggi in Italia anche i piccoli politici, i consiglieri regionali, provinciali e comunali, sono nel vortice della corruzione e della collusione. Gli stessi Falcone e Borsellino sono stati uccisi soprattutto perché indagavano sugli appalti, sulle tangenti, e cercavano di seguire il flusso del denaro sospetto che andava in maniera consistente verso i partiti, i politici e gli imprenditori collusi con le mafie. Se ci fosse una politica che volesse perseguire il fine di sconfiggere le mafie si dovrebbero iniziare ad applicare senza tentennamenti le nuove tecnologie informatiche al sistema giustizia, in modo da velocizzare i tempi e rendere la magistratura più reattiva e flessibile, consentendole così di applicare con certezza le sanzioni, in modo che chi delinque non abbia la percezione della “convenienza”. In uno Stato di diritto, chi delinque deve sapere che il guadagno che nasce dalle attività criminali è in ogni caso inferiore al prezzo da pagare alla giustizia. Oltre alla scuola, la lotta deve incentrarsi anche su delle vere riforme sociali, perché le mafie non sono un corpo estraneo alla società, ma ne fanno pienamente parte giacché riescono, sempre in danno dello Stato, a conquistarsi la riconoscenza dei cittadini più deboli dal punto di vista economico. Come era solito dire Giovanni Falcone, il nostro Paese ha le leggi antimafia più evolute al mondo, il problema sta

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tutto nei meccanismi e negli strumenti di applicazione di queste leggi. Sono fermamente convinto che dalla morte di Falcone e Borsellino il problema della lotta alla criminalità organizzata non sia stato preso in seria considerazione. C’è stato un periodo, due anni dopo questi attentati, tra il ’92 e il ’94, che andò sotto il nome di Primavera di Palermo, in cui la gente prese coscienza che questo fosse un problema nazionale che andasse combattuto efficacemente. Purtroppo quello spirito iniziale si è perso e la gente è tornata alla vita di tutti i giorni, a quella “normalità” condizionata dal potere illegale delle associazioni criminali. Credo che se si vogliano veramente vincere le mafie, polizia e magistratura, con il supporto dei cittadini, possano farlo: i mezzi ci sono. Quello che manca sono la volontà e l’impegno politico: questo è il vero problema da risolvere. Sposo in toto la tesi di Giovanni Falcone: la mafia è un fenomeno umano, come tutti i fenomeni umani, ha un inizio e avrà una fine. Voglio convincermi che le circostanze cambieranno, anche se nel medio periodo non sono molto ottimista perché non vedo l’impegno dello Stato. Su un punto fermo però non transigo: sono per la tolleranza zero nei rapporti tra politici e mafiosi, senza se e senza ma.

Il ruolo del giornalismo Il giornalismo è spesso definito il quarto potere dello Stato (dopo il legislativo, l’esecutivo e il giudiziario), per l'importanza che in una democrazia dovrebbe rivestire e per i valori e gli interessi che dovrebbe coinvolgere e a volte contrastare. Come Pippo Fava, anch’io ho sempre avuto un concetto etico della professione giornalistica. Ritengo, infatti, che in una nazione democratica e libera come dovrebbe essere la nostra, il giornalismo rappresenti uno dei principali elementi della società civile. Lo paragono

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all’aria che respiriamo che è sana o inquinata seconda come il giornalista decida di divulgare una notizia e di conseguenza informare i cittadini. Un giornalismo puro e veritiero, per assolvere la sua funzione più intima, a mio giudizio, oggi, dovrebbe impedire lo svilupparsi della corruzione, frenare la criminalità organizzata, controllare e vigilare sulle opere pubbliche fondamentali, reclamare il funzionamento dei servizi sociali, tenere allerta le forze dell'ordine, sollecitare il funzionamento della giustizia, richiamare all’ordine i politici al buon governo e al bene comune. Questa dovrebbe essere l’essenza del vero giornalismo. Oggi, viceversa, i media hanno perso buona parte dei connotati etici occupandosi ad esempio pochissimo delle infiltrazioni del cancro criminale all'interno della politica, delle istituzioni, dell'imprenditoria e della società civile. Le commistioni tra mafie e politica sono in grado oggi di schiacciare la giustizia e la verità perché possiedono e indirizzano giornali e giornalisti e laddove non riescono a esercitare questo potere, sono in grado di influenzare i mezzi di sostentamento dei mass media stessi. Motivi questi per i quali occorre denunciare la grande criminalità organizzata: quella che governa e regna nelle istituzioni, che insozza la società civile, che attraverso il clientelismo e il nepotismo impera nelle stanze dei bottoni dei poteri forti. Come abbiamo potuto constatare (lo hanno sentenziato i giudici) i mafiosi stanno in Parlamento, a volte sono ministri, stanno nei Consigli regionali e a volte sono presidenti, i mafiosi sono imprenditori, banchieri, professori universitari, i mafiosi “veri” sono quelli che in questo momento sono in grado di decidere le sorti del nostro Paese. Ecco perché ripeto ancora una volta che il compito del vero giornalista, libero e indipendente, è semplicemente quello di raccontare la verità, tutta la verità e nient’altro che la verità. I giornalisti devono svelare i rapporti tra mafia, politica e corruzione evitando i silenzi, i veli omertosi, la poca chiarezza, tutti comportamenti che li rendono complici di

