I fratelli di kabul caroline brothers

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Questa è un'opera di fantasia. Qualunque somiglianza dei personaggi con persone reali, esistenti o esistite, è puramente casuale. Titolo originale: Hinterland Copyright © 2011 by Caroline Brothers The moral right of the author has been asserted. Published by agreement with Marco Vigevani Agenzia Letteraria

Traduzione dall'inglese di Daniela Di Falco


Prima edizione ebook: settembre 2013 Š 2013 Newton Compton editori s.r.l. Roma, Casella postale 6214 ISBN 978-88-5415904-4

www.newtoncompton.c Realizzazione a cura di Corpotre, Roma


Caroline Brothers

I fratelli di Kabul

Newton Compton editori


Per Navid, Bashir, Hamid, Alixe, Jawed, Jawad, Ramin, Ramzi, Nazibullah, Rahim, Mushtaba, Ali, Mohammed, Hussein, Sohrab, Reza e Qasim.


I fratelli di Kabul Come ti metti in viaggio per Itaca, devi augurarti che sia lunga la strada. Itaca, Kostandinos Kavafis Come faccio a farmi una vita? Jawad, 14 anni Arrivano nella notte, squadriglie invisibili con il piumaggio sgualcito, i tendini e i pettorali doloranti per l’assidua lotta contro i venti che soffiano dalla costa. Qualcosa di ultraterreno li attira senza errore nel posto giusto. Gli stretti cunicoli nella parete della scogliera sono ancora lì dall’anno precedente. Le bianche insegne di guano, seppur sbiadite, segnalano ancora i loro ingressi nell’argilla friabile mista ad arenaria. Qualche rifugio è crollato, là dove le radici dello spinifex non sono riuscite a mantenere intatto il soffitto. Eppure, sono ancora lì, nonostante il vento e l’umidità marina e l’erosione – i rifugi dove avevano covato le uova, e dove i loro piccoli


si erano stretti insieme prima di quel lungo, estatico abbandono dall’alto della scogliera, tutta la vita affidata ai venti che arrivano stridendo dal mare e si infrangono contro le correnti d’aria dell’entroterra, ogni fede, ogni pensiero, ogni intenzione concentrata in quell’unico, e più terrificante, atto istintivo: il primo salto cieco nel volo. Non era un segreto, eppure era uno dei misteri della natura, semplicemente perché, per un periodo di tempo incalcolabile, non era stato compreso dall’uomo; il lungo pellegrinaggio verso sud sorvolando un abaco di isole, l’immensa falce blu del mare, le coste frastagliate di continenti che si srotolano sotto di loro come una mappa e, finalmente, l’arrivo, per così dire: barcollanti sulle zampe lunghe ed esili, le ali malconce che sbattono una, due volte, prima di ripiegarsi come pallidi ombrelli. Loro era l’armonioso recupero della dignità su un’isola all’estremo Sud del mondo. Poi, il penoso compito della conta tra quanti avevano compiuto la trasvolata e gli altri, perduti chissà dove lungo le rotte dell’oceano, del cielo, del vento. L’accoppiamento, la deposizione delle uova, la


cova, la pesca, l’allevamento dei piccoli. E infine, fedeli all’antica Terra inclinata sul suo asse, il lungo viaggio verso nord, i piccoli abbandonati allo stesso istinto di navigazione che aveva guidato loro e i loro genitori, e i genitori dei loro genitori, nella medesima staffetta di sopravvivenza, strumentale a un compito di primaria importanza: superare quelle miglia marine sotto l’influsso magnetico del sole. Sono arrivati due settimane troppo tardi e il fiume è in piena. Le nevi sui Balcani lontani si sono sciolte prematuramente, ingrossando i rivoli e i ruscelli di montagna che alimentano il largo fiume di confine con il suo raccolto annuale di limo. L’acqua crescente lambisce i tronchi degli alberi e s’intrufola nelle risaie che ricoprono quella terra di nessuno, trasformando i campi in riproduzioni opalescenti del cielo. Persino durante il giorno non ci sono uccelli, né alcun segno di vita. Aryan si scosta i capelli gocciolanti dagli occhi. Riesce appena a scorgere gli alberi spogli al di là del ponte e, in lontananza, l’argine ripido che porta all’autostrada in Europa.


«Seguitemi», dice il ragazzo con il braccio avvizzito. Gli uomini si mettono in fila, quindici in tutto, incespicando sul terreno intriso d’acqua. Avanzano lungo i bordi che dividono i campi, saltando isole di erba e terra. Aryan sente l’acqua insinuarsi dentro le scarpe da ginnastica, penetrare nei calzini che si vanno lentamente raggrinzendo sotto le piante dei piedi. A ogni passo le scarpe risucchiano e scivolano sul fango; sussulta al rumore che la sua mente inquieta amplifica per miglia e miglia nel paesaggio tetro. Più avanti, il suo amico impreca sotto voce contro le vesciche che lo tormentano; fra loro, Kabir avanza a lunghe falcate sulle gambe robuste, inserendo qui e là un saltello per non restare indietro. La coltre di nuvole che ha lasciato solo una fascia sottile a dividere il cielo dalla terra significa che questa sera, almeno, non ci sarà pericolo di luna. Si fermano bruscamente. Si vedono le torce delle guardie di frontiera ammiccare e zigzagare come lucciole lungo il ponte stretto. Aryan si augura che questa notte i soldati siano disattenti; la traversata finirà in un’imboscata se la gente del ragazzo si è


lasciata corrompere da entrambe le parti. Il passaparola – la saggezza cumulativa che viaggia lungo gli stessi itinerari degli uomini in fuga attraverso terre ostili – lo ha messo in guardia contro le prigioni turche, dove coloro che vengono catturati nelle zone di confine restano a marcire per il resto dei loro giorni. Si acquatta nel fango e nella pioggia fine e prega di non aver fatto male a fidarsi di questo ragazzo deforme. Ma non sono le luci sul ponte che hanno spinto la loro guida a immobilizzarsi all’istante e inginocchiarsi nella melma. Le sue orecchie hanno colto quel suono molto prima che Aryan scorga l’ombra grigia che avanza lentamente lungo la strada che hanno appena attraversato: un veicolo dell’esercito, a luci spente, diretto agli edifici militari raggruppati intorno alla testa di ponte. Aspettano, ripiegati su se stessi ma in vista nel campo aperto, osando appena respirare. Aryan sente l’acqua che gli ha inzuppato l’orlo dei jeans arrampicarsi fino alle ginocchia; il tessuto si attacca alle gambe perdendo ogni elasticità e il vento che lo investe trasforma la pelle in ghiaccio. I denti battono come una macchina da cucire dentro il cranio. Il


calore abbandona i muscoli e la stanchezza incombe come un brutto sogno. Finalmente il ragazzo si alza in piedi. Il veicolo in missione solitaria è scomparso; i soldati stipati nel calore viziato dell’abitacolo non hanno visto o voluto vedere le creature fradice acquattate nell’oscurità. Allungando le membra indolenzite, la banda riprende la sua marcia lasciandosi alle spalle la minacciosa mole della testa di ponte. Sembra che stiano camminando da ore. Aryan tiene d’occhio la fila d’alberi all’estremità opposta dei campi e nota che il livello dell’acqua sta salendo. Non sente lo scorrere del fiume ma ne avverte l’odore mentre si avvicinano, il tanfo di melma e di decomposizione e il freddo respiro dell’acqua distesa sotto l’aria umida della notte. Si arrotola il bordo dei jeans zuppo d’acqua. Il ragazzo scivola via nella luce incerta e poi ricompare all’improvviso, lesto come un airone, spingendo una piccola imbarcazione gonfiabile con una lunga pertica. Pesca all’interno un mucchio di gomma afflosciata e una pompa ad aria che gli uomini azionano a turno. Qui l’Evros è più largo, ma la corrente è ancora


forte. Aryan non ha mai visto un fiume così deprimente – niente a che fare con le vie d’acqua della sua terra, che si seccano in estate ma poi si trasformano in torrenti impetuosi a ogni primavera. Cerca di misurare la distanza, si domanda se non sia il caso di cercare un punto più stretto a monte. Di colpo sussulta; qualcosa ha catturato il suo sguardo, e anche quello di Kabir. Un cadavere trasportato dalla corrente rotola lentamente nelle acque scure, le braccia irrigidite graffiano il cielo. Una morsa gli serra il petto e non lo abbandona anche dopo che il corpo si rivela essere un tronco, strappato al terreno dalle piogge. Cerca di non prenderlo come un cattivo auspicio, o di pensare che ne arriveranno altri a capovolgere la loro imbarcazione di fortuna. «È solo un bizzarro tronco divelto, Kabir», dice. Il fratello gli afferra la mano. Il suo viso è un disco cereo nella luce crepuscolare. Adesso, almeno, sono fuori dal campo visivo del ponte. Sulla sommità dell’argine lontano gli alberi tremano violentemente, investiti dai fari di autoarticolati che affrontano la curva. Aryan si


chiede se il loro camion sia già dall’altra parte ad aspettarli. «Qui è dove vi lascio», annuncia il ragazzo. Porta un Occhio Blu turco appeso a un laccio di cuoio intorno al collo e incontra raramente il loro sguardo. Con l’unica mano abile si accende una sigaretta; la punta rosso fuoco scava un buco nell’aria gelida. «Raggiungete quell’albero alto – lo vedete? – appena prima della curva del fiume», dice il ragazzo in un inglese stentato. Aryan pensa che deve avere quasi la sua età. Segue il dito del ragazzo e scorge a fatica lo scheletro di una quercia nella luce residua. «Quando arrivate là, tagliate l’imbarcazione così». Mostra come fare mimando i gesti con un temperino. «Capovolgetela e fatela affondare. Così, se vi trovano, non possono rimandarvi indietro. Fatto questo, risalite l’argine fino alla strada. Quando raggiungete il muro, restate nascosti. Aspettate finché non sentite il camion fermarsi. Non dovete parlare. Uscite fuori solo quando l’autista vi dà il via». Con la mano buona, il ragazzo slega la corda che tiene legata la prima alla seconda imbarcazione e li fa salire a bordo.


«Quanto manca all’arrivo del camion?», domanda qualcuno. Il ragazzo si stringe nelle spalle. «Aspettate finché arriva», dice. I suoi lineamenti appaiono scarni nell’oscurità che si posa come cenere sulla loro pelle. «Ora vado. Ricordate, se vi prendono, non mi avete mai visto. Se vi rimandano indietro, vi porteremo di nuovo dall’altra parte». Gira loro le spalle e si allontana, esile figura di mezzaluna che in breve si confonde con la linea degli alberi, lasciando solo un tenue aroma di tabacco a tracciare arabeschi sopra il terreno umido e molle. Si discostano dalla riva, sfiorando le acque poco profonde che fremono e si increspano al vento. Una strana quiete cala sul mondo. Aryan distingue il profilo di Kabir nell’oscurità, i capelli ribelli per una volta lisciati dalla pioggia. Di fronte a lui siede in silenzio l’amico Hamid, le ginocchia contro il petto. Nessuno apre bocca, sapendo che la distesa d’acqua può tradire la loro presenza. Si sono spinti troppo oltre per mettere a repentaglio la traversata, pericolosa quanto le loro odissee individuali attraverso i deserti e i passi montuosi di


Afghanistan, Kurdistan e Iran. Man mano che il fiume diviene più profondo sentono la corrente accelerare. La pertica affonda nel limo vellutato e uno degli uomini più robusti la impugna con entrambe le mani; l’imbarcazione oscilla mentre la manovra a fatica. Aryan dubita che qualcuno di loro sappia nuotare. Guarda senza rimpianto la terra che si stanno lasciando alle spalle e osserva la seconda imbarcazione staccarsi dalla riva. Ora la corrente li solleva e li trascina rapidamente. Aryan ne avverte la forza sotto i piedi, come fosse una creatura immensa e viva che preme contro il fondo di gomma del natante. Sta già imbarcando acqua e comincia a sgonfiarsi. Di lì a poco l’uomo tira su la pertica; non riesce più a toccare il fondo e rimane lì, smarrito e impotente, mentre scivolano a valle privi di timone. Il punto di approdo sta sfuggendo; finiranno per superarlo. Con occhi atterriti, gli uomini osservano il traghettatore mantenersi a fatica in equilibrio nel cercare un appiglio, lottando contro la corrente che vuole strappargli di mano la pertica. Finalmente incontra resistenza e con un’unica, poderosa spinta, dirige


l’imbarcazione verso fondali più bassi. L’argine proietta un’ombra nera sull’acqua quando toccano terra, su un lembo di spiaggia ciottolosa, molto più a valle dell’albero indicato dal ragazzo. L’altra barca procede a fatica e approda poco più a monte. Gli uomini arrancano nei mulinelli d’acqua alta fino alle cosce, imprecando e incespicando e afferrandosi ai rami che sporgono sul fiume per trascinarsi a riva. Aryan osserva l’ultimo uomo sceso dalla seconda barca sollevarla e tagliarla con il coltello. Ma la gomma è resa pesante e scivolosa dall’acqua e gli sguscia tra le mani come un’anguilla, portata via dalla corrente. «Mi piacerebbe che le guardie fossero fuori a pesca e prendessero all’amo quella grossa medusa», dice Hamid. Anche loro incidono lo scafo. La gomma sibila sotto il getto violento dell’aria e si accartoccia in una floscia membrana nera. Ma non vuole saperne di andare a fondo, così la spediscono nella scia vorticosa della compagna. Avanzando a fatica in mezzo alle sterpaglie, risalgono il fiume di qualche metro e cominciano ad


arrampicarsi nella notte acquosa. Aryan ha i capelli incollati alla fronte. Le felci gli graffiano le mani e un rivolo d’acqua gli scorre dietro la nuca. I rami bassi si afferrano al suo anorak, si impigliano negli indumenti dell’uomo che lo precede e gli rimbalzano sulla faccia. Sente il respiro affannoso di Kabir e cerca di rallentare il passo e adeguarlo a quello del fratello, di impedire alla paura di affrettare la sua ascesa. Hamid inciampa una volta e impreca. Qualcuno alle sue spalle gli ringhia di abbassare la voce. Non c’è un sentiero, ma Aryan cerca di calmare i nervi pensando a quanti devono aver percorso quel cammino prima di loro, immagina di vedere le loro impronte nell’argilla. Sull’autostrada più in alto sfrecciano i camion, schizzando pietrisco. Rami si allungano ad afferrare coni mobili di luce. Prega che la polizia di frontiera non pattugli la strada questa sera. Ora, proprio come ha detto il ragazzo, hanno raggiunto un muretto basso. Si infilano nello stretto varco tra esso e la vegetazione sferzata dalla pioggia, e aspettano. Aryan si concentra sul proprio respiro come gli ha


insegnato Omar, placando il battito accelerato del cuore. Qualcuno tenta di reprimere un colpo di tosse. Lo stomaco vuoto brontola. Cerca di soffocarlo prima che il suono echeggi e rimbombi nella valle, abbastanza forte da risvegliare le case addormentate, allertare le guardie di confine, mettere in agitazione i cani e i braccianti e gli autisti dei camion che fumano nel lato sottovento dei loro autoarticolati, rivelando al mondo la presenza di quindici uomini ammassati vicino alla curva di un’autostrada che collega due mondi. La mente fa un balzo indietro alla cartina che ha cercato su Internet, alla linea rossa tratteggiata del confine che serpeggia giù dalle montagne, attraverso la zona minata, costeggiando il corso del fiume fino al mare. Dopo di che, il loro viaggio diventa un groviglio indecifrabile di possibilità, di linee ferroviarie, rotte di navigazione e strade. «Quanto dobbiamo aspettare?», chiede Hamid. Aryan si stringe nelle spalle. «Non lo so, Nido d’uccello», risponde, districando una foglia accartocciata dalla frangia dell’amico. Hamid scuote via i detriti dai capelli. «Sarà meglio che non si siano dimenticati di mandare il camion».


«Verranno», dice Aryan. «Si rovinano la piazza se ci abbandonano qui». «Sono lieto che tu abbia tanta fiducia in loro». Kabir si appoggia al fratello. «Sei un bravo soldato», gli dice Aryan. «Cerca solo di non addormentarti». Kabir sorride attraverso le palpebre chiuse. «Sto semplicemente riposando gli occhi». «Fortuna che non è lui a farci da sentinella», commenta Hamid. «Sono perfettamente sveglio anche se ho gli occhi chiusi», replica Kabir. «Be’, non dimenticare di aprirli quando arriva il camion», dice Hamid. «Non torneremo indietro per qualcuno che ha dormito più del dovuto». Sulle spine, Aryan finge di volersi scrollare di dosso il fratello. «Ricordami dove stiamo andando, soldato». «Stiamo andando a scuola». «Dove?» «A scuola!». «E quando intendiamo arrivarci?» «Alle nove e mezza». «Quando?»


«Puntuali!». «E come intendiamo arrivarci?» «KabulTeheranIstanbulAteneRomaParigiLondra!», risponde prontamente Kabir. «Bravo!», dice Aryan. «Ma scommetto che tu ci arriverai per primo». Hamid sogghigna ad Aryan attraverso la pioggia sottile. L’ha già sentito prima, il modo in cui Aryan ha insegnato al fratello a elencare i nomi delle capitali come pietre di guado che attraversano la mappa del mondo senziente, una “via dei canti” di luoghi visti e immaginati che indica dove stanno andando e dove sono stati, e offre loro una salda presa sulla memoria della loro identità. Aryan non direbbe mai a Kabir che per lui quel rituale è più di uno scherzo; non gli confesserebbe mai quanto sia dettato dalla paura. A volte si sveglia in preda al panico, da un sogno in cui il fratello più piccolo gli viene strappato via dalla folla. A volte sono i trafficanti o uomini in uniforme a separarli. A volte c’è un posto di blocco, altre un’area di servizio per camionisti – ogni volta è costretto ad abbandonare suo fratello lungo il tragitto. Se succede qualcosa, pensa Aryan, Kabir avrà ancora


una possibilità se ricorda dove andare, se i nomi delle città diventano coordinate per calcolare la rotta, come le stelle che i marinai un tempo usavano per orientarsi. Cadono nel silenzio, ascoltano lo sgocciolio della pioggia dai rami e l’attrito degli pneumatici sull’asfalto. «Qual è la prima cosa che intendi fare quando arriviamo in Europa?», chiede Hamid dopo un po’. Aryan riflette. «Mangiare il più grosso kebab di agnello mai visto», risponde. «Poi dormire in un letto come si deve e procurarmi una nuova scheda per il mio telefono». «Ma queste sono tre cose, stupido. In tal caso anche io voglio un kebab gigantesco, più una doccia bollente, e vedere Bruce Willis al cinema. Dopo di che prenderò in prestito il tuo telefono». «Ottimo, così potrai pagare la scheda», dice Aryan. «Tu sì che sei un vero amico», replica Hamid, facendo rimbalzare un sassolino ai suoi piedi. «Chi è Bruce Willis?», vuole sapere Kabir. «Bruce Willis è un grande eroe afghano», dice Hamid. «L’ho visto in un negozio di televisori a Istanbul – venti di lui, tutti in una volta, su fino al


soffitto – un potente uomo d’azione». «Bruce elevato alla ventesima potenza», aggiunge Aryan, sorpreso di ricordare una lezione di matematica di tanto tempo prima. «Forse avranno anche Titanic, e i film di Bollywood», dice Kabir. Ha smosso una pietra dal terreno e sta controllando se i millepiedi e le larve di libellula locali sono uguali a quelli che conosce. «E tu cosa sai di Bollywood?», dice Hamid. «Parecchio», risponde Kabir. «In Iran c’erano dei tipi che vendevano DVD per strada». «Non potreste fare silenzio, voi ragazzi?». La voce arriva da un punto imprecisato lungo il muretto. «Chi ci sente?», ribatte Hamid. «O in Grecia i camion hanno le orecchie?». Aryan cerca lo sguardo di Hamid e fa una smorfia scherzosa, sperando di far sbollire la rabbia dell’amico. Da quando si sono incontrati a Istanbul, Hamid è sempre stato così, capace di far sbellicare dalle risate uomini maturi ma anche facile all’offesa, e mutevole nei confronti di un’autorità che non riesce a influenzare. Hamid borbotta qualcosa a denti stretti, ma tiene a freno la lingua.


Aryan poggia la fronte contro il muretto di cemento. Vede cristalli di sabbia scintillare come zucchero nell’impasto di cemento, le crepe abbastanza larghe da nasconderci qualcosa, magari infilarci dentro un messaggio. Segue la linea frastagliata con la punta del dito. L’adrenalina della traversata sta scemando, ormai, rimpiazzata da un insopprimibile desiderio di dormire. Per restare sveglio, cerca di richiamare alla mente i volti di tutti quelli con cui ha giocato a calcio nella squadra di Omar. Ora che non è più in movimento, il corpo inizia a raffreddarsi. Gli indumenti sembrano assorbire l’umidità della notte. Ricomincia a tremare. Dopo quelle che paiono ore, sentono un autoarticolato che rallenta prima di imboccare la curva, il pietrisco scricchiolare sotto le ruote. Il grosso veicolo si ferma con un ultimo brontolio. Nessuno osa respirare. Forse non è il loro camion; forse è solo uno dei tanti autisti che si è fermato a pisciare. Aryan avverte un disperato bisogno di muoversi; qualunque cosa pur di sciogliere i crampi nelle gambe. All’improvviso, sente un fischio sommesso.


Sbircia oltre il muretto. I fanalini di coda rosseggiano ai lati della targa. Il gas di scarico turbina nell’aria come una nuvola di respiro. «Andiamo!», dice qualcuno. Uno degli uomini scavalca il muretto e apre gli sportelli. Uno dopo l’altro, saltano fuori dal nascondiglio e si tuffano all’interno del mezzo. Le ruote sono più alte di Kabir; Hamid lo issa a bordo afferrandolo per le ascelle. Aryan quasi gli atterra addosso. Pochi istanti dopo, il riquadro scuro del cielo viene cancellato; i lucchetti blocca-porte cigolano. Sono chiusi dentro. Si stanno ancora sistemando sul carico nell’oscurità del cassone quando il motore si avvia, le ruote mordono il pietrisco e il veicolo rolla verso l’autostrada. Allungano le braccia e si afferrano al primo appiglio che trovano per non perdere l’equilibrio. Un uomo fa brillare la fiammella di un accendino. Bizzarri e distorti contro lo sfondo buio, i loro volti sono rigidi come maschere. «Benvenuti in Europa», dice qualcuno. L’autista scala le marce finché il grosso veicolo rallenta e si ferma. Voci. Rumore di passi. Il ringhio


cupo di un cane. Gli uomini restano immobili. Aryan non sa quanto abbiano viaggiato, né dove siano. Cerca un contatto con Kabir, trova la sua spalla nel buio e la tiene stretta. Gli sportelli del camion si aprono lasciando entrare l’aria della notte. Un fascio di luce setaccia l’interno. Aryan si rannicchia fra le casse, ma sa di non essere ben nascosto. Non vede chi impugna la torcia – soldato, guardia di confine, ufficiale di dogana, camionista, poliziotto. Il raggio luminoso percorre rapidamente le travi, sonda le pile di scatoloni, poi si inchioda su di lui. Il cuore gli batte come un maglio nelle orecchie. La luce lo esamina per un lungo momento, sbiancando il mondo dietro le palpebre serrate. Un fremito d’ansia gli sfiora la spina dorsale. Si chiede se hanno intenzione di sguinzagliare il cane all’interno del camion. «PerdonamiPerdonamiPerdonami», ripete fra sé, la preghiera più semplice che abbia mai imparato. Dopo un momento gli sportelli si richiudono. Accecati di nuovo dall’oscurità, gli occhi si aprono su un confuso scintillio rosso e nero. Un rapido scambio di battute con l’autista e poi il veicolo si trascina di nuovo sulla carreggiata.


Sono in viaggio. Aryan perde ogni cognizione del tempo. Stipati nel ventre di quel camion, nessuno di loro ha idea della distanza percorsa, se sia giorno o notte, in quale Paese siano. Con il passare delle ore, le dimensioni del mondo si riducono ai rumori della strada: la viscosità del bitume sotto le ruote, lo spostamento d’aria causato dai veicoli di passaggio. Gli uomini sonnecchiano, allungano le gambe intorpidite, adattano i corpi stanchi agli angoli fra casse e pareti. Il montante metallico del camion è come un palo che corre lungo la schiena di Aryan. Una volta il mezzo accosta al bordo della strada e l’autista scende a terra. La tensione si diffonde nell’oscurità. Sopra il ronzio del motore al minimo si sente il fruscio di una vescica che si svuota. Il viaggio interminabile riprende. Kabir è incosciente, la testa calda e pesante poggiata sulla coscia del fratello. Aryan gli carezza i capelli ancora umidi. Comincia a fare freddo, e gli tira su il cappuccio dell’anorak a coprirgli le orecchie. Lo spigolo di una scatola gli preme nel fianco, ma se si sposta lo sveglierà. Si muove,


comunque, e Kabir si agita nel sonno. «Va tutto bene», lo rassicura Aryan. Il ragazzo riprende il suo respiro regolare. Nel buio sente qualcuno russare dolcemente, e sorride. Non c’è posto dove Hamid non riesca a dormire. Il corpo di Aryan è stanco, ma la sua mente non lo lascia riposare. Aryan si abbandona al monotono rollio del camion, lo ascolta macinare miglia man mano che li trasporta nell’entroterra, lontano dalla zona di confine. Cerca di ricordare su quanti camion hanno viaggiato da quando hanno lasciato l’Afghanistan: camion di pecore, camion di frutta, una volta su un camion di fertilizzanti, tra le esalazioni dei bidoni, e ognuno con un suo fetore – di letame o di marciume o di prodotti chimici – che gli restava appiccicato ai capelli per giorni e giorni. Nel buio, alcuni uomini parlano a bassa voce. «Sapete dove ci lasceranno?». Aryan non riesce ad abbinare un volto a quella voce inquieta. «Da qualche parte fuori Patrasso, direi». Questo era il timbro rauco di un fumatore. «Il problema là è la polizia», dice una terza voce. «Se ci prendono, ci rispediranno oltre il fiume».


«Dovremmo dividerci in gruppi più piccoli, due o tre al massimo». «Il punto è trovare il mare e seguirlo fino al porto», dice il fumatore. «Tutto dipende da dove ci scaricano», aggiunge un’altra voce. Il loro insistente mormorio viene risucchiato nel sibilo del vento lungo l’autostrada. Dopo un po’ il camion rallenta e s’inclina seguendo una lunga curva. Uomini e scatoloni scivolano nella stessa direzione. «Perché stiamo uscendo dall’autostrada?», domanda qualcuno. «Forse c’è una deviazione». «Forse c’è un altro checkpoint». «Forse ci faranno scendere a pisciare». «Solo se viaggi in prima classe, amico». Il manto stradale non è più liscio come prima. Sotto le ruote si avverte un ritmo diverso, un doppio sobbalzo che si ripete con regolarità ogni volta che gli pneumatici incontrano una giunzione sulla superficie. Il cambio di tono sveglia uomini che hanno imparato ad ascoltare nel sonno; dal fruscio dei loro indumenti e dal loro silenzio, Aryan


intuisce che sono vigili, con le orecchie tese a cogliere ogni indizio utile. «Ho fame», dice Kabir. Aryan tasta il taschino sul torace e ne tira fuori un rotolo di carta argentata. Passa al fratello un confetto di gomma da masticare turca. Dopo si sentirà ancora più affamato, ma l’improvviso apporto di zucchero e una parvenza di cibo inganneranno lo stomaco per un po’. Ripone l’ultimo pezzo di gomma nell’anorak, covando la propria fame come un segreto. Per distrarsi, fa un inventario mentale delle tasche. – Un portafoglio di vinile marrone con il numero di telefono della casa dello zio in Iran scritto sul bordo strappato da un giornale, e il numero di cellulare del nipote del sarto che viveva in Inghilterra. – Due banconote da venti euro, l’equivalente di tutti i soldi iraniani che possedeva quando Mohamed li aveva cambiati per lui a Istanbul. – Una fotografia, piegata in due, di Aryan e dei suoi fratelli, in posa con i genitori e il nonno, scattata da un operatore umanitario che suo padre aveva conosciuto in Afghanistan molti anni prima,


quando Kabir non era ancora nato. – Un taccuino con schizzi tracciati lungo il viaggio e versi di poesie afghane che gli erano tornate in mente e, su un pezzo di carta, un indirizzo di Roma che Ahmed della fabbrica di cucito aveva dato loro prima della partenza. – Una penna che aveva trovato sul marciapiede a Istanbul, vicino a un uomo che vendeva biglietti della lotteria. – Un ultimo pezzo di gomma da masticare avvolto nella carta argentata. – Un cellulare rosso senza sim – gettata via per eliminare qualsiasi traccia del loro passaggio in Turchia. Cerca a tastoni la cintura. Al suo interno, cucito fra i due strati di cuoio, l’ultimo denaro rimasto per il viaggio. Passano le ore. Aryan non sa dire se abbia sonnecchiato o dormito. La strada si fa sempre più accidentata. I grossi pneumatici sobbalzano dentro le buche. Il vento che li ha accompagnati lungo l’autostrada è calato. Finalmente si fermano.


Kabir si alza a sedere. Una morsa serra lo stomaco di Aryan al suono di voci maschili all’esterno. Gli sportelli si spalancano. Per la prima volta, vede l’autista, la sua sagoma scura stagliata contro un pallido rettangolo di cielo. È un uomo grosso con i capelli corti e ispidi come uno scovolino per bottiglie, gli occhi piccoli in un volto rubizzo. Aryan batte le palpebre nella luce pastello, scorge l’azzurro profilo indistinto delle colline in lontananza e si domanda se sia l’alba o il crepuscolo. Un odore di freddo, di ossigeno e del mondo esterno invade l’antro metallico pieno di aria viziata. Giganteggiando nel vano degli sportelli, l’uomo scruta l’interno, poi indica Kabir. «Tu, vieni», dice. Gli uomini nel camion si alzano in piedi. Forse questo è il punto di consegna per Patrasso. Kabir non si muove. «No, no», dice l’uomo. «Solo i due fratelli». Si allunga e afferra Kabir per un braccio. Il ragazzo protesta mentre l’uomo lo fa roteare oltre il bordo del camion e scendere a terra. Aryan si


lancia dietro il fratello come una creatura impazzita. Hamid si affretta a seguirlo, spostando a calci le scatole che gli intralciano il cammino. L’autista agguanta Hamid con la sua grossa mano e lo manda a gambe all’aria addosso a una torre di cartoni che crolla contro la parete interna del camion. Poi chiude con forza gli sportelli. Per alcuni istanti tutto è silenzio, finché Hamid comincia a gridare e a battere i pugni contro la fiancata di metallo del cassone. Qualcuno soffoca le sue proteste. All’esterno, un uomo tarchiato tiene fermo Kabir per le braccia. Porta una canottiera bianca tesa sulla pancia e un pezzo di corda a tenergli su i pantaloni. Guarda l’autista con occhi inquieti, mentre il ragazzo si contorce come un gattino bloccato in una morsa. «Ecco la tua merce», dice l’autista al greco. L’uomo annuisce. L’autista si issa dentro la cabina con un’agilità sorprendente per la sua mole. Un rosario e un paio di dadi appesi sopra il cruscotto ondeggiano follemente mentre inverte la marcia e riprende la


strada. Aryan corre dietro il camion, i piedi scivolano nel fango mentre perde l’equilibrio e lo ritrova vicino alle ruote in movimento. Batte la mano sul fianco del veicolo. «Hamid!», grida. «Aryan!», risponde la voce soffocata dell’amico. Le ruote girano e fanno presa sul terreno. Il camion accelera e scompare oltre l’altura. Solo quando Aryan torna indietro l’uomo lascia andare il ragazzino. Aryan tira Kabir a sé e incrocia le braccia davanti al petto del fratello, stringendolo forte per fermare il suo tremito. Kabir si strofina le braccia doloranti: nel punto in cui l’uomo le ha afferrate sta già cominciando a sbocciare un livido purpureo. Nell’aria un odore pungente di terra smossa e letame. Rozzi edifici agricoli si allungano intorno a un trattore arrugginito abbandonato nel cortile. Ha una scritta a caratteri greci sul parabrezza e i suoi pneumatici hanno inciso nel suolo un disegno a spina di pesce come carri armati dell’esercito. Campi arati si perdono nella luce morente e, dietro


le assi marcite di un recinto, maiali con i fianchi incrostati di fango grufolano dentro a una secchiata di avanzi. Sullo sfondo, il cielo è sospeso sopra un’ampia valle di colline spoglie e ondulate. Aryan rabbrividisce quando il vento che ha incontrato il camion di Hamid lo raggiunge senza consegnargli alcun messaggio. Deve essere l’imbrunire, pensa, ma non ricorda di quale giorno. «Dove siamo, Aryan?», dice Kabir. La mente stanca di Aryan sta ronzando. Cerca di ricordare se Mohamed ha detto qualcosa riguardo al lavoro in Grecia quando sono partiti da Istanbul. L’avrebbe ricordato di certo. Nel villaggio vicino all’Evros, il padre del ragazzo con il braccio avvizzito ha detto soltanto che il camion li avrebbe portati lontano dal confine. Pensava che fossero diretti a Patrasso, dove erano tutti gli afghani. L’uomo in canottiera si avvicina sulle sue gambe arcuate. «Venite con me», dice, premendo il pugno nodoso contro le reni di Aryan. Sono all’interno di un piccolo edificio bianco. Due pagliericci riempiono la rientranza di un ripiano di


cemento imbiancato. C’è linoleum verde scrostato sotto i piedi e all’esterno un rubinetto che perde. Una tenda slavata riempie il vano della porta, la stoffa afflosciata nei punti in cui si è strappata dai ganci. Dall’altra parte del cortile, del fumo sale dal comignolo della fattoria e sporca il cielo che si va oscurando. Il loro respiro si inanella nell’aria come scrittura e svanisce. Nel piccolo fabbricato non c’è un camino né altra fonte di calore. «Aspettate». L’uomo attraversa il cortile e scompare dentro la casa. Ora ne emerge una donna anziana con le calze di lana nera. Ha un grembiule blu scuro con le tasche sdrucite e porta un vassoio con pane, due fette di formaggio bianco e due scodelle di brodo. I bitorzoli che ha sul viso ricordano le escrescenze che gli insetti formano sotto la corteccia. In silenzio, posa il vassoio sopra un ciocco capovolto fuori dell’edificio. Li guarda appena. Riattraversa il cortile strascicando le scarpe di tela ripiegate sotto i talloni a mo’ di ciabatte. Il rubinetto si apre con un cigolio quando Aryan lava le mani al fratello e a sé. L’acqua esce in un nastro sottile e ritorto. Non c’è quasi pressione.


Aryan si sfila la maglia, la inumidisce e la usa per strofinare il viso, le orecchie e il collo di Kabir. L’acqua gli schizza sui piedi e traccia una ragnatela di affluenti sul terreno. Non hanno mangiato niente da quando hanno lasciato la Turchia. Aryan pensa ai maiali e non tocca la zuppa. Ma Kabir è troppo affamato per trattenersi. «Non si sente alcun sapore, Aryan», dice Kabir. «Solo il sale». Aryan annusa la scodella. Non c’è traccia di carne di sorta. «Forse sono solo verdure», dice. Il vapore che si leva dal piatto e la vista del fratello che mangia sono troppo per lui. Aryan solleva la ciotola e beve a piccoli sorsi cauti, lo stomaco vuoto si contrae. Non avverte alcun sapore intenso di agnello, di capra o di pollo, né di quel che immagina dovrebbe avere il maiale. C’è solo acqua calda con bolle di olio giallo che galleggiano sopra a chicchi di riso e mezzelune di sedano. Leccano i chicchi sul fondo della scodella e divorano il pane e le ultime briciole di formaggio dal sapore acidulo. Il liquido li scalda, ma quando hanno finito la fame non è ancora passata.


Aryan si appoggia sul pagliericcio. Distendersi fa allungare lo stomaco, si dice; così non lo sentirà tanto vuoto. «Non mi piace qui», dice dopo un po’ Kabir. «Be’, non è certo la mia idea di paradiso», concorda Aryan. «Secondo te, dove siamo?» «Da qualche parte in Grecia, suppongo. Potremmo essere ovunque». «Perché ci hanno portato qui?» «Non lo so, Kabir. Immagino sia per lavorare». «Per fare cosa?» «Probabilmente lavori agricoli». «Perché non è venuto anche Hamid?» «Forse gli servono solo due persone». «Per quanto dovremo restare?» «Kabir, non ne ho idea. Probabilmente finché non ci saremo guadagnati il nostro passaggio e loro siano disposti a mandarci via». All’improvviso Aryan è stanco di quel fratello più piccolo. Stanco di dover pensare per tutti e due. Stanco di essere rallentato dalle gambette corte di Kabir. Stanco di doverlo rassicurare quando è


tormentato da brutti presentimenti. Stanco di dover fornire risposte a cose che non capisce. Ma poi si sente subito in colpa. Durante il lungo tragitto oltre le montagne fra Iran e Turchia, Kabir non si era mai lamentato, anche se il tessuto ruvido dei jeans gli irritava la pelle e le rocce roventi gli bruciavano sotto i piedi e aveva la bocca asciutta come carta vetrata. Aryan era rimasto sbalordito dalla mancanza di proteste e dal fatto che avesse continuato a camminare il più velocemente possibile, così i trafficanti di uomini non l’avrebbero colpito con i loro fucili. Solo più tardi Aryan si era reso conto di come si fossero consumate le sue scarpe dopo tutto quello sfregare contro le rocce. Kabir non riesce a trattenersi dal porre domande – è sempre stato così – e ora che Hamid non c’è più gli è rimasto solo Aryan a cui farle. «E Hamid?», chiede Kabir come se avesse avuto un’imbeccata. «Pensi che si sia fatto male?». Aryan sospira. «Forse sarà un po’ dolorante. Hai sentito come gridava dentro il cassone del camion». «Avrà un bel livido viola», dice Kabir. «O un occhio nero».


«O due occhi neri e un livido». «Magari niente di tutto questo», conclude Aryan. Hamid è forte, Aryan lo sa. Più forte di lui. È un tipo impulsivo e il suo temperamento lo mette nei pasticci, ma non ha paura ed è pronto a cogliere al volo un’opportunità. È un tagiko, e ha percorso tutto il tragitto fino a Istanbul da solo dopo essere fuggito dai talebani; Aryan si è sempre sentito un po’ in soggezione. Sentiva anche che formavano una squadra, lui, Hamid e Kabir. Era stato Hamid a guidarli lungo le strade ripide di Istanbul per vedere le navi cisterna solcare le acque del Bosforo, a usarli come specchietti per le allodole mentre sgraffignava pasticcini dai tavoli dei caffè per poterli poi divorare insieme a loro nel dedalo dei vicoli, lontano da occhi indiscreti. All’improvviso lo aveva perso e si sentiva incerto senza di lui, consapevole che tutte le decisioni riguardo a sé e a suo fratello ora avrebbe dovuto prenderle da solo. «Perché non hanno fatto venire Hamid con noi?», chiede Kabir. «Perché continui a fare domande a cui non so rispondere?», ribatte seccamente Aryan. A volte Aryan si chiede se non avrebbe dovuto


lasciarsi dietro Kabir. Poteva restare con i loro cugini in Iran, e Aryan lo avrebbe mandato a chiamare appena avesse raggiunto l’Europa. Ma dopo tutto quel che era successo, Kabir era sconvolto all’idea di separarsi, e Aryan non sapeva quanto tempo sarebbe passato prima che Kabir potesse raggiungerlo. Alla fine si era lasciato intenerire e aveva venduto un sacco di cose per racimolare il denaro necessario. Ma ora vorrebbe essere solo, per riflettere. Non capisce perché li abbiano buttati fuori dal camion, o perché li abbiano separati dagli altri. Comincia a chiedersi se qualcuno non abbia già deciso per loro – magari a Istanbul, oppure è stata quella gente che li ha fatti arrivare dall’altra parte del fiume, in Grecia. Kabir gli volge la schiena. La sua frustrazione si allarga nel silenzio come invisibili onde concentriche. Aryan sa che ha offeso i suoi sentimenti, ma per il momento non se ne cura. Da quando sono arrivati, qualcosa di inspiegabile ha cominciato ad agitarsi nella mente di Aryan. Adesso affiora, come un uccello tuffatosi nelle acque di un lago che risale in superficie con la preda


nel becco, ed emerge sotto forma di domanda. Come faceva l’autista a sapere che erano fratelli? Una luna in miniatura si libra nell’oscurità del cielo e una debole luce si affaccia da una delle finestre della casa. Fa troppo freddo per spogliarsi. Aryan piega in due una coperta, la distende su uno dei pagliericci e invita Kabir a infilarsi dentro il letto improvvisato. Aryan rimbocca le altre coperte sopra il fratello, e gli copre le spalle con i loro anorak. Poi si rannicchia accanto a lui e lo abbraccia per tenere entrambi al caldo. D’un tratto si rende conto che Kabir sta piangendo. «Ehi, cosa c’è che non va, soldato?», chiede Aryan. Kabir rimane in silenzio. «Dimmelo», lo sollecita. Non risponde. «È questo il fratello che è stato così forte da attraversare il deserto e le montagne, come Rostam nelle storie che Baba ci leggeva a casa?», insiste Aryan. Il fratello tira su col naso. «Non c’è motivo per essere triste. Dimmi cosa c’è che non va».


«Voglio tornare indietro», dice Kabir dopo un po’. «Indietro dove?» «In Iran. A casa dei nostri cugini. Da Zohra e Masood». Aryan sospira. «Anch’io. Ma non possiamo tornare indietro ora, Kabir». «Perché no?» «Non dopo quel che abbiamo speso per arrivare fin qui. Ci riderebbero dietro e poi si vergognerebbero di noi. Tutti diranno che siamo dei vigliacchi». «Non m’importa», dice Kabir. «Non mi piace, qui». «Anche a me non piace, ma sei stato tu a insistere per venire con me. Sapevi che sarebbe stata dura. Comunque sia, pensavo che volessi andare a scuola». «Sì. Ma adesso siamo in Europa e io non vedo nessuna scuola». «Per questo stiamo andando in Inghilterra». «Allora perché non ci andiamo? Perché dobbiamo restare qui?» «Sarà come a Istanbul. Prima dobbiamo lavorare e poi ci metteranno su un camion», dice Aryan. «Quanto tempo dovremo restare?»


«Non sapevo nemmeno che saremmo venuti qui, Kabir. Ma se è come in Turchia, forse dovremo restare per qualche mese». Un senso di sfinimento incombe su Aryan come un monolito. Ha una gran voglia di cedere, di lasciare che l’incoscienza spazzi via tutte le sue preoccupazioni, le riporti oltre le montagne e l’altopiano e i villaggi e le città e le strade e i checkpoint e i confini e i fiumi e i deserti che hanno attraversato. Il fremito di eccitazione che provava al pensiero di andare in Europa si è ritirato sotto un nuovo strato d’inquietudine. Immagina che ci vorranno mesi prima di potersi rilassare, di dormire profondamente senza svegliarsi di soprassalto pensando ai soldi o al tempo o a quanto sono lontani dal loro obiettivo, o a come raggiungere la prossima meta. Vorrebbe che il padre fosse ancora vivo, oppure poter parlare con Omar in Iran, o con qualche adulto che saprebbe cosa fare. Sente il respiro regolare di Kabir e poco dopo anche lui scivola oltre il bordo confortante dell’incoscienza.


Nel cuore della notte, Kabir getta da parte le coperte. «Qualcosa mi ha morso», dice. «Dove?». Aryan scruta la sagoma del fratello nella semioscurità. «Non vedo niente». Poi lo sperimenta su di sé. Una puntura improvvisa. Il bruciore. Il prurito. Balza in piedi e butta le coperte a terra. Spinge Kabir verso la finestra. Gli ispeziona il busto, non vede nulla. Poi scopre un ponfo rosso sbocciato su una costola. Ne trova altri due. E poi due sulla propria gamba. Dice a Kabir di tenere la coperta per un angolo. «Tirala su!», lo rimbrotta. Kabir è troppo basso e metà del tessuto si accartoccia sul pavimento. C’è un vecchio rastrello poggiato contro la parete. Aryan lo afferra e, tenendo l’altro lembo della coperta, lo usa a mo’ di battipanni. Riservano lo stesso trattamento a tutte e quattro le coperte, e spazzolano il pagliericcio con le mani. «Cerca di non grattarti», dice Aryan. «Se ti prude mettici sopra della saliva. Domattina chiederemo altre coperte». Cercano di riprendere sonno, sussultando per


insetti veri o immaginari ogni volta che la coperta ha un fremito reagendo al calore dei loro corpi. Dopo un po’ il respiro di Kabir si fa più profondo. Aryan lo ascolta a lungo. Ore dopo, Aryan perde la disputa contro se stesso e decide di alzarsi. Kabir non si muove quando il fratello tira da parte la tenda. Aryan piscia contro il muro della costruzione, si stringe le braccia intorno al petto e indugia nell’aria fredda della notte. La calma avvolge la terra e il cielo freme di stelle. Sull’orizzonte ce n’è una talmente luminosa che gli ferisce gli occhi. Da qualche parte un cane abbaia, un altro gli risponde. Una stella cadente solca la volta celeste come la scia di un razzo. Aryan guarda il nastro della strada dove è scomparso il loro camion. Anche se riuscissero a scappare, non ci sono alberi su quella terra desolata, né boschi, né luoghi dove nascondersi. Non sa da quale direzione sono arrivati, tanto meno in che direzione fuggire. Pensa ad Hamid chiedendosi dove sia adesso. Gli manca la sua temerarietà e la sua ironia; cerca di


immaginare cosa farebbe se fosse lì. Appena arriva la donna anziana, l’indomani, le mostrano i morsi e chiedono altre coperte. La donna li fissa intensamente e abbaia qualcosa di incomprensibile in greco. Posa il vassoio con formaggio, pezzi di cetriolo e due tazze di tè scuro zuccherato. Rientra in casa e tira la tenda dietro di sé. Aryan la segue fino alla porta e resta in attesa. Alita sulle mani per scaldarsi le dita, poi le infila sotto le ascelle. La donna non esce. All’interno del fabbricato, Kabir gli ha lasciato metà del cibo. Sul suo viso sono ancora impressi i solchi lasciati dal bordo della coperta sulla quale ha dormito. Aryan stringe la tazza di tè caldo fra le mani, cercando di trasmetterne il calore alle dita. All’improvviso sentono il rombo di un motore. Il vecchio pickup del fattore è fermo nel cortile, in attesa. «Salite», dice l’uomo, sporgendosi dallo sportello aperto a metà. «Oggi andiamo in un altro posto». Aryan esita. «Quale altro posto?», domanda.


