22 LA LETTURA CORRIERE DELLA SERA
DOMENICA 16 MARZO 2014
Percorsi
Controcopertina
Il patrimonio italiano
La cattedrale fatta costruire da Ruggero II esprime l’intreccio di culture tipico della Sicilia, ma anche la volontà del monarca di affermare il primato sul Papa e sulla Chiesa
Il re delle tessere è normanno dal nostro inviato a Cefalù (Palermo) CARLO VULPIO
Il duomo e i mosaici di Cefalù celebrano un potere che si sottometteva solo a Dio
C’
è un dettaglio, nella meravigliosa cattedrale di Cefalù, che, come tutti i veri dettagli, non solo conta ma fa la differenza. Per l’arte, per la storia, per la politica. Questo dettaglio è il trono del re. Trono che il primo re di Sicilia, Ruggero II, cambiando le regole fino a quel momento condivise, volle spostare dal lato sud al lato nord della basilica. Le consuetudini, anche quelle dei molto pragmatici normanni dei quali Ruggero II era uno dei rampolli più riusciti, volevano che sul lato nord all’ingresso del coro, il lato più prestigioso, stesse il trono del vescovo. Ma Ruggero II, che aveva fatto costruire la cattedrale, decise che su quel lato doveva starci lui, non solo perché era il re, ma perché a lui spettava la giurisdizione sulla Chiesa per la nomina dei vescovi. Non è che tutt’a un tratto Ruggero II si fosse montato la testa. È che non aveva mai dimenticato chi era. Lui era figlio di Ruggero I, suo zio il temuto Roberto il Guiscardo (l’Astuto) e suo nonno Tancredi d’Altavilla, cioè i più efficaci costruttori di quella monarchia normanna che era nata non da bolle, decreti e papiri nascosti, ma dalle imprese militari, per lo più mercenarie, di una élite di spavaldi soldati di ventura di origine norvege-
Qui sopra: un particolare del chiostro del duomo di Cefalù. In alto: il Cristo Pantocratore e, sotto, la facciata della cattedrale e il cratere a calice con scena del venditore di tonno del IV secolo a. C. Foto grande: un particolare dei mosaici del presbiterio. In basso a destra: un aquila-leggio del XII secolo (servizio fotografico di TONY VECE)
se che avrebbero cambiato la storia della Sicilia e dell’Italia meridionale. Ruggero I e suo fratello Roberto il Guiscardo aprirono la strada, sgombrandola dai bizantini (l’ultima roccaforte in Italia, Bari, capitolò nel 1071) e dagli arabi (Palermo, capitale dell’emirato più solido, si consegnò nel 1072). Ma furono duchi di Puglia, Calabria e Sicilia. Mai re. Ruggero II invece venne incoronato re il 25 dicembre 1130, a Palermo, dall’antipapa Anacleto II, che il normanno appoggiava contro il Papa legittimo Innocenzo II. Nemmeno la corona reale però sarebbe stata sufficiente a far scegliere a Ruggero II quel benedetto lato nord per incardinare il proprio trono, se una trentina di anni prima, nel 1098, Papa Urbano II, in occasione della prima crociata, non avesse concesso a suo padre Ruggero I il «legato apostolico». Il che significava attribuire a Ruggero I una funzione di quasi-papa, dal momento che poteva raccogliere le entrate della Chiesa, giudicare le questioni ecclesiastiche in Sicilia e soprattutto scegliere liberamente i vescovi. Al papato questo stava bene, poiché i normanni erano l’unico braccio armato sul quale potesse contare in funzione antimusulmana (arabi) e antiortodossa (bizantini), ma non andò più bene nel momento in cui Ruggero II reclamò per sé, come ereditata, la funzione di legato apostolico del pa-
dre. Su questo punto, la Chiesa prontamente eccepì che quella funzione era da intendersi come concessa alla persona di Ruggero I, non al suo ruolo di signore della Sicilia, e quindi non poteva trasmettersi per via ereditaria. «La controversia si trascinò a lungo e, a distanza di un secolo, sotto Federico II di Svevia (nipote di Ruggero II, ndr), avrebbe avuto conseguenze drammatiche, sfociando nel più violento di tutti i conflitti tra potere secolare e spirituale», scrive David Abulafia in Federico II. Un imperatore medievale (Einaudi).
Intanto, Ruggero II non perse un minuto nel far tradurre in arte la condizione di re che rivestiva e la convinzione di quasi-papa a cui riteneva, non senza fondamento, di aver diritto. E spinto anche da «quell’amalgama di invidia e ammirazione che Bisanzio suscitava nei normanni dell’Italia meridionale» (ancora Abulafia), non esitò a sfoggiare mitra, tunica, dalmatica e sandali rossi, cioè i segni del potere bizantino, ma anche di quello papale. Di più. Nella chiesa di Santa Maria dell’Ammiraglio, più nota come la Martorana, a Palermo, un prezioso mosaico ritrae Ruggero II incoronato direttamente da Cristo. Mentre a Cefalù, oltre alla posizione del trono in duomo, di
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Greche di Alice Patrioli
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Il silenzio del vero vincitore Leggere Pierluigi Cappello che scrive di Omero è un lieve volo della mente: seguiamolo, in una giornata di pioggia, fino alla piana di Troia, dove «l’incantatore greco» l’ha condotto. Lì, tra polvere e terra, possiamo vedere «la testa
bruna d’Ettore» e sentire «ma prima che Achille in alto levasse/ via nel cielo/ asta di frassino e urlo di vittoria,/ salire dal corpo del vinto/ il silenzio del vincitore vero» (da Una lettura in Azzurro elementare, Rizzoli, pp. 244, € 10).