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questi meccanismi deleteri. Non dimentichiamoci mai che tra le funzioni della stampa vi è anche quella di informare il cittadino affinché possa esercitare consciamente la sua sovranità.

La Chiesa nella lotta alle mafie I due parroci antimafia che ebbero il grande merito di sfidare senza timori il predominio delle mafie proprio attraverso i valori e i simboli della Chiesa furono don Peppe Diana e don Pino Puglisi. Spinsero con veemenza i cattolici (e non solo) a prendere posizione contro la criminalità organizzata, generando così uno dei principali motivi della loro morte ma al tempo stesso risvegliando le coscienze di tantissimi cittadini. Ventidue anni dopo la loro morte, sfortunatamente, nessun altro sacerdote ha raggiunto la loro altezza nella lotta contro le mafie. È il caso di notare che sia padre Puglisi sia don Diana si sono concentrati soprattutto sui movimenti antimafia nelle scuole perché hanno sempre sostenuto l’idea che il futuro dei popoli si realizzasse all’interno dei cuori e delle menti di tanti giovani che rappresentano, uniti tra loro, la forza necessaria per lottare qualsiasi illegalità. Dopo la loro azione, la Chiesa cattolica sembra essersi fermata. Questa constatazione fa emergere una serie di preoccupazioni incentrate proprio sul fatto che il mondo cattolico dovrebbe essere una delle istituzioni più importanti nella lotta contro il crimine organizzato, invece, attualmente, si assiste a un inconcepibile conservatorismo. Nella lotta alle mafie c’è una divisione all’interno del clero. Bisogna ricordare, come ha fatto Papa Wojtyla prima e Papa Bergoglio poi, che i mafiosi sono fuori dalla religione nonostante ne usino spesso i simboli. Di conseguenza occorrono meno prediche e più azioni concrete. Siamo convinti che la lotta contro le mafie possa essere qualificata anche dai movimenti religiosi che con orgoglio possono

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senz’altro ispirarsi alla cultura e alla natura dell’associazionismo laico. La Chiesa non può trascurare di parlare contro le mafie sempre e comunque, e questo al fine di mantenere lo spirito antimafia sempre vivo tra la gente. Deve farlo ogni giorno partendo dalla più piccola parrocchia e arrivando fino al Vaticano. Affinché la lotta alle mafie possa avere margini di successo, la Chiesa dovrà impegnarsi al massimo dando il meglio di se stessa. Come i mafiosi sono disposti a morire per promuovere la causa della mafia, così la Chiesa nella sua interezza, dovrà essere disposta a fare lo stesso. La lotta al crimine organizzato ha bisogno, oggi più che mai, del mondo cattolico, poiché, dopo i sacrifici di don Diana e don Puglisi, occorre uno scatto d’orgoglio. Se vuole tornare a essere credibile nella sua missione la Chiesa non può non essere spada nel fianco di tutte le mafie. Mi auguro che la chiesa ritorni sulle orme di don Pino Puglisi e don Peppe Diana e non resti a guardare.

Il ruolo della scuola pubblica Oltre ad una riforma della giustizia ciò che occorre al nostro Paese è una vera riforma della scuola in senso etico. In Italia è fondamentale ripartire dal sistema educativo. La nostra scuola deve educare a ragionare anche di etica e di morale. Deve esser chiaro che l’etica è una cosa e il diritto un’altra e in uno Stato che ha il primato europeo per corruzione ed evasione fiscale, l’etica forse dovrebbe venire prima del diritto. Servono tribunali efficienti ma occorrono soprattutto scuole che diano risposte serie ai problemi che affliggono il nostro Paese. L’etica è un concetto che può essere insegnato in tanti modi, ma quello fondamentale è dato dagli esempi positivi. Formare i cittadini sin da studenti ad avere comportamenti conformi all’etica probabilmente ci consentirà di