«Per lavoro», dice il fattore. «Molti alberi». Il cruscotto è crepato dal sole e coperto di polvere, ma l’orologio funziona ancora, anche se l’ora che segnano le lancette fosforescenti non può essere esatta. Non c’è riscaldamento a bordo del camion; Kabir si appoggia contro Aryan in cerca di calore. Viaggiano per più di un’ora, osservano il paesaggio cambiare. Il terreno diventa più sassoso e rossastro. Passano accanto a boschetti di olivi stentati, i tronchi distanziati uniformemente come pezzi degli scacchi. Aryan socchiude gli occhi; al loro passaggio, gli alberi invernali alternano un gioco di luce e ombra attraverso le sue palpebre. Cespugli di bambù ondeggiano lungo i bordi della strada. Costruzioni coperte con teloni di plastica punteggiano il paesaggio desolato; sistemi di irrigazione inattivi si stagliano immobili sulle distese dei campi, angolosi come tanti insetti stecco. In lontananza, il profilo duro e bianco delle montagne, così diverso dai crinali ocra che si scioglievano nella pioggia là dove era nato. I cartelli stradali sono tutti scritti in due lingue, caratteri inglesi sotto strani simboli greci, ma Aryan non


riconosce nessuna parola. Svoltano in una strada accidentata e polverosa che sbocca in un frutteto. Gli alberi sono fitti e carichi di pomi dorati. Il fattore tira il freno a mano. Fuori dal camion, l’aria è gelida e immobile. Sebbene il sole sia ormai sorto, un merletto di ghiaccio orna ancora le foglie secche sul terreno. Aryan saltella sul posto per scaldarsi i piedi, come facevano prima delle partite di Omar. Kabir sta alitando sulle mani intirizzite. Un paio di scale a pioli sono poggiate di fianco contro un basso muretto di pietra. C’è un capanno pieno di cassette di legno; altre sono accatastate fuori alla rinfusa. Sull’erba sotto gli alberi, un pesante rotolo di tela incerata blu. Il fattore tira su una delle scale a tre piedi, che cigola quando l’uomo allarga gli staggi con un calcio e li pianta nel terreno cedevole. Tira l’incerata intorno alla base della scala e si arrampica sui pioli per mostrare loro come devono fare. Stacca le arance dai rami ruotandole sul picciolo e le lascia cadere in una sacca appesa a tracolla davanti al torace. I frutti già allentati finiscono sul


telo sottostante come giganteschi chicchi di grandine. Passa la sacca ad Aryan; il compito di Kabir è raccogliere le arance cadute, riempire le cassette e impilarle lungo il muretto, oltre a cogliere i frutti dai rami raggiungibili da terra. In cima alla scala, Aryan si sporge in mezzo al fogliame. Davanti a lui le sfere lucide sono bianche di brina; pendono dai rami come pianeti incappucciati dalle calotte polari. Foglie cerose lo schiaffeggiano mentre i frutti troppo pesanti oppongono resistenza, per poi cedere di colpo. Il sole pallido strappa per un istante alle foglie il loro aroma penetrante e lo disperde subito nell’aria. Di lì a poco le dita di Aryan sono arrossate, intorpidite e bagnate per aver maneggiato quei globi gelati. Allunga le braccia lungo i fianchi per agevolare la circolazione, poi nasconde le mani sotto le ascelle. Piega indietro la testa per sciogliere i muscoli indolenziti del collo. Più tardi, quando il fattore si è ritirato in fondo all’appezzamento di terreno, Aryan sgattaiola giù


dalla scala per riposarsi. Coglie un arancio da un ramo basso e lo apre in due con le unghie spuntate. La buccia è spessa e viene via facilmente; all’interno, mezzelune colme di dolcezza si incurvano come piume. I denti sussultano al contatto con il freddo citrino che si scioglie lentamente nella bocca. Non c’è traccia dell’asprezza delle arance che mangiava a casa. Aryan cerca di concentrarsi sul gusto, saggiando con la lingua i pezzetti di fibra rimasta incastrata fra i denti per capire cosa gli fa venire in mente quel sapore. Soffia i semi in faccia a Kabir e poi, insieme, lanciano di taglio pezzi di buccia nell’erba, come se fossero ciottoli da far rimbalzare su uno specchio d’acqua. Il tentativo di Kabir di formare una parola scritta in afghano con la buccia di un’arancia fallisce quando la lunga spirale ininterrotta gli si spezza fra le dita. Ha il viso tutto appiccicoso di succo, dal mento alla fronte. «Le formiche ti daranno la caccia», dice Aryan. Kabir si pulisce la faccia con la manica. «No, non lo faranno», dice con un largo sorriso. «Sono in letargo».


Alle urla del fattore, Aryan risale in fretta sulla scala. L’uomo gli grida insulti e lo fissa con aria di rimprovero dai piedi dell’albero. Mentre lavora, Aryan cerca di mettere a fuoco un ricordo che si libra come una libellula appena fuori dalla sua portata. Sonda i recessi della mente, poi interrompe l’esplorazione, fingendo che non sta cercando assolutamente niente, limitandosi ad allungare il braccio e a staccare frutti dai rami recalcitranti. Ed ecco che gli viene in mente. La casa quando era bambino. Una festa. Tutti seduti sotto le travi di legno del soffitto. Suo padre che rientra dal bazar, vuota le tasche piene di accendini e batterie e cellulari che vendeva per strada dopo aver perso il lavoro presso la scuola. Zie, zii e cugini stipati nella piccola stanza. Il nonno che si fa largo in mezzo alla folla di parenti aiutando le articolazioni doloranti, si lava le mani in un catino smaltato e le asciuga con un telo bianco. In un angolo, il televisore coperto da un panno, i cavi che lo collegano alla batteria staccati. La cugina Zohra e sua madre che girano offrendo una grossa ciotola di ceramica piena di chicchi di melagrana. Ci sono anche dei mandarini, e grappoli d’uva


zuccherina, i frutti più dolci che avesse mai gustato. Un ricordo che apparteneva al passato, a prima che lasciassero l’Afghanistan. All’imbrunire ficcano un po’ di arance negli anorak, nel caso gli venga fame più tardi. È ancora buio quando una lunga strombazzata di clacson li sveglia l’indomani mattina. L’aria gelida è satura di gas di scarico mentre il fattore li aspetta seduto al volante. Nel loro recinto, i maiali grugniscono in protesta contro il fascio di luce dei fari. Aryan sbircia l’orologio del fattore che armeggia con la leva del cambio. Segna le quattro e mezza. Nell’oscurità che precede l’alba, le arance brillano come palle da cricket argentate. File di alberi si allungano davanti a loro. Tra il fogliame dei rami, Aryan riempie la sacca e la cala a Kabir. È così pesante che deve stare attento a non sbilanciarsi mentre scende i pioli. Sente gli staggi della scala affondare nel terreno mentre sposta il suo peso.


Kabir si affretta a raccogliere i frutti che sgusciano fuori sull’incerata. Quando il fattore non è nei paraggi, le fa rotolare come fossero biglie gigantesche prima di allinearle dentro le cassette. Aryan si appoggia contro il gradino più alto della scala mentre lavora, fermandosi di tanto in tanto per strofinare via dalle ginocchia i segni lasciati dal metallo. Nonostante faccia freddo nel frutteto, il lavoro alimenta l’arsura. Non hanno acqua, così si spremono in bocca il succo delle arance, ma la loro dolcezza non fa che peggiorare la sete. A volte, sul lato opposto del terreno, arrivano altri uomini a spogliare gli alberi dei loro frutti. Taciturni, si affacciano di tanto in tanto al capanno per prendere altre cassette prima di tornare di corsa al lavoro. Hanno i vestiti sudici, i volti incupiti di chi non ha avuto tempo di dormire, e sono svelti a riempire i contenitori. Una volta Aryan aveva richiamato l’attenzione di uno di loro, ma non aveva capito in quale lingua gli avesse risposto. Gli uomini accendono un falò in mezzo agli alberi del frutteto e si scaldano le mani intirizzite. Aryan e Kabir sentono l’odore del fumo filtrare fra


i rami, ma il fuoco è troppo lontano per poterlo condividere. Ogni sera, lungo il viaggio di ritorno alla fattoria, Kabir crolla contro la spalla di Aryan, cadendo in un sonno profondo dal quale nemmeno le buche riescono a destarlo. Raccolgono arance anche sotto la pioggia. Con le mani bluastre per il freddo, Aryan tira su la zip dell’anorak di Kabir. I loro indumenti sono troppo leggeri, e le foglie gli sbattono l’acqua in faccia, gliela versano giù per il collo. I pioli della scala diventano pericolosamente scivolosi. Kabir si lamenta. Il tessuto ruvido dell’anorak gli sfrega contro il mento, gli sta scorticando la pelle. Sotto la pioggerella fine del pomeriggio, Aryan si allunga per afferrare un ramo fuori dalla sua portata. Sposta il peso sul piolo e il piede frontale sprofonda nel terreno, inclinando la scala di lato. Mentre la scarpa cerca una nuova presa sul metallo del piolo, l’arancia si stacca di colpo fra le sue dita e il ramo gli rimbalza con violenza sulla faccia. Accecato, Aryan perde l’equilibrio e cade.


Atterra pesantemente sulla caviglia, lanciando un urlo di dolore. Kabir molla di colpo la cassetta, le arance rotolano a terra come sfere per le estrazioni del lotto, e corre a soccorrere il fratello. Aryan respira a fatica, le narici dilatate. Rotola da un fianco all’altro, stringendosi un ginocchio contro il petto. Fitte lancinanti si irradiano nella gamba come scariche elettriche. «Avverti il fattore», sibila a denti stretti. Rientrano alla fattoria in silenzio. La caviglia di Aryan si è gonfiata come una zucca. Entra a stento nella scarpa. Quando è disteso sul pagliericcio gelido, la donna anziana gli porta un’aspirina talmente vecchia che la scritta blu sull’involucro di alluminio è quasi cancellata. La compressa sfrigola e si consuma nell’acqua in fondo a una tazza di porcellana sbeccata. La donna gli porta anche del ghiaccio avvolto in un canovaccio. Aryan sussulta quando glielo posa sulla caviglia gonfia. «Non posso lavorare domani», dice Aryan al fattore.


L’uomo aggrotta la fronte. «Lo tratterrò dalla tua paga». Dopo una settimana ritornano al frutteto. Aryan cammina con circospezione, testando i legamenti. Il gonfiore si è ridotto, ma non si fida di caricare tutto il peso sulla caviglia. Le arance splendono come soli sullo sfondo azzurro del cielo invernale. Di nuovo in cima alla scala, si sporge fra i rami cercando di concentrarsi per non cadere, nonostante il gelo gli morda le mani. A metà pomeriggio una serie di tonfi sordi risuona tra le foglie. Comincia a piovere. Una sera, il fattore va da loro dopo averli riportati a casa dal frutteto. I due fratelli si stanno lavando le mani sotto il rubinetto capriccioso. L’uomo porta un maglione chiuso fino al collo da una cerniera. «Una settimana di lavoro», dice, premendo un rotolo di denaro nel palmo gocciolante di Aryan. Poi ritorna in casa. Aryan srotola le banconote e le conta. Due biglietti dorati da cinquanta euro, uno blu da venti, uno sgualcito da cinque euro e una moneta da un euro.


Le conta di nuovo. Le banconote formano un nido mentre le posa una dopo l’altra sul letto, depositando l’unica moneta al centro come se fosse un uovo. «Siamo ricchi», dice raggiante Kabir. Aryan lo ignora. «Credo si sia sbagliato», dice. «Centoventisei euro non vanno bene. Ahmed ha detto che potevi guadagnarti quindici euro a giornata lavorando nelle fattorie in Grecia». Si ferma a fare i conti e scrive le cifre sul taccuino per maggior sicurezza. «Dovrebbero essere duecentodieci euro per tutti e due», conclude. Fuori del fabbricato, Aryan ha un momento di esitazione, manda giù la saliva. Non è abituato ad affrontare la gente. Hamid, lo sa, non esiterebbe. La caviglia comincia a pulsare dolorosamente, ma il pensiero di Hamid lo aiuta a farsi coraggio, e la rabbia per essere stato imbrogliato gli fa da propellente. Bussa sulla cornice di legno della soglia. La porta è chiusa, ma un angolo della tenda è rimasto impigliato nello stipite, come la sottana di qualcuna che va di fretta. Il fattore apre subito – forse si era


appoggiato contro il battente per togliersi gli stivali. Sbircia Aryan con occhi da scoiattolo. Aryan sente odore di fumo di legna e carbone, e di cipolle, e lo stomaco si contrae per la fame. «L’importo non è giusto», dice porgendogli le banconote. Gli trema la mano. «Dovrebbe essere quindici euro al giorno». «No», replica il fattore. «Non quindici. Quindici è la tariffa per un uomo. Tu sei solo un ragazzo, e i ragazzi non fanno il lavoro di un uomo». Aryan diventa rosso in viso. «So che la tariffa è quindici», insiste. «Ti do dieci euro», dice il fattore. «Dieci è una paga molto buona – e in più hai da mangiare e dove dormire. Anche questo mi costa denaro!». Una morsa stringe la gola di Aryan. «Io lavoro duro per lei, lavoro duro quanto un uomo, e deve pagarmi lo stesso prezzo». «E dove andrai a dormire? Dove troverai un letto, del cibo e un riparo? Chi ti farà le stesse condizioni? Pensi che sia tutto gratis? In Grecia la vita è molto costosa; nessuno ti offrirà vitto e alloggio a buon mercato come me. Non hai idea di quanto costi un albergo. Poi hai bisogno di un mezzo di trasporto.


Dovrai pagarti l’autobus, poi camminare, e la tua caviglia è ancora debole. Dieci euro è un buon prezzo, non immagini quanto». Aryan riflette per un momento. Quel che l’uomo dice è vero – loro non sanno dove sono o dove altro potrebbero andare, o quanto dovrebbero pagare per dormire altrove. Almeno lui gli sta offrendo del denaro, anche se è meno di quanto dovrebbe. Fa un rapido calcolo. Dieci euro al giorno per sette giorni fa centoquaranta euro fra tutti e due, eppure l’uomo gliene ha pagati solo centoventisei. «E mio fratello? Anche lui lavora duro. Lei dice dieci euro al giorno, ma questo denaro non è per dieci euro al giorno», protesta Aryan. «Siamo in due». Aryan serra il pugno infilato nella tasca, come se potesse trovare una dose extra di coraggio dentro il tessuto logoro. «Tuo fratello è troppo piccolo», dice il fattore, lo sguardo torvo sotto le folte sopracciglia. «Anche lui non fa il lavoro di un uomo. Non fa che giocare per tutto il tempo. A lui pago otto euro al giorno. Ed è un buon prezzo». «Mio fratello lavora duro. Sta tutto il giorno con me, raccoglie le arance, le mette nelle cassette, le


trascina vicino al muretto. Deve pagarlo quanto me, esattamente dieci euro al giorno», ribatte Aryan. L’uomo scoppia a ridere. «Di tuo fratello, non so che farmene. Potrei assumere un uomo che impiegherebbe il terzo del tempo che ci mettete voi due messi assieme per finire il lavoro. Vi sto facendo un favore a farvi lavorare qui. Ma forse non volete affatto lavorare. Forse non volete aspettare il camion che vi porterà in Italia». «Quando arriverà il camion?», domanda Aryan. «Solo quando il lavoro sarà finito». Kabir è disteso sul pagliericcio con tutte le scarpe quando Aryan rientra. Il pavimento è coperto di pedate come se si fosse appena conclusa una danza di fantasmi. «Com’è andata?», chiede Kabir. Aryan spinge i piedi del fratello giù dal letto. «Prima togliti le scarpe». Kabir rimette su i piedi. «Fai come ti pare», dice Aryan. «Dormi nel fango come i maiali». Aryan si lascia cadere sull’altro pagliericcio. Si sente le gambe e le braccia pesanti, la mente stanca e


la caviglia dolorante. «Allora cosa ha detto?», domanda ancora Kabir. «Niente». «Deve aver detto qualcosa». «Niente denaro in più. Ci paga meno perché non siamo uomini, e ancora meno a te perché sei solo un ragazzino e passi l’intera giornata a giocherellare». «Non è vero», protesta Kabir. «Anche io lavoro duro». «Dice che, siccome abbiamo un posto per dormire e mangiare, io prendo solo dieci euro e tu soltanto otto perché sei troppo lento». «Ma tu hai detto che potevamo averne quindici!», sbotta Kabir. «Andiamo da un’altra parte». «E dove vorresti andare? Non sappiamo nemmeno dove ci troviamo adesso. Almeno qui c’è un camion che ci porterà in Italia». «Quando?» «Quando il lavoro sarà finito, ha detto il fattore». «E quando sarebbe?». Aryan si stringe nelle spalle. «Quando non ci saranno più arance, suppongo». Ogni giorno lasciano la fattoria ore prima dell’alba


e coprono il tragitto fino al frutteto a bordo del malconcio pickup per cominciare a lavorare prima che spunti il sole. A volte sono così stanchi che non sentono nemmeno il rombo del motore. Il fattore allora sfoga la sua impazienza pestando sul clacson. Aryan calcola che sono passate sei settimane dal loro arrivo. Annota i giorni sul suo taccuino, a cinque a cinque – quattro linee marcate da una sbarra obliqua – come gli ha mostrato suo padre, per contarli più facilmente. Le arance sono state raccolte, ma alla fattoria c’è altro lavoro da fare. Al mattino l’erba non è più coperta da cristalli di brina, e a metà giornata il sole diffonde un timido tepore. Ci sono file e file di patate da dissotterrare. Poi sarà la volta delle rape. E poi le cipolle, che devono essere tirate fuori dalla terra con mani abili. Vengono dati loro dei bidenti, e casse di plastica verde da riempire. Altri uomini vengono a lavorare alla fattoria, ma Aryan li vede solo in lontananza, chini sui solchi, i capelli arruffati davanti agli occhi. Un trattore


attraversa lentamente i campi come uno scorpione arrugginito; camion fanno retromarcia verso il cancello per caricare i cassoni. Alla fine della giornata Aryan ha i polpastrelli doloranti di vesciche. Le unghie di Kabir sono nere dopo aver estirpato le radici affiorate nel terreno smosso da Aryan; sbavature di terra gli colorano il viso come pitture di guerra. Al mattino, il vento piomba loro addosso dalle colline; devono lavorare senza sosta per mantenersi caldi. Il fattore viene a controllarli nel pomeriggio. Arranca di solco in solco come un bulldog, la solita corda a tenergli su i pantaloni. Aryan decide di chiedergli perché, tranne quella volta, non hanno ricevuto la paga. «Ho cambiato idea», dice il fattore. «Se vi do denaro contante dovete custodirlo da qualche parte. Lo perderete lavorando nei campi o vi verrà rubato. È meglio se lavorate per pagarvi il prossimo tratto del vostro viaggio». Aryan deglutisce a fatica. «Quanto ci vorrà?» «Qui lavorate duro, e presto vi rimetterete in


cammino». «Ma quando?», insiste Aryan. «Ancora quante settimane?» «Poche», dice l’uomo. «Di meno se lavorate sodo. E dopo salirete sul vostro camion». I campi si estendono per tutta la valle. Aryan pensa che ci vorrà più di poche settimane. Le vesciche di Aryan diventano calli. Le spalle scottano a furia di scavare. Kabir è sempre più silenzioso, ogni malizia assente dal suo sguardo. «Era meglio nella fabbrica di cucito, vero?», dice Aryan. Riesce ancora a sentire l’aria vibrare per l’incessante ronzio degli aghi, il caldo soffocante mentre erano chini sulle macchine rumorose. Il lento avanzare del tessuto, che doveva stare attento a non macchiare con il sudore delle mani. Gli occhi socchiusi e fissi sul materiale alla luce di lampadine assicurate al soffitto da una ragnatela di fili. C’erano cinque file di lavoranti provenienti da luoghi diversi, dall’Afghanistan, dall’Iraq e da regioni lontane della Turchia, e non tutti riuscivano a comunicare fra loro.


A Mohamed piacevano gli afghani. «Gli afghani sono bravi lavoratori», era solito dire contemplando la sala dove lavoravano gli operai. Ahmed era uno di loro. Vegliava su Aryan e Kabir, aveva spiegato loro come funzionavano le cose in Grecia e fornito l’indirizzo di un uomo afghano a Roma, nel caso avessero avuto bisogno di aiuto. Aryan lo aveva messo al sicuro nel portafoglio, poi lo aveva copiato sulle pagine del taccuino, in mezzo agli schizzi di volti o luoghi visti che a volte disegnava, dove conservava le cose importanti. Era stato Ahmed a presentare i due fratelli ad Hamid. Hamid lavorava alla porta accanto, in un’altra delle fabbriche di Mohamed: tagliava pezze di cuoio per fare scarpe. Il suo laboratorio puzzava di pelli d’animale e del tanfo soffocante delle tinture. C’erano mattine in cui alcuni lavoranti erano andati via senza preavviso e una nuova squadra era già arrivata a sostituirli. Aryan immaginava che un giorno sarebbe partito anche Ahmed. Kabir era il più giovane nel laboratorio. Mentre Aryan cuciva, lui raccoglieva i rimasugli di stoffa, sostituiva i rocchetti esauriti e dava la caccia a fili,


ritagli e gomitoli di polvere confinandoli in grossi sacchi con l’aiuto di una scopa. Gli uomini gli arruffavano i capelli e scherzavano con lui, nascondendo i rocchetti vuoti e poi facendoli ricomparire come per magia dietro le sue orecchie. A volte Aryan provava una punta di gelosia. A volte gli sarebbe piaciuto essere al centro dell’attenzione, il ragazzo prediletto da tutti. Ma lì Aryan era trattato come un adulto. Ogni giorno aveva centinaia di asole da cucire, accendispegni, accendi-spegni, il piede che regolava la velocità con un interruttore talmente sensibile che il minimo tocco lo lanciava in un famelico riff musicale sullo spartito della stoffa. Una volta, all’inizio, si era cucito le dita. Con un sussulto, ricorda la volata argentea dell’ago che aveva eseguito la sua opera prima ancora che potesse registrare il pericolo. Aveva osservato la stringa bianca colorarsi lentamente di rosa come se la mano non fosse sua, e gocce rossastre di rugiada gonfiarsi come creature vive. Poi, nella stanza senz’aria, per poco non era svenuto. Lo aveva mantenuto sveglio una tempestiva sberla sull’orecchio datagli dal sorvegliante, che gli aveva estratto i fili con le


forbici. Sulla pelle erano ancora visibili le note sbiadite dello staccato composto dall’ago. Cominciavano alle otto del mattino e non finivano prima delle nove di sera. Al termine della giornata non avevano nemmeno la forza di seguire le partite di calcio con i turchi, davanti a un televisore che prendevano a ciabattate ogni volta che l’immagine si frammentava. Non avevano mai da mangiare a sufficienza. Ma dopo tredici settimane, Mohamed aveva mantenuto la sua parola. «All’alba di domani, partite», aveva detto loro una sera. Era ancora buio quando si erano alzati al primo invito del muezzin, e avevano atteso sulla soglia che il cugino terminasse la preghiera e arrotolasse il tappeto, seguendo ogni sua mossa con gli stessi occhi neri. Poi il cugino li aveva trasportati da Istanbul a un deposito di rottami vicino al confine su un camion carico di copertoni. Quando erano saliti a bordo, Hamid era già nel cassone. Tutto è nero nell’Internet Café: le vetrate, le pareti,


le sedie, persino le postazioni dove siedono file di uomini con il joystick in mano, le teste bulbose come insetti sotto le cuffie lucenti, i volti illuminati dallo sfarfallio azzurrino dello schermo. Di tanto in tanto un sibilo prolungato annuncia la fine di una giocata. È Hamid che l’ha portato lì e adesso è fermo accanto a lui; dall’altro lato, nella penombra, c’è Kabir. Aryan siede alla postazione 21. Tocca la tastiera e sul monitor appare una casella che gli richiede una password. Con attenzione, digita la parola che la donna turca al bancone gli ha annotato su un pezzo di carta. I tasti si appiccicano alla punta delle dita, la plastica è scolorita dalla sporcizia. La parola WELCOM E appare in una casella accanto al quadrante di un orologio che scandisce i secondi. Ha pagato per soli quindici minuti e dalla scuola in Iran sa con quanta velocità passa il tempo quando ci si collega a Internet. Dopo vari tentativi, riesce a trascinare l’orologio in un angolo del monitor. Il mouse non fa presa sul piano laminato del tavolo. Tredici minuti rimasti. Aryan si morde il labbro nell’intensità della


concentrazione. Riconosce alcuni simboli del computer che usavano a scuola, clicca sulla familiare “e” blu. Nello spazio in bianco digita la parola “Evros”, insistendo sulla lettera “s” incrostata di sporco. Poi seleziona “mappa” dalla barra in alto. Cala un menù in turco; lo scorre velocemente finché individua una scritta in inglese e ci clicca sopra. Eccolo. Il confine. Undici minuti rimasti. L’orologio deve essere truccato. Osserva il corso del fiume sotto la linea rossa tratteggiata. Si snoda come un punto interrogativo azzurro fra Turchia e Grecia prima di sfilacciarsi in un delta nocciola in prossimità del mare. “Riserva”, legge. C’è il simbolo che indica uccelli migratori. Esamina l’area verde ai due lati del punto interrogativo: l’estesa piana alluvionale del fiume. Un piccolo ponte attraversa la distesa d’acqua. Più in alto, dove i contorni si restringono lungo il dorso ricurvo del punto interrogativo, nota una linea di triangoli bianchi e gialli. Tiene premuto il tasto della freccia a discesa finché trova la legenda.


Ancora nove minuti a disposizione. I secondi spariscono più in fretta dell’acqua in un tombino. «Mine antiuomo». Gli si mozza il respiro. Nessuno aveva parlato di mine antiuomo. In patria aveva visto i loro effetti sugli abitanti del villaggio, sui bambini che le scambiavano per giocattoli; non gli era mai passato per la mente che potessero averle anche in Europa. Fa scorrere la schermata verso l’alto. La zona di confine sembra molto estesa. Cerca di misurarla con il pollice in base alla scala nella parte inferiore del monitor. Sette chilometri, forse. A piedi, e con le variazioni del terreno, anche di più. Sei minuti rimasti. Seleziona la modalità zoom per ingrandire la zona di confine nei pressi di Kipi. Immagina che lì il corso d’acqua si restringa, se hanno deciso di costruirci un ponte. Ma sarebbe troppo pericoloso per un pickup seguire la strada che passa sul ponte, e troppo lontano per raggiungere l’autostrada oltre confine. Il suo sguardo risale velocemente il fiume; più a nord ci sono punti dove l’autostrada in Grecia corre così vicina al fiume che sembra quasi


sfiorarlo. L’argine deve essere molto ripido, pensa Aryan, o la carreggiata molto elevata, altrimenti la strada verrebbe inondata. Si chiede se ci sono alberi o terreno aperto; dalla mappa non si capisce se il terreno sia roccioso, melmoso o argilloso. Quattro minuti. Cerca fra le scritte. Gli ultimi paesi sul versante turco; le città che controllano le zone di confine in Grecia: Orestiada a metà strada verso nord, Alessandropoli sul mare e le piccole località nel mezzo, Feres, Tychero, Soufli, Didimoticho. Un fiume con due nomi: Evros e Meriç Nehri. Si chiede se abbiano lo stesso significato. E molto al di là di tutto questo, in un verde che sfuma nel marrone, altre montagne, contorni più stretti, un’altra nazione, la Bulgaria. ATTENZIONE: Salvare immediatamente i dati! La sessione terminerà fra due minuti! Stampa. Deve provare a stampare. Non c’è il simbolo della stampante sulla pagina della mappa. Prova con il menù. Svincolato dal cursore, il mouse scivola allegramente sul tavolo. Aryan ci infila sotto un volantino pubblicitario finché la sfera del mouse si decide a ingranare, poi scaglia il cursore verso la


parte superiore dello schermo. Appare un menù a discesa, poi un altro. Le parole sono tutte in turco. Non riesce a trovare il comando per la stampante. GRAZIE: la sessione è terminata! Aryan lascia cadere le mani in un gesto di frustrazione. Un sibilo. Un ultimo crepitio. Il ragazzo nella postazione accanto alza il pugno in aria: sta vincendo contro la macchina. Alla fattoria c’è un vecchio cane che li segue nei campi. Ci vanno ogni giorno, anche quando piove, e il vecchio cane li accompagna sempre. È una bastardina bianca e nera, con le sopracciglia che si inarcano speranzosamente sugli occhi mesti. Scarta di lato come un granchio in presenza di un uomo adulto, il collo teso e allungato, ritraendosi come una creatura troppo spesso presa a calci. Kabir gioca con lei ogni volta che può, e la cagna lo segue ovunque come una discepola. La terra impregna i loro indumenti irrigidendo il tessuto. Sotto la pioggia indossano gli anorak, ma questo non impedisce al fango di inzaccherargli i


pantaloni. Aryan va alla casa e, a gesti, chiede in prestito un secchio. La donna anziana si tira la tenda dietro le spalle e scompare. Lo raggiunge Kabir. Sbircia attraverso la fessura della tenda ed elenca quel che vede: patate sul piano del tavolo, tegami di metallo appesi ai ganci, una pentola che fuma sopra una stufa a legna. C’è un televisore coperto da un vecchio telo di pizzo. Kabir indietreggia. La donna anziana gli sta porgendo una tinozza di metallo con due manici. Dentro ci ha messo un pezzo di sapone giallo crepato. Aryan riempie il catino sotto il rubinetto, strofina la maglietta di Kabir e la allarga sopra il muretto di pietra al mattino, in attesa di un anemico sole. Nel frattempo presta la sua al fratello, e ride del modo in cui gli pende dalle spalle, lunga come una sottana. La maglietta di Kabir rimane distesa all’aperto per l’intera giornata senza asciugarsi. Alla fine Aryan accende un fuoco con qualche vecchia cassetta e un paio di paletti da recinzione. Sopra le fiamme la maglia si gonfia come una vela al vento. Il calore corporeo di Kabir completa il


processo di asciugatura; nei due giorni successivi, Kabir lascia dietro di sé una scia odorosa di fumo. Non riescono mai ad avere le mani perfettamente pulite. I calli sono diventati gialli e spessi. Le unghie sono semicerchi delineati da un tratto scuro e indelebile. Per pranzo la donna anziana dà loro tè scuro e pane. Alla sera una brodaglia trasparente dove galleggiano sottili strisce di cavolo. Alla fine hanno ancora fame. Aryan prova un improvviso desiderio di quel succo di melagrana che bevevano a casa, quand’era stagione. Cerca di ricordarne il sapore, la dolcezza rosa intenso. L’ultima volta che l’ha gustato è stata a Istanbul nella fabbrica di cucito, quando Ahmed gli ha portato un bicchiere camminando adagio, la grossa mano indurita dal lavoro chiusa intorno al bordo, quasi stesse reggendo un calice colmo di rubini. All’inizio Aryan si infilava in tasca alcune delle patate più piccole. Quando avevano fame, la notte, le mangiavano crude, ma poi gli venivano i crampi allo stomaco. Adesso, quando si alzano prima


dell’alba, l’aria ha un odore diverso. Un sentore che Aryan ha imparato a conoscere a casa: il fremito della vita che si agita sotto le zolle, mentre l’inverno cede il passo alla primavera. Un giorno il cane non li segue nei campi. Kabir è disperato. «Vecchiaccia! Vecchiaccia!», chiama a gran voce, ma le zampe familiari non compaiono. Due giorni dopo, la trova dentro un fusto arrugginito in fondo alla rimessa degli attrezzi. Al suo fianco, due cuccioli cercano le mammelle. «Forse non era così vecchia, dopotutto», dice Aryan. Kabir non riesce a smettere di sorridere. Appena i cuccioli sono abbastanza robusti da camminare, la madre li porta con sé nei campi a guardare i ragazzi svellere le piante di patate. Kabir fa rotolare una patata verso i due piccoli e li osserva giocherellarci come gattini con un topo appena ammazzato. La risata di Kabir echeggia per tutto il campo mentre la cagna insegna ai cuccioli a scavare una buca. Lanciano in aria sbuffi di terra alternando velocemente le zampette come pedali di una


bicicletta: chissà perché la polvere non si attacca ai morbidi cuscinetti rosa e marroni che hanno sotto le palme. Seguono i loro nasi lungo percorsi tracciati su mappe invisibili, tastano i lombrichi con zampe esitanti, si rotolano nel terriccio che i ragazzi hanno appena smosso. Kabir li chiama Tom e Jerry, come i personaggi dei cartoni animati che ha visto sulle pagine di un libro in Iran. Rinuncia a un po’ del suo pane e glielo offre a pezzetti dalla mano, lasciando che i cuccioli si servano tra musatine e pennellate delle morbide linguette. I piccoli si sdraiano sulla schiena, le zampe all’aria, offrendogli le pance vellutate. Kabir se li carica in spalla, ridacchiando quando gli leccano le orecchie. Li lascia cadere da una certa altezza per vedere se atterrano sulle zampe e ride quando guaiscono per l’impatto. Aryan gli dà uno scappellotto sull’orecchio per la sua crudeltà. È più o meno allora che i brutti sogni cominciano a tornare. C’è stato un attacco missilistico al mercato. Il


mondo è offuscato e Aryan arranca attraverso una cortina di polvere. Ha i capelli bagnati e incespica oltre il letto del fiume asciutto, verso il punto dove sorgeva il mercato. Una ragazza si trascina sulle braccia in mezzo alle macerie, uno spuntone di osso le sporge fuori dalla gamba. Tutte le mele sono coperte di sangue. Aryan cerca, fruga fra i detriti, ma non ci sono corpi, solo membra sparse e mele ovunque, e sangue che affonda nella sabbia. Sa che suo padre è lì, ma non riesce a trovarlo da nessuna parte. Suo zio gli ordina di continuare a cercare. Si sveglia di soprassalto, con l’affanno. Una mattina Kabir si alza dal letto, gli occhi neri lucidi come olio, e vomita. È troppo debole per reggersi in piedi. Aryan intuisce, senza bisogno che glielo dica il fattore, che questo gli costerà un giorno in più di lavoro. Resta accanto a Kabir per tutta la giornata. Quando ha i brividi, gli rimbocca le coperte. Quando suda, gli avvicina alle labbra una tazza smaltata con l’acqua. Kabir non riesce a trattenere nemmeno quella. Ha il volto che scotta e i capelli incollati sulla


fronte. Aryan bagna la propria maglietta e la passa sul viso del fratello. Ne osserva a lungo il profilo delicato, le guance tonde arrossate dalla febbre, le sopracciglia nere sulla pelle diafana, e prova una stretta al cuore. La donna anziana arriva dalla casa portando una brocca d’acqua con sale e zucchero. I grani si depositano come sabbia sul fondo, senza sciogliersi. «Ho tanta sete», mormora Kabir. Ma l’acqua stimola ancora il vomito. Solo nel pomeriggio Aryan riesce a fargli bere qualche sorso. Le impronte delle sue dita calde sul vetro si dissolvono in aloni appannati. Dorme. Aryan si appoggia contro la parete accanto al fratello, ascolta il respiro corto e superficiale. Fuori, il profilo azzurro delle colline si ammorbidisce nella luce del crepuscolo. Lontano, dall’altra parte della valle, la sagoma indistinta di un altro villaggio; scesa la notte, vaghi punti luminosi ammiccano nell’oscurità. A volte Kabir parla nel sonno. Lunghi discorsi incoerenti e incomprensibili. A volte chiede di Ali, o cosa è accaduto a Bashir. A volte della madre. A volte sono i cavalieri curdi a spaventarlo. A volte


chiede di Hamid e borbotta qualcosa sul giorno che si erano ripromessi di esplorare Istanbul. «Non puoi andartene da Istanbul senza aver visto il Corno d’Oro», aveva detto Hamid, e li aveva trascinati in una danza spensierata, spingendoli lungo le strade vertiginose che scendono verso le acque inquinate del Bosforo, saltando all’ultimo minuto sui traghetti affollati, gironzolando tra palazzi, torri e moschee, sgraffignando frutta candita dai bazar e ciambelle di pane di sesamo dalle bancarelle sotto i ponti. Li aveva portati alla Moschea Blu, dove si erano tolti le scarpe e, distesi su un mare di tappeti, avevano osservato le vetrate colorate. Si erano intrufolati dentro un palazzo un tempo abitato da sultani per rimirare pugnali tempestati di smeraldi. Aryan non aveva mai capito come avesse fatto Hamid a trovare la strada per raggiungere il mare, né a ritornare sui propri passi attraverso il dedalo di viuzze fino al buco nel muro dove lavorava – né come ci fosse riuscito senza farsi scoprire da Mohamed. Sembrava avere una propensione al rischio. O forse Mohamed si era affezionato ad Hamid ed era disposto a chiudere un occhio.


L’indomani Kabir ha una cera migliore; anche il vomito è cessato. Dorme quasi per l’intera giornata. Per ingannare il tempo, Aryan prende il suo taccuino e disegna il volto del fratello e dopo, a memoria, lo ritrae mentre gioca con i cuccioli nel campo. Poi è il turno di Aryan. Febbre, sudorazione. La pelle prude sotto le coperte. Non riesce a dormire. Ha freddo, poi caldo. Ha i brividi e suda. Non riesce a trattenere niente nello stomaco. A volte c’è Kabir accanto a lui. Ricorda i cuccioli che giocano ai suoi piedi, il lappare delle lingue mentre bevono da una vecchia ciotola che Kabir ha trovato abbandonata nel cortile. Sogna. Di stranezze e violenza, prive di senso. Sono di nuovo sul confine turco, stanno attraversando il fiume. La barca fa acqua, ma hanno quasi raggiunto la riva. Ci sono soldati in mezzo agli alberi davanti a loro. Altri sbucano fuori lungo l’argine. Vede il profilo dei loro fucili, e non c’è un posto dove approdare. L’acqua riempie la parte anteriore del gommone gravato dal peso degli uomini. Aryan ha paura che i soldati gli sparino addosso o buchino il battello di gomma per farli


annegare. Il traghettatore annaspa con la pertica, cercando di tornare al punto di partenza. Ma le luci che danzano sul ponte si stanno distanziando fra loro, ondeggiando fra gli alberi, avvicinandosi alla riva che hanno appena lasciato. Hamid è sul gommone con loro. «Dobbiamo nuotare», dice, e si sporge sulle acque turbolente. «Andiamo!». Ma Kabir non vuole saltare e Aryan non può lasciarlo da solo. D’un tratto la pertica del traghettatore tocca il fondo, il gommone sbanda di lato e si sente un tonfo. La testa di Hamid ballonzola sull’acqua mentre la corrente lo trascina a valle. Uno sparo, una sensazione di intenso bruciore, e Aryan sanguina da un fianco. Subentrano altri sogni. Si trova di nuovo in Afghanistan e in qualche modo sa già cosa sta per accadere perché l’ha sognato in precedenza. C’è polvere ovunque e la mezza carcassa maciullata di un’auto. Metà della strada è scomparsa; sembra la bocca di un amico con i denti saltati via. La stazione di polizia è crollata su un banco di angurie e i frutti si sono spaccati come crani, spandendo la polpa rossa sull’asfalto. Ci sono chiazze di sangue nere come grasso per motori, e gente che trascina fuori i


feriti. I soccorritori stanno cercando di rimuovere le macerie; sente un gemito, sembra un animale in trappola. Poi il suono si spegne di colpo. Quando Aryan si avvicina riconosce le scarpe comode e gli indumenti sotto il burka inzuppato di sangue. Quel che non capisce è come mai il piede nella scarpa non sia più attaccato al corpo di sua madre. Di colpo è sulla strada fuori la casa di Teheran. Sua madre è sulla porta, tiene in braccio Kabir. Aryan sta andando a scuola e i ragazzi più grandi lo stanno aspettando: non vogliono afghani nel loro quartiere. Quel giorno c’è una verifica di matematica e Aryan è rimasto alzato fino a tardi per prepararsi. I ragazzi si sono appostati nel vicolo con le fionde. Una pietra grossa come una noce lo colpisce al cuore. I livelli di pericolo si mischiano con immagini talmente fantasiose che non riesce più a distinguerle da quelle reali. Sono di nuovo a Istanbul e se la sono svignata ancora una volta insieme a Hamid. Si trovano all’interno di una moschea enorme, la cupola è ornata di mille mosaici d’oro. Affacciati dalla balconata, guerrieri vichinghi ammirano l’edificio più grande che abbiano mai visto. I loro coltelli


scintillano mentre incidono graffiti nordici nella pietra. Sulle pareti, al di sopra degli strabiliati norreni, sono dipinte figure dai volti sereni che tracciano strani segni cristiani con le mani. Sono rimasti solo i volti più difficili da raggiungere; gli altri sono stati cancellati a colpi di scalpello. Aryan, Hamid e Kabir li stanno osservando da sotto la grande cupola. C’è un battito d’ali fra le travi, e un piccione si sposa ai raggi di sole, il piumaggio chiaro s’indora nel fascio di luce obliqua. Poi, senza alcun preavviso, un mosaico si stacca, e poi un altro, e un altro ancora, e l’uccello agita le ali in un pulviscolo incantato e poi centinaia di tessere d’oro si riversano tutto intorno a loro – una cascata di tasselli di vetro che fremono e scintillano roteando lentamente su se stessi, frantumandosi sulle lastre di pietra in un tintinnante caleidoscopio di luci. Aryan non sa per quanto tempo va avanti così, alla deriva, fra delirio febbricitante e incubo, fantasie e ricordi e sonno. Quando comincia a riprendersi, Kabir e i cuccioli gli portano un uovo sodo.


Una volta guariti, tornano nei campi: Aryan, Kabir e i tre cani. Le guance tonde di Kabir sono pallide e le membra di Aryan sono pesanti come piombo sotto il sole. Aryan segna i giorni che passano sul taccuino; ormai non ha più tempo per disegnare sulle sue pagine. I grandi campi di patate sono quasi a posto, i fusti scheletrici strappati dal terreno e stipati dentro sacchi per la spazzatura, i tuberi picchiettati sottratti al riparo della terra. Sulle prime Kabir è eccitato da ogni scoperta e gioca a indovinare quanti frutti porterà ciascuna pianta. Immagina di essere un archeologo e lancia un urlo di gioia quando scorge le patate più piccole, nascoste come pepite d’oro nelle zolle di terra. Ma presto si stufa, e Aryan deve rimproverarlo perché gioca con i cuccioli invece di setacciare il terreno che ha appena smosso con il bidente. Aryan ha la schiena rigida e indolenzita a furia di restare sempre chino sul lavoro. I muscoli del collo protestano quando si gira a guardare oltre la spalla. Il bidente è troppo grosso per la sua corporatura e ogni colpo lo sfianca; le mani doloranti faticano a tirare fuori dal terreno le piante morenti. Ci sono


sempre altre casse da riempire, altri solchi da scavare. Calcola che sono passati quasi cinque mesi. È impaziente di rimettersi in viaggio. Su una nuova pagina del suo taccuino, Aryan cerca di fare quattro calcoli. A Istanbul, Ahmed gli ha detto che i trafficanti di uomini chiedevano duemila e cinquecento euro per un posto sul camion che passa da Patrasso diretto in Italia. Aryan non ha idea di quanto siano lontani dal porto greco, ma calcola che dovrebbero lavorare cinque mesi per guadagnare quella cifra. Aryan non dice niente a Kabir. Ma comincia a chiedersi se il fattore abbia realmente intenzione di organizzare la loro traversata. «Quando andiamo in Inghilterra?», continua a chiedere Kabir. Il fattore interrompe Aryan a metà frase quando gli gira la domanda. «Guarda», dice l’uomo, con un gesto che spazza le colline. Oltre l’altura, i campi di cipolle si allungano davanti a loro, steli verdi appuntiti come matite che


si perdono in lontananza fino a confondersi in un’unica barriera alta fino al ginocchio. È notte, e Kabir non riesce a dormire. La luna illumina la stanza. Un cane ulula. Non-così-vecchia risponde da qualche parte dietro la casa. «Aryan?» «Uhm». «Dormi?» «Sì», dice Aryan. «Allora come mai stai parlando con me?» «Non sto parlando con te. Sto dormendo». Una pausa di silenzio. «Aryan?» «Uhm». «Io sono un afghano?» «Uhm». «Davvero?» « Se i cosa?». Aryan si arrampica sulla propria stanchezza. «Sono un afghano?» «Cosa vuoi dire con “sono un afghano”?» «Puoi essere ancora un afghano se non ti ricordi più cosa significa?»


«Certo che sei un afghano. Io sono un afghano, tu sei un afghano, la nostra famiglia è afghana». «Ma se qualcuno me lo chiede, non so dirgli cosa significa essere afghano. Ricordo di più l’Iran e Istanbul, e questa fattoria, dell’Afghanistan». «Questo perché avevi solo quattro anni quando ci siamo trasferiti in Iran. Cosa saresti se non fossi un afghano?» «Non lo so. Forse sono un bel niente». «Ma certo che sei un afghano. Pensi che ti troveresti qui se fossi un egiziano o un americano o un eschimese?» «Ok, allora parlami dell’Afghanistan», dice Kabir. Aryan ci pensa un po’ su. «Ricordi la casa?». Kabir resta per un momento in silenzio. «Non riesco più a vederla nella mia testa», risponde. Nella sua voce c’è un qualcosa che rasenta l’angoscia. Adesso Aryan è completamente sveglio. «Sì che ci riesci. Ricordi i piccioni che il nonno accudiva, vero? A volte, quando eri ancora un bimbetto piagnucoloso, ti portava lassù a vedere i tetti della città». Kabir esita prima di parlare. «Ricordo le penne bianche e le zampe rosa, e l’arancio vivido degli


occhi. Ma non ricordo il posto. Non ricordo nemmeno che aspetto aveva nonno». «Era molto vecchio. Aveva una barba bianca e ispida e una gamba che gli dava qualche fastidio. Ci metteva un secolo a salire le scale fino al tetto. Le sue mani odoravano di sapone e portava sempre un pakol[1]», dice Aryan. «Mi ricordo il pakol», dice Kabir. «Me lo metteva sempre sulla testa. Mi calava sulle orecchie e pizzicava». «Vedi?», lo incoraggia Aryan. «Te lo ricordi». «Qualcos’altro?» «Che mi dici del bazar dove Baba andava a comprare pinoli e melagrane? Lo ricorderai di certo», dice Aryan. «Madar dava di matto quando Baba ti portava con sé. Lo rimproverava perché ti lasciava da qualche parte, tu cominciavi a gironzolare e finivi per perderti. Ma tu volevi salire sulle sue spalle e strillavi così tanto che ti portava con sé solo per farti stare zitto. Non puoi non ricordartelo!». Kabir arriccia il naso, tentando di rievocare le prime immagini della sua breve esistenza. «E il televisore, ricordi il vecchio televisore? Non


c’era l’elettricità, così Baba lo collegava a una batteria per auto sotto il tavolo – c’erano tutti quei fili – e faceva un rumore come un sibilo, e l’immagine sembrava trasmessa in mezzo a una tempesta di sabbia». «La batteria!», esclama Kabir illuminandosi in viso. «Sì, ora ricordo. I morsetti erano rossi e blu». «Vedi?», dice Aryan. «Anche se avevi solo quattro anni, te lo ricordi». «Quindi vengo dall’Afghanistan», concluse Kabir. «Sì», conferma Aryan. «Ora dormi come un qualsiasi afghano che si rispetti». «Aryan?» «Sì, Kabir». «Non ricordo più Baba». Aryan viene colto alla sprovvista. Non vuole pensare all’ultima volta che ha visto suo padre, alle scene da incubo con le mele sparse ovunque che si insinuano nella sua mente anche quando è sveglio. Manda giù il groppo che ha in gola e tira fuori il suo tono di voce più allegro. «Era molto alto, talmente alto che ti prendeva in giro quando volevi andare con lui perché gli arrivavi solo alle ginocchia. Ti chiamava “la sua cavalletta”,


non facevi che saltargli intorno affinché ti portasse con lui». Kabir non dice niente. Sono storie che ha già sentito, ma Aryan sa che vuole che gliele racconti di nuovo. «Aveva mani grandi, e qualche graffio sul viso dove era solito radersi, almeno fino all’arrivo dei talebani», racconta Aryan. «Poi anche lui si è fatto crescere la barba, come tutti gli uomini. Aveva un colore diverso dai capelli. Quando rientrava dal bazar i suoi vestiti odoravano di tabacco. Ed era il miglior giocatore di scacchi dell’intera città». «Non lo ricordo mentre giocava». «Non giocava a casa. Giocava al bazar, quando ha perso il lavoro dopo che hanno dato fuoco alla scuola. Bevevano tè e fumavano e giocavano a scacchi, e lui era sempre il migliore. Per questo ha cercato di insegnarmi a giocare». «Sei diventato bravo come lui?» «Mi batteva quasi sempre. A volte vincevo – ma forse era lui che mi lasciava vincere. Si arrabbiava quando mi sfuggivano le mosse più ovvie e a quel punto non aveva pietà, e mi puniva mangiandomi tutti i pezzi».