SSS Una copertina un artista
Il corpo nudo di New York
cui abbiamo detto, Ruggero II recluta le migliori maestranze in circolazione — greci, ebrei, arabi — per la realizzazione dei mosaici della cattedrale e ingaggia artisti della rinomata scuola romanica pugliese per le finissime decorazioni antropomorfe dei capitelli del chiostro del monastero agostiniano, a cui si accede da una porta della navata sinistra del duomo. L’ideale di assolutismo monarchico di Ruggero II, che vedeva il re come rappresentante di Dio in terra, tocca i suoi vertici. Solo suo nipote Federico II di Svevia lo eguaglierà in questo. Ma adesso è Ruggero II il sovrano che porta il Regno di Sicilia degli Altavilla alla sua massima espansione: l’intera Italia meridionale, più l’isola di Corfù e un «Regno normanno d’Africa» che comprende la Tunisia e Tripoli. È lui che il mondo deve celebrare. Sceglie Cefalù, la Kephaloidion greca (un promontorio «a forma di testa»), poi Cephaloedium romana e infine Gaflud araba, e da qui decide di dare avvio alla «rifondazione ruggeriana», come felicemente la definisce Antonio Franco nel suo Le radici e le pietre. Studi su Cefalù antica (Misuraca editore). Ecco quindi il duomo. Il trono del re sul lato nord. L’idea di collocare due sarcofaghi di porfido per conservare le proprie spoglie (che però sono nel duomo di Palermo, accanto a quelle del nipote Federico II), facendo così del tempio il proprio mausoleo personale. E infine i mosaici. Seicentocinquanta metri quadrati di stupendi mosaici. Non entreremo nella insensata disputa tra i mosaici di Cefalù e quelli di Monreale. Tra chi considera i primi l’espressione «più classica» e «più alta» dell’arte bizantina e chi invece giudica i secondi più belli e più significativi. Diremo però che c’è un «potere assorbente» di Monreale rispetto a Cefalù — forse dovuto a una migliore pubblicità o all’assenza di ostacoli burocratici superabili con «offerte spontanee» — che non è giustificato da nulla. Al contrario, i mosaici di Cefalù, terminati nel 1148, com’è scritto nell’epigrafe sottostante, sono il primo esempio di immagine monumentale in una Sicilia che fino a quel momento, in virtù della dominazione araba, aveva vietato qualunque rappresentazione antropomorfa. Non solo. Il Cristo Pantocratore, la Vergi-
I conquistatori
L’epopea leggendaria dei guerrieri biondi
Poco dopo l’anno Mille cominciarono ad affluire nell’Italia meridionale gruppi di normanni, popolazione di origine scandinava che si era insediata stabilmente in Francia, nella regione tuttora denominata Normandia, durante il X secolo. All’inizio furono ingaggiati come mercenari, ma poi presero ad operare in proprio e fondarono in Campania la città di Aversa. Più avanti la famiglia normanna degli Altavilla estese man mano il proprio dominio in tutto il Sud, sconfiggendo i longobardi, i bizantini e il papa Leone IX. Nel 1061 Ruggero I d’Altavilla sbarcò in Sicilia, allora dominata dagli arabi, e dopo un decennio di dure lotte conquistò Palermo nel 1072. Suo figlio Ruggero II fu incoronato re di Sicilia nel 1130: la sua vita e le sue imprese sono state ricostruite dallo storico Hubert Houben nel libro Ruggero II di Sicilia. Un sovrano tra Oriente e Occidente (Laterza, 1999). Lo stesso Houben ha appena pubblicato l’opera di sintesi I normanni (Il Mulino, pp. 144, € 12).