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avere anche futuri politici migliori degli attuali. Fermo restando che, in termini di responsabilità, quando si ha un ruolo politico, i doveri e le regole sono più stringenti rispetto ai semplici cittadini. L’art. 54 della nostra Costituzione afferma che i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore. Se chi governa e fa le leggi non rispetta le regole allora anche gli altri si sentiranno legittimati a violarle. Una delle funzioni della scuola pubblica, a mio giudizio, è quella di formare ottimi studenti mediante il criterio meritocratico e di educare ottimi cittadini mediante l’etica pubblica. Servono strategie in grado di avviare, e soprattutto praticare, un’educazione civica convinta, interiorizzata, visibile e duratura nel tempo, quale strategia di prevenzione per non cadere nelle reti mafiose, nella corruzione e per divenire testimonianza di legalità e di impegno civile. Lo Stato deve ripensare il contenitore scuola come luogo dove i diritti e le libertà di tutti, nel reciproco rispetto, trovino spazio di realizzazione, dove non sono frustrate le attese dei ragazzi a un equilibrato sviluppo culturale e civile e dove i percorsi formativi siano vissuti in prima persona dagli studenti. Com’era solito dire Paolo Borsellino: "La lotta alla mafia non deve essere soltanto una distaccata opera di repressione, ma un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolga tutti, che ci abitui a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità". Prima di arrivare a diventare criminali i ragazzi iniziano con troppa facilità a essere bulli, capetti di bande o ladruncoli potenziali. In questa noncultura, in questa mentalità, in questo gioco delle parti, può nascere il corruttore, l’evasore fiscale o peggio mafioso. Delicatissimo è quindi il compito della scuola che dovrebbe indicare la strada delle regole, che devono essere poche e rigorosamente osservate. E' una questione di metodo. E' importante che lo Stato conosca bene e sappia distinguere i diversi

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ruoli che competono alle istituzioni scolastiche nelle realtà in cui cresce la criminalità. La lotta alle mafie, alla corruzione e ai loro "disvalori" dovrà giocoforza cominciare sui banchi di scuola, non solo perché attraverso essa, nelle fasce dell’obbligo, passano tutte le generazioni, ma soprattutto perché, tra tutte le compagini educative, la scuola è quella che per sua natura è chiamata a formare persone libere, rispettose delle leggi democratiche, consce dei propri diritti e dei propri doveri e può parlare in modo persuasivo e prolungato nel tempo all’intelligenza e soprattutto al cuore delle giovani generazioni. La scuola, dove il giovane incontra per la prima volta lo Stato e che, in situazioni particolarmente segnati da disagio sociale, rappresenta, uno dei pochi spazi di incontro e di aggregazione presente sul territorio, deve essere luogo di pratica, e non solo di enunciazione, della democrazia, della legalità, della solidarietà, della cultura avversa alle mafie e alla corruzione. In Molise, regione piccolissima e quasi sconosciuta, abbiamo creato la prima Scuola di Legalità d’Italia intitolata a don Peppe Diana, parroco trucidato dalla camorra a Casal di Principe, (esempio premiato in Europa e ignorato in Italia!) affinché si possa dimostrare nelle scuole e con i fatti che vivere e crescere nella legalità e nella solidarietà è possibile e conveniente. La legalità non deve e non può essere un limite ma un valore aggiunto. Questa è la strada maestra da percorrere nel prossimo futuro se vogliamo ancora bene alla nostra Nazione.

La mia opinione sulla trattativa Se la trattativa fosse un reato, se lo Stato avesse ceduto, se la mafia avesse tratto benefici, allora le istituzioni sarebbero colpevoli. Ma non è così. Giovanni Fiandaca e Salvatore Lupo sostengono una

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tesi totalmente legittima ma a nostro giudizio per nulla condivisibile. A loro parere l’impianto accusatorio del pool antimafia di Palermo non reggerebbe, i comportamenti di cui ai capi d’accusa non costituirebbero reato e “cosa nostra” non sarebbe mai stata salvata. Si chiedono perché si è scelto di celebrare questo processo e perché gli italiani hanno bisogno di pensare che la mafia abbia vinto e debba vincere sempre. La mafia vince sempre solo perché lo Stato non la combatte impegnando le sue migliori energie. La prova regina della trattativa e quindi della sua esistenza purtroppo è nella realtà. L’Italia è l’emblema del decadimento politico-culturale, declino di una classe dirigente inghiottita da un’etica criminale e pervasa da continui rapporti tra uomini di Stato e criminalità organizzata. Sono tanti i casi concreti che ci consentono di poter affermare che pezzi delle Istituzioni hanno sempre fatto “affari” con le mafie. I rapporti tra i due poteri sono sempre stati solidi e proficui per entrambi. A titolo di esempio, basti ricordare i fratelli Greco esattori statali in Sicilia, poi giudizialmente riconosciuti mafiosi. Il politico Ignazio Salvo ucciso dalla mafia per contrasti tra cosche ed egli stesso mafioso che aveva dato garanzia del suo interessamento affinché in Cassazione la sentenza del maxiprocesso fosse annullata. Secondo i collaboratori di giustizia dell’epoca, il delitto fu eseguito per lanciare un avvertimento a Giulio Andreotti. Il sindaco di Palermo Vito Ciancimino condannato per mafia e più volte in affari con pezzi delle istituzioni. Lo scandalo del colonnello dei servizi segreti che si recava a far visita in carcere a Raffaele Cutolo perché intercedesse presso le brigate rosse che tenevano prigioniero Aldo Moro. E ancora la strage del treno Italicus, addebitata al camorrista Misso che a detta della magistratura avrebbe agito su commissione dei servizi. Sono ovviamente soltanto piccolissimi esempi concreti e al tempo stesso inattaccabili. Le mafie fin dal loro apparire hanno sempre svolto la funzione di “cani da guardia” del potere costituito, il loro