«Insegni anche a me a giocare a scacchi?» «Non ti piacerebbe. È un gioco da adulti. Ci sono un sacco di pezzi, e ognuno si muove in modo diverso». «Dimentico i volti, ma sono bravo a ricordare cose di questo tipo». «Quando sarai più grande, troveremo una scacchiera e ti insegnerò le regole. E poi userò tutti i trucchi di Baba per stracciarti». «Non se divento più bravo di te!». «Be’, non ho mai sentito che una cavalletta sappia giocare a scacchi, quindi dovrai impegnarti parecchio. Adesso fai silenzio e cerca di dormire un po’». Aryan resta sveglio a lungo, assorto nei propri pensieri. Lo angustia il fatto che stia diventando sempre più difficile, anche per lui, rivangare i ricordi del padre ogni volta che Kabir glielo chiede. È come se il profilo del padre, nella foto graffiata dalla polvere che conserva nel portafoglio, stia perdendo nitidezza, come se il potere di rievocare l’odore della pelle del padre, il tocco ruvido delle sue mani, stesse svanendo. Scavare nel passato,


aggrapparsi a storie che sembrano fossilizzarsi in qualcosa che perde vita a ogni racconto, sta diventando estenuante. Eppure, se non continuasse a raccontarle, anche quei pochi fili che le tengono ancora in piedi finirebbero per spezzarsi; è come se ricordare il loro comune passato a Kabir servisse a ricordarlo a se stesso, e in questo modo ciascuno dei fratelli diventa custode dell’identità dell’altro. Senza Kabir, una parte di Aryan cesserebbe di esistere, e la sua vita prima di questo viaggio perderebbe di credibilità anche ai suoi occhi. A volte ha la sensazione di galleggiare nello spazio come un astronauta svincolato da orbita e gravità, e di avere un appiglio talmente fragile sulla Terra che la sua presenza non farebbe alcuna differenza per nessuno. È quasi sera quando un vecchio camion coperto da un telone verde si ferma nel cortile. Aryan è vicino al rubinetto esterno, a torso nudo nella luce morente del giorno. Rivoli di sporcizia gli colano lungo le braccia, scavando piccoli crateri lunari nella polvere ai suoi piedi. Aryan sente l’autista tirare il freno a mano e scendere dalla cabina del mezzo. I maiali


grugniscono dietro le assi marcite del porcile. Quando Aryan alza di nuovo lo sguardo, l’uomo lo sta fissando con gli occhi freddi e piccoli di una lucertola, la bocca stirata in uno strano sorrisetto. Non distoglie gli occhi quando Aryan si accorge di essere osservato; anzi, intensifica lo sguardo come se si aspettasse qualcosa. Aryan avverte una sensazione di gelo lungo la schiena, la bocca improvvisamente asciutta, la lingua impastata. Kabir esce fuori dalla costruzione. Sta cercando il bastoncino che tira sempre ai cani. Si ferma appena nota la figura vicino al camion. L’uomo lo fissa ancora un momento, poi si gira ed entra in casa. «Chi è quello?», domanda Kabir. Aryan si stringe nelle spalle. Quando l’uomo esce dalla casa, sta discutendo in greco con il fattore. Attraversa il cortile a lunghi passi, sollevando in aria briciole di fango, e getta una sigaretta fumata a metà nella polvere; un filo di fumo si allunga come un piccolo atto di sfida. Si issa al posto di guida. Le ruote mordono il terreno


mentre esce a marcia indietro dal cancello. Con il volto di pietra, il fattore è rimasto sulla soglia a braccia conserte, seguendo la partenza del camion. Per un momento guarda i ragazzi con un’espressione che Aryan non riesce a decifrare, poi rientra in casa. È l’alba, e le file di cipolle li reclamano, increspandosi come uno specchio d’acqua sotto la brezza estiva. Il fattore li ha armati di forche a denti larghi e piatti per scavare intorno ai bulbi. Nel fresco del primo mattino, mostra loro come tirare fuori le cipolle senza danneggiarne la pelle, e poi come spogliarle della terra residua con le mani. Recidono le foglie con un falcetto e riempiono i sacchi a rete di bulbi ramati. «Le mani piccole sono perfette per questo lavoro», dice il fattore. «È un lavoro buono per voi ragazzi». Kabir si accovaccia vicino agli steli, sradica la pianta con entrambe le mani e scrolla via la terra. I cuccioli gli giocano in mezzo ai piedi. Ogni tanto li allontana con uno scappellotto. Il caldo comincia a farsi sentire. A metà giornata si


tolgono le magliette. Hanno la faccia e il collo abbronzati, e anche le braccia, fino al segno lasciato dalle maniche corte. Scacciano zanzare e vespe a suon di manate. Accovacciato per ore nella stessa posizione, Aryan pensa che la schiena finirà per spezzarsi. Nota anche che i muscoli delle braccia sono gonfi e sodi. A mezzogiorno si concedono una pausa all’ombra marezzata degli olivi. Piccole mosche gli ronzano intorno alla faccia, attirate dall’odore di sudore. Le bottiglie di plastica che riempiono d’acqua sono calde, nonostante le abbiano sepolte nella terra fino al collo. Gli uomini arrivati subito dopo di loro stanno lavorando nei campi vicini. Non parlano, lavorano senza tregua durante le ore più calde della giornata, trasformando ogni fila di piante in una cresta nodosa di sacche rossastre. Alle loro spalle serpeggia un lungo strascico di foglie scartate. Devono essere pagati a numero di sacchi, pensa Aryan. Per questo non si fermano mai. Si chiede dove andranno a dormire, e se lui e Kabir viaggeranno insieme a loro quando il fattore li manderà finalmente per la loro strada.


Alla fine della giornata, Aryan riesce a pensare a una cosa sola: sdraiarsi. Appena è in posizione orizzontale, precipita in un sonno profondo. È in corso una conversazione tra i loro genitori. Sono nella casa con la colombaia sul tetto; i piccioni hanno riempito i trespoli e i nidi di piume e di piccoli cuori palpitanti. Aryan sta scendendo a prendere un’altra coperta. È l’inizio dell’estate e lui dormirà all’aperto, sotto il cielo stellato. «Se non ce ne andiamo, farà la loro stessa fine», sta dicendo suo padre. La madre sta piangendo sommessamente. Dice che non vuole lasciare l’Afghanistan. Non vuole lasciare la casa, né la regione dove vive tutta la sua famiglia, né il luogo dove hanno sepolto Bashir. Ma Baba le sta dicendo che presto non avranno altra scelta. C’è stato un altro attacco missilistico. È in corso il reclutamento di giovani. I comandanti hanno ripreso a esercitare pressioni sulle famiglie perché spingano i figli ad arruolarsi. «Nei villaggi offrono denaro ai padri», dice Baba. «Prendono ragazzi di soli undici o dodici anni». Aryan sa che suo padre vuole andare via a causa


sua. Non è mai stato in Iran e non vuole andarci. Sono mesi che non c’è scuola, ma gli piace giocare a scacchi con Baba al bazar, e con le biglie insieme ai suoi amici nelle strade polverose. A volte, alla fine della giornata, vedono la donna anziana al filo per stendere il bucato. Non parla mai con loro, nemmeno la sera, quando attraversa il cortile con le logore ciabatte di pezza per portargli la cena. Non sorride mai, l’espressione del viso resa ancor più cupa da una fitta rete di rughe e bitorzoli. All’inizio Aryan nota piccole cose, talmente impercettibili da non capire se siano o meno sintomi di un cambiamento. Prima è un tremolio della tenda che lo porta a domandarsi se la donna stesse osservando il loro ritorno dai campi. Poi la questione dell’impacco di ghiaccio sulla caviglia, e la vecchia aspirina. E l’acqua con sale e zucchero per Kabir. E l’uovo sodo per Aryan. Un giorno Kabir va alla casa per chiedere del sapone, e torna con un’albicocca in ciascuna mano. Al crepuscolo, quando rientrano dai campi e i cuccioli cominciano a smaniare irrequieti, Kabir si


affaccia alla casa per rimediare qualcosa. La donna anziana getta loro gli avanzi rimasti sul tavolo, e quando Kabir osa varcare la soglia gli permette di fermarsi per qualche minuto. Al suo ritorno, Kabir racconta ad Aryan del fuoco che brucia nella vecchia stufa a legna della cucina, dei piatti di porcellana blu nella credenza, delle varie pietanze che la donna sta cucinando sul piano di cottura. Secondo Aryan, Kabir sente la mancanza di una casa. A volte la donna gli chiede di sbucciare le mele, di lavare la frutta prima di fare la conserva, di portare le bucce delle patate ai maiali. In cambio gli dà del cibo da dividere con Aryan – a volte formaggio e sfoglie ripiene di spinaci, tortini di carne con piselli. Lo manda sempre via prima che rientri il fattore. Aryan non sa cosa pensare. A volte è contento di passare una mezz’ora lontano dal fratello; sa che la compagnia della donna anziana ricorda a Kabir cose ed emozioni delle quali Aryan si è imposto di non sentire la mancanza. Ma se Kabir sta via per troppo tempo, Aryan si fa prendere dall’ansia. Una sera, mentre si scrolla via il fango dalle scarpe, Aryan alza gli occhi e vede la donna ferma davanti


alla tenda. Solleva la mano artritica per fargli un cenno di saluto, solo una volta, e scompare. Aryan esita, poi attraversa il cortile. All’interno della casa, la donna gli fa cenno che può lavarsi le mani e gli indica una sedia. Si siedono intorno al tavolo di legno robusto a pelare carote, rape e le patate che hanno dissotterrato nei campi. Aryan è sorpreso dalla semplicità della casa, non così diversa dalle abitazioni del luogo in cui è nato. Il silenzio è rotto dal lieve sbatacchiare dei coperchi sulle pentole che bollono e dal raspare dei coltelli che scoprono strisce di polpa colorata nascosta sotto la pelle vegetale. Poi la donna posa una ciotola di zuppa davanti ai due fratelli. Al suo rientro, il fattore si blocca sulla soglia fissando Kabir che beve rumorosamente dal cucchiaio. Borbotta qualcosa in un greco stizzito, ma la donna lo interrompe con parole energiche come schiaffi. Da quella sera, i fratelli mangiano ogni giorno nella cucina, e vanno via prima che il fattore si sieda a consumare la sua cena insieme alla donna anziana.


A volte, tornando dai campi, scoprono che la donna ha cambiato le loro coperte, oppure ha infilato dei fogli di giornale nella cornice della finestra per non far entrare il vento. Una sera, mentre rientrano dai campi di cipolle, vedono il tetto del camion con il telone verde ballonzolare sul fondo irregolare del vialetto di accesso prima di riprendere la strada. Il fattore, curvo su un vomere incrinato, li ignora quando gli passano accanto. È notte quando le ombre si avvicinano furtivamente ad Aryan. Devono essere stati i brutti sogni a svegliarlo, ma adesso è il tremito che non vuole lasciarlo scivolare di nuovo sotto le coltri del sonno. All’inizio è quasi impercettibile, come increspature in un bicchiere d’acqua, ma lo tiene sveglio. Di lì a poco aumenta, e Aryan capisce con una sorta di inevitabilità che non riuscirà a fermarlo. Batte i denti, e dopo pochi istanti l’intero corpo è scosso da un fremito irrefrenabile. Paure a cui non sa dare un nome volteggiano come insetti impazziti, corpi vellutati e


ali frenetiche che sbattono contro il suo viso. All’improvviso ha il terrore di soffocare. Sente il gelo dentro le ossa e nemmeno il tremito delle membra riesce a ristabilire il calore corporeo. Ha la bocca secca, il viso madido di sudore. Attraverso il vetro della finestra vede solo quattro rettangoli di notte. Il mondo è immerso nel buio e, dal suo giaciglio, la vista delle stelle è nascosta dalle colline. Aryan riconosce i demoni delle sue paure; comincia a chiedersi se vorranno compiere l’intero viaggio in sua compagnia. Per un po’ gli era parso di esserseli scrollati di dosso, che lo avessero abbandonato nello scintillio del deserto, sulle montagne rocciose del Kurdistan, nel piccolo villaggio dove erano rimasti isolati per settimane, nascondendosi dai soldati in attesa di una guida. Sulla barca che li aveva traghettati per miracolo sulle acque del lago di Van, dove la paura di annegare lambiva i fianchi sferzati dalle onde. Allora c’erano altri demoni a scalzarli: la fame, il dolore di talloni pieni di vesciche e di stinchi ammaccati, i trafficanti che abbandonavano i ritardatari lungo la strada. Forse erano demoni gelosi, o semplicemente indolenti; quando il


cammino era più duro lo lasciavano pietosamente in pace, e allora Aryan cadeva in un sonno agitato e discontinuo, sfinito dalla fatica di andare avanti. Ma appena si ferma da qualche parte, lo raggiungono; ora, per la prima volta dopo Istanbul, i demoni dell’immobilità tornano ad affacciarsi. Penetrano a fondo nella sua inquietudine per tutti i giorni che stanno perdendo; minano la sua determinazione insinuandogli dubbi sul futuro; erodono la sua forza d’animo ricordandogli da cosa sono scappati. Dove stanno andando, realmente? Lui e Kabir potrebbero restare bloccati in questo posto per sempre. Ha sentito storie di persone scomparse a mai ritrovate, voci su traffici di organi, bambini resi schiavi e reti di prostituzione. Sebbene qui la situazione sembri tranquilla, e non ci sia guerra in Europa, si rende improvvisamente conto di quanto sarebbe facile far scomparire qualcuno dove nessuno sa della sua esistenza. Si vergogna di quel che prova, ma all’improvviso vorrebbe che sua madre fosse lì. Vorrebbe essere piccolo come Kabir ed essere stretto fra braccia che possano contenerlo, rassicurarlo, e vedere i demoni


trascinati via dal vento. Non ricorda più il profumo di sua madre, solo che permeava anche i suoi vestiti. Quando l’alba arriva, trova un Aryan esausto e profondamente angosciato. La notte indugia su di lui, densa come rugiada. Adesso il camion con il telone verde viene ogni due giorni e parcheggia all’ombra della casa. L’autista parla con il fattore in greco. Aryan vede i suoi occhi da rettile osservarlo durante la conversazione. Mentre parla, tiene Aryan sotto tiro. Aryan non riesce ad abituarsi a quella presenza. Anche a distanza, quell’uomo ha qualcosa che lo inquieta e lo disgusta. L’uomo fuma insieme al fattore mentre Aryan e Kabir ammucchiano i sacchi di cipolle dentro al camion; alcuni sono alti quasi quanto Kabir. Aryan rabbrividisce sotto lo sguardo dell’autista, solleva i sacchi meccanicamente, spera che la tensione che gli attanaglia lo stomaco non traspaia dal suo volto. Le giornate sono sempre più calde. Non c’è ombra nei campi dove lavorano. La notte dormono un


sonno agitato, spesso interrotto dal ronzio delle zanzare. Un giorno l’autista si avvicina ai fratelli dove i solchi di terra si allungano quasi fino alla casa. Fruga e fruga nella tasca dei pantaloni flosci e poi ne tira fuori un pacchetto. «Fumi?», chiede ad Aryan in inglese. Aryan non risponde. Tendendo la mano carnosa con un sorriso, l’uomo gli offre il pacchetto sgualcito bianco e rosso, con una sigaretta che sbuca fuori da un angolo. «Fumi come un uomo?», insiste. Aryan lo fissa socchiudendo le palpebre. «No». Ora l’autista gli sta davvero vicino e Aryan ha la bocca secca. Sente il suo odore di sudore e brillantina; la pelle sul dorso delle mani grassocce è secca, squamosa e bianca. L’uomo esita un istante, scrolla le spalle e torna al camion. Non controlla nemmeno il telone prima di uscire a marcia indietro dal cancello. Aryan osserva il tetto del veicolo sprofondare e ondeggiare nelle buche. Due giorni dopo, a mezzogiorno, è di nuovo lì.


Parla con il fattore mentre i ragazzi caricano i sacchi del mattino sul camion. Con la coda dell’occhio, Aryan lo vede arrampicarsi al posto di guida. «Yassas!». Aryan sussulta al tono di voce troppo alto dell’uomo. Kabir sta trascinando un sacco verso il veicolo e l’autista gli sta intralciando il cammino. Due bottiglie di vetro di Coca-Cola scintillano nelle sue mani bianche e secche. Ne sta porgendo una a Kabir. «Prendi», dice. «Per te». Nonostante il freddo delle prime ore del mattino, a metà giornata il caldo si fa sentire e i ragazzi sono assetati. Kabir allunga la mano verso la bibita. «Lasciala, Kabir!», interviene Aryan. Kabir si immobilizza di colpo. «Perché?», chiede, esitando, la mano sospesa a mezz’aria. L’uomo ignora Aryan e sorride a Kabir. «Non prenderla!». Aryan si sorprende a gridare. E con insolita veemenza. «Ce n’è una anche per te», obietta Kabir. «Non mi interessa – non prendere niente da lui». Aryan non vuole che accettino regali da quell’uomo. Non vuole che si sentano in debito con lui. Non vuole che si sentano legati da inevitabili vincoli di riconoscenza nei suoi confronti.


Kabir prende la Coca-Cola. L’uomo tira fuori un apribottiglie, chiude la grossa mano su quella di Kabir stretta intorno alla bottiglia e fa saltare il tappo sull’erba. La sua mano copre completamente quella di Kabir, vi indugia per un lungo momento, poi si ritira. «E tu?». L’uomo si rivolge ad Aryan. Aryan è inamovibile come una roccia. L’autista aspetta che cambi idea, poi posa la seconda bottiglia per terra. Dice qualcosa in greco, accarezza i capelli e la guancia di Kabir, e sale sul camion. La bottiglia di Aryan resta da sola in mezzo alle foglie verdi di cipolla, scintillando come una statua di vetro. C’è un rumore di ruote che mordono il pietrisco e il camion si immette sulla strada. «Perché hai preso quella bottiglia?», dice Aryan. «Perché non avrei dovuto?», ribatte Kabir. «Voleva solo essere gentile». «Ti avevo detto di no». «Tu non sei mio padre». «È vero, Kabir, ma sono tutto quel che hai. E ti


dico: stai lontano da quell’uomo». «Ma perché?», insiste Kabir. «Almeno è più gentile di te». «Dammi ascolto». La voce di Aryan è irritata. «Non è una brava persona». «E tu che ne sai?», ribatte Kabir. «Voleva solo farci un regalo». «Non sai assolutamente niente di lui». «Nemmeno tu!». «No», dice Aryan. «Ma sono più grande di te e non mi fido di quell’uomo». «Perché devo fare sempre quello che dici? Non vuoi mai che ci divertiamo un po’». «Non è quello il problema», dice Aryan. «Be’, intendo tenere la mia bottiglia». «Fai come ti pare», replica Aryan. «Certo. E mi prendo anche la tua». Kabir afferra la bottiglia rimasta a terra, la infila in tasca e si allontana da Aryan, sedendosi con la schiena poggiata contro un paletto della staccionata. Ci sono cose che Aryan non può dire a Kabir. Ci sono cose che Aryan riesce a stento a ricollegare a sé, ma che ormai sono impresse in modo così


indelebile nel suo animo da essere diventate parte del suo modo istintivo di reagire, parte di una ferita che è stata aperta dentro di lui prima che avesse le parole o la consapevolezza per difendersi. Era successo quando vivevano ancora in Afghanistan. C’era stato un cugino più grande che aveva mostrato un interesse per lui: nei giorni in cui non c’era scuola lo portava al lago con il suo taxi, a pescare, gli insegnava ad annodare le cime e ad affilare i coltelli. Aryan aveva amato quel senso di avventura, il modo in cui lo faceva sentire speciale, le cose da uomo che aveva imparato e di cui poteva vantarsi di fronte agli altri bambini. Ma dopo un po’ suo cugino aveva smesso di riaccompagnarlo subito a casa dopo le loro escursioni. «Devo solo passare a prendere una cosa», diceva, lasciando la strada piena di solchi. Ma non c’era mai una casa, e mai niente da passare a prendere. All’inizio Aryan non aveva capito cosa stesse accadendo. Trovava strano che a volte quell’uomo corpulento gli palpasse il viso o i capelli, o gli infilasse le grosse mani ruvide sotto la maglietta per accarezzargli il torace. Ad Aryan non piaceva il


contatto della sua pelle o l’odore del suo sudore animale. Ma non conosceva parole per quel che gli faceva, o per le sensazioni che gli dava, e se lo avesse semplicemente ignorato forse alla fine il cugino avrebbe perso ogni interesse. Invece, le sue esplorazioni continuarono. Il primo giorno che si spinse troppo oltre, avevano percorso un lungo tragitto in macchina, e le grida di Aryan e i suoi tentativi da bambino di sette anni di respingere un uomo adulto avevano solo fatto ridere il cugino. Ma quando Aryan era riuscito a divincolarsi e a scappare via attraverso la campagna, il cugino si era infuriato, lo aveva raggiunto e immobilizzato, poi si era tolto la cintura e l’aveva frustato, urlandogli con stizza che dimenarsi avrebbe solo peggiorato le cose. Per Aryan, quel che successe dopo fu inenarrabile, e non aveva nome. Non aveva mai provato un dolore simile. Le pietre che gli affondavano nelle costole e nel lato della faccia che l’uomo gli teneva inchiodato a terra non furono niente in confronto alla lacerazione. Ma aveva sentito anche qualcosa cedere nel suo cuore. Al posto della fiducia era subentrato un senso di vergogna unito a una sorta di furia inespressa; se prima si sentiva sicuro di sÊ,


cominciò a sentirsi in torto, in qualche modo responsabile di quanto gli era accaduto perché, per qualche grave ragione, aveva fallito. Nella settimana successiva, Aryan aveva sanguinato ogni volta che andava di corpo. «È scivolato sulle rocce vicino al lago», aveva detto il cugino a suo padre per giustificare i lividi. Se ne avesse fatto parola con qualcuno, lo aveva minacciato il cugino, avrebbe ricevuto tante di quelle frustate che le ultime, al confronto, gli sarebbero parse solletico. E così Aryan aveva taciuto, e sopportato quando non poteva evitarlo. Ma odiava suo cugino con l’attonita rabbia di un ragazzino, e fu contento quando gli scontri lo fecero trasferire altrove con tutta la famiglia. Due giorni dopo Aryan è chino sui solchi di cipolle a estrarre i bulbi dalla sottile pellicola ambrata dalla terra. Hanno raggiunto l’estremità del campo e stanno lavorando vicino a un muro di pietre. Chiama Kabir perché gli porti altri sacchi. Passa qualche istante prima che si renda conto che Kabir non ha risposto. Aryan si alza in piedi e si appoggia alla forca,


stiracchiando la schiena. Si guarda intorno. Kabir non si vede da nessuna parte. E nemmeno il camion arrivato a metà del pomeriggio. Aryan corre verso il bordo del campo, domandandosi se il fratello sia andato alla latrina. «Kabir!», grida. Il suo richiamo echeggia nell’aria calda, ma nessuna voce gli risponde. L’ansia gli mozza il respiro. Salta da un solco all’altro fino al muro, si issa sulla sommità e atterra nel campo adiacente. Il fattore sta legando pianticelle ai paletti di sostegno. «Kabir, dov’è Kabir?», domanda ansimando. Il fattore lo guarda di traverso e raddrizza la schiena finché la canottiera si tende sul ventre pronunciato. «Chi?», chiede. «Mio fratello, Kabir». «È andato con l’autista a prendere altre cassette», risponde il fattore. «Tornano subito». Aryan ruota su se stesso scrutando l’orizzonte e lascia cadere le braccia lungo i fianchi in un gesto di frustrazione. «Kabir», urla con tutto il fiato che ha in gola. Il profilo spoglio e segnato delle colline ingoia il suo


grido. È quasi l’imbrunire quando il camion ritorna. Kabir è sul sedile del passeggero, con la cintura di sicurezza allacciata. Oltre il parabrezza, il suo viso ha uno strano pallore e le guance paffute sono segnate dalle lacrime. L’autista saluta il fattore con un sorriso allegro. «Ti ho riportato il tuo lavorante», dice. Comincia a scaricare le cassette vuote dal camion. Aryan ha lo stomaco sottosopra tra l’ansia e il sollievo di rivedere il fratello. Kabir slaccia la cintura di sicurezza e scivola rigidamente giù dal sedile. Non riesce a parlare e non c’è luce nel suo sguardo. Si rifiuta di guardare Aryan negli occhi. Nel loro alloggio, Kabir volta le spalle al fratello e non vuole dormire vicino a lui. «Ti ha fatto del male?», gli chiede Aryan. Kabir rimane in silenzio. Ma le lacrime, o un principio di lacrime, offuscano il nero carbone dei suoi occhi. «L’autista ti ha fatto del male?». Kabir non dice nulla.


«Vieni qui», dice Aryan. Il fratello non si muove. Così Aryan va da lui e gli passa un braccio intorno alle spalle rigide. Tutto il corpo di Kabir sta tremando, e da quella reazione involontaria Aryan capisce subito che il suo istinto non si era sbagliato. Kabir non si gira verso di lui quando si decide a parlare. «Perché non me lo hai detto?» «Ho cercato di metterti in guardia», risponde Aryan. «Non ne ero sicuro». «Non mi hai messo in guardia. Mi hai solo detto di non prendere la bottiglia». «Quell’uomo mi dava una brutta sensazione, tutto qui. Ho cercato di avvisarti». Kabir si lascia sfuggire un singhiozzo. «Era troppo forte, Aryan». Qualunque altra cosa stia per aggiungere, viene soffocata da un pianto convulso che gli scuote le spalle rotonde. Aryan guarda il fratello, quasi si renda conto solo allora di quanto sia piccolo, la cresta della spina dorsale che preme contro la maglietta sporca, il bambino che affiora dalle sue guance, i capelli folti e ribelli.


È talmente abituato ad averlo accanto a sé che a volte dimentica che è ancora un bambino. Un nodo di angoscioso disagio gli serra la gola. Non è riuscito a salvaguardare l’unica persona al mondo che gli è rimasta da proteggere. «Kabir», dice con un filo di voce. «Non è colpa tua». Kabir non risponde. È in quel momento che Aryan prende una decisione. «Non importa come faremo, ma non resteremo qui un minuto di più». Kabir fa un respiro profondo. «E il camion?», domanda. «Non so nemmeno se c’è un camion, Kabir. Forse non hanno mai avuto intenzione di mandarne uno. Forse nemmeno di pagare». Aryan conta i giorni segnati sul suo taccuino. Sette mesi. A parte quell’unico pagamento, non è stato fatto più cenno a un salario o a un’imminente partenza. Si sente mancare se pensa a quanto tempo hanno perso. Non sa ancora in che modo, ma saranno lontani da lì prima che quel che è accaduto a Kabir possa ripetersi. È arrabbiato, come lo è stato anni prima, e la sua rabbia li trasporterà come una


scialuppa di salvataggio. Il fattore sta riparando una staccionata in fondo alla proprietà. Questa volta l’autista con le mani grassocce non si è presentato; un uomo più giovane guidava il camion al suo posto. Aryan fa salire Kabir sul cassone e gli passa i sacchi e le cassette di cipolle, uno a uno. Quando il carico è ultimato, si arrampica a bordo e ne modifica la disposizione lasciando uno spazio vuoto, come i rifugi che lui e Zohra costruivano con tappeti e cuscini sotto il tavolo, nella casa in Afghanistan. «Infilati lì dentro», dice a Kabir. «Non fare il minimo rumore». Spinge il fratello nel nascondiglio e si accovaccia vicino a lui dentro la nicchia. In tasca ha due tozzi di pane che ha messo da parte nelle ultime due mattinate. L’autista chiude i lembi del telone e fissa le corde senza accorgersi di loro. Dà una sgasata al motore. Suona il clacson una volta per avvisare il fattore che sta andando via. «Yassas!», lo saluta il fattore dal campo.


È stato quasi fin troppo facile. Aryan non ha idea di dove sia diretto il camion, ma almeno sono in viaggio. Kabir sembra immerso sott’acqua nella luce verde che filtra dal telone. «I cuccioli se la caveranno?», bisbiglia Kabir. Aryan sente una fitta di tristezza. Ma non potevano portarli con loro. «C’è ancora Non-così-vecchia a proteggerli», dice. Il cielo è di un blu intenso e i lampioni delle strade sono ancora accesi quando Aryan sbircia attraverso un’apertura nel telone. Il camion si è fermato a una stazione di servizio; lo assale l’odore della benzina, che riesce a nausearlo anche quando ha avuto da mangiare a sufficienza. L’autista sbatte lo sportello della cabina. Aryan aspetta un momento, poi prende uno scalpello che ha trovato sul camion e pratica un taglio nel telone. Sposta da parte le cassette e guarda fuori. Tutto quel che vede è il bitume di un’area di parcheggio e la parete di un altro camion. «Andiamo», dice a Kabir. Spinge il fratello attraverso il varco appena aperto, poi si lascia scivolare a terra accanto a lui, facendo forza sulla


caviglia buona. Durante la discesa, le vertebre strusciano contro il bordo di metallo del cassone. Nell’alba appiccicosa di sale, incespicano sulle gambe indolenzite. Dal grido dei gabbiani, immagina che siano vicini a una discarica di rifiuti, o da qualche parte lungo la costa. Indugiano in mezzo agli autoarticolati, poi si tuffano sotto le ruote di un camion in attesa che il loro autista ritorni. L’uomo avvia il motore e riprende l’autostrada; i fratelli restano a guardare finché il telone verde si eclissa nel traffico. Non c’è sapone o asciugamani di carta nel bagno per uomini, e l’acqua è fredda. Pisciano fianco a fianco in un orinatoio maleodorante. Evitando di calpestare gli schizzi di urina sul pavimento, Aryan entra in una cabina e strappa due manciate di carta igienica. Si lavano e si asciugano il viso, rimirandosi nello specchio macchiato come due increduli forestieri. «Che posto è?», chiede Kabir. «Credo che siamo ancora in Grecia. Se non altro le targhe sono tutte greche». Ravvia i capelli arruffati del fratello e gli liscia un


po’ i vestiti. «Dobbiamo cercare di non dare troppo nell’occhio», dice Aryan. «Ho fame», dice Kabir. Aryan ignora il fratello e il perdurante senso di vuoto nel proprio stomaco. Gli aerei volano bassi sopra le loro teste, allungando le ruote del carrello d’atterraggio come fossero artigli. Dall’aeroporto, calcola Aryan, deve esserci un mezzo di trasporto per la città. «Hai messo i tuoi scarponi da marcia?». Kabir fa segno di sì. È diventato così taciturno che Aryan è preoccupato per lui. Spera solo che ogni chilometro che metterà fra loro e la fattoria lo aiuterà a dimenticare. «Prenderemo qualcosa da mangiare in città, stai tranquillo», dice a Kabir. Intorno a loro un paesaggio desolato. Montagne brulle si stagliano sullo sfondo di una piana industriale accessibile da varie superstrade. Costeggiano il retro della stazione di servizio e percorrono una strada che più avanti si immette sull’autostrada. Una linea ferroviaria separa le due


arterie di traffico; un treno accosta lentamente a una banchina deserta. Aryan prende Kabir per mano e si arrampicano sulla corsia d’emergenza dell’autostrada. «Pronto?», dice, in attesa di una breve pausa nel flusso di traffico continuo. Al primo varco che si apre tra i veicoli, corrono, accompagnati da un coro lamentoso di clacson di automobili e camion che sfrecciano a tutta velocità in un tunnel di vento. Aryan ha il cuore che gli martella nel petto quando scavalcano lo spartitraffico e si appiattiscono contro la barriera di metallo alta fino ai fianchi. I veicoli che passano sibilando gli sferzano i capelli negli occhi e gli strattonano i vestiti di dosso in entrambe le direzioni. Un rapido susseguirsi di sagome rombanti crea una sorta di parete metallica di colori confusi; il mondo è striato di suoni e luci e folate di gas di scarico. Kabir scivola, ma si aggrappa in tempo allo spartitraffico. «Pronto?», grida di nuovo Aryan in mezzo al fragore del traffico. Kabir è aggrappato alla barriera con la schiena inarcata indietro, sconvolto. Il flusso di vetture si dirada momentaneamente e i due fratelli


si lanciano nella corrente. Un’altra esplosione di clacson, ma ormai sono dall’altra parte della carreggiata. Scavalcano un muro di cemento e atterrano su un sentiero sabbioso che corre parallelo alla ferrovia. Più avanti, una rampa di gradini bassi porta ai binari. Su un lato della banchina è appeso un cartello blu con l’immagine di un aereo, sull’altro lato si legge “Athina”. Si fermano un momento a riprendere fiato. Kabir si arrotola una gamba dei pantaloni; si è scorticato uno stinco contro la barriera di metallo e ora gli sanguina. «Sarà meglio comprare i biglietti», dice Aryan. La scala per raggiungere la biglietteria sovrasta le loro teste. Allo sportello, Aryan tira fuori una banconota da venti euro. «Due», dice. Una giovane donna, capelli neri striati di biondo, dice qualcosa così velocemente da risultare incomprensibile. «Aeroporto o Atene?», ripete in un inglese insofferente attraverso l’oblò nel vetro. «Atene», dice Aryan, notando con sollievo che


aveva riconosciuto il nome. Con gli auricolari nelle orecchie, la donna li guarda appena mentre digita qualcosa con le unghie decorate da un disegno intricato di fiori. Kabir arriva a stento a vedere oltre lo sportello; strabuzza gli occhi per osservare le dita fiorite alzarsi e abbassarsi rapidamente sui tasti. Alla fine, prende due biglietti da un contenitore di legno, li sbatte sul banco con aria seccata e fa scivolare il resto sotto il vetro senza degnarli di uno sguardo. Imitando un uomo davanti a loro, i fratelli inseriscono i biglietti in un famelico tornello che di lĂŹ a poco li risputa fuori con un ronzio di automatico sdegno. Tornati sulla banchina, si siedono a gambe incrociate sul cemento caldo di sole. Per ingannare l’attesa, tirano pezzetti di ghiaia contro una lattina sbiadita, abbandonata dall’altra parte delle rotaie. Scendono a una stazione prima del capolinea, insieme ai turisti provenienti dall’aeroporto. Il treno ha lasciato il mondo illuminato e si è inabissato nel sottosuolo; il marciapiede brulica di gente.


Aryan si fa da parte per lasciar passare i turisti e le loro enormi valigie con le ruote. Tra la calca e la semioscurità, ha perso l’orientamento, il peso della terra e del cemento sopra la testa lo opprime. Vuole solo andare via di lì, risalire in superficie. Sul treno aveva mostrato a Kabir il pezzo di carta dove Ahmed aveva scritto “Victoria Park”. Nel diagramma di percorso sopra le porte c’erano raffigurati una nave, un tempio e gli anelli olimpici, ma nessuna indicazione di un parco. Le mappe incorniciate sulle pareti della banchina sono indecifrabili. Ferma un vecchio con le scarpe troppo lunghe aggrappato al braccio di sua moglie. Una piramide di plastica trasparente penzola da un dito della donna; Kabir sbircia i biscotti impilati con cura al suo interno. I due discutono, indicano e gesticolano, ma Aryan non riesce a capire il loro greco. In uno scintillio di gioielli e bretelline di reggiseno, una donna passa ticchettando sui tacchi senza fare caso alla richiesta di Aryan. Un uomo avanza lungo la banchina saggiando la strada con il suo bastone bianco, come se dovesse localizzare mine antiuomo. Alla fine intercettano un giovane che ha l’aria di


essere uno studente, jeans bucati e capelli acconciati in una cresta vertiginosa. «Non c’è un Victoria Park ad Atene», dice lo studente dopo aver finalmente capito dove vogliono andare. Ahmed era stato così preciso e sicuro. Aryan insiste. «C’è una stazione della metro che si chiama Victoria, non lontano da un grande parco in Alexandras Street», aggiunge lo studente. «Forse è quello che cercate». Aryan esita. Forse ha ragione. Se non c’è nessun Victoria Park, forse Ahmed intendeva il parco vicino alla stazione. «Sì», conclude Aryan. «Penso sia ok». Lo studente li guida su per scale mobili attraverso corridoi di pietra lucida. Kabir osserva stupito le scale in movimento. Esita un istante prima di saltare sul primo gradino, perde l’equilibrio e si afferra al corrimano, che viaggia a una velocità diversa rispetto alla rampa. «Solo due fermate», dice lo studente, alzando due dita per chiarire l’informazione appena raggiungono il binario. «Omonia, Victoria. Là scendete. Il parco è


molto vicino. Se vi perdete, chiedete di una strada che si chiama Alexandras». Si fa ripetere il nome da Aryan. Aryan si tocca il cuore e agita la mano in segno di saluto; Kabir lo imita con aria solenne. Lo studente rimane sorpreso, poi sorride. Nel giro di pochi istanti viene inghiottito dalla folla; è come se non fosse mai esistito, oppure era comparso, effimero come una lucciola, solo per illuminare il loro cammino. S’imbattono quasi subito in un gruppo di afghani seduti sotto gli alberi. Sono Hazara del Sud. Uno di loro guida Aryan e Kabir attraverso il parco e lungo le strade della città fino a un hotel dove le camere costano tre euro e cinquanta a notte. «Vi serve un agente di viaggi?», chiede l’uomo dietro la scrivania. Aryan osserva la cicatrice liscia che si allunga dalla narice destra all’occhio. Non aveva immaginato che sarebbe stato così semplice. Prendono la stanza per una notte. Kabir trascina i piedi su per una rampa infinita di scale, puntellandosi tra le pareti. Il numero sulla chiave li


conduce in una camera poco più larga dei due letti che contiene, satura di un odore stantio di sigaretta. C’è solo una piccola finestra, quasi all’altezza del soffitto. Aryan apre le imposte di legno armeggiando con un cordone sudicio; la luce che trapela all’interno è grigia, riflessa dal muro di fronte. I materassi sono infossati ancora prima che i due fratelli crollino sui copriletto di ciniglia, consumati dagli innumerevoli corpi che hanno ospitato prima di loro. Aryan tira fuori dalla tasca interna i tozzi di pane presi alla fattoria e ne passa uno a Kabir. La crosta è talmente dura da far sanguinare le gengive. Più tardi, Aryan mostra a Kabir come funziona la doccia e aspetta il suo turno in camera, finché il fratello ritorna dal bagno, con la pelle rosea e i capelli gocciolanti. Aryan resta a lungo sotto la doccia. Le mattonelle sono crepate, alcune mancanti, e quando gira il rubinetto dell’acqua calda un tubo arrugginito penzola dalla parete. Il sapone è rinsecchito e segnato da venature nere. Ma l’acqua tiepida lava via la polvere dai capelli, vince la rigidità delle spalle, e


a poco a poco allevia la stanchezza della mente. Immagini balenano all’improvviso e si disfano come diapositive proiettate su una parete che si sgretola – i cuccioli che giocano con le patate in mezzo ai piedi di Kabir; la donna anziana che gli offre da mangiare in silenzio al tavolo della cucina; il viso di Kabir alla luce del cruscotto quando l’autista del camion l’ha riportato alla fattoria. Ricorda l’odore di terra sotto il telone del camion e Kabir immerso in quella luce da acquario, e lo studente con la cresta che li aveva aiutati nei sotterranei della metropolitana. Lascia che i pensieri scorrano insieme all’acqua finché la sente raffreddarsi e li lascia precipitare nello scarico semiotturato. Fiori di ruggine decorano lo specchio appannato. Aryan traccia una linea sul vetro e osserva le gocce colare verso il bordo. Si asciuga con l’asciugamano ruvido, troppo piccolo per avvolgerlo intorno ai fianchi, e si rinfila i vestiti sporchi. Per la prima volta dopo mesi sente il corpo quasi rilassato. Percorre le mattonelle del corridoio con passo leggero e apre la porta della camera. La stanza è vuota.


Aryan afferra la chiave, tira la porta dietro di sé e si precipita giù per le scale scendendo i gradini tre alla volta. Scivola sulla superficie tirata a lucido e riesce ad aggrapparsi alla balaustra appena in tempo. Il cuore batte contro le costole come se gli mancasse l’aria. Ansimando, cerca di calcolare quanti minuti saranno passati, quanto potrebbe essere andato lontano un ragazzino nel frattempo. Nell’atrio non c’è nessuno; persino il portiere con la cicatrice è scomparso. In strada, guarda a destra e a sinistra sbattendo le palpebre nella luce accecante, in cerca di segni rivelatori. Dove, dove può essere andato? La strada è intasata dal traffico; il suo campo visivo viene monopolizzato da una serie di taxi gialli e di furgoni per le consegne. Viene sopraffatto dalla stessa sensazione di nausea provata l’ultima volta che erano stati separati. L’unico posto che gli viene in mente è il parco; in preda al panico, ripercorre i propri passi. E poi lo vede, seduto su una panchina fra gli alberi. Sta guardando un gruppetto di ragazzini che giocano a pallone; un cagnolino bianco e nero abbaia


insidiando i loro talloni. Nella luce calda del sole, Kabir ha un’aria triste. Aryan si ferma a riprendere fiato con le mani poggiate sulle ginocchia. Sente il cuore martellargli nel petto nonostante l’improvvisa ondata di sollievo che lo sommerge. Si lascia cadere sulla panchina accanto al fratello. Non riesce subito a parlare; in bocca ha ancora il retrogusto amaro del panico. «Non farlo più», dice Aryan dopo un po’. «Ho fatto solo una passeggiata». «Pensavo di averti perso ancora una volta». Il primo agente di viaggi che incontrano sembra di poco più grande di Aryan. Ha i capelli impomatati, un tic nervoso e le mani impegnate con i cellulari. Promette che li porterà in Italia per duemila e ottocento euro. Duemila e ottocento euro, ripete mentalmente Aryan. La cifra gli dà le vertigini. Non è questo il prezzo che aveva calcolato in Iran quando aveva discusso la somma per pagare il viaggio, tangenti e provvigioni per gli agenti incluse, con un uomo che suo zio sapeva era arrivato fino in Austria prima di


essere rispedito indietro. «Attento a certi posti in Iran, dove rapiscono gli stranieri», aveva detto l’uomo. «Attento a quelli che ti prendono in ostaggio, ti picchiano e ti imprigionano finché i tuoi parenti non mandano altro denaro. Attento agli intermediari lungo il tragitto, agli eroinomani e ai piccoli profittatori che cercheranno di farti pagare due volte per cose che sono già comprese nel prezzo. E soprattutto stai attento ai trafficanti. La tua vita è nelle loro mani – ricordati di non guardarli mai e poi mai negli occhi». L’addetto alla ricezione organizza un incontro con un altro agente. Aryan rifila un calcio sotto il bancone al fratello: Kabir non riesce a fare a meno di fissare la cicatrice di quell’uomo. Un curdo alto più di un metro e ottanta, l’agente ha più l’aria di un guerriero che di un contrabbandiere. Ad Aryan ricorda i cavalieri curdi con i fucili in pugno che li avevano guidati, a piedi, oltre le montagne e in Turchia, trasportando droga insieme ai barili di petrolio. L’uomo ha un modo viscido di proporsi e Aryan prova una diffidenza istintiva verso l’accordo che gli prospetta: duemila e novecento


euro per garantirgli l’arrivo a Roma. Quando un terzo agente calcola lo stesso prezzo, digitando la cifra sulla sua calcolatrice con la consumata eleganza di un venditore di tappeti, Aryan gli dice che è troppo. Non ha soluzioni alternative, ma troveranno un altro modo per proseguire il viaggio. «Quanto avete?», domanda l’uomo. È un pakistano anzianotto, con l’aria di un venditore porta a porta. Le tasche di raso purpureo della sua valigetta ospitano una torma di cellulari. Aryan ha imparato a non rivelare mai alcuna cifra. «Non quanto lei ci sta chiedendo», risponde. Soffoca l’impulso di battere la mano sulla cintura dove tiene i soldi. Il venditore non batte ciglio. «Vi manderò da un mio collega», dice. «I suoi viaggi sono più a buon mercato». Un giovane pakistano con gli occhi di due colori diversi li riceve in una stazione della metro. Ha una cartina in mano e volge la schiena al muro, pronto a scorgere in tempo un qualsiasi poliziotto di ronda. «Andiamo qui, in questa città, e lì è dove salite sul


camion. Questo camion vi porterà in Italia». «Da Patrasso», dice Aryan. «Non da Patrasso», lo corregge l’uomo. «Passando per l’entroterra. Ci sono meno controlli da quella parte». «Sembra molto lontano, passando via terra», osserva Aryan, guardando la linea rossa dell’autostrada, il verde dell’entroterra, il tratto azzurro della costa. «Per voi è meglio. È più sicuro», dice il giovane. Aryan è infastidito dal modo in cui l’occhio azzurro del pakistano sembri più grande di quello castano. «Senza polizia». Aryan guarda Kabir e tentenna. «Posso fare un prezzo speciale per te, visto che tuo fratello è piccolo. Così portiamo molte famiglie. Ti costa meno perché possiamo caricare più gente a bordo». «Quante persone portate?», chiede Aryan. «Sedici al massimo. Mi sono rimasti due posti, perciò ti faccio una buona offerta, solo mille e duecento euro per tutti e due. Mille e duecento euro è un prezzo davvero buono». Aryan ci pensa su. «Quando dovremmo partire?»