ne, gli Arcangeli Uriele, Raffaele, Gabriele e Michele, i Dodici apostoli, i Santi e i Profeti, gli Angeli e i Serafini ritratti nella curva dell’abside, sulle pareti del presbiterio e sulla volta, sono mosaici particolari, unici, poiché si tratta di «mosaici dipinti», realizzati fondendo tessere e pittura. Lo scoprì nel 2001, durante i lavori di restauro della cattedrale, Maria Andaloro, docente di Storia dell’arte medievale all’università di Viterbo. «Mi sono accorta — dichiarò Andaloro — che le figure rappresentate sia nell’abside che nelle pareti erano ricoperte di pittura. Ero di fronte al primo esempio di comunione tra due tecniche ideologicamente distanti. L’uso della pittura, in questo tipo di opere, da un lato soddisfa un’esigenza puramente cromatica, per cui si cercano di ottenere dei colori che in natura non potremmo trovare, e dall’altro permette di intervenire all’interno del disegno strutturale. I mosaici di Cefalù da questo punto di vista sono un caso esemplare, non riscontrabile in nessun’altra opera». I mosaici sono maestosi, impressionanti, luminosi. E pieni di fiori. «Vi è un trionfo e una pioggia di fiori. Festoni, fasce, ghirlande, profili. Oltre a ori e argenti, smalti, paste vitree, ossidiane, agate, diaspri, madreperle, porfidi rossi e serpentini verdi», scrive, entusiasta, monsignor Crispino Valenziano nella sua Introduzione alla basilica cattedrale di Cefalù (Opera del Duomo edizioni). La conca dell’abside è riempita dall’enorme e bellissima figura del Cristo Pantocratore, che «parla» con le mani. Due dita della mano destra (indice e medio uniti) indicano la natura umana e divina di Cristo, le altre tre (anch’esse unite) il mistero della Trinità. La mano sinistra invece regge un Evangelario aperto, nel quale, in greco e in latino, si legge: «Io sono la luce del cosmo, chi segue me non camminerà nelle tenebre, ma avrà la luce della vita». Sotto il Cristo, la Vergine orante, la Madre di Dio, l’unica donna ritratta in tutta la decorazione musiva, che veste come una principessa e poggia su un cuscino di porpora gemmata che sembra una nuvola, mentre gli Arcangeli che sono accanto a lei le si rivolgono con atteggiamento devoto.
Nel 2015 finalmente la cattedrale di Cefalù e i suoi mosaici entreranno a far parte del patrimonio mondiale dell’umanità e ogni altra questione di primazia passerà in secondo piano, visto che nell’albo d’oro dell’Unesco, insieme con Cefalù, ci saranno anche Monreale e Palermo, e le tre città avranno tutto l’interesse a promuovere un «itinerario arabo-normanno» comune. Il cui vero nemico è nella secolare inadeguatezza delle infrastrutture (la ferrovia, i collegamenti con mezzi pubblici) proprio lungo il tragitto tra Palermo e Messina, quella prospera Via Valeria dei Romani al centro della quale si trova Cefalù, che grazie ai transiti commerciali non ha mai vissuto momenti di vera e propria depressione economica. Lo sa bene anche il neosindaco, Rosario Lapunzina, che dopo il protocollo Unesco ha firmato altri due documenti. Il primo è l’adesione di Cefalù — attraverso la fondazione russa Metropoli, nata per recuperare la cultura del millenario impero euroasiatico bizantino — all’associazione delle città russe e italiane «Eredi di Bisanzio». Il secondo riguarda il rischio di chiusura del museo «Mandralisca», che, insieme con la Rocca e il cosiddetto Tempio di Diana che lassù resiste, è una delle principali ricchezze di Cefalù. Il «Mandralisca», frutto della lungimiranza del barone Enrico Piraino di Mandralisca, meriterebbe un capitolo a parte. Qui ricorderemo soltanto il Ritratto d’uomo, uno dei capolavori di Antonello da Messina, «che ha un sorriso malefico, beffardo — ha scritto Vittorio Sgarbi — e sembra proprio la fototessera di un mafioso capace di ogni nequizia», e il Venditore di tonno, vaso greco della prima metà del IV secolo avanti Cristo, proveniente da Lipari. Il vaso raffigura una scena di compravendita di tonno tra due persone che sembrano due caricature e fece scrivere a Guido Piovene: «Vi è qualche cosa nella vita spicciola siciliana che è rimasta immutata per oltre due millenni». © RIPRODUZIONE RISERVATA
È il corpo di New York. Un corpo «nudo», dipinto con la verità dello sguardo di chi vive la sua energia, di chi ne conosce dolori, opportunità, cinismi, delusioni e successi. New York, simulacro di tante vite, ma solo evocate e proiettate in un orizzonte senza confini. Il sogno di New York è lì, nel cielo azzurro, terso, delimitato da linee orizzontali e verticali, quasi a definire in una griglia prospettica il bisogno di una disciplina, di un ordine necessario. Bernardo Siciliano (Roma, 1969) è uno dei pochi artisti delle nuove generazioni che difende il valore della pittura e infatti dà vita nel suo studio di Brooklyn (dal 1996 vive a New York) a opere in cui alterna paesaggi urbani a ritratti familiari o di modelle che ritrae con una potente e provocatoria sensualità. Immaginifico voyeur, Siciliano osserva e vive il destino della sua città con intensità. E sembra metterla a nudo come le sue donne. In un passo del libro Colazione da Tiffany, Truman Capote scrive: «Notai che la casella dell’appartamento numero due era contrassegnata da un bigliettino perlomeno strano. (…) Il biglietto diceva: Signorina Holiday Golightly, e sotto, in un angolo: in transito». Forse, anche Siciliano ci ricorda con i ritratti di una New York densa di umanità celate, di illusioni e grandi speranze, che siamo avvolti da un destino comune, lo stesso della nostra amata Holly: siamo semplicemente «in transito». (gianluigi colin)
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