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principale compito era, ed è, di tenere sotto controllo e garantire gli “affari” tra mafie e potere centrale. Quali siano oggi i rapporti tra crimine organizzato e Stato sono noti a tutti gli esseri umani di buon senso. E’ un dato di fatto ormai che i rapporti tra i due poteri siano talmente stretti che è impossibile distinguere l’uno dall’altro. E’ impossibile colpire duramente il crimine organizzato senza danneggiare, in alcuni casi, anche il tessuto istituzionale. Le mafie si sono insinuate ovunque con l’approvazione del potere politico. Anzi non di rado la politica dipende dal potere mafioso: le mafie costruiscono le basi clientelari che poi divengono bacini elettorali per molti politici. Ovviamente, questo non significa che esiste una pace idilliaca tra le varie organizzazioni mafiose e i politici che le appoggiano. Oggi in Italia non ha senso parlare di questo o quel partito è molto più corretto parlare di questa o quella corrente politica legata a un clan piuttosto che a un altro. Si può legittimamente sostenere che trattare con la mafia non sia reato, però, non si può al tempo stesso omettere di evidenziare che nessun politico o uomo delle istituzioni alla sbarra è accusato del reato di trattativa. Il capo d’imputazione è minaccia contro un corpo politico-amministrativo dello Stato: la mafia fece pervenire richieste per interrompere la strategia stragista in atto. Minacciò lo Stato per estorcergli benefici e più di qualche uomo delle Istituzioni potrebbe aver agevolato la minaccia. Nessuno è stato incriminato dalla Dda di Palermo per aver ceduto in qualche modo alla trattativa, infatti, Conso o Mancino ad esempio devono rispondere di falsa testimonianza. Fiandaca cerca di dimostrare l’inconsistenza della stessa ragione dell’inchiesta, sostenendo la nobiltà d’intenti della trattativa, finalizzata a liberare lo Stato dai tentacoli di una mafia vincente. Prima di tutto va detto che non era il Paese sotto assedio, ma solo un ristretto numero di politici, condannato a morte da Cosa Nostra per non aver mantenuto patti scellerati e inconfessabili. Non possiamo e non dobbiamo neanche dimenticare che la trattativa ha sì salvato la vita a qualcuno,

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sacrificando però il suo più strenuo oppositore, un certo Paolo Borsellino! Io di nobile in quest’azione non ci vedo nulla, anzi definirei una simile condotta spregevole e abietta!

Strategie patrimoniali di lotta alla mafia I rapporti annuali dell’Unione europea sulle enormi ricchezze occulte delle varie mafie, confermano, senza possibilità alcuna di smentita, il mastodontico peso economico di questa piaga in Italia. E’ principalmente questo fattore che comprime la crescita economica, l’occupazione e lo sviluppo nel nostro Paese, con un furto ai cittadini onesti che è stimato, per difetto, in circa duecento miliardi di euro l’anno. I dati che hanno portato a questa stima, sono la cifra indicativa dei latrocini di mafia. Si parte dai traffici e dai profitti illegali in agricoltura fino alle ecomafie e alle zoomafie. Vi sono poi le contraffazioni, le opere pubbliche manipolate, le estorsioni, i traffici di esseri e organi umani, la prostituzione e il traffico di stupefacenti. Il fatturato delle mafie italiane è valutato intorno ai duecento miliardi di euro l’anno, stimati sempre per difetto, dalla Commissione parlamentare antimafia. Se a questi aggiungiamo la corruzione endemica in continuo aumento e l’evasione fiscale incontrollata, la cifra diventa spaventosa. Per questa situazione da vero e proprio stato di guerra, è necessario porre in essere misure straordinarie immediatamente efficaci partendo dal sequestro e dalla confisca dei beni con maggiore efficacia verso i mafiosi. Solo colpendo inesorabilmente i patrimoni illeciti si può arginare e affrontare con efficacia la grande cancrena del nostro Paese. Ritengo che nessun governo potrà essere mai credibile sulla lotta a questo fenomeno criminale finché ci saranno in vigore leggi che aiutano mafiosi, corrotti ed evasori (e penso al falso in bilancio, all’ex Cirielli, agli