«Quando le famiglie sono pronte partiremo. È questione di un paio di giorni». Aryan gli dice che ci penserà durante la notte. «Non metterci troppo», dice il contrabbandiere. Si presenta come Ardi, ma Aryan sa che è un nome falso. «Non siete i soli a voler partire». «Domani lo dirò al portiere dell’hotel. Lui ti farà avere la mia risposta». Aryan ha ancora mille e quattrocento euro cuciti dentro la cintura. Se usa mille e duecento euro per raggiungere l’Italia, gli resteranno solo trecentoquarantasei euro per arrivare in Inghilterra, contando i soldi guadagnati alla fattoria. Non basteranno. Ma almeno si saranno avvicinati alla meta finale. L’indomani chiede al portiere di riferire ad Ardi che accetta l’offerta. Passa una settimana prima che Ardi venga a cercarli nella loro nuova sistemazione ad Attiki Park insieme a un gruppo di ragazzi afghani. La calura del mattino era già soffocante quando Aryan li aveva incontrati, rovistando tra le magliette in un mercato all’aperto che si allungava sotto una


galleria naturale di alberi. All’ombra verdognola dei rami che si intrecciavano a formare una cattedrale sopra le loro teste, Kabir aveva osservato stupito i lampadari di grappoli d’uva e i volti da gargolla dei pesci con le code arricciate. «Potete restare con noi», aveva detto uno dei ragazzi quando si era reso conto che Aryan e Kabir erano appena arrivati in città. «Potete venire con noi quando andiamo alla chiesa per il cibo». Le angurie erano impilate sul terreno in piramidi precarie. Lo stomaco di Aryan aveva brontolato quando ci erano passati accanto. Per quanto i ragazzi siano gentili, Aryan non vede l’ora di partire. Ha paura della polizia, paura delle storie che gli raccontano, paura di rimanere bloccato ancora una volta, dopo che hanno già perso tanto tempo. «Domani mattina, presto, partiamo», dice Ardi. «Ci vediamo alla stazione della metro alle sei». Sull’autobus, Ardi si siede diverse file dietro di loro senza rivolgergli la parola.


I due fratelli erano rimasti indietro mentre il giovane si metteva in fila allo sportello della stazione degli autobus, con le destinazioni stampate a lettere blu contro il vetro. Sul soffitto basso, due ventilatori non sincronizzati giravano apaticamente nella densa calura. Anziane signore in nero sedevano a tavolini di plastica mentre le donne più giovani, con carrozzine e top aderenti, compravano panini al formaggio e bibite fluorescenti per i loro bambini. Conducenti di autobus e autisti di taxi decoravano la splendida giornata con spirali di fumo di tabacco. Quando Ardi aveva finito allo sportello, lo avevano seguito fuori della stazione. Il giovane gli aveva dato i biglietti con le istruzioni del caso: non dovevano parlare con lui né far capire che si conoscevano quando sarebbero saliti sull’autobus; una volta scesi, dovevano seguirlo a distanza. Aryan gli aveva consegnato un terzo della somma e aveva lasciato il resto dal portiere con la cicatrice sul viso. Arrivati in Italia, avrebbe chiamato l’hotel e detto all’uomo di saldare Ardi. Il sole picchia contro il fianco dell’autobus e le bocche di aerazione in alto non funzionano. Kabir tira la tendina arancione e si appoggia contro il


finestrino, insonnolito dal caldo. Nel parco, tra vespe, zanzare e cicale, avevano dormito male, ma Aryan si costringe a restare sveglio, pronto a seguire Ardi appena scenderà dall’autobus. Le ciglia lunghe di Kabir sembrano piume quando tiene gli occhi chiusi, pensa Aryan; proiettano ombre sulle sue guance dove la luce del sole filtra attraverso la tendina. Un moto di tenerezza gli attanaglia il cuore come una trappola per conigli. Osserva il paesaggio sbiancato dal sole. La strada senza fine gli fa ricordare un altro viaggio, l’ultimo insieme a sua madre, a bordo di un pullman impolverato che li aveva riportati in Afghanistan. All’inizio, Aryan non voleva lasciare l’Afghanistan, ma Baba era preoccupato per via dei comandanti; se fosse rimasto ucciso non avrebbero avuto possibilità di scelta. Poi, dopo quattro anni di scuola in Iran, Aryan non voleva più tornare. Ma le Nazioni Unite avevano detto che era sicuro, e Madar aveva nostalgia della sua famiglia, e loro non potevano continuare a vivere in quel minuscolo appartamento con i loro cugini – anche se Madar lavava panni dalla mattina alla sera e Aryan lavorava tutti i pomeriggi presso il sarto.


Ricorda come era felice Madar al pensiero di tornare a casa. Il suo viso stanco sorrideva per la prima volta dopo mesi, mentre impacchettava le loro cose e accarezzava i capelli di Kabir e indossava quelle che chiamava le sue “scarpe comode”. Aryan non avrebbe potuto immaginare che di lì a un mese sarebbe morta e che lui, nonostante il dolore e la rabbia, avrebbe dovuto vendere tutto, i gioielli d’oro della madre e le sciarpe di seta e la casa, e ripercorrere insieme a Kabir il tragitto rischioso che li avrebbe ricondotti in Iran, e portarlo con sé nel viaggio che avevano da poco intrapreso. Lungo la strada, si fermano a un caffè che vende bustine di pistacchi e dolci confezionati in bella mostra dietro un vetro pieno di ditate. Folgorate da una piccola scarica di corrente, le mosche sfrigolano e precipitano dentro una griglia rossastra. Due uomini con le facce da marinaio giocano a backgammon in un angolo vicino alla finestra, dove risuona il rumore secco delle pedine spostate con movimenti rapidi delle mani. Ardi fuma una sigaretta fuori dal locale senza rivolgere loro nemmeno un’occhiata. Ci vogliono diverse ore per arrivare a destinazione.


Seguono Ardi fino a un camion parcheggiato in una strada tranquilla. Non perdono tempo. Aryan aiuta Kabir a salire a bordo, lancia un’ultima occhiata al cielo del tardo pomeriggio e sguscia all’interno, infilandosi tra i cartoni che nascondono una finta parete. Ardi si appiattisce contro gli scatoloni per lasciarli passare. Parla in fretta: «Non muovetevi, state zitti, aspettate. Non cercate di scendere. Fatelo solo quando lo decide l’autista». Il camion ondeggia leggermente quando Ardi salta giù e chiude con forza gli sportelli. Dentro quel cassone Aryan si sente come un uomo primitivo nella sua caverna. Aspetta che gli occhi si abituino all’oscurità, ma inutilmente. Accende il cellulare; il rettangolo verde del display risplende come la fine di un tunnel. Con un sussulto, si rende conto che lo scompartimento è pieno zeppo di persone. C’è una famiglia dal Bangladesh – un uomo e una donna, due bambini e un neonato – alcuni curdi iraniani e almeno altri sei afghani. Saranno ventiquattro persone in tutto, sistemate una di fronte all’altra,


con le gambe allungate come traversine di un binario. Nello spazio ristretto l’aria è già surriscaldata e acre di sudore. Aryan si lascia prendere dallo scoraggiamento. Non c’è da meravigliarsi che il prezzo fosse così basso: ci sono troppe persone a bordo, e non hanno alcuna garanzia di buon esito. I bambini, il neonato con i suoi pianti, tradiranno di certo la loro presenza. «Si soffoca, qui dentro», dice Kabir. Nel buio, Aryan posa il palmo della mano sulla fronte di Kabir. Non sa dire se il fratello abbia la febbre o se è la sua mano a essere bollente. Aryan ingoia saliva. Sente la claustrofobia aumentare, cerca di allontanare la paura di soffocare che gli sta pizzicando la gola. Si concentra sul tetto del camion, immagina che si sollevi nell’oscurità, mostrando loro un arco di cielo azzurro. Il cellulare turco è diventato scivoloso fra le sue dita. Lo tiene stretto come se fosse una cima di salvataggio, controllando i numeri di emergenza per l’Italia e per la Grecia che ha registrato dopo aver parlato con gli uomini al parco, e dopo che il portiere dell’hotel gli ha venduto una nuova scheda. «Non dimenticarti di spegnere quel coso», gli


sibila una voce. Il rettangolo verde si restringe e scompare. Nell’altra mano Aryan ha la bottiglia d’acqua da un litro che ha comprato quando sono scesi dall’autobus. «Non devi bere», dice qualcuno in inglese, gli occhi evidentemente più abituati dei suoi all’oscurità. «Se pisci sul camion mentre siamo sul traghetto, tradirai la nostra presenza». «Non pensavo che avremmo preso il traghetto», replica Aryan. «E cosa credevi che fosse questo, un aeroplano?» «Ma stiamo andando in Italia?», chiede Aryan, di colpo preoccupato che Ardi li abbia messi sul camion sbagliato. «Certo», dice la voce, aspra e secca. «Almeno questo è il piano». «Ci hanno detto che non saremmo passati da Patrasso», dice Aryan. «E come pensi che saremmo arrivati fin laggiù?», ribatte la voce aspra. D’un tratto Aryan capisce: attraverso il porto, quindi. Si domanda quanto tempo ci vorrà, e dove andranno a finire.


«Non ti preoccupare per la bottiglia d’acqua. Ne abbiamo un’altra vuota». Qualcuno brontola sulla presenza del neonato. «Un solo strillo e siamo spacciati», dice la voce. Forse la madre gli ha dato un sedativo. Il piccolo dorme profondamente, senza fare alcun rumore. Dietro di loro, all’interno del camion, qualcuno sta facendo scivolare altre casse da imballaggio contro la parete dello scompartimento. Uno scricchiolio di ghiaia e il veicolo sale rollando sulla strada. Fa caldo nel camion, e a poco a poco anche il bisbiglio si spegne. Nel vuoto lasciato dal silenzio, Aryan si ritrova a pensare a Bashir. Non sa bene cosa lo abbia fatto pensare al fratello, di cui ricorda la presenza più che il volto. Forse è per via dell’oscurità di quel cassone, del fatto che, per quanto si sforzi, per quanto sgrani gli occhi, non riesce a vedere nemmeno le proprie mani. Ma all’improvviso Bashir si affaccia nella sua mente, il fratello gentile che era bravo a riparare le cose, e la sua immagine l’ultima volta che lo aveva visto, il


suo corpo senza occhi scaricato vicino al cimitero. Per quanto fosse piccolo, Aryan ricorda il giorno in cui erano arrivati i talebani. C’erano insetti crocifissi sui radiatori delle Toyota a trazione integrale che si erano fermate in strada davanti alla casa, e gli intestini di un nastro video calpestati nella polvere accanto alle ruote. Ricorda i turbanti neri degli uomini, le antenne a stilo sulle vetture, e le loro domande su Ali, e poi avevano preso Bashir perché Ali non si trovava da nessuna parte. Ricorda la disperazione di Baba che lo aveva spinto ad andare prima dal mullah, poi alle prigioni a chiedere clemenza, e Madar, andata a implorare pietà insieme alla sorella, e quelli avevano detto a Baba che avrebbero rilasciato Bashir solo quando gli avrebbero consegnato Ali. Niente di quel che aveva detto Baba aveva fatto alcuna differenza: che avevano ripudiato Ali; che Ali era fuggito; che non faceva più parte della famiglia. Avevano trattenuto il fratello, finché un giorno i vicini erano venuti a informarli di aver visto il corpo del quindicenne Bashir abbandonato accanto al cancello del cimitero. Ricorda il giorno in cui lo avevano seppellito, il


pianto di sua madre che gli aveva bucato il cuore, la luce che si era spenta negli occhi di Baba. E ricorda la notte, alcune settimane dopo, in cui Ali era tornato furtivamente a casa per dire loro che stava andando in Pakistan. Aveva un volto cupo e gli occhi infossati, come se avesse dimenticato cosa fosse il sonno. C’era stato un fioco confabulare di voci maschili, gli uomini di casa che si consultavano fra loro. Avevano detto che non contava che i talebani si fossero sbagliati, che Ali non avesse avuto niente a che fare con gli stranieri; se erano convinti del contrario, allora per lui era pericoloso tornare a casa, e pericoloso per chiunque dargli rifugio. Madar non riusciva a smettere di piangere quando aveva visto Ali e l’aveva stretto a sé con tale forza che tutti avevano pensato che si sarebbe sbriciolato fra le sue braccia. Essere incinta di Kabir non l’aveva confortata per la perdita di Bashir, e ora avrebbe perso anche un altro figlio. Ali era partito quella stessa notte, e di lui non avevano saputo più nulla. Aryan non guarda spesso la fotografia. Ma a volte, quando la tira fuori dal portafoglio, si chiede se Ali


sia ancora vivo; se sa che Baba è stato ucciso; se sa che sono andati a vivere in Iran. Si domanda se sa che Madar è morta per l’esplosione di un’auto bomba, un mese dopo il loro ritorno in Afghanistan. Più che altro Aryan pensa che Ali sia morto. Ma a volte gli piace immaginare che sia riuscito ad arrivare in Pakistan, e abiti in un posto sicuro, e che un giorno verrà a sapere di loro e li rintraccerà da qualche parte in Inghilterra. Prima dell’alba, il camion li deposita lungo il bordo di una strada in mezzo al nulla. «FUORIFUORIFUORI!», sbraita l’autista. Spinge il clandestino più vicino con una chiave inglese per rendere meglio l’idea. Schizzando pietrisco sotto i copertoni, il camion si allontana a tutta velocità nella notte che comincia a sbiadire a est. Tentennano per un momento sulla carreggiata, poi si dividono in gruppi e si sparpagliano in tutte le direzioni. Sono tutti tormentati dai crampi della fame, disorientati, infreddoliti. Il neonato, si rende conto Aryan, non si è mai lamentato. Seguendo un pensiero fugace, Aryan si domanda


cosa ne sarà di quella gente, dove andrà ognuno di loro. Lui e Kabir si avviano attraverso un campo, lasciandosi dietro una scia di impronte impresse nella rugiada. C’è un accenno di aurora oltre le montagne; la terra si nasconde dietro un velo di foschia. Avanzano come sonnambuli nella luce lattiginosa, camminando a fianco di un sentiero laterale, deviando per evitare una fattoria. Si mantengono all’interno della recinzione, lontano dalla strada. Al di là di una collina trovano un incrocio. Seguono la direzione dove c’è maggiore traffico: Aryan immagina che li porterà in una città. «Aspetta qui», dice al fratello. Scende lungo il pendio: sul bordo della strada c’è un cartello. Ritorna, sollevando zolle d’erba con le scarpe. Socchiude gli occhi alla luce del sole che si leva oltre le colline e dice alla sagoma sfocata del fratello: «Genova». «Dove si trova?» . Aryan si stringe nelle spalle. Accende il cellulare. Dopo un istante sullo schermo appaiono tre lettere: “TIM ”. Le mostra a Kabir.


«Italia», dice. Quando raggiungono il centro, la città è ormai sveglia. Le strade si fanno sempre più strette finché nessuna macchina, né un raggio di sole, riescono a entrarvi; persino la pioggia avrebbe qualche difficoltà, pensa Aryan. C’è tanta di quella pietra a rivestire la terra che non c’è nemmeno una crepa per far spuntare un sottile filo d’erba. Vagano senza meta, intimoriti dagli edifici imponenti che quasi si toccano sopra le loro teste, come se volessero tagliare fuori il cielo. Alcuni sono collegati da ponti vertiginosi che fanno pensare ai funamboli; Aryan sente le ginocchia molli al pensiero di doverli attraversare. Ci sono negozi d’antiquariato che espongono in vetrina mobili con rifiniture in oro e lampadari di cristallo appannati, laboratori dove sostituiscono l’imbottitura delle poltrone, e negozi di dolciumi che vendono sassolini bianchi della forma di uova schiacciate. Altri edifici, sbozzati da blocchi di pietra, si profilano minacciosi, impenetrabili come una prigione. Hanno anelli di ottone, come se qualcuno dovesse rimorchiarli altrove, o ormeggiarli da


qualche parte in caso di inondazioni. Stipati lungo la strada, bar talmente angusti da non avere spazio per ospitare delle sedie; l’aroma del caffè li investe mentre passano davanti alle porte aperte. Arrivano davanti a una chiesa a strisce: le fasce di pietra bianche e nere proseguono sugli edifici circostanti, e così l’intera piazza sembra decorata da un pittore che non ha saputo fermarsi al momento opportuno. Quasi piegato in due, un vecchio sta riempiendo una bottiglia di plastica a una fontana di pietra. Quando l’acqua trabocca dal collo, tira fuori un tappo dalla tasca e lo avvita con mani tremanti. Allunga lentamente una mano per raccogliere una seconda bottiglia ai suoi piedi e la riempie, ma quando armeggia per chiuderla il tappo gli sguscia tra le dita e rotola via, ballonzolando sui ciottoli. Aryan si lancia all’inseguimento e lo restituisce al vecchio, che accenna un goffo “grazie”. Dopo aver finalmente avvitato il tappo, l’uomo si allontana senza raddrizzare la schiena, strascicando i piedi, le sopracciglia inarcate sugli occhi umidi e arrossati che scrutano nella luce del giorno.


Sparito il vecchio, i fratelli accostano la bocca al cannello annerito della fontana, rabbrividendo quando l’acqua fredda percorre le loro viscere. All’improvviso irrompono nella luce del sole. Dove la città vecchia si riversa sul mare, si ritrovano sul ciglio di una strada a scorrimento veloce; sentono il traffico sfrecciare sulla rampa che corre sopra le loro teste. C’è un parcheggio, un lungomare pavimentato e la prora scolpita di un antico veliero che sembra appena uscito da una leggenda. Su due lunghe file di lenzuoli, uomini africani stanno disponendo borsette e statuine in legno, proprio come fanno le donne afghane con i pomodori messi a essiccare al sole. Aryan non ha mai visto volti così scuri; Kabir resta indietro, affascinato e intimidito allo stesso tempo. Aryan si avvicina a uno degli uomini. Sta riempiendo le borse con plastica da imballaggio, allineandole accanto a un serraglio di rane di legno; fili di perline pendono come grosse liane dai suoi avambracci. «Mi sai dire come arrivare a Roma?», chiede Aryan. L’uomo abbassa lo sguardo sui fratelli. Ha i denti


più bianchi che Aryan abbia mai visto, e occhi iniettati di sangue, e un laccio di cuoio con perline gialle, rosse e verdi intorno al collo. L’uomo si rivolge a un altro con un berretto rosso da baseball. «Suleymane! Vieni qui e spiegami cosa stanno dicendo questi ragazzi». Aryan si sente improvvisamente a disagio. Gli uomini sono magri e asciutti e torreggiano su di loro. Altri abbandonano la loro merce per sentire cosa succede. «Roma, ci sai dire come arrivare a Roma?», ripete Aryan. Spera che nessuno noti l’incrinatura nella sua voce. «Roma è molto lontana, specialmente se vuoi andarci a piedi», dice ridendo l’uomo con il berretto da baseball. «Di dove siete?» «Afghanistan», risponde Aryan. L’uomo si lascia sfuggire un fischio, e Aryan sente la parola “Afghanistan” passare di bocca in bocca fra gli africani, le quattro sillabe rotolare sulle loro lingue rosa. «E dove siete diretti?» «Inghilterra». «Allora Roma è nella direzione sbagliata», dice


l’uomo. «L’avete già superata». «Devo vedere un mio amico, un afghano, che vive là», spiega Aryan. Tiene stretto l’indirizzo che Ahmed ha dato loro. Fa assegnamento solo sulle capitali, sulla filastrocca di nomi che ha costretto Kabir a imparare a memoria, pietre di un guado che impediranno loro di smarrirsi. «Allora dovrete prendere il treno. Ma state attenti, c’è parecchia polizia in giro. Se volete, posso portarvi alla stazione», si offre l’uomo. Aryan non sa se può fidarsi di lui. Ma in questa città non hanno un posto dove andare e nessun altro a cui rivolgersi. «Ok». «Avete i soldi per il biglietto?», chiede l’africano. «Sì». Aryan palpa la tasca con dentro i due biglietti da venti euro. «Quanto avete?». Aryan tira fuori le banconote che ha piegato in due quadrati origami blu; li distende sul palmo, come due farfalle che aprono le ali. L’uomo le prende dalla mano di Aryan, liscia le pieghe con le dita, e le infila in un portafoglio di plastica.


«Tranquillo, amico, con me il tuo denaro è al sicuro», dice. Aryan sente la bocca asciutta; ha già dimenticato l’acqua bevuta alla fontana. L’uomo dice che acquisterà i biglietti per loro. «Il treno notturno è quello che costa meno». Aryan rivuole indietro i suoi soldi. Ma sente che non può chiederli adesso. «Mi chiamo Salomone, come il re», dice l’uomo tendendogli la mano vuota. Vista da fuori, la stazione è una torta rosa coperta di glassa, in equilibrio su un miscuglio di colonne e arcate. Aryan e Kabir seguono Salomone all’interno. I gradini ripidi e le balaustre di ottone hanno un aspetto sinistro nella luce artificiale. «Aspettate qui», dice Salomone. Li lascia davanti a un chiosco chiuso di giornali e scompare. Dopo cinque minuti è di ritorno. «Tutto a posto», dice. «Il treno parte poco prima di mezzanotte». Kabir si regge a stento in piedi per la stanchezza. Aryan si sente sollevato al pensiero che presto proseguiranno nel loro viaggio.


Salomone resta con loro sulla banchina mentre il treno entra lentamente in stazione. I finestrini sono opachi di polvere delle città europee; graffiti che Aryan non sa interpretare sono stati tracciati sui fianchi impolverati. Alcuni vagoni sono immersi nel buio. Percorrono in fretta il marciapiede finché trovano una carrozza illuminata piena di scompartimenti che sembrano stanze private, con persone sedute ordinatamente sotto le reti porta bagagli. Quasi tutti hanno le tendine tirate, ma Salomone ne sceglie comunque uno e apre la porta. Sono accolti dal cipiglio di un’anziana signora in nero e dal russare di un uomo con la guancia spruzzata di barba grigia schiacciata contro il finestrino. L’alone del suo respiro avanza e si ritira sulla superficie di vetro come un flusso di marea. Nell’aria carica di odore di salumi risuona un bisbiglio di note. La musica proviene da un set di cuffie condiviso da un paio di adolescenti, le teste poggiate l’una contro l’altra in un nido di capelli. Aryan e Kabir occupano i due posti vuoti nel senso contrario a quello di marcia. «Buon viaggio», dice Salomone stringendogli la mano.


È andato via prima che Aryan si rendesse conto che si è dimenticato di consegnargli i biglietti. Aryan si precipita al finestrino nel corridoio, ma è cementato da una patina di sporco. Preme il viso contro il vetro mentre il treno comincia a muoversi, ma il berretto rosso da baseball non si vede da nessuna parte. È solo più tardi, quando Kabir è sprofondato nel sonno e il treno ondeggia e sferraglia nell’oscurità, attraversando gallerie, costeggiando autostrade e periferie di città semibuie, che nella mente di Aryan, combattuta fra i crampi della fame e lo sfinimento, si fa strada un’ovvia verità: Salomone non ha mai comprato i loro biglietti. Tutti i passeggeri nella carrozza stanno sonnecchiando o dormendo; Aryan pensa che le uniche persone sveglie nell’intero convoglio siano lui e il macchinista. Kabir ha trovato un soldatino di plastica blu infilato tra due sedili e lo tiene stretto nella mano sudata. Si è raggomitolato sul vinile verde del sedile e ha poggiato la testa sulle gambe del fratello. Anche Aryan è stanco, ma il sonno non si decide a venire; è arrabbiato per via di Salomone e


dei soldi, e preoccupato per quello che riserverà loro il futuro e su come faranno a trovare le persone all’indirizzo di Roma. Ma c’è qualcosa nell’inevitabilità del treno, nel suo lento dondolio che lo culla verso il futuro, a infondergli una sensazione di calma. Poggia la testa contro il vetro dello scompartimento e osserva il riflesso. Mentre esplora quel mondo speculare si rende improvvisamente conto che un paio di occhi lo stanno fissando: è la ragazza con le cuffie e la testa posata sulla spalla del ragazzo. Aryan si sente avvampare e distoglie lo sguardo, domandandosi da quanto tempo lo stia guardando. Ma poi lascia che il proprio sguardo si sposti lentamente su-su-su verso la rete portabagagli e giù-giù-giù verso il posto dov’è seduta la ragazza. Ma lei ha chiuso gli occhi, respira dolcemente; è scivolata di nuovo nel sonno. Aryan non può fare a meno di guardarla, il profilo modellato dei seni, la pelle color miele che scompare dentro la curva della maglietta. I jeans a vita bassa mostrano un piccolo zaffiro incastonato nell’ombelico. Aryan è affascinato. Gli ricorda le


immagini di danzatrici del ventre affisse fuori ai ristoranti lungo le vie di Istanbul, che suscitavano le loro risatine imbarazzate; non riusciva a trovare attraenti le loro forme corpulente. Ma questa ragazza non è affatto così. Le ragazze afghane sarebbero rimaste scioccate notando l’abbigliamento delle donne europee per le strade, ma Aryan trova quello zaffiro particolarmente intrigante. Immagina la morbidezza della pelle che lo circonda, le pieghe della carne a contatto con la pietra fredda e dura. Il suo sguardo sale al viso. Le palpebre sono iridescenti di ombretto, sfumato sugli angoli degli occhi a mandorla, il colore delle labbra gli ricorda i campi di papaveri vicino casa. È incantato. La fissa e distoglie lo sguardo e la fissa ancora, temendo che l’intensità dei suoi occhi la possa svegliare. A malincuore, si concentra di nuovo sul vetro dello scompartimento, dove può rimirare il suo riflesso. D’un tratto, sullo sfondo nero dei tunnel e della notte, vede che la ragazza ha aperto gli occhi e lo sta osservando. Qualcosa gli si agita nello stomaco e distoglie gli occhi dal vetro, sperando che non si sia accorta di niente. Ma a poco a poco il suo sguardo


ritorna sul pannello: con delusione mista a sollievo vede che l’immagine riflessa sta guardando fuori dal finestrino, e poi richiude le palpebre iridescenti con aria insonnolita. Questa volta, Aryan si sofferma su ogni minimo dettaglio. Gli occhi indugiano sulla nuca, seguono il contorno della guancia e i capelli castani che ricadono sulla spalla del ragazzo. Percorrono l’incavo del fianco e la lieve rotondità del ventre e il profilo del polpaccio poggiato contro la gamba del ragazzo. Il ritmo smorzato delle percussioni è cessato, sebbene gli auricolari siano ancora al loro posto; forse sono rimasti a corto di canzoni. Si chiede come si siano conosciuti, cosa lo abbia affascinato di lei, quali parole abbia usato per indurla a stare con lui. In Afghanistan, Aryan avrebbe saputo cosa dire, ma qui? Vede il petto della ragazza sollevarsi lievemente a ogni respiro, la curva del seno morbida come il nido imbottito di un uccello, e prova una fitta di gelosia, vorrebbe che il ragazzo fosse ovunque ma non lì. Pensa a sua cugina Zohra, alle ragazze afghane che ha conosciuto in patria e in Iran – ardenti, ma tenute a freno dal timore delle conseguenze di far


avvicinare troppo un ragazzo. Lascia divagare la mente, cullato dal treno e ammaliato dalle forme della ragazza sotto gli indumenti aderenti, dallo zaffiro e dalla simmetria del suo riflesso nel vetro, finché all’improvviso lei apre gli occhi. Si accorge che Aryan sta osservando la sua immagine riflessa e, allacciando il suo sguardo sul vetro, non batte ciglio, né gira altrove la testa. Aryan deglutisce a fatica e si sente venir meno, ma sostiene il suo sguardo, mortificato per l’agitazione che tenta di nascondere, cercando di trovare il coraggio di voltarsi e guardarla di persona. Finalmente ci riesce. E nello stesso istante la ragazza chiude di nuovo gli occhi, così tutto quel che Aryan riesce a vedere è il movimento dei globi oculari, biglie di marmo sotto palpebre iridescenti come piume di pavone. Impiegano un po’ di tempo per trovare il posto. Il treno arriva a Roma all’alba e nessuno li ferma per chiedere loro i biglietti mentre escono dalla stazione. Si destreggiano in mezzo alla folla dell’ora di punta, intossicati dall’odore di smog e dopobarba. Osservano i tram eseguire curve perfette sull’acciottolato, sprizzando scintille. Fissano


increduli donne in minigonna a cavallo di motorini fermarsi ai semafori rossi, con il casco in testa e i tacchi a spillo ai piedi. Nelle strade strette dietro la stazione, arrivano davanti a una vetrata dove, con gesti esperti, un uomo sta rifilando un cono rovesciato di kebab, rivelando la carne rosea al di sotto. Aryan gli passa il pezzo di carta con l’indirizzo datogli da Ahmed. Un berretto di garza è appollaiato sulla fronte mogano dell’uomo, come la prua di una nave a Genova. Sbircia il foglietto, i punti e i graffi della scrittura, l’immagine di una ferrovia, un semaforo e un ponte; le sue dita lasciano una filigrana di unto sulla carta. Oltre il vetro, Aryan vede una saletta con quattro tavoli di plastica sormontati da un cubo metallico pieno di salviette. L’uomo gli fa cenno di entrare. «Siediti, aspetta un momento qui», dice, ed esce dalla porta con il foglietto in mano. Il profumo di carne arrostita è irresistibile; Kabir si avvicina al bancone e fissa i falafel con occhi vogliosi. Dopo alcuni istanti l’uomo è di ritorno, accompagnato da un vecchio curvo con gli occhiali


e un copricapo bianco lavorato all’uncinetto. «Io sono pakistano, ma quest’uomo parla il farsi», spiega il giovane. «Siete iraniani?», chiede l’uomo anziano. «Afghanistan», risponde Aryan. «Ma abbiamo vissuto in Iran per un po’». Il giovane si rivolge a Kabir. «Vuoi mangiare?». Senza parole per la fame, Kabir fa cenno di sì. «Abbiamo poco denaro», dice subito Aryan. «Non ti preoccupare. Mi pagherai un altro giorno, quando tornerai». Stacca strisce sottili di carne dallo spiedo e le riscalda sulla griglia, premendole e rigirandole con una spatola da cucina prima di infilarle dentro una tasca di pane caldo. Lo farcisce con cipolla, pomodoro e una manciata di lattuga tagliuzzata, inzuppa il tutto nello yogurt, e consegna un involto a ciascuno dei ragazzi. I due fratelli li divorano con una velocità tale che l’uomo li guarda sconcertato e gliene prepara altri due. Kabir ha le mani e le guance lucide d’olio e non può fare a meno di sorridere; Aryan non ricorda di aver gustato cibo migliore in tutta la vita.


Il vecchio esamina il pezzo di carta di Aryan. «I vostri amici non abitano lontano da qui. Vi mostrerò la strada». Giunti a un semaforo, il vecchio indica loro una viuzza. Una carreggiata passa sopra le loro teste. «Attraversate qui e girate a sinistra al tabacchi[2] sull’angolo», dice. «La strada che cercate è la seconda sulla destra». Stringono la mano all’uomo e aspettano che il semaforo diventi verde. Dall’altra parte della strada l’acqua esce a fiotti da una grondaia: la superano con un balzo, come fosse un torrente di montagna. Aryan si volta per un ultimo saluto, ma il berretto bianco illuminato dal sole sta già scomparendo in mezzo al caos del traffico. Quando si gira, Kabir è sparito. Aryan si guarda tutto intorno. Il semaforo sta per scattare, ma le macchine stanno già scalpitando. I pedoni si sono ammassati sull’angolo del marciapiede, concentrati sui loro cellulari. Un autobus si stacca dalla banchina, sollevando una sgasata di fumo nero e un’irritabile cacofonia di clacson.


Un movimento cattura lo sguardo di Aryan. È talmente rapido che non riesce a identificarlo. Si fa largo tra i pedoni, supera in fretta venditori di giornali, banchi di frutta e finestre chiuse con assi di legno, finché raggiunge un vicolo fiancheggiato da bidoni e cassoni della spazzatura. Kabir è accovacciato tra due di essi, quasi invisibile, e sta frugando dentro una borsetta. «Cosa stai facendo, Kabir?», lo apostrofa Aryan. Il fratello alza lo sguardo, imbarazzato ma sulla difensiva. «Era posata sopra la sua carrozzina. Non se n’è nemmeno accorta», si giustifica Kabir. «Noi non rubiamo, Kabir! Non lo facciamo! Vuoi che finiamo tutti e due in prigione?» «Allora come pensi di arrivare in Inghilterra? Come pensi di pagare da mangiare? Non ho intenzione di lavorare in un’altra fattoria». «Abbiamo ancora un po’ di denaro», replica Aryan. Non ha detto a Kabir delle ultime banconote nascoste dentro la cintura. «Non siamo mendicanti, e non siamo ladri». Kabir trova quel che stava cercando in mezzo a cosmetici, matite colorate e scontrini. Un


portafoglio di pelle blu si apre nella sua mano. Su un lato c’è la fotografia di un bambino, nelle tasche euro in banconote e monete lucide con il bordo dorato e l’interno di metallo bianco. Aryan guarda il denaro: duecentoventicinque euro. Si sente male. Baba sarebbe furioso e si vergognerebbe di loro. Ma un’altra parte di sé capisce quanto potrebbe tornargli utile. «Andiamo», dice a Kabir. «Buttala, e allontaniamoci di qui». Kabir si ficca il denaro nelle tasche e, con un calcio, spedisce la borsetta sotto un cassonetto. Escono dal vicolo e imboccano la strada principale nella direzione indicata dal vecchio. Aryan soffoca l’impulso di mettersi a correre. Il fabbricato è fatiscente. Le vetrate sulla strada sono rotte e sbarrate da tavole di compensato. Deve essere disabitato da tempo. Aryan controlla il numero che Ahmed ha scritto; il portone dell’edificio adiacente in rovina ha il numero 46, quindi questo deve essere il civico giusto. Nella stradina c’è un cassone straripante di


immondizia e, alle sue spalle, una buca dove un tempo doveva sorgere un intero edificio. Sembra il risultato di un’esplosione. Solo la presenza di enormi puntoni di legno fissati a triangolo impedisce ai palazzi d’intorno di sprofondare nel vuoto. Aryan si siede sui gradini a pensare. Un motorino passa a tutta velocità e troppo vicino, schizzandoli di acqua sudicia. «Andiamo via», dice Kabir. «Non è questo il posto». Mentre si alzano, si apre la porta dell’edificio accanto. Esce fuori un uomo con il volto più scarno che Aryan abbia mai visto. Sussulta vedendo i due fratelli e comincia ad agitare le braccia apostrofandoli in italiano. Aryan spiega ancora una volta il foglietto dove Ahmed ha scarabocchiato l’indirizzo e glielo porge. L’uomo sbircia le parole sotto le impronte unte, le linee blu sulla carta e le indicazioni disegnate da Ahmed. «Chi siete?», domanda ora in farsi. Aryan ingoia saliva. «Ci manda Ahmed, da Istanbul. Siamo afghani. Ci ha detto di chiedere di Rahim».


L’uomo socchiude gli occhi. «Cosa volete da Rahim?» «Ahmed ha detto che poteva aiutarci», risponde Aryan. «Vogliamo andare in Inghilterra. Sa dove possiamo trovarlo?». L’uomo esita per un istante, valutandoli con un’occhiata. «Venite dentro». Quando l’uomo richiude il portone, la scala è talmente buia che Aryan deve avanzare a tentoni. Si afferrano alla ringhiera, un crinale di pietra scolpito nel muro e levigato come la parete di una cascata dal tocco di migliaia di mani. Ogni gradino è consumato al centro da piogge di passi avvicendatesi nel corso dei secoli; il pallido chiarore di un lucernario sulla sommità del tetto si esaurisce prima di raggiungere i piani più bassi. Aryan sta contando i gradini. Dopo averne saliti cinquantasei, l’uomo apre una porta. All’interno, una donna sta stirando delle lenzuola; la stanza odora di detersivo in polvere e vapore. Un bambino piagnucola tra i cuscini sul letto. La donna posa il ferro e si copre la testa, guardando i due ragazzi con gli occhi sgranati.


L’uomo si chiude la porta alle spalle. «Sono io Rahim», dice. Chiede i loro nomi e come hanno conosciuto Ahmed. «E come pensate che io possa aiutarvi?», chiede. «Non potete stare qui e non abbiamo soldi da darvi». Aryan sente il coraggio abbandonarlo. È stato un errore venire in questo posto. «Ahmed ha detto che poteva dirci come arrivare in Francia», risponde in tono niente affatto convincente. La moglie guarda Kabir, e Aryan si rende conto all’improvviso dei loro indumenti laceri e sporchi, del loro aspetto da vagabondi. Portano gli stessi jeans e le stesse felpe che avevano alla loro partenza dall’Iran; tutto quel che possiedono ce l’hanno indosso, pieno di polvere. La donna dice qualcosa al marito in una lingua che Aryan non comprende. Gli occhi dell’uomo hanno un guizzo rabbioso; la donna tiene i suoi abbassati. Le parole dell’uomo calano come pugni; la voce della donna è sommessa, ma insistente. «Una notte, allora», dice alla fine l’uomo. «Potete


restare una notte. Ma solo perché mia moglie dice che sembrate così giovani. Dopo andrete via. Domani, alla stazione, prenderete il treno per la Francia. Vi dirò io cosa è meglio fare». «Grazie», dice Aryan. «Non ringraziare me», ribatte Rahim. «Noi abbiamo già grossi problemi. E diventeranno ancor più grossi se il padrone di casa vi trova qui. Partirete il prima possibile». L’appartamento è un monolocale. C’è un letto, un divano, una finestra che affaccia su un muro. La famiglia mangia, dorme, cucina e si lava in quell’unica stanza. Sopra un lavandino crepato e ingiallito c’è un rubinetto dell’acqua calda; la donna la usa per riempire una vasca di plastica, così possono fare il bagno dietro una tenda, in un angolo della stanza. Dà a ognuno di loro un asciugamano e una maglietta di suo marito, e quando hanno finito lava i loro indumenti. L’acqua trasparente si fa torbida a mano a mano che il terriccio greco intessuto nei loro jeans galleggia via in nuvole come d’inchiostro; la donna deve riempire più volte il secchio e vuotarlo nel gabinetto in fondo al


corridoio, prima che l’acqua del risciacquo torni a essere limpida. Entrambi i fratelli indossano due serie di indumenti – un suggerimento avuto da Ahmed – in modo da poterli indossare al rovescio dopo la traversata polverosa sul camion, nel caso debbano mostrare un aspetto pulito. Kabir prende una gamba di ogni paio di pantaloni e aiuta la donna a strizzarli; ora pendono tutte e quattro, gocciolando su un foglio di giornale, da una corda che attraversa diagonalmente la stanza. «Conoscete qualcuno in Inghilterra?», chiede Rahim. «Andremo dal nipote di un sarto presso cui ho lavorato in Iran e che è originario del villaggio di mio padre. Ha venti anni e vive a Londra. Lavora in un ristorante con dei pakistani». «E cosa ci andate a fare?» «Io voglio andare a scuola. E anche mio fratello». «E cosa pensate di studiare?». Aryan esita. Si sente imbarazzato da tutte quelle domande. C’è un qualcosa di invadente e importuno nel suo modo di chiedere che lo fa sentire come lo facevano sempre sentire i fratelli di suo padre: incapace, inquisito, inadeguato. Ma questa famiglia


si è dimostrata gentile, e lui e Kabir hanno bisogno del loro aiuto. «Computer», dice piano. L’uomo sghignazza. «E cosa sapete di computer?». Aryan è confuso, mortificato più dal tono che dalle parole. «Ne avevamo uno a scuola, in Iran. A Istanbul ho esaminato l’area del confine su Internet», dice. Sente che sta arrossendo. Come può spiegare che la sua vera passione è la matematica? Ama i numeri freddi e distaccati che risolvono le cose senza il fervore delle emozioni. Ama il modo in cui un’intera equazione si possa ridurre a un singolo numero, come se fosse sempre stato nascosto al suo interno fin dall’inizio. Ama il modo in cui le formule possono trasformarsi in diagrammi e geometria. Ma più di tutto ama le sue certezze, le risposte da trovarsi in un modo tranquillo, refrattario alla rabbia o alla lotta, al dolore o alla vendetta, o alla perdita. «Be’, perché no, dopo tutto i computer sono il futuro, non è così?», conclude l’uomo. Aryan non sa dire se le sue parole siano sarcastiche o sincere. «Persino l’Afghanistan un giorno avrà bisogno dei


computer. E lui?», domanda accennando a Kabir. «Io diventerò un musicista», risponde Kabir gonfiando il torace. «Suonerò canzoni per gli inglesi ai loro matrimoni». L’uomo ride, il volto spigoloso si distende per la prima volta. «Spero che in Inghilterra apprezzino le canzoni afghane». La donna indica Kabir e si rivolge al marito. «Dice che taglierà i capelli a tutti e due», traduce per loro Rahim. «Ha ragione. Non vi faranno mai entrare in una scuola inglese se avete l’aria di due capre appena scese dalle montagne». Più tardi, Rahim dice loro dei treni, che forse dovranno scendere a Nizza, o a Cannes, e prendere un altro treno per Parigi. Se la polizia li rimanda in Italia, possono aspettare e tentare di nuovo, oppure passare il confine a Ventimiglia, una città italiana lungo la strada che passa vicino al mare. Poi, sul taccuino di Aryan, disegna una mappa di Parigi con tratti larghi di inchiostro verde che si raggruma e sbaffa sotto il suo pugno. Inserisce una stazione, un fiume e un canale. Aggiunge frecce che indicano dove dovranno camminare per un paio di


chilometri fino a un parco, vicino al quale disegna un’altra stazione. «Questo parco», dice Rahim, battendo la punta della penna sulla pagina dove ha appena tracciato un boschetto di alberi scheletrici, «è dove si incontrano tutti gli afghani». Preme con tale forza sul foglio che il giorno dopo Aryan trova i contorni della mappa incisi nelle due pagine successive.


Il suono ovattato delle lame delle forbici è vicino al suo orecchio; Aryan cerca di restare immobile. Nere mezzelune di capelli si posano come apostrofi sulle sue ginocchia. Il prurito che gli tormenta le narici non accenna a placarsi, per quanto continui ad arricciare il naso; alla fine lo costringe a intervenire con la mano, e le forbici esitano per un istante prima di riprendere il loro viaggio. Dita delicate gli sfiorano il collo, tirano i capelli dietro le orecchie, controllano che la lunghezza sia uguale su entrambi i lati; Aryan viene tradito da un improvviso rossore d’imbarazzo. È la prima volta che qualcuno lo tocca con tanta delicatezza da chissà quanto tempo; la sensazione si mescola con l’immagine della ragazza sul treno, ancora impressa sulla sua retina; vuole che duri e si conservi, e poi si vergogna di provare un simile desiderio. Prega che la donna non abbia visto le sue guance in fiamme. Fortunatamente, a differenza del negozio di barbiere dove andava sempre con suo padre, qui non ci sono specchi. Kabir ha ricevuto il servizio prima di lui. Quando Aryan si passa la mano sui capelli cortissimi, ha la sensazione di accarezzare uno dei cuccioli alla fattoria. La risatina soffocata di Kabir risuona


contagiosa nella stanza. La tensione si scioglie e i muscoli si rilassano nel sicuro tepore del loro inaspettato rifugio. Devono aspettare due giorni perché i loro vestiti siano asciutti. Poi Rahim indica loro la strada per la stazione. Sul treno diretto in Francia, Aryan scruta il proprio riflesso nella luce artificiale; i suoi lineamenti appaiono e scompaiono sullo sfondo nero della notte. Sono ancora i suoi occhi a restituirgli lo sguardo, sebbene le ombre che li circondano siano più marcate. Forse il nuovo taglio di capelli fa apparire diverso il suo viso. Sa che sta cambiando, ma non riesce a stabilire con certezza in quale modo. Non è solo la peluria sopra il labbro superiore. Non capisce se è una questione di luce o se le sue guance siano più incavate, gli occhi più grandi, la mascella più scarna. Si passa la mano sulla nuca, ricordando il pericoloso fruscio delle forbici, la mano della donna che gli sfiorava la guancia. Ripensa alla ragazza sul treno notturno per Roma. Le loro immagini si


sovrappongono fino a confondersi, e il loro pensiero lo fa sentire felice e desolato allo stesso tempo. Si svegliano quando manca più di un’ora alla stazione di Nizza. Il loro convoglio ondeggia lungo gallerie e attraversa furtivamente stazioni addormentate. Striscia dietro condomini dove donne in vestaglia frugano nelle credenze di cucina, e ombre si muovono dietro finestre appannate. Ci sono serre piene di zucche e pomodori, tappeti di cactacee e piantagioni di ombrelloni da spiaggia dove la ferrovia costeggia la riva. Ampie tende che si allungano accanto a roulotte, ville abbarbicate su promontori, tra pini che crescono ad angolazioni inverosimili sulle scogliere. «Perché hanno le piscine se vivono così vicini al mare?», domanda Kabir. I rettangoli azzurri sfrecciano accanto al treno come francobolli di cielo. Aryan ha infilato i loro biglietti nella sacca a rete sopra il tavolo ripiegato e non risponde. Sta pensando alla fontana in disuso dove sguazzavano dopo che aveva piovuto, per poi asciugarsi distesi


sul tetto di un vecchio carro armato russo scaldato dal sole. Era andato a giocare con gli amici anche il giorno in cui Baba era stato ucciso. Hanno seguito il consiglio di Rahim e scelto una famiglia in viaggio sul treno. Appena scesi a terra, si accoderanno a loro, nel caso ci sia la polizia nei paraggi. Ma quando il treno entra in stazione a Nizza, Kabir rimane bloccato nel corridoio in mezzo al pigia pigia dei passeggeri, e la famiglia scompare giù per i gradini. La folla li sta trascinando verso l’uscita quando Aryan sente un nodo d’ansia serrargli la gola. Berretti con visiera e uniformi blu stanno avanzando nella loro direzione; un terrore improvviso si impadronisce di lui. «Documenti», dice uno dei poliziotti. I due fratelli sono circondati da un mare blu militare. Aryan gli fa vedere i biglietti del treno. L’agente li prende, li esamina, sollevandoli in piena luce. Poi li strappa a metà. «Dov’è il tuo passaporto?» «No passaporto», risponde Aryan. Ha la bocca secca e inciampa sulle parole inglesi.