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scudi fiscali, alle riforme sulle intercettazioni, alla normativa antiriciclaggio e così via). L’unica ancora di salvezza resta il rafforzamento della legislazione di contrasto patrimoniale (misure accessorie comprese), intervenendo su alcune gravi criticità che ancora si registrano, ad esempio, nell’applicazione, nella gestione e nella destinazione dei beni e delle imprese sequestrate e confiscate alle mafie. Ridarli alla società civile significherebbe riaffermare la legalità oltre che un modo di rilancio economico, occupazionale e sociale di quei territori martoriati. Riflettiamo per un attimo sul fatto che dove c’era il bunker di Francesco Schiavone, a Casal di Principe, oggi, c’è la sede di un centro per bambini autistici. Dove il piccolo Santino Di Matteo fu ucciso e sciolto nell’acido, a Corleone, c’è un giardino della memoria frequentato soprattutto da studenti. Ecco, questi sono i modelli che occorrerebbe imitare. Contro i casi di corruzione all’interno dei partiti, ad esempio, per lottare il potere politico mafioso è giunto il momento che anche i cittadini facciano la loro parte, liberandosi dei corrotti molto semplicemente non votandoli. Da quando, ad esempio, esistono leggi che permettono contratti flessibili, chi ha il potere di offrire lavoro, cioè politici, imprenditori e mafiosi, usa assumere, o promette di farlo, a tante persone con contratti precari, così da annullare la loro coscienza e forzarli ai propri voleri in cambio della conferma di lavoro. Questo ovviamente accade perché tutti questi criminali possiedono enormi quantità di denaro che gestiscono anche per i suddetti scopi. In questi casi il voto di scambio è legato a un ricatto che consente, grazie alla disoccupazione, di acquisire grandi poteri sulla pelle, e grazie a volte alla complicità, di chi ne ha effettivamente bisogno. Gli ambienti mafiosi esercitano questo potere su gran parte della popolazione per far confluire i voti su una determinata parte politica che ha favorito, con leggi o con la concessione di appalti per la costruzione di opere pubbliche, lo sviluppo delle attività imprenditoriali della mafia. Se vogliamo risolvere in parte i

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problemi delinquenziali di questo Paese, occorrono strumenti di comprovata e immediata efficacia in campo patrimoniale. Bisogna puntare sulla confisca immediata dei beni della mafia, dei grandi evasori e dei proventi della corruzione e utilizzare tutte queste risorse per sostenere le imprese in difficoltà e rilanciare l’economia e il lavoro. Per contrastare efficacemente la mafia, la priorità è destabilizzare lo “Stato mafioso”, togliendogli l’ossigeno, cioè l’enorme potere economico. E’ indispensabile che in questa battaglia lo Stato svolga a pieno un ruolo di primo piano. Com’era solito dire Giovanni Falcone, la mafia non è affatto invincibile. Bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo l’eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni. Soffermiamoci brevemente a riflettere su un recente accadimento: agli studenti di circa cento scuole italiane è stato chiesto se sia più forte la mafia o lo Stato? La risposta è stata netta: è più forte la mafia. Responsabilità spaventosa che grava certamente anche su chi ha governato e governa questa Nazione. Lo Stato italiano in questo specifico contesto mi sembra un medico che diagnostica un tumore in metastasi e prescrive la cura per una semplice infezione nonostante i sintomi del male siano chiari. In questo caso siamo di fronte a inettitudine, incoscienza, malafede o peggio correità?