«Da dove vieni?» «Afghanistan». «Quanti anni hai?». Aryan cerca di ignorare lo sfollagente e la pistola infilati nella cintura, e gli scarponi uguali a quelli che portano i soldati. Invece, si rivolge a una donna agente. È munita delle stesse armi dei colleghi maschi, e i capelli sono talmente tirati indietro da togliere ogni espressione al suo viso. «Quattordici», dice, con il cuore che gli batte forte. L’uomo abbaia qualcosa dentro una ricetrasmittente. La risposta arriva in un crepitio di interferenze. «Sai che per venire in Francia c’è bisogno di un passaporto e di un visto», gli spiega il poliziotto. «Devi tornare a casa, nel tuo Paese, a prenderli». Aryan lo fissa incredulo. Nella sua mente il viaggio si sbobina come il nastro di una musicassetta rotta. Pensa a tutto il tragitto che hanno coperto: i mesi di lavoro non retribuito in Grecia, le lunghe ore nel laboratorio in Turchia, l’attraversamento del lago di Van su una barca che faceva acqua. Pensa alla faticosa arrampicata notturna sulle montagne, ai contadini curdi che erano con loro, e ai trafficanti


che abbandonavano lungo il bordo della pista chiunque non riuscisse a tenere il passo. Ricorda la scarpinata attraverso il deserto in Iran, le palpitazioni quando avevano valicato il confine di notte per evitare le pattuglie di frontiera, e il loro ultimo viaggio fuori dall’Afghanistan. Pensa alle cose che ha venduto, al denaro speso, e alle cose che non potranno più tornare come prima. «Non vogliamo fermarci in Francia», azzarda Aryan. Ma l’agente sta già tirando fuori le manette dalla tasca. Aryan sente lo stomaco contrarsi. Si guarda disperatamente intorno, ma i poliziotti li hanno accerchiati. Kabir sta tremando al suo fianco. I polsi di Aryan sono talmente sottili che le manette devono essere strette al massimo; la donna poliziotto riserva lo stesso trattamento a Kabir. Sbiancati dalla paura, osservano un altro poliziotto infilare le mani dentro un paio di guanti da chirurgo e poi perquisirli in cerca di armi. Kabir è pallido come un lenzuolo. Si ritrae al tocco dell’agente. Aryan non l’ha mai visto così spaventato. Li fanno salire sul retro di un furgone della polizia


con i sedili rivestiti di plastica e li riaccompagnano oltre il confine, in Italia. «Altri due per voi», dice l’agente francese quando entrano in una stazione di polizia italiana. Sullo schermo acceso di un computer Aryan scorge carte da gioco rosse e nere allineate in colonne. «Allora, dove pensate di andare?», chiede l’agente italiano appena il furgone francese si è allontanato. I bottoni della giacca faticano a contenere lo stomaco pronunciato. Dietro di lui, un giovane tenente li scruta con occhi da furetto. «Inghilterra», dice Aryan. «Lui quanti anni ha?», domanda accennando a Kabir. «Otto», risponde Aryan. L’uomo impreca. «Sono sempre più giovani», si lamenta con il collega. «Non mi va di mettere sottochiave dei ragazzini». Si rivolge ad Aryan. «Sparite», dice ai fratelli. «E non fatevi più vedere da queste parti». Aryan pensa che siano finiti in una delle cittadine italiane di confine che avevano visto dal finestrino


del treno. Forse è Ventimiglia, la località che ha menzionato Rahim. Sa che Kabir si sentirà meglio se troveranno qualcosa da mangiare. In una viuzza si imbattono in un negozio che vende pizza al taglio e patatine fritte. Dopo aver contato le monete, Aryan aggiunge una lattina di Coca-Cola presa dal frigorifero. Si siedono con i piedi a penzoloni su un basso muretto all’esterno e ignorano i gabbiani che reclamano parte del loro bottino. Kabir lecca il sale rimasto sulle dita e si pulisce le mani unte sui calzoni. «Dovremo camminare un po’», dice Aryan, «come ci ha detto Rahim. Te la senti?» «Quanto è lontano?», domanda Kabir. «La stessa distanza che abbiamo percorso sul furgone». Kabir ci pensa un po’ su. «E la tua caviglia?», dice alla fine. «È a posto. Se comincia a farmi male, rallentiamo». «Forse sarà più corta se passiamo lungo la spiaggia».


Seguono le stradine colorate come meloni fino al mare. Uno yacht sta cercando faticosamente di avvicinarsi alla riva. Tre donne spettegolano sopra le loro carrozzine con le capotte simili a tende di un campo profughi. Si abbottonano le giacche di maglia fino al collo quando il vento gli sferza le gonne contro le gambe. Nessuno fa caso ai due ragazzi. È la prima volta che vedono il mare, a parte le visioni fugaci dal treno e la chiazza blu che hanno intravisto dal lungomare di Genova. Kabir è elettrizzato. Galoppa tra sabbia e banchi di ciottoli invitando Aryan a raggiungerlo. «Vediamo chi arriva prima all’acqua», lo sfida. I pantaloni troppo lunghi sventolano intorno alle gambe troppo corte. Sulla riva, dove i ciottoli si urtano e rotolano al ritmo delle onde, Kabir inciampa nella foga dello slancio e crolla a terra. Si rialza con espressione aggrottata, strofinando via dalle ginocchia l’impronta lasciata dai sassi. Aryan ride. «Bel tuffo!», gli grida. «Ho vinto!», dice Kabir quando riprende fiato, sollevando il pugno in segno di trionfo mentre


Aryan si avvicina. «Pensi che sia davvero salata?» «Controlla e fammi sapere». Kabir sputa l’acqua salmastra con una smorfia. «Potresti completare l’opera, a questo punto», dice Aryan osservando il segno del livello dell’acqua sui jeans del fratello. «Brrr... è troppo fredda!», esclama. «Perché il mare ha due tonalità di blu?» «Non lo so», risponde Aryan. «Forse la fascia più scura è piena di squali che aspettano te». «O te, se ti spingo in acqua per primo!». Si azzuffano sulla sabbia, dove i ciottoli finiscono. Kabir torce le dita di Aryan per spuntarla contro il fratello e invece si ritrova con un ginocchio premuto sul torace. «Pietà, chiedi pietà», lo stuzzica Aryan. «Oppure devo gettarti in pasto agli squali?» «Mai!», grida Kabir tentando di divincolarsi. Aryan carica più peso sul ginocchio. «Vuoi mangiare la sabbia?». Unisce le mani a imbuto sopra la faccia del fratello. Kabir gira freneticamente la testa a destra e a sinistra. «Pace!», grida alla fine. «Pace! Hai vinto». «Prometti di essere mio schiavo?». Le mani di


Aryan sono ancora sospese sopra il viso di Kabir. «Sì! Tutto quel che vuoi!». «Dillo!». «Prometto di essere tuo schiavo!». «Per sempre?» «Sì, sì, prometto di essere tuo schiavo per sempre!». Aryan allenta la presa. Ansimando, Kabir si drizza a sedere e recupera una conchiglia rimasta attaccata alla schiena. «L’ho detto per scherzo. Non sarò mai tuo schiavo!». Aryan lo butta di nuovo a terra e comincia a fargli il solletico, finché vengono distratti dal valoroso yacht, che alla fine riesce ad arenarsi su una secca. È il tardo pomeriggio quando cominciano a camminare. Di tanto in tanto vedono un treno sfrecciare tra le case o sparire in un tunnel con un colpo della coda argentata. Il vento rinforza e increspa il mare di bianco. È faticoso avanzare lungo la costa. Le scarpe si riempiono di sabbia e ogni passo richiede uno sforzo maggiore di quanto avesse immaginato.


Dopo un po’ la spiaggia diventa totalmente ciottolosa, ma i piedi vacillano sulle pietre instabili e Aryan teme di slogarsi di nuovo la caviglia. Quando arrivano a un canale di scarico che si getta nel mare, lasciano la spiaggia e proseguono lungo le strade tranquille in mezzo alle case per le vacanze. L’estate sta finendo e molte villette hanno già le finestre sprangate. All’imbrunire, raccolgono gli ultimi pomodori da un orto incustodito e si preparano un giaciglio con vecchi giornali ed erba secca. Aryan sta sognando. È notte ed è solo, all’esterno di una villa sconosciuta a picco sul mare. Ha scavalcato furtivamente il muro, ha evitato il cavo elettrico che avrebbe fatto scattare l’allarme e ha attraversato la distesa di ciottoli indisturbato dal lampo improvviso di riflettori, intruso in un continente che non gli appartiene. I latrati dei cani del vicinato scuotono l’aria profumata della notte, ma sono troppo lontani per preoccuparsene. Screziato di luce artificiale, si ferma al riparo di una magnolia e, avvolto dal suo profumo, decora gli arbusti con i suoi indumenti come fosse un’offerta


votiva. La pelle nuda si increspa al freddo della notte; le mattonelle sono lisce sotto i suoi piedi rovinati. Per un momento indugia sul bordo, solo una frazione di secondo, solo il tempo di un respiro. Poi, con un unico movimento voluttuoso, inarca la schiena e si tuffa, frantumando l’argentea azzurrità e l’ansia che mai lo abbandona in schegge frementi di luce. L’impatto con l’acqua lo lascia senza fiato. Non ha mai imparato a nuotare, eppure sta nuotando; solo se continua a muoversi i muscoli lo convinceranno con l’inganno a dimenticare il freddo. Le mani fendono l’acqua in una spuma di bollicine che si allarga in chiazze d’argento liquido; la polvere che sembrava riempire ogni poro si scioglie insieme alla stanchezza, e ogni dolore che perdura dentro di lui è temporaneamente lenito. Sente la spossatezza abbandonare il suo corpo come lo spirito di un morto. La piscina è illuminata dai lati, dietro oblò a occhio di pesce; dove il pavimento piastrellato digrada bruscamente, ha la sensazione di nuotare nello spazio, viaggiando verso la luce di soli lontani. Si sveglia presto e si tira su a sedere, la schiena


poggiata contro la corteccia nodosa di un albero, e osserva le formiche, in attesa che Kabir apra gli occhi. Le guance paffute del fratello sono umide del suo respiro. L’alba ha un odore intenso di iodio e di foglie di pomodoro. Un bruco si allunga e si accorcia come una fisarmonica avanzando lungo un ramo: sembra un metro a nastro a fasce vistose. Non è il sogno, ma la sensazione del sogno a indugiare su di lui mentre il giorno si srotola pian piano; Aryan era il nuotatore, e allo stesso tempo non lo era – quasi fosse uno strano richiamo dal futuro, un presagio della persona che deve ancora diventare. Quella sensazione, la presenza del suo io futuro, lo accompagna per tutto il giorno. Cammina con lui mentre percorrono la strada che li riporta in Francia, costeggiando le montagne scoscese con le pendici che si allungano nel mare. Cani da guardia si impennano sulle zampe posteriori abbaiando furiosamente al loro passaggio. Raggiungono la periferia di Nizza a metĂ pomeriggio.


Seguono i binari del tram passando accanto a condomini arancioni e parchi ben curati, dove palme e pini si confrontano fra loro. Aryan non riesce a capire quale sia il clima del posto, con piante del deserto e alberi di montagna che crescono fianco a fianco come se la regione stessa non avesse ancora trovato una propria identità. Improvvisamente, attraverso un’apertura fra gli edifici, appare il cielo; al di là di quei blocchi di cemento – Aryan lo sente – deve esserci il mare. Un vento freddo gli strattona i vestiti di dosso e sferza le bandiere dell’hotel. Sedie a sdraio bianche attendono giorni migliori allineate sulla ghiaia in file desolate. Aryan si sorprende che nessuno le abbia rubate; non sono nemmeno assicurate con catene. Aryan non ha un piano preciso. Vuole solo essere invisibile mentre escogita un modo per raggiungere la stazione e comprare i biglietti per Parigi senza incappare nella polizia. «Continuiamo a camminare», dice. La diga foranea si leva alta sopra di loro e, al di là di essa, gli hotel del lungomare di Nizza. Una donna


fa jogging lungo la passeggiata; Aryan è imbarazzato dalla vista del suo corpo fasciato di lycra. Un vecchio lancia un bastone a un cane che riesce a recuperarlo nonostante la frangia di pelo che gli copre gli occhi. «Vorrei che Tom e Jerry fossero qui», dice Kabir. È la prima volta che menziona i cuccioli da quando sono fuggiti dalla fattoria in Grecia. «Sarebbero impazziti con tutte queste alghe», dice Aryan. «Ai cani piace la roba maleodorante». «Magari possiamo prendere un cane quando arriviamo in Inghilterra. Gli inglesi amano i cani. Persino la regina ha dei cani». «La regina! Cosa ne sai tu della regina?» «Li porta a caccia. Me l’ha detto Hamid. Li fa anche entrare dentro il suo castello». «E Hamid come faceva a saperlo?» «Mi ha mostrato una fotografia su una rivista turca. La regina era seduta su un divano blu e i cani erano sul divano accanto a lei». «Hamid e le sue storie», commenta Aryan. È sbalordito dalle cose che Kabir ricorda, e si domanda quando è stato che lui e Hamid hanno trovato il tempo per parlare dei cani della regina


d’Inghilterra. «È vero!», insiste Kabir. «Perché avrebbe dovuto inventarsi una cosa simile?» «Non ho detto che se l’è inventato. Piacerebbe anche a me vedere quella foto», replica Aryan. Si siedono sui ciottoli del lungomare, lanciando piccoli missili levigati tra le onde. «Forse potremmo andare in Inghilterra con un motoscafo», dice Kabir. «Come no, e dove pensi di trovare un motoscafo?» «Ce n’è uno proprio lì». Aryan scoppia a ridere e lo punzecchia fra le costole. «Come può uno pazzo come te essere davvero mio fratello?» «Perché no? Penso che sia un ottimo piano». «Hai idea di quanto sia lontana? Dovremmo attraversare il Mediterraneo e girare tutto intorno all’Europa. Sono miglia e miglia e miglia». «Immagino ci servirebbe un sacco di benzina», osserva Kabir. «Per non parlare dell’equipaggiamento per la navigazione. E delle provviste. E di una imbarcazione così robusta da resistere alle tempeste oceaniche. Finiremmo come il Titanic».


«Non sarebbe come il Titanic perché fa troppo caldo per gli iceberg». «Gli iceberg sarebbero l’ultima delle nostre preoccupazioni», conclude Aryan. «Ma, ehi, fammi sapere quando ti viene un’altra idea così brillante». «Ok, allora trova tu qualcosa di meglio». Kabir si rinchiude in se stesso e volta le spalle al fratello, come fa sempre quando è imbronciato o offeso. La fame li sta rendendo irritabili. Aryan comincia a domandarsi dove passeranno la notte. «Andiamo», dice, rialzandosi sulle gambe rese malferme dai ciottoli. Salgono i gradini nella diga foranea e imboccano una viuzza dietro il lungomare in cerca di un forno. «Quanti euro ci sono rimasti?», domanda Kabir. Quasi tutto il denaro che Kabir ha rubato a Roma è servito per comprare i biglietti del treno per la Francia. «Ancora un po’», risponde Aryan. Le grandi monete lucenti sono al caldo e al sicuro nella sua mano. Ha in tutto quaranta euro e cinquanta, distribuiti fra le tasche e le scarpe, e trecentoquaranta euro dentro la cintura, e se quel che ha detto Rahim era esatto, avranno bisogno


dell’intera cifra e anche di più, una volta arrivati a Calais. I nasi schiacciati contro il vetro, gli occhi spaziano stupiti sui dolci esposti. Ci sono costruzioni fantastiche, troppo belle per essere mangiate – fragole glassate appuntate su zattere di meringa con una impalpabile cucitura d’arancio; torte rotonde ricoperte di cioccolata, lucenti come specchi e impreziosite da schegge d’oro; piccoli battaglioni di lamponi schierati su distese di biscotti. «Qui la gente è talmente ricca che mangia l’oro?» «Forse sembra soltanto oro», risponde Aryan. «Oppure hanno inventato una sorta di vernice d’oro commestibile». Prima di avere il tempo per rifletterci su, Aryan si gira di scatto, attirato da una voce. Alle loro spalle, sta passando una coppia che discute animatamente: un uomo abbronzato con un paio di mocassini e una donna con una vivace gonna a fiori. «La vista sul mare era fantastica, proprio come quel dipinto di Matisse», sta dicendo l’uomo con un accento che Aryan ricollega a Teheran. «Ma il bagno


era orribile, come lo sono tutti in Europa». «Non c’era niente che non andava nella doccia», obietta la donna. «Sei tu che ti sei spazientito subito con quei rubinetti». Aryan afferra Kabir per un braccio e si affretta dietro ai due sconosciuti. «Signore, signore!». L’uomo non gli dà ascolto e continua a camminare. «Signore», ripete Aryan. Sfreccia al suo fianco e osa tirargli la manica. L’uomo si ferma, stupito. La donna fa un passo indietro. «Scusi, signore, siete iraniani?», domanda Aryan. «No, siamo americani. Ma hai ragione, siamo di origine iraniana. Cosa possiamo fare per te?» «Vi prego, potete aiutarci?». L’uomo guarda la donna al suo fianco. «Vi siete messi in qualche guaio?» «Abbiamo fame», è la risposta di Aryan. L’uomo e la donna si scambiano un’occhiata. «Lei è mia moglie. Voi di dove siete?» «Afghanistan». «E cosa ci fanno due ragazzi dell’Afghanistan qui a Nizza?» «Vogliamo andare in Inghilterra», dice Aryan.


«Così possiamo andare a scuola», aggiunge Kabir. «È tuo fratello?», chiede la donna. Aryan si tocca il cuore con la mano destra e poi la offre all’uomo e alla donna, dicendo i loro nomi. «Quanti anni avete?», chiede ancora la donna. «Io quattordici e mio fratello otto». «E dove sono i vostri genitori?». La domanda arriva come un fulmine a ciel sereno. Nessuno glielo aveva mai chiesto prima d’ora. «Sono morti. In guerra». L’uomo e la donna confabulano fra loro in inglese. La donna sorride a Kabir e gli arruffa i capelli corti. Soltanto Aryan nota il sobbalzo di Kabir quando l’uomo gli tende la mano. Sono seduti in un chiassoso bistrò in una piazza circondata da ristoranti che si affacciano su una fontana. All’esterno, il vento tormenta gli angoli delle tovaglie, assicurate ai tavoli con fermagli di metallo, e insidia i tovaglioli colorati ripiegati dentro bicchieri vuoti. Dall’alto delle loro aste, stufe elettriche irradiano generosamente calore sui tavoli, ma il vento ha la meglio sul sole sbiadito. Tutte le sedie metalliche sono vuote; persino i


gabbiani hanno un’aria desolata. La donna sta scorrendo il menù con un dito; Kabir osserva le sue unghie rosa ciclamino. «Cosa vi va di mangiare, ragazzi? Qui hanno di tutto: cotolette, fettuccine[3], bistecche...». Aryan manda giù l’acquolina. Gli americani di origine iraniana sono gentili, ma lui non conosce nessuna di quelle pietanze. Kabir sta dondolando i piedi che penzolano dalla sedia. Il marito nota l’imbarazzo di Aryan. «Perché non ordini tu per loro?», le dice. La donna si illumina in viso. «Va bene. Direi minestrone[4] e poi hamburger di manzo per i ragazzi. E magari succo di mela. Che ve ne pare?». Aryan si preoccupa che questo cibo francese contenga carne di maiale. «Tranquillo», lo rassicura la signora. «Nemmeno noi la mangiamo». Le guance di Kabir sono rosse per il caldo del bistrò e lucide di sugo di carne. Aryan non riesce a ricordare l’ultima volta che ha mangiato così: un pasto caldo in un posto caldo, la pancia piena di cibo e di soddisfazione. Una


sensazione di felicità si affaccia a poco a poco nel suo animo come il chiarore di un’aurora. Racconta agli americani che vivevano in Iran, dove lui ha frequentato la scuola, mentre Kabir era ancora troppo piccolo per andarci. Un velo di tristezza cala improvviso sullo sguardo della donna. Aryan si domanda se ha detto qualcosa che non doveva. L’uomo gli dice che adesso vivono a Los Angeles e che sono stati in crociera sul Mediterraneo. Hanno preso l’aereo dall’America a Nizza e proseguito in treno fino a Marsiglia; poi sono saliti a bordo di una grossa nave che li ha portati a Barcellona. Da lì hanno raggiunto via mare Tunisi, Malta, Alessandria, Atene, Napoli, Roma e Genova. Strano, osserva l’uomo, come queste città europee abbiano più di un nome. La stessa città, in Italia è chiamata “Genova”, in Francia “Genes”. «Noi siamo stati a Genova», dice Aryan con occhi scintillanti. «I palazzi sono come prigioni, e ci sono uomini di colore che vendono borsette, ed è stata la prima volta che abbiamo visto il mare». La donna sorride. «Anche noi abbiamo visto i venditori di borsette». La sua voce sale e scende come la melodia di una canzone. «Erano al porto.


Ho comprato una rana di legno per mia figlia». Tira fuori la statuetta dalla borsa. Kabir s’illumina in viso. «Forse era di Salomone». «Salomone?», ripete la signora con aria interrogativa. «Era uno dei venditori che abbiamo conosciuto», le spiega Aryan. «Doveva comprarci i biglietti per il treno». A bordo della nave, gli americani avevano una cabina con un oblò e dalle loro cuccette vedevano le luci lungo la costa scivolare via durante la notte. Ogni giorno si svegliavano in un Paese diverso. Alla fine erano sbarcati a Genova e avevano preso il treno per Nizza. Ora, dice la signora, vogliono passare qualche giorno a Parigi prima di tornare a casa. Aryan non riesce a immaginare come si possano visitare così tanti posti solo per divertimento. La donna parla dei figli in America: una ragazza poco più grande di Aryan e un ragazzo di diciassette anni. Mostra loro una foto che conserva nel portafoglio. Aryan vede una ragazza con gli occhi dal taglio ovale e lunghi capelli lisci, e un ragazzo con un berretto bianco e blu.


«È in tenuta sportiva», dice l’uomo. «Va matto per quel gioco». La donna ride e dice che la foto è un po’ superata. «Ora sono tutti e due più grandi». Non c’erano fotografie nella famiglia di Aryan, a parte quella che ha nel portafoglio. Ha l’impulso di mostrarla agli americani, ma poi ci sarebbero troppe cose da spiegare. «Sono dai nostri cugini a Los Angeles», continua l’uomo. «Un giorno dovete venire in America a conoscerli». «Ci si può andare su una nave con gli oblò?», domanda Kabir. La donna sorride. «Meglio l’aereo. Altrimenti ci vorrebbe troppo tempo». Aryan non crede che ci vorrebbe più tempo di quanto hanno impiegato lui e Kabir dall’Afghanistan alla Francia. Non riesce a immaginare come sarebbe andare in America in aeroplano. Dopo il pranzo, l’uomo gli chiede quando intendono partire per Parigi. «Nei prossimi giorni, inshallah», risponde Aryan, chiedendosi come faranno a procurarsi i biglietti se


la polizia è di nuovo di pattuglia alla stazione. «Perché non venite con noi?», propone l’uomo. «Abbiamo il treno domani alle due del pomeriggio». Aryan esita, preoccupato per le loro finanze in calo. «Non abbiamo molto denaro per i biglietti». «È un problema facilmente risolvibile», sdrammatizza l’uomo con un gesto della mano. Aryan guarda il viso radioso di Kabir. Al mondo non ci sono due ragazzi fortunati come loro. «Saremmo davvero felici di venire con voi», dice alla fine. La donna accenna qualcosa al marito in inglese. «Sì», le dice, prima di rivolgersi ai ragazzi. «Prima vi compriamo dei vestiti nuovi». Guardandosi riflesso nello specchio intero del camerino, Aryan si rende conto di quanto sia cresciuto. È più magro, ma anche più alto. I jeans logori che la donna gli ha lavato a Roma sono calati sulle anche, sebbene sotto ne indossi un altro paio. Anche i piedi di Aryan sono cresciuti. Gli alluci hanno bucato le punte delle scarpe di tela. Ma più di tutto è il suo volto a sorprenderlo, ora che lo può osservare in piena luce. È più scavato, e


intorno agli occhi ci sono le rughe di un vecchio. «È un po’ piccolo, per essere un ragazzo di quattordici anni», sta dicendo la commessa in un inglese frammentario, un paio di jeans blu appeso sul braccio destro e un paio neri sul sinistro. La donna americana la ignora. «Che colore vuoi?», chiede ad Aryan, prendendo i jeans dalla commessa e passandoli attraverso la tenda; le unghie ciclamino risaltano contro il tessuto scuro. Aryan è terrorizzato all’idea che una delle due scosti di colpo la tenda esponendolo, mezzo nudo nella sua biancheria lacera, agli sguardi di tutti. Afferra i jeans neri senza muovere oltre la tenda e si slaccia le scarpe. Prova un improvviso imbarazzo notando il cattivo odore che emanano dopo essere state ai suoi piedi per mesi. La suola è consumata e liscia come un sasso di fiume. I suoi movimenti sono svelti: sfila insieme i due pantaloni che ha indosso e infila le gambe nella stoffa rigida del paio nuovo, rosso in viso. «Vieni fuori, fammi vedere come ti stanno», dice la donna, troppo educata per fare commenti sulle scarpe maleodoranti. Calzini, mutande, una maglia da calcio e una felpa con cappuccio formano una


morbida piramide tra le sue braccia. «Girati», gli dice. La taglia, decide, è giusta. «Ecco, prova questi, se ti piacciono». Aryan le è grato per la sua rapida efficienza. Inspira l’odore chimico di capi nuovi. Aryan non ha mai comprato vestiti in un negozio. In Afghanistan, era sua madre a cucire camicie e pantaloni per tutti i figli da un unico rotolo di stoffa una volta all’anno, in primavera. Quando si erano trasferiti in Iran, lui e Kabir avevano dovuto abbandonare i loro vestiti afghani per indumenti occidentali, per mimetizzarsi meglio in un luogo che brulicava di nuovi arrivi dall’Iraq e dall’Afghanistan. Gli indumenti che gli avevano passato i suoi cugini erano stati lavati e indossati molte volte. Questi capi francesi hanno la piega ed etichette di cartone che gli graffiano il collo, e pesanti triangoli di plastica bianca che li sformano. Aryan non è sicuro riguardo ai jeans. Sono talmente rigidi da reggersi in piedi da soli. «Diventeranno più morbidi indossandoli», gli dice la donna americana come se gli avesse letto nel pensiero.


Kabir non ha ancora perso tutta la sua pinguedine infantile. La commessa è inginocchiata a rimboccargli l’orlo dei jeans. Kabir è raggiante nella nuova maglietta rossa e blu con l’Uomo Ragno stampato sul petto; sopra ha infilato una felpa blu scuro con il cappuccio e il numero 42 in giallo impresso sulla schiena. La signora americana chiede alla commessa di togliere le etichette in modo che possano indossare subito i vestiti nuovi. I cartellini con il prezzo vengono portati alla cassa. «Avete controllato le tasche?», chiede ai fratelli. Osserva sconcertata la doppia serie di indumenti che stanno ficcando dentro buste di plastica, ma non fa commenti. Aryan ispeziona tutti i vecchi pantaloni ancora una volta. Trasferisce le ultime monete nelle tasche nuove; infila la cintura con il rotolo ormai assottigliato di banconote dentro i passanti dei nuovi jeans; dalle tasche di Kabir recupera una conchiglia e il soldatino di plastica blu trovato sul treno. In un negozio di articoli sportivi dall’altra parte della strada comprano scarpe nuove. Quelle di Aryan sono nere. Le suole sono talmente ammortizzate che


a ogni passo si sente come un astronauta che passeggia sulla Luna in assenza di gravità. Kabir sceglie un paio di un rosso acceso con strisce bianche dentellate sui lati. «Pronti?», dice la donna americana. Lascia cadere le buste con i vestiti vecchi in un cassonetto lungo la strada. «Aryan, quand’è il mio compleanno?» «Il tuo cosa?» «Il mio compleanno. Hai detto agli americani che ho otto anni. Ma se mi domandano il giorno, come faccio a ricordarmi quando sono nato?» «Te l’ho già detto». «Sì, ma voglio che me lo dici di nuovo». Aryan sospira. «Ricorda: prima c’è la neve. Poi la neve si scioglie, e l’aria si scalda un po’. Dopo di che è quando tu sei nato». Kabir pondera la risposta del fratello. «Allora come fai a sapere che ho otto anni?» «Perché ho tenuto il conto. E poi, ricorda che sono più grande di te. Sono passati otto inverni da quando sei nato. E se non mi credi, li aveva contati anche Baba».


«E qui ho la stessa età che avrei in Afghanistan?» «Naturalmente. Non importa se qui usano un altro calendario. In Europa iniziano a contare da un giorno diverso. Ma è passato lo stesso numero di anni». «Aryan?» «Sì, Kabir». «C’è la neve in Inghilterra?» «Non lo so, Kabir». «Ma se in Inghilterra non c’è la neve, come farò a sapere quanti anni ho?» «In Inghilterra ci sono i mesi. Gennaio, febbraio, aprile, roba così. Quando saremo lì ne sceglieremo uno dopo l’inverno. Così non perderai il conto». Illuminato dai riflettori, uno stormo di gabbiani galleggia sull’acqua scura come tanti cappelli di carta volati via, tutti rivolti in direzione del vento. Sulla spiaggia, qualche spettatore osserva due pescatori lanciare le lenze in mare. I ciottoli grigi scricchiolano sotto i loro piedi. Aryan si chiede quanto dovrebbero scavare per arrivare alla sabbia. Kabir inciampa mentre tornano al punto in cui, poche ore prima, le sdraio erano allineate sui sassi.


Qualcuno le ha legate l’una all’altra con una sottile catenella allentata. Aryan ne inclina due di fianco, una di fronte all’altra, e le ancora in mezzo ai ciottoli per creare un frangivento vicino al muro del caffè della spiaggia. Ne sistema una terza accanto alle prime due, spingendola nel terreno, e copre il tutto con un cartone che qualcuno ha lasciato per strada. La schiena di Aryan è al freddo, ma almeno il viso e il torace sono protetti. Sdraiato in attesa del sonno, abbraccia il fratello per dargli un po’ di calore. I suoi capelli profumano di sale e di vento e di Kabir. «Mi piace ascoltare le onde», dice Kabir, molto dopo che Aryan gli ha chiarito la faccenda del compleanno, molto dopo che Aryan si era ormai convinto che stesse dormendo. «Sono il respiro del mare». Per tutta la notte, il vento sibila nelle orecchie di Aryan nel tentativo di scoperchiare il tetto di cartone. Il freddo lo tiene sveglio a lungo. Forse avrebbe dovuto dire agli americani, glielo avevano chiesto, che lui e Kabir non avevano un posto dove dormire. Ma la coppia aveva già fatto tanto per loro


e Aryan non voleva sentirsi troppo in debito nei loro confronti. Affonda il viso nella sua felpa, respirando quell’odore non familiare. Gli indumenti nuovi lo fanno sentire diverso, la stessa persona ma più fiera di sé, qualcuno che non deve più nascondersi. Cerca di immaginare come sarebbe dormire in una cabina a bordo di una nave, osservare le luci di città misteriose scivolare via attraverso un oblò, e svegliarsi ogni mattina nello stesso letto ma in un posto nuovo. Poiché non sono sicuri dell’orario, Aryan e Kabir vanno per tempo al parco di fronte all’hotel degli americani e aspettano, seduti sulla panchina sotto i pini e le palme verdi e arancio. Per ingannare l’attesa, Aryan fa esercitare Kabir con le parole inglesi che gli ha insegnato. «Eag-le», ripete Kabir. «Shep-herd. Snow». Poi ripassano i numeri in inglese. «Non mi entra più nulla nella testa», si lamenta Kabir quando arrivano a venti. «Ma ti ricordi dove stiamo andando, soldato?», lo stuzzica Aryan.


«KabulTeheranIstanbulAteneRomaParigiLondra», risponde Kabir tutto d’un fiato. «Vedi, Aryan, non l’ho dimenticato». Aryan conta solo sulle capitali, sui nomi che lui stesso ha memorizzato prima di insegnarli a Kabir. C’erano altri luoghi di cui aveva sentito parlare, e altri ancora che avevano attraversato, come Van e Genova, e ora Nizza. Ma era nelle grandi città che c’erano i punti di raccordo, dove avrebbero trovato sempre altri afghani, dove c’erano stazioni degli autobus, trafficanti di uomini e treni. È strano, pensa Aryan, come ogni posto che attraversano gli lasci impressioni diverse da quelle che si era figurato prima dell’arrivo. Teheran era piena di grattacieli e di montagne innevate, ma quel che gli è rimasto più impresso sono i rifiuti ammassati nel canale e il borbottio continuo dei motori che ruttavano gas di scarico alla stazione degli autobus. Istanbul, dove aveva immaginato uomini in fez e scarpe con le punte arricciate, è il ronzio delle macchine da cucire e una moschea scintillante d’oro. In Iran aveva visto un’immagine dell’Acropoli, ma ad Atene aveva visto l’originale solo di sfuggita svettare sopra la cappa


d’inquinamento in fondo a una strada che si allungava da Alexandras Park. Invece, quel che ricorda di Atene sono le scale mobili della metro e le tubazioni nell’hotel economico. Di Roma – città di leoni e gladiatori – ricorda il monolocale dell’amico di Ahmed e sua moglie che gli tagliava i capelli. Fanno scorta di semi in un’aiuola e li sparano contro una lattina di birra vuota usando come fionde degli elastici buttati via dal postino. Assistono al passaggio degli spazzini su veicoli muniti di un lungo tubo flessibile, e Kabir scoppia in un accesso di risa perché sembrano elefantini con una proboscide smisurata. Quando gli americani escono dall’hotel, Aryan balza in piedi. Li vede guardarsi intorno finché non scorgono i due fratelli nel parco e fanno loro segno di attraversare la strada. Un uomo con i galloni d’oro sulle maniche sta caricando i loro bagagli su un taxi. Gli tiene aperto lo sportello mentre salgono nella macchina. Alla stazione restano insieme alla donna americana mentre il marito va allo sportello della biglietteria.


Poi aspettano tutti insieme sulla banchina. Due poliziotti con gli occhiali scuri si appoggiano alle barre intorno all’uscita osservando i passeggeri che salgono e scendono dai treni. Al loro fianco c’è un cane al guinzaglio. Aryan ha di nuovo la bocca secca e una morsa allo stomaco. Gli sfollagente pendono dalle cinture dei poliziotti come minacce inespresse; il calcio nero della pistola riposa sul loro fianco, insidioso come un serpente. «Non guardarli», dice Aryan a Kabir. Nota con sollievo che non sono gli stessi agenti che li hanno rispediti indietro la volta precedente. Il muso argenteo del direttissimo da Parigi scivola lentamente dentro la stazione. I due fratelli si affrettano a seguire gli americani sul convoglio. Il treno serpeggia lungo la costa per un tempo infinito prima di dirigersi a nord. Sfreccia accanto a grandi fiumi, a chiese su affioramenti lontani, ad ampie distese aperte. Aryan pensa che la Francia sia il Paese più pianeggiante che abbia mai visto. Dopo essersi dileguata lungo il convoglio, la donna ritorna con sandwich al formaggio e lattine di


aranciata. Salutano gli americani sui gradini della Gare de Lyon di Parigi. «Ci fermeremo per tre giorni agli ChampsÉlysées», dice l’uomo. «Se volete, venite pure a trovarci». Aryan si tocca il cuore e stringe loro la mano. Li ringrazia, ma prima devono cercare gli altri afghani ed escogitare un modo per arrivare in Inghilterra, e poi andranno a fargli visita. «Siete sicuri di avere un posto dove andare?», chiede la donna. Aryan fa cenno di sì. Ha la mappa che Rahim gli ha tracciato sul taccuino. La coppia li saluta dal finestrino del taxi mentre la vettura descrive un’ampia curva lungo il viale. Un uomo alla fermata dell’autobus li indirizza verso il fiume. Camminano tra il corso d’acqua e il viadotto, finché trovano il punto in cui il canale si getta nella Senna. Scendono una rampa di scale di metallo fino al bordo dell’acqua, dove imbarcazioni da diporto e barcacce sono ancorate lungo i lati del canale.


Sedute in coperta, persone che bevono e ridono. Aryan impiega poco a capire perché tutto gli sembri alla rovescia: le piante coltivate all’interno, i tavoli e le sedie sistemati all’esterno, le biciclette parcheggiate sui tetti. Più avanti, ci sono treni che passano sopra al canale ma sotto la strada; in lontananza, un coro di sirene della polizia. Quando l’acqua scompare alla vista, salgono un’altra rampa di scale fino a una grande rotatoria con una colonna sormontata da un angelo d’oro. Gente avvolta in lunghe sciarpe fuma seduta ai tavoli dei caffè all’aperto; un edificio curvilineo in vetro e metallo riflette il cielo autunnale. Aryan tira fuori la mappa disegnata da Rahim e la mostra a Kabir. Il canale deve proseguire sotto la larga carreggiata sovrastante, dove il traffico scorre su entrambi i lati delle aiuole e di una doppia fila di alberi. Foglie con le punte accartocciate sono sparse sul marciapiede come tante mani dischiuse. Si fermano più di una volta. Le scarpe nuove hanno fatto venire le vesciche a Kabir e Aryan sta camminando troppo in fretta. Anche dopo che il fratello gli ha stretto i lacci per ridurre lo


sfregamento contro la pelle, Kabir continua a trascinare i piedi. Aryan lo porta a cavalluccio, ma presto la stanchezza si fa sentire. Si fermano a guardare un gruppo di uomini impegnati in una partita con bocce di metallo. Più avanti, fontane spruzzano getti d’acqua verso il cielo come un branco di balene sommerse. Girando alla larga da un uomo con gli occhi allucinati che inveisce contro demoni invisibili, trovano una panchina libera dove Kabir può finalmente slacciarsi le scarpe. Ne scuote una, lasciando cadere a terra un sassolino. Tra gli alberi più avanti scorgono un incrocio e, dopo averlo superato, ecco che l’acqua del canale ricompare alla vista. Aryan prova un moto di sollievo. «Ormai non deve essere lontano». Un ponte verde si inarca sull’acqua. Raggiungono la sommità dell’arco e si affacciano dal parapetto. Lungo gli argini, gente che fuma e suona la chitarra. I ristoranti hanno sistemato i tavoli sui marciapiedi, e ragazzi con i rollerblade fanno lo slalom tra passanti e camerieri indaffarati. Le biciclette si aprono un varco nella folla tintinnando i campanelli.


«Guarda!», grida Kabir. Un battello pieno per metà di turisti appare nell’acqua sotto di loro, in attesa di superare la chiusa. I passanti osservano a bocca aperta uno sbarramento mobile calare come un confine tra due nazioni, bloccando il flusso di macchine e motociclette. Restano lì, come ipnotizzati, mentre l’acqua si riversa nel bacino e le teste dei turisti salgono al livello degli argini. Improvvisamente il ponte si divide in due e ruota su un perno, e il battello di turisti scivola via sotto i loro piedi. Due bambini, più o meno dell’età di Kabir, si sporgono oltre il bordo, cercando di sfiorare l’acqua con le mani. Le madri se ne accorgono in tempo e, con un grido spaventato, li strattonano indietro. «Questo battello va in Inghilterra?», domanda Kabir. Aryan ride. «Come no, parte due volte alla settimana da Kabul». Lo seguono con lo sguardo finché scompare nella chiusa successiva e sotto la strada che hanno appena percorso. Aryan si avvia giù per i gradini che scendono dal ponte.


«Andiamo», dice girandosi verso il fratello. «Vedi la staccionata? Credo che siamo arrivati al parco». Tre giovani sono appollaiati sul basso muretto di pietra del canale. Anche da quella distanza, anche prima di sentirli parlare, Aryan sa che sono afghani. «Conoscete un posto dove passare la notte?», chiede. «Siamo appena arrivati». I tre alzano lo sguardo. «Per minorenni come voi c’è un posto, ma per oggi è troppo tardi», risponde uno di loro. Tira fuori un cellulare di tasca e controlla l’ora apparsa sull’immagine di un’attrice di Bollywood. «Dovete presentarvi lì prima delle otto, se volete entrare», aggiunge l’amico. Ha un viso rotondo, gli occhi distanziati e un giubbotto con un numero spropositato di zip. «Altrimenti dovrete dormire qui nel parco, come noi». Un’altra notte sotto le stelle, pensa Aryan. Fortunatamente hanno dormito un po’ sul treno. «C’è un posto dove possiamo prendere qualcosa da mangiare?», chiede ancora. I giovani si stringono nelle spalle. Guardandoli bene, Aryan pensa che potrebbero avere diciotto o


diciannove anni, ma le rughe sui loro volti li fanno sembrare più vecchi. Uno di loro sguazza dentro un anorak di diverse taglie di troppo. «C’è una mensa gratuita più avanti, lungo il canale, ma dovete presentarvi alle sei e mezza. Adesso non ci sarà più nessuno», dice il ragazzo con le zip. La temperatura sta calando rapidamente. La gente seduta lungo il canale si avvolge nelle giacche e nelle sciarpe; donne anziane, con cagnolini in miniatura stretti sotto il braccio, digitano numeri sulle mura di edifici vicini; i portoni massicci si aprono di scatto e si richiudono dietro di loro. «Se aspettate fino all’ora di pranzo, distribuiscono pasti per i senzatetto ai cancelli del parco», dice il giovane con il cellulare, agitando l’attrice di Bollywood in direzione di un palco per l’orchestra e un gruppetto di alberi. «Oppure c’è un supermercato dietro l’angolo che getta via un sacco di cibo». Il ragazzo con le zip allunga una mano verso di loro. «Intanto prendete il mio pane», dice. Aryan lo ringrazia e apre la busta di plastica bianca. Contiene tre sfoglie di pane così sottili che sembrano inconsistenti sul palmo della mano. Aryan e Kabir le divorano senza farselo ripetere


due volte. Poche briciole si posano come fiocchi di neve sulle lastre di pietra ai loro piedi. Appena fa buio, i giovani mostrano loro dove scavalcare le alte cancellate del parco, anche se Aryan è talmente magro da passare tranquillamente in mezzo alle sbarre. Senza far rumore, si sdraiano sul terreno coperto di pacciame. Il ragazzo con l’anorak inciampa calpestando un ciuffo di iris. La gente seduta sotto le stufe nei ristoranti all’aperto non fa caso alle ombre che scivolano oltre la cancellata e si sistemano per la notte sulla strana superficie gommosa sotto le altalene del parco. I tre giovani tirano fuori dei cartoni da dietro i rampicanti che rivestono il muro di pietra. Dal nascondiglio fra i cespugli, spuntano fuori grossi sacchi di plastica imbottiti di coperte. Aryan e Kabir non hanno niente su cui sdraiarsi e niente per coprirsi. Ma ci sono altri cartoni appoggiati vicino al muro. Aryan esita un istante, poi ne sfila uno e lo passa a Kabir e infine ne prende un altro per sĂŠ. Li trascinano lontano, dove i legittimi proprietari non verranno a cercarli. Li posizionano vicino al posto che gli altri ragazzi


afghani hanno scelto, protetti dal vento dietro un semicerchio di cespugli. Aryan si preoccupa per il fratello: gli chiude l’anorak fino al mento e gli tira su il cappuccio. Poi si raggomitola vicino a lui ad aspettare il sonno. «Domani sarà meglio», dice Aryan. «Troveremo quel dormitorio per minorenni». «Che vuol dire “minorenne”?», domanda Kabir. «Sotto i diciotto anni». «Che succede quando compi diciotto anni?» «Dicono che sei diventato un uomo». «E allora puoi dormire nel parco?». Aryan ride. «A Parigi funziona tutto alla rovescia», dice. «Tengono gli animali dentro casa, i ponti si aprono in due quando arriva un battello, e i battelli devono passare sotto le strade». Kabir si ferma a considerare tutte quelle contraddizioni. «E le luci?», dice dopo un po’. «Quali luci?» «Le luci della città. Ahmed ha detto che Parigi è una città piena di luci». Aryan si guarda intorno; vede solo le sagome scure degli alberi e i lampioni della strada ammiccare fra i rami. «Forse dobbiamo andare in centro».


Parigi, ora ricorda, è la sposa di tutte le città – un’altra delle cose dette da Ahmed. Si era figurato una ragazza in abito bianco con un ampio strascico tempestato di diamanti e cristalli. Alza gli occhi al cielo, domandandosi se Ahmed sia ancora a Istanbul, o da qualche parte più avanti o dietro di loro, lungo lo stesso cammino. «Quelle stelle... È il Grande Carro, quello che vedevamo in Iran, ricordi?». Kabir segue lo sguardo del fratello. Al di sopra degli alberi, il cielo notturno è stato cancellato dall’aura della città. Ma alla fine riesce a individuare parte della costellazione oltre il velo di caligine luminosa. «Sono le nostre stelle», dice Kabir. «Un carro per viaggiatori come noi». «Sì, proprio come noi. Solo che non abbiamo un carro». Kabir ignora il commento. «Forse Masood e Zohra lo stanno guardando in questo preciso momento, laggiù in Iran». Aryan lo ascolta distrattamente. Sta pensando al cielo in Afghanistan, alle stelle cadenti che contava sdraiato sul tetto nelle notti in cui faceva troppo


caldo per dormire in casa. «Forse stanno pensando a noi», continua Kabir. «Forse se ci concentriamo riusciamo a mandargli un messaggio». «Cosa gli diresti nel tuo messaggio?» «Gli direi dei cuccioli e che ora abbiamo dei vestiti nuovi e che presto andremo a scuola in Inghilterra». Ci sono più di cento uomini in fila per il pasto caldo che arriva su un camion bianco con una croce rossa sulle portiere. Il mezzo sosta tra il canale e la ferrovia sopraelevata, ed è pieno di scaffali di vassoi che uomini e donne distribuiscono da tavoli poggiati su cavalletti dietro a transenne. Non ci sono soltanto afghani nella fila, ma anche iracheni, iraniani, curdi e alcuni senzatetto francesi. I giovani si fanno avanti a spintoni e gli uomini del camion li rimproverano, ma alla fine ottengono un piatto caldo di pasta e tè bollente. Un adolescente afghano che era dietro a loro nella fila accompagna Aryan e Kabir al punto di ritrovo per i minorenni. Ci sono Hazara, Pashtun, Tagiki e un paio di ragazzi dall’Africa; tutti danno i loro nomi a una signora con gli occhiali, che li annota su


una lista. È la prima volta, da quando andava a scuola in Iran, che Aryan vede tanti ragazzi della sua età. Li guarda con un misto di diffidenza e di attrazione. Uno è accasciato miseramente dentro una cabina telefonica; alcuni appaiono scherzosi e rilassati; altri cercano di rendersi invisibili nascondendosi sotto i cappucci. La signora francese e un uomo mettono Aryan e Kabir con i più piccoli e con quelli più stanchi perché sono appena arrivati. Alcuni ragazzi ridono e cercano di intrufolarsi nella fila passando avanti ai compagni; così, quando i due incaricati francesi se ne accorgono, devono ricominciare a contarli di nuovo. «E quelli?», chiede Aryan, accennando a un’altra dozzina di ragazzi che vengono allontanati dopo che venticinque di loro sono stati allineati lungo un muro. L’adolescente accanto a lui scrolla le spalle. «Dovranno trovarsi un altro posto. Nel parco, o sotto i ponti, o lungo il canale». Seguono i due adulti in una fila che si snoda e si allunga a mano a mano che camminano.


Costeggiano il canale, attraversano un ponte e proseguono lungo stradine talmente strette che sul marciapiede non c’è posto per tutti. Alcuni di loro si fermano per lasciar passare i ciclisti e non si accorgono che nel frattempo il semaforo è scattato. Si raggruppano di nuovo presso una stazione della metro chiusa da una saracinesca. Aspettano che un custode venga ad alzarla, poi discendono una ripida rampa di gradini e depositano le loro scarpe in un mucchio maleodorante. «Tranquillo, non la usano più come stazione», dice l’adolescente. Una massa di capelli gli ricade pesantemente sugli occhi, così tondi che sembrano perennemente stupiti; dice di chiamarsi Jawad. «Di giorno è per i barboni, di notte per noi». Dentro la stazione della metro non ci sono finestre. Ma le luci sono forti, e sulle pareti sono state dipinte isole e foreste immaginarie. I ragazzi che non hanno mangiato ricevono un vassoio di plastica con pasta e yogurt. «Dovete sbrigarvi se volete fare la doccia», dice Jawad indicando loro la strada. Un giovane distribuisce sapone, spazzolini e pettini, e rasoi per chi ne ha già bisogno, oltre a un


assortimento di asciugamani di tutti i colori. Un ronzio di lavatrici in funzione fa da musica di sottofondo mentre ragazzi in maglietta e pantaloni da tuta aspettano di riavere indietro i loro indumenti puliti e asciutti. Un odore di disinfettante filtra da sotto una porta: la signora con gli occhiali sta medicando escoriazioni, tagli e ferite. Da una cassetta di pronto soccorso estrae due cerotti per le vesciche dietro i talloni di Kabir. Kabir ha il viso arrossato e i capelli umidi di vapore. Jawad li porta all’armadietto contenente i materassini di gommapiuma da stendere sul pavimento e i sacchi a pelo per la notte. Sdraiato sul fianco nell’oscurità, Aryan ascolta il rumore dei treni che si aggirano nei tunnel oltre la parete. In un primo tempo il loro cupo brontolio lo innervosisce, gli fa pensare ai carri armati dell’esercito, o a inquiete bestie degli inferi. Ma poi si ricorda che sono al sicuro, che il suo stomaco ha smesso di protestare, che sono al caldo e all’asciutto, e puliti. Tra il tirare su col naso e il russare dei compagni


intorno a lui, sprofonda quasi subito in un sonno pesante, turbato solo di tanto in tanto dal grido di qualche altro ragazzo. Poco dopo la mezzanotte comincia a piovere. Le prime gocce disegnano confetti neri sul grigio del marciapiede. Di lì a poco non c’è più traccia di grigio; le gocce si uniscono, si sovrappongono, poi coprono interamente la superficie e infine cercano nuovi avvallamenti da esplorare. In cima alle scale, una conca comincia a riempirsi; l’acqua si accumula pazientemente, inevitabilmente; non è ancora pronta, sta acquisendo volume, mettendo insieme le forze. La superficie della pozzanghera freme a mano a mano che il livello sale. Dietro di essa, cavità meno profonde si lasciano coinvolgere, si gonfiano e tracimano in rivoli che si infilano sotto foglie, mozziconi di sigarette e ali di falene che vengono trascinate via come trofei sottratti a un battaglione di formiche. Frugando e perlustrando, i rivoli si fondono fra loro e confluiscono in una diga che diventa più profonda dietro l’orlo del primo gradino. La massa convessa trema, esita, si trattiene un istante, poi si riversa in una cascata di acqua


pluviale che scende un gradino dopo l’altro, attraversa il pianerottolo e continua la sua corsa, finché ristagna in piccole pozze sotto le scarpe consumate di venticinque ragazzi addormentati. «Perché ci sono tanti senzatetto a Parigi?», domanda Kabir. Anche Aryan è sorpreso nel vedere tanti uomini dormire sopra le bocche d’aerazione lungo la strada. «Forse hanno perso le loro famiglie». Durante il giorno il parco si riempie di gente. Bambini che si arrampicano, si aggrovigliano, spingono, strillano e scivolano sui giochi nell’area apposita del parco. Genitori solerti che sono pronti a parare le loro cadute. Amici seduti sui plaid che espongono il viso al sole autunnale. Dalle collinette più alte, delle bambine si lasciano rotolare giù nell’erba lucente. In fondo al pendio, tra risatine irrefrenabili, aspettano che la terra smetta di girare vorticosamente e indicano le nuvole che si rincorrono nel cielo. Rumori di mischia, respiri affannati, stridore di


suole che slittano sulla ghiaia del cortile. Jawad, Aryan e Kabir, con i nasi e i polpastrelli delle dita infilati nelle maglie della recinzione di rete stanno guardando una partita di calcio a 5 tra i ragazzi afghani più grandi e un gruppo di adolescenti parigini che hanno insegnato loro le regole. Aryan segue le azioni di attacco e contrattacco con una sorta di sofferenza. I piedi smaniano, impazienti di entrare in gioco. Ma quei ragazzi sono più grandi di lui, e il gioco è troppo rapido e violento. Uno dei giocatori esce zoppicando dal cortile e va a rinfrescarsi alla fontana. Comete lucenti come vetro volano in tutte le direzioni quando scuote i capelli bagnati. Più tardi, quando il sole cala dietro gli edifici e le famiglie si sono ritirate e i giocatori stanno dando gli ultimi calci al pallone, Aryan si guarda intorno in cerca di Kabir. Ci vuole un istante per individuarlo: una figura isolata con una maglietta rossa e blu, che rotola sempre più veloce su se stessa, finché si confonde con le linee del paesaggio, e poi il terreno soffice rallenta la sua corsa, la ferma sull’erba fluorescente


che continua a girargli intorno impazzita. Due settimane dopo scendono dal treno proveniente da Parigi nella luce cupa del crepuscolo. Il vento gelido ha spinto la polizia che pattugliava la stazione a smontare dal servizio prima del previsto. I lampioni sono già accesi quando i fratelli si avviano, disorientati e smarriti, dentro la città, camminando di buon passo in senso contrario al flusso del traffico. Camminare, spera Aryan, li farà passare inosservati mentre cerca di scoprire dove andare. I negozi stanno chiudendo e i commessi si affrettano verso casa; le macchine gli sfrecciano accanto, schizzando acqua fangosa sui marciapiedi. Aryan si irrigidisce vedendo avvicinarsi una macchina della polizia e, involontariamente, serra la stretta sul polso di Kabir; il fratello sussulta e si divincola dalla morsa. La vettura li supera senza fermarsi, frantumando gli specchi d’acqua delle pozze disseminate sull’asfalto lucido. Gli afghani a Parigi hanno detto che Calais è piena di emigrati, e che uno qualsiasi di loro gli avrebbe mostrato dove andare. Ma in quella gelida città all’imbrunire non si vede nessuno che abbia un


aspetto da emigrante. «Dove sono finiti tutti quanti?», domanda Kabir. «Continuiamo a camminare», replica Aryan. Arrivano a un parco dove piccoli ammassi di neve butterati dalla pioggia si sono ritirati sotto gli alberi. Attraversata l’area verde, procedono lungo una fila di case di mattoni rossi con i tetti spruzzati di neve. Si ritrovano dietro la ferrovia. La strada curva bruscamente a sinistra; in fondo, il cancello di ferro di un cantiere edile. Aryan aiuta Kabir ad arrampicarsi e lo segue a ruota. Davanti a loro si profila una serie di vecchi capannoni; un cartello pende sbilenco da una vite sotto una delle gronde. Mentre si avvicinano alla costruzione sentono delle grida e un tramestio di piedi. All’improvviso, un pallone vola nella loro direzione dallo spazio fra due muri, rimbalzando fuori controllo tra le buche piene d’acqua. Istintivamente, Aryan lo blocca con il piede sinistro, proprio mentre il ragazzo africano più magro che abbia mai visto si precipita fuori a recuperarlo. Vedendo i due fratelli, frena slittando sul terreno. Ha un diamante all’orecchio e una maglia da calcio rossa con su scritto “Umbro”.


Con un rapido movimento, Aryan gli passa il pallone di plastica verdognola, scolorito e mezzo sgonfio. «Chi siete?», chiede l’africano con occhi diffidenti, immobilizzando la palla sotto il piede. «Siamo appena arrivati», dice Aryan. «Stiamo cercando un posto dove passare la notte». «Da dove venite?» «Afghanistan». Una voce chiama da dietro il muro. Un giocatore sbuca fuori e il ragazzo gli tira la palla ammaccata. «Be’, avete sbagliato posto. Questa non è la Giungla». Aryan è perplesso. Lo vede da solo che non ci sono alberi. «Il campo afghano è nella Giungla», continua il ragazzo. «Dall’altra parte del porto». «La giungla?» «Lo chiamano così. È il posto dove dormono gli afghani. È in mezzo alle dune. Ma in realtà ci sono solo cespugli pieni di spine, niente alberi». «Ah, Djangal!», capisce improvvisamente Aryan. Il termine farsi per “foresta”, “caos” e “confusione”. Indugia per un momento, pensando a cosa fare.


«È lontano da qui?», domanda alla fine. «Devi attraversare tutta la città». Kabir gli strattona la giacca. Ha freddo, e Aryan sa che non riuscirà a convincerlo a camminare ancora. È quasi buio, e ora che non sono più in movimento Aryan comincia a rabbrividire; i nuovi vestiti e gli indumenti di seconda mano che hanno rimediato presso una chiesa a Parigi non sono sufficienti. «Potremmo sistemarci qui, solo per questa notte?», azzarda Aryan. «Domani andiamo via, al campo afghano». Il ragazzo tentenna, fa correre lo sguardo da Aryan a Kabir. Nonostante la corporatura esile, deve avere due o tre anni più di lui, ipotizza Aryan. «Quello è un diamante vero?». Kabir ha gli occhi sgranati per lo stupore. L’africano scoppia a ridere e Aryan è sbalordito dal modo in cui la risata gli illumini tutto il volto. «Se questo è un diamante, allora state parlando con l’uomo più ricco di Calais!». Allo stesso tempo, sembra essere giunto a una conclusione. «Benvenuti a Little Africa», dice. «Quasi tutti noi dormiamo qui».


Attraversano il cortile accompagnati dal tramestio dei giocatori nella sabbia, punteggiato dai tonfi sordi del pallone che rimbalza contro il muro. L’azione si sta spostando velocemente in un turbinio di gomiti e piedi; di colpo, i due fratelli si trovano nel bel mezzo dell’azione, tra giocatori zigzaganti che passano e bloccano la palla, la infilano tra le scarpe di Aryan, la fanno rimbalzare oltre la testa di Kabir stringendoli d’assedio, finché Aryan non vede altro che una massa confusa di colori e sente soltanto il loro respiro affannoso. E poi, in modo altrettanto repentino, si allargano, si disperdono, si tuffano, esultano e gemono, mentre il tiro entra in porta tra un fusto di benzina e una cassetta di plastica blu. «Tu giochi?», gli chiede il somalo. Le partite con Omar gli sembrano ormai così lontane che potrebbe averle giocate qualcun altro al suo posto. Ma quel fugace contatto con la palla gli ha procurato un brivido di eccitazione e ha riacceso in lui il desiderio di giocare. «Giocavo sempre in attacco», risponde. «Giochiamo per scaldarci prima di andare a dormire. Potremmo farlo con un giocatore in più. E


dopo vi mostrerò dove sistemarvi per la notte». «Grazie». Aryan poggia la mano sul cuore prima di tenderla al ragazzo. «Io sono Aryan. Lui è mio fratello Kabir». «Jonah», dice il giovane africano, accettando goffamente la mano di Aryan. Poi si rivolge ai giocatori che hanno interrotto la partita per osservare la scena. «Ok, Arsenal, state in campana. Abbiamo appena acquistato Ronaldinho d’Afghanistan». La prima cosa che li colpisce è un odore rarefatto di olio di motore. Un odore che riemerge da un passato lontano e fa ricordare ad Aryan le officine meccaniche vicino alla loro casa in Afghanistan, quando Baba era ancora vivo. Il sito ha l’aria di aver ospitato nel tempo una serie di attività: una segheria, un’officina meccanica, una falegnameria. Gran parte dei macchinari sono spariti, ma il pavimento dell’immenso capannone è ancora costellato da un arcipelago di macchie d’olio. Il basamento arrugginito di un motore giace inutilizzato come un tronco reciso. I pezzi di


mobilio rimediati chissà dove sono completamente fuori luogo in quello scenario di abbandono industriale: poltrone in velour verde o marrone recuperate dai marciapiedi e sedie da cucina con le gambe traballanti, simili a materiale scenico in attesa di uno spettacolo teatrale. Su alcune sono visibili bruciature di sigaretta. In mezzo a questo salotto di fortuna, qualcuno sta cercando di ravvivare un fuoco. Lungo il lato aperto del capannone, una parete improvvisata di coperte stese fra le travi cerca di tenere fuori il vento. Jonah li guida oltre il fabbricato, fino a una costruzione più piccola con il tetto spiovente e le pareti di legno piene di fessure. Il pavimento fangoso è disseminato di bucce d’arancia e vecchi stracci e l’ambiente è saturo del tanfo di urina. Come se dovessero attraversare uno specchio d’acqua, camminano su assi di legno per evitare di affondare in mezzo ai detriti. Aryan non vede altre porte, né altre stanze; prima che abbia il tempo di fare domande, Jonah raggiunge la parete e comincia ad arrampicarsi. Intere assi orizzontali sono state divelte e usate come legna da ardere, lasciando schegge appuntite


protese nel vuoto. Le scarpe di precedenti scalatori hanno incrostato le assi di fango. Jonah sparisce attraverso un varco squadrato praticato nel soffitto e dopo pochi istanti il suo sorriso ricompare nella cornice di legno. Aryan aiuta Kabir a salire sollevandolo fino al primo appiglio, poi lo segue a ruota, abbassando la testa per evitare di sbattere contro il soffitto. Emergono in un altro mondo; Aryan si meraviglia di non averne intuito la presenza guardando da fuori. In uno spazio triangolare intersecato da travi si allungano file di materassi e coperte, sistemati in un etereo dormitorio. Ci sono mucchi di zainetti, e anorak appesi a chiodi piantati nel legno grezzo. Qualcosa si agita sotto le coperte e due visi fanno capolino; Aryan nota con stupore che sono due ragazze. Come feritoie in un bunker, strette fessure nella parete offrono una vista a strisce sul mondo esterno; l’ambiente odora di fumo di legna e di umido. Kabir spalanca gli occhi eccitato. «Possiamo dormire qui anche noi?», domanda. «C’è un posto libero», dice Jonah. «L’altro giorno sono andati via dei ragazzi. Non penso che qualcuno


userà i loro sacchi a pelo». «Grazie, ti siamo molto grati», dice Aryan. «Io vengo dalla Somalia», aggiunge Jonah. «Quasi tutti, qui, vengono dalla Somalia o dall’Eritrea. Anche il mio amico che gioca a pallone è somalo. Quelle ragazze sono della Nigeria; ce ne sono altri del Congo, del Ghana e della Guinea. Qui abbiamo rappresentanti di tutta l’Africa, come le Nazioni Unite». «Vogliono andare tutti in Inghilterra?». Jonah ride. «Non siamo venuti qui come turisti. L’Inghilterra è il mio sogno. L’Inghilterra è il sogno di tutti. Scendi dal camion e sono lì ad aspettarti per offrirti un lavoro, no problemo». Aryan sorride. Anche lui ha sentito queste storie e si domanda se siano vere. Forse gli inglesi saranno lì ad aspettarli per portarli a scuola. «Da quanto tempo siete qui?», chiede a Jonah. «Cinque settimane». Ne rimane sorpreso. «Ci sono troppi controlli. È molto difficile attraversare il porto». Aryan tira fuori un pacco di biscotti dallo zaino e li offre al somalo, ma Jonah scuote la testa.


«Ho mangiato prima al faro. Distribuiscono pasti ogni giorno. Domani vi porteremo là». Poco dopo la testa ricciuta del giovane africano scompare oltre il pavimento del sottotetto. Aryan e Kabir si dividono i biscotti, lasciandone qualcuno per l’indomani. Si passano la bottiglia d’acqua. Hanno ancora un ultimo pezzo di pane duro e del formaggio che hanno tenuto in serbo da Parigi, e a Kabir è avanzata una mela. I denti si fanno largo tra le ammaccature del frutto, trasformandolo in un asteroide bianco e verde. Dopo i due fratelli si avventurano fuori per pisciare. Risaliti nel sottotetto, Kabir sistema la sua felpa a mo’ di cuscino come gli ha insegnato Aryan, e si avvolgono nelle coperte ruvide per difendersi dal freddo. Una goccia d’acqua sulla palpebra lo fa svegliare di soprassalto. Colto dal panico, Aryan si drizza a sedere nell’oscurità; il freddo lo avvolge come la coperta che si è appena scrollato di dosso. Sopra di lui, un pezzetto di cielo notturno ammicca attraverso un buco del soffitto. Si dibatte nello


smarrimento, come un tuffatore che risale in superficie in cerca d’ossigeno. Sposta il suo giaciglio più vicino alla trave, lontano da quel gelido gocciolio. Percorre a tentoni le assi dell’impiantito finché trova il suo anorak e se lo tira sopra la testa. Si riavvolge nella coperta. Dalle ombre alle sue spalle arriva un sonoro russare; qualcuno si lamenta e si gira nel sonno. Stanno dormendo il sonno agitato dei fuggiaschi scandito da un respiro corto e affrettato, tutti tormentati da problemi di ogni sorta. Un suono proviene dall’esterno. Passi che scricchiolano sulla ghiaia, si fermano. Nel sottotetto l’inquietudine diventa palpabile mentre le orecchie si tendono, pronte a cogliere il minimo rumore. Eccolo di nuovo. Aryan ipotizza che siano almeno due le persone giù nel cortile. All’improvviso, reagendo all’unisono, i dormienti più vicini alla parete di fondo balzano in piedi e raggiungono l’apertura fra le assi che porta sul tetto della costruzione adiacente. Nel tafferuglio di spinte e imprecazioni, risuona il sibilo di un “missile” lanciato attraverso il buco nel pavimento. La bomboletta rimbalza contro le travi e atterra su una


pila di coperte. Qualcuno la allontana con un calcio, ma già sfrigola come un uccello impazzito avvolto in un vaporoso piumaggio. Quelli che non si sono svegliati in tempo si seppelliscono dentro i loro giacigli. Scalciando per liberarsi della coperta avviluppata intorno ai piedi, Aryan afferra le scarpe. Kabir lo sta già facendo. C’è un buco più piccolo accanto a quello grande, e l’ultima cosa che Aryan vede è Kabir che vi s’infila per salire sul tetto. Di colpo Aryan comincia a lacrimare. Inciampa in un sacco a pelo e crolla a terra. Gli sembra quasi che gli occhi stiano sanguinando. Trafitture di dolore, ustionanti come acido, penetrano le orbite. Cerca di sollevare le palpebre, ma una vampa di calore tossico gli brucia gli occhi. Imprecazioni e un rimbombo di passi sul tetto in fibra di vetro. Aryan respira affannosamente, il cuore gli scoppia nel petto e gli occhi sono accecati dalle lacrime. Tra le nebbie del panico, distingue il parlare smozzicato di una radio della polizia, lo scatto di una ricarica, passi pesanti che attraversano lo scalo ferroviario fino alla vecchia officina meccanica dove gli altri stanno ancora dormendo. Nel cortile esterno, grida e un tramestio di piedi in fuga.


Oltre la barriera di fuoco liquido, schegge di luce cominciano ad affacciarsi nel suo campo visivo insieme a un caleidoscopio confuso di colori. Ma c’è sabbia nei suoi occhi e l’unico modo per alleviare la sofferenza è tenerli chiusi. La testa gli pulsa dolorosamente. Gli rammenta quella volta in cui, tanto tempo prima, stava giocherellando con i peperoncini rossi nella cucina e si era strofinato i pugni sugli occhi. Allora aveva perso momentaneamente la vista e aveva urlato fino a scoperchiare le montagne finché non gli era tornata. «Prendi questa», gli bisbiglia una voce. Una bottiglia di plastica gli viene premuta sul palmo della mano. «Raccogline un po’ nella mano e spruzzala sugli occhi». L’odore pungente indugia ancora nell’aria, ma Aryan fa come gli è stato detto. Qualcuno gli toglie la bottiglia di mano e Aryan si sciacqua come meglio può. Ma più strofina, più aumenta il bruciore. I suoi occhi continuano a piangere un oceano di lacrime; l’improvvisa cecità e la paura lo fanno impazzire. «Continua a sciacquare», lo incoraggia la voce di quell’inaspettato angelo custode. «L’acqua porterà


via il gas lacrimogeno». Chiude una mano a coppa e vi immerge l’occhio destro, poi il sinistro, poi di nuovo il destro, finché il bruciore comincia a scemare. «Kabir!», tuona all’improvviso. Concentrato sul proprio dolore, si è dimenticato che il fratello non è al suo fianco. «Sono qui, Aryan». La voce è distante, oltre le travi, all’esterno. A poco a poco il mondo riaffiora – losanghe di colore, ombre, punte di luce. Mucchi dai contorni sfocati diventano zaini, triangoli diventano travi, linee verticali tornano a essere persone. Sagome arrotolate si rivelano coperte. Schizzi di luce diventano le fessure della parete dove sta filtrando il chiarore dell’alba. «Vedi qualcosa?», chiede la voce. «Quasi», dice Aryan. L’odore del gas e il retrogusto della paura gli hanno lasciato un senso di nausea. Finalmente distingue a fatica il fratello, con una bottiglia in mano e gli occhi rossi e lacrimosi. «Succede più o meno ogni giorno», dice l’angelo. Attraverso un velo di lacrime, intravede la sagoma


di un esile ragazzo somalo con il volto scarno e una massa di ricci. «Porta con te una bottiglia d’acqua quando vai a dormire. C’è un rubinetto qui a fianco. La prossima volta saprai cosa fare». Il sollievo appena provato si mischia al timore che possa realmente ripetersi. Aryan non riesce a capire: questo non è un Paese in guerra, in Europa dovrebbero essere al sicuro. «Chi ci ha attaccato?» «La polizia», risponde il ragazzo. «E perché la polizia dovrebbe attaccarci?» «Perché non ci vogliono qui». «Anche noi non vogliamo restare qui». «Nessuno lo vuole. Tutti cercano un modo per andarsene». «Allora a che serve attaccarci?». Il ragazzo si stringe nelle spalle. «Hanno una polizia speciale per tenerci sotto controllo. Ogni mese arrivano nuovi agenti, così sono sempre freschi. È così che funziona». Aryan si sente mancare il terreno sotto i piedi. Non capisce come possano essere diventati un bersaglio. Non sono soldati e non hanno armi; anzi, stanno scappando proprio da queste cose. È come se la


polizia in Francia fosse stata male informata e inviata ad attaccare il versante sbagliato della barricata. La bottiglia di plastica si deforma come vetro fuso al calore del fuoco. A mano a mano che l’acqua al suo interno si scalda, ondeggia flessuosa come una danzatrice del ventre, liberando esalazioni invisibili. Su un lato della cavernosa sala macchine, un eritreo alto e ossuto occupa la poltrona più grande – velluto verde e zampe segate – bevendo tè dall’unica tazza di porcellana. In piedi, o seduti vicino a lui su cassette e panche traballanti, gli altri si passano un contenitore di plastica con la bevanda calda da condividere. Le membra dell’eritreo sono troppo lunghe per quella poltrona – le ginocchia piegate superano il livello dei fianchi. Un berretto con visiera lascia in ombra gli zigomi spigolosi e gli occhi intensi e penetranti. C’è un’aura che lo avvolge – Aryan non sa bene dove collocarla: nella freddezza del suo sguardo, nel cauto rispetto che gli dimostrano gli altri giovani. Il cerchio si allarga via via che altri africani emergono dalle loro postazioni per la notte.


Arrivano con le mani infilate sotto le ascelle o strofinandosi gli occhi, e lavano via gli ultimi residui di gas lacrimogeno con l’acqua delle bottiglie di plastica, finalmente tranquilli dopo il risveglio allarmato all’alba. Aryan e Kabir indugiano a una certa distanza dal cerchio finché Jonah gli fa segno di avvicinarsi. Il “diamante” scintilla ancora al suo orecchio, il bordo rosso della maglietta da calcio penzola sotto un giubbotto, una felpa e due maglioni. Gli altri africani li scrutano incuriositi, poi Jonah dice qualcosa nella loro lingua e si rilassano, distanziandosi per fare un po’ di posto ai due fratelli. Aryan declina l’offerta di un posto a sedere su una cassa da imballaggio. La bottiglia danzante divide il fuoco con un tegame smaltato pieno per metà di acqua, con le bustine di tè che penzolano dal bordo. All’interno, pezzetti di cenere girano in cerchio come microscopici pesciolini; una scatola di zollette di zucchero semivuota è in attesa sul pavimento. Kabir si accovaccia a terra e gioca con del legno compensato che ha salvato dalla brace. Aryan sente le guance colorirsi al calore del fuoco e volge la schiena alle


fiamme quando il fumo piega nella sua direzione. Ripensa al fuoco nella cucina di casa, rivede sua madre che alimenta la stufa di terracotta. Poi allontana in fretta il ricordo. Uno dei somali si sporge in avanti dalla sua sedia traballante per far ascoltare a tutti la canzone pop che esce dal suo cellulare. «Bye-bye-bye», intona la voce crepitante. «Please don’t say it’s bye-byebye». I vicini si uniscono al canto in un coro sommesso, in attesa che l’acqua si decida a bollire. Accanto al tegame smaltato, la bottiglia di plastica continua lentamente a piegarsi e a torcersi, mentre le sue costole trasparenti si velano di calore. Ad Aryan pare un miracolo che si regga ancora in piedi, ma l’acqua fredda al suo interno le impedisce di ridursi in una pozza di liquido petrolchimico. Chissà se le esalazioni sono nocive, si domanda Aryan. Un giovane con un dente di pescecane appeso al collo la puntella con due bastoncini, attento a non farsi scottare dal vapore. Poi un suo amico, con una felpa bianca con cappuccio e i capelli arruffati da settimane di viaggio, la afferra con la sua maglietta e la solleva delicatamente dalla brace. Evitando i punti dove la neve gocciola dal tetto, la


portano al centro del capanno dove un tempo lavoravano i meccanici e si fermano sopra una buca nel pavimento, piena di residui di lubrificante e vecchi stracci. C’è un freddo pungente, e la conversazione si addensa nell’aria come nuvole illeggibili di un fumetto. «Prima tu», dice il ragazzo con il dente di pescecane. Di fronte al fuoco, e al cerchio di casse da imballaggio e poltrone rotte, le pareti sono orlate di coperte, zaini e scarpe. Come un attore sul palcoscenico, il giovane resta lì in maglietta, strofinando un pezzo di sapone fra le mani. Poi allunga il collo e l’amico gli versa l’acqua calda sulla testa; i riccioli si colorano di bianco come quelli di una statua greca appena la schiuma fa presa. Strofina con forza, poi l’amico sciacqua via il sapone. Alla fine, scuote i capelli come un cagnolino bagnato e li asciuga sommariamente con la maglietta. Poi restituisce il favore: a torso nudo, l’amico si china sulla buca, il dente di pescecane scintilla alla base della gola. Terminata la pulizia, i due vengono ad asciugarsi vicino al fuoco.


Dopo pochi istanti, nell’ambiente gelido dell’enorme capannone spazzato giorno e notte dal vento, un coro di risate echeggia fra le pareti di cemento e su fino alle travi gocciolanti. «Hagos, i tuoi capelli vanno a fuoco!». I ragazzi si scambiano un’occhiata e sorridono: dalle loro teste calde e umide si stanno sollevando nuvole di vapore dense come aloni di stelle. I due ragazzi saltellano qui e là agitando le mani, fingendo di spegnere fiamme invisibili sulla testa. In questa loro stanza da bagno-da letto-da pranzo piena di rifiuti e trappole per topi e grasso di macchina, continuano nella loro scherzosa pantomima, quasi spontanei, quasi spensierati, quasi adolescenti ancora per una volta, mentre il vapore si alza e i loro capelli si asciugano e la loro pelle si distende grazie all’effetto del sapone e dell’allegria. Anche Aryan si fa contagiare. Sembra che sia passata un’eternità dall’ultima volta che si è abbandonato al piacere irrefrenabile di una risata. Ride fino alle lacrime, sorpreso che gliene siano rimaste ancora, provando un senso di sollievo e di involontaria liberazione. Da quanto tempo non faceva altro che controllarsi? Kabir è scoppiato


nella sua tipica risatina, gli occhi neri e luminosi sopra le guance accese. Jonah cade quasi all’indietro dalla sua cassa da imballaggio. Per un momento Aryan dimentica la fame, la stanchezza e tutto quello che hanno passato per arrivare in questo posto, rifugiandosi come derelitti in un sottotetto dietro a uno scalo ferroviario, in un gelido inverno europeo. Dimentica i crampi allo stomaco che bucano il suo sonno e lo sfrigolio delle bombolette di gas lacrimogeno. Dimentica quanto sono lontani da casa, e quanto sono soli, e quanto si senta incapace di gestire questo viaggio senza ritorno. Si lascia pervadere dalle risate finché non si spengono da sole. Quando l’acqua comincia a bollire, uno degli africani toglie il tegame dal fuoco e versa il liquido scuro nelle tazze di plastica allungate verso di lui. Kabir siede accanto a un ragazzo con la maglietta di Bob Marley che si sta dondolando su una sedia sgangherata. Fa scivolare un pezzo di filo di ferro grosso come il manico di un secchio nel fuoco e lo lascia là, spingendolo e ruotandolo nella brace finché il metallo si accende di rosso come un’insegna al neon.


Poi, con calma, mentre gli amici sorseggiano i loro tè, lo recupera dai carboni ardenti e, con un unico movimento fluido, chiude le dita intorno al metallo rovente e lo fa scorrere via. Con la bocca spalancata per lo stupore, Kabir lo scruta in viso in cerca di un accenno di sofferenza. Il ragazzo apre la mano per esaminare il risultato. Kabir si inginocchia per vedere meglio. Una linea lucida percorre la pelle, gialla di tessuto cicatriziale. «Fa male?», domanda Kabir. Il giovane scuote la testa. «È per le impronte digitali. Così non possono rimandarmi indietro». Sotto un cielo cupo e opprimente, arrancano lungo una linea ferroviaria dismessa in direzione del porto. Jonah li precede insieme ad alcuni dei somali che Aryan aveva visto giocare a pallone la sera prima. Ha i piedi congelati ed è stordito dalla fame. I binari seguono il corso di un canale torbido e poi deviano bruscamente, correndo paralleli a una strada. Più avanti, Jonah passa sotto a una recinzione di filo spinato, e Aryan e Kabir fanno altrettanto. Sbucano sul bordo di un parcheggio stretto tra la ferrovia e il canale. Aryan vacilla. Davanti a loro,


vicino a un capanno e una fila di cassonetti verdi, sono sparse decine e decine di uomini, alcuni in coda, altri appoggiati alla recinzione, altri ancora seduti sul bordo della strada o per terra, a consumare il loro picnic fra le pozzanghere dell’asfalto rappezzato. Siedono con la schiena curva per proteggersi dal freddo, in anorak e cappelli di maglia neri – il camuffamento dei clandestini, i fantasmi della strada. «Corvi», dice Kabir. «Sembrano tanti uccelli neri». Una macchina è parcheggiata vicino al capanno, le quattro portiere aperte come ali di uno scarabeo. Gli altoparlanti interni diffondono musica tutto intorno. Ci sono africani ovunque: nell’abitacolo, sul cofano, dentro il bagagliaio, aggrappati agli sportelli. La vettura dondola sulle sospensioni al ritmo della musica. Jonah fa una deviazione per scambiare un “cinque” con loro prima di dirigersi verso la fila. Una macchina della polizia sfila lentamente in prima, occhi invisibili li osservano dietro il riflesso dei finestrini chiusi. Nessuno scappa. Aryan indietreggia: ci saranno più di trecento uomini radunati sotto la coltre di nuvole grigia


come ferro. Non aveva idea che fossero così tanti. Jonah si gira cercandoli con lo sguardo, e li localizza ai margini della folla. «Venite o non troverete più niente!». In una fila ci sono numerosi africani – nigeriani, somali ed eritrei – alternati ad afghani Pashtun, a capannelli di Tagiki e a un grosso gruppo di Hazara. Più avanti, curdi e iracheni, iraniani e pakistani, in un brusio di lingue diverse. Un giovane curdo si appoggia alle stampelle: ha una gamba amputata sotto il ginocchio. Aryan e Kabir scelgono la fila più corta. Aryan si rivolge all’uomo che si accoda dietro di loro. Ha le orecchie a sventola, un viso largo e cordiale e uno spazio fra gli incisivi. «Salaam alaikum», dice Aryan. L’uomo gli restituisce il saluto. «Siete nuovi da queste parti, eh? Altrimenti mi sarei ricordato del ragazzino». «Siamo arrivati ieri sera», risponde Aryan. «Stiamo cercando il campo afghano». «Conoscete qualcuno là?». Gli amici dell’uomo si stringono intorno per seguire lo scambio di battute. «No. Mio fratello e io abbiamo bisogno di un


posto dove stare solo per un paio di giorni, prima di andare in Inghilterra». «Solo un paio di giorni!», sghignazza l’uomo, subito imitato dai suoi amici. Aryan arrossisce imbarazzato. «Potrebbe servirvi più di qualche giorno, amico mio. Vedrete. Ma nell’attesa potete stare al Kabul Hilton». «Dove?», domanda Aryan sconcertato. «Cinque stelle», continua l’uomo. «Acqua calda, guanciali di piume. Non vorrete più andare via». Gli uomini sorridono e proseguono nello scherzo. «Colazione in camera! Come preferite le uova?», dice uno. «Lavanderia con consegna in giornata! Calzini nella busta, prego!», aggiunge un altro. «Pulizia scarpe gratuita! Basta lasciarle fuori dalla porta!». Aryan vorrebbe scomparire: altri uomini, avanti e dietro di loro nella fila, vogliono intervenire. «Televisione con cento canali, e tutti i film che volete!». «Asciugamani puliti per la piscina!». «E asciugamani caldi per il bagno!».


«E se volete visitare le bellezze del luogo, iscrivetevi ai nostri Jungle Tour!». Gli occhi neri di Kabir brillano per l’eccitazione. «Ci andiamo, Aryan?». Gli uomini ridono a più non posso. «Stanno solo scherzando, Kabir», dice al fratello. «Kabul Hilton, è così che chiamiamo la Giungla, amico», dice l’uomo con le orecchie a sventola. «È là che stanno tutti gli afghani». «C’è posto per altri due?», domanda Aryan. «Certo, amico mio. Potete venire con noi». «Perché lo chiamano la Giungla?», vuole sapere Kabir. «In realtà non è una giungla. È solo un posto desolato e pieno di rovi». Sono arrivati quasi in cima alla fila, dove si intravedono enormi calderoni fumanti. Una donna francese distribuisce couscous in vassoi di polistirolo; un’altra, le guance lucide di vapore, dispensa mestoli di brodo vegetale. Un uomo consegna loro sfoglie di quel pane inconsistente e una busta di plastica con forchette, mele, yogurt, cioccolato e, a volte, una sigaretta.


Due francesi sorvegliano gli uomini in coda, sedando baruffe, allontanando chi non rispetta la fila, impedendo che i tavoli per la distribuzione siano presi d’assedio. All’improvviso si sente un colpo d’arma da fuoco, una macchina che accelera. Un robusto iracheno si afferra la spalla e lancia un grido di dolore. Dal terreno ai suoi piedi raccoglie il proiettile di una carabina ad aria compressa. La macchina si è già dileguata. La donna che porge a Kabir il vassoio sorride, dice «Bonjour» e gli dà una tavoletta in più di cioccolata. Ha un volto spigoloso incorniciato da capelli crespi. Kabir avanza cautamente, le labbra increspate nello sforzo della concentrazione mentre tiene in equilibrio il suo vassoio di plastica. Ogni tanto lancia un’occhiata preoccupata ai piedi: i pantaloni troppo lunghi strusciano per terra. La busta di plastica appesa intorno al polso oscilla come un pendolo, acquistando velocità. Kabir si ferma e


aspetta che rallenti il suo ritmo. «Qui», dice l’uomo dalla fila, invitandoli a sedersi con lui in un piccolo cerchio sul bordo del canale. Divorano tutto, famelicamente. Il loro primo pasto caldo dopo giorni, che li riempie e li soddisfa. «Io sono Khaled», si presenta l’uomo. Si pulisce la mano sui calzoni e la tende ad Aryan. «Io sono Aryan. Lui è Kabir, mio fratello». L’uomo ritira la mano. «Tutti, qui, vogliono andare in Inghilterra?», domanda Aryan, impressionato dalla folla. «Ci provano. Come scoprirai presto, non è così facile». «Da quanto tempo siete qui?» «Nove settimane». Aryan sussulta. Da più tempo di Jonah! Sicuri che ci voleva solo qualche giorno? «Chi vi ha detto questa sciocchezza?», dice Khaled. «Il mio amico è qui da undici settimane, altri da tre mesi. È molto difficile imbarcarsi. Il porto brulica di polizia». Evidentemente questi uomini sbagliano in qualcosa, pensa Aryan. L’Inghilterra è così vicina. Trenta chilometri. L’aveva vista sulla mappa che


l’afghano con le zip gli aveva mostrato a Parigi, lungo il canale. Un uomo ai margini del cerchio è talmente concentrato su qualcosa nella sua mano che non si accorge subito che Kabir lo sta fissando. Un balenio d’argento. Kabir richiama l’attenzione di Aryan con un colpetto di gomito. Gli ci vuole un momento per rendersi conto che l’uomo sta incidendo i polpastrelli con una lametta da barba. La macchina degli africani pulsa ancora a ritmo di musica. Aryan ha perso Jonah nella folla. Si mettono in fila per il tè, che viene servito da una finestra del capanno. Le pareti esterne del fabbricato sono coperte di graffiti in tutte le lingue: arabo, pashtu, farsi, urdu, curdo, inglese e altre che Aryan non riconosce. Ci sono figure di cavalli disegnati a pennarello. Nomi. Messaggi criptici scritti in inchiostro blu. Un modo per non dimenticare: una bacheca di avvisi per quelli che verranno dopo. Il tè è bollente, scuro e dolce. Afferrano le tazze sottili per il bordo e soffiano sulla bevanda, attenti a non scottarsi le dita.


Aryan cerca qualcosa scritto nella sua lingua sulle pareti del capanno. Alla fine lo trova. «Mai mai mai arrendersi», legge, in caratteri rossi indelebili. Kabir trotterella dietro a Khaled. Aryan li segue cercando di individuare punti di riferimento per memorizzare il percorso. La città è un labirinto. Strade senza sbocco. Autostrade che girano tutto attorno, tornano indietro, si intersecano, volano sopra i ponti, inanellano isole spartitraffico, corrono parallele eppure inaccessibili l’una all’altra dietro barriere di filo spinato. Nei pressi del porto, i camion passano rombando in tutte le direzioni, in una coreografia di colori primari. «Quelli gialli sono i miei preferiti», dice Kabir. «Perché?», chiede Aryan. «Il giallo mi dà allegria. È il colore del sole». «Pensavo che questa settimana il tuo colore preferito fosse il rosso, per via della maglietta di Jonah». «Sì, mi piace anche il rosso. Credo che mi


piacciano tutti e due», conclude Kabir. Aryan ride. «Forse dovresti sull’arancione».

ripiegare

Si fermano al limitare del porto e sbirciano attraverso la recinzione. Vedono rampe, gru e uffici prefabbricati impilati uno sull’altro come mattoncini Lego. Nell’area di parcheggio, lunghe file di camion in attesa. Gli autisti si riuniscono a fumare in mezzo agli autoarticolati, aspettando che un uomo in giacca fluorescente faccia loro cenno di avanzare con i veicoli. I traghetti ingollano camion in lenta processione riempiendosi le viscere di cubi colorati. Al bordo dell’ultima zona di parcheggio l’asfalto cede il posto alla sabbia. Al di là della doppia carreggiata di un’autostrada, ciminiere di cemento e acciaio di una fabbrica svettano sulla piana industriale. La ciminiera più grossa è a strisce bianche e rosse come una gigantesca insegna da barbiere. Sul fianco, scritto a lettere cubitali, si legge: TIOXIDE. «Prodotti chimici. Statene alla larga», dice Khaled.


Li guida lungo uno stretto sentiero fra cespugli ad altezza uomo. Con la testa china per evitare i rovi che si impigliano nei vestiti, avanzano lungo piste tortuose e sbucano in una piccola radura. Al centro, i resti di un falò. Lungo il perimetro sono allineate tre baracche realizzate con casse da imballaggio, simili a igloo incurvati sotto un tetto di coperte pastello. Il posto è disseminato di rifiuti: carta fradicia, frutta marcia e bottiglie di plastica decorano il sottobosco. Una vecchia maglietta e una scarpa scompagnata giacciono abbandonate nella polvere; qualcuno ha drappeggiato un paio di pantaloni su un cespuglio con la speranza che si asciughino all’aria umida e salmastra. Aryan nota l’apparizione fugace di un ratto. «Questa è vuota», dice Khaled indicando una delle baracche. «Avrebbe bisogno di un restauro, ma per ora non la usa nessuno». «Grazie», replica Aryan. «Come dicevamo, ecco il Kabul Hilton», aggiunge Khaled. Ma Kabir è già entrato in perlustrazione. Si lascia sfuggire uno strillo eccitato. «Guarda, Aryan!».


Emerge dal retro della costruzione, in ginocchio, con un oggetto voluminoso fra le mani. Lo solleva verso il cielo. È una gabbia e, all’interno, c’è un canarino, una mangiatoia con i semi e un trespolo ad altalena. «Non toccarlo, Kabir. Sarà pieno di germi», lo mette in guardia Aryan. Ma Kabir ha già infilato la mano dentro la gabbia e sta accarezzando le piume gialle, le ali chiazzate. «Gli batte il cuore!», esclama Kabir. «Di solito è un buon segno», commenta Khaled. Aryan ricorda i piccioni viaggiatori che il nonno allevava sul tetto della loro casa in Afghanistan, il loro volare in cerchio sopra la città cotta dal sole, le ali bianche sullo sfondo di pietra delle montagne quando la calura abbandonava il giorno. Il vecchio dava briciole di pane a uno dei volatili trattenendogli le zampe fra le dita, così da indurlo a sbattere le ali e farsi sentire dal resto dello stormo, non importa in quale punto o a quale altezza stesse volando sopra la valle. In un candido frullare e sbattere di ali che all’inizio riusciva a intimorire Aryan, i piccioni confluivano verso la base atterrando in un turbinio di becchi e piume, bizzarri


occhi arancioni e artigli. Li ricorda da prima che Kabir nascesse, prima che andassero in Iran, prima che non avessero più piccioni. «Tranquillo, non può volare», dice Khaled. «Qualcuno gli ha rubato le penne della coda, forse la polizia». Kabir sta rovistando tra i rifiuti con la punta della scarpa, in cerca di un recipiente per metterci l’acqua. Fischia al canarino attraverso le sbarre della gabbia. «Ha perso anche la voce», dice Khaled. «Ma puoi tenerlo, se vuoi. Magari riesci a fargli ricordare qualche motivetto». Khaled ha scansato i resti inceneriti e sta costruendo una piccola piramide di carta e ramoscelli per accendere un altro falò. «Sono riusciti ad arrivare in Inghilterra?», domanda Aryan. «Chi?», dice Khaled. «Quelli che hanno dormito qui prima di noi, che hanno lasciato il canarino». «Sì, anche se ci hanno messo alcune settimane». «Quante?» «Non le ho contate. Ma saranno state cinque o sei».


Sei settimane. Aryan ingoia il boccone amaro. Chissà quanto durerà ancora il denaro che gli è rimasto, quanto gliene servirà ancora. «Altri ci hanno messo di più». «Come sapete che sono arrivati oltremanica?» «Lo sappiamo perché ce l’ha detto Idris». «Chi è Idris?». Khaled ride. «Tutti conoscono Idris. Lo incontrerai abbastanza presto. È il tipo che organizza i camion. Sa tutto quel che succede. Le persone gli telefonano quando arrivano dall’altra parte. Oppure telefonano ai loro amici e loro glielo riferiscono. Non puoi andare da nessuna parte senza di lui. A volte nemmeno a pisciare». Sono dentro la baracca. Kabir si è rannicchiato vicino al fratello in cerca di calore. Ha un lieve odore di sudore e di aria salmastra. Le coperte puzzano di muffa e di sporcizia. Aryan ripensa alle pulci e ai loro morsi in Grecia, ricorda l’amarezza provata allora. «Prendiamo una colla superpotente?», dice Kabir dopo un po’. Aryan si chiede se ha sentito bene. «Colla


superpotente?» «Per nascondere le nostre impronte digitali. Khaled ha detto che possiamo prenderla al negozio». «Non c’è bisogno di nascondere le nostre impronte digitali, non ce le hanno mai prese». «Ma se la polizia francese ci arresta, Khaled dice che ci prenderà le impronte. Dice che ci rimanderanno qui se ci trovano in Inghilterra». «Ne parliamo domani. Adesso cerca di dormire, Kabir». Kabir resta in silenzio per un po’. Poi: «Aryan?» «Cosa c’è, Kabir?» «Hai sentito quel rumore?» «Quale rumore?» «Un fruscio. Come se ci fosse qualcuno fra i cespugli». «No, te lo sei immaginato. Dormi». «Ci sono i fantasmi là fuori, Aryan». «Chi l’ha detto?» «Gli afghani intorno al fuoco. Ne stavano parlando alcuni ragazzi». «Be’, dovevi tapparti le orecchie. Cercavano solo di spaventarti». «Hanno detto che ci sono fantasmi assassini che


escono fuori di notte armati di coltelli. Un uomo è stato assalito». «Più probabile che fosse finito in una rissa», replica Aryan. «Quei fantasmi sono solo nelle loro teste». «Hanno detto che c’era un sacco di sangue. I fantasmi erano sporchi e con i capelli arruffati. Hanno detto che erano i custodi della Giungla e avevano sguainato i coltelli dicendo che si sarebbero vendicati sugli intrusi, chiunque essi fossero». Aryan rabbrividisce. I fantasmi di Kabir gli ricordano quelli che lo terrorizzavano quando era bambino: creature maleodoranti con barbe incolte che facevano piovere sassi dai fianchi delle montagne, sorvegliando il valico dietro il villaggio natale di Baba. I suoi primi ricordi legati alla paura. Allontana subito il pensiero. «Kabir, sono solo storie. Un’invenzione dei trafficanti per difendere il loro territorio». «Ho paura, Aryan». «Perché dovresti aver paura dei fantasmi? Sei stato coraggioso quando abbiamo attraversato il fiume al confine con la Grecia. Sei stato coraggioso quando siamo scappati dalla fattoria. Sei stato coraggioso


quando abbiamo attraversato le montagne con i cavalieri curdi. Non dirmi che adesso ti fai spaventare da una storia inventata da un gruppetto di ragazzi». «A volte penso a quell’uomo alla fattoria. Forse sta venendo a prendermi». Aryan resta senza fiato. «Quell’uomo è molto lontano da qui, Kabir. Qui non riuscirà a trovarti, anche se sapesse che sei qui. E non lo sa. Anche se fosse là fuori a cercarti. E non c’è». «Come fai a saperlo? Magari è arrabbiato con noi perché siamo scappati». «Siamo noi che dovremmo essere arrabbiati con loro. Non ci hanno pagato, ricorda. E non ci hanno aiutato ad arrivare in Italia come avevano promesso». «Potrebbe venire con il suo camion». «Anche se lo facesse, avrebbe di meglio da fare che cercare te». «Magari vuole riportarci indietro». «Probabilmente avranno preso altri ragazzi a lavorare al nostro posto. Hai paura solo perché c’è buio. Scommetto che di giorno non hai paura». «A volte sì. A volte mi sembra di vederlo».


«Vederlo? Dove?» «In città. Vicino al faro dove ci hanno dato da mangiare. A volte vicino alla Giungla». Solo adesso Aryan si accorge che Kabir sta tremando. «È la tua immaginazione, Kabir. Quell’uomo non è qui, credimi. Si trova a miglia di distanza. La prossima volta che pensi di averlo visto, dimmelo, e ti dimostrerò che ti sbagli, te lo giuro. E la prossima volta che senti storie di fantasmi, tappati le orecchie. Così». Kabir non dice niente. «Pensi che riusciremo a dormire, adesso?», dice Aryan. «Non lo so». «Ricordi le parole inglesi che ti ho insegnato?» «Qualcuna». «E i numeri?» «Sì, quelli me li ricordo». «Allora conta fino a venti in inglese e poi ricomincia daccapo. Baba diceva sempre che non puoi contare e aver paura allo stesso tempo». Qualcosa lo sveglia di colpo.