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Conclusione “Adesso tocca a te” all’inizio e alla fine del libro contiene il senso di tutte queste pagine. Giovanni Falcone e Paolo Borsellino sono diventati martiri perché sono stati lasciati soli da tutti noi. Perché, ognuno di noi non ha fatto il proprio dovere fino in fondo. Perciò furono isolati, calunniati, vituperati e ostacolati. Erano un bersaglio facile! Troppo facile! Adesso tocca a te, quindi, diventa un impegno personale per ricordare le loro parole, i loro discorsi, le loro interviste, gli articoli sulle riviste, gli scorci di vita vissuta anche personale e intima. Non lasciarli soli nuovamente significa anche questo. Il mio brevissimo vissuto con Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Antonino Caponnetto mi ha insegnato che le mafie non sono per nulla fuori di noi, sono anche tra noi e il segreto nel combatterle è essere informati, consapevoli e uniti. Adesso tocca a te, è anche un imperativo categorico per evitare che si ritorni di nuovo indietro, ai silenzi, agli isolamenti, alle inerzie di Stato. Adesso tocca a me, significa che noi tutti abbiamo un debito verso di loro e dobbiamo saldarlo continuando la loro opera ciascuno nel suo campo di pertinenza, facendo semplicemente il nostro dovere; rispettando le leggi anche quelle che ci impongono sacrifici; rifiutando di trarre benefici dal sistema mafioso; collaborando con la giustizia; testimoniando i valori in cui crediamo, rifiutando le raccomandazioni e la corruzione; dimostrando a noi stessi che il sacrificio di Falcone di Borsellino e di tutte le vittime delle mafie, nessuna esclusa, sono serviti a qualcosa. Per quanto mi riguarda, nel mio piccolo, non abbandonerò questa lotta e questo libro rappresenta la continuazione di un impegno assunto oltre vent’anni fa. Chiedo al lettore che questa volontà di impegnarsi in prima persona non venga mai meno e ciascuno di noi abbia la forza e il coraggio di

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testimoniarla nella vita di tutti i giorni. Quando Giovanni Falcone lascia il Palazzo di giustizia di Palermo afferma affranto: "è penoso quello che ho dovuto ascoltare nei corridoi di questo palazzo, constatare che, tranne pochi, tutti sono contenti per il fatto che me ne sto andando”. Parole che lacerano il cuore e l’animo di chi ha creduto che la mafia in quegli anni poteva essere sconfitta definitivamente. “No, io non mi sento protetto dallo Stato”. Parole dette da Falcone e da Borsellino. Loro non avrebbero voluto diventare martiri, erano convinti che uno Stato tecnicamente attrezzato e politicamente impegnato potesse sconfiggere il crimine organizzato facendo a meno di tanti sacrifici individuali. “Quando esistono degli organismi collettivi, diceva Falcone, quando la lotta non è concentrata o simboleggiata da una sola persona, allora la mafia ci pensa due volte prima di uccidere”. Spero che “Adesso tocca a te” diventi un impegno per tanti affinché chi combatte le mafie non resti mai più isolato.

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Come vedono la mafia i ragazzi

Mi sembra utile riportare un breve sunto sulla visione della mafia da parte degli alunni delle scuole elementari e medie della provincia di Campobasso (Vinchiaturo, Portocannone, Larino).

Premetto che hanno le idee molto chiare su questo fenomeno di cui percepiscono senz’altro la gravità. Ecco perché riporto alcune loro riflessioni che mi paiono interessanti per un confronto di idee e perché no anche di soluzioni.

Le domande sono apparentemente semplici:

Cos’è la mafia? Come la combatteresti?

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Alcuni dei tantissimi ragazzi hanno risposto così: Antonio (Classe prima media) La mafia è un'organizzazione che fa reati gravi in tutta la terra. Per combattere la mafia prima di tutto bisogna che noi stessi non ci comportiamo come i mafiosi.

Stefano (Classe quinta elementare) La mafia è una delle più gravi piaghe della nostra società. La mafia si sconfigge combattendo l'omertà e cioè lo stare zitti.

Giuliana (Classe quinta elementare) La mafia è un'organizzazione che agisce non rispettando la legge. Per sconfiggere la mafia non bisogna avere paura.

Antonio (Classe quinta elementare) La mafia è un'associazione criminosa sorta perché in quei posti manca lo Stato. E' difficile combattere la mafia perché lì non c’è lavoro. Però si può creare lavoro così giovani lavorano e non diventano mafiosi.

Giuseppina (Classe seconda media) La mafia è un'organizzazione antistatale con scopi di lucro. La mafia si combatte con l'aver fiducia nelle istituzioni, nel compiere il proprio dovere di cittadini e denunciare i mafiosi.

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Nicola (Classe seconda media) La mafia è un fenomeno di cultura che si è radicata nella nostra mentalità. La lotta contro la mafia è molto dura, bisogna avere coraggio di cambiare testa.

Lucia (Classe prima media) La mafia è il disinteresse della gente. La mafia la si può combattere con l'onestà, eliminando l'omertà.

Daniele (Classe quarta elementare) La mafia è dentro lo Stato. La mafia si combatte contro l'omertà e i politici corrotti.

Luigi (Classe quinta elementare) La mafia è un fenomeno molto diffuso ai nostri giorni. Per combatterla bisogna che sia impartita ai giovani un'educazione come questa di oggi (si riferisce alla lezione sulla legalità).

Maria Teresa (Classe terza media) La mafia è un'organizzazione contro i cittadini. Per combattere la mafia dobbiamo togliere i privilegi e dare lavoro a chi non ce l’ha.

Tommaso (Classe quinta elementare) La mafia porta solo tanti morti e tanto dolore. Per combatterla ci vogliono pene severe e prendergli tutti i loro beni.

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Mattia (Classe terza elementare) La mafia è meglio se non c’è, così stiamo tutti più tranquilli.

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Aneddoti

Un capo mafia spiega a Paolo Borsellino cosa sia la mafia in poche parole: “Cos’è la mafia? Faccia conto che ci sia un posto libero da procuratore della repubblica e che presentino domanda tre magistrati. Il primo è bravissimo, senza dubbi il migliore, il più preparato e il più esperto. Il secondo ha appoggi formidabili dalla politica. Il terzo è un fesso. Chi vincerà? Il fesso. Ecco, questa è la mafia!” Si racconta che Giovanni Falcone e Paolo Borsellino spesso scherzassero tra loro e un giorno Borsellino gli disse: “Giovanni, ho preparato il discorso da tenere in chiesa dopo la tua morte: “Ci sono tante teste di minchia: teste di minchia che sognano di svuotare il Mediterraneo con un secchiello… quelle che sognano di sciogliere i ghiacciai del Polo con un fiammifero…ma oggi signori e signore davanti a voi, in questa bara di mogano costosissima, c’è il più testa di minchia di tutti… Uno che aveva sognato niente di meno di sconfiggere la mafia applicando la legge.

L'avverto, signor giudice. Dopo questo interrogatorio lei diventerà una celebrità. Ma cercheranno di distruggerla fisicamente e professionalmente. E con me faranno lo stesso. Non dimentichi che il conto che ha aperto con Cosa nostra non si chiuderà mai. Non mi chieda chi sono i politici compromessi con la mafia perché se le rispondessi, potrei destabilizzare lo Stato. È sempre del parere di interrogarmi? (Tommaso Buscetta a Giovanni Falcone).

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Mi fido della mia professionalità, sono convinto che con un abile, paziente lavoro si può sottrarre alla mafia il suo potere. Ho capito una cosa, molto semplice ma forse decisiva: gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi certamente pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti che però la mafia garantisce e lo Stato no. (Carlo Alberto Dalla Chiesa)

Io non cercavo nessuno, erano loro che cercavano me. Lei mi vede che possa baciare Andreotti? Le posso dire che era un galantuomo e che io sono stato dell’area andreottiana da sempre. Eccola qui, la storia del bacio. (Interrogatorio di Salvatore Riina)

Se parlo io ballano le scrivanie di mezzo Parlamento. (Raffaele Cutolo a Repubblica del 2 marzo 2015).

All’inizio uccidere è bello, ti senti onnipotente. Dopo averlo fatto la prima volta, vuoi subito riprovarci, ma ad un certo punto ti rendi conto di essere una nullità e di essere stato usato. Capisci l’errore e vorresti morire.” (Killer del clan dei Casalesi).

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Postfazione Non so quando l’autore abbia scritto queste pagine, di sicuro posso dire che il ricordo è così vivo che riesce a comunicarlo fortemente a coloro che avranno la fortuna di leggerle. Le emozioni, i colori e gli odori possono essere vissuti da ciascuno. Il pianto disperato di Rosaria Costa o la frase di Antonino Caponnetto “è finito tutto”, fanno parte della vita di ogni italiano. Si ripercorrono questi passaggi magistralmente. Immagino uno scrittore dietro una cinepresa. E’ facile amare Falcone oggi. Colpisce il fatto che l’autore lo abbia ammirato allora precorrendo i tempi e percependone anticipatamente il valore preziosissimo del magistrato e dell’uomo. Lo stesso dicasi per tutti coloro che gli sono stati accanto nel periodo delle grandi stragi mafiose. Il suo libro è uno strumento utilissimo per i ragazzi ma anche per i genitori, ci aiuta ad insegnare valori ai nostri figli! Un giorno lo farò leggere a mia figlia Elena. E sarà stupendo dirle che l’ha scritto una persona a me cara. Encomiabile è l’equilibrio tra ricordi personali, argomenti impegnati e nozioni di antimafia, queste ultime visibili, in particolare, agli addetti ai lavori. La delicatezza del racconto lo rende accessibile anche ai più giovani e a coloro che non sono esperti della materia. Gli episodi scorrono veloci sulle pagine, per chi come me conosce bene l’autore è difficile pensare che tante cose le abbia tenute custodite segretamente per un tempo così lungo. Come la promessa fatta a Caponnetto, posso immaginare di cosa si tratti e posso capire cosa lo spinga a parlare sempre di legalità, di criminalità organizzata e di lotta alla corruzione alle nuove generazioni. Argomenti difficili, a tratti complicati e scottanti, diventano di facile comprensione e sembrano più veri perché raccontati da chi li ha vissuti o che si fa portavoce di chi ha scritto la storia. E’ stupefacente il modo in cui riesce a trascinare tutti i sensi nelle pagine del libro: lo sguardo