Pietrificato, Aryan scruta l’oscurità con occhi che si rifiutano di vedere. Non riesce a identificare il rumore che lo ha strappato all’incoscienza del sonno. Alza la testa, tutti i sensi allertati. Sente il respiro regolare di Kabir provenire da qualche parte accanto a lui, sotto le coperte pesanti ma non calde. Il tanfo stantio di calzini e biancheria sporca gli riempie le narici; una luce pallida snellisce i fianchi della baracca filtrando attraverso le fessure del laminato di plastica. In alto domina il buio: le coperte che fanno da tetto hanno chiuso fuori il cielo. In lontananza, il rumore del mare. Cambia leggermente posizione, allentando la pressione delle assi di legno contro le ossa, le orecchie sempre tese. D’un tratto, eccolo di nuovo: il crepitio di una radio a onde corte. Rapido come la lama di luce di un fulmine, il rumore lo riporta nella casa in Afghanistan, dove il suono di voci elettroniche era il preludio del pericolo. Un sapore amaro gli riempie la bocca e un pensiero irrazionale gli attraversa la mente: scappa. Aryan afferra Kabir, gli preme la mano sulla bocca e gli sussurra in un orecchio: «Prendi le scarpe». Kabir scatta come un coltello a serramanico.


Striscia fuori da sotto le coperte senza un grido né un lamento. Aryan cerca a tastoni le scarpe nel buio della baracca, le infila e si gira verso Kabir, che sta frugando in mezzo al groviglio di coperte. «Non le trovo». C’è una punta di panico nella sua voce. Aryan rovista sotto le pile di plaid buttati dentro la baracca da altri che vi hanno trovato rifugio prima di loro; le scarpe di Kabir non si trovano da nessuna parte. «Monta sulla mia schiena», gli dice. Sente il crepitio della radio che si avvicina – poi un grido appena la polizia raggiunge un’altra baracca fra i cespugli di rovi e gli uomini sorpresi a dormire cominciano a protestare. Kabir si aggrappa al collo del fratello e Aryan gli passa le braccia sotto le ginocchia. «Tieni bassa la testa», dice Aryan sgusciando fuori nell’aria tersa della notte. «Ehi, tu!», sbraita una voce in inglese. «Fermo! Polizia!». Aryan si dà alla fuga. C’è un rumore di colpi di lama alle sue spalle, come se qualcuno stesse falciando la vegetazione. Aryan non sa se quell’intimazione fosse rivolta a


loro o a qualcun altro. Poi un’altra voce, che sembra provenire dalla baracca accanto alla loro. «Ne ho preso uno! Qui, presto!». C’è una sola via d’uscita in mezzo ai cespugli spinosi e Aryan la prende. I rami gli lacerano la faccia e la maglia mentre si lancia nel groviglio, mezzo strangolato dal bambino appeso al collo, lungo il viottolo di sabbia che procede a zigzag come le tracce di un coniglio in mezzo al dedalo di rovi. «Chiudi gli occhi», raccomanda al fratello, continuando ad avanzare piegato in due, artigliato dai rami sporgenti. La luce nel cielo che precede l’alba è appena sufficiente per scorgere la pista. Nel punto in cui si biforca, Aryan imbocca il tratto che porta lontano dal parcheggio dei camion, lontano dal porto, scendendo tra le dune spinose fino al mare. I suoi piedi lasciano impronte asciutte nella crosta umida della sabbia. Il cuore gli batte all’impazzata; il respiro di Kabir è caldo sulla sua nuca, le sue braccia gli premono sulla trachea. Aryan le afferra, lasciando che le proprie gambe lavorino sotto di lui,


sotto il peso frenante di Kabir. Il torace si solleva faticosamente nello sforzo a mano a mano che i piedi affondano nella sabbia sempre più profonda. Dietro di loro risuonano grida e un abbaiare di cani, mentre uomini esausti dopo una notte di vani tentativi di nascondersi sui camion vengono strappati a forza da un sonno leggero e agitato. Quando raggiungono il bordo delle dune, il vento che precede il sorgere del sole li colpisce in piena faccia. Aryan gira la testa di lato mettendosi in ascolto: niente cani della polizia, niente passi pesanti di militari. A quanto pare, nessuno gli sta dando la caccia. Posa Kabir sulla sabbia e gli afferra subito il polso. «Andiamo», ansima con aria sofferente. «Più ci allontaniamo e più saremo al sicuro». «Fa freddo», dice Kabir, i calzini immersi nella sabbia. Il vento che soffia dal mare li investe in pieno. «Continua a camminare, Uomo Ragno, così non te ne accorgerai». Percorsi pochi metri intorno alla base di una duna, Aryan si lascia cadere a terra e aspetta che il battito impazzito del cuore si plachi.


Dopo un po’ si gira a guardare Kabir. «Tutto ok?», gli chiede. Un filo di perle di sangue gli adorna un graffio sopra l’occhio. «Sì, ok». Siedono in silenzio. Kabir scava crateri lunari nella sabbia, spazzando via la superficie umida fino a raggiungere lo strato asciutto sottostante. “Quand’è che Kabir smetterà di essere un bambino?”, si chiede Aryan. Non è solo il fatto che il fratello stia diventando troppo pesante per lui, o che la sua voce stia cominciando a cambiare. Sono cresciuti entrambi durante il cammino. Ma ha la sensazione che siano in viaggio da sempre. E ora che l’Inghilterra è improvvisamente a portata di mano, si accorge di quanto poco sappia, di quanto poco riesca persino a immaginare della vita che li aspetta al loro arrivo. Si tira su a sedere. Il vento gli sferza i capelli, di nuovo lunghi e folti dopo l’ultimo taglio. Ma la moglie di Rahim è a Roma. «Guarda laggiù», dice. «Quella è l’Inghilterra».


La notte è stata limpida e l’alba inizia a sfumare di rosa l’orizzonte. Una nave cisterna scivola tra le boe di segnalazione e i primi traghetti si avvicinano, rincorrendosi e separandosi su un mare di alluminio. Una stringa di luci ammicca sulla riva opposta, sopra il profilo diafano della scogliera. «Non sembra tanto lontana», dice Kabir. «Lo so. Ma è più lontana di quanto sembri». Pensa a tutta la strada che hanno percorso, a come sia strano che la parte più difficile del loro viaggio debba arrivare proprio alla fine. «Dicono che la polizia inglese non porti la pistola», dice Aryan. Kabir prova a immaginare come potrebbe essere. «Forse non ci sono delinquenti», dice alla fine. «O forse la polizia è più furba di loro». Ciuffi di alghe lambiscono la spiaggia, frusciando e aggrovigliandosi con frammenti di legno e pezzi randagi di corda portati dalla corrente. Una bottiglia di plastica rotola in cerchi ossessivi. Kabir si ripara gli occhi dalla sabbia. «Perché la polizia è venuta al campo?», domanda. «Perché non ci vogliono qui». «Anche noi non vogliamo restare qui», replica


Kabir. «Dovrebbero lasciarci salire sulla nave». «Lo puoi fare se hai un passaporto, un visto e un biglietto», dice Aryan. «Perché non li prendiamo?» «Magari potessimo». Uno stormo di gabbiani scorta il traghetto della SeaFrance in mare aperto. «Quanto tempo ci vorrà per arrivare in Inghilterra?», chiede Kabir. «Non lo so. Dobbiamo capire come funziona. Dopo di che, ci servirà solo un po’ di fortuna». Aryan è disteso sulla sabbia. Ne sente la consistenza fredda e granulosa incanalarsi sotto la maglietta e riempirgli le scarpe, ma è troppo stanco per preoccuparsene. È già abbastanza faticoso arrivare alla fine di ogni giornata insieme a Kabir. Alza lo sguardo alle stelle che stanno sbiadendo nel pallore dell’alba e pensa a quelle del Paese dove è nato, spettatrici inerti di tanta sofferta conflittualità, e si chiede per quanto tempo dovranno sopportare questo stato di incertezza, sospesi tra un passato che non può più tornare e un futuro che stenta ancora a dischiudersi.


«Hamid!». Lo strillo acuto di Kabir fa girare di scatto metà degli uomini in coda. Con tutta l’energia delle sue gambette percorre la fila come un bolide, rischiando di inciampare nei lacci e nell’orlo svolazzante dei jeans, e si schianta contro le costole di Hamid con tutta la forza d’impatto dei suoi otto anni. Sta cadendo una pioggia sferzante e si è fatto buio. Uomini affamati sotto cinque strati di vestiti, curvi dentro i loro anorak, nascondono i volti cupi sotto i cappucci come frati che sperano in un’elemosina. «Hamid! Sei qui!». Incredulo, Hamid stacca a fatica le piccole braccia avvinghiate alle sue gambe. «Kabir!», esclama, barcollando indietro e ridendo di gioia. «Dov’è Aryan? Siete tutti e due qui?». Ma Aryan sta già abbracciando l’amico. Sono passati otto mesi dall’ultima volta che l’ha visto, nel cassone di quel camion che li aveva scaricati alla fattoria in Grecia. Sente tutto il suo corpo aprirsi in un sorriso, non importa se hanno perso il posto nella fila. «Sei proprio tu!», esulta Aryan, passando il braccio intorno alle spalle di Hamid nel loro consueto gesto


d’amicizia. Kabir è così eccitato che comincia a saltellare sotto la pioggia. Hamid non è cambiato – forse il volto un po’ tirato, qualche ruga di stanchezza intorno agli occhi. Eppure, c’è qualcosa di diverso in lui, pensa Aryan. Qualcosa di inafferrabile, una sorta di inquietudine che lo fa sembrare più vecchio dei suoi quindici anni. Ma poi, pensa, anche lui deve essere cambiato. Con tutto quello che hanno passato... Nel rifugio di Aryan e Kabir, con la pioggia che batte sulla plastica come un’orchestra di tamburi, si avvolgono nelle coperte pesanti e si raccontano le ultime peripezie. In un angolo, il canarino ascolta di nascosto la conversazione stringendosi nel suo cappotto rigonfio di piume. Sono quattro settimane che Hamid è arrivato a Calais e ha sempre cercato di salire su uno di quei camion. «È impossibile», dice. «Se sei solo non c’è nessuno a chiudere gli sportelli dietro di te, così


devi andare con un amico. Ma nessuno è disposto a rimanere. Non c’è modo di andarsene se non con un trafficante di uomini, e anche in quel caso non hai alcuna certezza. Un sacco di gente ci ha rinunciato e cerca di spostarsi più a nord». «A nord?», dice Aryan. «Provano a imbarcarsi dal Belgio, oppure rinunciano definitivamente all’Inghilterra e puntano alla Svezia, alla Norvegia o alla Danimarca. Lassù insieme ai vichinghi, con tutta quella neve». «E tu? Vuoi ancora andare in Inghilterra?», gli chiede Aryan. «L’intenzione è questa. L’inglese è l’unica lingua che conosco in Europa. In più, lì ho un cugino che mi aiuterà. Ma se passa altro tempo, sarò troppo vecchio per andare a scuola». Kabir vuole sapere tutto quello che è successo a Hamid da quando l’hanno sentito battere i pugni contro le pareti del camion. «È una lunga storia». «Non ti preoccupare. Il tempo non ci manca», dice Aryan. Siedono nella semioscurità a gambe incrociate, le


ginocchia che si toccano, tre piramidi scure di coperte. «Siamo rimasti in tredici nel cassone dopo che il camion ha scaricato voi due», comincia Hamid. «Abbiamo viaggiato per ore, e alla fine l’autista ci ha abbandonato molto lontano da Patrasso, nel bel mezzo della notte. Abbiamo camminato per miglia prima di trovare il campo». Descrive le scene che ricorda: uomini che si stagliano contro il bagliore dei falò, o che ravvivano la brace in un’alba fumosa per cuocere sfoglie di pane sopra vecchie latte di benzina. Gli mostra i segni che porta sul corpo: le tacche dei colpi di manganello; i lividi sulle costole, dove la polizia l’ha preso a calci; i denti scheggiati quando è caduto da un camion lungo la strada. Ricorda l’onda di shock che aveva spazzato il campo quando un afghano che conosceva di vista era rimasto schiacciato sotto le ruote di un camion. Per due volte era arrivato in Italia, pagandosi il viaggio lavorando come apri-sportelli per un trafficante, e per due volte gli italiani lo avevano rispedito in Grecia sullo stesso traghetto. Durante la seconda traversata il traghetto aveva avuto un


guasto, e lui era rimasto bloccato in mare per tre giorni, nascosto dentro un armadio nel retro di un camion per traslochi. Aveva dovuto massaggiarsi le gambe per due ore prima di riuscire di nuovo a camminare. «C’era una voce che continuava a girare nel campo – e più le cose si complicavano, più questa voce faceva presa – che il Canada avrebbe inviato una grossa nave a portare in salvo tutti noi afghani», prosegue Hamid. «Alcuni ci hanno creduto. Anch’io, all’inizio. Pensate, una nave grossa come l’arca di Noè che ci porta tutti in Canada! Ci sono voluti secoli perché si rendessero conto che non sarebbe mai arrivata nessuna nave». I camion erano diventati un’ossessione per tutti. «Non potete immaginare come eravamo diventati esperti», dice Hamid. Aveva imparato a distinguere i camion che andavano in Italia da quelli diretti in Africa. Aveva capito che i mezzi per il trasporto a lunga distanza erano sempre gli ultimi ad attraversare il porto. La seconda volta che gli italiani lo avevano rispedito indietro si era fatto prendere dalla disperazione. I greci gli avevano preso le impronte


digitali e rubato il denaro, dopo lo avevano chiuso in prigione con un centinaio di uomini per quarantasette giorni. Poi, una notte, lo avevano riportato al fiume Evros. «Pensavamo che volessero farci annegare e gettare i nostri corpi nella corrente», dice Hamid. Invece, una dozzina di loro erano stati sistemati su un’imbarcazione e spinti dall’altra parte del fiume, in Turchia. Era sopravvissuto mangiando muschio, corteccia d’albero e l’ultimo riso d’annata, rubato alle risaie lungo il corso d’acqua. Era tornato a casa dei trafficanti e aveva discusso con il padre del ragazzo disabile finché non aveva acconsentito a riportarlo in Grecia. Questa volta aveva evitato completamente Patrasso. Aveva colto frutta, poi aveva perso tempo ad Atene, e infine era riuscito ad attraversare l’Europa aggrappato al telaio dei camion. Mangiava nei chioschi delle stazioni di servizio e cercava sempre di puntare a ovest. «Non so in quali Paesi sono stato, e ho perso il conto dei giorni», dice Hamid. Aveva percorso gallerie, scavalcato montagne, disceso carreggiate di


autostrade senza fine, con gli occhi lacrimanti tra gli schizzi di brecciolino e dita così precarie che aveva temuto di cadere e morire come un cane lungo la strada, investito da uno degli autoarticolati che viaggiavano nella sua scia. Disorientato e tormentato dai crampi, aveva raggiunto una città chiamata Lione e si era chiuso a chiave dentro il gabinetto di un treno finché il convoglio non si era fermato alla stazione di Parigi. «Là ho trovato gli altri afghani, ho dormito lungo il canale e a volte nel parco, a volte sotto i ponti e altre nel dormitorio per minorenni dentro una stazione della metro». «Ci siamo stati anche noi!», esclama Kabir. «C’erano disegni sulle pareti e vibrava tutto quando passavano i treni negli altri tunnel». «Sì, è quello il posto», conferma Hamid. Alcuni degli afghani che aveva conosciuto a Parigi avevano insistito perché prendesse l’autobus per andare in Svezia insieme a loro, o per proseguire verso la Finlandia, ma la sua meta finale era sempre l’Inghilterra. Si era imbattuto in quattro ragazzi accampati lungo il canale, ed erano venuti insieme a Calais.


«Siamo arrivati da quattro settimane, ma qui è peggio di Patrasso», dice. «Nessun posto mi ha dato del filo da torcere come questo». «Cos’è che te lo fa dire?», chiede allarmato Aryan. «Te ne accorgerai», risponde Hamid. «È quasi impossibile uscirne. Calais è una prigione con mura invisibili». «C’è chi scava un tunnel per scappare di prigione», osserva Aryan. «Che mi dici del tunnel sotto il mare?» «Tutti dicono che è troppo difficile. Alcuni hanno provato a superare le recinzioni portandosi dietro un paio di tenaglie, e dopo cinque minuti la polizia li aveva già circondati». «Non capisco come ragionano, qui», dice Aryan. «Noi non vogliamo restare in Francia, allora perché i francesi non ci lasciano partire?» «E chi lo sa? Forse hanno fatto un accordo con l’Inghilterra. Forse gli inglesi hanno detto ai francesi di tenerci alla larga». «Ma gli inglesi hanno inviato soldati insieme agli americani. Sanno com’è in Afghanistan», ribatte Aryan. «Sono brava gente e tutti sanno che rispettano i diritti umani».


Hamid si stringe nelle spalle. «Prova a dirlo alla polizia francese». Il silenzio ristagna fra i tre ragazzi, ognuno assorto nei propri pensieri. «Sarà meglio che torni con voi», dice Hamid dopo un po’. «Divido una baracca con Farzad – un Tagiko che ho conosciuto a Parigi – ma questa settimana verrà un suo conoscente da Patrasso. Magari quando arriva potrei trasferirmi da voi». Aryan gli sorride nell’oscurità della baracca. Con Hamid nei paraggi, è sicuro che troveranno un modo per traversare la Manica. Per oggi, è già stato abbastanza aver ritrovato il suo amico. «Che ne dici, Kabir?», dice Aryan. «Lo ospitiamo?» «Aspetta un momento. Devo chiederlo prima al canarino». A mezzanotte arrivano i trafficanti. Affluenti di uomini confluiscono nella loro scia. Insieme, tessono vie di fuga attraverso cespugli di rovi e sotto raccordi stradali a quadrifoglio, le loro ombre schiarite dal bagliore aranciato delle luci della città.


Con passo felpato, vestiti di nero, scivolano tra gli autoarticolati addormentati, schierati come carri armati nell’area di parcheggio che delimita il campo, il porto e il mare. I loro volti scompaiono nei cappucci degli anorak; come uccelli appollaiati nella notte, si annidano all’ombra dei giganteschi pneumatici. Più avanti, il trafficante saggia i sigilli e i lucchetti. Se non cedono, passa al veicolo successivo e poi a quello dopo. Alla fine sale su una ruota e sbircia dentro la cabina, scorrendo rapidamente il cruscotto in cerca di destinazioni memorizzate e indizi rivelatori del percorso. Poi si precipita sul retro del mezzo. Con carico a bordo, è diretto in Inghilterra. Armeggia con un temperino intorno al sigillo di plastica dura e apre gli sportelli. Si arrampicano velocemente dentro il camion, con il cuore che rimbomba nelle orecchie. Ci siamo. Ci siamo. Tutti sono spaventati. Alcuni tesi, altri calmi, alcuni inciampano e perdono l’equilibrio, altri sono disperati, altri ancora quasi paralizzati dalla paura. Alcuni traggono coraggio dal pericolo. Altri imprecano, spintonano o sono nauseati dai pericoli


della notte: violenza, claustrofobia, polizia. Alcuni sono assillati dai demoni che si portano dietro, debiti complicati legati alla terra, alle loro sorelle o alle loro case. Altri hanno paura di soffocare, o che i loro cuori martellanti si bloccheranno o cederanno o tradiranno la loro presenza; altri ancora temono le percosse degli autisti o della polizia. Nella grande lotteria dei loro viaggi sono tutti dei sopravvissuti, ma questa sera solo alcuni di loro saranno vincitori. Per gli altri, un’alba desolata consegnerà loro il magro premio di consolazione del fallimento: furgoni della polizia che scaricano nuovi candidati alla detenzione; database che scorrono un milione di impronte digitali in cerca di una corrispondenza; clandestini della notte che scoprono con disappunto di essere ancora qui, ancora prigionieri, ancora oppressi sotto il cielo plumbeo di Calais. «Le notti a metà della settimana sono le migliori», sta dicendo l’uomo. Non c’è il sole, ma gli occhi sono nascosti dietro lenti a specchio, nelle quali Aryan riesce a vedere solo una versione di sé in miniatura su uno sfondo di nera lucentezza. «Martedì, mercoledì, giovedì. Sono i giorni di


maggiore movimento qui al porto, e le vostre probabilità di riuscita aumentano». Nessuno conosce il suo vero nome. Tutti gli afghani lo chiamano Idris, ma nessuno si rivolge a lui chiamandolo in quel modo. Indossa sempre gli stessi indumenti – l’unico uomo in pantaloni bianchi di fustagno e stivali di pelle che lo distinguono sia dagli afghani a cui gira costantemente intorno, sia dai trafficanti che li guidano ai camion. Adesso Idris ha persone che lavorano per lui. Alcuni dicono che sia del Marocco, per altri è un curdo; parla il pashtu e il farsi, così come l’arabo e la lingua dei curdi. All’imbrunire emerge nessuno sa da dove e gira per gli accampamenti svolgendo una sorta di campagna di reclutamento, ingraziandosi i nuovi arrivati, segnando il proprio territorio, inducendoli cordialmente ad arruolarsi. Fatto questo, diventano una sua proprietà, membri del suo clan. Se da una parte gli afghani lo rispettano, dall’altra si tengono a distanza da lui; è sempre Idris che appare improvvisamente in mezzo a loro, gioviale ma velatamente minaccioso, registrando ogni loro mossa con occhio attento. Non è tanto


l’abbronzatura perenne a renderlo diverso dagli altri, quanto la sua millanteria; e non è tanto il rubino che porta al dito a evocare il suo potere, quanto gli indumenti miracolosamente lavati e stirati, e gli stivali con il tacco cubano provano che non ha mai avuto bisogno di correre. In sua presenza Aryan si sente sporco e impacciato, come fosse una merce di qualità inferiore. «Potete anche tentare la fortuna sui camion coperti, ma dovete sapere che è più rischioso ora che hanno raddoppiato i detector», sta dicendo Idris. C’è un mormorio tra gli uomini radunati sotto il faro scrostato che Aryan considera con un misto di affetto e di diffidenza: un punto di riferimento ma anche una camera d’eco che trattiene i loro segreti tra le spire dei suoi gradini. Alcuni restano in silenzio, immagazzinando le ultime notizie per discuterle più tardi in privato con gli esperti che sono qui da più tempo e sanno come funzionano le cose. «È pura e semplice matematica», continua Idris. «Potete arrivarci da soli. Raddoppiare il numero dei detector significa raddoppiare le probabilità di essere acciuffati, e raddoppiare il tempo che


resterete bloccati qui pregando che stasera sia la vostra sera fortunata». Nessuno gli chiede dove prenda le informazioni circa i meccanismi interni dei controlli portuali. Ascoltano il ragionamento logico, ma è sulla fiducia che devono accettare per vera la notizia. «Naturalmente esiste sempre un altro modo», dice Idris, strofinando il suo anello con rubino come se fosse un portafortuna. Una piccola folla si è stretta intorno a lui. «Esiste sempre l’opzione garantita. Dipende solo da quanto siete disposti ad aspettare». Aryan è stato nel porto quanto basta per sapere cosa significhi; l’ha sempre accantonata come impraticabile. Ma alcuni uomini, stressati dai ripetuti tentativi falliti, dai debiti che loro o le loro famiglie hanno accumulato, o dalle richieste di aiuto dei familiari, cominciano ad ascoltare con interesse. Aryan ordina ai suoi piedi di camminare, ma un senso di apatia lo àncora sul posto. «Ma quanto può fare freddo lì dentro?», domanda un uomo con le guance incavate e gli occhi infossati. «Già, quanto dovremmo restare chiusi lì dentro?»,


chiede un altro, con la testa così sottile sotto il berretto di lana che sembra sia rimasta schiacciata tra due porte. Seri in volto, attendono una risposta. Sono tutti stanchi, infreddoliti fino al midollo, mentalmente esausti. Idris vede che ha la loro attenzione, e sbobina le sue informazioni con languida lentezza. Questa volta, Aryan ne è certo, ci sono uomini fra loro pronti a prendere in considerazione la proposta. «Se scegliete quella giusta – ed è qui che avete bisogno di me – vi ritroverete sotto il Big Ben nel giro di sette ore», dice Idris. Sette ore. Il numero passa di bocca in bocca veloce come un pettegolezzo; gli uomini lo ripetono sotto voce. Non gli sembra vero che potrebbero districarsi da questo ginepraio in così poco tempo, che in così poche ore potrebbero attraversare come fantasmi quelle pareti di vetro contro le quali le loro speranze hanno cozzato fino a oggi. «Sì, ma quanto può fare freddo lì dentro?», insiste l’uomo con il viso incavato. Idris punta lo sguardo su di lui. Aryan può soltanto immaginare il movimento dei suoi occhi dietro le lenti a specchio.


«Diciotto, venti gradi sotto zero al massimo», risponde Idris. «Prendete un paio di coperte con voi e sarete a posto. Gli eschimesi su al Polo Nord trascorrono tutto l’inverno a -35». Un altro mormorio. Sette ore in quel gelo – uno vorrebbe essere sicuro di poter uscire, nel caso ne avesse avuto abbastanza. «Se restiamo bloccati dentro, quanto possiamo resistere?» «Già, chi ci dice che non finiremo in un supermercato inglese, su uno scaffale insieme ai surgelati?». Gli uomini ridono. Ma si avverte una nota mesta dietro quell’improvvisa ilarità. «Sentite, la traversata dura al massimo novanta minuti. Aggiungete un paio d’ore per la dogana su ogni versante. In tutto, cinque ore e mezza. Un’altra ora per arrivare a Londra – o due se c’è traffico». «E se il camion non va a Londra?» «Qui siamo in Europa, non siete più in Pakistan. Ai camion non è permesso viaggiare per più di quattro ore e mezza senza sosta. Quindi se pensate di poter avere freddo mettetevi addosso un paio di maglioni in più. Se vi sentite un po’ intirizziti dopo aver


passato Dover, bussate contro la parete del camion – sono sicuro che l’autista sarà ben contento di farvi uscire». «Quanti di noi puoi portare su uno di quei mezzi?», domanda qualcuno. «Un massimo di sei», dice Idris. «È un viaggio in prima classe, ricordate. Se foste di più, il calore dei vostri corpi scongelerebbe le galline, e l’autista comincerebbe ad avere dei sospetti se le sentisse chiocciare e fare le uova». Gli uomini non si lasciano ingannare dalle battute di Idris, ma ridono in ogni caso, forse perché hanno bisogno di farlo, e per un momento la tensione si allenta. Hamid non sopporta di avere i piedi bagnati. Ha trasferito le sue coperte nella loro baracca e Aryan è seduto accanto a lui, al riparo dalla pioggia sottile, e lo osserva arrotolare carta di giornale e ficcarla dentro le scarpe. All’imbrunire, Kabir è andato con Khaled a riempire d’acqua le bottiglie per l’indomani. «Pensi mai a come sarà la vita in Inghilterra?», chiede Hamid. Una palla di giornale prende


delicatamente forma nella sua mano. «È difficile da immaginare», dice Aryan. «So soltanto che ci sentiremo sempre al sicuro. Ed è un buon Paese perché la gente crede nelle cose giuste – almeno questo è quel che diceva il sarto che mi ha insegnato l’inglese». «Da quel che ne so, è un Paese molto pulito», continua Hamid. «Una volta mio padre ha detto che puoi camminare per Londra un giorno intero senza nemmeno impolverarti le scarpe». Aryan è strabiliato. Era da tempo che non pensava alle strade intasate di polvere dell’Afghanistan. «Forse avranno un servizio apposito di autobus per portarci a scuola», dice Aryan. «E ci insegneranno a usare il computer, e gli ultimi ritrovati della scienza». «Kabir dice che vuole diventare un musicista», dice Hamid. «Magari diventerà una rock star e lo vedremo in televisione». Aryan ride e immagina il fratello che si pavoneggia su un palco con una chitarra elettrica a forma di stella. «Pensi mai alla tua famiglia, a cosa sta facendo in questo momento?», gli chiede Aryan.


Hamid abbassa lo sguardo. Troppo tardi, Aryan si accorge di aver superato il limite. Come se avesse varcato un confine privo di segnaletica, non nota cambiamenti nel paesaggio circostante, ma si accorge di averlo superato appena sente i suoni di una lingua diversa. «Ormai non ne è rimasto granché», dice Hamid. Aryan ingoia il suo disagio. Eppure ormai ha maldestramente passato il confine, è entrato in argomenti che nessuno ha mai affrontato lungo la strada, e avverte qualcosa in Hamid che lo spinge ad andare avanti. «Non mi hai mai raccontato cosa è accaduto», gli dice. Quando Hamid comincia a parlare, lo fa con voce bassa e sommessa, come se stesse aprendo una caverna nascosta nel suo cuore. Dipinge immagini vivaci per Aryan: una famiglia in un villaggio a nord fra le montagne, una festa, un cugino che sta per sposarsi. Ma poi la sua storia perde ogni colore. Dopo l’imbrunire, uomini si presentano alla sua porta, oscurandone la soglia con i loro turbanti neri. «Stavano dando la caccia ai traditori», spiega


Hamid, «vale a dire a chiunque con un’arma sulla loro terra». All’improvviso i bambini, fratelli e sorelle e cugini, erano stati ammassati in un’unica stanza, mentre gli uomini con i turbanti neri si mettevano al lavoro. Le mani di Hamid riprendono ad armeggiare con la carta di giornale, la appallottolano distrattamente in cartocci illeggibili. Dall’altra parte della porta, Hamid aveva sentito tutto: lo schiocco delle fruste, le voci imploranti, il crepitio delle armi automatiche. Ricorda di essere rimasto seduto in silenzio accanto agli altri bambini, sul pavimento, al buio. Ricorda di aver tenuto la sorellina fra le braccia, stringendola abbastanza forte da soffocare ogni rumore. «Anche dopo che era tutto finito, e li abbiamo sentiti ripartire sulle loro Toyota, nessuno di noi ha avuto il coraggio di lasciare la stanza. Alla fine è stata la fame a spingerci fuori». La stessa scena in tutte le abitazioni. Avevano ucciso tutti gli adulti nel villaggio, uomini e donne, passando di casa in casa. Hamid ha gli occhi lucidi e la gola serrata. Adesso


l’intero giornale è ridotto a un arsenale di minuscole sfere. Dopo quel giorno, era andato in Pakistan con un suo cugino più grande, ma sulla strada avevano incontrato altri afghani che il Pakistan continuava a rimandare indietro. Alla fine avevano raggiunto un campo profughi vicino Peshawar. «Ero piccolo e non potevo fare molto, ma aiutavo a trasportare le cose e ho lavorato in una casa da tè servendo ai clienti», dice Hamid. Per qualche tempo aveva tessuto tappeti, poi anche quel lavoro era finito. «Dovevo sempre inviare denaro per le mie sorelle. Per questo ho proseguito nel mio viaggio». Era andato in Iran, dove aveva lavorato prima presso una fabbrica di lampadine, poi aveva trasportato casse in un birrificio e infine colato il cemento in un cantiere. Ma quando lo avevano imbrogliato sulla paga, picchiato e derubato, aveva abbandonato l’Iran per la Turchia. A Istanbul aveva cambiato diversi lavori finché aveva trovato un posto nel laboratorio di Mohamed. Fuori della baracca, le nuvole cariche di pioggia avanzano dal mare e oscurano la luna umiliata.


Aryan rabbrividisce sotto una mantella di coperte annerite dal fumo. «Cosa farai in Inghilterra?», chiede dopo un po’ ad Hamid. La risposta arriva con la velocità di un razzo. «Voglio studiare astronomia». Hamid non smette mai di sorprendere Aryan. Nel suo villaggio, il maestro si fermava per non più di un’ora al giorno finché non aveva trovato un altro lavoro per guadagnarsi da vivere. Eppure adesso Hamid stava parlando di galassie e telescopi e pianeti. «Avresti dovuto vedere quante stelle cadenti in Grecia», sta dicendo Hamid. «Quando guardi una stella è come se guardassi nel passato, perché la luce stellare viaggia per milioni di anni prima di raggiungerci. È partita molto prima dei russi e dei talebani e dei signori della guerra e degli americani e di tutti i massacri in patria. È partita prima dei persiani e dei mongoli e degli egiziani – forse la luce è partita quando c’erano ancora i dinosauri sulla Terra». «Quindi studiare le stelle sarà come viaggiare indietro nel tempo», dice Aryan.


«Penso solo che se conoscessimo di più l’universo, se riuscissimo a immaginarci nello spazio, ci libreremmo alti sopra il suolo, lontano da tutti i problemi, e guarderemmo con occhi diversi la vita sotto di noi. Tutte le guerre ci apparirebbero piccole e insignificanti e inutili, e forse la gente apprezzerebbe di più la pace». Hamid è un tipo un po’ bizzarro, pensa Aryan, ma a volte ha dei bei pensieri. «Vorrei che ci fosse un modo per rimandare indietro il tempo e riportare qui tutte le persone che sono morte», dice Aryan. «Be’, non tutte, non quelle cattive. Solo alcune». Hamid riflette un istante prima di rispondere. «Anche tu hai perso qualcuno della tua famiglia, vero?». Aryan fa cenno di sì. Siedono in silenzio, ascoltando il vento e il rombo sordo dei camion lungo la strada verso il porto, ognuno avvolto nei suoi personali ricordi, come una coperta di dolore da condividere con l’altro. Qualche tempo dopo, il visetto di Kabir compare nella cornice triangolare della soglia.


«E queste a cosa servono?», domanda. «A tenere i fratellini petulanti fuori dal nostro palazzo», risponde Hamid, e gli lancia una pallottola di carta sul naso. All’esterno, il vento che soffia dal mare sta rinforzando. Lo ascoltano importunare le pareti di plastica della baracca e tormentare il perimetro di rovi. Lo sentono agitare le onde e setacciare le dune, e sollevare i resti dei falò in mulinelli di cenere e sabbia. Poi si avventa sul faro, devia sul tetto della baracca, supera d’un balzo il municipio e procede a rotta di collo verso la ferrovia, facendo oscillare i cavi elettrici come una corda per saltare, e roteare l’insegna della segheria come la giostra di un luna park. Balza sulle travi osservando le ragazze nigeriane raggomitolate dentro i sacchi a pelo di terza mano. Fa dondolare i camion e i trasportatori che russano nelle loro cuccette. Scuote le finestre della caserma di polizia, scalza le tegole delle case dei capitani di traghetto, fa rotolare rumorosamente le lattine di birra davanti ai gradini d’ingresso dei volontari della mensa gratuita. Si infila nei sogni e disfa il sonno, e dipana la


matassa nera della notte. La marea è bassa mentre camminano lungo la spiaggia, lontano dal porto, nella luce livida dell’alba. Brandelli di cielo si allungano come bende sulla sabbia increspata. L’Inghilterra si è ritirata così lontano dietro il suo mare agitato che Aryan si chiede se non sia solo uno scherzo dell’immaginazione, illusoria come una diapositiva proiettata sulle nuvole. «Possiamo fare esercizi per sviluppare muscoli da rematore», sta dicendo Kabir. Aryan deve girare la testa di lato per afferrare le sue parole prima che il vento le trascini via. Kabir si è buttato sulla sabbia esibendosi in flessioni sulle braccia paffute. Si rialza in piedi con le impronte granulose della sabbia sulle ginocchia. Kabir è fissato con l’idea della barca. Ogni volta che vanno alla spiaggia si tuffa in mezzo alle dune, o tra le cabine oltre i frangiflutti, alla ricerca di un gommone o di un natante qualsiasi sul quale attraversare la Manica a remi. Un kayak, sostiene, sarebbe perfetto, o magari potrebbero barcamenarsi su una tavola da surf.


Una volta aveva tirato fuori da un mucchio di alghe una canoa gonfiabile da bambino, un triangolo giallo attaccato a una striscia di plastica bianca di sale, con personaggi Disney sbiaditi stampati su un fianco. Era sgusciata fuori dalla sabbia senza opporre resistenza. «Non pensarci nemmeno», aveva detto Aryan, ridendo e accigliandosi allo stesso tempo. Adesso Kabir si staglia immobile tra Aryan e il mare, mentre il mondo si muove alle sue spalle e nuvole nere scivolano sopra il beccheggio delle onde. «Hai idea di quanto sia lontana, Mister Muscolo?», dice Aryan. «Sono più di trenta chilometri». «Sì, ma avremmo Hamid». «Sarebbero sempre trenta chilometri», dice Aryan nel vento. «Dieci chilometri ciascuno. E questo se andassimo in linea retta». L’inchiostro nero rimasto sui polpastrelli fa apparire le volute della pelle come increspature che la marea ha lasciato nella sabbia. Affonda i pugni nelle tasche; quella macchia è come l’impronta di un fallimento che nemmeno l’acqua salmastra laverà via.


Osserva un’eclissi di navi da carico mentre cerca di escogitare cosa fare. È ancora esausto dopo i tentativi di una notte – no, due notti – prima; è difficile restare aggrappato ai propri pensieri, uno che scivola dietro l’altro finché Aryan ne perde le tracce. «Mentre cerchiamo una barca possiamo fare un altro tentativo con i camion», sta dicendo Kabir. «Io non occupo molto spazio, e su uno bello grosso potremmo entrarci tutti e due. Khaled dice che tutto quel che ci serve è un’asse di legno». Aryan cerca di concentrarsi sulle parole di Kabir. Sa che suo fratello è rimasto colpito dalla storia di Hamid e ancora continua a rimuginarci sopra, sa che pensa che potrebbero arrivare in Inghilterra nascosti dietro le ruote di un autoarticolato. «E dove dovremmo prendere questa asse di legno?», chiede Aryan. «Non lo so. A volte il mare le porta a riva. Oppure da qualcuno che sta costruendo una casa». «Sai che a Idris non piacciono le libere iniziative. Se lo scoprisse, ci bandirebbe dagli altri camion». «Idris non deve saperlo», dice Kabir. «E poi, se ci dovessimo riuscire, non avrebbe più importanza,


no?» «È troppo rischioso, Kabir. Anche se superassimo i controlli». Pensa al freddo e alla pioggia lungo la strada, al pietrisco che gli schizza sulla faccia, alle mani che scivolano sull’acciaio incrostato di sporcizia. Eppure, sarebbe stato disposto a provarci. E anche Kabir. Ma ha parlato con Hamid e ha valutato la portata del rischio – anche se avessero superato i controlli nel porto. Con una consapevolezza che affonda in una parte di sé che va oltre le parole, sa anche che non potrebbe mai vivere in pace con se stesso se dovesse succedere qualcosa a Kabir. Avanzano lungo la linea invisibile dove la sabbia compatta diventa cedevole, strusciando le scarpe su ciuffi di alghe marine e viscido inchiostro di meduse. Li seguono due scie di impronte, una serpeggiante, l’altra in spirali zigzaganti lungo la spiaggia. Kabir si riempie le tasche di bacche di coccoloba uvifera per lanciarle nel fuoco quella sera. Aryan sente voci, distingue parole, cerca di rilassarsi al ritmo del camion che procede a passo


d’uomo attraverso i controlli portuali. Ha le mani fredde, e sulla lingua il gusto della paura. Nei piedi, nelle gambe e su fino al torace, sente vibrare la potenza del motore, il lavorio meccanico di pistoni e guarnizioni, che li porta verso la dogana, verso il traghetto, verso l’Inghilterra. Hamid aveva sorriso in modo incoraggiante vedendo il carico all’interno del camion. Pomodori. Centinaia e centinaia di pomodori, piccoli, gialli e rossi come biglie, e ovali come cuori di piccione. «Siamo fortunati», aveva detto, spalancando la bocca a O e infilandoci dentro un ortaggio succoso. Le piante, li aveva informati – fiori recisi, verdura, frutta – al buio emettono anidride carbonica. «Nascondono il vostro respiro ai detector. È come se fossero ancora vive». Incuneato fra le casse, Kabir si appoggia al fratello. Uno degli uomini gli ha dato un cappello di lana che odora di umido. Le dita di Aryan cercano di nuovo la grinza di plastica all’interno della tasca. Nella semioscurità della baracca si erano esercitati, uno alla volta, a imparare a dominare il panico. Si erano infilati le buste sulla testa chiudendole intorno alla gola in


modo da non fare uscire l’aria, finché persino Kabir era riuscito a trattenere il respiro contando tutti i numeri inglesi che conosceva. Avevano scelto le buste più grandi che erano riusciti a trovare, ma Aryan tremava ancora al pensiero di quel momento. Non sopportava il fruscio della membrana che veniva risucchiata nelle narici, il suo odore sintetico e ravvicinato, il senso di vertigine a mano a mano che l’ossigeno diminuiva. E adesso che quel momento è vicino ha paura delle proprie reazioni. Immagina di strapparsi la plastica dalla faccia, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua. Immagina sottili aghi rossi roteare impazziti come indicatori di catastrofe, numeri elettronici scorrere a tutta velocità, lo stridio prolungato degli allarmi. Ehi, ragazzi, bel colpo! Guardate chi c’è dentro questo camion! Immagina la furia degli uomini, e la sua vergogna per averli traditi. Per combinazione, non erano stati i sensori dell’anidride carbonica a sorprenderli, ma un altro detector che aveva captato il battito accelerato dei loro cuori.


«FUORIFUORIFUORI!». La polizia portuale li tira fuori uno a uno dal camion sbraitando in francese, battendo gli sfollagente sui puntoni di metallo del mezzo. L’autista è accanto alla cabina sotto un fascio di luci convergenti e sta consegnando i documenti alle guardie. All’estremità opposta della zona di parcheggio, tre iperattivi cani poliziotto stanno ispezionando tre veicoli in attesa del loro turno di imbarco. L’aria è fredda e satura di gas di scarico. Non oppongono resistenza mentre le guardie li spingono con la faccia contro il fianco sudicio del camion e gli fanno divaricare le gambe con un calcio. Uno dopo l’altro vengono frugati, perquisiti, i cellulari raccolti come uova in un cesto. Per tutti è semplice routine: routine per i funzionari di dogana; routine per le guardie; routine per la polizia di confine. «Salve, ancora tu!», dice uno di loro a un iracheno che è stato fermato così tante volte che lo conoscono tutti. «Riprova domani, amico. La prossima volta sarai più fortunato». L’iracheno batte le palpebre rimanendo in umiliato silenzio.


Porte di vetro si richiudono dietro i fuggiaschi ammutoliti. Un agente davanti a un computer non si volta nemmeno al loro passaggio. Ha i capelli del colore della paglia, la pelle rosata e una corona bianca ricamata sulla spalla. Il primo inglese che Aryan abbia mai visto. Il retro del furgone della polizia è freddo e odora di metallo. Il pavimento è rigato di sporcizia. Qualcuno ha verniciato i finestrini di nero, impossibile vedere qualcosa all’esterno. Ammanettati e senza scarpe, siedono a capo chino su due panche una di fronte all’altra: un gruppo di afghani, un esile iracheno, due giovani iraniani. Hamid ha lo sguardo fisso a terra. Le pupille di Kabir si dilatano nell’oscurità. Il furgone si avvia verso l’uscita, poi frena bruscamente. Non c’è modo di capire se siano ancora dentro o fuori dal porto. I doppi sportelli si spalancano di colpo. Tre uomini massicci come bisonti si profilano nello spazio ristretto. Teste rasate. Scarponi militari. Niente uniformi. Dietro di loro, Aryan ha l’impressione di vedere una recinzione nell’oscurità.


Quando l’iracheno alza la testa, decidono di prendere lui. Capiscono quel che sta succedendo fuori anche se non possono vederlo. Non ci sono parole, solo un pestaggio sul pietrisco. Un rumore di colpi. Il furgone oscilla, colpito prima da qualcosa di morbido, poi da qualcosa di duro. Suoni strani e confusi, come i gemiti di un cane. Kabir ha gli occhi sgranati per il terrore. Aryan vorrebbe avere le mani libere per tapparsi le orecchie. Quando lo riportano a bordo, l’iracheno rimane a giacere sul pavimento, le manette ancora ai polsi, raggomitolato come un feto. Ha un occhio gonfio e chiuso e c’è sangue fra i suoi capelli. Kabir sta piangendo. Aryan è scosso da un tremito incontrollabile; ha la nausea e non riesce a sollevare lo sguardo dalle proprie ginocchia. Più tardi, all’entrata del centro di identificazione ed espulsione, siedono per ore su una panca lunga e stretta. C’è una finestra con nulla da vedere, se non un parcheggio e un muro esterno. L’iracheno viene portato in una stanza a parte.


Trascina un piede mentre lo spingono via. «Un piantagrane», dice uno dei poliziotti all’ufficiale di servizio. I piedi di Aryan sono freddi e bagnati dopo il percorso dal furgone all’edificio. Sotto i calzini di Hamid sono rimasti impressi i caratteri stampati del giornale. Aspettano il loro turno per presentarsi davanti a una donna poliziotto. È l’alba quando registra i loro dati: nome, nazionalità, età. La donna indica un dispositivo elettronico con un piccolo quadrato di vetro sulla sommità. Indossa un maglione lavorato a macchina sopra l’uniforme. Non c’è niente di personale in lei, né nell’ufficio o nell’edificio. Nessuna decorazione, tranne il ritratto di un uomo con la fascia a tracolla appeso sulla parete. Nessuna fotografia. Nemmeno una pianta. «Prima il pollice», dice ad Aryan. «Così». Parla con voce fredda e distaccata: sta solo facendo un lavoro. Ma qualcosa si blocca. La macchina si rifiuta di funzionare. La donna poliziotto abbandona ogni tentativo di aggiustarla. Fa scivolare un tampone d’inchiostro verso di lui e gli indica dove depositare


l’impronta. Quando Aryan esita, gli afferra il pollice e lo fa rollare sul tampone, da destra a sinistra, e lo preme sul foglio bianco. Poi le altre dita, una alla volta. Il fatto che qualcosa di così personale sia ora in piena luce lo fa sentire, in qualche modo, indifeso. Osserva le volute d’inchiostro sulla pagina: sembrano fragili come conchiglie. L’indomani, li rilasciano a metà della mattinata. Recuperano i loro cellulari da un tavolo vuoto. Le scarpe sono rimaste fuori alla pioggia. Ma non ci sono scarpe per uno degli iraniani, e anche due degli afghani non trovano più il loro paio. La donna poliziotto li fissa senza battere ciglio quando le chiedono spiegazioni. Scendono in strada con passo malfermo, affamati, ubriachi di sonno. Aryan non sa che direzione prendere. Sono sulla sommità di una collina, in una sorta di complesso industriale chiuso e deserto per il fine settimana. Ha smesso di piovere, ma le nuvole sono talmente cupe e pesanti che toccano il terreno. Gli occhi lacrimano per il freddo; c’è aria di neve. Hamid indica il faro in lontananza. «Da quella


parte c’è il mare. Di là il porto». Ormai ha imparato a orientarsi: è già stato altre volte in quell’edificio. Sette, per la precisione. Si avvia lungo la strada, poi si ferma e si volta indietro. «Venite? Visto che ci hanno portato fin qui, tanto vale che diamo un’occhiata in giro». Il tunnel indugia nella loro immaginazione come una bestia leggendaria con le fauci spalancate. Un giorno di marcia nell’oscurità della sua gola; sarebbe così semplice. Un piede dopo l’altro, con le locomotive che passano stridendo al loro fianco, sotto le onde del mare. Aryan immagina loro tre saltellare lungo le traversine, oppure appiattirsi contro pareti viscide di acqua salmastra mentre le carrozze piene di passeggeri gli sfrecciano accanto. Ci sarebbero inglesi che bevono il caffè, francesi che leggono riviste o lavorano ai loro computer, o parlano al cellulare; nemmeno il macchinista li vedrebbe, acquattati lungo le rotaie. Non si angustierebbero pensando alle navi cisterna e ai traghetti e al peso dell’acqua sopra di loro, nemmeno alle fenditure che lasciano filtrare il mare


all’interno. I loro sguardi sarebbero puntati lontano, le loro dita strette intorno a un filo invisibile, perché a chiamarli, guidarli e illuminarli come una lanterna lungo l’intero tragitto ci sarebbe quel piccolo cerchio di luce che è per loro l’Inghilterra. Attraversano campi di aride stoppie e macchie d’erba che il gelo ha diradato come i capelli di un vecchio, e si ritrovano lungo una strada secondaria. Un cartello indica “Sangatte”; un altro “Coquelles”. «Le strade antiche ti portano sempre da qualche parte», sta dicendo Hamid. «Sono le autostrade che passano accanto ai posti dove vuoi andare senza nemmeno toccarli». Hamid non sa esattamente dove, ma dice che prima o poi incontreranno la ferrovia se procedono parallelamente alla costa. Aryan trova difficile credere che il mare sia da qualche parte oltre la prossima altura. Immagina che questo paesaggio spoglio e indifeso, esposto come pelle nuda alle sferzate del sole, si allunghi all’infinito, attraversato soltanto da strade interminabili e da una linea di cavi che ronzano di elettricità sopra le loro teste.