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rivolto insieme a Caponnetto verso il mare di Termoli mi restituisce un’immagine profondamente familiare ed il foglio è pervaso dalle stesse sensazioni di felicità che ha provato durante i loro racconti, la stretta di mano a Paolo Borsellino coinvolge ogni lettore, il profumo che impregna la lettera inviata da Giovanni Falcone è percepito intensamente, il suono delle parole è melodioso. Arrivati all’ultima pagina, l’amaro delle immagini che la storia ci ha forzosamente consegnato, lascia il posto alla dolcezza della speranza… finché ci saranno uomini come te. Con molto affetto. Roma, 10 luglio 2017 Vincenza Casale (Avvocato, Cassazionista in Roma).

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Vincenzo MUSACCHIO: Docente di diritto penale e criminologia in varie Università italiane e straniere. Studioso ed esperto di criminalità organizzata e di strategie di lotta alla corruzione. Fondatore e direttore scientifico della prima Scuola di Legalità in Italia intitolata a don Giuseppe Diana. La sua attività scientifica ha inizio nel 1992, quando diventa professore di diritto penale nell'Università degli studi del Molise e a soli ventiquattro anni è titolare della cattedra di diritto penale amministrativo diventando il più giovane professore a contratto d'Italia per quell'anno. Ha insegnato materie afferenti alle discipline penalistiche e alla criminologia a Brescia, Napoli, Chieti, Campobasso e da ultimo presso l'Alta Scuola di Formazione della Presidenza del Consiglio in Roma e tenuto corsi di diritto penale in Università straniere tra cui l'Università di Siviglia e di Barcellona, in Argentina ed in Brasile. Dal 1994 al 1996 ha svolto attività di ricerca presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche (IRSIG-CNR) di Bologna sotto la direzione del Prof. Giuseppe Di Federico, occupandosi prevalentemente di studi comparatistici riguardanti la criminalità organizzata nei paesi europei ed extraeuropei. E' associato presso il Rutgers Institute on Anti-Corruption Studies (RIACS) di New York occupandosi dei sistemi di lotta alla corruzione nella pubblica amministrazione. Da oltre vent'anni è promotore e attivista nella diffusione della cultura della legalità nelle scuole di ogni ordine e grado. Comincia la sua attività di lotta contro le mafie quando conosce Antonino Caponnetto e con lui organizzano

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vari incontri nelle scuole italiane. Come editorialista, il Prof. Musacchio ha collaborato con il Sole 24ore, Italia Oggi, con lo storico quotidiano palermitano “L'ORA”, con il mensile “I Siciliani” fondato da Pippo Fava, con il quotidiano online “Resto al Sud”, con la testata nazionale “Il Manifesto” e con la “Gazzetta del Sud”. Nel 2014 fonda la Scuola di Legalità “Don Peppe Diana” con sede a Roma e in Molise e realizza il Progetto “Legalità Bene Comune” che nello stesso anno si estende in ambito nazionale nella scuole di ogni ordine e grado con nomi di spicco quali Pino Arlacchi, Maria Falcone, Emilio Diana, Elena Fava, Salvatore Borsellino, Simona Dalla Chiesa, Giovanni Impastato e tantissimi altri attivisti nella lotta alle mafie d’Italia. Nella sua attività contro le mafie e per la legalità, subisce anche minacce di morte a se ed ai propri familiari ma continua senza timori il suo lavoro e la sua attività di diffusione della legalità in tutte le scuole d'Italia passando da Scampia fino a Foggia e a Palermo.

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AVVERTENZE

Le fotografie utilizzate in questo libro sono tratte da internet e sono di pubblico dominio. I brani e le frasi, o sono diretta concessione degli interessati, o tratte da quotidiani nazionali e quindi anch’esse di dominio pubblico.

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Scuola di Legalità “don Peppe Diana” di Roma e del Molise Per contatti: sdldpd1994@gmail.com vincenzomusacchio@yahoo.it

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“Costoro non hanno ancora capito che i briganti e la mafia sono due cose diverse. Noi abbiamo colpito i primi che, indubbiamente, rappresentano l'aspetto più vistoso della malvivenza siciliana, ma non il più pericoloso. Il vero colpo mortale alla mafia lo daremo quando ci sarà consentito di rastrellare non soltanto tra i fichi d'india, ma negli ambulacri delle prefetture, delle questure, dei grandi palazzi padronali e, perché no, di qualche ministero”. [Cesare Mori – Prefetto di Palermo, 1909]

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