Un gruppetto di alberi è abbarbicato all’orizzonte, i rami intrecciati graffiano il cielo. Forse un tempo qui c’era una foresta e questo è tutto quel che ne rimane. Kabir, che è corso avanti, torna verso di loro. I risvolti dei calzoni sono già bagnati e ha una scarpa slacciata. Secondo Aryan, ha qualcosa in mente. «Hamid», dice Kabir. «Sì, Kabir». «Perché la polizia si è tenuta le scarpe di quei tizi?» «Per rendergli difficile tornare indietro a piedi». «Ma perché dovrebbe rendergli difficile tornare indietro a piedi?» «Perché così andranno via». Kabir pondera la risposta di Hamid per un istante. «Ma come fanno ad andare via se non hanno le scarpe?». La risata di Hamid ha una nota di asprezza che Aryan non aveva mai sentito prima d’ora. «È una domanda che dovrai fare alla polizia». Camminano in fila indiana lungo il bordo di ghiaia, nel caso passi qualche macchina. «Hamid?»


«Sì, Kabir». «Cosa succederà all’iracheno?». Hamid lancia uno sguardo con la coda dell’occhio ad Aryan. «Non lo so», risponde. La strada costeggia una collina che decidono di scalare, sperando che offra una vista utile. Le scarpe luccicano d’acqua mentre solcano l’erba verso una siepe che ha la stessa forma del vento. Dall’altra parte, una fila di tombe allineate come letti d’ospedale. Kabir raggiunge uno slargo di ghiaia, poi dice loro di andare a vedere: una manciata di lapidi, incise con caratteri arabi. «Non risalgono a molto tempo fa», osserva Hamid leggendo le date. «Chissà chi erano», dice Aryan. Una corona di fiori di plastica trema nell’aria gelida. A poca distanza trovano un rubinetto. Aryan si china a bere e convince anche Kabir a farlo. «Così non sentirai lo stomaco tanto vuoto».


Aryan immagina l’acqua distendere i tentacoli verso la sua pancia. Hamid gli fa cenno dalla parte opposta della sommità della collina. Un filo di carrozze argentate scivola oltre e poi scompare nella trama e nell’ordito del paesaggio. «Deve essere laggiù». Si lanciano al galoppo lungo il pendio della collina e seguono una vecchia strada poderale che passa sotto l’autostrada; il tracciato finisce in una via più ampia che arriva a un ponte. Sotto l’arcata, file di binari si allungano come scale a pioli in posizione orizzontale. I tre ragazzi sbirciano attraverso la recinzione di filo spinato, osservando il piccolo cerchio grigio che deve aver ingoiato il treno. «Sono due, due tunnel!», esclama Kabir con un saltello eccitato. Come se avesse dato il segnale al cielo, comincia a nevicare. Le gallerie gemelle si aprono l’una a fianco all’altra, ognuna sormontata da un’uscita di sicurezza scavata nella collina, ordinarie, deludenti,


fuori portata come le stelle. Per Aryan sono troppo piccole per essere la via d’accesso all’Inghilterra. Si aspettava qualcosa di più maestoso: archi trionfali, magari, e decorazioni, e luci. «Sicuro che è questa?» «Pensi che abbiano messo tutto quel filo spinato per proteggere una tana di conigli sotto la collina?», ribatte Hamid. Attraverso il turbinio dei fiocchi di neve scorgono le strade d’accesso, i riflettori e le telecamere di sicurezza appollaiate sulla cima dei pali come tanti uccelli incappucciati. E vari strati di recinzione, persino sul ponte. E ovunque, filo spinato a perdita d’occhio, avvoltolato in strati invisibili sopra le mura di una terra di nessuno. «Ci sono anche mine antiuomo?», sta chiedendo Kabir. «Non che io sappia», dice Hamid. «Ma probabilmente la recinzione sarà elettrificata». I fiocchi di neve si posano sulle loro teste. Kabir si dimena quando Aryan glieli spolvera via dai capelli e gli tira su il cappuccio dell’anorak. «Che fine ha fatto il tuo berretto?», dice Aryan.


Kabir si dà un colpetto sulla fronte e ispeziona le tasche. Tira fuori una busta di plastica a strisce, delle bacche di coccoloba uvifera e il soldatino blu che credeva di aver perso sulla spiaggia. «Forse mi è caduto dentro il camion», dice alla fine. Un treno merci gli sfreccia accanto in direzione del tunnel; le pareti di grata metallica trasformano i vagoni in mosaici incrostati di sudiciume. Da lontano, il convoglio sembra riempire l’intero vano d’entrata; Aryan non vede altro spazio per camminare lungo i binari. E imboccando la galleria il treno non si ferma, né rallenta quanto basta perché qualcuno possa saltare a bordo. «Non è una vista molto incoraggiante», dice Hamid. Aryan si gira dall’altra parte e osserva le rotaie che si perdono in lontananza. «Pensi che le recinzioni arrivino fino a Parigi?» «Anche se potessimo aggirarle, le telecamere ci avvisterebbero lungo i binari». «E le uscite di sicurezza?». Hamid valuta la possibilità, la testa inclinata di lato. «Ci sarebbe lo stesso problema, non pensi?»


«Potremmo saltare dal ponte sul tetto del treno», propone Kabir. «Facile per te, Uomo Ragno», dice Aryan. «E noi altri?» «Ci sarà pure un altro modo», dice Hamid dando un pugno scherzoso a Kabir. Lo stomaco di Aryan brontola. La delusione dopo aver visto il tunnel gli ha lasciato un senso di vuoto e di fredda amarezza che lo attanaglia. Non si era reso conto di quanto ci avesse fatto affidamento: era l’estremo ripiego, l’ultima scorta di speranza. Ma qui, di fronte alla vista, alla forma e alla percezione della galleria, alle volute di filo spinato e alla recinzione elettrificata e allo sguardo impassibile delle telecamere attraverso le spirali di neve, sente ogni possibilità scivolargli via fra le dita. Fiocchi di neve ammantano il metallo delle rotaie come una soffice pelliccia. Si raccolgono nelle pieghe del filo spinato, si posano sulle telecamere di sicurezza e turbinano come diafane farfalle sulle traversine e le rotaie in ascolto. Decorano le lapidi nel cimitero, cancellano le impronte sulla spiaggia e


colmano le pieghe delle colline brulle e desolate. Coprono di ghiaccio i ponti dei traghetti, si mescolano alle onde e avvolgono il Sud dell’Inghilterra nello stesso mantello vaporoso. Aryan affonda le mani con i polpastrelli anneriti nelle tasche. Calais gli sembra una città senza porte. È buio quando tornano al faro, e il cielo ha dato fondo alle sue scorte di neve. Una crosta gelata riveste l’erba e il fango. Gli uomini sono già in attesa, tremano per il freddo e alitano sulle mani, saltellando da un piede all’altro come pugili scuri in volto. La coda per un pasto caldo si è già formata, sebbene sia troppo presto per il furgone dei volontari della Caritas. Il giovane curdo con le stampelle è appoggiato contro il muro. I tre ragazzi non mangiano dalla sera prima e Aryan si sente quasi svenire dalla fame. «Kabir! Dove sei stato?» «Già, dov’eri sparito? Pensavamo che stessi esplorando Londra su un bell’autobus rosso a due piani!». Gli afghani più anziani si stringono intorno a suo


fratello, dimenticando il freddo, ridendo e dandogli buffetti sotto il mento. Uno di loro tira fuori un quadrato di cioccolata; un altro, una macchinina arrugginita trovata sulla spiaggia. Kabir sorride con i suoi dentoni, mentre gli uomini lo provocano, simulando con lui un incontro di boxe, e gli arruffano i capelli ribelli. «Siamo andati a vedere il tunnel», dice Kabir. Osservando la scena, Aryan prova una sensazione di dolore improvvisa che lo sommerge e lo fa vergognare allo stesso tempo, identica a quella che provava nel laboratorio di Istanbul, quando gli altri afghani colmavano Kabir di attenzioni e scherzavano con lui sperimentando i loro trucchetti magici. Sa perfettamente che tutti loro hanno perduto delle persone care. Sa che tutti loro si sono lasciati dei familiari alle spalle, che tutti hanno fratelli o figli che non vedono da mesi. Vede come si illuminano i loro volti e i loro occhi quando c’è Kabir. Sa che farebbero qualsiasi cosa perché non gli accadesse niente di male. Ma qualche volta, solo qualche volta, vorrebbe essere lui il ragazzo che sono contenti di vedere.


Vorrebbe che qualcuno lo colmasse di attenzioni, che qualcuno lo considerasse speciale, che qualcuno vegliasse su di lui. Forse non è pronto per un viaggio del genere. Forse manca di risolutezza. Forse manca di quella capacità di ripresa così naturale per Hamid. Ma poi Kabir lo disarma con le sue risatine, o lo sconcerta con le sue domande, o tira fuori uno dei suoi suggerimenti, e Aryan si ricorda che ognuno di loro è tutto quel che l’altro ha al mondo, che formano una sorta di squadra, e che insieme porteranno a termine il viaggio. Lungo il tragitto verso le baracche, Khaled prende Aryan da parte. «Non pensavate sul serio al tunnel, vero?», gli chiede. «Siamo andati solo a dare un’occhiata. Ci trovavamo da quelle parti...». «Dicono che lì vicino c’è un cimitero dove hanno sepolto gli ultimi che avevano pensato fosse una buona idea», dice Khaled. Aryan stiracchia le membra doloranti. Ha dormito male nonostante la stanchezza, svegliandosi più


volte per il freddo e le stecche della cassa che gli bucavano le costole. Sono seduti intorno al falò del mattino, in attesa che bolla l’acqua per il tè. Qualcuno getta una bottiglia di plastica tra le fiamme e il fumo fa bruciare gli occhi di Aryan. Kabir ha già dato l’acqua al canarino e infilato una crosta di pane tra le sbarre della gabbia, nell’ennesimo tentativo di corromperlo o convincerlo con le lusinghe a cantare. Sono stati alla spiaggia con Khaled e lo hanno aiutato a trascinare fin lì pezzi di legno portati a riva dal mare. Hamid emerge dai cespugli imprecando, quattro bottiglie di plastica vuote fra le mani. «Ci hanno tagliato l’acqua». C’è un solo rubinetto lontano da lì, verso la Tioxide. Khaled ha sentito dire che ce n’è un altro, così vanno a cercarlo. Girano inutilmente la manopola. Dal rubinetto esce solo un gemito e una sparuta lacrima rugginosa. Al capanno, i volontari stanno distribuendo la minestra. Ci sono trecento uomini affamati e la coltre


opprimente di nuvole sembra solo peggiorare il loro umore. L’agitazione e il nervosismo sono palpabili nell’aria gelida. Si levano proteste e spintoni, mentre i sorveglianti francesi tentano di mantenere l’ordine tra le file. I curdi brontolano contro gli iracheni; Pashtun e Hazara si scambiano sguardi infuocati di reciproca diffidenza; un sudanese notoriamente squilibrato cerca di farsi strada a gomitate. «Che succede?», domanda Aryan a un afghano in coda davanti a lui. «Non l’hai saputo? La polizia ha fatto irruzione nel campo lungo il canale. Ha distrutto le baracche, arrestato sei uomini e ha lanciato i loro zaini in acqua a suon di calci. Hanno perso i soldi, i documenti, tutte le loro cose». Un gruppo di eritrei arriva dietro di loro, senza fiato. La polizia li ha inseguiti mentre attraversavano il parco lungo il tragitto dalla fabbrica occupata abusivamente dagli africani. «Credevo che ci avrebbero concesso una tregua quando distribuivano i pasti», dice Khaled in inglese. «Questo non gli impedisce di attaccarti lungo la strada», dice uno degli eritrei. «Stamattina hanno


chiuso uno dei ricoveri in città. Hanno sbarrato porte e finestre con le assi». Hamid si rivolge ad Aryan. «Avete lasciato qualcosa al campo?» «Solo coperte», risponde Aryan. Quando vi fanno ritorno, le baracche sono state sfasciate, le coperte calpestate. Nel fango sono visibili le tracce di legna da ardere trascinata via. La gabbia è rovesciata su un fianco in mezzo alla polvere. Kabir la rimette in piede. La porticina è aperta. Poco dopo trova il canarino acquattato sotto una lattina arrugginita. «Stai bene?», gli chiede Kabir. L’uccello si trascina dietro un’ala aperta mentre cerca di saltellare via. Kabir lo raccoglie nel palmo della mano, gli alita delicatamente addosso per scaldargli le piume e lo rinfila dentro la gabbia. Sopra di loro, le nuvole purpuree sono troppo amareggiate per nevicare. All’imbrunire, arrancano verso la città: Aryan, Kabir e Hamid, più Khaled e due suoi amici con i


quali divideva la baracca. Sulle spalle portano le coperte che hanno cercato di far asciugare sui rovi, ancora pesanti di acqua e fango. Oltre la recinzione vedono i camion allineati nelle aree di attesa del porto, gli edifici bianchi, le luci fredde che si accendono. Aryan cerca di calcolare fin dove si erano addentrati nel porto prima che le guardie li scoprissero a bordo del camion, e dove si era fermato il furgone della polizia e quegli uomini avevano preso l’iracheno. Non ci sono bocche di aerazione a diffondere un po’ di tepore come sui marciapiedi di Parigi. Così cercano un angolo riparato sotto un ponte, o vicino al muro sul retro di una fabbrica, o al bordo di una rotatoria dell’autostrada. Ma ogni volta scoprono che altre persone hanno già rivendicato pretese sul posto. Alla fine raggiungono l’ingresso merci di un supermercato. Dispongono i cassoni metallici per i rifiuti in modo da creare una barriera davanti alla rientranza, ma il vento impietoso gli piomba addosso infilandosi in mezzo alle ruote. Con le mani irrigidite dal freddo, cercano di bloccarne il passaggio con materiali da imballaggio trovati


dentro i cassoni. «Aryan». Anche Aryan non riesce a dormire. Ha paura di non svegliarsi più se chiuderà gli occhi. «Aryan. Fa troppo freddo». Kabir sta tremando. Aryan non si sente più le mani e i piedi. «Andiamo. Restiamo in movimento». Hamid scosta i cassoni. Si avviano, tre esili ombre che camminano e camminano nella notte lungo le strade silenziose. Aryan ha giurato a se stesso che tenteranno di tutto, tranne il camion frigorifero. Ma ora, con il morale a terra su quel tratto di costa ostile nel cuore dell’inverno, la sua mente continua a ritornare sulle parole di Idris. Sette ore. Sta cominciando a chiedersi se non sia la loro opportunità migliore. Le lunghe settimane di stasi lo stanno logorando. Con ogni giorno che passa, con ogni notte che li


trova ancora una volta per le strade, o intenti a ricostruire le loro baracche tra i rovi disseminati di rifiuti, Aryan sente che sta perdendo il controllo sulle loro vite. È stanco, stanco, stanco; il clima lo sta consumando; ogni mattina si sorprende di essere ancora vivo. In Afghanistan gli inverni erano rigidi, ma non aveva mai patito un freddo simile: l’aria che buca gli occhi come aghi, il vento dal mare che trafigge il collo e le reni, e fa sbocciare i geloni sulle mani sporche. Le dita coperte di brina che lasciano le impronte attraverso cinque strati di indumenti. Sotto i piedi intorpiditi, le pozzanghere gelate si crepano e si scheggiano, ma non si sciolgono. Aryan tenta di ricordare l’ultima volta che si è sentito felice, e decide che è stato quando erano in viaggio: nel cassone di un camion, sul treno che attraversava l’Italia, nel vagone con gli americani di origine iraniana. Ogni dosso della strada, ogni immagine fugace dai finestrini gli faceva sentire che erano più vicini alla meta. Quando era stato, durante il viaggio, il momento in cui avevano smesso di scappare e iniziato a correre verso un futuro, per quanto nebuloso? Eppure in tutto quel tempo, erano riusciti solo a trovarsi di fronte a un muro. E più ci


sbatteva contro, più il coraggio lo abbandonava. Per Kabir, cerca di non far trapelare la propria disperazione. Non è solo la sensazione di essere in trappola. Non è solo l’enorme difficoltà di restare aggrappato alla speranza. È qualcosa che sta franando nel suo animo. Ci sono momenti in cui ha la sensazione di sgretolarsi. I ricordi sono come frammenti isolati nel tempo, senza più una logica a collegarli fra loro. Ricorda la notte più fredda, quando la neve è diventata ghiaccio e un vento vendicativo da nord spazzava la costa, e le luci dei camion erano le uniche cose a muoversi nel porto. Ricorda gli anziani francesi che erano emersi dalla tormenta e li avevano portati a passare la notte in un atrio, su materassi distesi sul pavimento. Ma nella memoria c’erano anche delle lacune, giorni che non ricordava come aveva riempito. A volte si domandava se, fra i sentimenti inespressi che li legavano, Kabir fosse consapevole del suo stato d’animo. Sebbene a volte sentisse il peso del fratello gravare su di lui come un macigno, altre volte Aryan si chiedeva chi fosse a sostenere chi, e se, senza suo fratello, sarebbe mai arrivato fino a


questo punto. «Mi dispiace, Kabir», dice Aryan. La mano che regge la forchetta di plastica è ruvida e tremante per il freddo. Sconcertato, il fratello alza lo sguardo dal vassoio di spaghetti. La strada è nera di acqua; hanno trovato un posto dove consumare il loro pasto al riparo dal nevischio sul lato sottovento di un magazzino. La cima del faro è scomparsa fra le nuvole, come se avesse rinunciato alle navi per dedicarsi ai velivoli. «Mi dispiace di averti portato qui», dice Aryan. «Non avrei mai dovuto lasciarti venire con me. Sarei dovuto partire da solo e mandarti a chiamare una volta raggiunta l’Inghilterra. Magari avresti fatto il viaggio a bordo di un aereo». «Io volevo venire con te, Aryan. Sarei scappato se mi avessi costretto a restare in Iran. Tu sei l’unica vera famiglia che mi è rimasta». È passato tanto di quel tempo da quando vivevano come una famiglia che la parola colpisce Aryan come una scossa di terremoto; non riesce quasi a ricordare com’era prima che tutto implodesse. Per un momento sembra che suo fratello si stia riferendo alla vita di qualcun altro.


Guarda Kabir, i capelli troppo lunghi, la giacca lucida di pioggia sopra strati di indumenti che hanno sepolto la maglietta dell’Uomo Ragno che un tempo era così entusiasta di indossare. Si rende conto che il fratello è cambiato. È più serio del Kabir che ricorda nei campi di cipolle, con i cuccioli che giocavano con i suoi lacci. Le guance paffute sono ora più asciutte, e le ombre che ha sotto gli occhi erano apparse solo quando si era ammalato in Grecia. Se questo viaggio sta logorando lui, pensa Aryan, il prezzo che sta chiedendo a Kabir non è di certo inferiore; eppure non protesta mai, non dice mai che vuole tornare indietro come aveva fatto quando erano alla fattoria, non si lamenta più del fatto che ha quasi nove anni e non è ancora andato a scuola. Non immagina mai che possa esistere un altro cammino oltre a quello che hanno intrapreso. Aryan si tormenta per il tempo che passa, perché ogni giorno diventa più grande e potrebbero non accettarlo più a scuola, per come farà a farsi una vita. Ma Kabir accetta la loro situazione con una sorta di stoicismo. Forse suo fratello è diventato più taciturno, ma per la prima volta Aryan si rende conto di quanto sia importante averlo al proprio fianco.


Qualcosa si muove nel suo animo, e Aryan sorride. «Ricordami dove stiamo andando, soldato». «Stiamo andando a scuola!», risponde prontamente Kabir. «E quando intendiamo arrivarci?» «Alle nove e mezza». «Quando?» «Puntuali!». «E come intendiamo arrivarci?» «KabulTeheranIstanbulAteneRomaParigiLondra!». «Ci siamo quasi», dice Aryan. «Ma scommetto che tu ci arriverai per primo». La mano con anello di rubini di Idris tira fuori un cellulare e un rotolo di banconote da un giubbotto da pilota che non ha mai passato la notte fra le dune. «Senti, se sei preoccupato, ti faccio parlare con qualcuno che ha attraversato la Manica in questo modo», dice ad Aryan. Idris è insofferente, ostenta una certa stanchezza. «È semplice. Gli telefoniamo in Inghilterra. Un sacco di gente l’ha fatto. Vanno avanti e indietro tutte le volte che vogliono». «Voglio pensarci su», replica Aryan. Non si fida di Idris, ma ormai la rosa delle opzioni si va


restringendo. Vuole parlarne prima con Hamid. Khaled gli vende una scheda per il telefono di Aryan. L’ha comprata per loro in un supermercato alla periferia della città. Aryan non gli chiede quanto l’ha pagata; sa che nel prezzo è inclusa la provvigione di Khaled. Cercano Jonah nella fila per il pasto caldo; lo trovano che sta dividendo una sigaretta con altri sul lato africano del capanno, vicino alla macchina che diffonde musica. «Ancora qui, amico mio!», esclama nel vederli, il viso stanco reso di nuovo giovane dal suo sorriso smagliante. Dà il cinque ad Aryan. I capelli sono più lunghi e vaporosi da quella notte nel sottotetto vicino alla segheria; gocce di pioggia si annidano fra i ricci come diamanti, confrontandosi con quello che porta all’orecchio. «Anche tu», risponde Aryan sorridendo sopra la musica rimbombante. Dai finestrini spuntano delle facce, curiose di vedere con chi sta parlando Jonah; poi si ritirano dentro la macchina come una tartaruga con più teste. La vettura sobbalza a ritmo


di reggae. «Ho bisogno ancora del tuo aiuto», dice Aryan. «È per il telefono». «Devi caricarlo?». Aryan annuisce. Ne è passato di tempo da quando ha perso il caricabatteria, ma ricorda che gli africani saccheggiavano corrente da un’area edificabile adiacente alla segheria. «Qualcuno avrebbe un caricatore adatto?». Il cellulare scintilla iridescente come uno scarabeo sul palmo teso di Aryan. «No problemo, amico», lo rassicura Jonah. «Lo sistemiamo questo pomeriggio». «Vuoi parlare con Masood se c’è ancora credito?», chiede Aryan. «Certo», dice Kabir. «Gli dirò del mare e che abbiamo visto l’Inghilterra dalla spiaggia». Aryan digita il numero della casa di Teheran. C’è una pausa piena di eco, come un flusso d’aria nella galleria del vento. Poi una serie di strani “clic” mentre una piccola corrente di speranza ripercorre precipitosamente tutte le miglia che hanno coperto a piedi, nei cassoni di camion e autoarticolati, su


autobus senza sospensioni e sui treni. Immagina il segnale che viene trasmesso ai satelliti e rimbalza lungo i cavi che attraversano la città, procede serpeggiando fino alla strada giusta, il palo giusto, la casa giusta, al telefono nero di bachelite, il “clic clic” che rompe il silenzio mentre la chiamata viene smistata. Cerca di indovinare chi solleverà la cornetta; il cuore stretto nell’attesa, la gioia che rincorre la malinconia che rincorre l’ansia che rincorre la tristezza per tutto il tempo che è passato. Immagina il viso rubicondo di Masood e sua sorella Zohra che gli stava insegnando a leggere, e il loro padre Mustapha di cui Aryan aveva un po’ di timore. Trattiene il respiro; la linea squilla e squilla nel vuoto. Conta diciannove squilli prima che la comunicazione si interrompa. «Ho sbagliato numero», dice a Kabir appiccicato al suo fianco, che inganna l’attesa tracciando solchi con la scarpa. Prova di nuovo. Visualizza il telefono nel corridoio, appena fuori del soggiorno che usavano anche come stanza da


pranzo e camera da letto. Ricorda il suono dello squillo, diverso da quello che gli arriva dalla linea disturbata. Lo lascia suonare finché si interrompe la comunicazione. C’è qualcosa che non va. Le telefonate sono talmente rare che c’è sempre qualcuno che si precipita ad alzare la cornetta, o almeno a prendere un messaggio per la famiglia se non c’è nessuno in casa. Spegne il cellulare per risparmiare le batterie e lo infila dentro una cerniera dell’anorak, il guscio duro a contatto con il suo cuore agitato. La sera provano ancora. Aryan conta quattordici squilli. D’un tratto, una voce maschile. «Mustapha?», domanda Aryan. «Chi parla?». Aryan non riconosce la voce. «Sono Aryan, il nipote di Mustapha. Quando rientra a casa?» «Mustapha è andato via, con tutta la famiglia», dice la voce. «Andato dove?». Aryan cerca di afferrare bene le


parole. «Non ho idea dove. È andato via. Tutti gli afghani sono andati via». Aryan cerca di trattenere la notizia, di pensare in fretta mentre assorbe la realtà dei fatti. Perché sarebbero dovuti andare via? E dove? «Chi parla, scusi?» «Sono Izad, il cugino del proprietario di questa casa. Mio cugino è tornato in città e gli serviva il suo appartamento». «Quando sono partiti?», chiede Aryan con voce strozzata. Trattiene l’uomo al telefono mentre brancola in cerca delle domande giuste, mentre l’ultimo filo che collegava lui e Kabir ai superstiti della loro famiglia si assottiglia come la voce che fluttua debolmente lungo la linea. «La settimana scorsa», risponde l’uomo. «Mi trovo qui perché Mustapha verrà stasera a pagarci l’ultimo mese di affitto». Quindi sono ancora a Teheran. Aryan cerca di pensare attraverso il ronzio che gli assorda le orecchie. «Ho bisogno di parlargli. Richiamerò più tardi. A che ora passerà?»


«Ha detto che sarebbe venuto questa sera. Prova fra un’ora». «Può dirgli che Aryan ha chiamato dalla Francia?». Ma il ricevitore sta già sferragliando nel suo orecchio. Insieme al “bip bip” della linea interrotta qualcosa si spezza anche nel suo cuore. Stordito, spegne il cellulare. Rabbrividisce sulla superficie ruvida d’asfalto, di nuovo preda dell’incertezza. Le lacrime premono per uscire. Cerca un angolo appartato dove rifugiarsi, ma tutto quel che vede è la luce blu sfocata di una macchina della polizia. «Cos’è successo?», domanda Kabir. «Pensavo che mi avresti fatto parlare con Masood». Quando richiamano sta grandinando. Ciottoli bianchi rimbalzano sulla carreggiata, si ammucchiano nel fango, trasformano le coperte infossate che fanno da tetto alle baracche in nidi di uova cristalline. Aryan ha i muscoli delle spalle indolenziti a furia di tenerle incurvate contro il freddo; le mani sono talmente intirizzite che riesce a stento a premere i tasti. Questa volta Mustapha viene al telefono.


«Abbiamo bisogno di denaro», gli dice Aryan. «L’agente qui vuole duemila dollari. È l’unico modo per attraversare la Manica». Mustapha urla per farsi sentire: ha dei problemi. Non ha una cifra del genere. Mentre Aryan e Kabir gironzolavano per l’Europa, loro hanno perso l’appartamento e si sono trasferiti sopra a un’altra famiglia che vive in un monolocale. Altri iracheni stanno arrivando in Iran, e non c’è più posto per i rifugiati afghani a lungo termine. Aryan non tenta nemmeno di spiegare. «Cosa dobbiamo fare?», domanda. Mustapha si intenerisce. «Chiederò in giro. Vostro padre era benvoluto. Forse possiamo fare qualcosa». Due settimane dopo, Mustapha chiama al telefono. Ha la somma; un intermediario ne ha l’amministrazione fiduciaria. Aryan gli detta il numero di Idris così Mustapha potrà trasmetterlo a chi di dovere. Per la prima volta dopo tanti mesi, Aryan si ferma a considerare il padre nella giusta luce. Si sorprende che le famiglie gli siano ancora così riconoscenti per aver insegnato ai loro figli – anche dopo che aveva


perso il lavoro a scuola – da accettare di aiutarne gli orfani. Si meraviglia che suo padre possa ancora dar loro una mano, nonostante sia morto tanto tempo prima e sepolto a seimila chilometri di distanza. Aryan salva il numero di Mustapha sul suo cellulare, insieme ai tre che ha già memorizzato: Hamid, Idris e il nipote del sarto a Londra. All’interno non sembra così freddo. Le carcasse che ondeggiano in due lunghe file non appaiono così sinistre come aveva pensato. Sono soltanto mezzene di manzo, si dice Aryan, animali morti da tempo, solo pezzi di carne destinata ai tavoli da pranzo in Inghilterra. Non hanno nemmeno la testa. Sono in sei, saliti a bordo presso una stazione di rifornimento alla periferia della città. Idris ha organizzato tutto, e dopo quel che hanno passato nelle settimane precedenti, Aryan è stupito che sia andata così liscia. È in ansia al pensiero di attraversare il porto, ma Idris ha detto che sarà uno scherzo, che non controllano mai questi veicoli perché a nessuno piace il freddo. «Bon voyage», aveva detto mentre siglavano l’accordo con una


stretta di mano. No, non sembra così freddo lì dentro, non dopo l’inverno a Calais. C’è una sorta di immobilità, e Aryan si rende conto che è dovuta, per una volta, all’assenza di vento. Nell’oscurità, sotto la sua coperta, sente la presenza di Kabir seduto accanto a lui, le ginocchia contro il petto, di fronte ad Hamid appoggiato alla parete opposta. Altri tre uomini che Aryan non conosce sono sparsi all’interno. Hanno indossato tutti gli indumenti che sono riusciti a trovare – sei maglioni ciascuno, due anorak e tante paia di calzini quante ne potevano contenere le loro scarpe. Idris ha mantenuto la parola: il camion si mette in moto subito dopo che sono saliti a bordo. Aryan non è mai stato in un posto così buio. È come il mondo prima della creazione, prima di una qualsiasi memoria di luce. Le lancette dell’orologio di Hamid emanano un tenue bagliore verde: sono le cinque e quarantacinque. «Come facciamo a sapere se abbiamo passato i controlli?», bisbiglia una voce nell’oscurità. «Ne avremo la certezza solo quando saremo sul


traghetto. Il camion parcheggerà e resterà fermo per un po’, ma sentiremo il moto ondoso del mare». «Spero che sia calmo. Non voglio soffrire il mal di mare». «Mal di mare: non dirlo a me», risponde un altro. Parlano a bassa voce, poi si zittiscono. Stanno già correndo abbastanza rischi così. Passeranno i controlli o verranno scoperti. Sono rassegnati: non resta che sperare. Sentono il camion rombare verso il traghetto. Si ferma, avvia il motore e fa marcia indietro. I ganci con le carcasse rosse e rosa ondeggiano e cigolano sopra le loro teste. C’è uno stridore come di metallo, poi il camion resta fermo. Tendono le orecchie per captare un suono di voci, uno zampettare di cani, cercando di immaginare dove siano nel porto che hanno setacciato infinite volte con lo sguardo dall’altra parte della recinzione. L’adrenalina che lo aveva scaldato sta diminuendo, e Aryan comincia a sentire il freddo del metallo filtrare attraverso i vestiti. Si avvolge nella coperta, stretta come una fasciatura. Comincia a tremare in modo incontrollabile.


La mente comincia a correre. Balza avanti e indietro, guizzando tra paura e anticipazione, stanando momenti dai luoghi dove aveva immaginato un futuro. Ripensa a Bashir e Ali, di come era solito andare in giro con i fratelli dei quali ha un ricordo ormai vago. Gli sembra assurdo che non stiano aspettando il loro ritorno in Afghanistan, che Bashir e probabilmente anche Ali non siano piÚ in vita. Si spinge ancora piÚ indietro nel tempo. Allontana quel terribile momento con suo cugino sulla riva del lago, prima che arrivassero i soldati, e pensa invece alle partite a scacchi con Baba nel bazar, al modo in cui faceva funzionare il televisore con una batteria per auto e ai cavi con i morsetti simili a fauci di coccodrillo. Poi riaffiora l’immagine del suo corpo martoriato, raccolto tra le mele sparse, il suono straziante del pianto di sua madre quando avevano sepolto i suoi resti al crepuscolo. Aryan si costringe a pensare alla sua casa, al giorno in cui sua madre aveva servito i chicchi di melagrana, alla sensazione del morbido piumaggio bianco dei piccioni e al grattare delle loro zampe antidiluviane sul tetto, alle afose notti d’estate sotto


le stelle. Ricorda la casa in Iran dove lui, Kabir e la madre vivevano insieme a Zohra e a Masood, e l’autobus che li aveva riportati in Afghanistan, e l’ultima volta che aveva visto Madar, l’ultima immagine fugace delle sue scarpe pratiche. La sua scelta fatale di arrivare proprio in quel giorno e in quel momento, quando l’auto bomba era esplosa. Tutti eventi innescati da quella decisione. Torna con il pensiero alla sua fuga insieme a Kabir, al lungo viaggio di ritorno in Iran, agli ultimi momenti nella casa dei loro cugini, ai trafficanti curdi sulle montagne, temibili quanto i soldati lungo il confine. E poi Istanbul, il ronzio meccanico delle macchine da cucire e l’odore della polvere di cotone e il giorno in cui si era cucito la mano. Ricorda la notte che avevano attraversato il fiume con Hamid, e la cucina della donna anziana alla fattoria, i cuccioli che imparavano a scavare buche, e il viso di Kabir nella luce del cruscotto quando l’autista del camion lo aveva riportato alla fattoria. Si domanda cosa abbia fatto Salomone del denaro per i biglietti che non gli aveva mai consegnato a Genova, e come se la sia cavata la signora con la


carrozzina dopo che Kabir le aveva rubato la borsetta a Roma. Ricorda le mani della donna che gli tagliava i capelli. Pensa alla ragazza sul treno, alle sue palpebre iridescenti nel riflesso del vetro. Gli americani di origine iraniana saranno tornati in California, ormai. Era felice il giorno che li hanno portati a comprare i vestiti nuovi. Comincia a fare freddo, dice a Kabir, ma il fratello è perso nel suo mondo. A poco a poco i pensieri di Aryan si fanno pesanti. Ci vuole tutta la sua energia per concentrarsi e non soccombere alla temperatura, per serrare la mandibola e fermare il battito incessante dei denti. Si copre il naso con il pullover per restituire al corpo il calore del suo respiro. È stanco, tanto stanco. È così faticoso mantenersi caldi. Con gli occhi della mente, Aryan vede ancora i piccioni. Volano in cerchio sopra la città, le piume bianche che brillano sullo sfondo scuro delle montagne, contro il fumo dei camini, contro i colori pastello del bucato appeso ai fili. Discendono in lenti cerchi, sempre più bassi, finché sente il vento delle loro ali sfiorargli il viso, e poi le piume stesse.


Non riesce a vedere suo nonno né a sentirne la voce, ma sa che è da qualche parte, lì vicino, mentre le piume gli carezzano le guance e i piccoli cuori degli uccelli pulsano caldi vicino alla sua pelle. Non ha più paura dei loro artigli o del frullare delle ali. Continuano a calare, così tanti da oscurare il cielo e le case e il vento. Non ci sono posti su cui appollaiarsi, così si posano sulle sue braccia, sul suo corpo e sul suo viso, leggeri, senza graffiarlo. Sente il profumo del loro piumaggio, un misto di polvere e insetti e granaglie e vento di montagna, mentre lo scaldano come un copriletto, opprimendolo, incombendo sui suoi occhi e la bocca e il naso, soffocandolo con la loro morbidezza e consumando tutta l’aria. Io e Hamid siamo stati gli unici a uscirne vivi. Non so quanto tempo abbiamo aspettato, alla fine. Persino Hamid aveva perso conoscenza quando hanno aperto il camion. A salvarci, credo, è stato il fatto che io e lui eravamo seduti vicino agli sportelli; un sottile filo d’aria sarà riuscito a filtrare all’interno e a trovare la strada fino ai nostri nasi e dentro i nostri polmoni, mantenendo vivo il nostro


lento, debole respiro senza che ce ne rendessimo conto. La prima cosa che ricordo dell’Inghilterra è stato il tanfo del mercato – foglie di cavolo marce e carne bagnata con un tubo di gomma, come il pavimento di una foresta, come un campo concimato – che invadeva il gelido guscio di metallo. Un uomo in tuta da lavoro era apparso nel vano degli sportelli aperti. La tuta era blu, lo stesso colore del divano sul quale sedeva la regina nella foto con i cani, autorizzati a entrare a palazzo. Ci trovavamo in una specie di area di carico. «Oh Cristo», stava dicendo l’uomo. Poi, a voce sempre più alta: «Oh Cristo, cosa c’è qui? Oh Gesù Cristo, sono lividi. Chiama qualcuno, chiama un’ambulanza, Gesù Cristo, fa’ come ti dico, chiama il 999, non stare lì a discutere. Fila!». Hamid si stava muovendo, ma Aryan mi era crollato addosso ed era freddo come il ghiaccio. Non era stata la temperatura, ci hanno detto dopo, ma la mancanza di ossigeno. L’ho spinto da parte e mi sono alzato in ginocchio accanto a lui – sono quasi caduto sotto quelle carcasse appese – e poi ho cominciato a schiaffeggiargli il viso.


AryanAryanAryan. Hamid stava riprendendo i sensi all’aria fresca. Anche lui si è tirato su come sbalordito, frastornato, e all’inizio non riusciva a parlare in modo coerente. Kabir, continuava a dire, Kabir Kabir dobbiamo andare corri. Io stavo cercando di svegliare Aryan. Aveva le labbra blu e gli occhi chiusi, e io non riuscivo a farglieli aprire. AryanAryanAryan. Hamid stava gridando adesso Kabir dobbiamo correre, e si è alzato tremando e ondeggiando ed è saltato giù dal camion sulle gambe molli e ha cercato di trascinarmi con lui. Ma io avevo Aryan sulle ginocchia io volevo svegliarlo io dovevo svegliarlo perché altrimenti non avrebbe capito dov’era. E Hamid mi ha tirato per un braccio e si è messo a correre e io l’ho visto correre e poi è tornato indietro è tornato indietro di corsa Kabir Kabir ha detto dobbiamo andare devi correre e poi si è allontanato da me in un ampio cerchio e poi è tornato da me con il viso rigato di lacrime e poi finalmente si è messo a correre. Aryan non si svegliava. Quando l’ambulanza è


arrivata in un gemito di sirene come se ci fosse stata una grossa esplosione hanno messo una maschera di plastica sulla sua faccia e pompato aria dentro di lui da grandi taniche grigie e gli hanno battuto sul petto e mandato tutti via ma io non volevo lasciarlo continuavo a chiamarlo AryanAryanAryan per svegliarlo Aryan siamo qui AryanAryan KabulTeheranIstanbulAteneRomaParigiLondraAryan ce l’abbiamo fatta ma non reagiva non si muoveva è rimasto disteso lì pallido e livido sotto le apparecchiature e le luci lampeggianti che giravano. Poi l’hanno messo dentro l’ambulanza ma io non volevo lasciarlo andare gridavo e gridavo e mi sono aggrappato a lui con tutte e due le mani finché mi hanno lasciato stare vicino a lui e siamo partiti con le sirene che suonavano a più non posso lungo le strade inglesi. Una signora dell’ospedale ha portato il cellulare e il portafoglio e il taccuino di Aryan nel posto dove stavo insieme a ragazzi di tutte le nazioni compresa l’Inghilterra. Sul taccuino c’erano i disegni che aveva fatto Rahim del parco di Parigi e i calcoli di Aryan per il costo del viaggio e gli schizzi che aveva


fatto di me con i cuccioli in Grecia, e le linee dove aveva contato i giorni, e gli strani volti nella moschea d’oro a Istanbul, e i contadini curdi con cui siamo stati sulle montagne. C’erano anche versi di poesie, e un disegno che non mi aveva mai fatto vedere di una ragazza su un treno. Ho chiamato Zohra a Teheran e lei si è ammutolita e ha pianto al telefono finché è finito il credito. Ho dovuto aspettare finché ci hanno dato altre monete e allora ho chiamato il nipote del sarto. Ha detto che non poteva venire a prendermi perché non era legale. Ma almeno lui sapeva dov’ero. Così sono rimasto nella casa per ragazzi e sono andato a scuola con loro. All’inizio conoscevo solo le parole che mi aveva insegnato Aryan – ea-gle, shep-erd, snow – anche se non servivano molto a Londra. Ma ricordavo tutti i numeri fino a venti, e mi piaceva la geografia perché avevo visto tanti luoghi nei nostri viaggi, e mi piaceva imparare il significato dei simboli sulle mappe. Ho trovato una vecchia scacchiera dentro una credenza alla casa per ragazzi ma nessuno sapeva giocare. Aryan mi mancava tantissimo. A volte la notte


veniva a parlare con me. Mi ricordava i cuccioli e il canarino che non sapeva volare né cantare e i piccioni sul tetto in Afghanistan. Mi ha chiesto se avevo scelto un mese per il mio compleanno e mi ha detto di non dimenticare che ero un afghano, anche se non mi ricordavo molto cosa significava. Mi ha detto di farmi valere e di cominciare una nuova vita, che gli inglesi sono brava gente e rispettano i diritti umani, e di lavorare duro a scuola ora che ci ero finalmente arrivato perché tanti ragazzi che avevamo conosciuto non ne avrebbero mai avuto la possibilità. E ho potuto ascoltare la musica perché gli altri ragazzi mi hanno fatto vedere come farla suonare sul telefono di Aryan. Non ho ancora cominciato a suonare uno strumento, ma c’è un insegnante a scuola che dice che mi fa vedere un piffero che è chiamato flauto dolce. Quando saprò suonarlo bene, dovrò solo trovare qualche inglese che sta organizzando la sua festa di matrimonio. A volte ho degli incubi su quell’uomo in Grecia. Immagino che stia venendo a cercarmi per portarmi via sul suo camion. E a volte mi sveglio alle mie urla quando sogno cos’è successo a Baba e a Madar. L’unica cosa rimasta dentro il portafoglio di Aryan è


la fotografia della nostra famiglia prima che io nascessi. Così la tiro fuori e la guardo, e mi fa sentire triste ma anche tranquillo. E a volte, quando fa molto freddo, mi vengono i brividi perché mi ricordo come è morto Aryan, e allora cerco di controllarmi trattenendo il respiro ma non riesco a fermare le lacrime. Se le signore della mensa se ne accorgono, mi portano una tazza di tè per scaldarmi. E io mi esercito a contare, perché è vero quello che ha detto Aryan, che non puoi contare ed essere triste o aver paura allo stesso tempo. Dopo circa un anno che ero arrivato qui, Hamid è riuscito a scoprire dov’ero. Una sera, per sbaglio, ha chiamato sul cellulare di Aryan, perché aveva ancora il numero di Aryan registrato sul suo, e quando ho risposto non riusciva a credere che fossi io. Gli ho detto dove vivevo e lui è venuto a trovarmi un sabato mattina prima di cominciare a lavorare. Aveva trovato un posto di lavapiatti in un ristorante e stava guadagnando un po’ di soldi ma le ore erano faticose e non gli piaceva come si inzuppava i vestiti e come le mani diventavano grinzose dentro i guanti e di come puzzava fino alla fine della serata. Lo facevano dormire in un posto sul retro e non aveva


la doccia ma almeno poteva usare il lavandino nelle toilette. Sperava di trasferirsi da qualche altra parte, magari a servire ai tavoli dove a volte i clienti lasciavano la mancia. Non aveva provato più ad andare a scuola perché a casa c’erano troppi problemi, e adesso doveva mandare del denaro per mantenere sua sorella. Ma era sempre preoccupato perché non aveva i documenti, e ha detto che se la polizia lo arrestava l’avrebbe rispedito indietro. L’inconveniente del non andare a scuola era che non avrebbe mai studiato astronomia. Ma ha detto che osservava sempre le stelle anche se di notte c’era tanta luce sopra la città, e gli dava un senso di serenità immaginare tempi lontani, quando la luce di una stella aveva cominciato il suo viaggio verso la Terra.


Ringraziamenti Un grazie di cuore a Barbara Trapido, Alexandra Pringle, David Miller, Sarah-Jane Forder, Polly Clark, Mark Harrison, Ann Brothers, Caroline McLeod, Janet Chimonyo, John Follain, Rita Cristofari, Paul Myers, William Spindler, Matthew Saltmarsh, Sylvain Piron, John Paul Rofé e a tutti della Bloomsbury. I miei articoli per l’«International Herald Tribune» mi hanno fatto conoscere alcune delle località attraversate da Aryan e Kabir; sono estremamente grata al compianto David Rampe, e a Susan Meiselas della Magnum, per il loro appoggio e il loro incoraggiamento. Simone Troller di Human Rights Watch ha generosamente condiviso le sue opinioni circa la situazione dei bambini afghani non accompagnati e altri minori separati dalle proprie famiglie che attraversano l’Europa, mentre JeanMichel Centres e Mahvash Grisoni hanno ampliato la mia conoscenza e comprensione delle circostanze quotidiane nelle vite di questi bambini. A tutti e tre i miei più sentiti ringraziamenti. Mi sono anche


ispirata ai luoghi menzionati da Wali Mohammadi nel mirabile resoconto della sua odissea nel descrivere quelli di Aryan e Kabir. A Nadjib Sirat, che mi ha illuminato su tanti aspetti della vita afghana, un grazie di cuore. Soprattutto, sono in debito con i numerosi giovani afghani che, in modo coraggioso o insistente, in modo schivo o graduale, mi hanno messo a parte delle loro esperienze. In memoria di mio padre, questa storia è per loro.


[1] Tipico copricapo afghano e nord-pakistano in lana, realizzato in vari colori. [2] In italiano nel testo. [3] In italiano nel testo. [4] In italiano nel testo.


Indice Cover Collana Colophon Frontespizio Dedica I fratelli di Kabul Ringraziamenti


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